Location via proxy:   [ UP ]  
[Report a bug]   [Manage cookies]                

Il Marchese di Montessoro

Sergio Pedemonte Le foglie ramate dall’estate di San Martino In un’epoca ormai remota un campo ospitava in alcune capanne poche famiglie fuggite da Libarna ormai semi diroccata e meta di uomini violenti alla ricerca di tesori sepolti. Alcimo Avito ricordava quando suo padre lo caricò su un carro e insieme ad altri risalì per una valle stretta sino ad arrivare in quel luogo. Costruirono delle abitazioni intrecciando rami a mo’ di graticcio modellandovi sopra dell’argilla bagnata come intonaco. Scavando lì vicino mentre giocava con i fratelli trovava resti di muri e addirittura pezzi di ferro arrugginiti. A volte aveva il compito di andare su un monte lì vicino con le mucche e le capre: si sedeva e guardava il panorama con dei monti bianchi che chiudevano l’orizzonte da dove arrivava il vento freddo. Notava anche, vicino al villaggio, un poco più in alto, l’area sacra dove il sacerdote invocava la benedizione del Sole. Questo ritmo di vita durò alcuni anni fino a quando il pascolo diventò anche sorveglianza del territorio perché numerosi episodi di ruberie erano avvenuti in località vicine. Oltre alle riserve alimentari, quei gruppi di predoni ammazzavano facilmente se non trovavano qualcosa di prezioso e finivano per incendiare l’abitato. Fu così che una sera d’autunno mentre scendeva dall’alpeggio e suo padre arava con difficoltà un campo, vide un gruppo di uomini arrivare dal basso ormai a poca distanza dal villaggio. Iniziò a gridare correndo, ansimando, accorgendosi che non era sufficiente. Quindi si fermò e riprese con più fiato l’allarme. Suo padre non lo sentiva e venne assalito prima ancora di accorgersi del pericolo mentre le donne fuggivano e gli uomini cercavano di scappare con qualcosa di utile se non prezioso. Tutto durò poco tempo e le fiamme si sprigionarono velocemente. Lui continuò a gridare e piangere, piangere e gridare fino allo sfinimento, con la mente sconvolta e davanti agli occhi la figura di suo padre trafitto da una lancia. Nei giorni e nelle notti vagava senza meta e ripeteva sovente il grido d’allarme come fosse ancora possibile salvare la sua famiglia. Visse di elemosina e stenti scendendo o salendo valli e monti, gridando quasi ogni sera, perdendo sempre di più la capacità di vivere normalmente. Girò senza meta per anni finché, senza accorgersene, arrivò al punto di partenza: un uomo spronava il bue a tirare l’aratro e un fumo usciva dal tetto di una capanna come invitasse tutti a una sera intorno al focolare. Improvvisamente il cuore gli veniva scosso da battiti sempre più forti e un grido fievole, quasi un bisbiglio, gli uscì dalla bocca, l’ultimo suo allarme. Un vento debole come la sua invocazione portò alcune foglie ramate dall’estate di San Martino a posarsi sul suo corpo ormai inerte. Da quell’autunno ad ogni aratura tutti tendevano l’orecchio per riuscire a sentire quella voce, finché un aruspice capì che ciò si ripeteva solo in caso di estremo pericolo. *** Il marchese Nicola Spinola nel 1577 decise di visitare le terre che possedeva a Brundio che di lì a poco si chiamerà Montessoro. L’autunno era freddo e il nobile nei tre giorni passati nel palazzo di famiglia, che gli abitanti chiamavano casté, rimpianse quel viaggio e il clima della sua villa a Cornigliano. Anche se non palesemente egli rimuginava quanto raccontatogli dal Commissario: in certe notti sembrava che dal campo lì vicino salissero delle voci dopo ogni aratura dove sempre affioravano pezzi di mattoni e coppi insieme a della ceramica ben diversa da quella in uso. Ogni volta i contadini facevano scongiuri e pregavano il Parroco di benedire il luogo ma tutto era invano, il flebile suono giungeva al castello. Nessuno sapeva o ricordava da quanti anni, o secoli, ciò succedeva però la leggenda diceva che un’anima benevola segnalava in quel modo ai suoi discendenti che c’era un pericolo in arrivo. Non esistevano periodi semplicemente buoni per i sudditi dello Spinola perché tra carestia, fame, freddo, qualche rapina o saccheggio la vita era una continua lotta per non morire e non c’era soddisfazione a sapere che era così anche a Rocca de’ Piè, Montecanne o Marmassana, perché persistevano sempre carestia, fame, freddo, qualche rapina o saccheggio. Anche Nicola Spinola quella sera, prima di cena, sostò davanti alla porta del palazzo, con indifferenza pur senza riuscire a nascondere la sua curiosità al commissario. Nella luce sempre più fioca improvvisamente un silenzio profondo avvolse Brundio, ognuno si fermò a guardare verso quel campo perché un fievole lamento sembrava predire un pericolo imminente. Il marchese mormorò qualcosa di incomprensibile e celiò con il suo collaboratore. Durante la cena derise quelli che considerava creduloni, convinti di aver sentito distintamente parole di avvertimento e ridendo fece portare dalla cantina le migliori bottiglie di vino. Nessuno condivideva quel suo modo di 1 fare, quello schernire una leggenda a cui i suoi sudditi credevano. Alla fine, irritato andò nella sua stanza e si addormentò quasi subito rapito dal sonno di quanto aveva bevuto. Tornato a Genova dimenticò presto quell’esperienza ma per scrupolo fece celebrare alcune messe per quell’anima inquieta. Fu l’anno successivo, quando la peste decimò la città, che sul letto di morte e sofferenza, tra un guizzo e l’altro di lucidità, risentì quel lamento che aveva creduto uno scherzo della natura, mentre alcune foglie ramate dall’estate di San Martino cadendo ondeggiarono lievemente davanti alla sua finestra. 2