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BIBLIOTHECA SARDA N. 53 Massimo Pallottino LA SARDEGNA NURAGICA a cura di Giovanni Lilliu In copertina: Mauro Manca, Guerriero nuragico con due scudi, 1955 INDICE 7 Prefazione 61 Nota biografica 63 Nota bibliografica Titolo originale: La Sardegna nuragica, Roma, Edizioni del Gremio, 1950. LA SARDEGNA NURAGICA 69 Premessa Pallottino, Massimo La Sardegna nuragica / Massimo Pallottino ; a cura di Giovanni Lilliu. - Nuoro : Ilisso, c2000. 189 p. : ill. ; 18 cm. - (Bibliotheca sarda ; 53) 1. Civiltà nuragica I. Lilliu, Giovanni 937.9 73 L’ambiente geografico 77 Tradizioni letterarie e dati archeologici 91 Gli abitatori della Sardegna primitiva: razza, lingua, popoli Scheda catalografica: Cooperativa per i Servizi Bibliotecari, Nuoro 103 Sviluppo culturale e storico 135 Organizzazione, religione, costumi © Copyright 2000 by ILISSO EDIZIONI - Nuoro ISBN 88-87825-10-6 153 Architettura e gusto figurativo 177 Bibliografia PREFAZIONE È l’anno di grazia, anzi di disgrazia (infuria il conflitto mondiale) 1940. Il 20 novembre il Ministero dell’Educazione Nazionale comunica al Rettore dell’Ateneo cagliaritano la nomina di Massimo Pallottino a professore straordinario di Archeologia e Storia dell’Arte greco-romana, a far tempo dal primo dicembre 1940. Il professore, trentenne (è nato a Roma il 9 novembre del 1909), scrive, a sua volta, al Rettore «per esprimervi il mio piacere vivissimo di entrare a far parte di codesto glorioso Ateneo. Sarebbe per me fonte di orgoglio il poter contribuire efficacemente all’incremento degli studi archeologici in Sardegna, tanto più che alle antichità sarde mi lega anche in certo senso la mia particolare preparazione archeologica». Il 13 dicembre fa seguire altra lettera. Vi dice: «Considero non soltanto mio obbligo, ma anche mio piacere vivissimo l’iniziare al più presto il corso, poiché intendo dedicare all’Università di Cagliari e alla Sardegna, alla quale mi legano anche la famiglia di mia moglie [Maria Manca dell’Asinara] e molte care amicizie, la mia attività didattica e scientifica con serietà, con impegno e con particolare entusiasmo». Egli viene a ricoprire la cattedra vacante, a causa della sospensione dal servizio come professore straordinario di Archeologia e Storia dell’Arte, di Doro Levi, a datare dal 16 ottobre 1938, in conformità degli articoli 3 e 6 del Regio Decreto 5 settembre 1938 (n. 1390), della Ministeriale in data 14 ottobre 1938, n. 65/15 e della Rettorale 19 ottobre 1938 (n. 3833) con oggetto “Sospensione personale razza ebraica”. I titoli e le opere presentati al concorso per cattedra e con i quali si appresta ad iniziare l’attività didattica e scientifica nella Facoltà di Lettere cagliaritana, sono conformi 7 Prefazione 1. Studi Etruschi, III, 1929, pp. 532-534. 2. “Ricordo di Massimo Pallottino nel triennio della scomparsa”, in Rend. Mor. Acc. Lincei, s. 9, v. 6, 1995, p. 11. d’insegnamento nell’anno accademico 1941-42: lineamenti generali di storia dell’arte antica, dell’arte romana del I-II secolo d.C. e del santuario di Olimpia. In questo anno accademico Pallottino tiene per incarico il corso di Paletnologia, con tema: preistoria europea e mediterranea e dei monumenti paleosardi (si noti l’ultimo titolo, significativo come premessa all’interesse per il mondo preistorico, tradottosi nel completo quadro storico disegnato nel libro La Sardegna nuragica). Nel 1941-42 a Pallottino viene assegnata dal Ministero dell’Educazione Nazionale (Direzione Antichità e Belle Arti) l’incarico di reggenza delle Antichità e Opere d’Arte della Sardegna; incarico rimasto vacante a causa dell’esilio di Levi. Come per l’università, egli si propone di svolgere un piano, compatibile con lo stato di guerra, di ricerche archeologiche. Intento a cui lo muoveva la sua naturale inclinazione a esplorare il campo delle antichità paleosarde, non senza qualche affinità con le antiche etrusche e italiche, vasta area d’indagine da lui già sperimentata e privilegiata. Ma quanto arduo e scabro il lavoro, complicato da tanti intoppi e impedimenti! I materiali archeologici nei rifugi, i musei chiusi, scarso il personale, risibili i finanziamenti. Soprattutto difficili i sopralluoghi e le ricerche sul terreno, condizionate a causa delle limitazioni d’accesso alle zone d’interesse militare, numerose, quasi totali, nell’isola. Vana anche una lettera al Rettore in data 7 marzo 1941, con la quale, «desiderando compiere alcuni sopralluoghi scientifici in Sardegna per ragioni inerenti ai suoi studi», lo pregava di «facilitargli tale compito attraverso l’alto suo interessamento presso l’autorità militare con un documento atto ad autorizzare i necessari spostamenti o renderli più agevoli». Tuttavia, nonostante ogni contrarietà, nel solo anno di amministrazione dei beni archeologici nell’unica Soprintendenza della Sardegna, agevolato dal contenuto spazio operativo e dall’esperienza di governo maturata nel Museo di Villa Giulia, Pallottino ottenne alcuni risultati concreti. 8 9 agli intenti d’impegno e di rigore dichiarati nelle lettere al Rettore. Già libero docente incaricato di Etruscologia e di Antichità italica nell’Ateneo romano. Novanta pubblicazioni concernenti ricerche e studi prevalentemente sull’etruscologia e, inoltre, sulle antichità italiche e romane. Del 1929, appena ventenne, il primo lavoro scientifico dal titolo “Saggio di commento a iscrizioni etrusche minori”.1 Del 1940 il volume Civiltà romana: arte figurativa e ornamentale, originale sintesi critica, sia storica che formale dell’arte romana, dal suo sorgere al periodo tardo-antico. Nel campo degli scavi archeologici, rilevanti quelli della necropoli di Cerveteri, nel 1939, e di grande momento, nello stesso anno, le scoperte a Veio, nel santuario di Portonaccio, dove vengono riportate in luce numerose iscrizioni etrusche su frammenti di vasi e la statua in terracotta di dea con bambino in braccio. Evidenze epigrafiche e artistiche per le quali veniva ancor più illuminato il mondo etrusco. Nel settore della militanza di tutela dei musei, monumenti e scavi, in qualità di Ispettore e poi Direttore nel Museo romano di Villa Giulia nel settennio 1933-40. Prestato giuramento, come di necessità in quel tempo, il 13 gennaio del 1941, Pallottino entra nel vivo del suo magistrale insegnamento. «Docente» scrive il suo allievo Giovanni Colonna2 «aperto ai giovani, disponibile a dialogare, a coinvolgere nelle sue tante iniziative sempre di alto livello, attraverso le quali prolungava il suo magistero fuori dell’Università». Argomenti d’insegnamento nell’anno accademico 194041: l’arte romana nei suoi elementi preparatori negli sviluppi dell’età giulio-claudia, e l’architettura del primo secolo dell’impero; i grandi santuari ellenici: l’acropoli di Atene, l’Altis di Olimpia, il Santuario di Apollo a Delfi. Argomenti Prefazione Recuperò un gruppo di statuine marmoree, di tipo “cicladico”, di età neoeneolitica, da ipogeo in località PortoferroAlghero, ceramiche dei tempi del bronzo venute in luce in una grotta a Punta Niedda-Portoscuso, un bel gruzzolo di monete imperiali in regione Santa Barbara-Donori. Proseguì gli scavi nel tempio-teatro tardo repubblicano, di area centro-italica, del II a.C. a via Malta-Cagliari. Ma l’esplorazione fu concentrata nell’area archeologica urbana di Turris Libisonis, la città-perla di Roma nell’isola, che recenti dati epigrafici consentono di ritenere fondata, nel 40 a.C., dal legato di Ottaviano Marcus Lurius.3 In questa città, di diritto perfetto, fu messo in luce, in proprietà Virdis, un peristilio lastricato limitato da portico con colonne e pavimento a mosaici policromi e due ambienti di cui uno mosaicato: statue in marmo, ceramiche, oggetti d’argento e bronzo, monete imperiali, del primo decennio del IV secolo d.C. In proprietà Porqueddu fu sterrata una terma, con pavimento “a suspensurae” coperto da vasto organismo musivo, policromo, figurato, della prima metà del III e inizio del IV.4 È probabile che il Nostro si sia contentato di questi pochi scavi, egli che, a dire della sua allieva Maria Bonghi Jovino, si dichiarava contrario al proliferare degli scavi e, fatte le debite eccezioni, degli interventi sul campo, in quanto, come era solito affermare, «i relitti del passato assai meglio li conserva la madre terra». Piuttosto, giusto il suo intento, per naturale inclinazione, di impossessarsi della materia delle antichità sarde, nel non molto tempo a disposizione, Pallottino si sarà dedicato a raccogliere i dati forniti dagli autori del passato, relativi alle ricerche, agli interventi sul terreno, alle pubblicazioni sulla cultura materiale e le espressioni culturali, spirituali, psicologiche, ai costumi, alle stesse origini delle remote genti della Sardegna. E ciò nella prospettiva d’una sua personale elaborazione, realizzata, come poi 3. C. Cazzona, Studi Sardi, XXXI, 1999, p. 253 ss. 4. M. Pallottino, Studi Sardi, VII, 1947, pp. 227-232. 10 è avvenuto, in un lavoro d’insieme. Insomma, una sorta di griglia globale di tutte le cognizioni sino allora acquisite, per ragionarci su nella qualità fondamentale dell’archeologo, come storico, a suo dire. Parte di quei materiali necessari li poteva trovare soltanto nell’isola, attraverso il soggiorno che gli era concesso dal suo impegno universitario e dall’incarico soprintendenziale, vantaggi che si cumulavano e si integravano, attingendo a diverse fonti e godendo di plurime opportunità. Dalla lettura dei titoli nella bibliografia di La Sardegna nuragica, in numero di 70 (dei quali 10 di studiosi stranieri), si evince che la massima parte (l’87,17%), tolte forse le pubblicazioni dei dotti esterni (12,82%), dei dati e delle informazioni sulle situazioni e sulle vicende degli antichi sardi, è stata attinta nelle biblioteche locali. Più che le altre (la Biblioteca di Facoltà, la Universitaria), fu di sussidio la Biblioteca della Soprintendenza alle Antichità, sita nel palazzo delle Seziate, presso il Museo Archeologico. In questa, sin dalla costituzione, nel 1899, affluì il fondo librario, di competenza archeologica, del Museo di Antichità universitario (e, prima ancora, della Biblioteca del Reale Gabinetto), custodito nel palazzo Belgrano dell’Ateneo cagliaritano. Ma fu soprattutto nel trentennio (1903-33) del prestigioso governo sopraintendenziale di Antonio Taramelli, e quello successivo di Doro Levi, Raffaello Delogu e Gennaro Pesce, che il patrimonio librario, sia con opere generali di archeologia che, in maggior numero, di argomento archeologico sardo, preferibilmente nel settore della preistoria e della protostoria, ebbe un grande incremento, tale da rappresentare un efficace ausilio per gli studi. Di questa dotazione Pallottino fece largo e libero uso, agevolato dal fatto che, in qualità di reggente della Soprintendenza, aveva alloggio nei locali dell’ufficio. Così, lavorando alacremente e da perfezionista qual è, e sarà per tutta la sua vita scientifica, il Nostro comincia a realizzare il suo dichiarato impegno in favore degli studi 11 Prefazione archeologici in Sardegna e della stessa Sardegna. I risultati positivi raggiunti nell’attività svolta nei due scacchieri dell’università e della Soprintendenza, verranno anche a contribuire, nel personale, al termine del triennio accademico previsto nel novembre del 1943, al passaggio da professore straordinario a ordinario. Se ciò non fosse stato sufficiente (ma già lo era, e quanto!), arriverà l’uscita nel 1942, nelle edizioni Hoepli a Milano, del libro Etruscologia, un bestseller che ebbe ben sette edizioni italiane e traduzioni in francese, tedesco, spagnolo, inglese, portoghese, polacco e ungherese. In questa opera, con la quale si sono formati centinaia di etruscologi e archeologi, l’Autore raggiunge l’ideale dello studioso, riunendo la competenza dell’archeologo a quelle del linguista e dello storico. Etruscologia sarà il modello di La Sardegna nuragica. Tale è, dunque, il progetto di vita e di scienza di Pallottino nel soggiorno nell’isola. Sennonché volontà superiori e la nostalgia, ineludibile, incancellabile, degli studi primitivi, nativi, sul mondo etrusco-italico-romano e, se si può dire, con riferimento “patrio”, italiano, cambiano radicalmente la prospettiva. Con telegramma in data 23 novembre del 1942, il Ministero dell’Educazione Nazionale informa il Rettore dell’Ateneo cagliaritano su un provvedimento in corso, relativo all’incarico di Massimo Pallottino per particolari studi sull’Etruria, per il periodo di due anni accademici a decorrere dal 29 ottobre: in tale periodo viene esonerato dall’obbligo universitario. Nella stessa data Pallottino invia una lettera al Rettore, venata insieme di dolore e di conforto. Vi scrive: «Nel momento della grande sventura che ha colpito mia moglie, affetta da una gravissima malattia agli occhi, ho avuto il conforto di apprendere la notizia dell’incarico della redazione del Corpus Inscriptionum Etruscarum affidatomi dal Ministero: incarico che, pur allontanandomi per un certo periodo dall’insegnamento, mi permetterà di ritornare a miei prediletti studi etruscologici, restando, in questo per me grave momento, unito alla famiglia». Se questo provvedimento dall’alto pone Pallottino nella felice condizione che gli permette di realizzare quel mondo di vita sognato dall’inizio del suo cammino archeologico nel 1929, senza peraltro rinunciare all’affetto, non soltanto scientifico e culturale, alla Sardegna, tra non molto, col libro La Sardegna nuragica, d’altra parte procura ancora una volta un “vuoto” di insegnamento delle discipline di Archeologia e Paletnologia nella Facoltà di Lettere di Cagliari. Ciò appare in una lettera allarmata del Preside – il grande storico di Roma Bachisio Raimondo Motzo – al Rettore. Merita trascrivere la missiva, per dimostrare la precarietà e la debolezza strutturale, non soltanto a causa della guerra, della stessa Facoltà in quel momento. Scrive il prof. Motzo: «Con riferimento alla disposizione del Ministero dell’Educazione Nazionale, di nominare un supplente per le due materie di Archeologia e Paletnologia insegnate dal prof. Massimo Pallottino, a cui è stato conferito l’incarico di redigere parte del Corpus delle iscrizioni etrusche, vi comunico che la supplenza da me offerta alla prof. L. A. Stella è stata da lei declinata per motivi di salute e poi dalla prof. E. Malcovati è stata ugualmente declinata per ragioni personali. La Facoltà non ha quindi persona a cui affidare dette supplenze, né, per la mancanza di un Soprintendente alle Antichità, vi è modo di affidare ad altri, che sia competente, tale insegnamento». In attesa che abbia buon esito la ricerca d’un professore X che supplisca Pallottino, questi, in data 10 agosto 1943, comunica al Rettore di essere stato richiamato alle armi, assegnato all’VIII Reggimento Genio in Roma, col grado di Tenente. Nello stesso anno diventa professore ordinario. Nell’anno successivo, il Consiglio ristretto della Facoltà di Lettere (B. R. Motzo, Preside e L. A. Stella) gli rilascia una dichiarazione dicente che «durante il periodo di permanenza nell’Università di Cagliari, il Pallottino ha dato prova di solida preparazione, di buona conoscenza della materia e di diligenza, dedicando la sua cura al materiale 12 13 Prefazione illustrativo necessario per l’insegnamento». Infine, con sua nota del 14 febbraio 1946, il Ministero informa il Rettore dell’Ateneo cagliaritano che, con decreto del 12 dello stesso mese, il prof. Pallottino è trasferito alla cattedra di Etruscologia e Antichità italiche della Facoltà di Lettere e Filosofia della Regia Università di Roma, a far tempo dal 20 febbraio 1946. La ricerca del professore X, contro l’inatteso, è stata breve. Il primo giorno di febbraio del 1943, a chi scrive, ignaro e sorpreso, forse per l’ispirazione “romana”, veniva assegnato l’incarico di Paletnologia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Cagliari; seguiva, il primo novembre dello stesso anno, l’incarico di Archeologia e Storia dell’Arte greco-romana. Presentate: dieci pubblicazioni (dal 1939 al 1943) su argomenti di preistoria e protostoria sarda e otto (dal 1936 al 1943) su aspetti di archeologia punico-romana nell’isola, nel Bullettino di paletnologia italiana, in Notizie degli scavi di antichità, in Studi Sardi. Come si vede, parva res di un «giovane archeologo» (così mi titola Pallottino in La Sardegna nuragica). Un timido discepolo, benché minimo collega, di fronte a tanto Maestro che l’aveva preceduto. È utile chiedersi quando, come e con quali parametri metodologici e concettuali Pallottino ha concepito e poi realizzato il progetto “cagliaritano” di La Sardegna nuragica. Tra i quarantotto scritti pubblicati fra il 1943, anno della sua partenza da Cagliari, e il 1950, che vede edita La Sardegna nuragica, il più rilevante, per comune consenso degli studiosi, è il saggio Origine degli Etruschi.5 Scrive Giovanni Colonna6 che con questa opera l’Autore «consacra definitivamente la sua fama scientifica anche fuori d’Italia, grazie al ribaltamento della tradizionale impostazione del problema imperniato sul concetto della “formazione etnica” 5. Origine degli Etruschi, Roma, Tumminelli, 1947. 6. “Ricordo di Massimo Pallottino …” cit., p. 11. 14 anziché della “provenienza”». Ciò che è anche – afferma Pallottino7 – della storia di altre nazioni antiche e moderne. Il processo formativo delle nazioni non può aver luogo che nel proprio territorio, attraverso la fusione di gruppi di diversa origine e di diversa cultura. In questo solco, cioè tenendo conto non delle premesse ancestrali ma di un processo storico, si sono mossi, più o meno nello stesso tempo, F. Altheim (1947) e C. F. C. Hawkes (1959). Altro parametro concettuale da tenere in evidenza nelle opere di Pallottino è quello – che egli attualizza nei suoi studi preferiti, meritando il riconoscimento di fondatore della moderna etruscologia – di riunire le competenze separate dello storico del mondo antico, dell’archeologo classico, dell’epigrafista, del glottologo. Competenze che si palesano nell’attenzione al mondo paleosardo, del quale il Nostro disegna un quadro completo in La Sardegna nuragica: qui è anche applicato il concetto del popolo sardo che «si forma, non si origina». Ma, pur dotato di tante svariate cognizioni, Pallottino resta soprattutto uno storico, non solo perché ha trattato di fenomeni storici illuminati dall’archeologia, ma perché tra le sue mani, nel modo più naturale, anche il non storico si è fatto storia. In questa visione storicistica di cose e di uomini, egli si rivela molto vicino allo studioso francese d’alta scuola, suo fraterno amico, Jacques Heurgon, filologo, filosofo, epigrafista, archeologo, etruscologo, ma essenzialmente scrittore di res gestae, nel modo più agile e brillante. Storicista, razionalista, imbevuto di cultura europea e sentitamente italiano nello stesso tempo, è anche Ranuccio Bianchi Bandinelli, archeologo e grande storico dell’arte greco-romana. Ripreso servizio come professore ordinario a Cagliari, a far data dal primo novembre 1947 con permanenza sino al primo novembre 1950, affascinante docente d’alta scuola nella disciplina, restituisce lustro e 7. Etruscologia, Milano, Hoepli, 1963, p. 83. 15 Prefazione prestigio alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Ateneo. Egli ebbe a scrivere: «Considero la capacità di pensare storicamente la più importante conquista della civiltà europea e quella che più di ogni altra caratterizza e distingue tale civiltà (alla quale tuttora mi onoro di appartenere)». Per la materia archeologica, a suo giudizio, si doveva perseguire la via d’uno storicismo integrale, adunando tutte le componenti: cultura materiale, fattori di tempo e di luogo e quelli psicologici e spirituali, nonché quelli economici e, in senso storico, anche etnici. Nell’Università di Cagliari egli, nel marzo 1948-maggio 1949, concepiva ex novo e poi inviava per la pubblicazione la seconda edizione della sua Storicità dell’arte classica: un’opera fondamentale, destinata a durare. A logos del sapere e dell’amore del sapere – anche nell’archeologia – sta l’ideale umanistico. Maturato da tempo, Pallottino lo esplicita meglio nel 1968, nel grosso volume Che cosa è l’Archeologia?, opera di notevole valore storico, indispensabile come propedeutica agli studi archeologici. Si dice: l’archeologia concorre alla ricostruzione della storia antica non meno dei testi letterari. Non solo i cultori delle fonti storiografiche, ma anche gli archeologi hanno diritto ad essere chiamati “storici”, di là di ogni convenzione di discipline accademiche. Naturalmente, si tratta di archeologi che non si arrestino ai “coccetti”, sì da essere prevalentemente dei tecnici, pur ad alto livello: dei tecnici dell’archeologia. I veri archeologi cercano di capire gli uomini del passato che si riscopre, in una più vasta visione dell’uomo come creatore di manufatti, ma anche e soprattutto di civiltà, affinché l’archeologia, in ultima analisi, possa e debba contribuire validamente al definirsi di una nuova forma di umanesimo universale, proprio dell’“era della scienza”. Riportare alla luce il cammino percorso dall’umanità nel passato equivale a comprendere meglio la nostra realtà umana, nella sua essenza e nei suoi destini. Noi scaviamo sì “le cose” ma soprattutto “gli uomini”, sicché, afferma Pallottino parafrasando l’espressione dell’archeologo inglese sir R. E. Mortimer Wheeler, l’archeologia diventa scienza dell’attualità del passato e quindi non sterile, ma produttrice di idee e di valori umani e spirituali. Ancora una volta, in questa superiore aura di umanità, risponde Ranuccio Bianchi Bandinelli. Scrive: «La personalità dello storico si esplica non soltanto come erudito, ma anche come uomo e cittadino, che vive in un dato tempo e in una data società, e non può essere soltanto storico, e non cittadino e personalità morale». L’indagine storica così intesa, permeata dell’elemento più propriamente umano, costituisce «un principio vitale per aprire, a noi e agli altri, la comprensione del mondo; nel che risiede l’ufficio di intellettuale». E altrove: «A capo della ricerca e dell’ermeneutica degli “oggetti”, è necessario partire dall’uomo, dalla razionalità dell’uomo e ritornare all’uomo». L’enunciazione di queste premesse di metodo e di concetti, di idee-forza, di motivi-guida, presenti e affermati da Pallottino, e che hanno riscontro nel complesso di elementi storico-culturali del tempo, rende spedita la presentazione ed agevole la comprensione del complesso contenuto di La Sardegna nuragica. Si dice Sardegna nuragica, perché il clou, il fondo, è dato dalla superiore civiltà nuragica, ma si fanno emergere, nel percorso storico evolutivo, di necessità, i precedenti formativi delle più remote età, a cominciare dal neolitico. Né sono omessi, quando ritenuti opportuni, i confronti e i rapporti con altre culture e popoli, perché lo straordinario fenomeno protosardo acquisti il giusto significato se percepito in un più vasto ambiente. Avverto il lettore che il testo di La Sardegna nuragica riproduce quello originario delle Edizioni del Gremio, 1950, pubblicato in concomitanza con la “Mostra delle sculture nuragiche” allestita dalla Direzione Generale di Antichità e Belle Arti, a Roma, dopo il grande successo della prima edizione veneziana, nell’aprile del 1949. 16 17 Prefazione In più mi avvarrò di un altro saggio di Pallottino – qui non pubblicato – di due anni successivo, che arricchisce le conoscenze e riesamina per certi aspetti i problemi, specialmente quello delle relazioni tra la Sardegna e l’Iberia nell’antichità preromana. Il saggio è in lingua spagnola: El problema de las relaciones entre Cerdeña e [sic] Iberia en la antiguedad preromana.8 È vero quel che dice Pallottino nella “Premessa”, che, sino al suo tempo, è «mancato un tentativo di inquadramento organico e criticamente soddisfacente della Sardegna nello sviluppo della preistoria e protostoria mediterranea», donde la necessità di un suo apporto. Ma non si era di certo all’anno zero delle acquisizioni e dell’attività di ricerca e studio nella materia della ricchissima e perciò stesso complessa cultura paleosarda. Né Pallottino dimentica l’opera dei pionieri, taluni di elevato sapere, intelletto critico, professionalità, personalità e prestigio nel panorama dell’archeologia, della storia, della storia delle religioni, della linguistica, che hanno operato validamente nelle rispettive discipline riguardo le antichità sarde. Egli riconosce che alla metà dell’Ottocento l’archeologia sarda comincia a uscire dalle nebbie della fantasia prescientifica e dall’erudizione locale, avviandosi ad una più concreta ed ordinata cognizione dei dati e a una maggiore consapevolezza critica dei suoi problemi, per merito di Giovanni Spano, Ettore Pais, Filippo Nissardi, Giovanni Pinza, Giovanni Patroni e soprattutto Antonio Taramelli. Giovanni Spano si affaccia all’archeologia nel 1848, con la consapevolezza che le antiche memorie e i monumenti sono fonte e sicura guida allo storico per appoggiare le sue ragioni ed i suoi argomenti. Pur non ripudiando la vulgata teoria dell’apporto caldeo-cananeo nella storia umana primitiva della Sardegna, prefigura tre età o strati 8. “El problema de las relaciones entre Cerdeña e [sic] Iberia en la antigüedad prerromana”, in Ampurias, XIV, 1952, pp. 137-155. 18 per l’uomo sardo preistorico, fondati sul criterio dello spessore dei depositi archeologici e dei materiali in essi contenuti. È una ricostruzione piuttosto teorica, di base evoluzionista, tendente a rappresentare una sorta di archeologia ecologica nella quale il quadro di vita umana si combina con quello naturale e dei prodotti materiali della civiltà progressiva. Alla divisione in strati è fatta corrispondere una divisione in età, fondata sulla diversa materia dei manufatti: l’età litica, l’età di transizione, nella quale gli strumenti litici ancora presenti vengono via via sostituiti da armi e utensili in rame e bronzo, l’età del ferro, ultima età preistorica. Spano attiva scavi. Evidenzia i monumenti: i nuraghi, ritenuti case, con origine in Oriente, costruzioni in grandi pietre che si collocano nel fenomeno megalitico, di larga diffusione atlantico-mediterraneo-asiatica a partire dalla fine del III millennio a.C., e durano nell’età del bronzo e del ferro con strutture differenziate, semplici all’inizio e poi grandiose e spaziose, legate alla sequenza cronologica; le tombe dei giganti, connesse con i nuraghi, dei quali seguono l’evoluzione strutturale e la progressione temporale; i pozzi sacri, classe monumentale portata alla conoscenza per la prima volta; le grotticelle artificiali, attribuite alla prima età. Tra gli studiosi dell’800 eccelle Ettore Pais, che scende in campo con la fondamentale memoria “La Sardegna prima del dominio romano. Studi storici ed archeologici”.9 Egli al momento archeologico, ritenuto sussidiario della storia, associa l’indagine storica come «preparazione a uno studio metodico e comparativo dei monumenti». L’archeologia paleosarda ha come asse portante il nuraghe, considerato come “forma prototipica” di tutta l’architettura degli antichi abitanti dell’isola. In esso Pais riconosce un uso prevalentemente condizionato dallo stato politico e sociale, dal mutare dei bisogni e della dinamica del tempo. 9. Atti Acc. Lincei, Sc. Mor., Roma, VII, 1881. 19 Prefazione Il mito del libico Sardus, la presenza nella toponomastica antica nordafricana di radici nur/nor corrispondente a quella di nur-hag, sarebbero prove sufficienti a sostenere che i nuraghi sono opera di genti venute dalla Libia con la più antica immigrazione storica in Sardegna. I nessi filologici (nuraghe/Nora/Nura sardi e Nura-Minorca) e architettonici (nuraghe-talaiot) tra la Sardegna e le Baleari, più che come affinità nel segno iberico si spiegherebbero col comune originario denominatore libico. In tal modo Pais rimuove la tradizionale componente fenicia nell’architettura sarda. Introduce, dunque, una visione culturale occidentale contro la dogmatica biblica e la conseguente ideologia fenicio-cananea che aveva caratterizzato gli studi per la gran parte del secolo XIX. Una svolta, una sorta di rivoluzione laica nella ricerca delle antichità dell’isola. Altro importante contributo all’archeologia paleosarda è il saggio di Pais “Il ripostiglio di bronzi di Abini”.10 I materiali della stipe del santuario, in bronzo (armi, utensili, statuette), in piombo, ambra, pasta vitrea, sono da lui riferiti alla civiltà nuragica, identificata nella civiltà del bronzo che dura nella piena civiltà del ferro e rientra nei tempi storici. Se ne distinguono due fasi, nonostante si mostri uniforme in tutta la Sardegna: la più remota è quella dei bronzi non figurati; più recente è quella delle statuette, delle navicelle, delle ambre, delle perle vitree, anteriore di poco ai primi tempi della conquista cartaginese (VI secolo a.C.). Un progresso nelle acquisizioni culturali e nelle pratiche realizzazioni cominciato, di buon’ora, con l’evento e il contatto con le colonie fenicie nell’isola (sec. XII a.C.), e compiutosi nel chiudersi della prima età del ferro. All’inizio del secolo XX si colloca l’opera di sintesi di Giovanni Pinza, “Monumenti primitivi della Sardegna”.11 L’autore è l’estroso divulgatore della civiltà tosco-laziale dei 10. Bull. arch. sardo, serie II, vol. I, fasc. V-XII, 1884, pp. 67-181. 11. Mon. ant. Lincei, XI, 1901, coll. 6-280, pp. 1-146, tavv. I-XIX. 20 primi tempi dell’età del ferro, largamente informato della paletnologia mediterranea ed europea. Ha conosciuto già i monumenti sardi direttamente in viaggi effettuati nel 1899 e nel 1900. I monumenti vengono fotografati per la prima volta da Vocheri, compagno di viaggio di Pinza, che disegna, di sua mano, i materiali visti nei musei e nelle collezioni private sarde e nel Museo Preistorico-Etnografico di Roma. Il Nostro offre una classificazione delle culture paleosarde nello schema, ormai classico, delle età litiche, del bronzo e del ferro, studiate in ampi quadri comparativi e collocate, come allora si poteva, nel tempo. Risulta un insieme della preistoria della Sardegna che, in quel momento, non poteva essere migliore. Secondo le vedute della scuola romana di Paletnologia che fa capo a Luigi Pigorini, Pinza dà forte rilievo all’eneolitico (o età dei primi metalli o del rame) e vi colloca le grotticelle artificiali, distinte nella forma a pianta circolare (o a forno) e quella a pianta rettangolare. Ritiene la prima più antica tipologicamente e non distante da quella di ipogei diffusi da Cipro al Portogallo; la seconda, all’origine semplice, matura tardivamente un grado complesso con particolari morfologici e architettonici presenti anche negli elaborati ipogei siciliani, ritenuti posteriori al periodo eneolitico. La gran massa appartiene all’età del bronzo con persistenza nell’età del ferro. Il modello della grotticella artificiale poté venire in Sardegna, come nel resto dell’Occidente, attraverso la corrente mediterranea orientale che vivifica e unifica lo sviluppo civile panmediteraneo e atlantico-europeo. Il nuraghe, derivato dalla cella a forno in roccia e dalle tombe in costruzione sotto tumulo del tipo a tholos, si colloca in un quadro di origine e diffusione mediterranea, del quale fanno parte le imparentate specificazioni monumentali che si realizzano dalla penisola iberica alla Frigia e dall’Africa alla Britannia. La parentela nasce dal prototipo comune, originatosi in un punto non precisato del Mediterraneo orientale e divulgato col commercio nell’area 21 Prefazione occidentale mediterranea ed europea-atlantica da un popolo marinaro. L’ambiente, il carattere, le relazioni diverse delle popolazioni indigene portano a svolgimenti regionali più o meno elaborati del primo modello unificante. Rispetto alle affini costruzioni (dalle iberiche alle egee) il nuraghe mostra una spiccata superiorità architettonica. I materiali rinvenuti nei nuraghi sono ascritti a una tipologia ritenuta pertinente, nella maggior parte, a età eneolitica (o premicenea), ma da collegare a un’esclusiva civiltà indigena (la civiltà nuragica), aspetto d’una civiltà mediterranea a carattere omogeneo diffusasi nell’età del rame o all’alba di quella del bronzo. Armi, utensili e figurine di bronzo, fatti per lo più da calderai e artigiani locali, mostrano, quanto alle tecniche, modelli esterni, né si escludono importazioni di valori d’uso e di merci in cambio dal continente italiano, dalla valle del Rodano, dalla penisola iberica tramite le Baleari, e soprattutto dall’Egeo nei periodi premiceneo e miceneo. Se i prototipi dei nuraghi sono presenti già dall’eneolitico (forma più vicina al cairn), le affinità architettoniche e dei manufatti con manifestazioni e prodotti del mondo miceneo e dell’Europa ènea, conducono a collocare gli edifici più elaborati nell’età del bronzo. Questi però scendono e chiudono la vicenda nell’età del ferro, giusta il confronto tra i maggiori ripostigli sardi e dell’Emilia e certe corrispondenze di tipologia manifatturiera e di formule stilistiche della produzione nuragica e dell’etrusca nel tempo della così detta “arte orientale”. In ogni caso, il processo storico dei nuraghi si definisce al principio del predominio punico (V-IV secolo a.C.). La vicenda cronologica e culturale dei nuraghi si può estendere alle tombe di giganti, simili nella struttura e nei corredi. Il tipo della tomba sarda deriva dalla allée couverte e, in prima origine, dal dolmen. Leciti i confronti con le naus e gli ipogei “a camera allungata” di Maiorca e Minorca, le sepolture semiipogeiche della Provenza e i sepolcri a corridoio orientalizzanti dell’Etruria. Valutata nel suo insieme, l’opera di Pinza mostra un pensiero che, pur privilegiandola e valorizzandola, evita la pura visione materialistica e positivistica del dato archeologico. Sfuggendo alle tentazioni etniciste e mitologiche della storiografia paletnologica dell’800, propende a concepire i fatti del passato sardo entro una misura relativistica, a sfondo più culturale che storico. La problematica fa premio sulle astrazioni teoriche e le rigide classificazioni, e ciò attenua certo tipologismo e soprattutto il comparativismo a oltranza che si compiace dell’erudizione bibliografica e devia il filo del discorso, peraltro di tanto in tanto riannodato in direzioni attendibili. Però è da condividere la concezione storiografica di Pinza sulla preistoria e la protostoria sarda, che fa perno sulla centralità della civiltà mediterranea coll’egemonia orientale, che l’isola respira come regione nella quale passano e si incontrano, in una pendolarità ricorrente, stimoli e prodotti esterni, rivissuti in specificità. La civiltà sarda – egli scrive – «non è schiava delle correnti culturali», delle quali continuamente partecipa. L’isola marca una indipendenza anche a causa dell’isolamento geografico, che si riflette però negativamente sul valore positivo, talora eccellente, della produzione artistica e materiale. Pur facendo spazio a una fenomenologia aperta a svolgimenti interni che portano e poggiano su d’una sostanziale base eneolitica, la civiltà protosarda si distingue, come le culture dell’area tosco-laziale, per i caratteri di continuità e di tenace persistenza. Da ciò viene una certa compattezza e uniformità dell’immagine che la Sardegna primitiva prende dall’opera di Pinza, nonostante lo sforzo fatto per articolarla. Emerge un insieme culturale “prototipico”, lento nel suo cammino di progresso, dalle profonde resistenze nella mobilità mediterranea. Per comprendere la ragione e il modo dell’approccio di Giovanni Patroni alle origini della civiltà in Sardegna, bisogna riferirsi ai presupposti e enunciati nei volumi I e II de La Preistoria, facenti parte della collana Storia politica 22 23 Prefazione d’Italia dalle origini ai nostri giorni.12 Più in particolare interessa l’“Appendice”: La formazione dei popoli dell’Europa antichissima e la diffusione delle lingue arie. Il testo, allora, era l’unico che presentava i fatti e gli avvenimenti delle civiltà antiche o preistoriche in una successione organica e unitaria, configurati nella loro ampiezza, profondità e complessità, e resi partecipi e produttivi del pari che le vicende dei popoli in possesso della scrittura, di storia, e storici nella loro pienezza umana. Questo di concepire lo sviluppo “civile” delle genti primitive (anche di quelle dette “fossili”) in nesso con l’origine e lo svolgersi di genti più dotate ed evolute, questo di vedere la continuità d’una storia umana dei primordi – povera o ricca nelle sue fasi non importa – modulata a sfumature, senza catastrofi, senza cesure moltiplicate di razze e di culture, senza categoricità di evoluzione, in continuità di popoli, soprattutto dovuti al commercio marino e con molte conquiste di mente e di mano autonome e proprie ai singoli gruppi, è senza dubbio la idea-base più importante e più feconda di Patroni. Il motivo storico portava un certo chiarimento negli studi paletnologici, offrendo un indirizzo e un metodo nonché un contenuto, che toglieva la disciplina preistorica dal vago, dal fluttuante e dall’asservimento a questa o a quella scienza ritenuta superiore, dandole autonomia e introducendola (ciò che fu non piccola conquista) nel contesto della storia e dell’archeologia. Venendo all’interesse di Patroni per le antichità sarde, si rileva che egli si fa ad esaminare, per prima, la civiltà prenuragica. Ne vede specialmente le risultanze finali nel neolitico, costituito già in organismo evoluto precocemente – il più antico ed evoluto fra quelli del meridione d’Italia – e di tale qualità da ritenerlo atto ad esprimere una sorta di talassocrazia dalle Baleari e isole minori all’Africa.13 È, dessa, fondata principalmente sul commercio 12. Roma, Vallardi, 1950. 13. Mon. ant. Lincei, XIV, 1904, coll. 149-154. 24 mediterraneo dell’ossidiana. Condivide l’idea di Pinza circa la continuità dell’eneolitico nel bronzo e nota il durare della grandezza della civiltà eneolitica in quella nuragica. E quest’ultima la immagina salda e compatta nella sua organizzazione nazionale (riconosciuta, peraltro, non senza contraddizione, frazionatissima in tribù, clans e famiglie), non originata da guerre interne fratricide ma dalla preoccupazione di tutela degli interessi comuni di isolani e dalle amicizie degli alleati mediterranei insidiate dalle scorrerie piratesce dei Liguri. Considera probabile qualche arricchimento etnico nell’età del bronzo, quello dei Shardana, ma non gli attribuisce un’efficace innovativa in quanto questo popolo rappresenta l’ultimo contingente dei Sardi eneolitici brachicefali, di stirpe armenoide, primi colonizzatori dell’isola, attardatisi nella patria d’origine, nella Lidia. Anche la civiltà nuragica, del pari che l’eneolitica già in possesso dei nuraghi e di altri monumenti megalitici di tipo occidentale ed orientale poi svoltisi e perfezionatisi, sarebbe di costituzione e sviluppo precoce, ed essa avrebbe chiuso il suo sviluppo prima di qualsiasi più antica colonizzazione dei Fenici ai primi del millennio. Non riconosce invece legittimi gli accostamenti culturali e il parallelismo cronologico, da altri proposti, anche con civiltà protostoriche e storiche fino ai tempi delle colonizzazioni narrate dalla storiografia greco-romana. Accostamenti fallaci, come quello delle navicelle e di tutti i bronzetti nuragici a figurine etrusche e greche del VI secolo a.C. Essi sarebbero, invece, non posteriori al secolo XII. Vista nella sua struttura politica e sociale, la civiltà nuragica, per Patroni, è civiltà di gente di mare e guerriera che partecipa ai fatti marinareschi e continentali narrati anche dai monumenti egizi. Navi e nuraghi sono le difese della gente sarda, solidale e potente, religiosa, operosa commercialmente e industrialmente mite, soprattutto per quanto riguarda l’attività metallurgica appresa dall’insegnamento egeo e svolta poi in loco con estrema vivacità e perizia. 25 Prefazione Singolare è la teoria di Patroni circa l’origine del tipo architettonico della tholos, presente anche nel nuraghe, e, in conseguenza, l’origine stessa di questo monumento. Egli ritiene che la falsa cupola di grosse pietre disposte a filari in aggetto, nuragica, sia la traduzione in materiale litico a grandi elementi della consuetudine costruttiva delle tholoi in mattoni crudi, nata nella Caldea e di qui migrata, tramite Creta e la Tessaglia (Orcomeno), in Sardegna, dove sarebbe attestata in capanne. Teoria discutibile – e discussa – come, del resto, lo è la concezione esageratamente anticipatrice, in sede cronologica, della civiltà paletnologica sarda. Filippo Nissardi, che Pallottino giustamente ricorda e associa, per meriti, agli studiosi, ha dato un contributo notevole alla conoscenza delle antichità della Sardegna con un elevato apporto tecnico, prestato per lungo tempo, assai meno con gli altri scritti. Antonio Taramelli, di cui dirò, lo ebbe valido collaboratore negli scavi archeologici: di gran momento, tra i tanti, quello nel santuario di Santa Vittoria di Serri, cominciato nel 1909: suoi i rilievi del sito e dei monumenti messi in luce.14 Insieme realizzano l’esplorazione e il rilevamento nonché lo studio di numerose e varie evidenze archeologiche (soprattutto nuraghi) dell’altopiano “giara” di Gèsturi.15 Fu questo un modello di ricognizione topografica d’una regione, in vista della Carta Archeologica, già iniziata da Nissardi nella Nurra e nella Flumenàrgia di Sassari, nella Nurra e territorio di Alghero, nel territorio di Olmedo, Carta poi utilizzata da Pinza.16 Scrive Pallottino in La Sardegna nuragica: «Gli scavi compiuti nei primi decenni del secolo [ma si deve aggiungere anche in seguito per lunghi anni] da Antonio Taramelli hanno straordinariamente arricchito e precisato 14. Mon. ant. Lincei, XXIII, 1914, tavv. I-III. 15. Mon. ant. Lincei, XVIII, 1907, coll. 6-119: i disegni di pianta di nuraghi e recinti a figg. 5-7, 11, 13-15, 18, 21-23, 25-26, 30-31, 33, sono di Filippo Nissardi. 16. Mon. ant. Lincei, XI, 1901, tav. IX: 276 nuraghi. 26 le precedenti cognizioni». È già questo un riconoscimento altamente significativo e non di comodo, per un uomo che per un trentennio resse, bene meritando, quasi da solo, le sorti dell’archeologia in Sardegna, procurando non solo scavi, risultati fondamentali, come gli comandava il suo ufficio di Soprintendente, ma unendovi un’attività di studio continua, uscita a oltre centotrenta pubblicazioni scientifiche e altre di promozione culturale in materia, e più in generale. È vero che Taramelli si considera un «lavoratore del piccone». Il «piccone (sa majesté la pioche)» egli scrive «è l’arbitro insospettato ed assoluto che interrogò la terra e cercò luce e la diede». C’è il rifiuto della sudditanza della disciplina archeologica rispetto ad altre e in particolare alla storia. Ma il privilegiamento degli “oggetti” non significa per lui sporcarsi le mani con la materia storica. Dell’archeologia “positiva” Taramelli considera fondamento oggettivo, come si è detto con l’esempio della “giara” di Gèsturi, l’investigazione topografica, al fine conoscitivo del monumento e della cosa in rapporto col territorio e l’ambiente. In questa giusta ricerca del ruolo del prodotto umano antico nel suo luogo di origine e di sviluppo, talvolta affiora una linea deterministica. Scrive Taramelli:17 «L’antropologia, come la fisionomia etnica e monumentale, è figlia della terra e dell’ambiente». Il pregio di tutta l’opera taramelliana è aumentato da una scrittura duttile e sciolta anche nel rigore scientifico, sebbene questo, di tanto in tanto, si allenti, per stimoli soggettivi e impulsi letterari, e faccia luogo a un modo che tende a trasformare le questioni oggettive in problemi di sentimento, in dimensione di stato d’animo. L’acume analitico e la non di rado penetrante capacità di interpretazione sembrano indeboliti talvolta da un troppo insistito e inefficace psicologismo. L’idealismo, libero dal freno storicistico, lo conduce a crearsi una sorta di misticismo etnico della 17. Not. sc., IV, 1915, p. 109. 27 Prefazione preistoria sarda, vista in un continuum col presente per categorie culturali e morali. A causa di questo senso di quasi indistinzione di tempo-spazio, l’archeologia primitiva della Sardegna, attraverso la lente modernizzante, se non è snaturata nella forma, rischia di perdere, in certi aspetti, la giusta misura. Lo stesso avviene della Sardegna contemporanea, quando il Nostro tenta di toccarne e spiegarne i valori e i comportamenti usando la lente primitivistica. Il concetto della continuità è centrale nella ricostruzione fatta da Taramelli delle vicende paletnologiche della Sardegna. La civiltà sarda più antica gli appare come un qualcosa senza precedenti, compatta e organica, potente, fedele a se stessa e ai suoi principi e forme tradizionali, attaccata alla propria identità. Controlla e filtra gli elementi esterni e li adatta alla natura e ai bisogni specifici. Da ciò deriva il carattere di libertà e di indipendenza dei popoli primitivi dell’isola, l’autonomia il cui fiorire, distinto da tutte le altre civiltà del Mediterraneo, fu permesso proprio dall’isolamento. Ma questo fu anche causa della monotonia, della scarsa varietà, e, infine, dell’arresto di sviluppo della cultura stessa. Così, scrive Taramelli,18 «fu assai minore la somma di realtà e di affetti utili che la gente sarda poté gettare sul mondo». La civiltà nuragica sorge senza alba, manca una sua spezzatura etnica e culturale rispetto alla precedente civiltà neolitica, di cui conserva forme architettoniche, tipi e tecniche litiche e ceramiche, nessi religiosi. Per Taramelli, seguace della scuola pigoriniana, il sustrato formativo di un’autentica civiltà, in mancanza di precedenti originari, è quello del neolitico, specie nei rapporti culturali della sua fase finale o eneolitica. Su d’una terra che non conosce paleolitico e miolitico, il seme neolitico viene recato da un ramo del grande ceppo etnico preariano che dal sud del Mediterraneo (Africa) si diffonde per le sue isole e penisole verso il 1300 a.C., stando alla cronologia dell’eneolitico cretese.19 La grande uniformità che si osserva nel neolitico sardo e in quello della Francia, delle penisole iberica, italiana e balcanica, dell’Egitto e dell’Asia Minore, delle isole Baleari, di Malta di Creta e delle Cicladi, si spiega come effetto perdurante della lontana origine comune. Tuttavia la profonda ed intima affinità di civiltà e di pensiero dei centri etnici di cultura radiante mediterranea lascia spazio, come altrove, nella Sardegna neoeneolitica. Lo dimostrano le diverse componenti antropologiche della necropoli di Anghelu Ruju: dolicocefali euroafricani in grande maggioranza e una minoranza di brachicefali eurasiatici. Varianti, inoltre, nei materiali ceramici e nei riti funerari (rispettivamente inumazione e cremazione). Dunque una sinecia di due schiatte già verificata nella patria di origine: l’Africa. L’origine e una parte dello sviluppo dei centri di vita e dei luoghi di morte, delle ideologie, dei concetti religiosi, delle forme di cultura e di industria della grande epoca neo eneolitica nell’isola, trovano analogie nell’area italiana del centro-sud, e rapporti sostanziali con i territori europei occidentali ed egeo-orientali. I più remoti stanziamenti del Cagliaritano, con le ceramiche impresse, gli oggetti litici (per lo più d’ossidiana), certe specie di molluschi arcaici, evocano riscontri di stazioni neolitiche, più o meno coeve della Corsica meridionale e fanno supporre un interscambio sardo-corso dovuto al commercio dell’ossidiana sarda.20 Altri materiali (in specie ceramiche decorate), delle tombe di Anghelu Ruju (Alghero) e San Michele-Ozieri, appartengono all’eneolitico, la grande stagione delle grotticelle artificiali, varie per tipi, spartiti architettonici, elementi simbolici e d’ornato, in rilievo e dipinti. Trattando degli ipogei avvicinati, per affinità o parentela, a quelli della penisola iberica e della Francia, delle 18. Bull. Paletn. it., XLIX, 1929, p. 86. 19. Not. sc., VIII, 1904, p. 349, nota 2. 20. Not. sc., VII, 1904, p. 19 ss. 28 29 Prefazione isole Baleari, Sicilia, Malta e Creta, Taramelli si sofferma – non dimentico della sua esperienza alla scuola archeologica “egea” di F. Halbherr – a rilevare le consonanze col mondo minoico e cicladico. Al primo riconduce il suggerimento diretto del segno taurino (simbolo di divinità infera) scolpito in tombe di Anghelu Ruju. Nel secondo vede il produttore o l’ispiratore di statuette marmoree e in altra pietra rappresentanti la Dea Madre (il così detto “idolo cicladico”) rinvenute, per la prima volta, in ipogei della stessa necropoli algherese; e le data alla fine del III e al principio del II secolo a.C. Le acquisizioni e le invenzioni materiali, tecniche e spirituali della florida epoca eneolitica, avranno il pieno svolgimento nel periodo più elevato e originale della civiltà primitiva sarda: quella nuragica. Questa civiltà, che si colloca nell’età del bronzo, eredita le grotticelle artificiali, che completano la loro evoluzione e la chiudono all’alba della storia, intorno al 1000 a.C. Anche il fenomeno megalitico funerario (più frequente e tipica la specificazione tomba di giganti), più che indicare una nuova ondata culturale invadente la Sardegna nell’età del bronzo, segna uno sviluppo che parte da germi eneolitici.21 Alle origini sta il dolmen, che dalla Sardegna si sarebbe diffuso nella penisola italiana, poi in piena età nuragica raggiunge il massimo sviluppo per cessare alla fine dell’età del bronzo se non pure al principio dell’età del ferro. Destinate a capitribù e segno di autorità sovrana, le tombe più vicine sono le naus delle Baleari e le antas del Portogallo, mentre le tombe a corridoio dell’Etruria meridionale rappresentano tardive applicazioni.22 Lo stesso fenomeno megalitico civile e militare, che si determina nel nuraghe, parte da radici eneolitiche. È nell’età del bronzo e del ferro l’exploit del nuraghe, quando 21. Not. sc., IV, 1915, p. 108. 22. Mon. ant. Lincei, XXV, 1917, col. 687; Not. sc., IV, 1915, p. 113 ss. 30 alla isolata torre eneolitica si aggiungono complessi aggregati di torri, cortine, cinte avanzate giustapposte o composte in vario modo con grande artificio. Edifizi – i nuraghi – ben architettati e calcolati statisticamente che hanno l’aspetto di sedi castellane di principi, fortezze di clans indipendenti e anche associati, talora per la difesa di interessi su base unitaria.23 A realizzarle spingono il potere dei singoli capi, il lavoro associato, la forza coesiva delle diverse comunità, la ragione economica e sociale. Se si dettero occasioni e opportunità d’intese e anche di vincoli tra i reggitori dei tanti distretti, furono più frequenti conflitti e guerre intercantonali dovuti a situazioni ed emergenze di squilibrio economico e sociale tra popolazioni viventi in regioni montagnose povere e ingrate e altre in terre fertili sia per i cereali che per i pascoli: dal che lo scontro storico, secolare, tra contadini e pastori. Per questa ragione, scrive Taramelli,24 «non poté costituirsi una vera compagine nazionale, capace, in un territorio così vasto e disunito, di stringere le varie genti, determinando unità di vita e formando una nazione». Lo sviluppo quantitativo e qualitativo dei nuraghi avvenne tra la metà circa del II millennio a.C. e l’VIII secolo, quando i Fenici, per mercatura, si insediarono sul litorale.25 La gran parte dell’assetto si chiuderebbe intorno al 1000, anche se vi fu un vigoroso seguito nel IX secolo.26 Spesso, ma non sempre, il nuraghe è l’elemento di spicco e di guida nell’aggregato abitativo che gli nasce e si sviluppa intorno, con sino a cento dimore in figura di uno o più vani rotondi (di rado rettangolari), dal basamento in pietre grezze e coperta conica di legno e frasche. Focolai, nicchioni, stipetti a muro, banconi sono in funzione delle specificazioni della vita domestica, come le suppellettili in 23. Mon. ant. Lincei, XXXVIII, 1939, col. 6 ss. 24. Mon. ant. Lincei, XXVII, 1921, col. 95 ss. 25. Mon. ant. Lincei, XXV, 1919, coll. 888-895; XXXI, 1926, col. 433 ss., 456. 26. Sardegna romana, II, 1939, p. 7. 31 Prefazione pietra, in ceramica, in metallo. La forma della dimora, nata, come altri artefatti, nel tempo eneolitico, accompagna l’intero spaccato cronologico della civiltà nuragica e dura nell’attuale mondo etnologico sardo. È oscillante il pensiero di Taramelli nel rapporto genetico capanna-nuraghe, nel senso che ora suppone la volta ad aggetto del nuraghe essere il riporto in pietra del cono in legno della capanna,27 ora lo nega, perché preferisce l’ipotesi del modello orientale, più decisamente egeo, comunque esterno, non sardo, della cupola nuragica.28 Il tessuto edilizio, con edifici sacri e fabbriche per i servizi del culto e i loro addetti nonché per la ragione comunitaria (anche laica) della festa, è tipico dei santuari (famosi quelli di Santa Vittoria-Serri e di Abini-Teti). Come nella Grecia antica e nelle città galliche, questi santuari protosardi costituiscono intorno al nucleo religioso festivo, centri politico-giudiziari e di mercato e roccaforte di saldezza etnica-culturale e dello spirito di indipendenza dei Sardi al tempo delle invasioni e della conquista dell’isola.29 A Santa Vittoria, in recinto a parte, sta il pozzo sacro, con atrio rettangolare, scala e vano d’acqua coperto a falsa cupola, in elegante struttura di conci in basalto e calcare, di effetto bianco-nero. Vicino, altro sacello rettangolare con tetto a doppio spiovente, in legno. Presso entrambi i templi, betili e supporti litici delle offerte votive e statuette di bronzo umane e di animali. Non lungi dai templi, un vasto recinto ellittico, porticato, con vano rotondo per accogliere i pellegrini e banchi per il mercato. Lo spazio aperto destinato agli spettacoli: pugilato, lotta libera, balli in coro al suono d’un triplice flauto di canne (strumento musicale detto “launeddas”, ancor oggi in uso). In disparte, l’ampia rotonda per l’assemblea principesca. I più antichi edifici 27. Mon. ant. Lincei, XVIII, 1907, col. 114. 28. Mon. ant. Lincei, XXIV, 1917, col. 689 ss. 29. Mon. ant. Lincei, XXIV, 1917, col. 68. 32 del santuario risalgono all’VIII secolo a.C., gli altri sono costruiti tra l’VIII e il V. Di questi pozzi sacri se ne contano una dozzina, i più remoti nel tempo di rozza muratura, simile a quella dei nuraghi, i successivi di struttura sofisticata, con facciata a timpano triangolare segnata da rilievi mammillari e con decorazioni incise a motivi geometrici lineari, talora sovradipinti in rosso. In alcuni templi sono state rinvenute statuette di Baal in bronzo, del IX secolo a.C., testimonianze di commercio con i Fenici delle coste. Riguardo all’economia nuragica, Taramelli ha scritto pagine decisamente contributive sull’arte mineraria, l’industria metallurgica e l’accumulazione e lo scambio dei prodotti. Ricerca dei minerali, tecniche e procedimenti di trasformazione e lavorazione, tipologie di oggetti metallici sarebbero stati insegnati ai protosardi da Egei (prove ne sono i pani di rame di Serra Ilixi-Nuragus, con segni di fabbrica in lettere dell’alfabeto minoico) e da Protoetruschi; poi i Nuragici continuarono da soli producendo un’elevata e specifica manifattura.30 Il lavoro di miniera sarebbe stato servile, di elementi non sardi. Nella prestazione d’opera metallurgica in genere avrebbe prevalso una manualità operaia alle dipendenze d’una superiore classe sacerdotale esperta delle specifiche tecnologie industriali e artigiane.31 La ricca tipologia di strumenti e armi in bronzo risente di modelli esterni, da ricercare nella produzione occidentale (penisola iberica, Francia, Europa atlantica) ed egeo-anatolica. Talune forme richiamano esemplari della Sicilia. Più tenui le relazioni con l’Etruria e le sponde italiane del Tirreno. A monte delle manifatture del ricco ripostiglio di bronzi di Monte Idda-Decimoputzu sta l’impulso derivato dalla grande via “egea” della metallurgia che reca le sue merci alle regioni galliche e inglesi per la valle del Rodano. Rispetto alle aree industriali citate, che si collocano in un 30. Mon. ant. Lincei, XXV, 1918, col. 128. 31. Mon. ant. Lincei, XXVII, 1921, col. 76. 33 Prefazione arco di tempo dall’XI all’VIII secolo a.C., il deposito di Monte Idda si distingue per una linea specifica “nazionale” di produzione, sollecitata e rafforzata dalla scoperta e pieno possesso delle risorse metallifere locali e dall’avere maturato a fondo l’insegnamento.32 I calcheuti nuragici – scrive Taramelli – raggiungono una perfezione di lavoro tale che assicura loro «un posto insigne tra i fonditori della prima età del ferro».33 I loro prodotti, nella sfera economica, non acquistano soltanto il valore d’uso ma toccano livelli di valori di scambio. Le panelle di rame sono merce richiesta dalla Sicilia e le barchette di bronzo delle botteghe artigiane protosarde sono preziosità ricercate dagli aristoi protoetruschi.34 Reso omaggio all’opera degli studiosi di cui si è detto, taluni autentici maestri, Pallottino evidenzia, per gli ultimi anni, i contributi di esplorazioni, quantunque meno intense, e di «rielaborazione scientifica sulla base d’un metodo storico e comparativo più progredito e sicuro», dovuti a Doro Levi, Paolino Mingazzini e «specialmente al giovane archeologo sardo G[iovanni] Lilliu». Anche di questi studi sull’antichità dell’isola diamo un sunto, come abbiamo fatto per i precedenti. In Studi sardi 35 Doro Levi pubblica quattro tombe, da lui scavate nel 1936, nella necropoli “a domus de janas” di Anghelu Ruju. Egli descrive accuratamente la forma degli ipogei e i loro addobbi simbolici (coppie di protomi taurine in rilievo nel vano 2 della tomba 4; pure in rilievo, nel vano 3, una partitura di piccoli cassonetti rettangolari), il costume funerario del banchetto provato da resti di animali bruciati, i materiali di corredo dei defunti, nelle stesse 32. 33. 34. 35. Mon. ant. Lincei, XXVII, 1921, col. 89. Not. sc., XXVII, 1928, p. 399. Mon. ant. Lincei, XXVII, 1921, col. 66, nota 1. Studi Sardi, X-XI, 1952, pp. 5-51. 34 materie e negli stessi caratteri tecnici-stilistici di quelli riconosciuti da Antonio Taramelli. Riguardo il discorso di lato ambientamento, nota nelle ceramiche la conferma delle relazioni, già viste, tra la più antica civiltà sarda e la fase eneolitica della civiltà iberica e di quella delle Baleari, mentre coglie diversità dai prodotti dell’Italia centrale e ritiene assolutamente ipotetica la rispondenza con gli aspetti del nord Italia (culture di Lagozza e Polada, quest’ultima considerata dall’Autore eneolitica anziché del bronzo). Accentua, invece, le comparazioni con la Sicilia, specie riguardo alle manifestazioni occidentali delle culture di Piano Notaro e della Conca d’Oro, che Taramelli aveva notato più tenuemente, valutando il fenomeno nell’ambito del movimento commerciale mediterraneo, oltre che eurasiatico e persino africano, veicolato dai portatori del “vaso a campana”. Con questo traffico marittimo, che muoverebbe dalla Spagna, Levi spiega anche certe assonanze di architettura ipogeica e decorazioni vascolari della Sardegna eneolitica e di Malta. Discutibili, invece, a suo parere, i rapporti con Creta e divergente, per forma e stile, dagli idoli egei la plastica sarda, giudicata «di estrema rozzezza» (per la verità l’idolo di Senorbì, che egli cita a riscontro con i cicladici, compete con questi per eleganza formale, tecnica sofisticata e forza stilistica, valore simbolico e non soltanto “ornamentale” ascritto riduttivamente alle statuine sarde). Non è fatta alcuna ipotesi cronologica, né è soddisfatto il proposito di distinguere i periodi evolutivi all’interno dei ritrovamenti di Anghelu Ruju e della lunga storia della più remota civiltà sarda. Ciò si dice non a demerito dello studio di Levi. In quel momento una periodizzazione della preistoria isolana non era proponibile, tanto meno determinabile. Passerà tempo per vederla definita tra incertezze e – diciamolo pure – con beneficio d’inventario. Restava giusta, però, l’esigenza di leggere i vari momenti d’una realtà compatta e indistinta, di «individuare entro ciascuna fase della remota civiltà sarda dei caratteri specifici 35 Prefazione che ci permettano di dividere la lunga storia in un numero di periodi, di cui si colga chiaramente l’evoluzione dall’uno all’altro, e di assegnare a ciascuno di tali periodi dei limiti cronologici meno vaghi di quelli ora accettati, in modo da poter inquadrare in questi precisi limiti ogni nuova stazione che venga scoperta». Doro Levi non mancò di curare la parte nuragica. Nel 1936 dette inizio, per proseguirli nel 1937-38, a scavi nel villaggio di Serra Orrios-Dorgali, un centro di vita tra i più significativi nell’isola. Qui una settantina di capanne rotonde, aggregate in “vicinati” presso spiazzi comuni con pozzi, due tombe di giganti, due sacelli rettangolari del tipo “a megaron”, numerosi materiali litici, in bronzo e di terracotta lisci e decorati, nuragici e postnuragici.36 Nel 1936 si attivarono altri scavi nella rocca, trasformata in ridotto fortificato, di Punta Casteddu-Lula. Nel terreno archeologico vennero in luce, in diversi strati, reperti ceramici (tegami, olle, orci, urne, anfore, askoi, tazze) del bronzo recente e finale (1300-900 a.C.) e oggetti in bronzo (statuine umane e di animali, armi, utensili) e pietra (macinelli e pestelli) della prima età del ferro.37 Se Giovanni Patroni, come è stato detto, ha rialzato la cronologia della civiltà nuragica, includendola quasi per intero nel II millennio a.C., Paolino Mingazzini, all’opposto, la ha ritardata sino a considerarne l’apogeo nel periodo punico-romano. La sua “strana” posizione è spiegata nell’articolo “Restituzione del nuraghe Santu Antine in territorio di Terralba”.38 L’ipotesi di restituzione del nuraghe in tre piani con terrazzo a merli nella torre centrale, eminente, con l’altezza di più di 21 metri, sul bastione circondante di 9 m, è soltanto lo spunto per tentare di risolvere due problemi: sapere se i nuraghi erano ancora in uso in età storica e sino a quando ne scende la costruzione. 36. Boll. d’Arte, XXX, 1937, p. 99 ss. 37. Boll. d’Arte, XXXI, 1938, p. 198 ss. 38. Studi Sardi, VII, 1947, pp. 9-26, tavv. I-III. 36 Circa il primo problema, Mingazzini crede che i nuraghi siano stati usati – i più intatti – sino ai tempi della dominazione romana, e che anzi furono impiegati dalle guarnigioni di Roma per tutto l’impero. Circa il problema della costruzione, non esclude che le torri centrali di alcuni nuraghi (come il Lugherras di Paulilatino) possano risalire «verso il Mille o più giù di lì». Ma i bastioni, circondanti il mastio, sarebbero stati edificati durante l’età punico-romana: nel nuraghe Palmavera per conto dei Fenici, sotto la direzione di architetti fenici non più su dell’inizio del IV secolo a.C.; nel Lugherras nella prima e nella seconda metà del III, nel 259 a.C., nel nuraghe Losa-Abbasanta ad opera dei Romani. Lo stesso nuraghe Santu Antine, il più recente di tutti, concepito in un progetto organico unitario di mastio e bastione, ispirato dalla conoscenza di metodi disegnativi e razionali della Grecità più evoluta, sarebbe stato realizzato nella seconda metà del III secolo a.C. Mingazzini non accoglie la teoria, sostenuta da altri studiosi, che i nuraghi avessero costituito un regolare sistema difensivo contro gli invasori (liguri, cartaginesi e romani). In età nuragica ogni aggruppamento familiare si costruiva un nuraghe per vivere, a scopo puramente difensivo, in un’età di anarchia sociale dominata da ininterrotte vendette di famiglia, o faide gentilizie. Le risse e le vendette impedivano loro di pensare ad altro: da qui anche la scarsa forza di espansione dei Sardi. Anche i nuraghi collocati sul ciglio delle “giare” non rispondono a un fine strategico in previsione di una guerra sistematica. Vi sarebbe stata una sorta di convenzione fra alcune famiglie della zona circostante, di pascolare in comune escludendo ogni altro proprietario. A tal fine avrebbero costruito sulle “giare” un nuraghe, ciascuno per proprio conto, raggruppando, ognuno per proprio conto, gli armenti e le capanne per i pastori. Il luogo, conclude Mingazzini, fu scelto per diminuire le possibilità di sorprese; ed un certo cameratismo avrà certamente unito le varie famiglie e i vari pastori contro i razziatori occasionali ed abitudinari. 37 Prefazione Infine, Massimo Pallottino può disporre dei risultati di quattordici anni (1936-49) di ricerche sul campo, scavi, studi riassunti in diciotto pubblicazioni d’un suo discepolo: «il giovane archeologo sardo» Giovanni Lilliu. Va fatto, per prima, un discorso sul metodo: lo afferma Lilliu. Il metodo comparativo usuale in archeologia, troppo rigido e spesso generico, va integrato con le risorse prioritarie della metodologia storico-culturale, senza perciò rinunciare, quando opportuno, ad altri modi di indagine: l’analisi strutturale dei monumenti, quella stilistica e la critica estetica per i prodotti dell’arte, l’etnografia in ordine ad aspetti più propriamente paletnologici. Egli è stato il primo ad applicare scientificamente, nello studio dell’archeologia preistorica in Sardegna, il metodo stratigrafico, con i saggi di scavo nel terreno contiguo ai nuraghi di Su Nuraxi e di Marfudi a Barumini, riconoscendo nel primo due livelli culturali di età nuragica e nel secondo un livello nuragico a ceramiche dello scorcio del II millennio a.C., sovrastato da uno strato tardo repubblicano romano.39 Quanto al succedersi dello spettro storico della più remota civiltà dei Sardi, è seguita la tradizionale ripartizione nelle età neoeneolitica, del bronzo e del ferro. Ma in queste grandi fasi egli introduce diverse facies culturali con diversificazioni zonali. La cronologia è basata soprattutto sulla comparazione delle forme monumentali e dei prodotti di cultura materiale protosardi con quelli esterni più o meno bene datati, e anche sulle loro differenze di stile e di tecnica e, come dire, di respiro epocale. Si rifiuta, però, il criterio evoluzionistico: la ricerca del tempo ne concorre alla comprensione, ma non è storia. Lilliu non si nasconde la difficoltà di distinguere nell’età neoeneolitica il momento neolitico da quello eneolitico (o dei primi metalli), a causa della mancanza di dati stratigrafici. Tuttavia, memore dell’insegnamento avuto 39. Not. sc., VII, 1946, pp. 175-189. 38 nella scuola romana di paletnologia, dà speciale se non proprio esclusivo risalto alla fase eneolitica, nella quale individua due facies culturali: la cultura di Anghelu Ruju e la cultura “gallurese”, ritenute coeve (recenti studi hanno evidenziato l’anteriorità di quest’ultima, riportandola al neolitico medio). Della cultura di Anghelu Ruju, ritenuta contemporanea a facies culturali eneolitico-iberiche e della Sicilia, sono vistosa e significativa manifestazione le grotticelle artificiali, soprattutto quelle del sito omonimo. Risaltano la complessità di alcune tombe e le loro architetture, nonché l’arredo simbolico (protomi taurine scolpite su pilastri e pareti) e il ricco corredo funerario. Lilliu si sofferma sulle statuette marmoree e di calcite che ne costituivano gli elementi di maggior spicco e connotazione culturale, simili ad altri esemplari di Portoferro-Alghero, Turrita-Senorbì e Conca Illonis-Cabras. Pur riconoscendo la fattura locale delle statuette per la materia nativa e certi stilismi particolari, non accoglie l’opinione del Von Bissing che esse siano state scolpite, indipendentemente dalla conoscenza di qualsiasi esemplare cretese o cicladico, verso la metà del II millennio a.C. Ritiene invece che non sia mancata l’ispirazione di prototipi egei e avvicina le figure sarde a idoletti cretesi delle tholoi di Haghia Triada e Kumasà, dell’antico minoico II-III (2800-2100 a.C.), sollevando dunque le statuine locali al III millennio a.C. E richiami a Creta e all’Egeo vede anche nelle contemporanee protomi taurine e in ceramiche decorate della vasta necropoli algherese di Anghelu Ruju. L’aspetto culturale “gallurese” si è elaborato localmente in una zona segregata dell’isola – la Gallura – in un tempo non breve, su di un plafond occidentale con l’apporto di manufatti orientali, il tutto composto e realizzato in modo affatto speciale rispetto a culture extrainsulari e alla stessa facies eneolitica sarda di Anghelu Ruju. A caratterizzarla stanno monumenti megalitici in forma di circolo coperti da tumulo, con cassone centrale per la deposizione di uno o 39 Prefazione due defunti, che si confrontano con strutture conformi dell’eneolitico pleno della penisola iberica e, più da vicino – geograficamente e culturalmente – della Corsica. Se la forma monumentale guarda all’Occidente, i materiali di corredo (pomi sferoidi, una coppetta, vaghi di collana in steatite) mostrano tipi orientali importati da Creta o dall’Egitto nel corso del III millennio a.C. Sono i tempi nei quali, nella stessa Gallura e nel centro-nord della Sardegna, si presentano i primi dolmens, versione locale del grande ciclo dolmenico supposto di provenienza iberica. La successiva età del bronzo è illuminata nell’isola dalla civiltà nuragica, che occupa tutto lo spazio del II millennio, continuando il suo corso progressivo nella prima età del ferro per una durata di un millennio e mezzo, dal 2000 al 500 a.C. Ne sono distinte due fasi: dal 2000 al 1000 la fase della civiltà nuragica preistorica e dal 1000 al 500 la fase della civiltà nuragica protostorica. La prima fase si sincronizza con il fiorire della civiltà egizia, con le brillanti manifestazioni delle civiltà cretese e micenea, con lo sviluppo delle più tipiche culture italiane appenninica-padana di prima e seconda facies ènea. Nella seconda fase si assiste all’incontro e allo scontro della civiltà nuragica con le sopravvenute genti fenicie e alle relazioni con il mondo “villanoviano” ed etrusco e con la civiltà greca del “geometrico” e arcaica. Nella prima e nella seconda fase di questa civiltà nuragica, in apparenza omogenea e salda nella sua impostazione etno-culturale, e di così lunga durata da giustificare la grandezza e la forza tali da meritare il titolo di “civile”, si determinano aspetti o facies zonali o territoriali. In alcune regioni, condizioni ambientali proprie e risorse favoriscono il progresso; in altre, fisicamente e strutturalmente poco accoglienti, per non dire ostili all’uomo, si formano “sacche” di persistenza e di accantonamento.40 Nella prima fase nasce il nuraghe, il monumento emblematico ed eponimo della civiltà. Lilliu aumenta la conoscenza, per numero ed estensione territoriale, dei nuraghi, con le ricerche topografiche nella “giara” di Siddi (Su Pranu): undici nuraghi per lo più monotorri, tranne uno – Su Concali – con quattro torri cingenti la centrale. Altra ricognizione topografica nel rettangolo Turri-Barumini-Lunamatrona-Villamar (lati corti) e LunamatronaUssaramanna-Villamar-Barumini (lati lunghi): 13 nuraghi di cui 9 monotorri, due bitorri e uno pluriturrito.41 Di più antica costruzione sono i nuraghi a pianta ellittica o rettangolare come il Sa Fogaia nella “giara” di Siddi42 e il Su Iriu-Gergei, che si annette un gruppo di capanne rotonde di abitazione:43 il primo con strutture murarie in basalto a filari irregolari e il secondo con murature a corsi di blocchi di marna calcarea ben tagliati e composti. Ma presto dovettero sorgere anche i nuraghi monotorre a pianta rotonda e volume troncoconico, con stanze in uno o più piani, coperte da falsa volta. Lilliu vi riconosce uno sviluppo dalle primordiali tholoi, già presenti nell’eneolitico pleno iberico (tombe de cupula) e nel tardo eneoliticofine III millennio a.C. a Kumasà, Haghia Triada, Mochlos, in Creta (minoico antico II). È sostenibile la datazione di alcuni nuraghi all’inizio del II millennio. Certo il loro numero aumenta nei tempi del minoico recente III, età micenea, e nel submiceneo raggiungono il massimo sviluppo e diffusione nei grandi castelli a più torri, di complessa pianta e struttura e ricchezza di vani e servizi (pozzi, ripostigli ecc.). Se ne potrebbe ipotizzare una successione cronologica se avesse valore probante la constatazione d’un progresso tecnico visibile nell’opera muraria che passa da 40. Bull. Paletn. it., 1941-42, p. 145, p. 148 ss.; Studi Etruschi, XVIII, 1944, p. 324. 41. Not. sc., VI, 1941, pp. 130-163: Su Pranu; Not. sc., VII, 1943, pp. 173175: rettangolo. 42. Not. sc., VI, 1941, p. 145. 43. Not. sc., VII, 1943, p. 167 ss. 40 41 Prefazione un modo poliedrico-megalitico, a poliedrico-subquadrato e al subquadrato. Ma non va escluso che tali diverse modalità costruttive si attuassero, a volte, nello stesso tempo, supponendo che lavorassero nei cantieri maestranze di diversa educazione, anziani e giovani, data la lunga durata dell’impresa, imposta dalla complessità della fabbrica e dalla mole e peso del materiale litico d’impiego, pur giovandosi dell’aiuto di attrezzi come slitte per il trasporto, scalandroni e carrucole di legno per il sollevamento delle pietre. In aggiunta – osserva Lilliu – in questo momento di fervida attività edilizia, non mancarono insegnamenti dall’esterno. Arrivano nell’isola i pani di rame (o lingotti) in forma di pelle di bue rinvenuti a Serra Ilixi-Nuragus, che provengono da Creta o da Cipro, e oggetti e armi in bronzo di tipologia egea (asce, accette, pugnali e spade) che danno la spinta alle prime esperienze della metallurgia locale, nel corso dei secoli XV-XI a.C. Mentre in questo periodo vengono dall’esterno all’isola gli apporti graditi in quanto portatori di progresso, non mancano, per opposto, minacce di approdi indesiderati o di attacchi di forze straniere, in azione nel Mediterraneo inquieto e turbolento a causa di competizioni commerciali e di guerre per l’egemonia politica e militare delle maggiori potenze, in più le scorribande piratesche dei così detti “popoli del mare”. Donde, a garantire la sicurezza, la realizzazione d’un sistema di nuraghi in preminente funzione strategica. Ma non il semplice nuraghe monotorre, concepito in origine per vigilanza e tutela dei beni agropastorali locali. Bensì gli insiemi organicamente coordinati di nuraghi a corona delle “giare”, veri champs retranchés, e soprattutto le forme di nuraghi più elaborate in senso di architettura militare, con istanze fortificatorie, circondando le torri isolate con baluardi a cortine e più torri, capaci di rintuzzare le offese dei più agguerriti incursori provenienti dal mare nei secoli XIII-XII a.C. Lilliu si dilunga sulle tombe dei giganti, connesse strutturalmente con i nuraghi, dei cui abitatori sono sepolture, spesso esclusivamente, ma non di rado sono sepolcri dei villaggi annessi ai nuraghi, e anche soltanto dei villaggi. Di conseguenza, il monumento funebre nasce – pur esso – nella prima fase della civiltà nuragica, come derivazione e sviluppo del dolmen eneolitico. Lilliu porta sulla conoscenza della tipica costruzione, che resta costante nella forma ma varia nell’architettura e nella struttura, e dei contenuti, le nuove acquisizioni ottenute dagli scavi, personalmente seguiti, delle tombe dei giganti di Ollastedu e Scusorgiu-Gesturi44 e di Mesedas-Las Plassas.45 Svolge, poi, un ampio discorso generale a partire dallo studio delle tombe di giganti di Domu di s’Orcu-Siddi46 e di GoronnaPaulilatino.47 Le tombe dei giganti sono classificate in due varietà. La prima, più remota, è realizzata a strutture sentite in modo arcaico, a muratura di pietre poste per dritto sia all’interno della cella coperta da solaio piano di lastroni che nell’esedra, nella quale spicca al centro l’alta stele arcuata portata a finitura con lo scalpello, mentre il resto del perimetro è composto di blocchi litici grezzi. Esempi: le sepolture di Ollastedu e Goronna. La seconda varietà, più tarda, è fatta in opera subquadrata, nel contorno e nelle pareti del vano ordinate a file regolari di pietre di buon taglio, rastremate a profilo parabolico; l’emiciclo cerimoniale presenta la facciata a filari sovrapposti in ritiro e terminale piano, al modo nuragico. Sono così conformate le tombe di giganti di Scusorgiu, Mesedas e il monumentale sepolcro di Domu di s’Orcu nella “giara” di Siddi, che ha il vano rettangolare a pareti in aggetto e una celletta laterale, coperto da cinque giganteschi sfaldoni di basalto, l’estradosso a carena di nave come le naus di Minorca. 42 43 44. 45. 46. 47. Not. sc., XII, 1940, pp. 234-237. Not. sc., VIII, 1943, p. 170 ss. Not. sc., VI, 1941, pp. 136-140. Studi Sardi, VIII, 1948, pp. 43-72. Prefazione Lilliu mette in evidenza l’esposizione delle tombe di giganti, ricavandola da trentadue esemplari da lui conosciuti: diciassette volgono a sud-est, sette a sud, tre a est, due a nord-ovest, tre, rispettivamente, una a nord-est, una a sudovest e una a nord. Ritiene un costume rituale l’orientamento prevalentemente a sud-est, già supposto da Alberto Lamarmora. Circa la destinazione delle stesse tombe, egli esclude che siano monumenti religiosi (Vittorio Angius), o sepolcri per un solo individuo (Alberto Lamarmora, Ettore Pais), o sepolture di famiglie (Giovanni Spano, Giovanni Patroni). Propone, invece, l’ipotesi di poliandri, d’uso collettivo, comunistico, degli abitanti dei nuraghi (ad esempio dei sedici nuraghi della “giara” di Siddi) e dei villaggi capannicoli (ad esempio a Mesedas, a Serra Orrios-Dorgali), a prescindere da privilegi di sorta, per i defunti di ogni grado sociale: tombe della comunità “politica” di aggregati abitativi di qualsiasi sorta.48 A dimostrazione del supposto Lilliu adduce due argomenti. Il primo, quello del numero di scheletri umani da lui stesso rinvenuti nelle tombe o ipotizzato in altre statisticamente, in base alla capacità delle celle sepolcrali: più di trenta reperti scheletrici nella tomba di Scusorgiu, moltissimi in quella di Ollastedu, oltre sessanta a Mesedas, duecento calcolati nel grande sepolcro di Goronna. Il secondo argomento viene dato dalla scarsissima quantità di oggetti di corredo rinvenuti dentro le camere mortuarie: pochi cocci a Scusorgiu, due teste di mazza in pietra e frustoli di vasi in grezza terracotta a Mesedas. Viceversa, è l’esedra a presentare i resti, accomunati nello stesso luogo, senza distinzione alcuna, delle offerte delle varie famiglie d’ogni ceto ai loro morti: assai pochi e frammentari avanzi di ceramiche a Scusorgiu, consistenti residui nella tomba di Goronna. Nel lungo tempo di utilizzo di questo monumento, più volte ristrutturato per aumentarne la capienza, si deposero nella cella una punta di freccia e frammentini di ossidiana, una ciotola e altri due vasi. Ma l’esedra, nel tratto scavato di appena cm 50 x 3,50 di profondità, restituì numeroso vasellame di terracotta grezza e tornita in forme di piattelli, ciotole, scodellini, olle con anse di vario tipo (tipica una ad aculeo), datato da Lilliu all’VIII secolo a.C. (in successivo studio rialzato al XV-XIV secolo a.C.49). Dunque, nei materiali di corredo e di offerta ai defunti sepolti nelle pur monumentali tombe, niente v’è di prezioso e significativo da farne supporre l’appartenenza a famiglie élitarie. La maestosità del sepolcro dà enfasi al “collettivo”, non al personaggio illustre o al gruppo gentilizio. Nel disegno planimetrico della tomba di Goronna, dato da Alberto Lamarmora,50 Lilliu riconosce, riversa nell’esedra, una pietra conica liscia, ben rifinita con lo scalpello, di circa m 1,40 d’altezza x 0,50 cm di diametro alla base; e ne trae spunto per un discorso sui betili, posti, qui come altrove, ad addobbo simbolico e quale segnacolo delle tombe di giganti. Richiama il confronto con gli esemplari, pur essi lisci, in basalto, di Cuvas-Dualchi, nuraghe Giove e Codinalzu-Bonorva, Sa Pedra Longa-Silanus, Nurachi-Sedilo e di Funtana Bacai-Lanusei (qui presso un pozzo sacro). E si sofferma a illustrare il significato dei betili con particolari del corpo umano: il phallos eretto nel maggiore dei betili di Sa Pedra Longa, le mammelle in quelli di Tamuli-Macomer e di Santu Antine ’e Campu-Sedilo e i plurimi incavi (supposti “occhi” dal Mingazzini) dei cippi troncoconici di Perdu Pes-Paulilatino. Le pietre sarebbero rappresentazioni in astratto di deità maschili e femminili tutrici dell’area funeraria da esse delimitata e segnata. Nel caso di Tamuli (sei betili, tre maschili e tre femminili) 48. Not. sc., VIII, 1943, p. 170; Studi Sardi, VII, 1947, p. 243; Studi Sardi, VIII, 1948, pp. 67-69. 49. La Civiltà dei Sardi dal Paleolitico all’età dei nuraghi, Torino, Nuova ERI, 1988, p. 328 ss. 50. Viaggio in Sardegna, Nuoro, 1995, vol. II, p. 23, tav. IV, fig. 1/c. 44 45 Prefazione Nella seconda fase nuragica, la civiltà primitiva dei Sardi arricchisce e specializza le sue già notevoli conquiste. Nuove forze sono espresse dall’intimo e arrivano con gli apporti esterni mediterranei. L’immagine di una Sardegna per certi aspetti ancora chiusa nel tempo preistorico, in quello protostorico si apre all’accoglienza. Restano certo i valori primordiali, “barbarici”, capaci di confrontarsi alla pari nel contatto con i primi colonizzatori fenici, ma disposti al colloquio. Ai tributi che giungono dalle sponde occidentali del continente italiano l’isola risponde con le sue esportazioni che toccano anche le Baleari, con i modelli del nuraghe e della tomba di giganti rivissuti, al modo proprio, nel talaiot e nella naveta. Così la Sardegna da terra ricettiva diventa datrice di civiltà. È questo il periodo più brillante della sua storia, l’unico momento di cosciente iniziativa, di gusto della libertà. In questo spaccato storico che dal 1000 a.C. scende alla fine del VI secolo, se si eccettuano le zone non toccate dalla conquista cartaginese, l’antico stato sociale di tribù e clans, premendo nuovi bisogni e il progresso del tempo, passa a una forma di coesione “politica” (anche se non raggiunge il grado della polis), che si esprime anche in un concetto nuovo di aggregato umano, il villaggio. Il nuraghe resta ancora, ma non dovunque, a far da perno al borgo, ma più con riferimento simbolico che in termini esclusivi di garantirne la sicurezza. Infatti, viene meno quell’intensa preoccupazione che disseminava sull’orlo delle “giare” una pleiade di nuraghi per la tutela delle comunità non di rado in conflitto tra di loro, a causa del frazionamento del territorio. Sono forse i tempi del trapasso della forma economica esclusiva pastorale a quella agricola-pastorale. Più di cinquanta agglomerati capannicoli con al massimo un centinaio di casette, sparsi in ogni dove, manifestano un certo progresso tanto nel rispetto dei valori ambientali quanto nell’uso di tecniche costruttive nelle abitazioni. Si osserva la tendenza a concentrare le dimore intorno ad uno spiazzo o al pozzo pubblico. Al tipo tradizionale della capanna “a pinnetu” si associa o segue quello dell’abitazione rettangolare con tetto a doppio spiovente, e nell’uno e nell’altro si tende a ridurre lo spessore del muro e la dimensione delle pietre legate con malta di fango. Insomma, il megalitismo va gradatamente a perdersi. Tali elementi evolutivi si possono osservare nei villaggi di Seruci-Gonnesa, di Serra Orrios-Dorgali e di Santa Vittoria-Serri (gli ultimi due provvisti anche di luoghi sacri centralizzanti l’insieme abitativo, al posto del nuraghe). L’asserzione di nuraghe come riferimento simbolico per Lilliu vuole significare che la monumentale costruzione diventa, ora, il segno del potere e del prestigio del capo (o del castellano), che vi risiede con la sua famiglia a governo del borgo sottostante. Una fabbrica di tale mole e complessità, concepita e realizzata nel numero di parecchie migliaia nell’intera isola da spericolati architetti, la più immediata forma esemplare, frutto d’una reale concezione d’alta scuola destinata a restare nella memoria dei posteri, non poteva dileguarsi d’emblée. Difatti, come provano armi e oggetti in metallo, soprattutto di bronzo, e significative ceramiche, rinvenute nei nuraghi Palmavera-Alghero, Santu Antine-Torralba, Lugherras-Paulilatino, Losa-Abbasanta, Piscu-Suelli. Queste sedi principesche continuarono a esser usate ininterrottamente, talune subendo ampliamenti e restauri, dall’inizio dell’età del ferro nel X secolo a.C. almeno alla metà del VII. Il fiorire in Sardegna di ceramiche con decorazione impressa di cerchielli e spina di pesce, più frequenti nelle brocche a becco richiamantisi (forma e ornato) all’ambiente paleoitalico dell’VIII-VII secolo a.C., induce Lilliu a notare una non strana coincidenza, ossia che, 46 47 è ipotizzato un sacro congiungimento sessuale in funzione rigeneratrice della vita spenta fisicamente nei defunti sepolti nelle grandi arche megalitiche. Prefazione in quel tempo, in Etruria e in paesi etruschizzati, sorge il tipo della tomba con falsa volta, legata, nel profilo ad aggetto della camera a sezione ovale, al nuraghe.51 In un sistema di guerra mutato, secondo un concetto che tende a frazionare le forze in campo, i caposaldi non sono più i nuraghi, ma vaste aree ellittiche a più torri (Sa Ureci-Guspini, Nossiu-Paulilatino), o recinti coordinati tra loro a distanza (Mura Cariasa, Montigiu Tundu, S’Eligheddu, Baddadursu, Muru Russu, Su Stallu, Sa Mura de sos Alvanzales-Bonorva) ascrivibili al VI secolo a.C. Si tratta d’un tentativo di cambiamento di strategia, che non poté elaborarsi sino a raggiungere un efficace grado di sicurezza.52 Anche la tomba di giganti persiste nell’uso, in edizione nuova rispetto all’archetipo di stile dolmenico che si chiude alla fine del II millennio a.C. Ora si dà il via all’applicazione nel vano sepolcrale, di sezione angolare, della tecnica dell’aggetto, realizzando strutture in opera isodomica che raggiungono una raffinatezza indipendente da qualsiasi influenza esterna (si veda la tomba di Biristeddi-Dorgali). Anzi – osserva Lilliu – «la singolare tomba orientalizzante Regolini Galassi di Caere presenta notevoli riscontri nella camera con quella delle tombe megalitiche sarde, forse copiata, per curiosità di artista o per volere di capo, riadattando lo schema nella cittadina tirrena». E – aggiunge – si è tentati di «connettere la sagoma curvilinea con traversa in risalto della stele delle tombe di giganti, oltre che con le stele portoghesi di Britejros, di età celtica, con le stele felsinee del VI secolo a.C., se non esistesse il parallelo tipologico miceneo nelle tombe della città bassa».53 Un tipo di edificio nato nella fase preistorica, che assume rilievo, segnatamente per l’ornato architettonico, nella fase protostorica, è il tempio a pozzo (ve ne sono più d’una quindicina nell’isola). La fabbrica si connette, come 51. Bull. Paletn. it., V-VI, 1941-42, p. 158. 52. Bull. Paletn. it., V-VI, 1941-42, p. 174 ss. 53. Bull. Paletn. it., V-VI, 1941-42, p. 160 ss. 48 come origine, in particolare per avere la copertura a falsa volta, con il nuraghe: per così dire è un nuraghe interrato. Ma si distingue per la presenza d’un atrio rettangolare con banchine e accessori rituali e una scala a soffitto gradinato, che scende al fondo per consentire di attingere l’acqua consacrata per la liturgia. Come il nuraghe e la tomba di giganti, il tempio a pozzo è un monumento “nativo”, non vincolato a presupposti tipologici micenei dedalici, come recita la letteratura antica (Diodoro, IV, 30, V, 15, 2; ps. Arist., De mirab. auscult., 100). Quest’ultimo Autore, infatti, parla dell’esistenza in Sardegna di edifizi costruiti al modo greco arcaico e di altri, numerosi e belli, come le tholoi realizzate con mirabili cadenze: il tutto opera dell’eroe Iolaos, figlio di Ificle. Lilliu distingue differenti tecniche nei templi: una arcaica, con rozze murature come nei nuraghi, e una recente in pietre ben lavorate a scalpello con facciate scolpite a motivi d’ornato di stile geometrico. I più antichi pozzi risalgono al X secolo se non prima, i recenti hanno corso dal X all’VIII. Più interessanti i templi di Santa Anastasia-Sardara, Santa Vittoria-Serri, Predio Canopoli-Pèrfugas. Gli stessi motivi d’ornato “geometrico” si ritrovano nelle ceramiche. Vasi piriformi, brocche a becco, lampade ecc. Ma è la produzione di oggetti bronzei (armi, utensili, e figurine) ad esprimere la vivacità e inventiva di opere, nell’arte e nell’artigianato, della fase nuragica protostorica. Le figurine, i “bronzetti”, illuminano il mondo sociale, economico, religioso dei Protosardi. Rivelano classi, professioni, mestieri, atteggiamenti dello spirito. Sono rappresentati principi, sacerdoti, militari di ogni arma, pastori, contadini, artigiani. Poi donne di classe alta e bassa. Anche esseri sovrumani. Non manca il mondo degli animali, domestici e selvatici. E, infine, barchette, esportate anche in Etruria, che provano l’esistenza d’una marineria sarda, tramite di rapporti e contatti con popoli della penisola italiana e altre genti fenicie e greche. Sull’antico comune linguaggio mediterraneo, che si esplica nel gusto “geometrico”, nell’occhio 49 Prefazione 54. Bull. Paletn. it., V-VI, 1941-42, pp. 179-196; Studi Sardi, VIII, 1948, pp. 5-33; Sculture della Sardegna nuragica, Venezia, Alfieri, 1949, pp. 17-42, tavv. I-XLVIII. La cornice nella quale Pallottino racchiude lo sviluppo storico-culturale delle vicende dei Protosardi, propone un percorso cronologico dal 2000 (e ante) al 500 a.C. Le tappe sono quelle del neolitico antico e medio, dell’eneolitico, dell’eneolitico attardato e principio dell’età del bronzo, del nuragico pieno e del nuragico attardato. L’inizio d’una vita continuativa e d’uno sviluppo locale non può ritenersi, sino a prova contraria, anteriore al neolitico. Non è facile, del resto, ravvisare un neolitico allo stato puro, che avrebbe recato gruppi umani mediterranei commisti a tipi razziali assai arcaici, con economia di caccia e pesca, e forme primitive di agricoltura e di allevamento. Poi l’intensificarsi di scambi e navigazioni tra le diverse terre del Mediterraneo avrebbe procurato il progresso materiale e spirituale degli indigeni, l’aumento demografico e la proiezione nell’interno dell’isola. La statuina callipige detta “Venere di Macomer”, con riscontro formale in idoletti del neolitico romeno, potrebbe appartenere al neolitico antico o medio, mentre la ceramica incisa a fasce tratteggiate della grotta di San Michele-Ozieri e degli anfratti cagliaritani, gli oggetti in steatite delle tombe a circolo galluresi con richiami al subneolitico cretese, sembrano rivelare uno sviluppo anteriore alla fase del neolitico finale (o eneolitico sardo dominato da influssi iberici). In queste correlazioni puramente materiali è possibile che abbia fatto da tramite il traffico transmarino alla ricerca e allo scambio dell’ossidiana del Monte Arci. Il momento storico e cronologico sufficientemente determinato è quello dell’eneolitico, quando dalla penisola iberica arriva il così detto “vaso a campana”, che è il segno più appariscente e peculiare. Allora acquista rilievo l’orizzonte culturale di Anghelu Ruju, nel quale si rileva un’impronta locale nella produzione litica e anche in metallo, nonché negli idoli femminili in marmo e calcite, non dissimili, peraltro, dagli esemplari cicladici e anatolici. Una lontana ispirazione cretese si coglie nella rappresentazione in 50 51 di massa che sta al fondo di tutti i bronzetti, si trasfondono nuove linfe vitali, inflessioni dialettali, impulsi estetici individuali che si caratterizzano diversamente in varie zone, in un periodo di tempo relativamente stretto. Nella koinè convivono e si scambiano suggestioni e motivi che si determinano in tre gruppi stilistici. Il primo è quello di Uta, con figurine longilinee, piatte, rigide e fisse, costruzioni pure, essenziali. Può datarsi al VII secolo a.C. Il secondo gruppo, detto di Abini, senza negare in assoluto la forma plastica, si esplica in un ornamentalismo calligrafico sviluppato su armi e vesti e rivela una cultura artistica decorativa in un linguaggio figurativo tronfio, barocco. Si colloca tra la fine dell’VIII e il principio del secolo VII. Ultimo il gruppo “barbaricino-mediterraneo”, che si diversifica per una certa molle e sciolta rotondità di forme, per l’espressionismo dei visi talora deformi, gli atteggiamenti plebei. Una maniera di parlare popolare che contrasta l’arte “in divisa” alla quale re-pastori, sacerdoti e militari danno un’aristocratica maestà, ascetismo, durezza, insomma un’astrazione dalla realtà dell’umile vita quotidiana dei soggetti: questi autori ignoti, di gergo dialettale, operano nel VI-V secolo a.C. L’intera produzione delle figurine è inquadrata da Lilliu nella categoria del “barbarico” (cioè del “non classico”), che egli estende all’arte e alla civiltà dei Sardi dalla preistoria al presente.54 Questo è l’insieme di ricerche, studi, teorie, ipotesi, interpretazioni, ricostruzioni di quadri culturali della preistoria e protostoria sarda che si ritrova Massimo Pallottino. Ed è a confronto con tale panorama che si pone la sua Sardegna nuragica. Prefazione rilievo di protomi taurine in alcuni ipogei della necropoli di Anghelu Ruju. Non si esclude che dalla stessa Creta, o da Cipro o dall’Iberia sia venuto lo stimolo ad applicare in edifizi civili la tecnica della pseudocupola. Questo mondo di vita, dovuto forse a recente immigrazione di uomini e al commercio con diverse regioni del Mediterraneo, si svolge dalla seconda metà del III millennio a.C. all’inizio del II. La piena fioritura della civiltà nuragica nel primo millennio a.C. è determinata per riflesso dalla diffusione della “cultura del ferro”, civiltà di tipo superiore, “storico”, sino allora limitata all’Oriente mediterraneo. Ma non si deve parlare di “cultura del ferro” in Sardegna, perché vi persiste la “cultura del bronzo”. Il movimento di colonizzazione fenicia e greca in Occidente tocca anche la Sardegna e vi produce una nuova situazione storica, diversa da quella della penisola italiana. A spingere i colonizzatori, verso l’inizio del primo millennio, nell’isola, è la ricchezza di metalli. Essi, al principio, produssero soltanto una corrente pacifica di scambi con gli indigeni ma, alla fine, imposero un regime di monopolio e di controllo del territorio. I più forti furono i Fenici, venuti dalle coste dell’Africa settentrionale e dalla Sicilia, o dagli empori dell’Iberia (Cadice, Tartesso), fondati alla fine del II o all’inizio del I millennio, per procurare l’argento. Ad attirarli in Sardegna fu il rame. Anche qui, dapprima semplici approdi (port of call) marini o fluviali, diventati poi colonie a carattere urbano non più indietro dell’VIII-VII secolo a.C. I Greci, presenti nei mari occidentali sin dall’VIII, non sembrano essere stati attivi in Sardegna se non secondariamente e tardivamente. Forse i Massalioti vi fondarono la città di Olbia. Le reciproche influenze e interferenze tra cultura paleosarda e cultura dell’Etruria marittima settentrionale (Vetulonia e Populonia) tra l’VIII e il VI secolo a.C. denunciano una corrente di traffico attraverso il Tirreno, al quale si raccorda anche la presenza della marineria sarda. Nel caso particolare, è da escludere una mediazione dei Fenici. Notevole fu la portata di queste presenze sulla vita e la storia dei Sardi. La valorizzazione delle miniere, l’insegnamento della tecnica metallurgica agli indigeni da parte degli stranieri e la concessione o la vendita a questi del grezzo e del lavorato, portarono aumento di ricchezza e prestigio alle comunità del luogo, le quali mutarono mentalità, gusto e costumi. In conseguenza si formarono grossi borghi, si moltiplicarono e ingrandirono i nuraghi e si eressero tombe di giganti monumentali e templi a pozzo e fontane, taluni di perfetta struttura e con ornato architettonico mutuato da modelli esotici. Divenne corrente l’uso del bronzo per trarne armi, utensili, recipienti decorati, del piombo e del ferro, sebbene non frequente. Ambre e paste vitree d’importazione portarono ad apprezzare la bellezza che si esprime, di riflesso, anche nelle eleganti ceramiche locali e nella plastica in bronzo, decorate con motivi geometrici affini ad alcuni della tarda età ènea e di quella iniziale del ferro. I contatti tra indigeni e coloni favoriscono gli scambi reciproci di oggetti: ceramiche dipinte, fibule da fuori; armi, gioielli, barchette sarde all’esterno. L’intercambio produce affinità, per non dire comunanza di gusto, percepibile di più nei disegni delle brocche a becco e in soluzioni formali delle figurine di bronzo, presenti nell’isola e a Vetulonia d’Etruria nel periodo tra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo a.C. Tutto ciò indica progresso culturale e civile, sviluppo economico e sociale e capacità dei Sardi di introdursi nella dinamica mediterranea. Non si raggiunge, però, il massimo grado “politico”: l’adozione dell’organizzazione urbana e la scrittura. Questo stato di felicità ha fine con la conquista cartaginese della Sardegna negli ultimi anni del VI secolo a.C.: sconfitta in combattimento, una parte dei Sardi si ritira nelle montagne e qui regredisce verso forme di vita primitiva, ligia alla tradizione, un’altra parte si fonde, anche dal punto di vista etnico e culturale, con la potenza dominante. Allora, per gli indigeni nasce il problema di resistenza 52 53 Prefazione nazionale: l’interno e il nord dell’isola divennero il rifugio naturale dell’indipendenza sarda. L’esperienza di vita della Sardegna antica non può ridursi entro uno schema etnico e storico uniforme e astratto. La storia civile ed economica dei Protosardi deve vedersi col mutare dei tempi e delle vicende. Nelle fasi prenuragiche possono figurarsi piccoli gruppi umani con ordinamento egualitario di origine matriarcale e patriarcale. All’opposto, il fenomeno dei nuraghi denunzia l’accentrarsi dei poteri e dei mezzi nelle mani dei capi, in veste d’una autorità politica (e forse religiosa) nell’ambito di ciascun gruppo, fatto, questo, che appartiene a uno sviluppo più avanzato delle comunità mediterranee. I nuraghi si alzano nelle campagne, a guardia dei possessi agricoli, dei pascoli e degli approdi costieri. Dominano i villaggi, che si trasformano in borghi di parecchie centinaia di abitanti con dimore in muratura. La giurisdizione dei regoli è assai ristretta. Non si concepisce che ciascun nuraghe fosse la sede d’un potere autonomo. Il tipo costruttivo del nuraghe si adatta a diverse funzioni (anche religiose, industriali e altre). Il moltiplicarsi di nuraghi e rocche di specifica destinazione militare segna l’ampliarsi delle singole giurisdizioni e l’opportunità di agguerrirne i punti dominanti e i confini, in momenti di particolare pericolo. In questo senso si intendono parziali sistemi difensivi (“giara” di Gèsturi). Possibili i vincoli federativi di collegamento di comunità minori in complessi maggiori attorno ai santuari (Santa Vittoria di Serri), occasionalmente, in funzione di alleanze militari difensive e offensive. Possibile anche un adattamento e ampliamento di gruppi di fortilizi nuragici per la difesa collettiva contro Cartagine e Roma. Lo straordinario impulso subito dall’architettura civile in Sardegna è decisamente senza paralleli nel Mediterraneo protostorico. Altri aspetti della civiltà nuragica rivelano l’esistenza di personalità operanti nell’ambito d’un notevole accentramento di interessi politici e religiosi. Come nel mondo preellenico e protoellenico, la vita ferve presso alle corti e ai santuari. La presenza e il moltiplicarsi di edifizi sacri, templi a pozzo e sacelli rettangolari (questi ultimi a Santa Vittoria e a Serra Orrios-Dorgali), testimoniano il senso profondo di religiosità dei Sardi, i quali conservano gelosamente la tradizione degli eroi eponimi e fondatori, alcuni fatti oggetto di culto (Iolaos, Sardus), e adorano altre divinità nei singoli gruppi maggiori e minori. Né si esclude la devozione a un unico dio in tutto il territorio dell’isola: il Sardus pater, il quale si continua a venerare anche nei tempi del dominio cartaginese e romano. I Protosardi sono stati eminenti architetti e scultori. Dal punto di vista della tecnica costruttiva, la Sardegna antica appare al punto d’incontro, nello spazio e nel tempo, tra la tradizione megalitica occidentale e quella di opere murarie a blocchi di origine orientale. La prima si rivela nelle pietre fitte e nei dolmens, la seconda nei nuraghi. Nelle tombe di giganti convivono le due concezioni struttive. Il modo di costruire a filari di blocchi più o meno lavorati, grezzi o squadrati, si manifesta nelle false volte dei vani di nuraghi e pozzi sacri. L’opera quadrata pare successiva alla poliedrica. La pianta rotonda degli edifici costituisce il motivo più caratteristico dell’architettura paleosarda. In nessuna altra civiltà del mondo antico esso è trasferito sul piano monumentale in modo così magnifico e coerente. La foggia costruttiva della pseudocupola in aggetto, o tholos, fu introdotta in Sardegna forse quando era stata già applicata a edificazioni di pietra nell’architettura civile di Cipro (Khirokitia) e della Grecia premicenea (Orcomeno, Tirinto), oltre che nell’architettura funeraria da Cipro al levante spagnolo. I citati edifici rettangolari, di natura sacra, possono avere avuto stimoli dal megaron del mondo egeo, mentre la decorazione a penne delle cornici nelle facciate 54 55 Prefazione dei templi a pozzo di Santa Anastasia e Santa Vittoria ha tutta l’aria d’una schematizzazione delle cornici baccellate delle sime arcaiche greco-italiche e dei coronamenti delle stele puniche. Nel nuragico pieno (VII-VI secolo a.C.) emerge la bronzistica che rivela una profonda aderenza alle immagini e alle esigenze della vita locale, una complessità di soluzioni tipologiche, una relativa unità e originalità di forme, tali da riconoscere decisamente l’esistenza d’una cultura artistica paleosarda ben definita e distinta dalle altre contemporanee delle regioni mediterranee. Circa quattrocento statuine nuragiche in bronzo rappresentano figure maschili e femminili, guerrieri, animali, immagini mostruose. Talvolta le immagini sconfinano nella fantasia e nel simbolismo. Si hanno modellini di edifizi, navicelle e altri oggetti di donario e di arredo. I bronzetti rientrano nell’ambito della piccola plastica prearcaica, geometrica e orientalizzante, veicolata per le vie fenicia ed etrusca. Le figurine di bronzo applicate ad arredi, rinvenute specialmente a Vetulonia – il centro di più diretto contatto con la Sardegna – presentano alcune analogie di tipi e di soluzioni formali con le statuine nuragiche. Vi è una comunanza di temi e di sensibilità artistica tra il prodotto vetuloniese e quello sardo, al punto che riesce difficile decidere quale delle due regioni abbia per prima e con più vigore influito sull’altra. Ma, indipendentemente dalle sue origini e dalle varie sollecitazioni esterne, il complesso delle figurine nuragiche resta abbastanza definito nei propri caratteri fondamentali e forma una delle produzioni più compatte e originali della plastica protostorica mediterranea. Si tratta d’una produzione autonoma, con impronta unitaria, che non risulta dispersa dall’analisi approfondita che ha fornito Giovanni Lilliu, classificando i singoli bronzi in tre gruppi caratterizzati da distinti orientamenti stilistici: i gruppi di Uta, Abini e “barbaricino”. Questo è il quadro disegnato da Pallottino sulla base della documentazione archeologica, che assume una speciale importanza per il carattere evidente e concreto dei testimoni e per la sua capacità di offrire una puntualizzazione relativa ed assoluta delle vicende di vita delle antiche genti sarde. Il linguaggio dei monumenti, delle sculture, la trasparenza oggettiva della cultura materiale sono fonti eloquenti per trarre dalle stesse vicende un significato “umano”. Infatti coloro che produssero, nello spazio di almeno duemila e cinquecento anni, la civiltà paleosarda furono uomini attivi e organizzati, aperti alle comunicazioni, ai rapporti e alle grandi correnti di cultura che le vie del mare trasferirono e promossero da oriente a occidente. Essi elaborarono per virtù propria una singolare forma di civiltà, dalle apparenze inusuali e arcaiche, che andò progredendo nel corso dei secoli, seguendo un ordine, vocazioni ed eventi dei tempi, per toccare l’apogeo in piena età storica. Per la sua posizione e con le sue azioni quella sarda ebbe a contare e dare ricchezza, con le altre civiltà, all’antico mondo mediterraneo. Se i dati monumentali e le testimonianze archeologiche hanno un valore soprattutto sugli aspetti esteriori della vita e della cultura nelle loro caratteristiche e nelle loro successioni, non si estendono a illuminare le vicende storiche e a dare un nome ai loro protagonisti. Chi erano e a quale stirpe appartenevano gli indigeni sardi costruttori di nuraghi e i loro predecessori? Quali le origini e i caratteri etnici delle primitive genti sarde, del popolo o dei popoli dell’isola? La risposta, in questo ordine di indagini, può venire dal concerto di singoli elementi antropologici, linguistici e più propriamente etnografici. Al principio vi può essere stato un definito e isolato strato etnico, diventato, però, già complesso e composito al momento dell’apogeo della civiltà nuragica. Quanto all’aspetto antropologico, il fisico dei Sardi di età preistorica e protostorica, individuato nei materiali 56 57 Prefazione scheletrici recuperati da grotte e dagli ipogei di Anghelu Ruju, che non differisce sostanzialmente dai tratti somatici degli attuali abitanti della Sardegna, ma si diversifica dagli altri mediterranei, dimostra di appartenere alla varietà del così detto Homo mediterraneus sardus. Si avvertono differenziazioni di gruppi più aperti nel settentrione e più chiusi, con caratteri di maggior arcaismo, nel meridione dell’isola. Convergono a formarli caratteri ereditari (genotipici) e ambientali (paratipici) simili. Sulla quasi uniformità genetica hanno influito l’isolamento, le condizioni ecologiche e di vita, una certa tendenza all’endogamia. Tratti del soma assai peculiari sono la dolicefalia e la bassa e bassissima statura (in media m 1,55-1,60 nei maschi). Nel nord si presentano anche soggetti di brachicefalia euroasiatica, altrove elementi protoantromorfi. In definitiva si può parlare di una popolazione abbastanza omogenea, come quella dei Baschi. Un apporto che, pur non risolvendolo, viene a portare qualche luce sul problema dell’identità dei Sardi, collocata nel quadro comparativo della genesi e dell’appartenenza etnica di altri gruppi umani di sustrato mediterraneo, è dato dagli elementi linguistici, fatti emergere con grande competenza e originalità di vedute, da Massimo Pallottino. Gli indici linguistici hanno valore perché contengono una realtà intima e profonda capace di svelare la parentela etnica e, a volte, di dimostrare le origini remote, se non primordiali. Pallottino individua una parentela originaria tra le popolazioni delle regioni occidentali del Mediterraneo, alla quale appartiene la Sardegna. L’isola può rappresentare una provincia etnico-linguistico-culturale d’una ampia unità protomediterranea di cui fanno parte l’Iberia orientale, le Baleari e la stessa Sicilia occidentale, posto che la tradizione parla di genti iberiche ivi stabilite. In nessuna altra regione dell’area italiana e in quasi nessuna altra del mondo mediterraneo l’impronta linguistica primordiale traspare così chiaramente sotto la stratificazione delle parlate più recenti e attuali come in Sardegna. Nell’isola vi sono nomi di conformazioni naturali, animali e vegetali, di luoghi, costituenti un antichissimo patrimonio lessicale indigeno. La coerenza e consistenza del sustrato linguistico e l’estensione in tutto il territorio assicurano che ci si trova di fronte alla lingua parlata dai Paleosardi. E inducono a ritenere che questa lingua ebbe modo di affermarsi per un lungo periodo e con una spiccata impronta unitaria nell’intera Sardegna. Tale sustrato linguistico prelatino, che appartiene sostanzialmente a un tipo di linguaggio mediterraneo preindoeuropeo, presenta marcate analogie morfologiche, fonetiche e nella struttura delle radici con il sustrato iberico. Risaltano soprattutto le congruenze con elementi del patrimonio lessicale e formativo della lingua basca. Questa remota area linguistica paleosarda-iberica-basca si differenzia da altri fenomeni che si suole denominare “mediterranei”, come quelli propri dei sustrati reto-tirreno, ligure, egeo e asiatico. Essa appartiene, nell’apparenza, a una stratificazione più antica confermata dalla collocazione geografica marginale. L’insularità della Sardegna e il carattere appartato montagnoso dei paesi pirenaici giustificherebbero la sopravvivenza della lingua di sustrato sino a tempi storici, di fronte alla diffusione e al predominio di altri tipi linguistici più recenti. L’estensione uniforme sui territori della Sardegna dei monumenti, dei prodotti d’arte, e del tipo fisico, della lingua, della religione, della stessa cultura materiale, può giustificare l’ipotesi di riconoscere l’esistenza d’un tipo etnicoculturale paleosardo: ossia un popolo. Che gli antichi abitatori – di cui il popolo si costituiva – si designassero con il nome collettivo di Sardi, Sardani, Sardoni, potrebbe inferirsi da alcuni documenti. Da tempo si è ipotizzato di identificare i Sardi con il “popolo del mare” dei Sherdanw o Sàrdina, ricordati e raffigurati in monumenti e testi egizi: rilievi nei templi di Habu Simbel-Karnak e di Medinet Habu, 58 59 papiro Wilbour dei secoli XIII-XII a.C. Il supposto avrebbe valore se tali testi si riportassero a una popolazione effettivamente collegata dal punto di vista territoriale alla Sardegna: il che non è certo. Tuttavia, pur mancando una prova assoluta, Pallottino afferma di non potersi negare che il sommarsi di diversi argomenti favorevoli e la mancanza di concreti argomenti contrari, inducono piuttosto ad accettare che a respingere una connessione dalla quale verrebbe ad essere illuminata, benché di scorcio, una fase particolarmente remota ed oscura della storia e della civiltà delle genti paleosarde. Altro testo – autorevole – è la citazione del nome della Sardegna e, di riflesso, di quello etnico dei Sardi, in una stele, con lettere fenicie, di Nora, del secolo IX a.C. Se quello di Sardi fosse stato, anche nel passato, il nomen dato agli abitanti di tutta l’isola, cioè alla struttura unitaria di un popolo e di una civiltà nazionale, gli altri nomi di genti ripetutamente ricordate dalle fonti letterarie greco-romane, quali gli Iolei, i Balari e i Corsi, dovrebbero ritenersi denominazioni “provinciali” di gruppi umani appartenenti al sistema cantonale dell’isola. Pallottino crede possibile che le popolazioni sarde, sia nei tempi della massima fioritura autonoma che, successivamente, nelle fasi del loro progressivo restringersi ed esaurirsi sotto la pressione dei colonizzatori stranieri, abbiano avuto chiara consapevolezza della loro unità di stirpe e di tradizioni civili. Un ammonimento per i Sardi di oggi, mi viene da dire, chiudendo questa presentazione nel ricordo affettuoso e grato del mio caro Maestro e Collega Massimo Pallottino. Giovanni Lilliu 60 NOTA BIOGRAFICA Massimo Pallottino nasce a Roma il 9 novembre 1909. Discepolo di Giulio Quirino Giglioli, si laurea in Lettere nel 1931 presso l’Università di Roma, con una tesi di Etruscologia sulla città di Tarquinia. Nel 1933 ottiene l’incarico di Ispettore presso la Soprintendenza alle Antichità di Roma e assume anche la direzione del Museo Nazionale di Villa Giulia. Nel 1937 diventa libero docente di Etruscologia e tre anni dopo, nel 1940, vince il concorso per la cattedra di Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana ed è chiamato all’Università di Cagliari, dove svolge contemporaneamente anche la funzione di Soprintendente alle Antichità della Sardegna. Questo incarico gli offre l’occasione di compiere alcuni scavi archeologici, in particolare nelle terme dell’antica Turris Libisonis – attuale Porto Torres – ancora oggi denominate “Terme Pallottino”. Nel 1942 il Ministero gli conferisce un incarico di studio per la redazione del Corpus Inscriptionum Etruscarum. A Roma il 25 luglio 1943, è richiamato alle armi con il grado di Tenente. Dall’8 settembre è alla macchia per diversi mesi e sino alla fine dell’occupazione tedesca collabora alla redazione di un giornale clandestino. Al termine del conflitto, prende parte alle iniziative italiane e internazionali per la creazione di nuovi organismi di cooperazione tra studiosi di diverse nazioni nel campo dell’archeologia e in generale degli studi umanistici, come l’Unione Internazionale degli Istituti di Archeologia, Storia e Storia dell’Arte in Roma e l’Associazione Internazionale di Archeologia Classica: di quest’ultima è stato tra i fondatori e organizzatori, curando per molti anni la redazione del notiziario annuale Fasti Archaeologici. All’inizio del 1946 gli è assegnata la cattedra di Etruscologia e Archeologia Italica presso la Facoltà di Lettere e 61 Filosofia dell’Università di Roma, che terrà fino al 1980. Dal 1985 è a riposo con la qualifica di Professore Emerito. Parallelamente all’insegnamento dirige l’Istituto Universitario di Archeologia e Antichità Italiche da lui creato, promuove la pubblicazione della collana Studi e Materiali di Etruscologia e Antichità Italiche e fonda il Museo Didattico dell’Istituto. Cura, inoltre, in collaborazione con l’Istituto di Archeologia di Roma, la rivista Archeologia Classica, in qualità di Direttore Responsabile. Dal 1956 al 1967 dirige l’Enciclopedia Universale dell’Arte, pubblicata dalla Sansoni e dalla Fondazione Cini, con parallela edizione americana. Nel 1970 per sua iniziativa nasce il “Centro di studio per l’Archeologia etrusco-italica” del Consiglio Nazionale delle Ricerche, di cui assume la direzione. Nel 1972 è eletto Presidente dell’Istituto di Studi Etruschi e Italici. È docente presso l’Università Italiana per Stranieri di Perugia e vi riveste anche il ruolo di coordinatore del corso di Etruscologia e Antichità Italiche. È tra i fondatori dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria. Già membro del Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti, è chiamato a far parte della Commissione presieduta dall’onorevole Francesco Franceschini, che lavora intensamente dal 1964 al 1966, con l’obiettivo di creare un programma d’azione nazionale in questo campo. In qualità di membro del Consiglio Nazionale per i Beni Culturali e Ambientali, partecipa al Comitato del settore per i Beni Archeologici, come Presidente del Comitato di settore per gli Istituti Culturali fino al 1989. Svolge un’azione parallela sul piano internazionale, in qualità di esperto europeo, collaborando alla preparazione della “Convenzione per la difesa del patrimonio archeologico europeo”, approvata nel 1970. È vicepresidente della Società Dante Alighieri e fa parte della “Commissione Nazionale per la diffusione della cultura italiana all’estero” del Ministero degli Affari Esteri. Muore il 7 febbraio 1995. Studi Etruschi I-V – Indici epigrafici e linguistici, Firenze, 1932. Elementi di lingua etrusca, Firenze, 1936. Gli Etruschi, Roma, 1939, 19402. Arte figurativa e ornamentale, Roma, 1940. Il liber linteus di Zagabria: trascrizione critica, Roma, 1940. La necropoli di Cerveteri, Roma, 1940. Etruscologia, Milano, 1942, 19777 (tradotto in francese, tedesco, spagnolo, inglese, portoghese, polacco e ungherese). La scuola di Vulca, Roma, 1945. L’Arco degli Argentari, Roma, 1946. L’origine degli Etruschi, Roma, 1947. La Sardegna nuragica, Roma, 1950. Testimonia linguae etruscae, Firenze, 1954, 19682. Etruskische Kunst, Zürich, 1955 (tradotto in francese e inglese). Mostra dell’arte e della civiltà etrusca, Milano, 1955, 19552 (tradotto in francese, olandese e norvegese). Tarquinia – Wandmalereien aus etruskischen Gräbern, München, 1955. L’Italia alla scoperta del suo passato. Quindici anni di 62 63 NOTA BIBLIOGRAFICA SCRITTI DI MASSIMO PALLOTTINO Si elencano di seguito le opere più importanti, edite in volume; la bibliografia completa (670 titoli) si trova nell’opuscolo pubblicato in occasione del conferimento a Pallottino del Premio Internazionale I cavalli d’oro di San Marco (VII edizione, Venezia, 30 novembre 1991, pp. 27-61). progressi nelle ricerche e negli studi archeologici, Perugia, 1959. Tarquinia, Milano, 1959. Arte delle situle dal Po al Danubio, Firenze, 1961 (tradotto in sloveno e austriaco). Che cos’è l’archeologia, Firenze, 1963, 19682 (tradotto in inglese). Artisti greci in Etruria. A proposito delle nuove scoperte di Pyrgi, Stockholm, 1965. Projet d’action culturelle en vue de protéger le patrimoine archéologique, Strasbourg, 1965 (tradotto in inglese). È conciliabile la salvezza del patrimonio artisico e monumentale della nazione con lo sviluppo della vita moderna?, Roma, 1966. Kunst und Kultur der Etrusker unter Berücksichtigung der neuesten Funde, Wien, 1966 (tradotto in svedese e italiano). Introduzione al concetto di storia italica, Roma, 1968. Civiltà artistica etrusco-italica, Firenze, 1971, 19722. Archeologia. Cultura e Civiltà del passato nel mondo europeo ed extraeuropeo, Milano, 1978. Saggi di antichità, voll. I-III, Roma, 1979. Genti e culture dell’Italia preromana, Roma, 1981. Storia della prima Italia, Milano, 1984, 19853 (tradotto in tedesco, olandese e inglese). Thesaurus Linguae Etruscae I, Indice Lessicale, Primo supplemento, Roma, 1984. Thesaurus Linguae Etruscae I, Indice Lessicale, Ordinamento inverso dei lemmi, Roma, 1985. Thesaurus Linguae Etruscae I, Indice Lessicale, Secondo supplemento, Roma, 1991. Origini e storia primitiva di Roma, Milano, 1993. 64 LA SARDEGNA NURAGICA PREMESSA La Mostra dei Bronzi Nuragici e della Civiltà Paleosarda, tenacemente promossa dal “Gremio” ed allestita dalla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti come terza nella serie delle mostre didattiche del Ministero della Pubblica Istruzione, è un’occasione veramente preziosa per inserire la Sardegna nuragica nell’attualità critica degli studi preistorici e storici. L’interesse per questa grande sconosciuta fu già saggiato con la esposizione delle statuette di bronzo paleosarde tenuta a Venezia nel 1949, che apparve rivelatrice non soltanto agli artisti e agli uomini di cultura in genere, ma agli stessi specialisti di storia dell’arte e della civiltà antica. Altro infatti è la conoscenza prevalentemente libresca, comune, per quanto riguarda la Sardegna nuragica, alla maggior parte dei paletnologi e degli archeologi; altro il suscitarsi di una passione di ricerca o di un vasto dibattito di problemi, quali soltanto possono derivare dalla visione diretta dei suoi monumenti singolari ed affascinanti: dei piccoli e mobili, per ora almeno, fino a quando l’isola non divenga, come merita, una delle mete ricercate e tradizionali dei pellegrinaggi scientifici e dei vagabondaggi turistici mediterranei. La civiltà dei nuraghi si direbbe invero ancora oggi, nonostante decenni di esplorazioni e di studi, relegata quasi sul margine dell’interesse della disciplina preistorica ed archeologica ufficiale, come un dominio incantato e nebuloso, disseminato di agguati e di misteri. Gli scavi sistematici iniziati soltanto agli albori del nostro secolo, in modo frammentario, e tuttora limitatissimi rispetto all’ampiezza del territorio e al numero imponente delle superstiti rovine antiche; le pubblicazioni per lo più confinate in atti accademici di scarsa diffusione o in periodici 69 LA SARDEGNA Premessa NURAGICA e fascicoli circoscritti all’ambiente isolano; la stessa natura della cultura paleosarda, apparentemente chiusa in se stessa e segnata da caratteri di inconfondibile originalità, tale da aver scoraggiato, sino a questi ultimi anni, un tentativo di inquadramento organico e criticamente soddisfacente della Sardegna nello sviluppo della preistoria e protostoria mediterranea: tutti questi motivi, singolarmente o presi assieme, potranno addursi a spiegare le perduranti incertezze ed approssimazioni nella conoscenza e nella valutazione di una delle più suggestive esperienze culturali del mondo antico. Se alla Sardegna preromana manca l’eco della tradizione poetica e storica che nobilita gli avanzi delle civiltà preclassiche del Mediterraneo orientale, il linguaggio delle sue innumerevoli torri ciclopiche, dei suoi monumentali sepolcri, delle sue vivaci sculture s’impone eloquente a chi sappia e voglia intenderne il significato umano. Giacché fabbricatori di quelle opere grandiose e preziose non furono i giganti e le fate della leggenda locale, né il Dedalo del mito greco, né le astratte figure di antichissimi e solitari pastori-guerrieri evocate da alcuni archeologi moderni; bensì uomini concretamente attivi ed organizzati, aperti alle grandi correnti di cultura che le vie del mare trasferivano ed accendevano da oriente ad occidente fra il secondo e il primo millennio avanti Cristo, artefici essi stessi di una particolare forma di civiltà che, pur con le sue apparenze inconsuete ed arcaiche, toccò l’apogeo in piena età storica, e cioè nel periodo della colonizzazione del Mediterraneo occidentale da parte dei Fenici e dei Greci. Le pagine che seguono – frutto di una qualche esperienza delle antichità sarde e dei problemi storici, archeologi e linguistici del mondo mediterraneo – vorrebbero appunto contribuire, nei limiti di spazio e di forma concessi alla trattazione, ad affermare quell’indirizzo e processo di chiarificazione e di obbiettivazione “storica” della civiltà paleosarda, che appare ormai desiderabile e maturo e di cui si avvertono salutari indizi nei lavori recentissimi: premessa indispensabile ad un più sicuro apprezzamento e ad un più vasto interesse degli studiosi per i monumenti della Sardegna primitiva. Sono grato ai colleghi Dott. Gennaro Pesce, Soprintendente alle Antichità della Sardegna, per le primizie sui recentissimi ed importanti ritrovamenti di Macomer, di cui egli ha voluto generosamente farmi partecipe, e Professori Giorgio Levi della Vida, Riccardo Riccardi e Paolo Graziosi, per alcune indicazioni bibliografiche e suggerimenti assai vantaggiosi alla relativa completezza della sintesi da me tentata. L’amico Dott. Dino Adamesteanu ha contribuito, con la sua competenza e diligenza, a rendere corretta, nei limiti del possibile, la stampa del testo e delle bibliografie. 70 71 Roma, marzo 1950 LA SARDEGNA NURAGICA L’AMBIENTE GEOGRAFICO G Arzachena 72 73 A 1. Carta della Sardegna, con l’indicazione dei principali luoghi e monumenti delle civiltà preromane. La particolare geomorfologia della Sardegna ebbe senza dubbio una notevole funzione determinante, non soltanto sui fatti biologici, ma anche sugli aspetti riguardanti la storia dell’incivilimento umano nell’isola. Dopo la Sicilia, essa è la più grande terra insulare del Mediterraneo (estesa per 270 km nel senso della longitudine, e per poco più di 100 km nel senso della latitudine, occupa una superficie di 23.835 km2); ed emerge in una posizione centrale e predominante nel bacino mediterraneo occidentale, fra la Corsica, dalla quale la separa soltanto uno stretto canale, le coste della penisola italiana, la Sicilia, l’Africa e l’arcipelago balearico. Forma con la Corsica un unico massiccio, ma la sua struttura e la sua storia geologica presentano considerevoli peculiarità. L’arcaismo delle sue rocce – le più antiche emerse dei territori italiani – è legato alla formazione di una piattaforma cristallina paleozoica che poté resistere alle vicende delle ere successive, sia pure arricchendosi di depositi calcarei e dolomitici e di effusioni vulcaniche, e fratturandosi in conseguenza dei movimenti orogenetici terziari, onde ebbe origine la fossa longitudinale che corre attraverso l’isola dal golfo di Cagliari a quello dell’Asinara. Alla mineralizzazione delle rocce paleozoiche è dovuta la ricchezza dei giacimenti metalliferi sardi. Le invasioni marine delle zone di frattura, specialmente in corrispondenza dei cosiddetti Campidani, portarono al formarsi di terreni pianeggianti favorevoli alle culture agricole. Da questa complessa avventura geologica risulta determinata l’attuale morfologia della Sardegna: prevalentemente montuosa, pur senza notevoli altitudini, specie nella metà orientale dell’isola, dove è sopravvissuto il tratto principale dell’antico massiccio cristallino; mentre ad occidente s’incontrano pianure, altipiani lavici e i gruppi montagnosi LL U Cabu Abbas R Sa Testa A NU RR A N. Palmavera Anghelu Ruju OLBIA N. Majori S. Maria A N di Tergu GL ON A S. Michele di Ozieri N. Santu Antine S. Andrea Priu BOSA Serra Orrios Macomer BA RB N. Losa Abini Fordongianus LI IA OG AG CORNUS N. Lugherras AS ThARROS TR OTHOCA A Giara di Gesturi PI EN TA DA N G O Z A M INE R A R I A ON Ballao ER Uta N. Orcu CARALIS Serrucci S. Bartolomeo SULCIS R EI RAB M T X RE US Giara di Serri Sardara SAR CA NEAPOLIS nuraghi borghi nuragici pozzi o cisterne monumentali sepolcreti rupestri città fenicio-puniche Sarroch NORA limite approssimativo della penetrazione cartaginese BITHIA LA SARDEGNA L’ambiente geografico NURAGICA isolati dell’Iglesiente a sud e della Nurra a nord. Mancano importanti valli fluviali; ché il regime dei corsi d’acqua ha carattere per lo più torrentizio. Le coste appaiono assai frastagliate e ricche di isole a settentrione, montuose lungo il fianco orientale dell’isola, basse e facilmente accessibili, con golfi e lagune, in diversi tratti del litorale meridionale ed occidentale. L’arcaismo della genesi geologica dell’isola parrebbe prolungarsi anche in taluni aspetti della vita naturale, vegetale ed animale, che, pur nella sua generale fisionomia mediterranea, offre singolari manifestazioni di isolamento, rispetto alle terre circostanti, e di sopravvivenza (per esempio assenza di numerose specie zoologiche italiane, presenza di specie e varietà affini con caratteri propri, tra i quali prevale il fenomeno del nanismo, e di specie endemiche peculiari del massiccio sardo-corso, quale il muflone). Le condizioni attuali dell’ambiente naturale sardo rispecchiano sostanzialmente quelle proprie dei tempi antichi. All’opera dell’uomo si deve la distruzione del rigoglioso mantello boschivo che doveva coprire tanta parte del rilievo dell’isola, con le relative alterazioni del regime idrologico, e l’introduzione delle culture agricole e di razze animali domestiche. Il classico paesaggio sardo, con le sue severe torri nuragiche, i suoi recinti di pietrame e le sue siepi di fico d’India, le sue capanne di pastori e i suoi greggi erranti, è in gran parte il risultato di questa millenaria attività culturale. Ma mentre altrove una vita storica intensa e progressiva ha subordinato la realtà ambientale alle sue esigenze e alle sue manifestazioni, in Sardegna la operosità degli uomini ha coesistito con il quadro naturale dalla impronta peculiare ed arcaizzante, fondendosi con lento ritmo nel suo colore. Le più gravi condizioni imposte dalla natura allo svolgimento della civiltà umana in Sardegna son quelle che derivano dalla insularità del territorio, combinata con la sua relativa ampiezza e con la sua particolare conformazione. È un ambiente che, anche volendo escludere il valore rigidamente determinante del fattore geografico, si presta a favorire – come in altri casi consimili – l’accoglienza di correnti migratorie e culturali provenienti dall’esterno e il loro lento assorbimento ed adattamento locale. Di tale processo, eminentemente recettivo, chiuso e conservatore, la storia sarda meno remota e la dialettologia e la etnografia isolana presentano manifestazioni sicure, universalmente note. La maggiore accessibilità dal mare crea per le coste della Sardegna meridionale ed occidentale una situazione di privilegio nei rapporti con il mondo esterno. Le zone pianeggianti dei golfi di Cagliari e di Oristano paiono destinate a funzionare da porte d’ingresso per la recezione ed il primo assorbimento degli elementi stranieri; mentre l’interno, e specialmente il settore orientale dell’isola, equivale ad una sacca nella quale si rielaborano lentamente e spesso si conservano con secolare immobilità le forme di vita e di cultura assimilate. Donde si manifesta, sulla base della difformità geografica, quella sorta di dualismo ambientale, tuttora almeno in parte riconoscibile, i cui estremi si identificano da un lato con i porti di origine punico-romana (Cagliari, Sant’Antioco, Porto Torres) e con il loro retroterra, da un altro lato con le impervie e desolate regioni montuose della Barbagia e dell’Ogliastra. A queste condizioni del litorale si deve senza dubbio l’orientamento della Sardegna piuttosto verso l’Africa e le terre iberiche, nonostante la maggiore vicinanza dell’Italia collegata ad essa, attraverso la Corsica, da un’ininterrotta via di navigazione costiera. È una tendenza che interessa la storia dell’antichità come quella del medioevo. Va rilevata, in particolare, la portata ristretta delle relazioni con la Corsica, i cui destini culturali, politici, linguistici furono fin dalle origini diversissimi da quelli dell’isola sorella, fatta eccezione per la estremità settentrionale della Sardegna, e cioè la Gallura, che appare relativamente isolata dal restante del 74 75 LA SARDEGNA NURAGICA TRADIZIONI LETTERARIE E DATI ARCHEOLOGICI territorio isolano ed aperta con le sue coste frastagliate verso settentrione e presenta perciò remoti legami etnico-culturali con la Corsica. Le risorse del territorio non hanno mancato di esercitare un certo influsso sugli aspetti assunti dalla civiltà in Sardegna. Le grotte naturali, favorevolmente ubicate in prossimità delle coste; i caratteristici pianori lavici che vanno sotto il nome di “giare”; le isolette e i promontori atti a proteggere lo stanziamento di genti transmarine: in queste ed altre peculiari conformazioni ravvisiamo le premesse di alcuni aspetti culturali e storici dell’antica vicenda umana dell’isola. La ricchezza del materiale di pietra da costruzione, anche facilmente utilizzabile perché spesso già sfaldato e fratturato, caratterizza le zone montuose dell’isola e dà un’inconfondibile impronta all’attività edilizia, che nelle primitive moli nuragiche e nei monumenti affini si manifesta con vigore d’impegno e grandiosità di concezione, per poi scadere attraverso i secoli in un’impoverita tecnica di piccole abitazioni e recinzioni. È possibile che un’estensione dei boschi assai maggiore dell’attuale abbia favorito, almeno in alcune zone, la utilizzazione del materiale ligneo per l’edilizia e per le costruzioni navali; mentre nei Campidani, dove manca la pietra, la sua funzione deve essere stata assolta anticamente come oggi dall’argilla cruda. Per la vita culturale della Sardegna ebbero importanza la utilizzazione industriale delle locali ossidiane, dei quarzi, ecc., donde si trassero fini armi e strumenti scheggiati e ritoccati; ma soprattutto la individuazione e lo sfruttamento dei giacimenti metalliferi caratterizzanti in particolare la zona dell’Iglesiente (rame e piombo argentifero), i cui prodotti, adoperati sempre più largamente in sostituzione di minerale importato, diedero uno speciale carattere alla produzione industriale ed artistica indigena e costituirono un indubbio elemento di attrazione per gli stranieri, con rilevanti conseguenze per le vicende storiche dell’isola. La Sardegna nuragica non ha lasciato, per quanto sappiamo, documenti scritti della sua lingua, della sua cultura e della sua storia. I soli dati della tradizione antica che la concernono sono quelli forniti dalle fonti letterarie ed epigrafiche dei popoli esterni venuti a contatto con l’isola. Le nostre cognizioni dirette si basano quindi essenzialmente sui monumenti superstiti e sulle testimonianze archeologiche, il cui valore dimostrativo riguarda, come è ovvio, soprattutto gli aspetti esteriori della vita e della cultura, nelle loro caratteristiche e nelle loro successioni, ma non si estende ad illuminare le vicende storiche e a dare un nome ai loro protagonisti. Onde i metodi ricostruttivi propri della preistoria si affermano necessariamente prevalenti nello studio delle antichità paleosarde, come in quello di altre numerose esperienze culturali della protostoria mediterranea; anche se esista la possibilità e s’imponga la esigenza di tener conto di tutti quegli elementi, estranei allo studio delle culture preistoriche vere e proprie, dai quali risulta un’integrazione collaterale del nostro quadro ricostruttivo. Le fonti letterarie classiche, greche e latine, offrono purtroppo notizie limitate, disperse e spesso malsicure sulla civiltà indigena della Sardegna: frutto di quella curiosità geografica ed etnografica che si afferma nel mondo ellenico a partire dal VI secolo a.C. e che spesso sconfina nel campo fantasioso della speculazione mitica. Si aggiunga che in molti casi le trattazioni originali (per esempio degli storici e dei geografi ionici e degli storici sicelioti) sono andate perdute; e noi possediamo di loro soltanto frammenti o rielaborazioni tardive ed adulterate. L’accenno dell’Odissea (XX, 302) al riso sardavnion di Ulisse (col probabile senso di un riso falso od amaro) costituisce lo spunto iniziale di gran parte delle informazioni 76 77 LA SARDEGNA Tradizioni letterarie e dati archeologici NURAGICA ed elaborazioni etnografiche della letteratura classica sulla Sardegna. Il termine, usato nella stessa accezione da diversi scrittori greci posteriori, è unanimemente riferito dagli antichi ai costumi del popolo sardo e spiegato in diverse maniere. Ma la sua vera origine ci sfugge: e si è perfino dubitato dai moderni, probabilmente a torto, della sua connessione con la Sardegna. Ad una tradizione senza dubbio assai remota e del pari oscura risale la storia di Simonide di Ceo (Suda, s. v.) sulla guerra fra i Sardanii e i Cretesi di Minosse. Le prime notizie geograficamente ed etnograficamente sicure sulla Sardegna risalgono alla letteratura ionica (probabilmente già ad Ecateo di Mileto, Periodos; fonti del Periplo dello Pseudo-Scilace; Erodoto I, 170; V, 106, 124; VI, 2). Gli accenni al popolamento, alla storia semileggendaria, all’edilizia e ai costumi dell’isola si intensificano nel IV secolo (Aristotele, Phys. IV, 11, 1; Eforo, probabilmente in Diodoro Siculo IV; Timeo di Taormina, frammenti e derivazioni varie in scritti posteriori) e divengono frequenti, seppure per lo più concisi e dispersi, in età ellenistica e romana. Le trattazioni più organiche e particolareggiate che ci siano pervenute sono quelle del trattatello pseudoaristotelico De mirab. auscult. 100, probabilmente derivata da Timeo; di Diodoro Siculo, IV 29 ss. e 82, V, 15, forse parzialmente legato ad Eforo e Timeo; di Pausania Perieg., X, 17; e di Solino, Collectio rerum memor. I, 61, IV, 1 ss., attingente alle perdute Storie di Sallustio. Il nome dell’isola ci è tramandato nella forma greca hJ Sardwvn, hJ Sardwv, con l’aggettivo etnico Sardavnioı, Sardov nioı, Sardw/~ı (in latino Sardinia, aggettivo Sardus); ma s’incontrano anche le denominazioni dotte Sandaliotis (da savndalon, sandalo) e Ichnusa o Ichnussa (da i[cnoı, pianta del piede), che attestano una cognizione cartografica della forma dell’isola. Le tradizioni sul popolamento della Sardegna e sulle sue primitive vicende sono generalmente concepite come racconti relativi a stanziamenti e a colonizzazioni di eroi e genti straniere nell’isola. Esse hanno senza dubbio origini distinte, più o meno antiche, ed appaiono in età ellenistico-romana, presso gli autori sopra citati, fuse assieme in narrazioni complesse, nelle quali le singole occupazioni leggendarie si succedono le une alle altre, talvolta in numero ed in ordine alquanto diverso. Si ha anzitutto l’accenno ad una fase originaria in cui l’isola era deserta, sterile e abitata soltanto da grandi uccelli; né mancano allusioni ad una popolazione indigena o aborigena non meglio identificata. Come immigranti e colonizzatori sono ricordati: i Libici guidati dall’eroe Sardo, che avrebbe dato il suo nome all’isola e vi sarebbe stato poi venerato come dio; gl’Iberi con Norace, proveniente da Tartesso e fondatore della città di Nora; un gruppo di Tespiadi sotto la guida di Iolao, il mitico compagno di Eracle, sepolto (secondo una versione) nell’isola ed ivi venerato come eponimo del popolo locale dei Iolaei o Iliei (∆Iolaei`oi, ∆Iliei`ı, Ilienses) e della regione della Sardegna da loro abitata (Iolaio, Iolaia); l’eroe Aristeo, figlio di Apollo e della ninfa Cirene, proveniente anch’esso dal mondo greco. A queste tradizioni più antiche ed accreditate si aggiungono riferimenti ad altre immigrazioni leggendarie di Troiani (probabilmente per la affinità del nome di Ilio con gli etnici locali dei Iolaei, Iliei o Iliensi); di Ateniesi fondatori della città di Ogryle, forse da identificare con Gurulis, l’odierna Cùglieri (anche qui per la consonanza con il nome del demo attico di Agryle); di Tebani (Cadmei); di Locresi; di Etoli. Alcuni di questi mitici coloni sono posti in relazione con le imprese di Iolao. Per comprendere lo “spirito” delle storie riguardanti le più antiche colonizzazioni della Sardegna, occorre tener presente che esse, pur contenendo elementi derivanti dalle cognizioni geografiche ed etnografiche, dirette od indirette, dei navigatori e dei coloni greci venuti a contatto con le terre dell’occidente sin dagli albori della storia ellenica e nuclei di tradizioni anelleniche (indigene e fenicio- 78 79 LA SARDEGNA Tradizioni letterarie e dati archeologici NURAGICA puniche), fanno parte sostanzialmente della elaborazione mitografica e storiografica nazionale greca. Ciò spiega il motivo fondamentale e costante che si ravvisa nei diversi racconti: e cioè l’affermazione che la civiltà fu introdotta in Sardegna dai colonizzatori greci, e più precisamente da Iolao o da Aristeo. I due aspetti più rilevanti di questa civiltà, storicamente accertabili dagli antichi, sono lo sfruttamento agricolo dell’isola e i suoi grandiosi monumenti. Così Iolao come Aristeo ci appaiono maestri di agricoltura ed alle loro leggende s’intreccia, in pari tempo, il ricordo di un’attività edificatrice, che, secondo alcune versioni, è attribuita all’artefice Dedalo venuto da Creta in Sardegna. Lo pseudo-Aristotele parla di opere costruite nella “tecnica greca primitiva” e in forma di colossali tholoi (evidente riferimento ai nuraghi); Diodoro (IV, 29) ricorda ginnasi e dicasteri, vale a dire edifici pubblici che implicano un’organizzazione di tipo urbano. A queste forme di incivilimento acquisite dall’oriente ellenico la tradizione contrappone lo stato selvaggio (nuclei di popolazione sparsa, abitante in capanne o caverne: cfr. Pausania X, 17, 2) degli indigeni e degli immigrati libici. L’antitesi è ulteriormente sviluppata attraverso la narrazione di vicissitudini che dalle origini leggendarie si spostano verso motivi e momenti di maggiore consistenza storica. Il racconto della conquista cartaginese della Sardegna, che presso gli autori citati fa seguito alla elencazione delle colonizzazioni primitive, è configurato come la causa della rovina dell’antica floridissima civiltà agricola dell’isola e dell’imbarbarimento dei suoi abitanti. Si tratta senza dubbio di un acceso spunto polemico, dovuto alla rivalità fra Greci e Cartaginesi nel Mediterraneo occidentale e specialmente in Sicilia. Ma è notevole (soprattutto nelle fonti di Pausania) anche il motivo di una contrapposizione fra le zone pianeggianti e coltivate della Sardegna e le sue regioni montuose e settentrionali, rifugio dei popoli soccombenti alle successive invasioni transmarine e persistenti in una condizione di inferiorità culturale. Tra questi erano gli Iliei e i Balari (originati da una sedizione di mercenari libico-iberici contro i Cartaginesi); nonché i Corsi (Kuvrnioi) sbarcati dalla loro isola nel settentrione della Sardegna. E a proposito dell’etnografia protostorica della Sardegna non si può trascurare l’accenno di Strabone (V, 2, 7) alla tradizione che gl’indigeni sardi erano Tirreni; ciò che potrebbe richiamare a rapporti fra Sardegna ed Etruria che riecheggiano nel riferimento dello stesso autore (V, 2, 6) ad incursioni di montanari sardi sulle coste etrusche settentrionali. Prescindendo dai dati sinora esposti, una colonizzazione fenicia in Sardegna è attestata da Diodoro (V, 35, 5), nel quadro della espansione coloniale dei Fenici nell’occidente mediterraneo. Elementi storici più circostanziati possediamo a proposito della conquista dell’isola da parte di Cartagine (Polibio I, 10, III, 47, 1-5; Pompeo Trogo in Giustino, XVIII, 7, 1, XIX, 1 ss.), nelle successive spedizioni di Malco e dei due figli di Magone, Asdrubale ed Amilcare, che trovarono accanita resistenza presso le popolazioni indigene. Si tratta di avvenimenti che vanno riportati alla seconda metà del VI secolo a.C. L’inizio di una collaborazione e di una parziale fusione fra Cartaginesi ed indigeni è documentato dall’impiego di mercenari sardi nelle imprese di Sicilia (Erodoto VII, 165; Diodoro XIV, 95, 1) e da varie allusioni degli storici classici ad avvenimenti e costumi dei Sardi, che vanno piuttosto attribuiti ai Fenicio-punici stanziati in Sardegna o agli abitatori dell’isola fortemente punizzati (per esempio l’offerta del donario bronzeo dell’eroe o dio Sardo nel santuario di Olimpia, di cui parla Pausania, X, 17, 1). Che la Sardegna, durante la fase iniziale della conquista cartaginese, non dovesse esser rimasta del tutto estranea al grande moto colonizzatore dei Greci in occidente, risulta con molte probabilità da alcune allusioni delle fonti storiche. Lo stanziamento dei Focei in Corsica ebbe forse un prolungamento nella Sardegna settentrionale, dove appare la città di Olbia dal nome tipicamente ionico, se 80 81 LA SARDEGNA Tradizioni letterarie e dati archeologici NURAGICA è vero che la fuga di un gruppo di Tespiesi dalla Sardegna sulle coste campane, ricordata da Diodoro (V, 15), va ricollegata al ripiegamento dei Focei a Velia dopo la battaglia di Alalia combattuta nel Mare Sardo contro Cartaginesi ed Etruschi (Erodoto, I, 165-168). Il definitivo sopravvento di Cartagine precluse la possibilità di una colonizzazione greca, analoga a quella dell’Italia continentale e della Sicilia; benché aspirazioni in tal senso siano eloquentemente testimoniate dai progetti, rimasti irrealizzati, di invio di coloni ionici in Sardegna (Erodoto, I, 170, V, 106 e 124, VI, 2; cfr. anche l’accenno di Pausania, IV, 23, 5). Le fonti abbondano infine di particolari a proposito delle spedizioni militari romane nell’isola durante le guerre puniche e al progressivo stabilirsi su di essa del controllo di Roma, che appare definitivamente assicurato soltanto nel corso del II secolo a.C., dopo una tenace e sanguinosa opposizione degli abitanti locali, specialmente gli Iliensi, i Balari e i Corsi, nella Sardegna settentrionale (Fasti Trionfali; Zonara, Epit. VIII, 18 e 19; Polibio, II, 23 e 27; Livio, XXIII, 32, 34 e 40, XL, 19 e 34, XLI, 6 ss., 12, 15, 17, 21 e 28, LX; Velleio Patercolo, II, 8, 2). A tutte queste tradizioni, riguardanti gli avvenimenti leggendari e storici che interessano la Sardegna primitiva, vanno aggiunte le notizie specifiche sui diversi popoli che ne occupavano il territorio e sulle loro caratteristiche costumanze. Le fonti etnografiche di età romana rispecchiano la già ricordata distinzione tra gli abitanti della città delle zone pianeggianti e costiere (i Punico-sardi) e le genti arretrate delle zone montuose, dedite alla pastorizia e alla razzia, presso le quali più genuinamente era conservata l’antica tradizione indigena. Queste ultime furono generalmente distinte nelle stirpi degli Iliensi, dei Balari e dei Corsi (anche in Plinio, III, 7). Secondo Strabone (V, 2, 7) essi sono antichi Iolaei, poi chiamati Diaghsbei`ı (o Diaghbrei`ı) ripartiti nei quattro gruppi dei Pavratoi (o Tavratoi), Sossinavtoi (o Swsinavtoi), Bavlaroi, ∆Akwvniteı. Tolomeo (III, 3, 6) dà un elenco delle stirpi sarde, senza distinzione fra i resti delle originarie popolazioni e gli abitanti delle città: citiamo fra i nomi di più evidente impronta indigena i Korakhvnsioi, Karhvnsioi, Kounousinatoiv (o Kounkitanoiv ), Loukouidwnhvn sioi, Aijsarwnhvnsioi, Kelsitanoiv, ecc. Anche per le nozioni tramandate sulla vita spirituale e materiale degli antichi Sardi – generalmente rivolte a sottolineare curiosità e meraviglie – torna difficile lo sceverare ciò che appartenga o intenda riferirsi al mondo primitivo dei popoli autoctoni e ciò che riguardi invece la cultura mista elaboratasi sotto l’influenza dei coloni fenicio-punici. Si è già fatto cenno al culto degli eponimi Iolao e Sardo, venerati in santuari di cui il primo era la tomba dello stesso eroe (Solino I, 61), ed il secondo, situato nella parte sud-occidentale dell’isola, era detto tempio di Sardopatore (Tolomeo, III, 3, 2). Di tombe-sacrari degli eroi, presso i quali si svolgeva il rito della incubazione a scopo terapeutico, ci parlano Aristotele (Phys. IV, 11, 1), con i suoi commentatori Simplicio, Filipone, e Tertulliano (De anima, 49). Virtù curative, specie contro le punture velenose, le fratture e le malattie degli occhi, erano attribuite anche a certe sorgenti di acque termali; le quali avevano inoltre la capacità miracolosa di sceverare i colpevoli dagli innocenti (in un vero e proprio giudizio ordalico), rendendo ciechi i primi e rafforzando la vista ai secondi (Solino, IV, 1-7; Isidoro, Etym., XIV, 6, 40; Prisciano, Perieg. 466 ss.). Ai rapporti tra le funzioni visive e la magia ci richiama d’altro canto la notizia sulla esistenza in Sardegna di donne con doppia pupilla capaci di uccidere con lo sguardo, come le maghe della Scizia chiamate bithiae (Solino, I, 101; cfr. Plinio, VII, 17). Sacrifici umani di vecchi, prigionieri e bambini (rito, almeno quest’ultimo, senza dubbio piuttosto fenicio-punico che indigeno) sono menzionati a proposito del riso “sardanio” o “sardonio” di tradizione omerica, interpretato come il segno dell’amara letizia o come la smorfia atroce delle vittime; mentre una 82 83 LA SARDEGNA Tradizioni letterarie e dati archeologici NURAGICA distinta versione lo attribuiva piuttosto alle convulsioni di coloro che morivano per azione di una pianta venefica esistente in Sardegna e chiamata “erba sardonia” (Suda, s. v. ed altri autori). Dell’organizzazione e delle forme di vita degli indigeni sardi già si sono riportate le informazioni, pressoché concordi, degli autori antichi, circa un attardarsi di costumi primitivi (aggregati di piccoli gruppi, abitazione in capanne e caverne, economia pastorale) nelle regioni montuose e meno controllabili dell’isola; in contrasto con lo sviluppo edilizio, con il sistema urbano e con le culture agricole dominanti nelle zone più accessibili alle colonizzazioni esterne. Dai medesimi racconti si rilevano la bellicosità e il geloso senso d’indipendenza degli antichi isolani. Né, a proposito delle loro condizioni di vita in rapporto con le risorse naturali, può mancarsi di rilevare la importanza del problema della raccolta delle acque sorgive e piovane (Solino, IV, 5) e la utilizzazione dei metalli estratti dalle miniere dell’isola. Un posto a parte tra le fonti scritte, senza dubbio rilevante per l’immediatezza e contemporaneità della loro documentazione, occupano le testimonianze epigrafiche rinvenute in Sardegna, sebbene anch’esse, come le letterarie, appartenenti a coloni ed immigrati stranieri. Purtroppo il numero limitato delle iscrizioni preromane che possediamo (alcune poche fenicio-puniche e greche, una iberica), le difficoltà d’interpretazione e la loro natura non sono tali da recar molta luce alle vicende storiche dell’isola. Una stele di Nora in caratteri fenici arcaici (Corpus Inscriptionum Semiticarum, I, 144) ha dato luogo a vivaci discussioni circa la lettura ed il contenuto del testo e circa la datazione del monumento, che oscilla fra il IX ed il VII secolo a.C. (ma sembra sia da avvicinarci piuttosto al termine finale che all’iniziale); essa comunque contiene assai probabilmente la più antica menzione che noi possediamo del nome dell’isola, nell’espressione b-Srdn “in Sardegna”, mentre assai più dubbia deve ritenersi la supposta menzione di Tartesso (b-Trss) o di una località sarda dello stesso nome (si è pensato, seppure con incerto fondamento, alla stessa città di Nora). Di maggiore interesse, per ciò che concerne le popolazioni locali, sono alcune iscrizioni latine, in cui si parla di Nurr(enses) nel Nuorese, di Cusin(itani?) e Celes(itani?) nel Gennargentu, di Gallilenses nella Barbagia, di Rubrenses nell’Ogliastra, di Giddilitani e Uddaharitani nella regione di Bosa, di Moltamonenses e Semelitenses ai confini del Campidano di Cagliari: alcuni di questi nomi, attestati epigraficamente, trovano corrispondenza negli etnici di Tolomeo. Va considerato a questo punto il problema specialissimo ed affascinante, ma tuttora irresoluto, dei monumenti scritti e figurati orientali, nei quali si è voluto ravvisare un riferimento agli abitatori della Sardegna. Trattasi di una serie cospicua di documenti, che scende dal XIV al IX secolo a.C. (lettera in babilonese del principe di Byblos al faraone Amenhotpe III, stele di Tanis di Ramses II, relazione della battaglia di Kadesh, lettere incluse nei Papiri Anastasi I e II, grande iscrizione di Karnak con il racconto delle vittorie di Amejnoptah, rilievi ed iscrizioni del tempio di Medinet Habu riferentisi alle vittorie di Ramses III, res gestae di Ramses III contenute nel Papiro Harris, iscrizioni del tempo di Ramses IX e di Osorqon II); in essi è fatta menzione di una gente Sh-r-d-n- (vocalizzata Sherdani, secondo i testi cuneiformi) che appare volta a volta, e in qualche caso anche nello stesso documento, come nemica e come mercenaria degli Egiziani. Come nemica, essa partecipa ai tentativi di invasione dei cosiddetti “Popoli del Mare”, da occidente sotto Amejnoptah e probabilmente da settentrione sotto Ramses III. Le iscrizioni la comprendono tra i “popoli nordici delle isole, irrequieti, che infestano le vie marittime e le imboccature dei porti”; più specificatamente la definiscono come “Sherdani del mare”, “Sherdani dal cuore ribelle”. Trasformati in mercenari dei faraoni, questi stranieri formano un corpo scelto che partecipa alle guerre d’Asia o 84 85 LA SARDEGNA Tradizioni letterarie e dati archeologici NURAGICA appare stanziato con mogli e figli nei propri alloggiamenti in tempo di pace: “numerosissimo” nel XII secolo; costituito su cinque reggimenti nell’XI secolo. Nei monumenti figurati i Sherdani hanno un armamento caratteristico, con elmo a calotta per lo più sormontato da brevi corna e talvolta da un apice discoide, corazza articolata formata di elementi metallici o di cuoio (è presente soltanto in alcuni casi), tunica talvolta a coda, scudo rotondo, daga o spada lunga a costolatura mediana, lancia o giavellotto. La supposta identificazione dei Sherdani con i Sardi riposa essenzialmente su tre argomenti: 1. la omofonia del nome, nella sua struttura consonantica e nella analogia della pronuncia con la forma dell’aggettivo etnico Sardanios presente nei testi greci più antichi; 2. l’origine straniera, transmarina e settentrionale, nonché la provenienza da occidente almeno in uno dei grandi tentativi di invasione dell’Egitto (quello promosso dai Libici ai tempi di Amejnoptah); 3. qualche somiglianza rilevabile nell’armamento con quello delle statuette di bronzo di guerrieri sardi, delle quali si dirà più particolarmente a suo luogo. L’ultima considerazione presenta senza dubbio una certa debolezza, tenuto conto del dislivello cronologico esistente, come si vedrà, fra i due gruppi di monumenti figurati che si vogliono mettere a confronto e della presenza dell’elmo a corna, dello scudo rotondo, della spada lunga anche presso altre genti mediterranee, mentre manca nelle figure dei rilievi egizi proprio il caratteristico arco dei guerrieri paleosardi. Anche la ragione della provenienza è generica e si applica a tutti i Popoli del Mare, anche quelli localizzati nel Mediterraneo orientale. Più forte, nonostante i possibili richiami ad altri tipi onomastici affini, è l’argomento della sostanziale somiglianza del nome etnico. Per superare le incertezze si è supposto da alcuni studiosi che i Sardi fossero un popolo di navigatori mediterranei che sullo scorcio del II millennio avrebbero colonizzato l’isola occidentale, dandole il proprio nome. Da altri si è negato decisamente qualunque rapporto fra le fonti orientali e la Sardegna. Ma in verità, pur mancando una prova assoluta, non può negarsi che il sommarsi di diversi argomenti favorevoli, anche se singolarmente insufficienti, e la mancanza di concreti argomenti contrari inducano piuttosto ad accettare che a respingere una connessione, dalla quale verrebbe ad essere felicissimamente illuminata, seppure di scorcio, una fase particolarmente remota ed oscura della storia e della civiltà delle genti paleosarde. Per il resto, non possiamo che interrogare direttamente i monumenti superstiti dell’isola. Essi sono, come è noto, numerosi e significativi, benché tuttora soltanto in parte – diremo anzi in minima parte – rilevati, criticamente studiati, sottoposti a sistematiche esplorazioni archeologiche o classificati dal punto di vista tipologico e cronologico. Infatti soltanto a partire dalla metà del secolo scorso l’archeologia sarda cominciò ad uscire dalle nebbie della fantasia prescientifica e della erudizione locale, avviandosi, per merito di studiosi quali G[iovanni] Spano, E[ttore] Pais, F[ilippo] Nissardi, G[iovanni] Pinza, G[iovanni] Patroni e soprattutto A[ntonio] Taramelli, ad una più concreta ed ordinata cognizione dei dati e ad una maggiore consapevolezza critica dei suoi problemi. Gli scavi compiuti nei primi decenni del secolo dal Taramelli, come Soprintendente alle Antichità della Sardegna, hanno straordinariamente arricchito e precisato le precedenti cognizioni. Né son mancati negli ultimi anni ulteriori contributi di esplorazioni, quantunque meno intense, e di rielaborazione scientifica degli elementi acquisiti, sulla base di un metodo storico e comparativo più progredito e sicuro, per opera di D[oro] Levi, P[aolino] Mingazzini e specialmente del giovane archeologo sardo G[iovanni] Lilliu. Tra le testimonianze immediate della civiltà paleosarda occupano naturalmente un posto preminente i monumenti architettonici, sopravvissuti in forma di imponenti rovine, alle vicende del mondo antico, medioevale e moderno fino 86 87 LA SARDEGNA Tradizioni letterarie e dati archeologici NURAGICA ai nostri giorni. Essi superano infatti, per evidenza, per mole, per densità e per numero, le edificazioni superstiti preclassiche od extraclassiche di qualsiasi altra regione del Mediterraneo occidentale e centrale, compresa la Grecia; presentandosi, inoltre, con caratteri inconfondibili così nella forma come nella struttura. Il nuraghe rappresenta il prototipo e il motivo dominante di questa architettura. La sua torre troncoconica di grossi blocchi irregolari e squadrati a secco, con vani interiori a pseudo-cupola e a pseudo-volta, costituisce il monumento peculiare della Sardegna antica e si ripete in alcune migliaia di esemplari distribuiti con maggiore o minore intensità su tutto il territorio dell’isola. Ma una più attenta classificazione ed esplorazione ha permesso di riconoscere una notevole varietà di edifici compositi, nei quali torri nuragiche si associano fra loro e con sistemi di muraglie. E accanto ai nuraghi distinguiamo oggi costruzioni circolari di tecnica affine, ma con pareti meno spesse, che degradano nelle proporzioni sino alle piccole capanne in muratura; edifici a pianta rettangolare o mista; cinte protettive; pozzi e cisterne monumentali rotondi; fontane a dromos di accesso spazioso e con pareti rettilinee, ecc. Tutte queste fabbriche ebbero una sicura destinazione civile, militare, sacra o comunque legata alla vita; le incontriamo isolate, ma anche aggregate in nuclei o centri di maggiore o minore entità. Si aggiungano le tombe: costruite in forma di dolmen, o del peculiare tipo a corridoio con stele ed esedra in facciata (le cosiddette “tombe di giganti”), o a circoli di pietra; ovvero ricavate artificialmente nella roccia, talvolta a imitazione della casa. Alle tombe, per quanto sappiamo, si ricollegano stele monolitiche (“pietre fitte”) del tipo dei menhir. Tracce di abitazioni e di sepolture si rilevano infine in diverse caverne naturali e in ripari sotto roccia. La occasionale esplorazione e lo scavo intenzionale dei monumenti e dei luoghi frequentati dall’uomo hanno portato e portano alla luce tutta quella suppellettile mobile che costituiva il patrimonio di cultura materiale degli indigeni dell’antica Sardegna, ma che ci permette anche in molti casi di risalire alle loro consuetudini e attitudini spirituali nel campo della religione, delle forme sociali e dell’arte. Si tratta degli oggetti d’uso delle abitazioni, delle fortificazioni e delle officine; dell’arredo rituale e votivo dei santuari; del materiale d’accompagno delle deposizioni funebri. Distinguiamo ornamenti personali, armi, strumenti di lavoro, vasellame, lucerne, donari figurati. Una notevole parte di questi manufatti, lavorati nella pietra, nell’argilla, nel bronzo, non differisce dai tipi universalmente diffusi e comuni nella protostoria dei popoli mediterranei; ma nella forma e nella decorazione di alcuni oggetti si ravvisa la presenza di correnti di cultura più definite e circoscritte, nello spazio e nel tempo; mentre altri monumenti mobili, con particolare riguardo alla piccola plastica di bronzo (figurine di uomini e di animali, modelli di imbarcazioni e di edifici, ecc.), hanno un’impronta decisamente originale. È interessante osservare che materiale di sicura fabbricazione indigena paleosarda s’incontra sporadicamente nelle colonie fenicio-puniche delle coste dell’isola, specialmente a Tharros, e – portato dai traffici transmarini – in Etruria. Reciprocamente, oggetti fenicio-punici ed etrusco-italici compaiono in Sardegna in complessi nuragici; mentre la decorazione architettonica di alcuni monumenti paleosardi trae indubbia ispirazione da motivi orientalizzanti diffusi attraverso la colonizzazione semitica dell’isola. La documentazione archeologica vale, almeno entro certi limiti, a rappresentarci lo sviluppo, l’incremento e le trasformazioni della vita e delle attività umane nella Sardegna preistorica e protostorica. Ciò è legato, come ben s’intende, alla possibilità di stabilire una classificazione cronologica della civiltà paleosarda attraverso i suoi documenti. Purtroppo è mancata sino ad oggi la occasione di constatare, in modo rilevante e sicuro, sul terreno una regolare sovrapposizione di livelli contenenti materiale archeologico 88 89 LA SARDEGNA NURAGICA di periodi successivi; e la stessa associazione degli oggetti con i monumenti architettonici non è tale da consentire una ricostruzione organica dei loro reciproci rapporti cronologici. Tuttavia il confronto con le manifestazioni culturali del mondo circostante alla Sardegna permette di fissare nelle grandi linee una successione di fasi che dalla preistoria vera e propria scende alla piena fioritura nuragica di età protostorica e storica. La sostituzione del bronzo alla pietra lavorata costituisce, nell’ambito dello strumentario e della suppellettile figurata, l’indizio più appariscente di questo passaggio, segnato anche, del resto, da altre fondamentali trasformazioni nelle fogge, negli ornati e nella tecnica così degli oggetti mobili come delle opere monumentali. Ma il parallelismo con i fatti esterni all’isola e la evoluzione interna dei tipi non aiutano a datare in senso assoluto i diversi momenti di questa progressione, sia per la incertezza che domina in parte tuttora sulla cronologia della preistoria e protostoria mediterranea, specialmente occidentale, sia anche – e soprattutto – per la presunzione di possibili attardamenti culturali che nasce dal carattere recettivo, conservatore e torpido della civiltà in Sardegna constatabile in fasi più recenti della sua storia. Una datazione approssimativa dei monumenti e dei complessi archeologici paleosardi si affida pertanto esclusivamente ai dati, purtroppo non numerosi e talvolta isolati, forniti dalla presenza di oggetti e motivi stranieri nei centri indigeni dell’isola e dall’apparire di oggetti sardi in complessi datati di centri stranieri. 90 GLI ABITATORI DELLA SARDEGNA PRIMITIVA: RAZZA, LINGUA, POPOLI Di fronte a qualsivoglia esperienza storica, la prima curiosità si concentra sui suoi protagonisti. Chi erano ed a quale stirpe appartenevano gli indigeni sardi costruttori dei nuraghi? Una risposta a questo interrogativo, per quanto essa è possibile, non può risultare che dal concorso dei singoli elementi antropologici, linguistici e più propriamente etnografici di cui ci sia dato sinora avvalerci per le nostre ricerche. Ma è necessario avvertire preliminarmente che una distinzione fra l’originario strato etnico protosardo e le popolazioni straniere successivamente approdate nell’isola non può avere un valore assoluto e va intesa, semmai, in senso relativo, come la condizione storica di un momento particolare, quale, ad esempio, quello della colonizzazione fenicio-punica delle coste della Sardegna; mentre al momento della conquista romana l’elemento indigeno sardo appare già parzialmente trasformato per l’innestarsi in esso degli immigrati semitici e libici da tempo acclimatati nel territorio isolano. Si vuol dire, in sostanza, che sarebbe vano tentare di isolare una componente etnica prettamente locale; giacché il processo continuo di assorbimento di genti straniere dalle coste verso l’interno, attestato in epoca storica sino ai nostri giorni, presuppone un analogo processo in età preistorica, probabilmente senza interruzione tra l’uno e l’altro. Ed è quindi legittimo ritenere che l’ethnos protosardo sia già notevolmente complesso e composito nel momento culminante della fioritura nuragica. D’altro canto il carattere conservatore dell’ambiente insulare sembra aver favorito in ogni tempo una reazione piuttosto lenta alle sollecitazioni esterne, e però piuttosto un aggiungersi ed un uniformarsi, che un progredire ed 91 LA SARDEGNA Gli abitatori della Sardegna primitiva … NURAGICA un innovare. Ciò è evidente soprattutto nella storia del tipo fisico della popolazione sarda. Il materiale antropologico (scheletri e specialmente crani) di età preistorica e protostorica finora recuperato e studiato mostra una singolare affinità con i tipi ancor oggi predominanti nell’isola. Si tratta di una stirpe appartenente al grande gruppo razziale mediterraneo, con particolare accentuazione dei caratteri ad esso peculiari. La gelosa conservazione della dolicocefalia è attestata non soltanto dai ritrovamenti più antichi (come quelli fatti nelle grotte attorno a Cagliari), ma anche da quelli riferibili ad un’età nuragica più evoluta (Sardara, Mogoro, Seulo), soprattutto nelle zone centrali e meridionali della Sardegna, dove predominavano anche stature basse e bassissime (in media m 1,55-1,60). È notevole la presenza di elementi “protomorfi”, come accentuazione delle arcate sopraorbitarie, nasi larghi, prognatismo; la cui origine, certo assai remota, resta tuttavia da spiegare. Nel settentrione dell’isola appaiono invece per tempo (crani della necropoli eneolitica di Anghelu Ruju e della grotta Palmaera) infiltrazioni di elementi brachimorfi, che danno luogo alla formazione di un tipo misto, affine a quello dell’Italia meridionale. La documentazione antropologica ci parla dunque di una popolazione mediterranea, con caratteri armonici e piuttosto arcaici, parzialmente intaccata da elementi più recenti soltanto nella zona settentrionale; ma non può dirci se questo quadro sia la risultante di modificazioni imposte ad un fondo originario da afflussi etnici preistorici provenienti dall’Africa (“negroidi”?) e dall’Europa (brachicefali), ovvero se esso risalga addirittura al momento del popolamento dell’isola. Né vale, di per se stessa, a caratterizzare sufficientemente la stirpe dei Sardi primitivi rispetto ad altre genti viventi, in epoca preistorica o protostorica, nei territori continentali ed insulari bagnati dal Mediterraneo. Una precisazione maggiore può derivare dallo studio degli elementi linguistici; riferito ben s’intende alle parlate locali anteriori ed estranee a quelle dei coloni ed immigrati storici e ai conquistatori romani che diedero alla Sardegna la sua definitiva struttura dialettale latina. Ma questa ricerca, per l’assoluta mancanza di documenti diretti e originali, ha un carattere esclusivamente indiziario: deve basarsi, cioè, soltanto sul difficile e cauto vaglio critico di quelle parole usate nei dialetti sardi e sui nomi di località che non possono spiegarsi con il latino, con il greco, con il punico, e che perciò vanno attribuite ad uno strato linguistico più antico. Fortunatamente le tendenze conservatrici delle genti sarde si manifestano evidenti anche in questo campo, e si può affermare che in nessun’altra regione dell’area italiana ed in quasi nessun’altra del mondo mediterraneo la impronta linguistica primordiale traspare così chiaramente, sotto la stratificazione delle parlate più recenti ed attuali, come in Sardegna. Un certo numero di termini generali di luoghi e conformazioni naturali, animali, piante – elementi notoriamente persistenti e tenaci nell’uso – risale senza dubbio all’antichissimo patrimonio lessicale indigeno: per esempio pala “costa di monte” e “spalla”, kala, kalanka “grotta”, kodina “pietraia”, mara “palude”, maragoni “fessura di roccia”, mògoro “altura”, nurra “voragine, pozzo, crepaccio” e “mucchio di legna o di pietre”, nuraghe o nurake, òspile “piccolo chiuso per bestiame”, bette, biti, bitti “agnellino” e “cerbiatto”, sakkaju, sakkasgiu “pecora o capra di un anno”, sgiàgaru “cane”, zingorra “anguilla”, kokkòi “lumacone”, babbài, babbòi “insetto”, aurri “carpino nero”, kolostri, golosti “agrifoglio”, kostighe “acero”, auzarra “specie di salice”, karva “ramo”. Ma la fonte più ricca per le nostre conoscenze è costituita dalla toponomastica, e cioè dai nomi propri dei monti, dei fiumi, delle zone, dei centri abitati, ecc., tuttora in uso o attestati dai documenti scritti medioevali ed antichi. La tradizione linguistica indigena appare in essa specialmente forte e compatta, come è confermato dal frequente 92 93 LA SARDEGNA Gli abitatori della Sardegna primitiva … NURAGICA ripetersi delle stesse radici, talvolta corrispondenti a quelle dei relitti lessicali sopra citati, dall’analoga struttura delle parole, dalla somiglianza delle terminazioni. Valgano, a chiarimento, gli esempi seguenti: Arthakan, Ardar, Ardara, Ardasai, Ardauli; Orri, Orrui, Orbei, Orestelli, Oristano; Osile, Ozan, Oschini, Oschera; Usai, Useis, Usso, Ussassai, Useddus, Ussan, Usini, Ussara-manna; Paluca, Palusca; Gavoi, Gabazzenar; Golostia, Colostrais; Gonni, Gonoi, Gonnesa, Gonnanor, Gonnos-montangia, Gonnos-codina, ecc.; Caralis, Carvai, Carbia; Tarri, Tarabula, Taras, Tarras, Tharros; Moco, Mocon, Mokor, Mogoro, Mogoreddu; Nora, Nurra, Nurri, Nurgoi, Nurkar; Silanis, Silanus, Siliqua, Siliquennor; Surughel, Sorgono. Il nome stesso dell’isola e dei suoi abitatori (Sardo, Sardanioi, Sardinia) trova riscontro nella toponomastica locale (Sardara). Ed accanto alle denominazioni geografiche possono essere presi in considerazione gli etnici indigeni, quali Ilienses, Balares, Giddilitani, Cunusitani, ecc.; e persino alcuni nomi personali, attestati dalle fonti medioevali, quali Barusone, Dorgotori, Arzoccor, Izoccor, per i quali non mancano corrispondenze toponomastiche (per esempio Barumini, Dorgali). Un esame complessivo di tutto questo materiale ci permette di intravedere alcune caratteristiche fonetiche e morfologiche del tipo linguistico al quale esso risale ed appartiene. Dal punto di vista fonetico osserviamo: la mancanza della spirante f e probabilmente delle consonanti aspirate, la frequenza delle parole che iniziano per vocale, per consonanti mute (specialmente g e t), per m, n, s, e, viceversa, l’assenza completa di r in sede iniziale; la alternanza tra consonanti sorde e sonore, con prevalenza delle seconde (kolostri-golosti, Arthakan-Ardasai); una particolare tendenza all’armonia vocalica, determinata dal ripetersi dello stesso timbro nelle diverse sillabe di una parola (Sardara, Ittiri, Mogoro, Sorgono); l’accento tonico sovente ritratto sulla prima sillaba. Dal punto di vista morfologico si rileva la presenza di alcune terminazioni caratteristiche, tra le più singolari ed appariscenti sono quelle vocaliche in -ài, -èi, -òi, -ùi (babbài, Gergèi, kokkòi, orrùi) e quelle con elementi consonantici in -il, -ul (ospile, Isili, Gurulis); in -anar, -anor, -enner, -ennor (Bonnanaro, Gonnanor, Salvennero, Billikennor); in -ar, -or, -orr, -urr (Ardar, Mogoro, Manorri, Gosurra); in -kar, -kor (Nurkar, Arzoccor). Si può ravvisare, in alcuni casi, un ampliamento delle originali radici monosillabiche, attraverso l’aggiunta di una gutturale (mara-maragoni, nurra-nuraghe). In altri casi è possibile addirittura ricostruire una tabella delle variazioni che si ripetono con l’aggiunta degli stessi suffissi e radici diverse: Usai Usellis UssaraUssan Suruge Surugel Sorgono Gennos Gennor Gennon Naturalmente è impossibile precisare la funzione di questi elementi e processi formativi. La coerenza e consistenza del substrato linguistico affiorante sotto la fisionomia della Sardegna latina e la estensione delle testimonianze su tutto il territorio dell’isola (analogamente a quanto si osserva, con parallelo oltremodo significativo, nel campo delle testimonianze monumentali dell’architettura nuragica), ci assicurano che noi ci troviamo effettivamente di fronte alla lingua parlata dai Paleosardi e ci inducono a ritenere che questa lingua ebbe modo di affermarsi per un lungo periodo e con una spiccata impronta unitaria nell’intera Sardegna. Ma quale sarà stata la sua origine? Possiamo dedurre, dai dati per noi conoscibili, qualche elemento circa l’appartenenza etnica degli abitatori indigeni dell’isola? Certo il linguaggio paleosardo non sembra presentare affinità né con gl’idiomi semitici, né con quelli indoeuropei. Esso pare, invece, inquadrarsi piuttosto nell’ambito di quei diffusi substrati mediterranei preindoeuropei, sulla cui definizione e ricostruzione si è andata concentrando negli ultimi decenni l’attenzione dei linguisti. Il ricorrere in Sardegna 94 95 LA SARDEGNA Gli abitatori della Sardegna primitiva … NURAGICA di alcuni noti tipi lessicali e toponomastici, quali pala-, kala-, tara-, mara-, gava-, ecc., segnatamente frequenti nelle aree centrale ed occidentale del Mediterraneo, costituisce l’argomento basilare di questa connessione e si accorda con la situazione geografica dell’isola. Non mancano tuttavia indizi di corrispondenze linguistiche più precise. Diversi elementi onomastici sardi richiamano a nomi di luogo iberici, non soltanto nelle radici (che spesso hanno una diffusione panmediterranea), ma anche nella struttura morfologica delle parole, per esempio: Sard. Ula-, Olla-, Ib. Ulla; Sard. Paluca, Ib. Baluca; Sard. Nora, Nurra, Ib. Nurra; Sard. Ur-pe, Ib. Iturri-pe. A ciò si aggiunge un fatto che, per il numero delle concordanze, non può assolutamente considerarsi casuale ed appare di altissimo interesse: l’esistenza, cioè, di specifiche analogie tra elementi del patrimonio lessicale della lingua basca e singoli relitti lessicali o voci toponomastiche sarde. Esempi: SARDEGNA BASCO aurri “carpino nero” aurri nome di albero bitti “agnellino” bitin “capretta” golosti “agrifoglio” gorosti “agrifoglio” sgiàgaru “cane” zakur “cane” mògoro “altura” mokor “zolla, tronco” òspile “piccolo chiuso” ospel “luogo ombroso” Orri, Orrui orri “ginepro” Usai, Useis, ecc. usi “bosco” Le corrispondenze si estendono anche ad elementi formativi: per esempio -aga, che in basco si impiega per toponimi con significato collettivo (harriaga “petraia”, da harri “pietra”) e che può spiegare il tipo sardo nuraghe rispetto a nurra (cfr. anche il toponimo iberico Tarraconeal sardo maragoni). Un’altra serie di concordanze, seppure meno perspicua, richiama alla sponda contrapposta dell’Africa settentrionale, in radicali di toponimi (Sard. Uta, Afr. Utica; Sard. Ittiri, Afr. Itin; Sard. Sardara, Afr. Sardoi) e in alcune terminazioni, quali -ili, -iri (Afr. Igildili, Tinidiri), -ài, -òi (Afr. Anzai, Sanniboi). Si noti anche che un suffisso -itan degli etnici, tuttora parzialmente vivente in Sardegna (Giddilitani, Cagliaritano), trova riscontri in Africa (Zeugitana, Altifatan, ecc., ma anche, se pure eccezionalmente, in Iberia e in Italia). Altri supposti riscontri sardo-libici sono di colore alquanto debole e incerto. Le concordanze con il substrato ligure e con quello, cosidetto “tirrenico”, dell’Italia peninsulare non oltrepassano, per quanto finora sembri accertabile, i limiti dei già rilevati e generici parallelismi panmediterranei e quelli delle più specifiche analogie toponomastiche ibero-liguri. Qualche più remota ed isolata consonanza fu rilevata con relitti lessicali preindoeuropei della regione danubiano-balcanica (per esempio Sard. mògoro, albanese magul, romeno magura “altura”). Dai dati così riassunti deduciamo (naturalmente in linea approssimativa e provvisoria): 1. la pertinenza del paleosardo ai substrati linguistici mediterranei, con maggiore evidenza ed intimità di rapporti con le regioni più vicine alla Sardegna; 2. precisi riscontri, denuncianti una parentela abbastanza stretta, con il basco; 3. una divergenza sensibile, invece, dall’ambiente linguistico non indoeuropeo d’Italia (inclusi gli elementi extraindoeuropei degli idiomi attestati epigraficamente e letterariamente in epoca storica); 4. corrispondenze africane, la cui valutazione presenta notevoli problemi, come subito si dirà. Nel suo nucleo originario e più compatto, la popolazione paleosarda andrebbe dunque ricollegata linguisticamente a quello strato etnico delle primitive stirpi mediterranee, del quale il basco rappresenta, come è noto, un singolare relitto vivente, e che si ritiene particolarmente arcaico. Mentre perdurano ancor oggi gravi incertezze sulla natura dei rapporti fra il basco e gli antichi linguaggi 96 97 LA SARDEGNA Gli abitatori della Sardegna primitiva … NURAGICA prelatini della penisola iberica (dei quali restano documenti epigrafici di oscura decifrazione e testimonianze toponomastiche), è difficile arguire come fossero primamente congiunte l’area pirenaica occidentale e l’area sarda, benché la logica geografica e storica postulino a priori un’assai più ingente estensione, in età remota, del loro comune tipo linguistico, successivamente ridotto in paesi isolati dalle montagne e dal mare. Ciò non implica affatto che il popolamento della Sardegna debba aver luogo partendo dalla penisola iberica; ma neppure esclude che, prescindendo dalla parentela originaria, vi siano stati ulteriori contatti preistorici e storici tra Iberia e Sardegna, anche in forma di approdi e stanziamenti iberici nell’isola, adombrati forse nella leggenda di Norace, fondatore di Nora e comunque attestati dalla presenza di un’iscrizione iberica in Sardegna: fatti, questi, ai quali si è fatto cenno nel precedente capitolo. È possibile che correnti d’incontro e di scambio preistoriche, di cui vedremo qualche riflesso in sede archeologica, si siano ravvivate nell’ambito della comune colonizzazione fenicio-punica, con il trasferirsi di coloni o mercenari di origine spagnola in Sardegna (se si può dar credito alla tradizione di Pausania circa l’origine dei Balares, il cui nome doveva già suonare per gli antichi notevolmente simile a quello delle isole Baleari). Così la intonazione paleomediterranea ed occidentale dell’ambiente linguistico sardo potrebbe essere stata non soltanto determinata dal carattere dei primordiali insediamenti ma anche confermata od accentuata da successive acquisizioni. Una questione per qualche aspetto analoga, ma indubbiamente più complessa, si pone a proposito dei rapporti sardo-africani. I richiami leggendari ed onomastici non escludono la presenza di elementi libici nel formarsi dell’ethnos paleosardo (si tenga presente anche il ricordo di un popolo di Sardo-libii in Nicola Damasceno, fr. 27, ed. Jacoby). Ma è impossibile dire se questi elementi s’inquadrino in una primordiale comunanza di caratteri tra Sardegna, penisola iberica ed Africa settentrionale, o risultino invece da immigrazioni libiche ben definite, che avrebbero provocato mescolanze etniche nel territorio stesso dell’isola. D’altro canto è probabile che il dominio cartaginese in Sardegna, portando notevoli nuclei di Libici punizzati in contatto con la popolazione locale e stimolando forse la ripresa di antichissimi rapporti, abbia non poco contribuito a quella parziale “africanizzazione” del territorio sardo, di cui si avvertono manifestazioni indubbie ai tempi della conquista romana e che la tradizione letteraria ben conosce, ma respinge, forse erroneamente, nella preistoria. Che al popolamento della Sardegna concorrano anche elementi di origine settentrionale, provenienti dall’arco della costiera ligure, è possibile, se talune rilevate affinità toponomastiche non c’ingannano; benché permangano pur sempre incerte la portata e la natura delle primordiali correlazioni fra substrato ligure ed iberico. Sicura è invece, almeno nella Sardegna settentrionale, la presenza di genti affini a quelle abitanti in Corsica e chiamate dagli autori antichi senz’altro Corsi. Ma si tratta di fattori etnici originari ovvero di immigrati che passarono le Bocche di Bonifacio, in tempi imprecisati, stanziandosi in Gallura sopra uno strato etnico più antico? Lo studio della toponomastica locale non ci consente, per ora almeno, di orientarci su questo interessante problema. Prescindendo dalla possibilità di una remotissima unità mediterranea o mediterraneo-occidentale, il substrato etnico-linguistico dell’Italia peninsulare – quale è possibile ricostruire non senza incertezze e difficoltà, per la fase che immediatamente precede o accompagna il diffondersi dei linguaggi indoeuropei – appare orientato piuttosto verso una comunanza di sviluppi con il mondo egeo-asianico e non presenta affinità sensibili con il substrato sardo, che appartiene ad una sfera linguistica arcaica ed occidentale. La supposta “tirrenicità” dei Sardi (in Strabone) si giustifica o sulla base di una generalizzazione del termine Tirreni in 98 99 LA SARDEGNA Gli abitatori della Sardegna primitiva … NURAGICA rapporto con i popoli dell’occidente o in funzione delle correlazioni storiche sardo-etrusche. Alla eventualità di stanziamenti coloniali etruschi sulle coste orientali dell’isola – di per sé non impossibili, quantunque storicamente non documentati – si è voluto ricollegare l’etnico Aijsaronhvnsio di Tolomeo (con l’etrusco aisar- “dei”?) ed anche il toponimo Feronia. Ma in questo caso saremmo di fronte ad avvenimenti relativamente recenti, che s’inquadrano nella storia della colonizzazione della Sardegna e delle lotte per l’egemonia del Mediterraneo occidentale fra Greci, Etruschi e Cartaginesi: fatti, comunque, sostanzialmente estranei al problema dell’origine delle popolazioni indigene dell’isola. Un interrogativo di fondamentale interesse si presenta a questo punto. Abbiamo visto che esistono fondati argomenti a favore di una certa unità linguistica della Sardegna indigena, alla quale corrisponde un’impronta unitaria nel campo della civiltà segnatamente architettonica. Fino a che punto ed in qual senso si potrà parlare di unità etnica, vale a dire di coscienza etnicamente unitaria dei Paleosardi? In età pienamente storica il termine “Sardi” abbraccia probabilmente tutti gli abitatori dell’isola, inclusi i sanguemisti delle città fenicio-puniche e del loro retroterra. Ma si tratta di una designazione prevalentemente geografica, che si adotta in pratica, se mai, più di frequente a rappresentare quei nuclei della popolazione locale che erano in maggiori contatti con il mondo esterno, e cioè proprio gli elementi punici o punizzati delle zone costiere. Eppure la tradizione semileggendaria e storica distingue con sufficiente evidenza, come precedentemente si è visto, un ambiente di cittadini-agricoltori partecipi in pieno dei beni di una civiltà superiore, per influenza di successive colonizzazioni esterne, da un ambiente di pastori culturalmente arretrati e gelosi della loro indipendenza, viventi al riparo delle montagne. Questi ultimi sono senza dubbio gli eredi più conservatori dell’antica tradizione etnica indigena. Comunque il quadro che presenta la Sardegna sotto il dominio cartaginese e romano sembra fondarsi sopra un dualismo etnico-culturale che è manifestamente in contrasto con la struttura unitaria di un popolo e di una civiltà nazionale. Ma queste constatazioni si applicheranno del pari alle antecedenti fasi della protostoria e della preistoria? Il contrasto fra le zone più facilmente accessibili dell’isola e le zone interiori ed impervie avrà rappresentato un dislivello di cultura ed un’apprezzabile differenza di costituzione etnica anche ai tempi che accompagnano e precedono i primi stanziamenti storici dei Fenici, prima, cioè, del VI secolo a.C.? La questione è difficilmente risolubile. Ma in linea di massima proprio quei dati linguistici e monumentali ai quali sopra si è fatto cenno sembrerebbero denunciare l’estendersi più uniforme, sul territorio dell’isola, di un determinato tipo etnico-culturale, che è quello appunto che indichiamo, per intenderci, paleosardo o nuragico. Che questi antichi abitatori della Sardegna, nel momento della loro massima fioritura autonoma e successivamente anche nelle fasi del loro progressivo restringersi ed esaurirsi sotto la pressione concentrica dei colonizzatori e dominatori stranieri, abbiano avuto chiara consapevolezza della loro unità di stirpe e di tradizioni civili è possibile, ma non può dichiararsi con certezza. Che essi già si designassero o fossero designati con il nome collettivo di Sardi o Sardani potrebbe inferirsi da una certa particolare valutazione – del resto ipotetica – dei ricordati documenti orientali del II millennio (posto che questi si riferiscano ad una popolazione effettivamente collegata dal punto di vista territoriale con la Sardegna), della stele fenicia di Nora e delle più antiche fonti greche; ma non si può neppure decisamente escludere la eventualità che uno dei popoli viventi nell’isola abbia dato il suo nome alla Sardegna e a tutti i suoi abitanti, secondo un processo di generalizzazione di cui non mancano esempi storici altrove. Fra i nomi etnici locali pare del resto, a giudicare dalle fonti storiche e geografiche greco-romane, specialmente importante quello dei Iolaei, o Iliei, o Iliensi; tanto che potrebbe persino sedurre la ipotesi che questo termine 100 101 LA SARDEGNA NURAGICA SVILUPPO CULTURALE E STORICO abbia rappresentato, almeno per un certo periodo, la designazione nazionale indigena dei Paleosardi. In ogni caso, anche se le stirpi che elaborarono la civiltà nuragica ebbero l’idea di una loro comunanza di origine, lingua e tradizioni, restò pur sempre, e sino ai tempi della conquista e del dominio romano, una certa differenziazione di minori gruppi etnici, distinti con nomi particolari, nelle varie regioni dell’isola. Le fonti in nostro possesso non ci consentono tuttavia la chiara ricostituzione di un quadro etnologico completo della Sardegna indigena, specie in rapporto con la distribuzione territoriale dei singoli popoli. Mentre la presenza di Corsi è, come si diceva, accertata nelle zone montuose della Gallura, non si può precisare il rapporto intercorrente fra gli Iliei (o Iliensi) e i Balari, che secondo Plinio e Pausania sarebbero genti distinte, laddove Strabone considera i Balari, insieme con i Parati, i Sossinati e gli Aconiti, suddivisioni del maggiore gruppo dei Iolaei (cioè degli Iliei). Una maggiore evidenza, anche per quel che riguarda la localizzazione geografica, risulta per le piccole popolazioni locali dal testo di Tolomeo e dalle iscrizioni; ma è opportuno tener presente che queste fonti si riferiscono a tempi in cui l’elemento autoctono era già profondamente commisto con immigrati stranieri e in cui le partizioni tendevano ad adeguarsi al sistema amministrativo dei territori urbani. Escludendo gli etnici derivati da nomi di città ed altri di origine verisimilmente recente, parrebbero riferirsi ad antiche stirpi locali soprattutto i seguenti: Cunusitani e Cusin(itani), Luquidonensi, Gallilensi, Nurrensi nella Sardegna settentrionale e centrale, Giddilitani e Uddaharitani nella parte meridionale dell’isola. Qualunque tentativo per definire l’entità numerica della popolazione sarda prima della colonizzazione fenicio-punica e della conquista romana urta contro difficoltà insormontabili. Va tenuto per altro presente che essa sarà stata difficilmente maggiore di quei 150.000-200.000 abitanti che si sogliono, del resto su calcoli piuttosto ipotetici, attribuire all’isola tra la fine della Repubblica e il principio dell’Impero. Non esistono fino ad oggi tracce di culture paleolitiche o mesolitiche in Sardegna. Se si tien conto del fatto che recentissimamente è apparso il paleolitico in Grecia, dove per l’innanzi era sconosciuto, l’argumentum ex silentio non può considerarsi a priori decisivo contro la ipotesi di eccezionali remotissime frequentazioni dell’isola prima dell’età neolitica, considerate anche le possibilità che la Corsica e l’arcipelago toscano offrono in appoggio ad una relativamente facile e primordiale navigazione dal continente. L’inizio di una vita continuativa e di uno sviluppo di cultura locale in Sardegna non può considerarsi comunque, fino a prova contraria, anteriore al neolitico e probabilmente alle sue fasi più recenti. Testimonianze di questa età sono venute alla luce a più riprese e con una certa intensità per tutto il territorio dell’isola. Specialmente notevole è il gruppo delle grotte e degli abitati all’aperto dei dintorni di Cagliari, tra cui eccellono, per il numero e la qualità degli oggetti ritrovati, le grotte, adibite anche a sepoltura, del Capo Sant’Elia: specie la grotta San Bartolomeo. Altre caverne e ripari frequentati dall’uomo si scoprirono nell’Iglesiente e recentissimamente presso Macomer; mentre stazioni all’aperto furono segnalate intorno allo stagno di Cabras presso Oristano. Nella Sardegna settentrionale la grotta sepolcrale di San Michele di Ozieri ha restituito materiale ricco ed assai caratteristico. Vi è poi da considerare tutta la serie dei sepolcri scavati artificialmente nella roccia, le cosiddette “domus de janas”, universalmente diffusi nell’isola, molti dei quali, singolarmente o a gruppi, risalgono alla preistoria, come risulta dalla suppellettile d’accompagno: soprattutto interessanti per i loro rinvenimenti e resi famosi dalla sistematica esplorazione del Taramelli, i sepolcreti di Anghelu Ruju e di Cuguttu nelle vicinanze di Alghero. Un gruppo a parte è costituito dalle 102 103 LA SARDEGNA Sviluppo culturale e storico NURAGICA tombe megalitiche con i circoli di pietra scoperti nella zona di Arzachena in Gallura, in vicinanza di abitati sotto ripari di roccia. Esse ripropongono il problema dell’attribuzione alla fase più remota della preistoria sarda dei dolmen, per lo più privi di suppellettile, e delle pietre fitte che spesso s’incontrano in Sardegna. Materiale di apparenza neolitica proviene infine anche dall’interno, specie dagli strati più profondi, di alcune costruzioni nuragiche, tra le poche scientificamente scavate: quali i nuraghi Palmavera e Sa Lattara presso Alghero. Non mancano, bene inteso, nelle collezioni archeologiche sarde, oggetti di origine sporadica od incontrollata simili a quelli provenienti dai luoghi e dai monumenti ricordati. L’armamentario e strumentario comune a tutti i ritrovamenti che possono attribuirsi a questo ciclo di culture preistoriche della Sardegna consiste di lamelle, schegge, coltelli, punte di frecce di selce e d’ossidiana, accette e teste di mazza di pietra dura, utensili d’osso, coti di pietra ed altri oggetti di universale diffusione (figg. 2-4). La possibilità di stabilire una certa classificazione topografica e cronologica è collegata invece essenzialmente alla forma e alla decorazione dei vasi, alla presenza di oggetti metallici, ad alcune fogge di ornamenti personali e alla produzione figurata, oltre che, naturalmente, alla natura e alle caratteristiche dei monumenti. I tipi che occorrono sono già notevolmente vari e complessi: mostrano affinità più o meno spiccate con singole regioni e fasi culturali del circostante mondo a b c d e 2. Strumenti e armi di pietra (San Bartolomeo: a-b; Arzachena: c-f ). 104 f preistorico mediterraneo e denunciano un intersecarsi di correnti, delle quali non è sempre possibile determinare la diffusione e la successione, tanto più che elementi ritenuti di origine e di epoca diversa si trovano talvolta imprevedibilmente commisti, dando la esasperante sensazione di un livellamen3. Armi di pietra (Anghelu Ruju). to cronologico che appa4. Cote (Anghelu Ruju). re difficilmente spiegabile o risolubile. Ciò va attribuito, in senso relativo, alla scarsità delle nostre conoscenze; ma forse anche corrisponde, in senso assoluto, alle già più volte rilevate disposizioni recettive e conservatrici dell’ambiente sardo, nel quale caratteri e costumi arcaici possono aver sopravvissuto e convissuto a lungo con forme recenti, rendendo poco chiaro un ordinamento in serie di successivi e diversi orizzonti culturali. Pare difficile, in verità, ravvisare allo stato puro la presenza di un neolitico antico; anche se nei complessi archeologici conosciuti non mancano tracce di elementi riferibili direttamente o indirettamente alle sue manifestazioni più peculiari. È probabile che i primi gruppi umani stabilitisi durevolmente sulle coste dell’isola – mediterranei commisti con tipi razziali assai arcaici – recassero con sé le forme più semplici dello strumentario neolitico ed una rozza ceramica liscia o decorata con elementi ad impressione (fig. 5), di 5. Ceramica impressa cui permangono tracce nei (San Bartolomeo). 105 LA SARDEGNA Sviluppo culturale e storico NURAGICA depositi dei villaggi e delle caverne cagliaritane, frequentate a lungo dai loro discendenti. L’ipotesi che essi fossero originari dell’Africa settentrionale, come i neolitici di Stentinello in Sicilia, è seducente, ma non dimostrabile con prove sicure. Oltre che dalla caccia e dalla pesca nel mare e negli stagni, le loro fonti di sostentamento dovevano essere costituite da forme primitive di agricoltura e di allevamento. Ma presto l’intensificarsi degli scambi e delle correnti di navigazione tra le diverse terre bagnate dal Mediterraneo portò ad un arricchimento e ad uno sviluppo della civiltà materiale e spirituale degli abitatori della Sardegna, in concomitanza con l’accrescersi della popolazione e con l’ampliarsi delle zone occupate verso l’interno. L’apparire, nel deposito di recente rinvenimento di Macomer, di una statuetta litica femminile, nuda e steatopigia (fig. 6), di tradizione naturalistica paleoli- 6. Statuetta di pietra (Macomer). tica, ma formalmente legata al filone della plastica mediterranea che dalla Mesopotamia e dall’Egitto predinastico si estende da un lato verso i Balcani (particolarmente impressionante l’analogia con un esemplare da Priesterhügel in Romania), da un altro lato, seppure meno perspicuamente, verso l’Egeo, l’Italia e Malta, denuncia amplissime correlazioni per una fase corrispondente al neolitico antico e medio. Ciò è confermato dalla ceramica incisa con motivi a fasce tratteggiate (figg. 7-8), peculiare a San Michele, ma presente anche nelle grotte cagliaritane e nei sepolcreti a grotticelle artificiali insieme con i vasi del tipo 106 a b c 7. Ceramica incisa a fasce (San Michele: a-b; San Bartolomeo: c). 8. Ceramica incisa (San Michele). 9. Ansa a tunnel (San Michele). iberico, dei quali subito si dirà: la tecnica e i motivi caratteristici di San Michele (spirali semplici e complesse, “occhi riservati”, ecc.) richiamano a Malta, alla Sicilia occidentale, all’Egeo e alla grande area della ceramica spiralica balcanico-danubiana. Anche le curiose anse a bozze forate con orli in rilievo di taluni orci impressi di San Michele (fig. 9) ci riconducono a Malta. I tripodi delle grotte meridionali e di Anghelu Ruju (fig. 10a) hanno i loro prototipi nell’eneolitico egeo. Infine tra le frequentissime forme di recipienti carenati (fig. 11) si nota la coppa di steatite con a b 10. Varie fogge di vasi (Anghelu Ruju). 107 c LA SARDEGNA Sviluppo culturale e storico NURAGICA anse a rocchetto di Arzachena (fig. 12) che, insieme con i vaghi di collana e le capocchie globoidi, anch’essi di steatite, rinvenuti nella stessa necropoli (fig. 13), trova riscontri a Creta dal subneolitico al medio Minoico. È difficile stabilire se queste corrispondenze mediterranee, segnatamente orientali, rappresentino, oltre che un complesso di correnti di cultura, anche un vero e proprio livello di sviluppo della civiltà preistorica nell’isola, anteriore alla fase del neolitico finale: vale a dire del caratteristico eneolitico sardo dominato dagli influssi iberici. Certo nella maggior parte dei casi si constatano mescolanze con elementi più recenti. Nell’appartata Gallura l’incontro con l’occidente sembra limitato alla presenza di monumenti megalitici, quali sono le tombe a circolo (fig. 14) analoghe a quelle della Corsica e della Catalogna; mentre i corredi non risentono, per quanto sappiamo finora, dell’influenza dell’eneolitico iberico. Probabilmente manifestazioni culturali di epoca ed ispirazione diversa si sovrapposero in Sardegna in un torno di tempo relativamente breve, dando luogo a contatti e a contaminazioni, con una più evidente impronta arcaica e specializzata in certe zone e località (come in Gallura, dove la ceramica è povera e manca il metallo; o nell’orizzonte di San Michele, che mostra una particolare fioritura della ceramica incisa); mentre altrove (per esempio nell’orizzonte di Cagliari) si osserva un più intenso e vario incrocio di elementi, attestato nella ceramica dalla concomi14. Tomba a circolo (Arzachena). tanza delle primitive decorazioni impresse con quelle incise e con la tecnica occidentale del bicchiere a campana. Va in ogni caso sottolineato che lo sviluppo della cultura materiale nell’isola non offre all’inizio tendenze unitarie e spunti originali, se si eccettua l’impiego su larga scala della locale ossidiana per le armi e gli strumenti. La possibilità che la produzione dell’ossidiana sarda abbia influito considerevolmente sui traffici transmarini, come elemento di scambio, sembra diminuire via via che si chiarisce sempre meglio, attraverso la esplorazione sistematica in corso delle isole Eolie, la preminenza di questi altri centri insulari vulcanici nella diffusione panmediterranea dei manufatti di ossidiana. L’afflusso di elementi culturali dall’Iberia alla Sardegna rappresenta un momento storico e cronologico sufficientemente determinato della preistoria dell’isola. Il caratteristico bicchiere campaniforme dell’eneolitico iberico (fig. 15) e, in genere, la decorazione finemente impressa, incisa e punteggiata con motivi geometrici vari e complessi che lo 108 109 11. Coppa carenata (San Bartolomeo). 13. Collana (Arzachena). 12. Tazza di steatite (Arzachena). LA SARDEGNA Sviluppo culturale e storico NURAGICA a 15. Bicchiere a campana (Anghelu Ruju). b 16. Armi di rame (Anghelu Ruju). accompagna ne costituiscono la manifestazione peculiare e più appariscente. Ma la civiltà di questo orizzonte, esemplarmente documentata ad Anghelu Ruju, offre caratteri di complessità e di originalità che trascendono la portata della semplice imitazione dei motivi elaborati nella penisola iberica; confluendo in essa anche tradizioni locali (specialmente per quanto riguarda la ceramica) e nuove ispirazioni orientali, sia pure localmente rielaborate. L’armamentario e lo strumentario si arricchiscono e si raffinano, per ciò che concerne la lavorazione a ritocco degli oggetti di pietra (anche di quarzo e calcedonia) (fig. 3) e d’osso; fa la sua apparizione il metallo, con pugnali (fig. 16a), punte di frecce (fig. 16b), spille, monili di rame; la fastosità degli ornamenti personali è attestata da collane con vaghi di pietra, di metallo, di conchiglie lavorate, di denti di animali (fig. 17); ma soprattutto la plastica svela un nuovo e caratteristico impulso nella produzione dei cosiddetti “idoli” femminili schematici di pietra calcarea (probabilmente figurine di specifica destinazione funeraria) scoperti oltre che ad Anghelu Ruju (fig. 18) e a Porto Ferro (fig. 19), nella 110 17. Collane e pendagli (Anghelu Ruju). Sardegna nord-occidentale, anche a Conca Illonis presso Oristano e a Senorbì nella zona montuosa a nord di Cagliari (fig. 20): cimeli che trovano amplissimi riscontri in Asia Minore, nelle Cicladi, nell’Egeo e in un certo senso anche nell’Iberia, ma che tuttavia rivelano nel tipo, nelle forme e nella tecnica l’impronta di una fattura locale. Anche la diffusione dell’architettura megalitica in Sardegna sarà molto probabilmente da ascriversi ad influenze eneolitiche occidentali; ma è assai significativo il fatto 18. Statuette di calcare (Anghelu Ruju). che ci manca fino ad 111 LA SARDEGNA Sviluppo culturale e storico NURAGICA a b 21. Piante di grotticelle artificiali (Anghelu Ruju). oggi la prova di un’associazione del bicchiere a campana e in genere del materiale della cultura tipo Anghelu Ruju con tombe di tipo megalitico, mentre abbiamo già visto che Arzachena presenta negli oggetti una facies notevolmente diversa. Dovremo concludere che l’architettura dolmenica s’introduce per vie diverse (la Corsica?) od in tempi lievemente anteriori? Viceversa il pieno eneolitico sardo, con il bicchiere a campana, appare strettamente collegato con gl’ipogei artificiali, di diffusione panmediterranea, da Cipro all’Italia meridionale, alla Sicilia, a Malta, all’Iberia, alla Francia meridionale. Gli esemplari sardi rivelano spesso una struttura planimetrica complessa, con una tendenza alla conformazione rettangolare degli ambienti, presenza di pilastri di sostegno, ecc. (fig. 21), che differisce notevolmente dalle tombe “a forno” della Sicilia. Vi appaiono inoltre ornati di imitazione architettonica e figurazioni in rilievo (testa di toro, barca), per le quali si è voluta ricercare una lontana origine orientale, pur non mancando analogie in altri sepolcreti ipogeici dell’occidente mediterraneo. Ai tempi della fioritura di Anghelu Ruju il quadro della civiltà in Sardegna doveva presentarsi piuttosto complesso. Uomini di una stirpe già commista con elementi continentali, forse di recente immigrazione ed aperti ad intensi contatti con gli altri paesi del circostante mondo mediterraneo, avevano elaborato una loro ricca ed evoluta esperienza di vita, nella quale appare riflessa l’impronta della più felice fase espansiva della preistoria iberica, quella del pieno eneolitico. Essi dovevano essere già organizzati in centri di una notevole entità, come attestano i sepolcreti: presumibilmente vivevano in capanne circolari e rettangolari, e cominciavano forse ad applicare a costruzioni di carattere 112 113 19. Statuetta eneolitica (Porto Ferro). 20. Statuetta eneolitica (Senorbì). LA SARDEGNA Sviluppo culturale e storico NURAGICA civile la tecnica delle pseudocupola in aggetto, già contemporaneamente diffusa a Cipro (Khirokitia) e in monumenti sepolcrali di Creta e dell’Iberia (Los Millares), per tacere del suo parziale impiego nelle absidi dei grandi monumenti di Malta. Manca per altro, finora, la prova di una concomitanza di materiale tipico della cultura di Anghelu Ruju con veri e propri edifici nuragici. Questa nuova impronta di civiltà, senza dubbio legata alle zone costiere, si sovrapponeva e mescolava con altre forme di vita più arretrate, per esempio nel mezzogiorno, come risulta dalle caverne cagliaritane, e a maggior ragione nell’interno dell’isola e nel settentrione, che ci offre la sua singolare provincia culturale gallurese. Il problema della datazione assoluta della fase di Anghelu Ruju e delle manifestazioni ad essa contemporanee è connesso con quello della generale cronologia preistorica del mondo mediterraneo. Per l’eneolitico pieno di Spagna e per la diffusione della cultura del bicchiere a campana si oscilla attualmente tra la fine del III millennio e i primi secoli del II. Per gli orizzonti di cultura orientali con “idoli” schematici (Minoico antico evoluto, Cicladico antico, Troia II-Yortan) la datazione corrente e tradizionale è quella della seconda metà del III millennio. I recenti scavi di C. W. Blegen a Troia sembrano portare elementi per un sensibile abbassamento di questa cronologia. Considerato il tempo necessario per l’acquisizione degli elementi di origine straniera più o meno lontana e per la formazione di quel complesso culturale composito e maturo che si ravvisa in Anghelu Ruju, non sembra ci si debba orientare troppo lontano dal vero supponendone una datazione nel II millennio anche inoltrato. Secondo l’antico schema cronologico, proposto dal Taramelli e dal Patroni, all’età eneolitica succederebbe in Sardegna l’età del bronzo, rappresentata dalla civiltà nuragica. Questa offrirebbe elementi di concomitanza e di parallelismo con le grandi civiltà del bronzo del Mediterraneo orientale fiorite nel II millennio a.C. Ma i chiarimenti apportati, specialmente negli ultimi tempi, da altri studiosi ed in particolare dal Lilliu valgono oggi a rappresentarci con assoluta certezza il nuragico pieno, con i suoi grandi castelli, i villaggi, i pozzi sacri, la plastica di bronzo, come un fenomeno che deve collocarsi agli albori dei tempi storici, in sincronismo con le culture del ferro dell’Italia peninsulare. L’aspetto arcaico di questa “civiltà del bronzo sardo” è soltanto illusivo: esso si collega con l’appartamento e la specializzazione culturale dell’isola. Riconosciuta la verità di una cosiffatta affermazione, sorge peraltro il problema di determinare gli aspetti assunti dallo svolgimento della civiltà paleosarda nel corso dei molti secoli che s’interpongono tra la fase di Anghelu Ruju e gl’inizi dell’“età del ferro” italica: vale a dire dalla prima metà del II millennio ad almeno il IX-VIII secolo a.C. La sensazione di uno “spazio vuoto”, di uno hiatus, potrebbe essere in parte giustificata. Ma occorre tener presenti due considerazioni preliminari, di natura metodologica, che assumono nel caso specifico valore fondamentale, e cioè: 1. che le nostre conoscenze del sottosuolo archeologico della Sardegna sono, come si diceva in principio, estremamente limitate e frammentarie, tali da consentirci soltanto la casuale illuminazione di alcuni complessi di cultura isolati nello spazio e nel tempo (se fosse mancato, ad esempio, lo scavo di Anghelu Ruju, il concetto stesso di eneolitico sardo non avrebbe avuto possibilità di enuclearsi); 2. che le progressioni di civiltà non sono continue e sempre ugualmente intense, talché a periodi di particolare impulso creativo succedono, come è noto, altri periodi di ripetizione e di stasi, mal riconoscibili in sede di documentazione puramente archeologica. In verità, diverse manifestazioni di apparenza eneolitica in Sardegna, che differiscono dalla cultura tipica di Anghelu Ruju, eppure in qualche modo la presuppongono, possono 114 115 LA SARDEGNA Sviluppo culturale e storico NURAGICA e a b c d h e f g a b c d f i l 22. Ceramica (grotte dell’Iglesiente: a; nuraghe Sianeddu: b-c; Tanca Orrios: d; Sardara: e-g; Punta Castello di Lula: h-l). g h i l m n o p orientarci verso la ipotesi di un lungo perdurare delle forme fondamentali della tarda civiltà della pietra nel territorio dell’isola. Almeno in parte i depositi delle caverne dell’Iglesiente, parecchie grotticelle funerarie (Cuguttu, Busachi con decorazioni dipinte sulle pareti, Fanne Massa, Villa Claro, ecc.) ed alcuni strati di nuraghi contribuiscono a concretare questo punto di vista, che trova, del resto, conferma nel fatto incontrovertibile che singole fogge di vasi ed armi e strumenti [di] pietra sopravvivono come suppellettile d’uso fin nella tarda civiltà nuragica dei tempi pienamente storici. I tripodi ansati (fig. 22a), le brocche a beccuccio (fig. 22c) (già presenti ad Anghelu Ruju) e gli orci rotondi con prese anulari e collo cilindrico (fig. 22b) – forme, queste due ultime, ampiamente attestate nei nuraghi e destinate ad ulteriori sviluppi – ci avvertono di una persistente e via via più intensa rielaborazione locale di motivi originati dalle lontane influenze di antiche culture orientali, tipo Troia IIYortan e Cicladi. Il primo documento certo del penetrare di influenze della civiltà del bronzo in Sardegna è costituito dai lingotti 23. Strumenti e armi di bronzo (Monte Sa Idda: a-d, n; Forraxi Nioi: e; Sarule: f; Abini: g, i-l, o; Oliena: m; provenienza incerta: p). 116 117 di rame cretesi, con qualche segno di scrittura “lineare A”, scoperti, in circostanze non del tutto chiare, a Serra Ilixi presso Isili e ad Assemini. La loro datazione al XIV secolo sembra la più probabile. Strumenti e armi di bronzo, quali asce piatte con lama svasata, sporgenze marginali, asce a spalla e con bordi rialzati, “paalstabs” con occhielli, pugnali, spade lunghe di foggia arcaica (tipo Micene-Huelva), rinvenuti in edifici nuragici, non risalgano oltre la fase finale del II millennio (figg. 23a-d, 23n). Il possibile significato dell’armamentario dei guerrieri Sherdani nelle figurazioni egizie del XIII-XII secolo come testimonianza di una piena affermazione della materiale civiltà del bronzo nell’isola è limitato dalle incertezze che tuttavia sussistono sulla identificazione di questi avventurieri e mercenari come Sardi e più ancora dal sospetto che essi abbiano uniformato in parte il loro armamento a quello diffuso nel mondo orientale. LA SARDEGNA Sviluppo culturale e storico NURAGICA Riassumendo tutti questi dati ed indizi, si può comunque affermare, nonostante le incertezze cronologiche e le difficoltà di associazione e di ordinamento in serie del materiale archeologico e dei monumenti, che il periodo intercorrente tra l’eneolitico tipico di Anghelu Ruju e l’età protostorica – e cioè essenzialmente la seconda metà del II millennio – presenta una sua figura, sufficientemente delineata, nello sviluppo della civiltà paleosarda. Per quanto riguarda il corredo materiale degli oggetti d’uso, essa può considerarsi ancora sostanzialmente fedele alla tradizione culturale eneolitica dell’età antecedente, con qualche apparenza di impoverimento (nella decorazione ceramica e nella plastica figurata); ma la pressione della grande civiltà del bronzo mediterranea favorisce a poco a poco l’introduzione nell’isola di fogge e tecniche nuove, sino a determinare sullo scorcio del millennio un’autentica trasformazione delle forme attardate locali in un nuovo orizzonte di cultura, parzialmente parallelo a quello dell’Appenninico italiano, del “secondo periodo” siculo e dell’Argariano spagnolo. L’aspetto più interessante di questo periodo sembra però da ravvisare nella originalissima elaborazione dell’architettura nuragica, che, sul fondo di una locale predominanza del tipo dell’abitazione circolare e sviluppando antiche tradizioni costruttive di diffusione panmediterranea, realizza il prototipo del nuraghe destinato alla più varia applicazione ed al più complesso svolgimento. Verisimilmente accanto al nuraghe dovrà ritenersi entrato in uso fin d’ora anche il tipo dell’abitazione rotonda a pareti murarie. Né si può escludere che l’antica architettura funeraria megalitica dei dolmen, con interferenze planimetriche di probabile influenza straniera, già evolva verso il sepolcro monumentale che va sotto il nome di “tomba di giganti”. Ma soprattutto caratteristico resta il tipo di tomba scavato artificialmente nella roccia. Nel complesso la fisionomia monumentale ed ergologica della Sardegna – fatta forse eccezione per l’estremo settentrione che pare orientarsi verso interferenze con la Corsica – tende a superare le discordanze culturali perspicue nelle fasi preistoriche precedenti, per armonizzarsi in un tipo uniforme esteso su tutto il territorio dell’isola. A questo momento della preistoria sarda potremmo dunque far risalire, non senza verosimiglianza, anche l’unificazione etnico-linguistica del paese, testimoniata, come si diceva, dalla toponomastica e dai relitti lessicali. Quale particolare funzione storica abbia esercitato nel mondo mediterraneo il popolo paleosardo durante il II millennio, e specialmente nel corso dei suoi ultimi secoli, non ci è dato precisare. Ma è probabile che i legami commerciali e culturali, non soltanto con l’Iberia e con le Baleari (dove presto si ravviserà un’esperienza monumentale singolarmente affine a quella nuragica), ma anche con l’Africa, la Sicilia e l’oriente mediterraneo si siano rinnovati ed intensificati: non per altro sino al punto di includere la Sardegna nella sfera diretta della espansione micenea e submicenea, almeno per quanto finora sappiamo. Un’eventuale partecipazione dei Sardi ai sommovimenti etnico-politici dello scorcio del millennio, onde ebbero fine il sistema dei grandi regni orientali e la civiltà egea, quale sarebbe indicata dalla possibile ma tuttavia incerta testimonianza dei documenti relativi ai Sherdani (ed anche dalla leggenda riecheggiante in Simonide circa una guerra tra i Sardani e i Cretesi), potrebbe almeno inizialmente inquadrarsi nell’ambito dei rapporti tra gli abitatori dell’isola e i Libici, che sappiamo nel XIII secolo coalizzati con i popoli dell’Egeo contro l’Egitto. Di una colonizzazione della Sardegna da parte di genti provenienti dal Mediterraneo orientale in questo periodo, benché tale ipotesi sia stata più volte affacciata, mancano assolutamente le prove. Il quadro delle nostre conoscenze attuali ci orienterebbe anzi ad escluderla in maniera piuttosto recisa. 118 119 LA SARDEGNA Sviluppo culturale e storico NURAGICA Le cause della piena fioritura nuragica nel I millennio a.C. sono assai probabilmente da ricollegare ai motivi che determinarono, agli inizi della cosiddetta “cultura del ferro”, l’estendersi all’Italia di quelle forme di civiltà superiore, di tipo “storico”, per l’innanzi limitate all’oriente mediterraneo (organizzazione urbana, economia artigianale tendente all’industrializzazione con grande sviluppo della metallurgia, affermarsi di una tradizione artistica figurativa, scrittura, ecc.). La posizione insulare ed occidentale impedì che la Sardegna fosse investita dalla grande ondata della “cultura dei campi d’urne” corrente lungo tutto l’arco dell’Europa meridionale e ostacolò l’introduzione delle fogge decorative geometriche dominanti al principio del millennio nel Mediterraneo orientale e centrale: l’uno e l’altro, rito incineratorio e geometrismo, fattori essenziali dello sviluppo della cultura del ferro in Grecia e in Italia. Talché non si può parlare di una cultura del ferro in Sardegna. Ma la ricerca e lo sfruttamento delle risorse minerarie dell’occidente e l’inizio del grande movimento di colonizzazione da parte dei Fenici e dei Greci – fenomeni senza dubbio strettamente collegati tra loro – rappresentano la condizione storica di quell’impulso di trasformazione e di sviluppo che investe ugualmente, seppure in forma diversa, l’Italia e la Sardegna. Quest’ultima aveva già di certo poste le premesse della sua peculiare e singolare esperienza di civiltà negli ultimi secoli del II millennio; onde poi non potrà più prescindere dall’impronta di tradizionale arcaismo che opporrà una sorta di caparbia, seppur non sempre totale resistenza alle forme innovatrici progressivamente imposte dal sovrastante magistero culturale ellenico ai diversi paesi del mondo mediterraneo, non esclusi quelli dominati dai Fenici. Però quelle premesse non avrebbero mai potuto realizzarsi, nella forma grandiosa in cui si realizzarono, senza il rapido affermarsi di un potenziale economico legato alle ricchezze minerarie del suolo sardo, di cui si venne prendendo coscienza ed attuando la utilizzazione sotto l’incitamento della richiesta assillante del mercato internazionale. Anche se per l’innanzi si era forse iniziata parzialmente e localmente l’estrazione di minerali, specie di rame, a scopi metallurgici, fu certo soltanto all’inizio del I millennio che dovette riconoscersi appieno il valore di questa preziosa risorsa; onde la Sardegna balzò di colpo in primo piano, accanto all’Iberia e all’Etruria, tra i paesi produttori di una materia prima indispensabile ai crescenti bisogni della metallurgia nel mondo mediterraneo. L’attrazione che essa esercitò sui navigatori stranieri in cerca di fruttifere transazioni commerciali dovette in breve mutarsi in una stabile corrente di scambi e successivamente in un’aspirazione di monopolio e di controllo del suo territorio da parte dei gruppi colonizzatori che si affermavano sempre più estesamente ed intensamente sulle rive dei mari occidentali. Tra questi i primi e, anche nell’avanzare del tempo, i più forti, per ciò che concerne la Sardegna, furono fenici, non già direttamente mossi dalla Siria, ma assai più probabilmente, come adesso si propende a credere, affluiti dai loro scali delle coste dell’Africa settentrionale e della Sicilia o rifluiti dagli antichi centri coloniali dell’Iberia, Cadice e Tartesso, fondati sin dalla fine del II millennio o dall’inizio del I, secondo una tradizione che si volle a torto ritenere infondata. La correlazione fra gli stanziamenti fenici in Iberia e in Sardegna va considerata specialmente alla luce di un unico vasto piano di sfruttamento delle possibilità commerciali derivanti dalle risorse minerarie dei paesi occidentali, con particolare riguardo all’argento per l’Iberia ed al rame per la Sardegna. Gli originari empori marittimi sulle coste sarde diedero origine ad una costellazione di colonie a carattere urbano, la cui documentazione archeologica non sembra finora possa farsi risalire più indietro dell’VIII-VII secolo e che ebbero 120 121 LA SARDEGNA Sviluppo culturale e storico NURAGICA un più ampio sviluppo dopo la conquista cartaginese: esse sono, da sud verso nord, lungo l’arco litoraneo occidentale dell’isola, Caralis, Nora, Bithia, Sulcis, Othoca, Tharros, Cornus (fig. 1). L’attività marittima fenicia attorno alla Sardegna, benché preponderante, non può considerarsi esclusiva. Le reciproche influenze che si avvertono tra la cultura paleosarda e la cultura dell’Etruria marittima settentrionale (Vetulonia e Populonia) tra l’VIII e il VI secolo denunciano una corrente di traffici attraverso il Tirreno, alla quale possono raccordarsi eventualmente anche la tradizione circa la presenza di corsari sardi sulle coste etrusche e i dati onomastici precedentemente citati come indizi a favore della ipotesi di stanziamenti etruschi nella Sardegna orientale. È assai significativo il fatto che i contatti anche in questo caso si determinano tra due regioni produttrici di metalli. L’epoca coincide con quella alla quale si riporta la talassocrazia etrusca; ed è da escludere nel caso particolare, per molte ragioni, la mediazione dei Fenici. Non si può invece trascurare del tutto la possibilità che, accanto ad un’attività della marineria etrusca, si sia sviluppata, seppure limitatamente, una navigazione sarda, di cui potrebbe cogliersi un riflesso nella produzione di figurine di bronzo in forma di imbarcazioni. Benché presenti sicuramente sin dall’VIII secolo nei mari occidentali, i Greci non sembrano tuttavia esser stati attivi in Sardegna se non secondariamente e tardivamente. La loro iniziale sfera d’azione, con la colonizzazione calcidese e dorica, coincide infatti con la Sicilia e l’Italia meridionale e forse anche, come oggi si crede, con le coste settentrionali dell’Africa. Soltanto l’ardimentoso spingersi dei navigatori ionici sulle vie già percorse dai Fenici, e probabilmente verso le stesse mete, a partire dalla fine del VII secolo, e la colonizzazione focea sulle coste dell’Iberia, della Liguria e infine della stessa Corsica determineranno interessi e possibilità per un’attività greca in Sardegna. 122 Saranno ora i Focei a tentare l’accaparramento dei centri minerari e l’istituzione di una rete di rapporti intesa ad includerli nel sistema della loro egemonia marittima, che toccò il suo apogeo nella prima metà del VI secolo. La Corsica deve considerarsi come la chiave di volta per il programma di controllo così dell’Etruria mineraria come della Sardegna; ed è probabile che la Sardegna medesima fosse raggiunta con la fondazione di Olbia sulla costa nord-orientale antistante all’Etruria. Ma la coincidenza d’interessi fra i Cartaginesi, postisi alla testa della riscossa fenicia, e gli Etruschi, in posizione difensiva, determinò il fallimento del vasto piano foceo, attraverso un conflitto di cui l’episodio militare culminante fu la battaglia di Alalia. Il contraccolpo di tutte queste circostanze storiche sulla vita della Sardegna fu senza dubbio di portata grandiosa. Lo sfruttamento delle miniere improvvisamente valorizzate, la lavorazione locale dei prodotti metalliferi (in fornaci fusorie come quella scoperta ad Ortu Commidu), la vendita del metallo grezzo o lavorato, le eventuali concessioni a coloni stranieri debbono aver portato ad un notevole aumento di ricchezza e di prestigio dei capi e delle comunità locali, che possiamo immaginarci in un 24. Spaccato del nuraghe Palmavera. 123 LA SARDEGNA Sviluppo culturale e storico NURAGICA 26. Nuraghe Losa. primo tempo condiscendenti ed interessati come il re Argantonio di Tartesso verso i Focei (Erodoto, I, 163). Non meno importante deve essere stato lo stimolo spirituale e materiale esercitato dal diuturno contatto con immigrati di alta ed antica civiltà sulla mentalità, sulla organizzazione, sui costumi e sul gusto delle popolazioni indigene. Si formarono allora grossi borghi con abitazioni, per lo più circolari, di muratura, spesso all’ombra di castelli nuragici (per esempio Serrucci, Cala Gonone, giara di Serri, Serra Orrios); si moltiplicarono, ingrandirono e resero più complessi i nuraghi, talvolta con più torri e cinte difensive – Palmavera (fig. 24), Losa di Abbasanta (figg. 2526), Santu Antine di Torralba (fig. 27), ecc. – nei luoghi più propizi al controllo del territorio e non di rado distribuiti secondo un piano ordinato di sorveglianza e protezione tattica e strategica; sorsero i grandi san27. Nuraghe Santu Antine di Torralba. tuari (Abini, Cabu Abbas); 124 125 25. Pianta del nuraghe Losa di Abbasanta e delle costruzioni circostanti. LA SARDEGNA Sviluppo culturale e storico NURAGICA 28. Spaccato della “Fontana coperta” di Ballao. 29. Pianta del pozzo o cisterna sacra della giara di Serri. 126 apparvero i pozzi – Sardara, Ballao (fig. 28), giara di Serri (fig. 29) – e le fontane sacre (Lomarzu); la tecnica muraria si arricchì e raffinò sulla base dei modelli stranieri; la decorazione architettonica accolse elementi esotici. La tradizione delle tombe scavate nella roccia ebbe ulteriore impulso dalla imitazione delle particolarità planimetriche e strutturali degli edifici civili – Sant’Andrea Priu (figg. 30-31) – mentre in forma monumentale venne affermandosi il tipo di sepolcro architettonico collettivo, con esedra, stele e corridoio, di lontana ascendenza megalitica, la “tomba di giganti” (figg. 32-34). Pur nel persistere di oggetti d’uso (strumenti litici e ceramiche) simili a quelli dell’età precedente, l’impiego del bronzo diventò di uso corrente per armi, utensili, recipienti, ornamenti (figg. 23, 3537); né mancò di diffondersi l’uso del piombo, del ferro, dei metalli preziosi. Comparvero ambre e vetri, di provenienza straniera. 30-31. Interni di una tomba rupestre di Sant’Andrea Priu. 127 LA SARDEGNA Sviluppo culturale e storico NURAGICA a c a b b 35. “Rasoi” (Nurra: a; provenienza incerta: b). 32. “Tombe di giganti” di Bultei: piante e sezioni. 36. Fibule (Abini: a; Forraxi Nioi: c). a 33. Tipo di stele-porta arcuata. 34. Stele-porta trapezoidale della tomba di Vidili Piras. b c 37. Armilla (Abini): a; spillone (Nurra): b; oggetto incerto (Nurra): c. La ceramica vide il pieno sviluppo delle brocche a beccuccio, degli orci globulari e, accanto ad essi, di idre biconiche e in genere di vasi con la caratteristica ansa a gomito, talvolta decorati con motivi geometrizzanti (affini ad alcuni del tardo bronzo e del ferro italiano) incisi, plastici e persino dipinti (fig. 22). Infine si sviluppò su larga scala una produzione plastica di piccoli bronzi figurati, con figure di animali, modelli di imbarcazioni, di edifici, ecc., di destinazione votiva o concepita come parte integrante di elementi di suppellettile, caratterizzati da un’impronta formale relativamente unitaria ed originale (figg. 38-39, 41-43, 45-47, 49-51, 60-62). 128 129 LA SARDEGNA Sviluppo culturale e storico NURAGICA In complessi di ritrovamenti nuragici di questo periodo s’incontrano oggetti fenici (candelabri, vasi anche dipinti a fasce, ornamenti personali) e di provenienza od ispirazione italica: recipienti laminati, dischi di bronzo, fibule ad arco semplice, ingrossato, serpeggiante e a navicella (fig. 36). Per contro, oggetti nuragici vennero alla luce nelle colonie fenicie della costa e nella zona mineraria dell’Etruria: armi, ornamenti, barchette di bronzo (figg. 38-39). Una perspicua affinità, per non dire comunanza di manifestazioni, per ciò che concerne le fogge ceramiche delle brocche a beccuccio e certe soluzioni formali dei bronzi figurati, si avverte tra la Sardegna e Vetulonia, nel periodo che va dalla fine dell’VIII secolo al principio del VI. Tutti questi dati valgono a chiarire, tra l’altro, in modo che va considerato ormai inequivocabile, la posizione cronologica di quell’orizzonte di civiltà che possiamo designare come nuragico pieno. Esso corrisponde al momento più felice della esperienza culturale e storica dei Paleosardi. Rappresenta lo sforzo massimo da loro compiuto per inserirsi con le loro tradizioni e capacità nel multiforme e progredente sviluppo delle civiltà mediterranee. Ma il carattere primitivo della mentalità che soggiace alle manifestazioni esteriori di questo mondo sostanzialmente chiuso ed attardato – onde si ha la impressione di un’intempestiva grandiosa efflorescenza di motivi legati dalla preistoria mediterranea – spiega, almeno in parte, i limiti imposti da ulteriori svolgimenti ed innovazioni: specie la mancata adozione di una vera e propria organizzazione urbana e, per quanto ci consta, della scrittura. Il diverso e più fortunato destino dell’Etruria e dell’Iberia protostoriche – per citare le altre due grandi regioni minerarie del Mediterraneo occidentale – può però interpretarsi anche in ragione della presenza diretta dell’influsso greco che, per le contingenze storiche precedentemente riassunte, mancò invece in Sardegna. Analoga sorte ebbe invece la fioritura protostorica autonoma delle Baleari, che nelle sue costruzioni in pietra (talayots, navetas) 130 38. Navicella di bronzo (nuraghe Spiena di Chiaramonti). 39. Navicella di bronzo (Vetulonia, Tomba del Duce). 131 LA SARDEGNA Sviluppo culturale e storico NURAGICA presenta indubbie, se pur non strettissime analogie con i monumenti nuragici: tali comunque da far supporre contatti ed interferenze con la Sardegna. Dalla seconda metà del VI secolo, come conseguenza della battaglia di Alalia, l’isola restò alla mercé di Cartagine, e non soltanto le tracce della tentata penetrazione focea, ma probabilmente anche le antiche relazioni con gli Etruschi (pur coadiutori della vittoria cartaginese) furono cancellate e distrutte. La politica dei primitivi empori fenici nei rapporti con gl’indigeni fu radicalmente trasformata. Il pacifico colonialismo economico si mutò in una conquista armata e in un progressivo controllo territoriale, non sappiamo se per esigenze strategiche generali o se per fronteggiare localmente il pericolo di un’ostilità degli abitanti dell’isola, eventualmente manifestatasi durante il precedente conflitto, o se per l’uno e l’altro motivo insieme. La tradizione semileggendaria dei Greci ha configurato e trasfigurato questo momento storico come una distruzione, da parte dei Cartaginesi, di un mondo felice instaurato dagli eroi e come una fuga verso le montagne ed un progressivo inselvatichirsi dei suoi relitti. Effettivamente per gl’indigeni dovette ora cominciare a proporsi un problema di resistenza, che potremmo dire nazionale, alla minaccia della penetrazione straniera. Le campagne di Magone e dei figli di Malco testimoniano insieme della aggressività cartaginese e della fiera opposizione sarda. Perdute le coste e gran parte delle zone occidentali dell’isola, l’interno e il settentrione protetti dalle montagne divennero il rifugio naturale della indipendenza indigena. Non sappiamo se i due successivi secoli (V e IV) di incontrastata egemonia cartaginese sulla Sardegna abbiano conosciuto periodi di distensione e di sottomissione, dei quali potrebbe esser prova il reclutamento di mercenari sardi negli eserciti punici; ma è certo che le vicende delle guerre puniche e della conquista e del consolidamento del dominio romano nell’isola – le quali non appartengono ormai più nella storia primitiva ed autoctona della Sardegna, ed esorbitano quindi dai limiti della presente trattazione – ci mostrano nuovamente e più volte il concentrarsi delle resistenze e dei centri di ribellione locali nelle regioni montuose. Evidentemente per questa fase, posteriore al VI secolo, non si può più parlare di una relativa unità di distribuzione e di cultura dei Paleosardi su tutto il territorio dell’isola. Una parte delle popolazioni indigene deve infatti essersi adeguata ai nuovi orientamenti di vita introdotti dalla potenza dominante, fondendosi anche in parte e dal punto di vista etnico e dal punto di vista culturale con gl’immigrati. Un’altra parte avrà conservato più gelosamente e genuinamente le sue antiche tradizioni. È, dunque, quella frattura che troviamo in atto al momento della conquista romana e che risulta dalle fonti storiche. Nel mezzogiorno e nell’occidente la civiltà nuragica cede ad una nuova forma di cultura punico-sarda, a carattere urbano e con prevalenza di elementi cartaginesi, pur sopravvivendo in parte gli antichi centri e gli antichi monumenti con le loro caratteristiche militari o religiose (talché vediamo, ad esempio, costituirsi un luogo di culto punico nel nuraghe Lugherras e persistere in uso, e persino ampliarsi, come sede di guarnigioni romane, la grande fortezza nuragica Santu Antine di Torralba). Quanto a coloro che si rifugiarono o rimasero accantonati nelle impervie montagne della Sardegna centro-orientale o nei territori settentrionali dell’isola – i più poveri e scarsamente abitati in ogni tempo –, sotto la pressione degli invasori, Cartaginesi prima e poi Romani, che li tagliarono fuori dai grandi centri e dalle vie di traffico marittime, è chiaro che non si può pensare in alcun modo ad ulteriori sviluppi della loro originaria civiltà, ma piuttosto ad un regresso verso forme di vita notevolmente più precarie e primitive di quelle ereditate dai tempi arcaici. Abitati in grotte come quello di Tiscali presso Dorgali testimoniano questa decadenza anche nell’immiserirsi della tecnica costruttiva e 132 133 LA SARDEGNA NURAGICA nella povertà della suppellettile. Si tratta di esperienze involute e stanche che si tramandano fino in piena età imperiale romana, forse anche sino al medioevo presso i pastori e i predoni della Barbagia o dell’Ogliastra; né mancano di riflessi e di sopravvivenze nella stessa etnologia moderna della Sardegna. A conclusione e riassunto dello sviluppo storico-culturale delineato nelle pagine precedenti si propone, naturalmente con tutte le opportune riserve, il seguente schema: [fino al] 2000 a.C.? neolitico antico e medio? 2000-1500 circa eneolitico Macomer? Anghelu Ruju San Michele grotte di Cagliari Arzachena 1500-800 eneolitico attardato sepolcreti rupestri, grotte e principio della dell’Iglesiente, primi nuraghi civiltà del bronzo 800-500 nuragico pieno colonizzazione fenicia e contatti sardo-etruschi, fioritura dei centri nuragici, bronzi figurati [dal] 500 nuragico attardato conquista cultura indigena cartaginese, civiltà impoverita punico-sarda, conquista romana 134 ORGANIZZAZIONE, RELIGIONE, COSTUMI Il volto “preistorico” della civiltà paleosarda non ha ingenerato soltanto il lungo equivoco cronologico, per cui la fioritura nuragica si credette contemporanea alle civiltà preelleniche; ma ha contribuito anche al formarsi di un’immagine alquanto vaga, favolosa ed unilaterale della mentalità e della struttura sociale degli antichi abitatori indigeni della Sardegna, rappresentati come pastori-guerrieri dall’indole e dalle abitudini fiere e primitive, secondo un modello al quale forse non è rimasta estranea la ispirazione della psicologia e del folclore dei Sardi moderni, colorita e quasi miticamente trasfigurata da certa letteratura di ambiente isolano. Per ciò che riguarda la organizzazione dei Paleosardi, considerata in rapporto con la natura e la distribuzione dei loro monumenti, sono state formulate due diverse teorie: una, propugnata soprattutto dal Taramelli e dal Patroni, secondo la quale l’ubicazione dei nuraghi rivelerebbe un grandioso e preordinato piano strategico di difesa dell’isola, spiegabile soltanto sulla base di un forte sistema collettivo e di una relativa unità territoriale; l’altra, recentemente ripresa dal Mingazzini, orientata verso l’analogia delle torri e dei castelli nuragici con le torri e i castelli del medioevo feudale, e perciò tendente a spiegare la società nuragica come un mondo frammentato ed anarchico, perpetuamente in preda a risse e a vendette. Ma nella formulazione così dell’una come dell’altra ipotesi non si riuscì a prescindere dallo schema vulgato di un popolo primitivo, ordinato per clan patriarcali o per tribù, bellicoso e xenofobo, chiuso nei legami delle sue arcaiche tradizioni, privo di forza rinnovatrice ed espansiva. Eppure un’adeguata considerazione critica della grandiosità degli edifici nuragici stessi, ripetuti in innumeri esemplari, o della straordinaria raffinatezza di certi prodotti della 135 LA SARDEGNA Organizzazione, religione, costumi NURAGICA plastica bronzistica isolana potrebbe esser sufficiente ad orientare il nostro giudizio verso un più equo ed appropriato giudizio storico sul livello di civiltà raggiunto dai Paleosardi in un momento particolarmente felice del loro sviluppo e su quella capacità di affermarsi e di imporsi di singole “volontà” individuali, di là dall’inerte tradizionalismo dei gruppi, nel quale appunto consiste l’essenza delle civiltà progressive di tipo storico rispetto alle cul40. Interno del nuraghe di Isili. ture che, in sede preisto41. Figura maschile (Uta), statuetta rica od etnologica, dicianuragica di bronzo. mo “primitive”. 42. Guerriero (Uta), statuetta nuragica di bronzo. La verità è che una lun43. Lottatori (Uta), statuetta nuragica ga e complessa espedi bronzo. rienza di vita come quella della antica Sardegna non si può ridurre entro uno schema etnico e storico uniforme ed astratto. La immagine dei fierissimi e semiselvaggi abitatori di caverne, che i Romani snidavano con i cani feroci, non si può confondere con quella dei ricchi e pacifici edificatori delle tholoi di Isili (fig. 40) o di Ballao (fig. 28) o dei sapienti artefici dei bronzi di Uta (figg. 4143). In questo senso la saga greca dell’età dell’oro di Iolao, di Aristeo e di Dedalo, seguita dalla decadenza e dalla fuga sulle montagne, potrebbe aderire alla sostanza storica meglio di talune generalizzazioni ricostruttive dei moderni. 136 137 LA SARDEGNA Organizzazione, religione, costumi NURAGICA Né si può escludere che ambedue le ipotesi proposte ad interpretare politicamente e sociologicamente la quantità ed il numero dei nuraghi – quella del frammentismo territoriale, con una continua rivalità fra piccoli gruppi, e quella del sistema difensivo organizzato – abbiano possibilità di cogliere nel vero, purché riferite a momenti e forse anche a luoghi diversi. La contraddizione fra il tradizionalismo delle forme di vita e del gusto, troppo sovente ravvicinata alla ostinata resistenza alla penetrazione cartaginese e romana come argomento di una mentalità chiusa e xenofoba, e, d’altro canto, la indubbia esistenza di rapporti commerciali e culturali con il mondo esterno si risolve anche essa probabilmente in una distinzione di tempo. L’attribuire, infine, ai Paleosardi un’economia prevalentemente od esclusivamente pastorale significa non avvertire la importanza che l’agricoltura ebbe senza dubbio, almeno nei Campidani e nelle zone pianeggianti delle coste e del settentrione, sin dalla fase eneolitica (che vide, appunto, in Sardegna una delle più tipiche manifestazioni di quelle culture che diciamo agricole, con i caratteristici elementi della ceramica decorata, dell’architettura megalitica, degli “idoli” di pietra, ecc.), anche prescindendo dai significativi accenni della tradizione ellenica circa un intenso sfruttamento agricolo del suolo sardo nel periodo anteriore alla conquista punica. L’introduzione dell’agricoltura e della pastorizia è probabilmente contemporanea in Sardegna, con prevalenza della prima sui fertili terreni alluvionali, della seconda negli altipiani. Soltanto le vicissitudini storiche che portarono al controllo delle zone più adatte alle culture da parte degli invasori stranieri, tagliandone fuori le superstiti genti indigene semindipendenti, contribuirono a dare alla cultura degli ultimi nuraghicoli la sua specifica intonazione pastorale. Ciò premesso, una società preistorica fondata su piccoli gruppi con ordinamenti essenzialmente egualitari, di origine matriarcale o patriarcale, viventi in villaggi – quale vediamo diffusa dall’oriente all’occidente per tutto il mondo mediterraneo in età neo-eneolitica – potrà attribuirsi soltanto alle fasi prenuragiche. Il fenomeno dei nuraghi denuncia, all’opposto, – ciò che non è stato finora sufficientemente rilevato – l’accentrarsi dei mezzi e dei poteri nelle mani dei capi investiti di una preminente autorità politica (e forse religiosa), nell’ambito di ciascun gruppo: fatto, questo, che appartiene ad uno sviluppo più avanzato delle comunità mediterranee. Le loro dimore fortificate s’innalzano nelle campagne, a guardia dei possessi agricoli, dei pascoli e degli approdi costieri, o dominano i villaggi, che tendono ora a trasformarsi in grossi borghi di parecchie centinaia di abitanti con abitazioni di muratura. È probabile che la giurisdizione originaria di questi regoli fosse assai ristretta; ma ciò non manca di riscontri storici, né implica una costante situazione di ostilità reciproche. È comunque evidentemente inammissibile che ciascuno dei nuraghi superstiti rappresenti la sede di un potere autonomo. Prescindendo dal fatto che il tipo della costruzione nuragica si applica, come vedremo, a diverse funzioni (anche religiose, industriali, ecc.), il moltiplicarsi delle torri e delle rocche di specifica destinazione militare può aver seguito l’ampliarsi delle singole giurisdizioni e l’opportunità di agguerrirne i punti dominanti e i confini, in momenti di particolare pericolo. In questo senso potranno intendersi i parziali “sistemi” difensivi, quale, ad esempio, quello della giara di Gesturi. Se i piccoli aggruppamenti locali fossero già dalle origini ripartiti in maggiori unità etniche o se queste ultime, attestate come popoli o civitates con nomi distinti ai tempi della conquista romana, siano piuttosto il risultato di un processo di parziale unificazione etnico-territoriale realizzato in tempi protostorici, eventualmente per opera delle più agguerrite e fortunate tra le minuscole signorie nuragiche, non è consentito stabilire. È possibile comunque, ed anche probabile, che vincoli federativi collegassero tra loro, come nell’Italia e nella Gallia protostorica, le comunità minori in complessi maggiori, attorno a comuni santuari 138 139 LA SARDEGNA Organizzazione, religione, costumi NURAGICA (uno dei quali si è voluto riconoscere, con argomenti per altro insufficienti, sulla giara di Serri, dove sorge una vera e propria cittadina scarsamente fortificata) ed occasionalmente in funzione di alleanze militari difensive od offensive. Ciò potrebbe giustificare la preordinazione di più vaste reti di costruzioni militari, secondo piani strategici. Incertissima appare invece la possibilità di un sistema generale di difesa dell’isola, che sembra inconcepibile in tempi arcaici, quando i Fenici stabilirono, evidentemente in modo per lo più pacifico, i loro empori sulle coste sarde; mentre se mai si potrà immaginare un parziale sfruttamento, adattamento ed ampliamento dei gruppi di fortilizi nuragici in funzione di una difesa collettiva nei momenti della penetrazione dei Cartaginesi e delle guerre contro i Romani. Lo straordinario impulso subito dall’architettura civile in Sardegna, decisamente senza paralleli nel Mediterraneo protostorico, ed altri aspetti della civiltà nuragica non sembrano potersi riferire alle esigenze di una cultura preistorica di villaggi, ma rivelano decisamente, come si diceva, la impronta di personalità operanti nell’ambito di un notevole accentramento di interessi politici e religiosi. Come nel mondo preellenico e protoellenico la vita ferve attorno alle corti e ai santuari; anche se si tratti di piccole corti e di piccoli santuari, e il sistema della organizzazione urbana, verso il quale appare avviata la Sardegna nuragica, non abbia il tempo di imporsi prima della crisi del VI secolo. L’estrazione e la lavorazione dei metalli, l’artigianato locale, il commercio, probabilmente anche per via di mare, si aggiungono all’agricoltura e alla pastorizia come fattori essenziali della economia protosarda. L’addensarsi di nuraghi attorno agli empori costieri fenici, evidentissimo ad esempio nella regione di Nora e di Cagliari, e la presenza di oggetti fenici in questi monumenti (come nel nuraghe di Sarroch presso Nora) rivelano una convergenza d’interessi ed una pacifica collaborazione con gli stranieri, attraverso la quale il mondo straniero sollecita ed influenza le energie locali. Il quadro muterà probabilmente dopo i grandi conflitti coloniali del VI secolo e l’inizio della penetrazione cartaginese. È possibile che in questo periodo le antiche signorie nuragiche vengano cedendo il campo – come in altre regioni mediterranee ed europee – ad oligarchie gentilizie e sacerdotali e che i legami fra i diversi gruppi territoriali si rafforzino sotto la minaccia dell’invasione. I centri e specialmente i santuari dell’interno dell’isola acquistano una funzione preminente. L’ostilità contro gli immigrati rafforza il tradizionalismo e l’isolamento. La figura del pastore bellicoso, violento e diffidente – erroneamente generalizzata dagli studiosi moderni – nasce ora soltanto, per tramandarsi fino all’età imperiale romana ed al medioevo. Sulle idee e sui costumi religiosi dei Paleosardi, nonostante le notizie date dagli autori antichi e le molte scoperte di luoghi e di oggetti sacri, sappiamo finora ben poco. Pur ammettendo una larga sopravvivenza di concezioni primitive, una certa indistinzione tra le sfere del religioso e del magico ed una notevole interferenza tra i culti pubblici, privati e funerari, non si può escludere che la Sardegna nuragica conoscesse e venerasse divinità personali e definite, quali incontriamo in altre civiltà del mondo mediterraneo. I santuari connessi con le acque e taluni simboli aniconici si riferiscono probabilmente al culto di tali entità divine, di cui per altro ignoriamo il nome e gli attributi. La tradizione ci parla di eroi eponimi, adorati come divinità: e precisamente di Iolao e di Sardo; nonché di defunti eroizzati. È verisimile che i singoli gruppi, minori e maggiori, avessero divinità loro proprie; senza escludere la possibilità che alcune di queste si imponessero anche a più gruppi e forse all’intero territorio dell’isola. In età punica parrebbe affermarsi in tal senso, nel territorio sottomesso ai Cartaginesi, la figura di Sardo – che del resto è dubbio possa risalire all’antica religione indigena –, con il nome di Sardus Pater, probabilmente corrispondente a “Baal della Sardegna”. Esso era principalmente venerato in un grande santuario nel territorio di 140 141 LA SARDEGNA Organizzazione, religione, costumi NURAGICA Tharros: lo si raffigura con una corona di piume, come risulta dalle monete coniate da Azio Balbo in Sardegna nel 59 a.C., nelle quali appare anche il nome (fig. 44), e da un bronzetto punico-sardo da Genoni; con un tipo cioè di acconciatura diffuso ab antiquo nel Mediterraneo orientale e altrimenti noto nel mondo punico e nuragico (come attesta un fram44. Moneta di Azio Balbo con la figura di Sardus Pater. mento di statuina bronzea di 45. Donna con il figlio (giara stile paleosardo da Decimo, di Serri), statuetta nuragica che potrebbe rappresentare la di bronzo. stessa divinità, ma anche un semplice offerente). Il problema della presenza di immagini di divinità, eroi o esseri fantastici nella serie dei bronzetti nuragici, di destinazione prevalentemente votiva, è in verità ben lungi dall’esser risolto: analoghe questioni sorgono a proposito della plastica votiva greca, italica, iberica, ecc. La maggior parte delle statuine sembra raffigurare effettivamente piuttosto devoti, con i loro caratteristici costumi, che non divinità. Ma in alcuni casi si può rimanere in dubbio, per esempio a proposito delle “madri” con i figlioli in braccio dalla giara di Serri (fig. 45) e da Urzulei, o dei guerrieri in piedi su groppe di animali il cui schema ricorda quella di divinità orientali. Vi sono poi le figure mostruose di guerrieri con quattro occhi e quattro braccia che reggono due scudi e due spade (fig. 46), nelle quali difficilmente si potrà supporre, come fu proposto, una trasposizione figurativa del concetto della accresciuta potenza visiva e muscolare di mortali in seguito ai riti delle acque di cui si dirà tra poco, e se mai si riconosceranno demoni imparentati con quelle mortifere femmine dalla doppia pupilla di cui parla Solino. Il flautista itifallico 142 143 LA SARDEGNA Organizzazione, religione, costumi NURAGICA 46. Guerriero con quattro occhi e quattro braccia (Abini), statuetta nuragica di bronzo. 47. Toro androcefalo (Nule), statuetta nuragica di bronzo. da Ittiri, il toro androcefalo da Nule (fig. 47), di evidente ispirazione orientalizzante, ed altre figure rientrano nella sfera del mitico e del soprannaturale: non escludendosi tuttavia un’adozione in sede decorativa di tipi esotici, senza effettive corrispondenze nelle concezioni religiose locali. 144 145 LA SARDEGNA Organizzazione, religione, costumi NURAGICA Il culto si esercita in luoghi sacri, in rapporto con edifici che hanno il carattere di veri e propri nuraghi, come ad esempio nel santuario di Cabu Abbas, o presentano una forma rettangolare, eventualmente absidata, come quelli rinvenuti negli abitati nuragici della giara di Serri e di Serra Orrios (fig. 48) o presso pozzi e fonti sacre (figg. 28-29) dove appaiono altari, tavole di offerte ed altri impianti sacri. Si dovrà pensare ai riti sacrificali con offerte cruente e incruente (i sacrifici umani, ai quali fa cenno la tradizione storica, sono probabilmente introdotti nell’isola dai Fenicio-punici, e non apparterrebbero quindi alla religione paleosarda); mentre il grande numero di statuette, armi ed altri oggetti votivi rinvenuti nei santuari attestano anche in Sardegna l’uso, universalmente diffuso nell’antichità, della presentazione di donari pubblici e privati, a carattere propiziatorio o gratulatorio. Ma costumi cerimoniali particolarmente caratteristici dell’isola sembrano essere stati quelli che si svolgevano in relazione con sorgenti o raccolte d’acqua e in rapporto con le tombe. Il culto connesso alle acque, considerate simbolo, dono e strumento di manifestazione della divinità, si giustifica naturalisticamente tenuto conto delle particolari condizioni di secchezza della Sardegna, pur non mancando amplissime corrispondenze nelle religioni paleomediterranee. Il pozzo o riserva circolare, con opera muraria quadrata che almeno in alcuni casi si conchiude in alto in una copertura a tholos di tipo nuragico e nel cui interno si accede attraverso un dromos ed una scaletta, costituisce un monumento religioso tipico della Sardegna: se ne conoscono diversi esemplari, tra cui i più noti ed interessanti per il materiale votivo raccolto entro ed attorno ad essi, sono quelli di Sant’Anastasia a Sardara, di Ballao-Fontana Coperta (fig. 28), della giara di Serri (fig. 29), di Santa Cristina a Paulilatino, di Sa Testa presso Olbia. Carattere cultuale sembrano avere anche le fonti architettoniche, come quella di Lomarzu presso Rebeccu. Né si può tralasciare la menzione del recinto di Santa Lucia (Funtana Sansa) sull’altipiano di Bonorva, che probabilmente circoscriveva le polle di acqua frizzante, con alti poteri medicinali, che sgorgano tuttora nella località. La tradizione antica ci parla in realtà degli effetti miracolosi di alcune sorgenti sarde, destinate, come è evidente, a diventare luoghi di culto; e, ciò che è più interessante, ricorda pratiche di “giudizio di Dio” (accecamento di ladri spergiuri che si bagnassero con quelle acque ed incremento della vista degli innocenti) che richiamano molto da vicino alle ordalie, note, per l’antichità, anche nella Sicilia centrale ai laghetti sacri ai demoni Palichi (in rapporto con un ambiente religioso di sicura origine mediterranea) e straordinariamente diffuse presso i popoli primitivi, specialmente del continente africano. L’interesse magico-religioso per i poteri visivi – che in Sardegna appaiono così legati al culto delle acque – si palesa d’altro canto nel ricordo degli esseri femminili con doppia pupilla e si conferma, come abbiamo visto, nelle figurazioni fornite di quattro occhi. I riti funerari rientrano ab initio nell’ambito delle costumanze e verisimilmente nelle credenze panmediterranee: con la deposizione dei morti in luoghi protetti, talvolta imitanti la forma della casa, e accompagnati da suppellettili e foraggiamenti; onde si deduce il concetto di una loro particolare sopravvivenza nella tomba. A queste idee si ricollegano probabilmente, in modo per noi difficilmente imprecisabile, la presenza di figurine (si noti bene, femminili), 146 147 48. Piante degli edifici in antis di Serra Orrios. LA SARDEGNA Organizzazione, religione, costumi NURAGICA i cosiddetti “idoli”, nei sepolcri eneolitici (figg. 18-20) e l’uso di innalzare stele, talvolta con indicazioni antropomorfiche (mammelle), dinanzi ai sepolcri rupestri o architettonici. Un vero e proprio culto dei defunti, con offerte continuate, è attestato dalla presenza di fossette per il versamento di liquidi e dalla occorrenza di vasi nella esedra antistante alle “tombe di giganti”. È probabile che i dati della tradizione circa il culto degli eroi presso i loro sepolcri si riferisca ad un particolare sviluppo assunto in Sardegna dalla religione degli antenati, sino a trasferirsi dal piano familiare e privato a quello pubblico del culto degli dei e degli eroi eponimi (quale è esplicitamente ricordato per Iolao). La notizia sulla conservazione dei loro corpi incorrotti si accorda con l’antica credenza mediterranea nella seconda vita dei defunti nel luogo stesso della deposizione. Ma soprattutto notevole è l’accenno degli antichi alla pratica dell’incubazione presso queste tombe-templi, vale a dire al lungo sonno, anche di più giorni, nel quale cadevano i devoti per guarire dalle malattie o avere sogni rivelatori. La difficoltà sta nel conciliare queste tradizioni – che hanno un indubbio sapore di autenticità – con la destinazione delle “tombe di giganti” le quali, più che monumenti di singoli eroi, sembrano essere sepolcri collettivi dei villaggi nuragici. Il rito della inumazione è costante in tutto lo sviluppo della preistoria e protostoria sarda. Tracce di abbruciamento di cadaveri nelle caverne di Cagliari sono oggetto di discussione. Il costume della cremazione è stabilmente introdotto nell’isola soltanto dai Cartaginesi. Altri elementi riferibili alla religione paleosarda sono le pietre aniconiche (la cui diffusione è forse favorita dalla influenza dei culti betilici di origine semitica), il simbolo dell’ascia a due lame (che ricorda la religione cretese) ed altri oggetti od arredi sacri di oscura funzione, come le “forche” bicorni studiate dal Lilliu (fig. 49). Le strette interferenze tra religione e magia sono denunciate, oltreché da taluni aspetti delle pratiche rituali precedentemente esposte, anche da altri accenni della tradizione antica e dalle sopravvivenze di antichissime superstizioni nel folclore attuale della Sardegna. È difficile dire come fosse organizzata, nei suoi aspetti di vita privata familiare ed economica, la società paleosarda. Ignoriamo se in epoca protostorica e storica sopravvivessero tracce del primitivo matriarcato mediterraneo; mentre la progressiva diffusione della pastorizia deve aver favorito un imporsi di costumi patriarcali tuttora 49. Oggetto sacro di bronzo dominanti nell’isola. Il pieno pe(Santa Maria di Tergu). riodo nuragico vide senza dubbio una notevole differenziazione di attività pacifiche e guerriere, delle quali possediamo un’occasionale ma estremamente espressiva illustrazione nei bronzetti figurati. Il culto, una sia pure embrionale amministrazione, la coltivazione dei campi, l’allevamento, la caccia e la pesca, la estrazione e la lavorazione dei metalli, l’imponente attività edilizia, l’artigianato, la navigazione, la guerra dovettero avere i loro specialisti e i loro mestieranti ed esecutori; né mancano rappresentazioni di musici (suonatori di flauto e di corno) e di lottatori (fig. 43). Caratteristico l’abbigliamento, che per l’uomo consiste di regola di una tunica breve con una sopravveste, forse di pelle, e cioè la mastruca ricordata da Cicerone (Pro Scauro 45; De prov. cons. 15) o la zamarra dei documenti medioevali, ancora in uso presso i pastori sardi; alla quale può aggiungersi un mantello, portato sulle spalle e non aderente al corpo, come nel costume italico (fig. 41). I più poveri indossavano un semplice perizoma fasciante le reni. S’incontrano, anche nel costume civile, gambali verisimilmente di cuoio, dei quali conosciamo sopravvivenze 148 149 LA SARDEGNA Organizzazione, religione, costumi NURAGICA medioevali e moderne. Sul capo si portavano berrettini cilindrici e a calotta. Le donne sono rappresentate del pari con tuniche, che però spesso scendono fino ai piedi, e con manti (fig. 45); né mancano tracce di gonne ampie, forse anche con la parte superiore del corpo scoperta, come nel costume cretese. Presentano talvolta un’acconciatura con trecce lunghe e cappelli conici a cappuccio. È notevole che gli uomini, presumibilmente in costume civile, rechino il bastone ed anche, appeso sul petto, un pugnale: secondo un’usanza, legata ad esigenze di difesa individuale, che è pressoché sconosciuta altrove nel mondo antico e richiama, se mai, al medioevo. Ma soprattutto interessanti appaiono il costume e l’armamentario dei guerrieri (figg. 42, 50-51). Essi possono vestire la normale tunica con sopravveste; ma anche tuniche striate, forse formate di elementi di cuoio, con l’aggiunta di elementi di protezione delle spalle; o veste lunga a strisce decorate (arciere di Sardara). I gambali hanno il carattere di veri e propri schinieri, terminati talvolta in alto da una punta ricadente in avanti. L’elmo, verisimilmente per lo più di cuoio, parrebbe essere uno sviluppo del diffuso berrettino, con elementi a corona od appendici crestate o piumate, ma soprattutto con l’aggiunta di corna taurine, quali appaiono qua e là anche in altri paesi del mondo mediterraneo ed europeo. Il normale guerriero è difeso da uno scudo rotondo con umbone ed armato di spade, con una delle quali combatte, tenendo le altre di riserva dietro lo scudo. Erano in uso anche, seppure testimoniate in modo incerto dalle figurazioni, lance e giavellotti. Frequenti sono invece le rappresentazioni di arcieri, con armamento più leggero (pugnale o daga a lama foliata); né mancano frombolieri. Va notato che in qualche caso i guerrieri portavano capelli lunghi ricadenti in trecce sul petto. Quali siano gli elementi di affinità, più o meno generica, di questo costume ed armamento presente nei bronzetti nuragici con quello dei Sherdani raffigurati sui monumenti egiziani del II millennio si è detto a suo luogo. 150 50. Guerrieri (Abini), statuetta nuragica di bronzo. 51. Arciere (Abini), statuetta nuragica di bronzo. Gli ornamenti personali attestati direttamente dalla suppellettile consistono di elementi di collane, pendenti, bracciali, anelli, spilloni, fibule di tipo italico, ecc. (figg. 36-37). Il materiale superstite ci conserva anche una serie di strumenti, quali asce di varia forma, falcetti, coltelli, “rasoi” (quadrangolare e lunato), seghe (figg. 23 a-f, 35); nonché armi offensive di metallo, consistenti di lance, spade lunghe, daghe, pugnali (tra i quali ultimi caratteristica la “misericordia” a elsa gammata), ecc. (fig. 23g-p). 151 LA SARDEGNA NURAGICA Notevoli gli oggettini triangolari, nei quali si sono voluti riconoscere modellini votivi di faretre (fig. 23o). Armi ed utensili di pietra e d’osso sopravvivono, come si diceva, in piena fase nuragica accanto agli esemplari metallici. Allo strumentario nuragico appartengono anche martelli, macine, coti di pietra, fusaiole, ecc. Insieme con la ceramica (fig. 22) e con i più rari recipienti di lamina di bronzo dovevano essere diffusi ab antiquo vasi di legno e cesti di vimini, di cui si ha testimonianza indiretta dalla plastica figurata. Si aggiungano, per la suppellettile, lucerne e candelabri di terracotta e di metallo. Naturalmente la parte più notevole del mobilio e dell’arredo è andata perduta con il materiale deperibile di legno, di cuoio e di stoffa. 152 ARCHITETTURA E GUSTO FIGURATIVO La manifestazione più evidente ed originale della creatività paleosarda, l’architettura nuragica, potrebbe facilmente apparire – e così parve sovente nel passato anche recente – un fatto miracoloso e gravido di mistero: quasi una tropicale efflorescenza costruttiva, improvvisamente sorta senza precedenti e morta senza eredi, lasciando le sue gigantesche ed innumerevoli rovine a testimonianza di un’età leggendaria. Le cause più intime del fenomeno, considerato dal punto di vista della sua eccezionale grandiosità ed estensione e dello sforzo umano del quale esso rappresenta un muto eppure eloquente documento, restano invero ancor oggi un problema insoluto. Ma i progressi della ricerca archeologica ci permettono, allo stato attuale dei nostri studi, di precisarne se non altro l’ambientazione storico-cronologica e la posizione nello sviluppo generale della primitiva architettura mediterranea, attraverso una serie di confronti che valgono ad illuminare, talvolta di scorcio, talvolta in pieno, molte caratteristiche struttive e formali dell’edilizia nuragica. Dal punto di vista della tecnica della costruzione la Sardegna ci appare, assai più perspicuamente che qualsiasi altro paese mediterraneo, al punto d’incontro, nello spazio e nel tempo, fra la tradizione megalitica occidentale e la tradizione delle opere murarie a blocchi di origine orientale. La prima si afferma nei monumenti funerari (dolmen e pietre fitte) specialmente della fase prenuragica; la seconda trionfa nei nuraghi e nelle costruzioni affini. La convivenza tra le due concezioni struttive si avverte nelle “tombe di giganti”, considerate come uno sviluppo del corridoio dolmenico, a volte con pareti e copertura di lastre di tipo megalitico (Su Coveccu), a volte con mescolanza di lastre e di muratura a blocchi realizzante una copertura a falsa volta 153 LA SARDEGNA Architettura e gusto figurativo NURAGICA (Goronna, S’Arrenadu, ecc.). Più rara è, invece la presenza di elementi megalitici nelle costruzioni civili, fatta eccezione per i normali architravi monolitici delle porte. La tecnica delle strutture murarie a blocchi culmina nelle pseudovolte e nelle pseudocupole ottenute restringendo progressivamente verso l’alto i filari di pietre sovrapposti: sistema noto dal neo-eneolitico in Mesopotamia, a Cipro, nell’Egeo, in Iberia, e applicato su larghissi52. Struttura del nuraghe Sa Domu ma scala in Sardegna. ’e s’Orcu di Sarroch. Il materiale impiegato nelle costruzioni, la misura e la forma dei blocchi variano da luogo a luogo e da monumento a monumento, talvolta anche in diverse parti dello stesso monumento: si va da rozze opere di pietre irregolari, a volte gigantesche (fig. 52), sino a perfette cortine di blocchetti squadrati (fig. 26). Pare tuttavia oltremodo incerto un rapporto tra questi diversi tipi di struttura ed una progressione di raffinamento tecnico legata a differenza di tempo; anche se la presenza di elementi murari più curati e regolari, con lavorazione a scalpello, in aggiunte o rifacimenti e la presunzione di un’influenza collaterale della tecnica costruttiva fenicio-punica e greca rendano probabile un certo prevalere dell’opera quadrata nelle fasi più evolute dell’edilizia nuragica. 154 53. Ricostruzione di una capanna di Serrucci. La pianta rotonda degli edifici costituisce il motivo più caratteristico dell’architettura paleosarda. In nessun’altra civiltà del mondo antico esso è trasferito sul piano monumentale in modo così magnifico e coerente. Le torri nuragiche, gli ambienti che in esse si contengono, i pozzi e le cisterne con particolare riguardo a quelli di destinazione sacra, gli edifici civili o di abitazione di diversa grandezza, i recinti testimoniano la forza di questa tradizione planimetrica che evidentemente si ispira, alle origini, al tipo della capanna circolare universalmente diffusa nel mondo della preistoria mediterranea e con amplissimi riscontri nell’uso dei popoli primitivi. Le costruzioni con pareti costituite da un solo spessore di blocchi presuppongono una copertura leggera, lignea o di frascame, eventualmente rassodata con argilla: e cioè un tetto concepito come elemento distaccato dalle pareti, che pur accennano, a volte, ad inclinare verso l’interno (figg. 53-55). Con la cupola ad aggetto, o tholos, si realizza l’unità delle pareti portanti e della copertura; ma il peso dei grandi cumuli di pietrame rende necessaria una controspinta concentrica dall’esterno, che è data dal terreno stesso nel caso delle tholoi interrate (pozzi o cisterne) (fig. 28) e dalla massa di 155 LA SARDEGNA Architettura e gusto figurativo NURAGICA 56. Dolmen di Sangrone. blocchi che configura la torre troncoconica nei nuraghi (fig. 24). Non si ha prova finora della esistenza in Sardegna di tholoi leggere, curvate esternamente secondo i profili della sezione interna, o costruite di blocchetti di argilla, come in alcuni remoti modelli orientali. La foggia costruttiva fu probabilmente introdotta nell’isola quando era stata già applicata ad edificazioni di pietra, di cui possediamo antichissime testimonianze nell’architettura civile di Cipro (Khirokitia) e della Grecia premicenea (Orcomeno, Tirinto), oltreché naturalmente nell’architettura funeraria, da Creta al levante spagnolo. L’assenza di tholoi funerarie in Sardegna, prescindendo dalla forza di altre tradizioni locali (tombe dolmeniche e rupestri), potrà ascriversi ipoteticamente alla eventualità che la originaria imitazione dei modelli domestici orientali sia anteriore al trasferirsi del tipo della costruzione a cupola nel campo dell’edilizia sepolcrale. Celle rotondeggianti s’incontrano d’altra parte anche nei dolmen sardi: Sangrone, Masu Enas, ecc. (fig. 56), e nelle grotticelle artificiali funerarie (figg. 21a, 30); a parte la diffusione dei tumuli circolari presumibili attorno alle 54. Abitazione nuragica di Serrucci. 55. Abitazione nuragica di Serri. 156 157 LA SARDEGNA Architettura e gusto figurativo NURAGICA celle o ciste dolmeniche e comunque attestati dai circoli di Arzachena (fig. 14). Ma accanto alle piante rotonde, che rivelano una così caratteristica rielaborazione architettonica di motivi preistorici, non mancano testimonianze dell’introdursi e del diffondersi di edifici con pianta quadrangolare: del tipo, cioè, elaborato e sviluppato ab antiquo nell’ambito delle superiori civiltà dell’oriente mediterraneo e comunque diffuso dalle culture agricole, in costruzioni lignee o murarie. È possibile, anzi, che esso abbia avuto una rilevante affermazione in Sardegna nella fase dell’eneolitico locale, legato appunto al ciclo delle culture agricole mediterranee; ed in tal senso verrebbe a spiegarsi la prevalenza delle piante tendenzialmente o decisamente quadrangolari nelle celle delle tombe rupestri – evidente, per esempio, ad Anghelu Ruju (fig. 21b) –, certo per imitazione della forma delle case reali. Ciò non sembra tuttavia aver avuto un’influenza decisiva sullo sviluppo dell’architettura monumentale nuragica. La quale subisce comunque singole influenze collaterali del mondo egeo, semitico e greco-italico, sulla via di imporre gradualmente il tipo della costruzione con pareti rettilinee; e presenta quindi, commisti con le forme dominanti, esempi di edifici compiutamente quadrangolari (giara di Serri) o absidati (Serra Orrios) (fig. 48), per i quali va supposta anche una copertura con tetto a doppio spiovente e acroteri, come risulta dall’interno di una delle tombe rupestri di Sant’Andrea Priu (fig. 31) o dal modellino bronzeo di Nuoro (fig. 57). Restano da considerare altre due particolarità planimetriche. Un vestibolo d’accesso a pareti parallele e rettilinee, in forma di corridoio o dromos, più o meno ampio, precede talvolta l’ingresso di costruzioni circolari, siano esse case o comunque edifici civili (fig. 54), ovvero pozzi e cisterne sacre (fig. 29). La stessa disposizione si osserva nelle fontane e, ricavata dalla roccia, nelle tombe rupestri, secondo uno schema generalmente diffuso anche fuori della 158 57. Modellino architettonico di bronzo da Nuoro. Sardegna per questo genere d’impianti (un esempio di dromos in muratura antistante all’ingresso di un sepolcro a grotticella è rilevabile a Masu Enas: probabile interferenza, nel caso specifico, anche con il tipo del corridoio dolmenico). Una vera e propria costruzione in antis si ha nei “templi” di Serra Orrios (fig. 48). Altro elemento notevole è l’abside, anche con banconi, che precede il corpo allungato della cella-corridoio delle “tombe di giganti” (fig. 32), avendo al centro la stele-porta d’ingresso (figg. 33-34): essa dà un aspetto singolare e caratteristico alla pianta di questi 159 LA SARDEGNA Architettura e gusto figurativo NURAGICA edifici. La diffusione di un cosiffatto motivo nell’architettura preistorica occidentale è dimostrata dalla sua presenza, in forma particolarmente grandiosa, nei cosiddetti templi di Malta, ma anche in impianti funerari quali le tombe rupestri della Sicilia e in monumenti megalitici dell’Iberia, della Francia meridionale e persino dell’Irlanda e della Scozia. Tra le forme architettoniche dell’alzato vanno considerate in primo luogo quelle delle porte (e delle finestre e feritoie), che variano dalla semplice originaria struttura trapezoidale con gli stipiti sormontati dall’architrave monolitico all’ogiva del falso arco d’aggetto. L’alleggerimento dell’architrave è ottenuto, come nell’architettura egea, da un sovrastante vano di scarico. Porte ad arco completo e regolare vanno probabilmente ricostruite per l’architettura lignea, se esse appaiono riprodotte nell’accesso di tombe rupestri (per esempio nel tipo cordonato di una grotticella di Fordongianus) e nelle “tombe di giganti”, con una barra orizzontale che distingue il vano quadrangolare dalla lunetta (fig. 33). Queste ultime possono rappresentare anche il tipo della porta trapezoib a c dale (fig. 34). Pilastri appaiono nell’interno delle 59. Tipi di piante di nuraghi. Nuraghe tombe rupestri, mentre monotorre: a; nuraghe Addeu di Gestumanca sinora qualsiasi ri: b; nuraghe Giuereddu di Assolo: c. traccia dell’uso della colonna. Ben poco si può dire della decorazione architettonica. Gli elementi di cornici probabilmente riferibili ai pozzi o cisterne monumentali di Sardara e della giara di Serri presentano un ricorso di piccoli trapezi allargati in alto, aggettanti sopra un cordone orizzontale (quest’ultimo soltanto a Serri). Il motivo, che orna anche un capitello trovato nel nuraghe Losa e si ripresenta nel modellino di Olmedo, ha tutta l’aria di una schematizzazione delle cornici baccellate delle sime arcaiche greco-italiche o dei coronamenti egittizzanti delle stele puniche. Esaminate le strutture e le forme dell’architettura nuragica in generale, si considerino ora i singoli tipi di monumenti. Tra questi il più caratteristico e frequente è il nuraghe, di cui si riconoscono tuttora circa cinquemila esemplari dispersi in tutto il territorio dell’isola, con maggiore accentramento nella Sardegna occidentale e centrale. Nella sua costituzione elementare esso consiste di una torre troncoconica il cui interno è occupato da uno o più ambienti a tholos sovrapposti e congiunti da una scaletta circolare girante nello spessore delle pareti (figg. 40, 58-59). Si hanno talvolta vani o nicchie aperti sugli ambienti maggiori o corridoi circolari. L’accesso presenta sovente disposizioni difensive (vano con piombatoio sull’andito d’ingresso, celletta collocata sulla destra – sguarnita di scudo – di chi entrasse nel nuraghe, secondo un principio analogo a quello delle porte scee, 160 161 58. Nuraghe Santu Millanu di Nuragus. LA SARDEGNA Architettura e gusto figurativo NURAGICA interruzione della parte inferiore della scala, ecc.). Mancano testimonianze dirette sugli elementi terminali della parte superiore delle torri, che potranno immaginarsi a terrazza, a calotta o più verisimilmente con gabbie lignee simili agli sporti delle fortificazioni medioevali, come parrebbe rilevarsi dai modellini di bronzo di Nuoro (fig. 57) e di Olmedo. Ma la torre nuragica isolata, come monumento a sé stante, non è frequente. Essa appare per lo più connessa con elementi sussidiari esterni, segnatamente difensivi, quali muraglie e recinti che ne rafforzano gli accessi; o si abbina con altra torre alla quale la congiunge un’unica cinta – nuraghi Palmavera, Sa domu ’e s’Orcu di Sarroch, ecc. (fig. 24) – ovvero s’inserisce in una grande piattaforma di muratura di forma triangolare – grandi nuraghi Losa di Abbasanta, Santu Antine di Torralba, ecc. (figg. 25-27) – o quadrangolare (nuraghe Monte Siseri nella Nurra), con torri minori inserite nella cortina, corridoi, cortili. I modellini di Nuoro (fig. 57) e di Olmedo riproducono uno di questi castelli nuragici con torrione centrale e quattro torri periferiche. Né mancano testimonianze, per quanto ancora non sufficientemente studiate, di disposizioni anche più complesse. In alcuni casi si ha la prova di rifacimenti e di ampliamenti in epoche successive. Va tenuto conto, infine, della esistenza di monumenti di forma particolare: per esempio di nuraghi con passaggio diametrale e doppia porta (specie nella Sardegna orientale), o di nuraghi ellittici e quadrangolari. La natura e la destinazione dei nuraghi – considerati ancora al principio del secolo dal Pinza, erroneamente, come monumenti funerari – sono ormai ravvisate e chiarite in maniera sufficiente. Si tratta di fortilizi, eventualmente anche impiegati per abitazione e conservazione di derrate, materiale d’uso, ricchezze tesaurizzate (i depositi di bronzi di Monte Sa Idda, Forraxi Nioi, ecc., non sono in verità che tesoretti pecuniari della fase anteriore al diffondersi della moneta). La dimora civile va probabilmente supposta nella parte alta delle torri; ma presto dovette preferirsi una più comoda sistemazione, con edifici particolari, nelle zone recintate ai piedi delle torri stesse o all’ombra della fortezza, come vediamo nel nuraghe Losa (fig. 25). Quando il nuraghe si associa con il villaggio, esso rappresenta senza dubbio, con le sue immediate dipendenze, la sede del signore o dei suoi ufficiali o comunque delle autorità politico-militari, destinata anche, in caso di pericolo, a raccogliere gran parte della popolazione e dei suoi beni, come le acropoli delle città greco-italiche o i castelli medioevali. È opportuno d’altro canto tener presente la possibilità di una scarsa specializzazione di luoghi e di tipi architettonici per impianti di diversa destinazione – ciò che si avverte anche in altre civiltà protostoriche, per esempio nel “palazzo” egeo –; talché non fa meraviglia che complessi nuragici contengano in sé ambienti di culto od officine, come quella metallurgica del nuraghe di Ortu Commidu. Anzi è probabile che il tipo del nuraghe sia stato adottato anche per edifici a carattere prevalentemente od esclusivamente sacro, come sembra potersi ritener certo nel caso dei santuari di Abini e di Cabu Abbas. Alle disposizioni difensive dei nuraghi si ricollegano le cinte, di tecnica costruttiva analoga, talvolta rafforzate con torri disposte a distanza di tiro d’arco e munite di feritoie. Esse possono conchiudere aree particolarmente fortificate o, in tutto o in parte, gli abitati: s’integravano verisimilmente con difese naturali, palizzate ed aggeri terragni. Fra gli esempi più completi e significativi possono ancora citarsi quelli circostanti al nuraghe Losa (fig. 25). Non si esclude la eventualità che molte di queste disposizioni appartengano ad età punico-sarda e romana. Le costruzioni circolari con pareti meno spesse, e però, a differenza dei nuraghi, coperte con tetti leggeri (figg. 5355), appaiono di regola aggregate in villaggi o borghi talvolta anche di notevole estensione (giara di Serri con edifici sparsi di proporzioni cospicue, Serrucci con 90 edifici circa, 162 163 LA SARDEGNA Architettura e gusto figurativo NURAGICA Cala Gonone con 114, Serra Orrios con 80, ecc.). Alcune di queste fabbriche sono assai grandi, al punto che si dubita se esse fossero coperte (è il caso della cosiddetta “sala delle adunanze” di Serri); altre presentano un avancorpo a dromos o in antis; la maggior parte è costituita da modeste capanne di muratura con nicchie ricavate all’interno nelle pareti, con una disposizione che persiste ancora nelle capanne dei pastori sardi. Non mancano edifici suddivisi in due ambienti da un muro perimetrale, o raggruppati attorno ad un cortile, o di forme ellittiche. Si conoscono infine, come già sappiamo, costruzioni rettangolari o absidate. Le tombe rupestri, e in particolare quelle grandiose e curatissime di Sant’Andrea Priu (figg. 30-31), ne ripetono, cavate nel masso, le forme e i particolari dell’interno. Il carattere sacro di diversi di questi impianti è dimostrato dagli oggetti in essi rinvenuti (per esempio a Serri l’edificio rettangolare e l’edificio circolare che conteneva la bipenne); né si esclude la possibilità di destinazione pubblica, di magazzini, di officine. Però, nella maggior parte dei casi, deve trattarsi di abitazioni private. Si è già detto che un’altra costruzione appare fra le più caratteristiche della Sardegna nuragica: e cioè il pozzo o la cisterna sacra, interrata o seminterrata, di forma circolare, con un muro che la fascia cilindricamente culminando in alto, almeno in alcuni casi accertati (Fontana coperta di Ballao), nella copertura a tholos (figg. 28-29). Vi si accedeva attraverso un dromos con una scaletta in discesa. Ignoriamo quali fossero le forme esterne dell’edificio, al quale probabilmente appartengono le cornici decorate di cui si è fatta menzione a proposito di Sardara e di Serri: mancando di fondatezza scientifica la nota ricostruzione del prospetto del pozzo di Sardara tentata dal Taramelli. I monumenti superstiti di questo tipo sono circa una diecina. Più rare, e limitate al settentrione della Sardegna, le fontane con celletta absidata inserita nel fianco del monte e dromos architettonico di eccesso (per esempio Lomarzu). Per tutto lo sviluppo della civiltà paleosarda perdurano parallelamente le due tradizioni dei sepolcri cavati artificialmente nella roccia e dei sepolcri costruiti. I primi interessano indirettamente, ma in maniera assai profittevole, lo studio dell’architettura; per i dati, già più volte citati, che essi forniscono – nella loro tendenza ad imitare la casa – alla conoscenza degli elementi di pianta, di alzato e di decorazione degli edifici civili. I monumenti funerari di carattere architettonico restano sostanzialmente estranei ai principi formali e costruttivi dell’edilizia nuragica e si sviluppano dalle antecedenti tradizioni megalitiche. È possibile che nelle fasi protostoriche perduri l’uso dei dolmen, generalmente piccoli e circolari (fig. 56); ma la costruzione sepolcrale tipica di questo periodo è la “tomba di giganti”, con il suo corridoio, le stele-porta e l’esedra in facciata (figg. 32-34). Se ne conoscono numerosi esemplari, alcuni dei quali di grandi proporzioni, probabilmente impiegati come tombe collettive degli abitatori dei singoli villaggi. Ai sepolcri si ricollegano i menhir o pietre fitte, vale a dire le stele monolitiche, talvolta animate da indicazioni antropomorfiche o conformate ad imitazione di stele puniche (stele presso la “tomba di giganti” di Biristeddi). Se lo sviluppo dell’arte costruttiva in Sardegna presenta una certa continuità, determinata dalla persistenza delle formule, delle tecniche e dell’uso degli edifici, lo stesso non si può dire delle manifestazioni figurative. Gran parte della loro storia purtroppo ci sfugge per la perdita di opere della pittura e del disegno, fatta eccezione per la decorazione geometrica dei vasi e per qualche rara incisione su pietra o su oggetti metallici. Ma anche il repertorio puramente ornamentale non rivela né esuberante originalità creativa né capacità di affermarsi in una tradizione autonoma e persistente; laddove i suoi motivi seguono piuttosto o rielaborano influenze esterne di larga diffusione per le diverse fasi, quali vediamo ad esempio diffondersi nella ceramica eneolitica sotto l’incrocio di correnti orientali ed 164 165 LA SARDEGNA Architettura e gusto figurativo NURAGICA occidentali e riaffermarsi sporadicamente nel nuragico pieno in rapporto con gli elementi geometrici delle culture del bronzo e del ferro mediterraneo (fasce, denti di lupo, cerchietti concentrici, ecc.) (fig. 22 f-l ). Decorazioni figurate a rilievo nei vasi paiono eccezionali (frammento dal santuario di Sardara). Non ci restano, in verità, per giudicare delle capacità propriamente figurative dei Paleosardi, se non lavori di plastica a tutto tondo, e limitati, anche questi, agli oggetti di materiale non deperibile: pietra, bronzo, terracotta. Essi mostrano per altro lo stesso rinnovarsi di ispirazioni e di tradizioni da un’epoca all’altra che si ravvisa nella ornamentazione astratta dei vasi. Sicché parrebbe ardito, se non addirittura erroneo, tentare una ricerca di passaggi evolutivi, o peggio ancora di costanti nell’orientamento dell’espressione, dalle statuette naturalistiche tipo Macomer a quelle schematiche dell’eneolitico, e da queste ai bronzi nuragici e ai rari documenti plastici della civiltà punico-sarda. Le esperienze dell’età della pietra appartengono ad un mondo preistorico, nel quale la relativa povertà degli schemi tipologici e delle formule di stile coincide con un’amplissima diffusione panmediterranea delle singole soluzioni figurative; talché gli “idoli” di pietra dell’eneolitico sardo non rappresentano che una varietà locale della plastica schematica, esemplarmente e magnificamente documentata nell’Egeo. La bronzistica che fiorisce nel nuragico pieno rivela invece una profonda aderenza alle immagini e alle esigenze della vita locale, una complessità di soluzioni tipologiche, una relativa unità ed originalità di forme, tali da costringerci a riconoscere la esistenza di una cultura artistica paleosarda ben definita e distinta dalle altre contemporanee affermate o in via di affermazione nelle regioni mediterranee. Su questa produzione va particolarmente concentrato il nostro interesse. Si tratta di statuette ed oggetti con ornamentazione figurata provenienti da santuari o anche, occasionalmente, da altre costruzioni e luoghi di non accertata destinazione (forse officine ed abitazioni) ed eccezionalmente da tombe. La loro finalità votiva parrebbe prevalente, confermata dalla presenza frequente di elementi d’infissione per le basi. Non fa meraviglia che il gusto plastico dei Paleosardi si manifesti pressoché esclusivamente nella piccola statuaria e nell’arredo. La grande scultura comincia a diffondersi dai paesi dell’oriente mediterraneo e dai centri ellenici verso occidente soltanto nel VII-VI secolo. Qualche traccia se ne riconosce comunque pure in Sardegna: per esempio in una grande testa taurina di pietra dal sacrario della giara di Serri, la cui data potrebbe per altro discendere notevolmente oltre l’inizio della fase punico-sarda o nuragica attardata. È notevole che nella piccola plastica predominino i lavori di bronzo; mentre manca quasi completamente la produzione di statuette di terracotta (gli esemplari di Abini sono di un’estrema rozzezza: pupazzi informi o riecheggianti formule tradizionali antichissime). Ciò contrasta con le ricche e complesse manifestazioni della plastica fittile nel mondo asiatico, protoellenico e protoitalico; per quanto anche in queste regioni i prodotti più eccellenti, curati e stilisticamente significativi siano quelli lavorati nel bronzo. Le statuine nuragiche, circa quattrocento a tutt’oggi conosciute, rappresentano figure umane realisticamente concepite nelle loro specifiche qualità di sesso, di condizione, di mestiere, di atteggiamento; alcune poche figure di esseri abnormi o mitici; e infine immagini di animali (figg. 41-43, 45, 50-51, 60-61). Attributi e gesti, così nelle figure maschili come in quelle femminili, possono riferirsi alla condizione e alla professione degli individui rappresentati: guerrieri (che sono i più numerosi), personaggi autorevoli in costume civile, pastori, musici, lottatori, venditrice, ecc. Ma spesso l’atteggiamento rivela l’intento sacro dei donari, e nel gesto di adorazione e di preghiera con una od ambedue le mani alzate ed aperte e nel recare o presentare offerte (di vittime, cibi e liquidi in vasi o la gruccia dell’infermità guarita). 166 167 LA SARDEGNA Architettura e gusto figurativo NURAGICA Si hanno anche figure femminili con il figliuolo in braccio: piuttosto un infante od un giovinetto rappresentato nelle forme di un uomo maturo (come è proprio delle convenzioni arcaiche), che non un nume od un guerriero ferito od ucciso, come altrimenti si è supposto. Tra le figure mostruose già si ricordarono i guerrieri con quattro braccia e quattro occhi, il toro androcefalo e il flautista itifallico. Seguono gli animali: tra cui buoi aggiogati e, isolatamente, il toro o il bue (il più frequente), l’ariete, il cervo, la scrofa, la volpe, ecc. Alle statuine e ai gruppi rappresentanti esseri animati si aggiungono altri oggetti, per i quali è più difficile stabilire una distinzione fra il carattere di donario o quello di arredo, sia pur sacro, e dove la rappresentazione realistica tende a sconfinare nella fantasia simbolica o decorativa. Ancora l’oggetto reale è sostanzialmente definito nei modellini di edifici (fig. 57) e di imbarcazioni (figg. 38-39). I primi riproducono, come si è detto, lo schema del nuraghe multiplo (in quello di Nuoro anche un edificio quadrangolare con 60. Acquaiola (Cabu Abbas), statuetta nuragica di bronzo. 168 61. Toro (giara di Serri), statuetta nuragica di bronzo. tetto a spioventi): dubbio restando se si sia inteso effigiare il castello del dedicante o un edificio sacro. Le assai più numerose navicelle, con un’ansa per l’appensione o una pugnatura, pare possano essere state usate in qualche caso anche come lampade: vi si distinguono elementi reali, oltre che nella complessiva struttura degli scafi, nelle prore con protomi animalesche (di bovino, di ariete, di cervo, ecc.), nelle transenne e forse in accenni alle alberature; ma le frequenti aggiunte di figurine di animali sui bordi e negli interni degli scafi – culminanti nell’“arca di Noè” della fastosissima barca della Tomba del Duce di Vetulonia, della quale tra poco sarà discusso – mostrano una tendenza ad aggiunger decorazioni, estranee agli originali imitati e di interpretazione non facile, sui modelli di bronzo. Con le spade votive, singole o raggruppate a tre come nel famoso esemplare di Padria, sulla sommità delle quali si infilzano elementi in forma di corpi di cervi con doppia testa, eventualmente fusi con immagini di strutture architettoniche o sormontati da una statuina di guerriero (Abini) ci troviamo 169 LA SARDEGNA Architettura e gusto figurativo NURAGICA decisamente di fronte ad oggetti nei quali la fantasia e la sintesi decorativa rispondono ad intenzioni magico-religiose (fig. 62). Nel frammento con protome umana e corna (fig. 49) e nel candelabro a doppiere, decorato anch’esso con protomi umane a rilievo, ambedue provenienti da Santa Maria di Tergu, si riconoscono arredi recanti un’ornamentazione plastica che appartiene al genere dei bronzi sinora descritti. Il problema posto da questa singolare produzione figurata, considerata nel suo complesso, è senza dubbio uno dei più affascinanti che sia dato incontrare nella storia delle culture artistiche dei popoli antichi: sia che lo si consideri sotto l’aspetto cronologico e culturale dell’inquadramento della bronzistica sarda nell’ambito dei fenomeni e degli svolgimenti dell’arte mediterranea, sia che lo si affronti come ricerca dei valori stilistici contenuti in alcune sue singole manifestazioni e capaci di affermarsi, con qualche coerenza e durata, negli indirizzi di gusto locali. La tendenza a considerare la plastica nuragica come un mondo figurativo senza paragoni, da studiarsi e giudicarsi in sé quale espressione spontanea di un popolo isolato e primitivo, fu senza dubbio favorita dalla convinzione – per l’addietro assai diffusa – che le origini e il più significante sviluppo di questo genere di produzione spettassero al II millennio, cioè alla preistoria. Ma anche oggi, dopo che la indagine critica di Albizzati e specialmente del Lilliu è venuta abbassando la data dei bronzetti sardi ai tempi propriamente storici, in corrispondenza delle fasi “geometriche” ed arcaiche della civiltà artistica greco-italiana (riabilitandosi così una vecchia intuizione del Pais), si continua a valutarne i motivi e le forme quasi essi fossero essenzialmente astratti dai momenti e dalle correnti figurative che si succedono e si intersecano sul più vasto teatro dei circostanti paesi mediterranei: ciò che impedisce, come è facile intendere, una sicura e compiuta intelligenza storica del fenomeno. 170 b a 62. Coronamenti di spade votive di bronzo (Padria: a; Abini: b). La verità è che la indubbia originalità dei tipi e delle espressioni dei nostri bronzi, rispetto al quadro tradizionale dei prodotti plastici meglio noti in altre province artistiche, ha ostacolato ed ostacola una doverosa ricerca comparativa. La quale però, attualmente, potrà avvalersi di una maggiore attenzione portata sui materiali della piccola statuaria “geometrica”, giudicata nei suoi propri valori, e non come germe o preparazione dell’arte greca o dell’arte italica; nonché del pieno riconoscimento degli attardamenti e delle persistenze formali in zone periferiche od isolate. Possiamo ormai considerare certo che dall’Asia anteriore alla Grecia all’Italia appare diffuso nei primi secoli del I millennio un genere di figurine di terracotta e di 171 LA SARDEGNA Architettura e gusto figurativo NURAGICA bronzo, a volte di impressionante somiglianza reciproca, nelle quali si riflettono e si fondono tradizioni preistoriche, echi della grande arte statuaria orientale e motivi spontanei di intensa vivacità ed espressività. Soltanto la suggestione delle rigorose formule stilistiche dell’arcaismo ellenico potrà aver ragione, in tempi diversi a seconda dei luoghi, di questa produzione mediterranea, talvolta ed impropriamente definita geometrica, la quale ha il suo pieno diritto di cittadinanza nella storia della scultura antica e perdura attiva più a lungo sui margini della sua primitiva area di diffusione, dilagando anzi lentamente verso regioni più lontane (quale l’Iberia) molto tempo dopo la sua scomparsa nei centri di sviluppo originari. Che i bronzetti paleosardi rientrino genericamente nell’ambito della piccola plastica pre-arcaica del Mediterraneo protostorico non pare possa esser dubbio. Così verranno ad intendersi alcune consonanze di struttura, di tecnica, persino di particolari espressivi – in parte già rilevati – con figurine di bronzo del Luristan, dell’Armenia, della Siria, dell’Asia Minore, della Grecia, dell’Italia e dell’Iberia. Ma sarebbe interessante poter determinare quali aree artistiche siano più vicine a quella sarda ed eventualmente arguire i tempi e le vie della penetrazione di quelle mode figurative nell’isola. Il commercio e gli stanziamenti fenici in Sardegna – in un periodo, si noti bene, in cui la Fenicia era dominata dal gusto “geometrizzante” siriaco – possono aver contribuito allo sviluppo della plastica nuragica: in mancanza di documenti diretti e locali, appare senza dubbio assai suggestivo il ravvicinamento di bronzetti sardi, con la loro stilizzazione allungata, le strutture lisce e compatte, la particolare schematizzazione delle teste e dei volti (caratteristici, in ispecie, del “gruppo di Uta”) ad alcune figurine bronzee provenienti dalla Fenicia, contraddistinte dalle stesse peculiarità formali. Né si può escludere che ai navigatori semitici si debba l’introduzione in Sardegna, forse anche in momenti diversi, di motivi orientalizzanti, come il toro androcefalo o il corpo di animale con due teste, che sappiamo diffuso nella bronzistica dell’Asia anteriore. Ma un’altra via di contatti e di trasmissioni deve essere stata quella che ricollegava la Sardegna alle coste dell’Etruria: due territori, cioè, nei quali la lavorazione del bronzo era favorita dalla disponibilità del metallo. L’Etruria, e in genere l’Italia centrale tirrenica, può considerarsi come una delle province più produttive della piccola plastica pre-arcaica, tra la fine dell’VIII e il principio del VI secolo. Le figurine di bronzo applicate ad arredi che si rinvennero specialmente a Vetulonia – il centro che sappiamo in più diretto contatto della Sardegna –, ma anche in altre località etrusche ed italiche, presentano alcune notevoli analogie di tipi e di soluzioni formali con i bronzetti nuragici, non soltanto nel settore delle figurine e delle protomi di animali, ma anche nella rappresentazione di esseri umani. Al centro di produzione vetuloniese sono da ricollegare senza dubbio i bronzi del deposito di Trestina presso Città di Castello, nei quali, per la presenza di protomi cervine trattate con geometrica rigidità, si sono addirittura voluti riconoscere oggetti sardi. Più verisimilmente sarà da supporre una comunanza di motivi e di sensibilità stilistica tra la bronzistica vetuloniese e quella sarda; talché potrebbe anche sospettarsi che la famosa navicella della Tomba del Duce – la più ricca tra gli esemplari noti in Sardegna e in Italia – sia un prodotto di questo ambiente misto sardoetrusco, forse fabbricato nella stessa Vetulonia. Quale, poi, delle due regioni abbia primamente e più vigorosamente influito sull’altra è difficile decidere, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze. Ma, indipendentemente dalla sua origine e dalle varie e successive sollecitazioni esterne, il gruppo dei bronzi nuragici resta sufficientemente definito nei suoi caratteri fondamentali e forma una delle province più compatte ed originali della cultura plastica protostorica nel Mediterraneo. Gli artefici e le botteghe locali rielaborano i motivi comuni per le esigenze del loro 172 173 LA SARDEGNA Architettura e gusto figurativo NURAGICA ambiente e delle loro particolari clientele, con intendimenti e capacità formali che sono loro propri, creando una tradizione autonoma. L’impronta unitaria della produzione isolana non risulta dispersa neanche da quella analisi più approfondita che ha permesso al Lilliu di classificare i singoli bronzi almeno in tre gruppi, caratterizzati da distinti orientamenti stilistici: e cioè il “gruppo di Uta”, nel quale il rigore geometrico delle strutture appare più evidente (figg. 41-43); il “gruppo di Abini”, nel quale prevalgono gli elementi disegnativi e decorativi di superficie (figg. 46-47, 50); ed il cosidetto “gruppo barbaricino” che indulge, con minore rigore formale, ad impressioni spontanee e popolaresche (figg. 45, 60). Non v’ha dubbio che, se qualche precostituita tradizione geometrizzante di origine orientale riecheggia nella bronzistica sarda, essa va ricercata specialmente negli eventuali lontani prototipi delle statuine di Uta. Ma non si può negare d’altro canto che l’artefice o gli artefici ai quali si attribuiranno composizioni quali il cosidetto “capotribù” con la daga, i guerrieri e i lottatori, ebbero piena padronanza dei loro mezzi d’espressione e realizzarono opere di un’ammirevole coerenza di stile, per le quali si cercherebbero invano modelli o paralleli fuori della Sardegna. Dall’astrazione essenziale, cristallina, elegantemente longilinea di queste figure si svolge e si determina un indirizzo del gusto che impronta di sé, più o meno direttamente, l’intera produzione plastica paleosarda, compresi i modellini architettonici, le navicelle e gli arredi di bronzo. Se ad altre influenze, ad altre sensibilità stilistiche individuali o ad altri tempi debba attribuirsi il decorativismo, a volta barbarico, presente nelle statuette di Abini ed in quelle che con esse si raggruppano, non è facile indicare. Quanto ai prodotti più rozzi e vivacemente estrosi (come la venditrice di Villasor, il “gesticolante”, ecc.), il loro interesse sta soprattutto in una certa esasperazione paradossale di quel popolaresco caratterismo che è motivo frequente nella plastica mediterranea protostorica, laddove essa si manifesta – specie nelle terrecotte – più sbrigliata dai canoni delle tradizioni formali e più propensa ad abbandonarsi ad una vena esuberante di osservazione e di caricatura. Queste manifestazioni possono, in un certo senso, considerarsi come le meno concordi con la tradizione unitaria dominante nel gusto isolano. La produzione dei bronzi paleosardi, esplosa e fiorita nella fase del nuragico pieno, perdurò verisimilmente anche in tempi successivi, vale a dire oltre il VI secolo, forse nel solco delle formule già accreditate e senza intima capacità di rinnovamento. Nel corso della fase punico-sarda e al principio della dominazione romana s’intravedono alcuni nuovi orientamenti di decisa ispirazione italica (statuetta di Ercole da Posada) o punica (Sardus Pater da Genoni); ma probabilmente come esperienze circoscritte e momentanee, senza conseguenze apprezzabili. Il quadro della civiltà figurativa della Sardegna muterà decisamente sul finire dell’età repubblicana e al principio dell’impero, quando l’isola sarà ormai entrata nell’orbita del mondo ellenistico-romano. 174 175 BIBLIOGRAFIA [Si riportano in quest’unica sezione la “Bibliografia generale e abbreviazioni”, che l’Autore faceva seguire alla “Premessa”, e le singole indicazioni bibliografiche apposte alla fine d’ogni capitolo in quanto relative a specifici campi tematici]. [OPERE GENERALI] A. La Marmora, Voyage en Sardaigne, II, Antiquités, ParisTourin, 1840. E. Pais, La Sardegna prima del dominio romano = Memorie dell’Accademia dei Lincei, Classe scienze morali, VII, 1881. G. Perrot, Ch. Chipiez, Histoire de l’art dans l’antiquité, IV, Paris, 1887, pp. 1-118 (La Sardaigne). G. Pinza, Monumenti primitivi della Sardegna = Monumenti Antichi dell’Accademia dei Lincei, XI, 1901. E. Pais, “Sulla civiltà dei nuraghi”, in Archivio Storico Sardo, VI, 1910, pp. 85-192. E. S. 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Bosch-Gimpera, in Il Convegno Archeologico in Sardegna, giugno 1926, Reggio Emilia, 1929, p. 95 ss. Arzachena: S. Puglisi, in Bullettino di Paletnologia Italiana, n. s., Roma, 1941-42, p. 131 ss. Anghelu Ruju: A. Taramelli, in Notizie degli Scavi in Antichità, Roma, 1904, p. 301 ss. Monumenti Antichi dell’Accademia dei Lincei, Milano, XIX, 1909, col. 397 ss. Relazioni dell’eneolitico sardo con l’oriente: G. Lilliu, in Studi Sardi, Cagliari, VIII, 1948, p. 33 ss. Per l’eneolitico iberico e la espansione della cultura del bicchiere campaniforme: A. Del Castillo, in R. Menendez Pidal, Historia de España, I, Madrid, p. 704 ss. V. Gordon Childe, L’aube de la civilisation européenne, Paris, 1949. Per Troia: J. L. Caskey, in Hesperia, 1948, pp. 11, 121. Per la storia della colonizzazione della Sardegna: W. F. Albright, The Rôle of the Canaanites in the History of Civilization = Studies in the History of Culture, 1942, pp. 11-50. Rapporti sardo-fenici e sardo-etruschi: A. Taramelli, in Studi Etruschi, Firenze, III, 1929, p. 43 ss. G. Lilliu, in Studi Etruschi, Firenze, XVIII, 1944, p. 323 ss. Studi Sardi, Cagliari, VIII, 1948, pp. 31-33. Vicende dei monumenti nuragici in età punico-sarda e romana: B. R. Motzo, in Il Convegno Archeologico in Sardegna, giugno 1926, Reggio Emilia, 1929, p. 81 ss. P. Mingazzini, in Studi Sardi, Cagliari, VII, 1947, p. 7 ss. Tiscali: A. Taramelli, in Notizie degli Scavi in Antichità, Roma, 1933, p. 353 ss. [ORGANIZZAZIONE, RELIGIONE, COSTUMI] Lingotti cretesi in Sardegna: Pigorini, in Bullettino di Paletnologia Italiana, Roma, XXX, 1904, p. 91. Sulla organizzazione politico-sociale dei Paleosardi: E. Pais, La Sardegna prima del dominio romano = Memorie 184 185 LA SARDEGNA Bibliografia NURAGICA dell’Accademia dei Lincei, Classe scienze morali, VII, 1881. E. Pais, in Archivio Storico Sardo, Cagliari, VI, 1910, p. 161 ss. A. Taramelli, in Il Convegno Archeologico in Sardegna, giugno 1926, Reggio Emilia, 1929, p. 24 ss., p. 74. G. Patroni, La Preistoria (Storia politica d’Italia), Milano, 1937, II, p. 464 ss., p. 471 ss., p. 474 ss., p. 483 ss. P. Mingazzini, in Studi Sardi, Cagliari, VII, 1947, p. 23 ss. Religione: R. Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna, Piacenza, 1912. A. Taramelli, in Archivio Storico per la Sicilia Orientale, XVI-XVII, 1912-20, p. 400 ss. Il Convegno Archeologico in Sardegna, giugno 1926 (scritti di A. Taramelli, B. R. Motzo, C. Albizzati, P. Bosch-Gimpera, J. Colominas, B. Terracini, C. Aru), Reggio Emilia, 1929, p. 31 ss. C. Albizzati, in Il Convegno Archeologico in Sardegna, giugno 1926, Reggio Emilia, 1929, p. 87 ss. G. Patroni, La Preistoria (Storia politica d’Italia), Milano, 1937, II, p. 481 ss., p. 500 ss. G. Lilliu, in Studi Sardi, Cagliari, VIII, 1948, p. 5 ss. Sopravvivenze di pratiche magiche: M. L. Wagner, in Folklore italiano, II, 1926. [ARCHITETTURA E GUSTO FIGURATIVO] Monumenti e topografia archeologica: Ministero della Pubblica Istruzione: Elenco degli edifici monumentali, LXVIII, Provincia di Cagliari, e LXIX, Provincia di Sassari, Roma, 1922. A. Taramelli, “Cosa insegna una carta archeologica della Sardegna”, in Atti del XII Congresso Geografico Italiano, 1935. Edizione archeologica della Carta d’Italia al 100.000, Fogli 181-182, 193-195, 205-206, Firenze, 1931-40. Architettura in generale: G. Patroni, Architettura preistorica generale ed italica. Architettura etrusca, Bergamo, 1941, p. 48, p. 92 ss., p. 107, p. 120 ss., p. 140, p. 160 ss. Nuraghi e loro struttura: A. Taramelli, in Archivio Storico Sardo, Cagliari, III, 1907, p. 211 ss.; IV, 1908, p. 213 ss. F. Préchac, in Mélanges d’archéologie et d’histoire, XXVIII, 1908, p. 141 ss. G. Pinza, in Dissertaz. Accad. Pontif. d’Archeologia, 1920. F. Nissardi, in Atti del Congresso Internazionale di Scienze Storiche, V, 1944, p. 651 ss. Nuraghe Palmavera: Monumenti Antichi dell’Accademia dei Lincei, Milano, XIX, 1908, col. 225 ss. Costumi e loro sopravvivenze: G. Spano, in Bullettino Archeologico Sardo, Cagliari, X, p. 149 ss. S. Lissia, in Archivio Storico Sardo, Cagliari, V, p. 185 ss. Nuraghe Sa Domu ’e s’Orku di Sarroch: Monumenti Antichi dell’Accademia dei Lincei, Milano, XXXI, 1926, col. 405 ss. 186 187 LA SARDEGNA Bibliografia NURAGICA Nuraghe Losa: Notizie degli Scavi in Antichità, Roma, 1916, p. 235 ss. Nuraghe Santu Antine: Monumenti Antichi dell’Accademia dei Lincei, Milano, XXXVIII, 1939, col. 9 ss. Studi Sardi, Cagliari, VII, 1947, p. 9 ss. Centri abitati: A. Taramelli, in Monumenti Antichi dell’Accademia dei Lincei, Milano, XXIV, 1918, col. 634 ss. Sardegna Romana, II, 1939, p. 11. G. Lilliu, in Bullettino di Paletnologia Italiana, n. s., Roma, 1941-42, p. 166 ss. Bronzi figurati: V. Spinazzola, I bronzi sardi e la civiltà antica della Sardegna, Napoli, 1903. C. Albizzati, in Historia, 1928, p. 384 ss. F. W. von Bissing, in Mitteilungen des Deutsches Archäologisches Instituts. Römische Abteilung, XLIII, 1928, p. 19. G. Lilliu, in Bullettino di Paletnologia Italiana, Roma, 194142, p. 17 ss. Studi Sardi, Cagliari, VI, 1945, p. 23 ss.; VIII, 1948, p. 5 ss. Sculture della Sardegna nuragica (scritti di G. Pesce, G. Lilliu), Venezia, 1949, p. 17 ss. Piccola plastica prearcaica del Mediterraneo: V. Müller, Frühe Plastik in Griechenland und Vorderasien, Augsburg, 1929. Pozzo di Ballao: Notizie degli Scavi in Antichità, Roma, 1919, p. 169 ss. Pozzo di Sardara: Monumenti Antichi dell’Accademia dei Lincei, Milano, XXV, 1919, col. 5 ss. Fontane: Monumenti Antichi dell’Accademia dei Lincei, Milano, XXV, 1919, col. 40 ss. Dolmen e tombe di giganti: D. Mackenzie, in Ausonia, III, 1908, p. 18 ss. Papers of the British School at Rome, VI, 1913, p. 127 ss. G. Lilliu, in Studi Sardi, Cagliari, VIII, 1948, p. 43 ss. 188 189 Finito di stampare nel mese di novembre 2000 presso lo stabilimento della Stampacolor, Sassari