Passeggiate per l'Italia, Volume 2
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Anteprima del libro
Passeggiate per l'Italia, Volume 2 - Ferdinand Gregorovius
GREGOROVIUS
Passeggiate per l'Italia
Subiaco
Attraverso l'Umbria
e la Sabina—Il Ghetto
e gli Ebrei di Roma—Macchiette
romane—Storia del Tevere—L'impero,
Roma e la Germania—Una
settimana di Pentecoste
in
Abruzzo
Versione dal tedesco
Ulisse Carboni—Libraio Editore
ROMA
Via delle Muratte, 77
1907
I diritti sulla presente traduzione sono riservati
Stab. Tip. della Società Poligrafica Editrice
Roma, Piazza Pigna, 53.
Varî critici italiani, occupandosi del primo volume di queste «Passeggiate per l'Italia» con cortesi parole di lode al coraggioso editore romano ed al traduttore, domandavano per quali ragioni quest'ultimo avesse voluto mantenere l'incognito. «Dinanzi ad opere severe e poderose, quali appunto quelle del Gregorovius,—scriveva uno di questi critici—il traduttore, responsabile dinanzi all'autore ed al pubblico dell'opera sua, ha il dovere sacrosanto di far conoscere il proprio nome».
L'appunto, lo riconosco completamente, era giusto, e son qui a fare doverosa ammenda ed insieme a giustificarmi.
Per ragioni, che sarebbe fuor di luogo qui esporre, consegnato il manoscritto del primo volume, non mi fu affatto possibile rivedere, neppur fugacemente, le bozze e curar l'edizione; cosa, questa, che dovette essere affidata ad altra cortese persona. Per questo, per questo solo, non credetti opportuno apporre il mio nome al primo volume.
Premessa questa breve, ma doverosa giustificazione, tengo a render qui vive grazie al signor Attilio Rinieri de Rocchi, che mi aiutò nella non lieve fatica della traduzione, ed all'egregio avvocato Francesco Zunini che corredò, con paziente lavoro di ricerca, i vari capitoli, di cui questo volume si compone, di dotte ed utili note.
Ed ora invito i lettori a seguire il grande storico in queste sue nuove «Passeggiate» descritte in varie date, ma comprese tutte nel febbrile periodo della nostra insurrezione, nel periodo in cui il potere temporale dei papi oscillava sempre più, avvicinandosi al crollo finale. La «Saturnia tellus» si è trasformata: è dunque bene che rimangano consacrate, in geniale opera d'arte, le impressioni subìte in quella terra da un così profondo conoscitore della storia e della vita romana, quale fu appunto Ferdinando Gregorovius.
Roma, nel dicembre 1906.
Mario Corsi.
SUBIACO.
La più antica abbazia dei Benedettini
dell'Occidente.
(1858).
SUBIACO.
La più antica abbazia dei Benedettini
dell'Occidente
(1858).
A ventiquattro miglia da Roma, in una delle più belle vallate della Campagna romana, irrigata dal gelido Aniene, giace la famosa abbazia dei Benedettini di Subiaco. Gli Appennini distaccano qui una catena di monti, le alture Simbruine, che dividono lo Stato della Chiesa dal Regno di Napoli, la terra di confine del quale è l'antica regione dei Marsi, oggi Marsica, provincia appartenente agli Abbruzzi. L'Aniene scaturisce su questo confine, sopra Filettino, e, precipitando impetuoso, forma una lunga ed in parte angusta valle, che fino a Tivoli è limitata da monti ricoperti di boschi di castagni e di olivi. Sulla sommità di questi monti si ergono, lungo il corso della corrente, dei cupi castelli medioevali, Filettino, Trevi, Jenne, Subiaco, Agosta, Cervara, Marano, Anticoli, Roviano, Cantalupo, Saracinesco, Vicovaro, San Polo, Castel Madama e Tivoli. Questo è anche per la maggior parte il territorio di quell'antica abbazia benedettina, luogo memorabile dell'ancor poco conosciuto medio evo del Lazio romano, culla del monachismo dell'Occidente.
Da questa selvaggia solitudine, fra i monti brulli ebbero origine tutti i monasteri che, sotto forma di colonie della Chiesa romana, si sparsero per tutta l'Italia, la Sicilia, la Germania, la Francia ed anche per la lontana Britannia. I monaci mantennero stretti i rapporti fra queste regioni e Roma, e, in mezzo alle barbarie di secoli oscuri, essi posero i germi della civiltà (meriti che possiamo ancora riconoscer loro) e tennero viva la coltura classica, copiando, scrivendo, e studiando i codici, alla fioca luce della lampada, nelle loro buie celle, mentre tramandavano gli avvenimenti del loro tempo in cronache e notizie di inestimabile valore. Così è: uomini che si erano allontanati per principio dal rumore del mondo, divennero i padri degli scritti storici, fatto questo che cessa di parere strano, quando si pensi che i chiostri in quei secoli avevano stretti e continui rapporti con la vita politica.
Voglio in queste pagine fare la storia, per sommi capi, di una delle più notevoli abbazie. Dal punto di vista storico e scientifico, Subiaco è certamente superata da Montecassino, e di molto: questo chiostro è il più antico antenato di quello che sorge presso il Liri; per tutto il medio evo anzi fu il faro solitario della scienza, come lo attestano oggi i suoi preziosi archivi e la dottrina diligente de' suoi monaci. Ma anche la storia di Subiaco è interessantissima per la cronaca degli avvenimenti del medio evo negli stati romani, ed è anche un quadro, ricco d'insegnamenti, del feudalismo ecclesiastico. Mentre intorno a questo chiostro si andava a poco a poco formando uno Stato feudale da lui dipendente, esso entrava come possente principato nella giurisdizione territoriale romana, il cui re era l'abate, ed i potenti baroni erano i monaci, ai quali per lungo tempo rimasero devote ed ubbidienti le città, i cavalieri ed il popolo della campagna.
La fondazione dell'abbazia risale al tempo in cui l'eroica stirpe dei Goti dominava, con Teodorico, Roma e l'Italia, e ritardava con savie leggi, ancora per un mezzo secolo, il tramonto definitivo della civiltà romana; ma il crollo dell'impero era già completamente avvenuto. Allora, mentre si andava disgregando l'antico ordinamento del mondo, e si spezzavano i legami di stato e di città, si manifestò nel popolo il bisogno di fuggire dalla società e di rifugiarsi in una vita di solitudine e di pace, come già era avvenuto al principio del secolo quarto. Benedetto fondò il monacato occidentale, e fu, col suo più giovane contemporaneo, Gregorio Magno, uno dei creatori della gerarchia romana. Quanto questa gli dovesse, anche quel pontefice lo riconobbe; egli stesso, nel secondo libro de' suoi dialoghi, parlò dell'opera del suo fratello d'armi di Subiaco, che aveva liberato l'Occidente dalla signoria dei bizantini, aveva istituito una regola nazionale romana, e aveva inviato per tutte le regioni i suoi seguaci, onde collegarle a Roma.
Benedetto nacque a Nursia nella Valeria[1] nell'anno 480, ed all'età di quattordici anni venne a Roma, per iniziarsi agli studî di umanità. Ma presto, assalito dalla brama della solitudine, cominciò ad errare per i deserti monti Simbruini, e qui visse, in una caverna, assorto in estatiche meditazioni. Il luogo si chiamava Sublacus, ed era noto anche a Plinio per una bella villa di Nerone, il quale aveva fatto, sbarrando con una arginatura l'Aniene, costruire quivi tre laghetti artificiali, per pescarvi le trote con reti d'oro. Queste trote sono ancora famose come al tempo di Nerone, ma i laghetti durante il medio evo scomparvero. Al tempo in cui il giovane romito viveva lassù, non esisteva ancora la città di Subiaco;[2] però sulle rovine della villa di Nerone era sorto un chiostro dedicato a S. Clemente, ed uno de' suoi monaci, di nome Romano, soleva ogni giorno portare del cibo alla grotta del giovane Benedetto. Questi, persuaso da sua sorella Scolastica, uscì finalmente dalla caverna, come Maometto; la fama della sua santità si era già diffusa, e siccome molti romani si erano uniti all'ispirato anacoreta, egli gettò le regole fondamentali dell'Ordine e divise i fratelli in dodici piccoli chiostri. Questi si trovavano tutti nella medesima valle, nella selvaggia solitudine dei monti. Nel contemplare quel solenne cerchio di monti, che ora rudi e ripidi si slanciano nell'azzurro, ora invece gaiamente coperti di verdeggianti boschetti, nei quali risuona la dolce canzone dell'usignuolo, non si può fare a meno di apprezzare il sentimento della natura, che albergava nell'animo del giovane ispirato. Non una di quelle incantevoli vedute, cui solo l'orizzonte è limite, delle quali è ricca la Campagna romana, alletta e trattiene qui l'occhio, ebro di sole e di vita; no: l'orizzonte è qui chiuso e costretto da rupi selvagge.
Verso settentrione si innalzano, simili a giganteschi promontorî, due grandi monti, fra i quali precipita l'Aniene, che si apre violentemente la via fra enormi blocchi di rocce, attraverso ombrosi scoscendimenti, e, col suo eterno e melanconico strepito, immerge nel sogno l'anima del solitario viandante.
Qui, sulle nude pareti rocciose, in dodici chiostri, abitavano i santi di Roma, simili a corvi montani, e la valle di Subiaco poteva paragonarsi ad una di quelle deserte valli d'Egitto, dove Atanasio ed Antonio riunirono intorno a loro innumerevoli schiere di anacoreti.
Ma l'invidia di un prete delle vicinanze di Vicovaro (Varia), scacciò il patriarca da Subiaco; Pelagio[3] tentò un giorno di mandare all'aria quei chiostri col lascivo allettamento di belle ragazze, che ebbe l'impudenza di mandare nelle celle dei monaci; allora Benedetto abbandonò il luogo profanato, dove aveva per molti anni meditato e studiato colla compagnia di tre giovani corvi da lui allevati, e si diresse a Montecassino, dove l'anno 529 fondò il famosissimo chiostro. Ma in Subiaco qualche cosa di lui era rimasto; egli stesso vi aveva lasciato Onorato come suo successore, in qualità di abate. La storia dei dodici chiostri è poco conosciuta: sembra che la tremenda guerra di distruzione dei Goti abbia impedito loro di prosperare. Onorato costrusse il chiostro principale, consacrato ai santi Cosma e Damiano; è questo il solo rimasto dei dodici, e porta il nome di S. Scolastica. I Longobardi distrussero gli altri nel 601;[4] i Benedettini scacciati si rifugiarono in Roma, dove il papa aprì[5] loro il chiostro di S. Erasmo, sul monte Celio. Gregorio Magno ci si presenta come il vero fondatore della potenza mondiale dell'abbazia di Subiaco; a lui è attribuito un atto con cui nel 599 avrebbe concesso a quell'abbazia una quantità di beneficî e di privilegi, e questa pergamena apocrifa è diventata poi la base sulla quale i Benedettini si sono arrogati infiniti diritti. L'originale è contenuto solo in un rescritto, detto autentico, del 1654. Ci sono anche altri documenti di questo genere, donazioni di Gregorio IV e di Nicolò I, e dei re Ugo e Lotario, dell'anno 941, che nessuno studioso di coscienza può ritenere genuini. Le falsificazioni si diffusero tanto nel chiostro, che Leone IX nel 1051 bruciò di sua mano molti documenti.
L'abbazia di Benedetto rimase abbandonata per 104 anni, finchè Giovanni VII,[6] nel 705, la popolò nuovamente. Ma i Saraceni la distrussero nell'840, finchè sotto l'abate Pietro I, alla metà di quel secolo, fu nuovamente riedificata. Abbattuta per l'ultima volta dagli Ungheresi, nel 938, fu finalmente ricostruita da Benedetto VII, nell'anno 981; questo pontefice consacrò, il 4 decembre, la chiesa del chiostro sotto il patronato di S. Benedetto e di S. Scolastica. Da quel tempo l'abbazia non ha sofferto più danni per mano di nemici, ed ha cominciato a fiorire, arricchita da donazioni valide e non contestate.
I cronisti narrano che la potenza feudale di Subiaco cominciò nel secolo XI, nel tempo in cui il feudalismo si andava estendendo in tutte le regioni. La considerazione del chiostro era divenuta così grande, che potenti baroni della Campagna romana donavano a S. Benedetto castelli e possessi; così il conte della Marsica, Rainaldo, concesse ai monaci Arsoli, Anticoli, Roviano e molti castelli con essi passarono all'eterno feudo dell'abbazia. Gli abati in questo tempo divennero i veri baroni. Ma è assai strano che Subiaco stessa, che si era accresciuta e, prima, formata sotto la protezione dell'abbazia, non cadesse in potere degli abati. Nel cortile del chiostro di Santa Scolastica si vede, nella parete presso la porta della chiesa, una pietra murata: essa contiene un'iscrizione del 1052, del quarto anno cioè del pontificato di Leone IX, la quale dice che il venerando abate Uberto edificò la torre del chiostro in onore di Cristo, del suo rappresentante Benedetto e della sorella di lui Scolastica; enumera quindi tutti i possessi del chiostro, la grotta di Benedetto, i due laghetti che ancora esistevano, il fiume Aniene, con l'uso del mulino e il diritto di pesca, e ventiquattro castelli nel territorio dell'Aniene.
La città di Subiaco però non vi è nominata.[7] Molto probabilmente divenne soggetta al chiostro dopo che l'abate Giovanni V, nell'anno 1068, ebbe costruito sul luogo la rocca, o fortezza, come afferma un cronista dell'abbazia. Questa fortezza si erge ancora presso il palazzo municipale, sebbene assai cambiata di aspetto, sul monte piramidale, sui fianchi del quale è fabbricata la città.
Giovanni V, cardinale diacono di S. Maria in Dominica a Roma, abate possente e guerriero, sembra sia stato il vero fondatore della potenza temporale di Subiaco. Per 59 anni egli vi regnò come principe; condusse guerre fortunate contro i baroni delle vicinanze, e dopo aver riempito di ricchezze il chiostro, ed edificata una chiesa sopra la grotta di Benedetto (sacrum specus) per perpetuarne la memoria, morì assai vecchio nel 1121. Da quel tempo gli abati benedettini furono annoverati fra i principi guerrieri e temuti della Campagna romana, come gli Orsini e i Colonna, coi quali osarono gareggiare. I loro vassalli, i contadini e gli abitanti dei castelli che loro appartenevano, gemevano sotto un dispotismo feudale, tanto più terribile, in quanto che era esercitato da uomini le cui passioni non potevano essere attenuate o limitate da nessun riguardo politico. Essi stessi erano i ministri del dispotismo del chiostro e del potere dell'abate sovrano, da loro eletto; ma, d'altro canto, si rifacevano sui vassalli, come incaricati di riscuotere le imposte, come segretari e giudici, senza appello, di vita e di morte. L'abate mandava in ogni castello un monaco che vi esercitava da signore una giustizia barbarica, e per primo, nell'anno 1232, Gregorio IX dispose, per alleviare la sorte dei vassalli, che ogniqualvolta i castellani avessero da rendere giustizia, dovessero unirsi una specie di procuratore legale scelto nella cittadinanza. In principio si chiamò, secondo l'uso del tempo, buon uomo, poi castellano. Finalmente il diritto di rendere giustizia fu tolto ai monaci, che restarono però amministratori ed esattori delle imposte, col diritto di sorvegliare le moltitudini; il preposto al castello, nominato dall'abate, esercitava la giustizia indipendentemente da lui, ma in suo nome.
I sudditi dell'abbazia si dividevano in tre classi: i liberi, che non erano obbligati a servire come soldati del chiostro, perchè non portavano rendite al feudo; i milites, che, nella loro qualità di vassalli del chiostro, dovevano servirlo con le armi, e finalmente i contadini o servi della gleba, tutti dipendenti da un connestabile. Così l'abate imperava su un piccolo esercito di vassalli obbligati al servizio militare; più tardi egli assoldò anche delle bande, nè più, nè meno degli altri baroni, e, se era di spirito bellicoso, guidò in persona a cavallo le sue truppe alla battaglia, con lo scudo e la spada.
Le ostilità con i vicini vescovi di Preneste, Tivoli, Anagni, o con i baroni dei dintorni, diedero spesso occasione a fatti d'arme; anche entro le tombe si poneva la spada al fianco dell'abate.
Essi appartenevano alle più note famiglie nobili della Campagna romana, come, fra gli altri, ricorderò il bellicoso Lando, nipote di Innocenzo III, dell'illustre prosapia dei Conti di Segni; morì questi nel 1244. Ma nè la ferrea potestà che esercitavano, nè la severa disciplina preservarono talora il chiostro dai più funesti scompigli. Le condizioni e gli eventi del papato in Roma si riflettevano in piccolo sull'abbazia di Subiaco.
I monaci erano animati da un vivacissimo spirito di parte, e l'audace ambizione di alcuni di essi si faceva beffe di tutte le leggi di Benedetto. Dopo la morte dell'abate, nell'anno 1276, il monaco Pelagio, raccolti armati per costituirsi signore temporale del luogo, assalì il chiostro, scacciò i monaci, e dopo aver saccheggiato il tesoro, ritornò a Cervara, luogo selvaggio, rupestre, sopra Subiaco, dove si tenne armato per quattro anni, aspettando che l'abbazia rimanesse indifesa e senza capo.
Il papa scelse un nuovo abate e lo mandò contro di lui con molte truppe, che solo dopo un difficile assedio riuscirono a sopraffare i ribelli.
Questo stato di cose peggiorò durante l'esilio avignonese, e per molti anni l'abbazia rimase senza capo; quando poi un papa vi mandò un abate di Avignone, che col suo reggimento tirannico mise la disperazione così nei monaci come nei vassalli. Bartolomeo da Montecassino, consacrato abate nel 1318, vi condusse la più scandalosa esistenza; sulla fortezza stabilì un harem di belle ragazze ed i monaci seguirono il suo esempio.
Il chiostro minacciava di dissolversi: se così non accadde, fu per la severità del francese Ademaro. Questo tirannello divenne abate nell'anno 1353. Ci possiamo immaginare facilmente l'ambiente, quando si sappia che Ademaro non esitò a far un bel giorno appiccare per le gambe sette monaci suoi nemici, che furono bruciati a fuoco lento. Era ghibellino convinto; battè una volta sull'Aniene, presso la porta di Subiaco, le truppe del vescovo di Tivoli, partigiano del papa. Ancora oggi gli abitanti mostrano allo straniero il ponte ad un arco, munito di torre, che conduce a Subiaco, attraverso l'Aniene, quello stesso che Ademaro aveva fatto edificare col bottino dai prigionieri di Tivoli.
Il disordine era giunto al colmo; uno dopo l'altro gli abati erano costretti ad abbandonare la dignità. Vedendo infruttuose le riforme più volte tentate con decreti ed ordinanze della Curia romana, Urbano VI risolvette di por fine con un'azione repressiva e vigorosa a quell'anarchia. Con la bolla dell'anno 1386 egli tolse ai monaci il loro antico e prezioso diritto di eleggere l'abate. Dalla fondazione del chiostro essi avevano eletto 57 abati, ed erano fieri del privilegio del loro piccolo principato elettivo, che sorpassava per venerabile età i regni della terra; a malincuore dunque dovettero piegarsi all'ordine pontificio, e da quel tempo cominciò a declinare lo splendore di questa abbazia benedettina.
Furono i pontefici che scelsero d'allora in poi gli abati, e questi nuovi capi del chiostro si dissero manuales, perchè ricevevano l'investitura dalle mani del papa. Il primo di questi fu Tommaso da Celano, ardente seguace di Urbano, uomo di qualità e doti superiori. Tale ordine di cose durò fino all'anno 1455, nel quale gli abati, sino allora arbitri della forza e giurisdizione feudale, e di essa terribilmente armati, perdettero anche questo diritto.
Si narra che la continua tirannide che esercitavano sui loro sottoposti sia stata la causa di tale perdita. Finchè il loro governo come una maledizione posò sui poveri sudditi, che riempivano le carceri, e spesso erano anche precipitati nei pozzi sotterranei della fortezza, i lamenti del popolo si alzarono alti e strazianti. Un caso segnò il momento della liberazione. Nel novembre 1454 quindici giovanetti schernirono per via due monaci e aizzarono contro loro dei cani: i fratelli del chiostro se ne lagnarono presso l'abate e la notte seguente questi mandò i suoi birri alle case ove abitavano i giovani, appartenenti alle più note famiglie del luogo, e al cader del sole la popolazione vide i quindici infelici impiccati alla forca, in un punto che anche oggi si chiama Colle delle Forche. Allora la popolazione si sollevò, assalì il chiostro, uccise i monaci, li precipitò dalle finestre nell'abisso, e devastò l'abbazia. In seguito a questo fatto, Callisto III, il 16 gennaio 1455, ridusse Subiaco in commenda e dispose che un cardinale ne godesse i ricchi beneficî, sotto il titolo di abate; ed il primo fu il dotto spagnolo Juan Torquemada, cardinale di Santa Maria in Trastevere, cui comandò di riformare l'ordinamento di Subiaco e di tutti i castelli dipendenti. Fu allora stabilito un nuovo statuto, secondo il quale ogni abate era obbligato al giuramento di governare rettamente innanzi ai membri della comunità di Subiaco, mentre da parte sua la popolazione doveva giurare a lui fedeltà. Al primo cardinale abate Torquemada ed a questo chiostro spetta la bella fama di avere dato alla luce la prima opera stampata fuori di Germania.[8] Ne furono editori Corrado Schweinheym e Arnoldo Pannartz che, prima di stabilire la stamperia romana al palazzo Massimi, trovarono ospitali accoglienze a Subiaco. Qui anzi essi terminarono il 30 ottobre 1465 di stampare le Istituzioni di Lattanzio, e pubblicarono nel 1467 l'opera di S. Agostino: De civitate Dei. Questi magnifici ricordi della signoria monacale a Subiaco sono insieme degni monumenti della nostra patria tedesca; ancor oggi li conserva la biblioteca del chiostro di S. Scolastica.
Torquemada morì in Roma nel 1467 e gli successe un altro spagnolo, Rodrigo Borgia, divenuto poi Alessandro VI.
In Subiaco le preziose opere di stampa non ricordano il suo nome, ma lo ricorda la rocca del palazzo, a cui nel 1476 aggiunse un'ala sormontata dalla torre quadrata. Si vede ancora il toro del suo stemma sul muro esterno, dove un'iscrizione dice che il cardinale Rodrigo munì la rocca per la difesa dei monaci e dell'abbazia e per la sicurezza dei confini della Chiesa Romana. Sedici anni dopo fu inalzato al seggio pontificio; egli pagò anche il voto datogli nel conclave dal cardinale Giovanni Colonna, avendogli promessa l'abbazia di cui sino ad allora aveva goduto i beneficî. Ma l'amicizia fra Alessandro VI e i Colonna ebbe breve durata: la più potente famiglia romana cominciò ad attraversare i disegni dei Borgia, che miravano a formare un grande dominio temporale, per mezzo della forza e dell'astuzia, a danno dei grandi baroni. Il cardinale Colonna dovette far vela per la Sicilia ed abbandonare la commenda, che per tutta la durata del pontificato di Alessandro, fu occupata dal palermitano Luigi de Aspris.
Era quel terribile papa appena morto, che Colonna fu reintegrato nella commenda dal suo successore, Giulio II. Nel 1508 la passò egli stesso al famoso suo nipote Pompeo: questo lascivo cardinale dicesi conducesse a Subiaco la bella Marsilia, figlia di Attilio Corsi. Un giorno il padre brandendo un pugnale riuscì a penetrare nella camera del seduttore, ma fu afferrato dai servi e gettato in un sotterraneo segreto. Pompeo si era già guastato con Giulio II, che aveva riunito l'abbazia di Subiaco con quella di Farfa, terzo degli antichi conventi benedettini, fondato nel VI secolo nel territorio sabino, ed allargato ed esteso dai duchi longobardi di Spoleto, nei dominî dei quali il monastero si trovava. I rapporti fra le due abbazie diedero d'allora in poi occasione a continue lotte: un partito voleva riunirsi ai monaci di Montecassino, ciò che ebbe luogo nel 1514; l'altro, il partito tedesco, stava invece per la fusione con l'abbazia di Farfa. Farfa aveva il titolo di abbazia imperiale e contava molti tedeschi fra i suoi monaci: essi ricorsero più volte all'imperatore e, più volte scacciati da Montecassino, i benedettini vi furono reintegrati dai papi.
Pompeo Colonna, scomunicato da Giulio II, ma riammesso in grembo alla madre Chiesa da Leone X, passò la commenda al nipote Scipione. I Colonna erano potenti nella Campagna romana, dove si erano formati un piccolo regno delle città degli Ernici e dei Volsci; essi pensavano perciò d'incorporare anche Subiaco nei loro possessi, e siccome i cardinali di questa famiglia ottenevano dai papi che fosse assegnata la commenda ai loro nipoti, viventi ancor essi, così fu loro possibile di essere padroni di Subiaco per ben 116 anni. Per tutto questo periodo il paese rimase ai Colonna, nonostante le continue lotte coi papi. Clemente VII subì per questo una tremenda sconfitta. Le sue truppe distrussero nel 1527 la rocca di Subiaco, ma il 28 giugno dell'anno successivo furono completamente battute, sotto il comando di Napoleone Orsini. La bandiera tolta in quella giornata alle truppe pontificie, si conserva, come trofeo, nella chiesa di S. Scolastica, e ogni anno, nello anniversario, si festeggia a Subiaco, con una processione, questa vittoria ottenuta su di un pontefice.
Questi ricordi storici sono ancora vivi in tutta la regione.
Il dominio dei Colonna fu un governo baronale, fatto di arbitrio, senza legge, simile al dominio lombardo-spagnolo dipinto dal Manzoni nel suo romanzo. Questi cardinali non vedevano nella porpora che indossavano che il manto della sovranità; dei banditi assoldati, già noti allora sotto il nome di bravi, obbedivano fedelmente ai loro minimi cenni, e nè la proprietà, nè l'onore delle famiglie erano sacri a quelle masnade accampate nel cortile della rocca. Mentre duravano ancora le contese tra Farfa e Montecassino, una notte, Scacciadiavolo, il temuto bravo di Pompeo, con 44 armati piombò sul chiostro di S. Scolastica, lo saccheggiò e ne scacciò tutti i monaci. Si dice che vi avesse avuto mano anche il cardinale; fatto si è che egli fu destituito dal papa, ma per esser subito dopo rimesso al suo posto. La storia di quel tempo è piena di simili violenze, e molti luoghi di Subiaco ne tramandano la cupa memoria: si mostra ancora la piazza, per esempio, in cui parecchi cittadini furono sepolti vivi. Subiaco vide, fra le altre atrocità, anche lo spaventoso matricidio che impedì la grazia della famiglia Cenci. Un membro della casa Santa Croce di Roma avendo nel 1599 strangolato la sua propria madre a Subiaco, il papa, appena saputolo, firmò la condanna a morte di Beatrice Cenci, della matrigna e del fratello.
Intanto la potestà di Subiaco passava dall'uno all'altro Colonna, la storia dei quali è legata a quella del chiostro; così Marcantonio Colonna, così Camillo e finalmente Ascanio, che fu della famiglia Colonna l'ultimo cardinale-abate di Subiaco. Abitava questi nella rocca, spudoratamente, con la sua amante Artemisia, che aveva elevato a sua sostituta nella direzione dell'abbazia, ogniqualvolta egli doveva assentarsi; la cosa sollevò tanto scandalo che la commenda fu tolta ai Colonna. Dopo la morte di Ascanio, nel 1608, il papa l'assegnò a suo nipote Scipione Caffarelli Borghese, che la tenne fino al 1633.
I Colonna non hanno lasciato in Subiaco nessun bel ricordo; si vedono soltanto nella fortezza, che essi fecero costruire ed abbellire, delle stanze ornate dei loro stemmi.
Mentre fino al secolo xvi gli Orsini e i Colonna furono i padroni veri e propri della Campagna romana, dopo il XVI secolo subentrarono in questo dominio le più recenti famiglie, i Borghese e i Barberini, portate su da papi nepotisti. Essi acquistarono le più belle proprietà del Lazio, e le posseggono ancora (1858). Le città di questa regione mostrano sempre i loro palazzi massicci e spaziosi, dalle cui pareti pendono i polverosi ritratti dei baroni di quel tempo. Se ne trovano molti; ed anche nella cittaduzza montana degli Ernici, dove scrivo queste righe, mi trovo in mezzo a quadri famigliari di antichi cardinali e di maestose dame del secolo XVII; fra i cardinali ho notato il volto roseo di Scipione Borghese. Era il tempo dell'assolutismo galante e sensuale, in parrucca incipriata e calze di seta, il cui carattere era imbelle, intrigante e scandaloso, non meno che prosaico. I baroni in corazza e maglia del medio evo si eran mutati in principi molli che, sdraiati sui divani delle loro camere, gustavano i frutti che il vassallo tremante portava loro al castello. Ogni volta che i cardinali facevano il loro ingresso in Subiaco per prendere possesso dei beneficî, arrivavano alla testa di un piccolo esercito mercenario, e, accompagnati da un nugolo di servi, ricevevano sulla porta dalle mani del magistrato le chiavi della città.
I Borghese furono presto cacciati da Subiaco dai Barberini. Urbano VIII, capostipite di questa ricca casa, assegnò la commenda al nepote Antonio, nel 1633; da questo tempo i Barberini seppero molto bene seguire l'esempio dei Colonna, poichè per 105 anni l'abbazia rimase nelle loro mani; Antonio accrebbe anche la potenza del cardinale-abate; aggiunse al diritto di giurisdizione baronale anche quello vescovile, che fino ad allora avevano esercitato i vescovi confinanti di Tivoli, Anagni e Palestrina, sui diversi castelli. Così