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L'accordo del diavolo
L'accordo del diavolo
L'accordo del diavolo
E-book545 pagine7 ore

L'accordo del diavolo

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Info su questo ebook

Dopo il successo editoriale di "Immagina i corvi" Luigi Sorrenti torna in libreria con un romanzo ricco di mistero, suspance, leggenda e blues.

Poison è un paesino sperduto sul delta del fiume Mississippi.

Qui, in un cimitero abbandonato, il bluesman maledetto, Robert Johnson, firma il suo patto col Diavolo. La gloria imperitura in cambio dell'anima.

Dieci anni dopo la morte del musicista, alcuni misteriosi omicidi turbano l’apparente tranquillità del paese e quasi contemporaneamente la Strada che porta al vecchio cimitero diviene teatro di tragici incidenti automobilistici.
Nessuno sembra conoscere la causa del male che aleggia su Poison. Si narra di un'ombra scura che si muove inquieta fra le lapidi del cimitero, di un'armonica che nel silenzio della notte fa udire il suo canto.

Fra dubbi e incertezze, indagini serrate e vecchie leggende, fra il terrore vischioso e tetro per un inafferrabile assassino e quello, per molti versi peggiore, di una Strada maledetta, si muovono tre ragazzi, tre amici, tre fratelli. Sono Remo, Leo e Flora, i protagonisti di una storia che parla d’amore e di morte, di esistenze dannate, di anime perse e infelici, della vita che scorre fra sofferenze e inganni e di tutto ciò che ha a che fare con la musica blues.

Solo molti anni dopo, ormai anziani e quasi decrepiti, la verità sulle morti che hanno segnato per sempre le loro vite, quella di Poison e di tutti i suoi abitanti, verrà a galla nella sua perversa tragicità.
LinguaItaliano
EditoreKoi Press
Data di uscita6 mar 2016
ISBN9788898313846
L'accordo del diavolo

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    Anteprima del libro

    L'accordo del diavolo - Luigi Sorrenti

    Luigi Sorrenti

    L'ACCORDO DEL DIAVOLO

    © Koi Press

    Koi Press è un marchio editoriale di Openmind Srls

    Via Volta 72, 20013 - Magenta (MI)

    www.koipress.it/ebook/

    ISBN 9788898313846

    Immagine in copertina di Patryk Hardziej

    Progetto grafico: Koi Press

    Edizione curata da Clara De Giorgi

    Tutti i diritti sono riservati

    PREFAZIONE

    Quelle vecchie storie che non muoiono mai…

    Se una notte qualsiasi (magari buia e tempestosa) di un anno qualsiasi, gli spiriti di Robert Johnson, Charley Patton, Blind Boy Fuller, Leadbelly, e tanti altri bluesman del passato, magari in una casa di campagna come non se ne vedono più, nei pressi di un camino, dovessero voler raccontare una storia, di quelle che fanno paura come vuole la tradizione orale, ecco che probabilmente quegli spiriti inventerebbero una storia come quella scritta da Luigi Sorrenti.

    Una storia di amore e morte, di dolore dell'animo e di passato che non accenna a svanire, una storia di delusioni e vittorie, una storia insomma di esseri umani.

    In fondo è di uomini che parla il blues, di sbronze per dimenticare e risse in qualche lurido bar di periferia, di tradimenti e pianti, di tragicità esistenziale e solitudine perenne, sempre col fardello della morte a ricordare all'uomo quanto la caducità sia il nettare malsano che avvolge la sua esistenza.

    Se poi la voce narrante di questa storia è nientemeno che Robert Johnson, quello che la leggenda vuole commerciare la sua anima col diavolo nei pressi di un crocicchio di campagna, allora il dado è tratto, la fabula servita, l'intreccio stesso degli eventi segue il ritmo delle ormai classiche e intramontabili dodici battute.

    Da quando Mamie Smith, nel 1917, urlò Crazy Blues poco è cambiato dell'innesto magico che le storie in questione hanno trasmesso. Sempre il dolore dei neri mentre si spaccavano la schiena nei campi di cotone, sempre il pianto estremo dell'uomo-bambino abbandonato dalla propria donna-madre, e sempre il whiskey di pessima qualità, il distillato mortale comprato a due soldi che brucia le budella della sofferenza, del tedio esistenziale, del respiro ogni giorno più mozzato e doloroso.

    E poi l'amore. L'amore per l'amore, quell'amore che dà alla testa peggio del vino, come canta Bessie Smith in Careless Love, quel sentimento che già la poetessa di Lesbo delineava come capace di mutare le sensazioni umane, quasi la stessa fisiognomica del soggetto, uno stato d'animo potente e straziante ma, al contempo e ossimoricamente, piacevole, delizioso, sublime, secondo l'accezione filosofica della categoria.

    Questi nuovi aedi della vita, epicamente omerici se pensiamo che la cecità accompagna molti bluesman del passato (tutti i blind della storia, da Lemon Jefferson a Boy Fuller, da Willie Johnson a Willie McTell, da John Davis a Sonny Terry, per citare i più noti) hanno raccontato, o meglio narrato (proprio perché figli della tradizione orale, quella che poi il romanzo moderno ha schiacciato, come faceva notare Walter Benjamin) le storie di vita che sono le stesse da sempre.

    Sempre l'uomo ha sofferto per amore, sempre non ha accettato la dipartita, perennemente in bilico tra voglia di emergere e annegamento nell'alcool, un'esistenza umana che dall'inizio dei tempi si regge sulla dicotomia estasiante ed estasiata dell'equilibrio nel limbo, dell'acrobazia sulla corda sospesa nel nulla.

    Il romanzo di Luigi Sorrenti è una piacevole e lieta sorpresa nel panorama attuale della letteratura italiana, perché è una storia antica come il mondo che ancora oggi regge le sorti dell'uomo, perché i personaggi delineati dallo scrittore sono davvero la quintessenza dell'empatia verso l'esistenza scabrosa, perché il passato assume connotati da spettro che abbraccia il presente e sospira ad esso vecchie e diaboliche nenie inquietanti.

    Un romanzo blues, se la definizione ha un senso, riesce a nascere grazie a questa narrazione di Sorrenti. Una narrazione scandita dai battiti del cuore che rimbombano nelle tempie e accelerano quando la paura prende il sopravvento, storie di uomini e donne con colori della pelle diversi ma con un unico, denso, velenoso e passionale sangue nelle vene.

    Non ci resta altro da fare che sprofondare in una comoda poltrona nei pressi di un camino, sorseggiando un buon bicchiere di rosso, in compagnia degli spiriti dei bluesman andati, leggere quindi queste pagine con avidità. Per sorprenderci, ancora una volta, della vita e dei suoi dispettosi inganni.

    Giuseppe Ceddia

    Luigi Sorrenti

    L’accordo del diavolo

    romanzo

    Gli eroi son tutti giovani e belli.

    Francesco Guccini

    E tutte le stelle ridono dolcemente.

    Antoine de Saint-Exupery

    A Elena.

    Alla musica blues.

    A un'Idea rimasta lì, sospesa,

    che non s'è lasciata afferrare.

    All'infelicità di certi giorni

    cui si ripensa con sorriso e malinconia.

    Al tempo che passa.

    Alla bellezza che sfiorisce.

    A ciò che infine svanisce.

    PRELUDIO

    Salute.

    Mi chiamo Robert Leroy Johnson e sono morto il 16 agosto del 1938.

    Forse qualcuno di voi ha già sentito parlare di me. Ai miei tempi sono stato leggenda, o almeno questo si dice in giro. Ma anche se così non fosse e vi risultassi un perfetto sconosciuto, poco male. Non dico che non vi perdete nulla, intendo solo che non è un problema. Imparerete a conoscermi, e scusate tanto se suona come una minaccia.

    Tra l'altro non è neanche per parlare di me che sono qui a scrivere. Voglio solo raccontarvi una storia. Badate bene, non una di quelle storielle allegre e piacevoli per divertire i bambini davanti al fuoco, ma fatti realmente accaduti, inquietanti e tragici allo stesso momento. Fatti che riguardano la città di Poison e la sua diabolica Strada.

    Son sicuro che da qualche parte ne avete già inteso parlare, tanto si è detto e scritto sull'argomento, molto spesso a sproposito. Solo che finora nessuno si è mai avvicinato alla verità. Hanno dato tante interpretazioni, formulato un mucchio di ipotesi. Tutte balle, ve l'assicuro. La verità è ben lontana dall'essere mai stata raccontata. La troverete qui, nero su bianco.

    Perché proprio io, vi starete chiedendo. Non lo so, forse perché da me è iniziato tutto, tanti anni fa, quando ero poco più di un ragazzo.

    Non vi tedierò troppo con i dettagli della mia vita, solo poche e indispensabili notizie. Del resto la mia biografia è oscura, frammentata e persino io non ricordo molto. Ho una gran confusione in testa.

    So di essere nato a Hazlehurst, nella contea di Copiah, Stato del Mississippi, da una relazione extraconiugale di mia madre. Da bambino ero piccolo e gracile, ma soprattutto nero e questo mi precludeva qualsiasi futuro. Lavoravo da mattina a sera nei campi di cotone, una vita dura e senza orizzonti, di grandi privazioni. Il mio mondo era tutto lì, dentro i confini di una piantagione. Avevo un'unica passione, il blues. Già allora, ricordo, era un fuoco che ardeva dentro, mi divorava letteralmente.

    Ho imparato a suonare l'armonica e la chitarra. Ho speso ogni singolo giorno e ogni maledetta notte della mia infanzia cercando di alimentare quel fuoco. Ci mettevo impegno, ma era inutile. Non avevo talento. Quegli strumenti non suonavano come avrei voluto.

    Il fuoco si era affievolito, ma non aveva smesso di bruciare. Non lo farà mai.

    A diciott'anni mi sono sposato con una ragazzina di sedici. Si chiamava Virginia.

    Dopo neanche un anno lei è morta dando alla luce il nostro primo figlio. Tempo poche ore, e se n'è andato anche il bambino.

    Ho rischiato di impazzire per il dolore. Ho mollato tutto e ho iniziato a girovagare per gli Stati del sud, senza una meta, scomparendo dai libri di storia.

    Bevevo tanto, frequentavo ambienti malfamati, avevo mille donne e mille nomi. La mia vita s'era fatta randagia, sregolata, avvolta nel mistero, zeppa di eccessi. Ero alla ricerca di qualcosa che neanche io sapevo.

    Alla fine l'ho trovata. O meglio, quel qualcosa ha trovato me.

    È accaduto una fredda notte d'autunno dalle parti di Poison, un dannato assembramento di baracche sulle sponde del Grande Fiume, un postaccio lontano dalla civiltà, fatto di fango e polvere, serpenti e paludi.

    Ero ubriaco. Cacciato da un locale dopo una rissa, intontito dalle botte, mi sono incamminato verso sud, per un sentiero sperduto nella campagna. Ho vagato a lungo, senza una meta, senza più sapere dove mi trovassi. Attorno a me solo il buio fitto della notte. Il resto era silenzio, a parte il rumore dei miei passi sulla terra dura e secca.

    Stanco e affamato, avevo deciso di accamparmi sul ciglio del sentiero e riposare, quando si è alzato il vento ed è giunto a me il flebile lamento di un'armonica.

    Da qualche parte, lontano nell'oscurità della notte, qualcuno stava intonando una melodia straziante. Quelle note erano un invito, voci che entravano nella mia testa e mi imponevano di non fermarmi. Seguendo quel richiamo, sono giunto al centro di un crocevia. D'un tratto l'armonica ha smesso di suonare. Anche il vento è calato di colpo e si è alzata dal suolo una lieve nebbiolina, bianca e impalpabile. In uno squarcio fra le nuvole è comparsa la luna a illuminare per la prima volta il paesaggio.

    Mi sono guardato attorno. Di fronte a me c'era un cimitero abbandonato. Mosso da un impulso inspiegabile, ne ho varcato la soglia. Nella foschia, fra le lapidi, riecheggiavano il rumore sordo del silenzio e l'odore vacuo della solitudine, ma sapevo di non essere solo in quel posto dimenticato da Dio e dagli uomini.

    Improvvisamente l'ho visto venire avanti.

    Era poco più di un'ombra scura emersa dal buio. Non un essere umano, ma un frammento di vaporosa oscurità che aveva preso vita. Poi le sue sembianze si son fatte più nette, i suoi contorni più nitidi. Si è fermato al centro esatto del cimitero. Alto, nero, senza età, agghindato da capo a piedi come un contadino del profondo sud, con abiti di tela larghi, sporchi e logori. Stringeva un'armonica fra le mani, ai suoi piedi era accovacciato un grosso cane.

    Mi ha chiamato per nome. Come faceva a conoscermi non posso saperlo.

    Ho guardato il suo volto sorridente e sono stato percorso da un brivido freddo. Era un viso bello e terribile allo stesso tempo. Aveva occhi scuri e profondi come pozzi di petrolio, denti bianchissimi che brillavano alla luce della luna e un sorriso largo e invitante che nascondeva fra le pieghe qualcosa di disgustoso.

    Una persona normale sarebbe fuggita, ma io ero senza soldi, senza paura, senza nulla da perdere.

    Mi sono avvicinato, ho assaporato il suo odore. Era come erba tagliata di fresco, legna che arde nei camini, pane appena sfornato. Erano i profumi della mia infanzia.

    Lui mi ha parlato. A lungo, lentamente. Le parole più dolci che abbia mai udito.

    «Dove devo firmare?» ho chiesto alla fine.

    «Non abbiamo matite qui» ha risposto Lui. «La tua parola è sufficiente, Robert Johnson. Se decidi di accettare, devi solo proseguire dritto per quella Strada. Ma è meglio che tu sappia ciò che accadrà, ci saranno delle conseguenze.»

    Non mi interessava nulla delle conseguenze. Gliel'ho detto.

    Allora quell'ombra scura ha preso a girarmi attorno, lentamente, studiandomi da ogni angolazione. E il cane con lui, un mastino fedele che seguiva ogni suo passo. Si son fermati alle mie spalle, quasi a volermi sbarrare il cammino.

    «È comunque mio dovere metterti in guardia» ha detto puntandomi contro il suo indice scuro e nodoso. «Guardati attorno, ragazzo. Sei in un cimitero, nel bel mezzo di un crocevia. È lo scoccar della mezzanotte, la luna è piena sopra le nostre teste. Il potere è immenso. Se deciderai di tornare indietro verso la città di Poison sarà come se non ci fossimo mai incontrati. Ma se solo farai un passo in più lungo la Strada, la mia mano sinistra sarà per sempre avvolta attorno alla tua anima e la tua musica possederà chiunque l'ascolti.»

    Forse pensava di spaventarmi, io l'ho guardato dritto negli occhi.

    «Fatti da parte» ho ordinato. «Proseguirò dritto.»

    Lui si è messo di lato e ha fatto un grande inchino. «La Strada è tua, Robert Johnson. Da ora in avanti sarai il re del Blues.»

    Senza esitare ho compiuto quel fatidico passo.

    Il fuoco è divampato. Le fiamme si sono sprigionate alte e rosse nel cielo. Hanno lacerato il mio animo e la mia pelle, ma mi hanno donato la grandezza. Ho ripreso in mano una chitarra e – per l'inferno! – suonava come nessun'altra era mai stata capace prima.

    È iniziata così la mia nuova esistenza. Breve ma scintillante. Fulgida a tal punto da farmi credere di essere immortale.

    Sono ricomparso a Clarksdale, la capitale del Delta Blues, dotato di un nuovo perverso talento. Chi mi aveva conosciuto in passato non credeva alle proprie orecchie.

    Come hai fatto, chiedevano. Chi è stato il tuo maestro.

    Dicevo loro di ascoltare la mia musica, avrebbero compreso.

    E quelli ascoltavano, capivano e fuggivano terrorizzati.

    Ho ripreso a viaggiare, lontano, sempre più distante dal mondo degli uomini. Ho girato per nuove città e nuovi Stati sempre accompagnato dalla mia inseparabile chitarra. In ogni luogo avevo un nome e una donna diversa. Ma lo stesso diabolico talento.

    Mi sono inabissato. Ho vagato tra i gironi più blasfemi dell'inferno. Nessuno osava più guardare dentro i miei occhi intrisi di ogni forma di perdizione. L'anima oscura del blues, presero a chiamarmi.

    Ho pagato ben presto il mio debito. Avevo appena ventisette anni quando sono stato ucciso a Greenwood, contea di Leflore, nel mio adorato Mississippi.

    È morto nel mistero. Qualcuno dice che è stato pugnalato, altri che è stato avvelenato; che è morto in ginocchio, sulle sue mani, abbaiando come un cane; che la sua orrenda fine avesse a che fare con la magia nera.

    Questo hanno scritto di me. Non so se è vero, è tutto così confuso nella mia testa.

    Posso solo dire che il certificato stilato frettolosamente da un medico, non attribuisce il mio decesso ad alcuna causa conosciuta dalla scienza.

    In realtà, per quel poco che ricordo, devono avermi avvelenato mentre suonavo con un paio di amici al Three Forks, un locale alle porte di Greenwood.

    Era sabato sera, c'era molta gente ad ascoltarci, la mia gente, quella del fiume.

    Avevo una tresca con la moglie del proprietario, è vero. Quella sera eravamo stati troppo spudorati e il marito non era per nulla contento. Mi sa che ero ubriaco.

    Durante una pausa qualcuno mi ha passato una bottiglietta di whisky già aperta. L'ho portata alla bocca, ho bevuto tutto d'un fiato.

    Poco dopo, mi dicono che non ero più in grado di suonare. Nel bel mezzo di una canzone ho lasciato cadere la chitarra e sono andato via barcollando. Ho vomitato l'anima appena fuori dal locale.

    Alcuni amici sono venuti in mio soccorso, mi hanno offerto una casa e un letto libero. Poco dopo ho iniziato a delirare. Due giorni di lenta, dolorosa, terribile agonia.

    Ricordo vagamente il caldo soffocante e umido di quella stanza, gli sciami di insetti vorticanti attorno a una lampada appesa al soffitto, le zanzare che tormentavano la mia pelle nuda, le atroci fitte di dolore che attraversavano il mio corpo.

    Ho usato le ultime forze per lasciare il mio epitaffio: Gesù di Nazareth. Re di Gerusalemme. So che il mio Redentore vive e mi richiamerà dalla tomba.

    Sono morto fra atroci tormenti.

    Mi hanno sepolto nella terra nuda, senza una lapide, senza un ricordo. Più tardi pare che mia sorella abbia fatto spostare i miei resti nella cappella di una chiesa battista dalle parti di Morgan City, ma forse è solo leggenda. Una delle tante che ha accompagnato la mia vita. Tuttora, a distanza di tanti anni, nessuno sa ancora con certezza dove riposino le mie ossa ormai ridotte a polvere.

    Per molto tempo il mio nome è rimasto sconosciuto. Finché un gruppetto di ragazzi con la passione del blues ha cominciato a suonare i miei pezzi. Avevano nomi importanti come Eric Clapton, Jimmy Page, Mick Jagger, Keith Richards, John Mayall. Dopo di loro, ne sono arrivati altri. Il mondo ha scoperto la mia musica. Il resto è venuto da sé.

    Sono iniziate a circolare strane voci sul mio conto, un alone leggendario e mistico mi ha avvolto. Chi mi ha conosciuto si è fatto pagare bene per raccontare che tipo fossi, per alimentare le chiacchiere. Hanno riportato molte cose vere, altre del tutto inventate.

    Mi hanno studiato, spulciato, hanno setacciato la mia vita, non solo la musica e le litanie malate che avevo composto, ma qualsiasi aspetto mi riguardasse. Hanno eretto monumenti alla mia memoria, lapidi con il mio nome e i miei versi. I luoghi che ho frequentato, le città che ho visitato, son diventate mete di pellegrinaggio.

    Ho affascinato tanti musicisti, altri li ho terrorizzati. Molti mi hanno considerato il loro maestro. Sono stato lodato, idolatrato, biasimato, censurato, amato.

    Hanno detto che la mia musica faceva venire la pelle d'oca, che toccava nervi che la gente neanche sapeva di avere.

    Il leggendario bluesman Son House ha lasciato intendere che spesso suonavo di spalle perché si sa – chiosava con un sorriso arguto – al Diavolo non piace essere guardato negli occhi.

    Il grande Muddy Waters ha raccontato di avermi incontrato una sola volta in vita sua, a Friars Point, nel Mississippi, mentre mi esibivo per strada. Al solito si era radunata una gran folla ad ascoltarmi. Suonavo con una ferocia e un'intensità che non aveva mai udito prima. Lui ne rimase talmente intimidito da lasciare rapidamente il capannello di pubblico e non volermi mai più rivedere.

    A dangerous man, mi ha definito. Un uomo pericoloso.

    Povero Muddy, l'ho spaventato. Eppure ha imparato tanto da me. Tutti l'hanno fatto.

    La mia vita, alla fine, non è trascorsa invano. Non ho rimpianti. Ho fatto tutto quel che potevo per diventare me stesso. Il prezzo da pagare è stato altissimo. Non solo per me, anche per chi è venuto dopo.

    Ed è proprio dei tragici eventi scaturiti dal mio scellerato patto che voglio narrarvi. Se dunque avrete la pazienza di seguirmi, vi condurrò a Poison, fra le pieghe di una storia che parla d'amore e di morte, di esistenze dannate, di amicizie tradite, di anime perse e infelici, della vita che scorre fra sofferenze e inganni e di tutto ciò che ha a che fare con la musica blues.

    Solo vi prego, non dubitate di me, delle mie parole, della mia stessa esistenza. Segnatevi il mio nome e, se credete, documentatevi. Scoprirete che è tutto vero.

    Mi chiamo Robert Johnson, sono morto il 16 agosto del 1938 e prima che Satana venisse a pretendere la mia Anima lacerata dal peccato, un'anima che ancora non trova pace, ho donato ventinove canzoni al mondo della musica.

    Chiunque fra voi abbia avuto la fortuna di ascoltarle, sa che io sono il figlio del Diavolo, il Dio del blues.

    PRIMA STROFA

    BLUES AL CROCEVIA

    (Crossroad Blues – Robert Johnson, 1936)

    Fermo al crocevia, bambina,

    mentre il sole sta calando,

    io confido nella mia anima,

    ora il povero Bob sta sprofondando.

    Robert Johnson

    1.

    C'è una Strada isolata nella contea di Poison che taglia la campagna come una lunga cicatrice pallida. Non ha incroci, non ha curve, corre dritta verso sud senza un sussulto. Arriva sino al confine dello Stato.

    C'è una casa solitaria sul ciglio della Strada. È sporca e fatiscente. Dentro la casa c'è una vecchia, ancor più lurida e malmessa. Ha il naso curvo, gli occhi vacui e una marea di gatti. In paese la chiamano la bruja.

    La vecchia dorme e mangia poco, non beve nulla. Passa il tempo seduta sulla soglia, mastica tabacco e osserva il mondo che le scivola accanto. Immobile, con lo sguardo ottuso, rimane a fissare le automobili incerte e timorose che percorrono la Strada sotto il cielo lucente del Mississippi.

    Quando piove e il cielo è basso e pieno di nubi, la campagna si allaga e l'acqua si riversa sull'asfalto. Le macchine si fanno più prudenti, avanzano lente fra pozzanghere e fango. Gli autisti aggrottano la fronte e strizzano gli occhi per fermare la paura. Con le schiene dritte e le mani strette sul volante, paiono tanti bravi scolaretti al primo giorno di guida.

    Regna il silenzio sulla Strada. Solo il rumore del vento fra gli alberi e il cupo brontolio dei motori, i battiti del cuore e i sospiri delle donne.

    Verso la fine, nell'orizzonte lontano, la Strada incontra un sentiero sterrato, in un unico crocevia desolato e polveroso, battuto dal vento e dalla luce accecante di un sole ostile.

    Lì sorge un cimitero sperduto in un nulla che è dimora di serpenti e di scorpioni, di morti che non hanno pace e di antiche e terribili leggende. Di notte, fra quelle lapidi, si aggira un'Ombra scura e, sotto il sorriso gelido della luna, riecheggia il suono sinistro di un'armonica.

    Non fermatevi, non cercatela. Non sono assurde leggende di gente superstiziosa, io lo so bene. Fuggite lontano, non lasciatevi soggiogare dal perfido richiamo dell'armonica, dalle allettanti promesse dell'Ombra. Il Diavolo è davvero brutto come si racconta.

    Pur se avete qualcosa da chiedere o covate un sogno per cui dareste l'anima, se la vita vi sembra inutile e faticosa e avete un fuoco che brucia dentro e vi divora lentamente, non lasciatevi tentare. Tirate dritto. Perché indietro, poi, non si torna.

    Seguite la Strada, senza correre, con le mani salde sul volante. Non pensate a nulla, se non alla salvezza della vostra anima. Pregate, se ne siete capaci. Pregate, se da qualche parte avete un Dio a cui rivolgervi.

    Appena mezzo miglio più avanti la Strada curva per la prima volta, s'arrampica, s'avvita su se stessa, si perde in una densa ragnatela di vialoni maestosi e trafficati. È un altro Stato, un altro mondo, forse nuove atrocità, ma ne siete fuori. La Strada è terminata e questo solo conta.

    Potete rilassarvi, distendere i muscoli del viso su camicie madide di sudore. E non vergognatevi di sospirare per il sollievo, soprattutto se il sole è tramontato e il cielo è nero come l'anima di un peccatore. Perché è durante la notte che la Strada fa davvero paura, l'Ombra esce dalla sua tana, l'armonica fa udire il suo canto. E la gente muore.

    Da tempo, ormai, le ultime coraggiose automobili percorrono la Strada solo fino al calar del sole, quando le ombre degli alberi si allungano come fantasmi scuri e minacciosi.

    È il crepuscolo. La vecchia rientra in casa, la campagna si tinge di rosso, poi di nero e d'argento. La Strada diventa un deserto lucido d'asfalto. Nessuno osa più avvicinarsi. Persino gli animali si tengono a distanza. Fuggono lontani.

    La Strada non ha nome.

    Nella contea di Poison, sulle sponde del Grande Fiume, un centinaio di miglia a sud di Jackson, la chiamano semplicemente la Sanguinaria. Da quelle parti ormai hanno smesso di contare i morti che ha prodotto.

    Un tempo era il vecchio Samuel a portare il conto. Grosso come un elefante e nero come un tizzone, Sam gestiva una pompa di benzina proprio all'inizio della Sanguinaria. Per ogni vittima segnava una tacca sul muro sbrecciato della stazione di servizio. Era giusto arrivato a trenta quando, una notte di novembre, aveva ricevuto una telefonata da St. Louis, nel Missouri. Sua figlia aveva spalancato una finestra e si era lanciata nel vuoto. Un grido, poi il tonfo sordo sull'asfalto.

    Sam aveva agganciato il telefono con gli occhi velati di lacrime. Tremando di dolore e di paura, era montato sul suo furgone, si era fatto il segno della croce e aveva imboccato la Sanguinaria.

    L'avevano ritrovato la mattina dopo, al crocevia, accartocciato contro un albero. Sarebbe stata la trentunesima tacca sul muro, quella che nessuno ha mai tracciato.

    Lo stesso giorno a Dallas, nel Texas, qualcuno aveva sparato al presidente Kennedy e la morte di Sam non aveva fatto troppo rumore. Non nel resto del mondo, intendo.

    Sono anni che succede così. Sempre di notte. Sempre senza apparente motivo.

    La Sanguinaria è questa. Spalanca le fauci. Inghiotte. Vomita cadaveri.

    Quando tutto ha avuto inizio, nessuno sa dirlo con precisione.

    Qualcuno sostiene subito dopo la guerra, nel giugno del 1948, il giorno in cui fu rinvenuto sulla Strada il corpo senza vita del maggiore Edward Céline all'interno della sua automobile distrutta.

    Altri ne dubitano. Quello del maggiore è stato solo un brutale omicidio, ribattono. Ammazzato per vendetta e per passione, non certo dalla Sanguinaria.

    Tutti però son concordi nel far coincidere l'inizio della sciagura con l'arrivo in paese della bruja.

    La vecchia lo sa ma non se ne cura, anzi ne approfitta per tener lontani i seccatori. Alimenta voci e paure, e nessuno in tutta Poison è così folle da andar più a ficcare il naso nei suoi affari. Tutti ne provano un sacro terrore, soprattutto Amos Benson, lo sceriffo di contea.

    Amos è un omone forte e taciturno, con il viso largo e i lineamenti scavati nella roccia. È l'unico figlio del celebre Zacharias Benson, anch'egli sceriffo ai tempi in cui la Strada era semplicemente una strada e Poison uno sputo di posto di cui nessuno aveva inteso parlare.

    Amos ha da poco preso il posto del padre quando cominciano le disgrazie. Indaga a tutto tondo senza risparmiarsi, ci si dedica anima e corpo. All'inizio sostiene la tesi dei normali incidenti. O almeno ci prova. Cerca spiegazioni perfettamente razionali, di quelle che non minano le sue certezze da uomo di campagna.

    Un colpo di sonno, afferma sicuro alla prima vittima, quando ancora è giovane e forte. Lo ripete alla seconda e lo ribadisce alla terza. Poi i colpi di sonno diventano troppi, e lui si converte alla folata improvvisa di vento, alla velocità eccessiva, all'asfalto reso viscido dalle piogge e dall'umidità.

    All'ennesimo incidente lo vedono grattarsi il testone pelato e cercare qualche traccia sull'asfalto sotto il sole rovente del mattino. A pochi passi da lui le lamiere contorte di una vecchia Ford e due lenzuoli bianchi distesi al sole. Un gatto nero si aggira furtivo annusando tutt'attorno.

    Lo sceriffo lo scalcia invano. Si ricorda della bruja. Porta una mano alla fronte e scruta l'orizzonte lontano. Si fa coraggio e s'incammina lentamente.

    Sono poche decine di metri. L'aria è torrida, l'asfalto bollente. La Strada fa paura. La terra su cui poggia i piedi è impastata col sangue degli innocenti.

    Amos Benson giunge alla baracca. Trova la vecchia seduta sulla soglia, vestita di stracci, circondata da mosche e dal tanfo della putrefazione.

    Lei ride delle sue domande. Ha denti enormi e gialli e gengive che paiono marcire nella bocca. I suoi occhi sono vacui come quelli di una statua.

    «Stai attenta, bruja» minaccia lo sceriffo a disagio. «Potrei farti passare un mucchio di guai.»

    Lei ride ancora più forte, battendosi sulle cosce.

    «Figlio di una scrofa» dice. «Questo me lo hai già detto tanti anni fa, eppure i guai non sei stato certo tu a procurarmeli.»

    La sua voce è acuta e terribile. Sembra la voce di una bambina nel corpo di una vecchia.

    «Tu non mi piaci, Amos Benson» aggiunge poi nel silenzio. «Porti un terribile segreto dentro di te. Non mi piaci per nulla.»

    Benson è grande e grosso e ha mani pesanti come badili che non esita a usare quando si tratta di chiarire chi comanda in città, ma ora trema al suono di quelle parole.

    La vecchia avverte la sua paura. Ne assapora il gusto.

    «Potrei ammazzarti e renderei finalmente giustizia» sogghigna euforica. «La tua carne sfamerebbe i miei gatti, con le ossa ci farei il brodo.»

    Scoppia nuovamente a ridere sputacchiando tabacco.

    «Figlio di una scrofa» ripete per buona dose.

    Lo sceriffo sente un alito caldo e fetido invaderlo, come una folata improvvisa che porta con sé l'odore della morte. In un ultimo rigurgito di orgoglio, stringe i pugni e punta i piedi sul terreno per fermare il tremito. È una statua di marmo in preda al terrore.

    Non lasciatevi ingannare, è lo stesso uomo che il sabato sera o nelle giornate di paga dei braccianti, quando si scatenano gigantesche risse nei bar di Poison, si butta in mezzo e randella chiunque gli capiti a tiro. Picchia bene e duro, lo sceriffo, e in paese tutti hanno ormai capito che conviene star lontano dalle sue manacce. Ma nulla di tutto ciò gli è d'aiuto adesso. Sul ciglio della Strada, accanto a una putrida baracca, in un'afosa mattina d'estate, c'è solo una parvenza d'uomo al cospetto di una strega.

    Giunge improvvisamente il sommesso rombo di un motore in lontananza. Un'automobile solitaria sbuffa lungo la Sanguinaria.

    Lo sceriffo volta lo sguardo. Scorge un ometto calvo raggomitolato dietro il volante con la faccia spaventata e le labbra che si muovono meccanicamente quasi a recitare una preghiera. O forse a snocciolare imprecazioni.

    Coraggio amico, mormora Benson. Ancora poche miglia. Ancora poche miglia e il tuo inferno sarà finito.

    La bruja non ha l'udito buono come una volta. Solo allora si accorge dell'automobile. Smette di ridere improvvisamente. Si fa seria e torna a fissare la Strada, gli occhi socchiusi e malevoli.

    Benson scorge in quegli occhi qualcosa che non ha mai visto prima, abissi di cattiveria, di solitudine e di dolore che fino ad allora non aveva neanche concepito.

    «Va' via» gli ordina la vecchia senza guardarlo. «Va' via e non tornare più.» E la sua voce è un sibilo lontano che vien su da quegli stessi abissi.

    Lo sceriffo scolla i pesanti stivali dal terreno e arretra con cautela.

    Un'ombra scura gli si avvolge fra le caviglie. Lui perde l'equilibrio e finisce nella polvere, ma continua a indietreggiare strisciando sul sedere e sulle mani. Con la coda dell'occhio intravede un gatto nero che si allontana soddisfatto e solo allora Amos Benson trova il coraggio di voltarsi e cominciare a correre carponi, incurante di quanto avviene alle sue spalle. Quando crede di essere giunto a distanza di sicurezza, si rialza senza mai smettere di fuggire. Ha la bocca impastata e il cavallo dei pantaloni bagnato.

    Con il fiato corto e il cuore in tumulto torna sul luogo dell'incidente, salta sulla sua macchina e riparte sgommando. Ci penserà qualcun altro a recuperare quei cadaveri.

    Rientra in paese e non fa parola con nessuno di quanto è successo. Solo, smette di cercare spiegazioni. Adesso, dopo ogni incidente, si limita a inviare brevi rapporti alle autorità dello Stato.

    Qualche tempo dopo arriva l'esercito a Poison, insospettito da tutte quelle morti.

    I soldati pattugliano la Strada per diverse notti, ma all'epoca già nessuno percorre più la Sanguinaria dopo il tramonto. E quelli si limitano a far la guardia a un nulla di asfalto e di cemento. Vanno via contrariati.

    Non c'è nulla di strano da quelle parti, scrivono in un referto destinato alle autorità dello Stato.

    Ma ormai la Sanguinaria ha un nome che riecheggia lontano.

    È una fredda notte d'inverno di fine anni sessanta, quando arriva un tale da fuori, un agente di commercio di Nashville, diretto a sud.

    Si ferma a mangiare alla taverna di Moses, alla periferia di Poison, lì dove la Strada non fa ancora paura.

    In molti gli consigliano di passare la notte in paese.

    Il tipo ha il viso di un maiale e il ghigno di un lupo, ma non è un buon motivo per volere la sua morte. Fermati qui, gli dicono.

    «Ho votato Nixon» replica lui. «Non può essere peggio che guidare di notte su una strada di campagna del Mississippi.»

    Così finisce di addentare una grossa bistecca, vuota il boccale di birra e monta sulla sua Dodge. Se ne va ridendo delle dicerie della gente.

    Escono tutti all'esterno a vederlo andar via nella polvere sollevata dalla vettura. I vecchi si tolgono il cappello scrutando scuri in volto la Sanguinaria che si srotola nera e dritta davanti a loro.

    Una violenta folata di vento li investe, porta con sé l'odore rancido della Strada, di quella sottile lingua d'asfalto colata alla rinfusa da un Dio spietato e beffardo. Cadono le prime gelide gocce di pioggia.

    «Rientriamo» dice Moses e rabbrividisce come un bambino. «Domani andremo a raccoglierne i pezzi.»

    La taverna torna a riempirsi in un silenzio che è triste presagio di sventura. Gli avventori riprendono lentamente posto, chi ai tavoli chi al bancone, senza proferire parola, senza guardarsi negli occhi. Nell'aria si avverte una strana sensazione d'attesa. Su tutti regna l'imbarazzato silenzio della propria impotenza.

    Trascorrono i minuti, lenti e faticosi, poi improvvisamente la porta d'ingresso del locale si spalanca e sull'uscio appare una figura stravolta.

    Rosa, la ragazza che serve ai tavoli, lancia un urlo. Lo sceriffo Benson impreca alzandosi di scatto. Rovescia la sedia e istintivamente porta la mano alla pistola d'ordinanza.

    Si rilassa solo quando vede il volto pallido e sudato del nuovo arrivato. Il volto di un maiale.

    «Potevate dirmelo che era la Sanguinaria» tuona l'agente di commercio fuori di sé. «Dannati bastardi, la chiamavate la Strada, la Strada! Che cazzo ne so io? Quante strade ci sono in questo dannato angolo di mondo?»

    Fa qualche passo in avanti e si accascia sulla prima sedia libera, completamente esausto.

    «L'ho capito solo dopo» dice abbassando il tono della voce. «Mi è preso un colpo. Sono tornato subito indietro.»

    Si asciuga il sudore dalla fronte. Gli tremano ancora le mani.

    Qualcuno sospira sollevato. Moses riempie un bicchiere, lo passa al forestiero. Lui ringrazia con un cenno del capo.

    «Com'era là fuori?» chiede un tipo appollaiato su uno sgabello. «Sulla Sanguinaria, dico.»

    L'agente di commercio scrolla mesto il capo.

    «Era tutto buio» racconta. «E c'era silenzio, un silenzio di tomba. Improvvisamente ho avuto la sensazione di non riuscire a tenere la macchina dritta. Ho rallentato e abbassato il finestrino perché avevo bisogno d'aria, ma… non so… non riesco a spiegarmi bene... solo che… era come se nell'aria gelida ci fosse qualcosa… qualcosa di orribile. Mi è montata su una paura fottuta. Ho quasi fermato la macchina ed è stato allora che ho sentito dei lamenti in lontananza, sembrava il pianto di un bambino all'inizio, in realtà… in realtà era il suono distorto di un'armonica. Non ho mai avuto tanta paura in vita mia. C'è qualcosa di diabolico su quella Strada, ve l'assicuro.»

    Tace. Vuota il bicchiere. Rabbrividisce violentemente.

    Neanche cinque mesi prima l'umanità era sbarcata sulla luna in quello che per anni rimarrà il più grande successo dell'uomo e della scienza. Ma il progresso e tutto ciò che gli ruota attorno non hanno alcun valore di fronte al terrore che incute la Sanguinaria.

    Lo sceriffo si avvicina all'agente di commercio, gli dà una bonaria pacca sulla spalla.

    «Ha fatto la scelta giusta, amico» biascica con voce atona. «Potrà riprendere il suo viaggio domani, alla luce del sole. La Strada è sicura di giorno.»

    La Strada reagisce uccidendo quattro persone in un colpo solo qualche settimana dopo.

    La Strada sa attendere. La Strada è paziente.

    È un'intera famiglia della Louisiana su un carro carico di sementi che procede al passo di due cavalli affaticati. Forse cerca un posto dove passare la notte, finisce per imboccare la Sanguinaria.

    Se vi state chiedendo cosa sia successo, se quelli abbiano udito il suono dell'armonica prima che il carro si rovesciasse, nessuno può rispondervi. Persino i cavalli non hanno trovato scampo.

    Un sinistro silenzio cala sul luogo dell'ennesima sciagura. Ammanta ogni cosa. Un disgustoso fetore si alza dall'asfalto, impregna l'aria, arriva fino in paese, butta giù dal letto la gente addormentata. Nessuno però ha il coraggio di andare a controllare. Attendono tutti l'arrivo di un nuovo giorno.

    E il sole sorge per l'ennesima volta sulla Strada illuminando il suo triste carico di morti. E il sole tramonta su quelle poche miglia di terrore. Che splenda alto nel cielo o occhieggi fra strati di nuvole rossastre, assiste indifferente ai suoi rigurgiti. Non ha rimorsi.

    Solo molto tempo dopo la furia perversa della Sanguinaria pare placarsi. Per alcuni anni non accadono incidenti, non ci sono più vittime.

    Poi arriva l'estate del 1977. Il 16 agosto per la precisione, anniversario della mia morte. Un triste giorno per i cittadini di Poison.

    La Sanguinaria colpisce per l'ultima volta. Nella maniera peggiore.

    2.

    È un'automobile potente quella che ruggisce nel cuore della notte.

    Imbocca la Strada in direzione di Poison, divora l'asfalto sotto di lei, procede esattamente al centro della carreggiata, scartando un po' a destra, un po' a sinistra. Sembra guidata da un ubriaco. Sbanda, sobbalza, costeggia il cimitero, attraversa il crocevia senza rallentare, si avvicina pericolosamente al ciglio. Le ruote lasciano per un breve momento il manto stradale, sollevando nugoli di polvere. C'è un grosso albero sporgente poco più avanti.

    Un attimo prima dell'impatto, la vettura scarta sulla destra, scoda vistosamente, si rimette in carreggiata. Supera un cartello bianco. Mancano quattro miglia a Poison.

    Alla taverna di Moses, l'ultimo avamposto prima della Sanguinaria, c'è una cantante messicana venuta direttamente da Monterrey. È costata un po', ma ultimamente gli affari vanno bene con tutti quei turisti che arrivano in paese per vedere la Strada. E la Strada che finalmente ha smesso di uccidere.

    Dolores ha la voce pastosa e il corpo rotondo. È seduta su uno sgabello, fra le mani ha una chitarra. Canta di amori persi e ritrovati davanti a boccali di birra stracolmi e a bistecche fumanti su piatti troppo piccoli per contenerle.

    Moses, ormai è diventato per tutti Big Mo'. Ha messo su pancia, è ingrassato nel giro di pochi anni. È seduto di fronte al registratore di cassa, con un cappellino dei Choctaws sul capo e un enorme sigaro fra i denti. Guarda raggiante il locale pieno di gente e di fumo. Conta le birre che vengono servite e la sua bocca si allarga in un sorriso idiota.

    L'automobile oltrepassa la casa della bruja. Si lascia polvere e fumo nero alle spalle. È un proiettile sparato dalla bocca di un cannone.

    Un cartello indica due miglia a Poison.

    La Strada ora scende pericolosamente verso il paese, sono visibili in lontananza le prime luci delle case. L'asfalto è sconnesso, la vettura procede a tutta velocità, rapida e imprevedibile come la polvere che trascina con sé.

    Improvvisamente devia in maniera brusca, quasi spinta da una forza terribile e misteriosa. Punta un maestoso albero sul ciglio. Nessun segno di frenata, né un tentativo di riprendere il controllo.

    Da Moses, la canzone è appena terminata. Gli applausi si spengono lentamente, Dolores ringrazia. Ha bisogno di bere qualcosa, fa un cenno con la testa alla cameriera. Cala per un breve istante il silenzio nel locale.

    Ed è proprio allora che tutti odono distintamente lo schianto. E quel silenzio si protrae all'infinito.

    Joe Nash – ricordatevi questo nome – ha quasi cinquant'anni. Lavora alla fabbrica di fertilizzanti appena fuori Poison. È il primo a rompere il silenzio.

    «Di nuovo» dice con un gemito. «Era davvero tanto che non succedeva.»

    Non ha parlato a voce alta, ma tutti lo hanno udito chiaramente.

    «Sei anni» precisa un tipo biondo appoggiato al bancone. Ha una birra in una mano, una sigaretta nell'altra e un brutto ghigno sul viso.

    «Sette, Nick» corregge qualcuno dal fondo. «Da quella famiglia della Louisiana.»

    «Si ricomincia, per Dio» mugugna Chester che siede tutto solo in disparte. Lui non ha parenti, né amici, passa le giornate seduto al parco a dar da mangiare ai piccioni e macerarsi fra i ricordi.

    «Dannatamente vicino stavolta» torna a dire Joe Nash. Si guarda le braccia. Gli è venuta la pelle d'oca. «Forse dovremmo andare a controllare» propone cauto. «Qualcuno avvisi lo sceriffo.»

    «Sono qui» dice una voce roca, nascosta da una tenda nell'angolo più appartato del locale.

    Una mano callosa scosta la rozza tela. Amos Benson, pallido e calvo come un uovo, compare alla vista degli astanti. Si pulisce la bocca con la manica della camicia e si mette

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