Il cedro del Libano
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Info su questo ebook
Contiene i racconti: "Il giuoco dei poveri", "Cuori semplici", "Vecchi e giovani", "La gracchia", "Ferro e fuoco", "Trasloco", "Caccia all'anatra", "Il camino", "L'uccello d'oro", "L'esempio", "Il posto", "Vento di Marzo", "La statuetta di sughero", "La melagrana", "Agosto felice", "Nel mulino", "La fuga di Giuseppe", "La lettera", "Ornello", "Sotto il pino", "Il Gallo", "Il signore della pensione", "Il cedro del Libano", "Ballo in costume", "Forze occulte", "Le bestie parlano", "L'angelo", "I guardiani", "Via Cupa", "Medicina popolare".
Maria Grazia Cosima Deledda è nata a Nuoro, penultima di sei figli, in una famiglia benestante, il 27 settembre 1871. E’ stata la seconda donna a vincere il Premio Nobel per la letteratura, nel 1926. Morirà a Roma, all'età di 64 anni, il 15 agosto 1936.
Grazia Deledda
Grazia Deledda was born in 1871 in Nuoro, Sardinia. The street has been renamed after her, via Grazia Deledda. She finished her formal education at 11. She published her first short story when she was 16 & her first novel, Stella D'Oriente in 1890 in a Sardinian newspaper when she was 19. Leaves Nuoro for the first time in 1899 and settles in Cagliari, the principal city of Sardinia where she meets the civil servant Palmiro Madesani who she marries in 1900 and they move to Rome. Grazia Deledda establishes an international reputation as a novelist& wins the Nobel Prize for Literature in 1926.
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Il cedro del Libano - Grazia Deledda
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IL GIUOCO DEI POVERI
In quel tempo ci piaceva il giuoco dei poveri: cioè fingere di essere realmente poveri, di aspettare il soccorso del prossimo e, se occorreva, andare ad elemosinarlo. Il fatto dipendeva dalla morte serena e improvvisa di una vecchia mendicante che da mezzo secolo viveva in una specie di legnaia in fondo al nostro orticello. Avrebbe dovuto pagarne il fitto - quindici soldi al mese - ma se n'era andata con tutti gli arretrati; e mio padre anzi pagò i funerali.
- Troveremo poi il gruzzolo che deve aver lasciato nascosto in qualche buco - egli disse; ma non si aveva mai il tempo, né la voglia e neppure l'illusione di trovarlo davvero.
La sua fortuna, la vecchia gobbina, la lasciò tutta a noi, ragazzette romantiche ma non tanto, che ci si installò nel suo domicilio per fingere, dunque, di giocare ai poveri e per fare il comodo nostro. Ella aveva lasciato la stamberga relativamente pulita, con un saccone di stoppie coperto da una ruvida coltre, dono di mia madre; uno sgabello, del quale, del resto, si poteva fare a meno perché negli angoli c'erano, come nei boschi, ceppi e tronchi d'albero più comodi di certe sedie civili; un'anfora di creta, sbocconcellata; un canestrino con rimasugli di pane che parevano sassolini; e infine il bastone.
Ah, di questo, proprio, ne presi io il sacro possesso, sebbene, quando era necessario farne uso, gli avvolgessi il pomo nodoso col fazzoletto da naso. Era tutto unto, questo bastone, e nei giorni di caldo pareva sudasse. E già faceva caldo: luglio, con gli alberi dell'orto e degli orti attigui pesanti di verde, palpitanti di cicale; e l'arsura profonda ma asciutta e non polverosa delle lunghe siccità meridionali, che alla notte, sotto la luna, ha un odore quasi inebbriante di erbe che languiscono, di fiori aromatici che resistono ad ogni calore.
Ma le ore più belle, per le tre, o quattro, a volte anche cinque ragazzine, riunite nella casa della mendicante, erano quelle che precedevano l'incanto notturno: le ore del lungo vespero, quando la mamma preparava la cena, e dalla cucina verso la porta opposta dell'orto arrivava l'odore delle patate fritte con un po' d'aglio, e delle animelle infarinate.
A noi, che importava della sicura cena materna? Noi eravamo povere mendicanti, senza pane, senza luce, tranne quella della luna; anche senza acqua, perché tanto era scarsa quella delle distanti fontane che la serva minacciava di rompere la nostra brocca se, di nascosto, la si riempiva a quella della casa.
Tempi crudeli, di antica leggendaria carestia: nessuno dava un obolo, un pane, una crosta di formaggio, alle povere mendicanti, che al crepuscolo, dunque, mentre gli altri bambini, anche quelli poveri sul serio, giocavano nella strada il sontuoso e danzante gioco degli ambasciatori, con relative nozze e regali di gioielli e vestiti mai veduti, ritornavano stanche, curve, affamate, - affamate davvero, questa volta, - al loro triste e mirabile rifugio.
La più vecchia sedeva sullo scalino della porta, col bastone al quale pareva avessero rotta la testa, abbandonato al suo fianco: era tragica, in apparenza, o, più che tragica, arcigna e preoccupata per le ingiustizie sociali, - chi troppo ricco, come don Francesco Antonio Maria Valadier Castillo che s'era fatto costruire un inutilissimo palazzo nelle sue tancas solitarie, con fontane segrete; chi povero come le mendicanti scalze (questo perché lo volevano loro, di nascosto della madre, e soprattutto della serva) assetate e con lo stomaco più vuoto della loro stamberga -. Sì, arcigna e desolata, nel viso corrucciatissimo, ma in fondo beata come un cherubino, appunto per la visione del palazzo e delle misteriose fontane di don Francesco Maria Castillo, laggiù, nelle tancas solitarie, azzurre alla luna, con le perle delle lucciole sul velluto verdone del musco.
Le altre mendicanti sedevano sui tronchi degli alberi, sospiravano, si pizzicavano, sbadigliavano. Una si era buttata sul giaciglio della vecchia e brontolava il rosario: ma d'un tratto si alzò urlando e corse fuori. E fuori anche le altre, atterrite.
- Che hai veduto? Che hai veduto? Lo spirito della vecchia?
- Accidenti a lei: nel saccone ci sono ancora le pulci.
Poi, qualcuna pensò bene di cambiar metodo. Ed ecco che, all'ora del convegno, arrivava, imitando a perfezione la vecchia gobbina, appoggiandosi a un pezzo di canna, con un fazzolettino pieno di roba. Balbettava:
- È tutto quello che ho potuto avere: oggi c'è stato un matrimonio; oggi c'è stata la consacrazione di un prete.
E dal fazzolettino venivano fuori, se non abbondanti, squisite offerte: frittelle con lo zucchero, fettine di salame, frutta primaticce.
L'assistenza era ancora scarsa: ma ci pensò bene l'amica Francesca a renderla più proficua; anche perché era di natura generosa, lei, generosa e vanitosa: non invano s'inorgogliva di una lontana parentela spagnolesca con don Francesco Antonio Maria Castillo.
Ed ecco inventò le feste campestri, i battesimi di lusso, persino i funerali dei ricchi, quando ai mendicanti vengono distribuite copiose elemosine. E portò non fazzolettini ma fazzolettoni di roba: e una sera, caldissima, persino le granite di limone, che si scioglievano entro una tazza di cristallo.
A questo punto della storia apparve un personaggio importante. Era un professore, di liceo: abitava in una casa il cui orto confinava col nostro: ritornava per le vacanze. Lo si conosceva di vista, ma era come se per noi non esistesse. D'un tratto, però, la sua figura cascante, già grigia e disfatta, apparve in maniche di camicia e in pantofole, sul muricciuolo di divisione e dominò il nostro orizzonte. Con la mano scarna e tremula come quella di un vecchio malato mi accennò di avvicinarmi: con un vago terrore mi avvicinai, prendendo, per istinto di difesa, l'atteggiamento della vecchia mendicante, alla quale neppure satanasso avrebbe potuto far male.
Il professore non mi vedeva: non vedeva nulla: i suoi occhi erano vuoti come quelli delle statue. Domandò:
- La vecchia è morta?
- È morta.
- Allora dirai a tuo padre che la stanza della legnaia appartiene a noi, a me. Lui lo sa benissimo, l'usurpatore. Pensi dunque a restituirla: altrimenti son liti, avvocati, tribunali.
- Corbezzoli! - disse il mio babbo, nel sentire l'ambasciata: poi si volse a mia madre: - Tu sai che l'infelice, non si sa bene per quale ragione, s'è dato a bere.
Fatto sta che le mendicanti continuarono a frequentare il rifugio, ma con paura: paura del professore, che passeggiava sempre nel suo orto pieno di ortiche, scompigliandosi i capelli con la mano irrequieta; paura di un essere quasi inumano, che, senza ragione, per uno di quei terribili misteri della vita, aveva smarrito la sua limpida strada.
E una sera egli saltò il muricciuolo, perdendo una pantofola, e, senza darci il tempo di fuggire, venne a piantarsi davanti al nostro gruppo impaurito e tuttavia felice dell'avventura: piegò la testa, che sembrava irta di spine; la sollevò con fierezza, sporse il mento e chiuse gli occhi. Disse:
- Dio era buono e di buon umore quando creò gli uccelli, i pesci, i dolci animaletti delle foreste: anche quando creò le pecore, i cani, le scimmie non c'era male. Ma un giorno ch'era nervoso creò l'uomo: quanto di peggio si può pensare da un Dio maligno. E poi, per maggior cattiveria, i leoni, le tigri, le vipere, la donna: tutto per contorno al piattino dell'uomo.
A bocca aperta noi si ascoltava, senza capire. Si capiva, solo, che egli aveva bevuto: a pensarci bene, adesso, si può dire che forse egli non aveva bevuto: ma quando uno gode cattiva fama...
Piuttosto ci colpirono altre sue parole.
- La vecchia doveva aver quattrini: li ha nascosti, qui dentro, e mi sorprende che l'usurpatore non li abbia ancora scovati. Ma voi, creature, fate bene il vostro gioco: vivere da poveri, accanto a un tesoro nascosto, senza intaccarlo, senza neppure conoscerlo. La casa però è mia: lo hai detto, a tuo padre?
- Ma che vada all'inferno; e che vi lasci in pace, altrimenti gli rompo il testone col randello della vecchia - disse mio padre: e ci proibì di ritornare nella legnaia.
In ottobre si seppe una triste cosa: il professore, con sollievo della sua famiglia ed anche con sacrifizî finanziari di una sua vecchia zia, era ritornato alla sua sede: ma una notte ritornò a casa d'improvviso, ubbriaco, e, poiché non vollero aprirgli la porta, andò a dormire nella legnaia, sul saccone della vecchia.
- Lasciamolo stare, - disse mio padre, - tanto ha poco da vivere.
Infatti fu così. Agli ultimi di ottobre fu trovato morto, sul saccone della vecchia: morto di stenti, di orgoglio, di fantasticherie. Ma il suo viso era tranquillo, quasi sorridente. Sotto la sua testa, entro il saccone, fu rinvenuto il gruzzolo della mendicante: anche lui non lo aveva cercato.
Faceva ancora caldo: cadevano, sì, le foglie scarlatte degli alberi, ma i peri, dai quali pendevano ancora i frutti gialli, lucidi e grossi come piccole campane d'ottone, s'erano rimessi storditamente a fiorire.
CUORI SEMPLICI
Per la millesima volta, forse, in vita sua, l'uomo seduto fra i cespugli della duna trasse il portafogli di pelle chiara, gonfio e caldo, che gli dava l'impressione di un suo stesso membro, e ne tolse un foglietto piegato in quattro: avrebbe potuto non leggerlo, tanto lo sapeva a memoria e le parole, anzi, gli si erano impresse nella carne, vive anch'esse e parte di sé stesso; ma no; lo spiegò con cautela, poiché la carta minacciava di aprirsi e quasi di volatizzarsi; rilesse le diaboliche righe: «Figlio d'ignoti, sguattero di bordo sempre in salamoia, Rosa Bini non è pane per i tuoi denti».
C'era la luna, alta sul mare così calmo che sembrava di alabastro; il suo chiarore permetteva all'uomo non solo di rileggere il foglietto, ma di distinguere, entro il portafogli, i biglietti di banca del quale era zeppo: quelli grossi in un reparto, quelli più modesti in un altro: i cartoncini da visita, le piccole fotografie; e il quadrifoglio-fantasma che, dentro un astuccio di carta velina, riserbava tutto per sé un ripostiglio centrale fermato da un gancio a molla.
Anche le cose, intorno a lui, fino alle lontananze dell'orizzonte, gli apparivano nitide e chiare, come sotto un sole bianco; ecco laggiù il piccolo molo, che sembra la coda del nero villaggio dei pescatori steso sul prato di gramigne; poi le antiche ville dei signori del luogo, con portici e balconi inondati di luna; e più in qua i villini recenti e l'albergo nuovo, a un solo piano, rotondo e rosso-giallo, posato come una torta sul vassoio argenteo delle terrazze sul mare: e che era suo. Suo, di sua esclusiva proprietà, col piazzale alberato davanti, la fontana, le statue: suo, del figlio d'ignoti, dello sguattero in salamoia; mentre al suo fianco, oltre la breve duna mobile spinosa di cardi selvatici, il recinto di rete metallica arrugginita, e, in mezzo, fra un'ortaglia grama, la casupola di Amedeo Bini, il salinaro ubbriacone e prepotente, rimaneva sempre la stessa, anzi peggiorata, d'un bianco sporco, il tetto spennacchiato, messa come in bando, come un lazzaretto, lontana dall'abitato.
Eppure quella triste casa era forse ancora, per il quadrato albergatore, la più interessante di tutte, poiché ci viveva, già anziana ma sempre bella, col vecchio padre paralitico, quella Rosa dalle lunghe trecce azzurrognole attorte sulla piccola testa di schiava; che, appunto come una schiava, si era piegata al suo grigio destino.
Adesso egli aveva cuochi patentati ai suoi comandi, sguatteri e camerieri: gli affari andavano bene: tutte le ragazze del villaggio, che sapevano di pesce ma anche di tinture e di profumi, e quelle del borgo dei salinari, ricchi a seconda la prodigalità del sole d'estate, non ricordavano che egli era figlio d'ignoti
e aveva girato il mondo con un grembiale di tela di sacco avvolto intorno alle reni di pinguino: e neppure badavano alla sua testa già calva e al viso ancora abbrustolito dal fuoco dei fornelli e dalla salsedine dei lunghi viaggi: anche lui le guardava, poiché gli occhi li aveva buoni e vivi, e permetteva che alcune di loro, del resto ben vestite e meglio accompagnate, prendessero posto, nelle sere della stagione, ai tavolini delle sue terrazze: ma in fondo al cuore gli rimaneva come un rimasuglio di salamoia, e l'idea che sulle carte del matrimonio sarebbe stata impressa quella sigla di mistero e di vergogna, quel ricordo di genitori ignoti
lo allontanava, forse per sempre, da una seconda richiesta di nozze. O forse, dal fondo salmastro del suo rancore, germogliava ancora una speranza, una fantasia, simile a quei fiori delle saline che sembrano morti e son vivi, e per campare, anche tolti dal cespuglio, non hanno bisogno d'acqua, ma si nutrono da sé per anni ed anni.
Che fosse andato a cercare fin laggiù, adesso che l'albergo era chiuso e gli rimaneva tempo e volontà di svagarsi, non sapeva bene neppure lui. La notte di primo autunno era ancora tiepida, e si sentiva anzi, nell'aria, dopo una giornata di sole, un odore quasi primaverile. Al largo, sul mare chiarissimo, si vedevano le paranze, soffuse di azzurro, andare come in sogno; o meglio quali fantasmi, irreali ma quieti; fantasmi felici; come, del resto, tutto aveva del fantastico, in quella notte per sé stessa così diversa dalle altre; e il suo albergo, la sua fortuna, l'ombra medesima che si accovacciava al fianco e in qualche modo gli mostrava il suo corpo, un giorno povero e scarno, adesso forte e squadrato, sembravano all'uomo distaccati e lontani dalla realtà. Poiché in fondo, egli conservava anche un senso melanconico e timidamente stupito della vita: gli sembrava sempre di sentire il vuoto e l'inumano clima del neonato buttato via alla terra, dal calore del grembo materno, come un detrito quasi immondo; e l'umiliazione panica della prima fanciullezza, poi quella, cosciente e fra rabbiosa e rassegnata, della giovinezza pur seria e laboriosa, e lo stesso suo modo di tirare avanti l'esistenza, fra mare e cielo e il caldo e i cattivi odori delle stive e di una umanità grezza, a lui, se non nemica, indifferente, gli davano un senso di deformità quasi fisica, come se egli fosse un gobbo o uno storpio, esiliato dal giardino degli uomini.
Ma la bontà naturale, la sua stessa mansuetudine di bestia maltrattata stendevano una luce quasi mistica intorno a lui; come quella che la luna, adesso, spandeva sulle cose assopite, se non morte.
Assopita doveva essere anche la donna, nella sua casupola, o forse anche lei piegata a risalire il corso della sua grama giornata, poiché si vedeva ancora un barlume non di candela ma di fuoco alla finestra che l'antico cuoco di bordo sapeva essere quella della cucina. Gli