Mwende: Ricordi di due anni in Africa
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Info su questo ebook
A 35 anni, malgrado una carriera avviata come ingegnere clinico, Stefania sente il bisogno di cambiare rotta. Decide di mollare tutto, un lavoro sicuro e gli affetti, e riparte con la sua valigia gialla per trasferirsi nell’arido villaggio di Matiri, in Kenya, come Direttore generale dell'ospedale St. Orsola. Lì conoscerà altri volontari, troverà amici tra i residenti, si scontrerà con una realtà a volte affascinante altre difficile da accettare, spesso combattuta tra ciò che le bisbiglia la testa e quello che le grida il cuore, sperimentando indimenticabili e logoranti montagne russe emozionali. E inaspettatamente, Stefania troverà anche l’amore.
In questo memoir, sequel del suo romanzo d’esordio “Con la mia valigia gialla”, l’autrice ripercorre la sua vita durante quei due anni, raccontando a volte fedelmente, a volte romanzandole per esigenze narrative, le storie che si è trovata a vivere. Per dare una sbirciatina alla sua Africa, una delle tante facce del seducente continente.
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Anteprima del libro
Mwende - Stefania Bergo
Stefania Bergo
Mwende
Ricordi di due anni in Africa
Mwende. Ricordi di due anni in Africa
di Stefania Bergo
Copyright © 2018 Stefania Bergo
Collana Gli scrittori della porta accanto
Pubblicato in accordo con Gli scrittori della porta accanto e StreeLib
Foto ed elaborazione grafica copertina: Stefania Bergo
Impaginazione: Stefania Bergo
Quest’opera si ispira a fatti realmente accaduti, in parte riportati fedelmente, altri romanzati per adeguarli alla narrazione.
I nomi dei personaggi italiani sono inventati, mentre gli altri nomi e i luoghi sono reali.
Prima edizione gennaio 2018
UUID: e4d67ade-ff0b-4257-8676-02b51484a416
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Ringraziamenti
Alla mia mamma e al mio papà.
A Lucy, Aldo, Giorgio e Speranza che ho perso nella polvere.
A tutti i membri dell’associazione Un ospedale per Tharaka
che mi hanno permesso di vivere quest’esperienza, e a tutti i miei compagni di viaggio che l’hanno resa indimenticabile, anche a quelli di cui non ho raccontato nel mio libro semplicemente per esigenze narrative. Ognuno di loro ha contribuito a tessere la mia storia di quegli indimenticabili due anni a Matiri e avrà per sempre un posto speciale tra i miei ricordi.
Indice dei contenuti
Ringraziamenti
PREFAZIONE
PROLOGO
ESTATE AUSTRALE
I
Qui il sole non manca mai
La domenica del villaggio
Andrea, Chiara e Valentina
Tante cose sono cambiate, tante non cambieranno mai
Una cantilena senza senso
Quel fastidioso senso d'impotenza
In equilibrio tra ebbrezza e angoscia
AUTUNNO AUSTRALE
II
Un amore lungo un giorno
Carne sporca
Piccole grandi donne
Tu chiamale, se vuoi, emozioni…
Tre giorni a Zanzibar
INVERNO AUSTRALE
III
Nairobi – Jambiani on the road
In accordo con la natura
Equilibrio instabile
PRIMAVERA AUSTRALE
IV
Never free enough
Sognavo l’Africa. E ora la vivo
Magari smetterò semplicemente di farmi domande
That’s life
Tra testa e cuore
Anche nella notte più buia c’è sempre un po’ di luce
Ventun grammi
Ossigeno
Dignità
Voglio scendere! Voglio scendere?
Promesse
ESTATE AUSTRALE
V
Corsi e ricorsi
Candeline e desideri
Perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole
Un salto nel buio
Get ready, get ready!
Hai mai sentito le stelle ridere?
Che la forza sia con me
AUTUNNO AUSTRALE
VI
Miracoli sospesi
La saga del container
Parentesi italiana
INVERNO AUSTRALE
VII
Un nuovo inizio
Anticipo di primavera
La lunga strada verso casa
Trecentosessantacinque piedi di assi di legno
PRIMAVERA AUSTRALE
VIII
Altro giro, altra corsa
Autodifesa
Giorni intensi
ESTATE AUSTRALE
IX
Contro i mulini a vento
Una notte…
Amarezza
Come faccio ad andarmene?
EPILOGO
UN OSPEDALE PER THARAKA ONLUS
IMMAGINI
Chi è Stefania Bergo
Gli Scrittori della Porta Accanto
Collana editoriale
PREFAZIONE
L’Africa è una terra di estremi. C’è un'Africa di tragedie e carestie, di corruzione e guerra, di sangue, fame e lacrime, di malattie incurabili, guerre tribali e instabilità politica. Ci sono siccità e inondazioni. Città sovrappopolate, mendicanti che annusano colla, bidonville dove fogne a cielo aperto portano i luridi rifiuti di gente lavoro, senza casa, senza futuro e senza speranza, strade piene di pozzanghere e cumuli di immondizia su cui si inerpicano capre rachitiche.
È l’Africa di cui si legge su tutti i quotidiani, quella che vediamo ogni giorno alla televisione. È un’Africa prigioniera, dipendente dal ricatto degli aiuti internazionali, sempre giudicata, sempre criticata e mai capita. Qui il ricco Ovest ha impresso la sua immagine competitiva, creato nuove esigenze, imposto filosofie estranee, finanziato progetti impossibili, pronto a sentenziare un nuovo, prevedibile fallimento.
Non canto quell’Africa, non c’è bisogno di un ennesimo resoconto negativo che lascia un sapore amaro, e che non serve a niente.
C’è un altro aspetto di quest’antica terra. È l’Africa che, fin dall’inizio del tempo, ha evocato nei viaggiatori un profondo senso di riconoscimento, un’inesplicabile necessità di ritornare. Il luogo che ha conservato ciò che la maggior parte del mondo ha perduto: spazio. Radici. Tradizioni. Eccezionale bellezza. Panorami selvaggi. Animali rari. Gente straordinaria.
È una terra che attrarrà sempre coloro che sanno ancora sognare.
Kuki Gallmann , La notte dei leoni
PROLOGO
L’Africa non ha bisogno di narratori. Basta sedersi a guardare il cielo o le mandrie spinte al fiume a pascolare e mettersi in ascolto.
Io l’ho fatto.
L’ho ascoltata mentre raccontava le sue storie. Di colori, suoni, profumi, emozioni. Persone. E le ho trascritte, così come le ho udite, per dare loro la giusta eco, per farle viaggiare oltre i confini.
Vicende di chi ci è nato e di chi ci è stato solo di passaggio, lasciando sulla terra rossa una piccola insignificante impronta. Come la mia.
La mia impronta. La mia storia. Due anni di vita intrecciata a chi vi è entrato dirompente come un uragano, mi ha scompigliato le viscere e poi è uscito, o a chi si è insinuato lentamente, con la costanza di una goccia che corrode la pietra. O a chi mi è passato accanto ed è scivolato via come una pioggerella estiva, mentre ero intenta a fare altro.
A vivere.
Alcuni di loro li ho dimenticati. Altri li ho vividi tra i ricordi o a fianco a me, anche ora.
Uno su tutti ha segnato la mia vita.
Anzi, due. L’Africa e Andrea.
ESTATE AUSTRALE
2007-2008
L’Africa mi toccò l’animo già durante il volo: di lassù pareva un antico letto d’umanità. E a 4000 metri di altezza, seduto sulle nubi, mi pareva d’essere un seme portato dal vento.
Saul Bellow, Il re della pioggia
I
Avevo trentacinque anni e un lavoro prestigioso in uno studio di architettura e ingegneria a Pavia. Erano quasi dieci anni che progettavo ospedali e avevo maturato un’esperienza tale da saper gestire in autonomia le commesse e la direzione del cantiere. Una carriera avviata, insomma, di donna indipendente e stimata professionista.
Alta, con lunghi capelli scuri e occhi verdi, un fisico che cominciava ad ammorbidirsi leggermente sui fianchi, conferendomi un aspetto più attraente, a guardarmi così, dal di fuori, malgrado una certa confusione in amore avrei anche potuto essere invidiata.
Eppure, non mi bastava.
Qualcosa sotto la superficie, tra la testa e il cuore, ristagnava da un po’ di tempo. Ma era sufficiente una canzone, un profumo, una fugace sensazione, per agitare l’acqua melmosa e far riaffiorare il bisogno di andare, di cambiare rotta.
Così, decisi di lasciare tutto, il lavoro sicuro e gli affetti, per trasferirmi in Kenya, tornando su quei passi che istintivamente avevo scelto tre anni addietro, sempre in fuga da una routine che mi stava stretta come un abito vecchio. Precisamente a Matiri, un piccolo villaggio rurale, duecento chilometri a nord di Nairobi, nell’arida zona del Tharaka, nel mezzo del niente riarso dal sole e dalla scarsità delle piogge. Lì, era iniziato il mio innamoramento per quell’Africa lontana dalle rotte turistiche, dove la disperazione e i sorrisi s’impastano con la polvere rossa. Una realtà che non era mai entrata nei miei sogni di bambina e, più in là, di donna. Fu una folata di vento, una decisione improvvisa, una serie di coincidenze cui forse il destino mise mano: da un amore finito a una nuova vita dall’altra parte del mondo.
Il caso mi portò a Matiri la prima volta. In seguito, decise il mio istinto. Fu una scelta di pancia.
Ebbi l’occasione di fermarmi a lungo, di vivere, non solo transitare, sulla terra rossa. Mi proposero di fare il direttore generale dell’ospedale missionario St. Orsola di Matiri per un anno. Sapevo fosse al di sopra delle mie possibilità ma sapevo anche sarebbe stata la mia unica occasione.
E così, un po’ intimorita ma entusiasta, decisi di partire di nuovo, con la mia solita valigia gialla, questa volta un po’ più pesante.
Matiri in lingua locale significa luogo della polvere
e rende perfettamente l’idea di come si presenti il luogo nei lunghissimi periodi di siccità.
Inizialmente c’erano solo la missione dei Padri della Consolata, presente fin dal 1957, un dispensario per aiutare le mamme a partorire e qualche capanna.
Solo nel 2000, su insistenza di Padre Livio Tessari, si pensò di creare un vero e proprio presidio sanitario che servisse il bacino d’utenza dell’intera regione, circa 150.000 abitanti, prevalentemente per rispondere alle esigenze materno-infantili di assistenza medica. Furono molte le associazioni, i privati e le realtà regionali italiane coinvolte nella costruzione e, ancora oggi, nella gestione dell’ospedale, battezzato St. Orsola per via delle suore indiane che lo avrebbero presidiato fino al 2016. L’associazione capifila fu Un ospedale per Tharaka
Onlus di Ferrara, insieme a Una mano tesa per Tharaka
di Caserta, AVI di Montebelluna, Associazione Missionari Laici Consolata
di Nervesa della Battaglia e IBO di Cassana, oltre alla regione Emilia Romagna, in una gara di solidarietà che mise in piedi in pochi anni una struttura del tutto funzionale, ufficialmente inaugurata il 30 ottobre 2004, aumentando anche l’economia locale e favorendo il fiorire di piccole attività commerciali nel villaggio.
Antonio era il presidente dell’associazione Un ospedale per Tharaka
. Fu lui ad accompagnarmi in Kenya. Arrivammo a Nairobi la sera del mio compleanno, il 14 gennaio del 2008, nel pieno degli scontri per le elezioni politiche scatenati dalla contestata proclamazione della vittoria del presidente uscente Mwai Kabaki, candidato dell'etnia Kikuyu, a scapito del suo sfidante Odinga, dell'etnia Luo. Come spesso accade, la contestazione si trasformò in brutalità etnica in tutte le zone di confine. Le violenze esplosero il 29 dicembre, due giorni dopo le votazioni, per le accuse di brogli, e s’inasprirono soprattutto nelle regioni all’Ovest, nella Rift Valley e nelle baraccopoli della capitale. I dati forniti dalle organizzazioni umanitarie, fino a quel momento, parlavano di oltre 600 morti, un numero che però era destinato a salire, una volta dato un nome anche alle vittime senza un passato certificato, come i bambini.
Trovammo una città che, sebbene tutti, da lontano, descrivessero come blindata, in balia del coprifuoco che l’aveva gettata in uno stato di tregua tra una guerriglia urbana e l’altra, in realtà era tranquilla: le persone passeggiavano sicure e sedevano ai tavoli dei locali o facevano la spesa nei supermercati, aperti ancora fino a tardi, e le guardie armate che presidiavano le banche e i negozi erano le solite di sempre, né più, né meno.
La mattina seguente partimmo alla volta di Matiri. Lì, nella Casa del tamarindo risiedevano i volontari e alcuni medici locali assunti stabilmente dall’ospedale. Oltre ad Apophie, Mbabu e Peter dello staff, Federico e la sua ragazza Ireene, ad attendermi c’era il gruppo di responsabili dell’associazione che ci aveva preceduto di un paio di settimane per sistemare alcune faccende prima del mio arrivo, in modo da passarmi le consegne e farmi iniziare da subito a trainare l’ospedale come un cocchiere esperto. Io, infatti, dovevo sostituire il direttore precedente che aveva lasciato forzatamente il suo incarico dopo due anni di mandato. Il mio compito era anche quello di essere il rappresentante dell’associazione in loco e di gestire il flusso dei volontari.
Con il gruppo dovevano esserci tre ragazzi del servizio civile: Andrea, Chiara e Valentina. Ma la Cooperazione Italiana, come una mamma apprensiva, li fece rientrare per timore degli scontri, in attesa che si risolvesse la situazione di allerta.
Dopo sei giorni, Antonio e gli altri dell’associazione se ne andarono. E restai sola.
Fu strano trovarsi lì, nell’ufficio del direttore, proprio sotto la pediatria. Oltre la zanzariera s’intravedeva un piccolo albero di papaia e il grazioso giardinetto illuminato dalla luce irreale della luna. Avevo piantato io quella papaia, appena tre anni prima, una domenica mattina. Per un istante mi sentii persa. Ebbi paura di non farcela. Apophie mi disse che ero stata coraggiosa ad aver fatto una scelta così radicale. Un anno lì, un anno da sola, senza riferimenti, eccetto Ireene e Federico, il dentista. Ma presto anche loro se ne sarebbero andati. E comunque non potevano certo aiutarmi nei miei compiti. Dovevo occuparmi da sola dell’ospedale, come direttore generale e amministrativo, della Casa del tamarindo, come Cenerentola, e dei volontari che periodicamente venivano a Matiri, come una chioccia. E fare tutte quelle cose insieme, tutte subito, mi scoraggiò un po’. Ecco perché ebbi paura di non farcela.
Scelsi la mia camera definitiva, la numero sette, una di quelle nuove, che io stessa avevo progettato due anni prima. La casa dei volontari inizialmente aveva sei stanze disposte ad arco attorno ad uno splendido tamarindo che pareva esserne il guardiano, il protettore. Al centro c’erano gli ambienti comuni: la cucina, la dispensa, una grande stanza d’ingresso che fungeva anche da salottino nelle serata più fredde. Lungo tutto il muro perimetrale, un’avvolgente pergola, su cui si arrampicavano perennemente coloratissime bouganville e la spettacolare passiflora, con i suoi fiori banchi e viola dal cuore caratteristico, che nel 1610 ne suggerì il nome: fiore della passione
, per la somiglianza con alcuni simboli religiosi riguardanti, appunto, la crocefissione di Cristo. Al di là del confronto con un evento drammatico, erano incantevoli, unici, maestosi nel loro starsene in disparte, protagonisti sebbene avvolti ai margini. Un po’ come accade con certe persone. E in questa cornice bucolica, impreziosita ulteriormente dalla vallata su cui si affacciava, gli inquilini venivano accolti e sedotti, solleticando tutti i loro sensi all’unisono, dall’olfatto, alla vista, all’udito, con il cinguettio degli uccellini tra le fronde fruscianti del tamarindo, il silenzio dirompente della valle, le grida dei pastori che spingevano al pascolo le capre, il canto del fiume Mutonga. Sotto quell’atrio di paradiso, si consumavano le colazioni, i pranzi, le cene, le serate a chiacchierare, ridere, piangere, cantare. Vivere. Fu la parte della casa di cui m’innamorai fin da subito la prima volta, e continuava a essere il luogo che preferivo, da cui poter essere, di tanto in tanto, solo spettatrice degli eventi, dove prendere una boccata d’aria dopo prolungate apnee.
Nella mia stanza, c’era un letto matrimoniale, con il baldacchino avvolto da una zanzariera bianca che avrebbe tenuto lontani i ragni, una scrivania di legno grezzo sotto la finestra, affacciata sulla vallata, un armadio e qualche mensola nell’anticamera. Una stanza molto luminosa, con due finestre: una dava sul portico, l’altra sul retro, sul pollaio e i banani delle suore. Sarei rimasta lì un anno.
Un anno.
Chissà come sarà la fine di questa mia esperienza, che segno lascerò
, pensai.
Qui il sole non manca mai
I nuovi volontari sono arrivati proprio oggi. Sono quattro alpini che si tratterranno per un mese per lavori di manutenzione: devono pavimentare il vialetto d’ingresso per arginare il fango che entra in ospedale al seguito dei pazienti ogni volta che piove.
Ieri sera è arrivato anche Luca, un chirurgo pediatrico. Si fermerà fino a maggio. Poi dovrà fare l’ultimo anno di specializzazione in Italia. Ma intende tornare a Matiri e restare a lungo. Qui servono medici, ne servirebbero almeno due, ma non è facile accettare di lavorare in questo posto dove manca tutto. Come dice Teresa, la tesoriera dell’associazione, è il buco del culo del mondo
, persino il personale locale a volte si rifiuta di stare qui. È una regione povera, troppo povera pure per la sua gente. Eppure quest’ospedale è una risorsa, non solo per i pazienti e per chi ci lavora. Anche per Reginah, che gestisce il pub del villaggio e ci vende la frutta e la verdura per la casa. E per Washington, che ormai fa affari solo con i volontari che comprano da lui stoffe, batik, statuine di legno.
Mi dovrò abituare a questo viavai di persone, alcuni che arrivano, altri che partono. Spero che nessuno si fermi abbastanza a lungo da mancarmi in seguito. Io con le separazioni non ci so fare, è sempre stato un mio limite.
Faccio colazione con Apophie, la nostra direttrice sanitaria, poi ci raggiungono Federico e Ireene, parlando degli ultimi scontri nella Rift Valley, al confine con l’Uganda. Ireene piange.
«Se vado a Nairobi e mi chiedono la mia etnia, mi tagliano la gola», ci dice tra i singhiozzi.
Apophie conosce bene i genocidi, l’orrore. È un medico ruandese, fuggita ai massacri che hanno sconvolto la sua terra e sterminato la sua famiglia. Eppure, nessuno direbbe mai che celi un passato tanto terribile. È una donna serena. Ha quasi cinquant’anni, un viso tondo, uno sguardo rassicurante. Quando ride, la pelle del viso si tende ancora di più, sottolineando gli zigomi, diventando lucida. Restituisce una sensazione di morbidezza, al profumo di sapone infantile, fiori e vasellina, che qui usano anche sulle ferite, come fosse un unguento. Parla a Ireene con la dolcezza di una mamma.
«La vita va vissuta. Non ci si può far niente, tanto vale affrontare ogni giorno senza farsi abbattere, non devi vivere così, con la paura.»
Apophie è meravigliosa.
Sr. Ann mi raggiunge appena finito il caffè e mi allunga il numero del fornitore del diesel per chiedere quando arriverà. È la contabile dell’ospedale, una suora Orsolina indiana, piccola e paffuta. Abita nella Casa delle suore all’interno del compound ospedaliero insieme a Sr. Pryia, la matron dell’ospedale, l’unica che parla italiano, Sr. Jothi, che lavora nel reparto di degenza medica e ha il compito di supervisionare gli infermieri, e Sr. Francisca, che fornisce il supporto spirituale agli ammalati. Compongo il numero e faccio la mia prima telefonata ufficiale da direttore, con l’ansia di non capire nulla senza il supporto della mimica facciale. Invece me la cavo bene, anche se rispondo telegraficamente: anche oggi il fornitore non si muove, i trasporti sono difficili per via della situazione politica.
Dopo pranzo, dormo appena un po’. Sono già esausta, talmente stanca da sentirmi totalmente inadeguata per questo ruolo di mediatore, di diplomatica, di direttore. Mi viene per un istante la voglia di scappare. Ma poi, mentre sorseggio il caffè del risveglio, mi metto in contemplazione della vallata su cui affaccia la Casa del tamarindo. E cambio idea.
Tutt’intorno si ode il cicaleccio dell’Africa: il canto degli uccelli, il fruscio degli alberi, il ronzio degli insetti, le voci lontane dei villaggi. Mi sembra di essere l’ultima persona al mondo. La vallata è incantevole, il paradiso terrestre deve essere stato così. Un mare verde, sembra di sentire vibrare ogni foglia. E allo stesso tempo tutto è immobile. Il luccichio dei tetti delle capanne è la sola cosa che distoglie dalla natura. In lontananza, una collina rossa, una macchia di terra con una manciata di alberi sparsi qua e là. Si distingue la loro ombra stagliata sulla polvere. Tutto è tranquillo, restituisce un appagante senso di pace. Del resto, dove il sole non manca mai, tutto si può fare, basta volerlo davvero.
Faccio un giro in ospedale, sfidando il caldo esagerato.
Seduti sulle panchine, ci sono Elias e altri bambini. Guardano la tv ingabbiata nel corridoio. Elias andrà a Khartoum con la sua mamma per farsi operare al cuore all’ospedale cardiochirurgico di Emergency, il centro Salam
(pace), attivo dall’anno scorso in Sudan. È affetto da una cardiopatia dalla nascita, diagnosticata solo qualche mese fa, quando finalmente si sono decisi a portarlo all’ospedale per via della sua stanchezza cronica e del fiato corto. Dopo sette anni di vita. L’intervento sarà fortunatamente gratuito ma a carico nostro ci sono le spese di viaggio. Chiara, prima di rientrare in Italia, ha fatto fare loro il passaporto, sfidando gli inenarrabili tempi burocratici e la curiosa sequenza (non) logica di passi da compiere, secondo cui non si può ottenere un passaporto per i residenti senza prima dimostrare di avere un visto d’ingresso per il paese di destinazione e allo stesso tempo non si può ottenere il visto senza prima avere una prenotazione aerea di andata e ritorno, per cui serve ovviamente il passaporto. Eppure, forzando un po’ la mano, si riesce sempre a interrompere il circolo vizioso. Ora non rimane che prenotare e pagare il viaggio, stiamo già raccogliendo i soldi.
Continuo il mio giro, mentre ricordi e nuove immagini si mescolano nella mia mente. Passo di fianco alla piccola scuola dell’ospedale, una stanza che dà sul giardinetto della pediatria, proprio adiacente al mio ufficio. Penso che la riaprirò. Ireene è un’insegnante e darà una mano a Mary, la maestra che ho conosciuto quattro anni fa e che ora è una delle cassiere. Riprenderemo le buone abitudini, le cose belle di questo posto.
Gli alpini stanno giocando a carte sotto la pergola e fanno un chiasso esagerato. Luca canta e suona la chitarra, solo canzoni tristi di De Andrè. Ma è divertente, perché nel frattempo Federico cerca di tradurle in inglese per Ireene. Sono una coppia incantevole. Lui è alto, magro, con le spalle a volte un po’ incurvate, gli occhialini tondi calati sul naso per via del sudore. È sempre pacato, anche quando ride, mai sguaiato. Eppure è simpatico, ha una comicità tagliente e raffinata che mi fa scompisciare, soprattutto quando deve spiegare le sue battute ad Ireene, che chiaramente non coglie l’immediata freschezza della lingua madre, impreziosita dalla sfumatura d’accento piemontese. Si sono conosciuti al confine con la Tanzania, in uno studio missionario dove ha lavorato per qualche mese. Ireene era la sua assistente e giorno dopo giorno si sono innamorati. Lei è bellissima, una modella mancata, alta, slanciata, con un chilometro di coscia muscolosa e il viso allungato e affusolato come quello di una gazzella. È molto dolce, quando ride scopre denti perfetti e bianchissimi, racchiusi tra labbra carnose, sempre lucide. E la sua risata è amabile come un buon vino.
Gli alpini vanno a farsi un giro, mentre Luca continua a cantare: «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior… »
Bruce, il nostro pipistrello, non la smette di volare sopra la mia testa, entrando e uscendo dalla cucina, spazzando tutta la pergola.
Si sentono dei tamburi in lontananza...
La domenica del villaggio
Mi sveglio presto. Domani Elias partirà per il Sudan. È già al gate dell’ospedale ad aspettarmi, insieme alla sua mamma e a Nicholas, l’autista. E a Kanana, un’infermiera dello staff. Le consegno tutti i documenti, compresi i biglietti aerei e i numeri di cui potrebbero aver bisogno nelle prossime settimane. E poi, dato che Elias non ha un cellulare, gli affido una lettera che ho scritto all’ospedale di Emergency chiedendo di farmi chiamare al bisogno e di farmi sapere l’eventuale spesa da corrispondere. Firmato: il direttore! Lascio anche dei contanti a Kanana per dormire a Nairobi: ci farà il favore di accompagnare Elias e la mamma all’aeroporto e chiedere a un amico, che lavora proprio là, di aiutarli a trovare il volo giusto. «La mamma di Elias parla solo kitharaka — il dialetto locale — e lui non ha nemmeno mai visto l’asfalto, figurati se è in grado di prendere un aereo», mi ha detto Rita qualche giorno fa.
Rita è l’ostetrica che vive alla missione da più di vent’anni. In Italia, in realtà, era una ragioniera, stanca del suo lavoro e della vita di città. Ha mollato tutto, seguito un corso di ostetricia ed è approdata a Matiri, seguendo i primi padri missionari. Ormai è totalmente integrata, parla la lingua locale ed è amatissima dalla gente che la rispetta, chiede sempre il suo aiuto e le ha dato un nome africano: Makena, colei che ride sempre
. Abita nella Ca’ dei cit, la Casa dei bambini, che non è un orfanotrofio, come tiene a precisare. È solo una casa famiglia in cui vive con Jopita, una ragazza madre di Matiri, sua figlia Samantha e una quindicina di bambini affidatile dai genitori che non possono provvedere loro oppure nati all’ospedale e lasciati lì. Perché magari figli non voluti. O figli che nessuno riesce a crescere. O ammalati. O trovati per strada senza speranza di sopravvivere.
Preparo il chai per i medici che sono in sala operatoria da questa mattina e hanno bisogno di un break. Mi infilo un vestitino a fiori, un paio di infradito velate di rosso indelebile, che del bianco originario portano solo il ricordo, e vado finalmente in chiesa.
C’è un prete keniano mandato dalla Diocesi. Fa una bellissima predica di cui ovviamente io non capisco nemmeno una parola. Ma deve essere bella, perché la gente ride. E poi parla anche in italiano, ci ringrazia per la nostra presenza. Perché abbiamo lasciato tutto in Italia per stare qui con loro. Lui non sa che siamo noi a dover ringraziare per quello che abbiamo trovato. E, forse, soprattutto per quello che abbiamo perso: il traffico, il caffè alla macchinetta dell’ufficio, le code alla posta, la nebbia, l’affollamento in palestra, l’ansia, la fretta, l’indifferenza…
La messa in kitharaka dura sempre due ore. Ci sono tanti momenti importanti, densi di significato. Per esempio quando il Padre dà la parola ai fedeli: chi ha qualcosa da chiedere prega ad alta voce. Oppure c’è il momento dell’offerta, anzi, i momenti sono due: prima si fanno le offerte alla chiesa e poi si raccolgono soldi per aiutare le persone più bisognose della comunità, versandoli con i palmi giunti, come quando si tiene un regalo, perché altrimenti sarebbe considerato spregiativo. E poi cantano e ballano di continuo, battendo sempre le mani, come fossero uno strumento musicale di accompagnamento alle percussioni.
Mi ritrovo a pregare per il bambino di due anni ricoverato in pediatria, quello con un tumore all’occhio. Ha il viso deformato, ormai. È banale dire che mi si pezza il cuore ogni volta, ma è così. Sento i cocci cadere sul pavimento. La sua mamma se lo porta sempre legato sulla schiena, non lo lascia mai solo. Chissà se possiamo fare qualcosa per lui. Mbabu dice che bisognerebbe asportare tutto e forse c’è speranza. Dio, quanta pena mi fa, quanto vorrei farlo guarire subito, così, solo accarezzandolo. I miracoli accadono, no? Qualche volta accadono. Vorrei che qui accadessero tutti i giorni.
Piango senza singhiozzi. Certe cose proprio non riesco a viverle con distacco, mi rimescolano il sangue. I bambini dovrebbero essere tutti sani per definizione, essere geneticamente refrattari a qualsiasi malattia o sofferenza.
Rientro in ospedale quasi in trance. Mi estranio spesso, in realtà. Vago nei meandri oscuri dei miei pensieri e a volte perdo la rotta. Avrei bisogno di qualcuno che mi riportasse a casa
.
Mi ritiro nel mio ufficio. Ilder viene a trovarmi, come sempre. Credo abbia quattro anni. Le soffio il naso con il mio fazzoletto e