Boicotta Le Favole Cattive
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Info su questo ebook
Quel ridere e piangere che ci accomuna un po’ tutte.
Solo un folle potrebbe pensare che tutto questo possa trasformarsi in una favola, anche quando manca un epilogo felice.
Ma il lieto fine lo decidiamo noi. Ve lo racconto io.
Un libro per chi crede nelle favole buone, boicottando i brutti pensieri.
Dedicato a quelle donne che nonostante la fatica di dover stare al mondo, riescono a percepire la magia di ogni risveglio.
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Anteprima del libro
Boicotta Le Favole Cattive - Angelica Manzi
boicottata.
Sono incinta ma non assisto al parto
…e poi?
Se non ci fosse stato quel 12 novembre chi sarei oggi, esattamente?
Probabilmente vivrei ancora nel mio bilocale minimal, con le federe dei cuscini riposte per gradazione di colore.
Sicuramente avrei già gareggiato in qualche categoria fitness, tutta orgogliosa del mio bikini, mostrando un corpo muscoloso e sofferto, frutto di allenamenti estenuanti e di rinunce alimentari.
Avrei continuato a presenziare ai concerti del mio fidanzato, indossando tacchi a spillo, litri di Narciso Rodriguez e rossetto color rosso rubino, ammiccando da vera gatta, battendo le ciglia e tenendo le cosce accavallate.
Sicuramente avrei fatto decollare la mia carriera, continuando a lavorare 12 ore al giorno, tentando di essere quanto più possibile aziendalista, anche a discapito della mia vita personale.
Perché il mio lavoro sarebbe stato ancora una fetta importante della mia esistenza, al punto di lasciarci sonno e cuore.
Sì, avrei avuto meno occhiaie.
Meno cellulite.
Addominali perfettamente in linea.
Mani e piedi curati.
Mi sarei annoiata a morte durante le serate infrasettimanali, rincasando alle 20 con la spesa fatta di corsa, cenando da sola nel silenzio di casa, dovendo mettere la sveglia alle 5.30 per andare in palestra prima di recarmi in ufficio.
Conducevo una vita frenetica ma allo stesso tempo equilibrata.
O almeno, così credevo.
Invece quel 12 novembre c’è stato.
Ed è arrivato come un pugno in pieno viso.
È caduto sulla mia testa, come un vaso ricolmo di terra che scivola dalle mani di una signora che vive al terzo piano di un palazzo.
Tu stai passando in quell’istante e potrebbe ucciderti, lo sa bene.
Ma mentre si sente scivolare il vaso dalle dita, non trova la forza di gridare, solo di portarsi le mani davanti alla bocca.
Ed io non so ancora se quel 12 novembre ero quella donna, quel passante o forse quel vaso stesso.
Come sarei stata se non fosse esistito quel 12 novembre?
Felice, ovviamente.
Realizzata.
In forma smagliante.
Senza grossi pensieri.
Senza un mutuo da pagare e senza un’ora di viaggio al giorno per dover andare a lavorare.
Invece, quel 12 novembre, c’è stato.
E ci sono stati, a seguire, il 13, il 14, il 15 novembre.
Tutti quei giorni così pieni di sentimenti contrastanti, pieni di vomito e male di vivere.
Tutti quei giorni di bilance che non volevo più guardare, pantaloni che non si tiravano più su del ginocchio.
Tutti quei giorni di notti in bianco, ad ascoltare quel tuo bizzarro sguisciare sotto le mie mani.
Ed io che mi domandavo se ti avrei amato.
Se saresti stato felice.
Se lo sarei stata di nuovo anche io, dopo te, nonostante te.
Ed eccomi, oggi.
Con un corpo morbido e gli addominali non perfettamente saldati come prima.
Occhiaia perenni e qualche ruga che fa capolino.
Proprietaria, per metà, di una casa che abbiamo comprato pensando al tuo futuro.
Convivente con un uomo che, prima del tuo arrivo, vedevo nei week end come fanno i fidanzati spensierati.
In una casa piena di libri colorati, strumenti musicali ed orsetti di peluche.
Un disordine pieno di noi.
Quel perenne caos che regna sovrano persino nel box doccia, perché lì ci abitano i tuoi pesci di gomma, quelli che utilizzi per fare il bagnetto.
Non un solo pesce.
Ma ben 5 pesci.
E qualche paperella.
Tu, che hai spaccato per sempre in due la mia vita.
C’è e ci sarà sempre un prima e dopo te.
Tu, che con quelle ciglia lunghe e quegli occhi immensi mi guardi come se fossi una divinità, poi allunghi le mani per accarezzarmi il viso.
Tu, che eri quel micro ammasso di cellule di appena 7 mm che si cullava dentro di me, incurante di quanto stessi male, sprezzante del pericolo di poter morire.
Tu eri lì, davanti ai miei occhi, dentro il mio corpo.
Così piccolo e così violento.
Avrei potuto schiacciarti con un dito ed invece mi stavi devastando lo stomaco ed il sistema nervoso.
Tu.
Il mio bimbo nato in silenzio.
Che passeggia per casa facendo discorsi incomprensibili.
Il mio pensiero fisso, costante, infinito.
Il mio cuore che si sdoppia, la vita che prende una forma nuova.
L’amore che per la prima volta si mostra per quello che è: un sentimento mai provato prima.
Perché una cosa è certa: prima di quel 12 novembre io non ho mai amato nessuno, non per davvero.
Ho creduto di farlo, ho pensato di avere il cuore gonfio di amore.
E quando è stato ferito, ho anche creduto di soffrire.
Prima di quel 12 novembre ero convinta di conoscere molte cose della vita.
Non avevo considerato che tu mi avresti insegnato tutto quello che mi mancava per diventare una persona migliore.
Quindi, quel 12 novembre, è stato l’inizio di una salita ripida e faticosa.
Arrivata in vetta, provata dalla fatica, ti ho finalmente potuto abbracciare.
E stiamo ancora scollinando stretti, godendoci il panorama.
Fatto di cieli stellati, lune sorridenti e belle di notte in fiore.
Grazie per aver scelto il mio ventre.
Stretto e poco accogliente.
Non è stato facile, lo so.
E per questo ti ringrazio, anima mia.
Cerco di immaginare il tuo viso fatto di lineamenti nuovi, marcati e definiti.
Cerco di immaginarti uomo.
Magari in un bell’abito elegante.
Ti guardo e provo ad immaginarti da grande.
Immagino i tuoi capelli corti e ben pettinati, lucidi di gel.
Ti immagino che sai di dopobarba e di un buon profumo maschile dalle note agrumate.
Mi sforzo, partendo da quel che sei, di avere occhi così grandi da pensare a come sarai.
E sai una cosa? Diventa quel che vuoi.
Diventa l’uomo che la vita ti porterà ad essere.
Rincorri i tuoi sogni e realizzali a modo tuo.
Fammi solo la cortesia di essere un bravo uomo.
Onesto e gentile con tutti.
Cresci pure, che tanto per me, anche quando avrai tra le braccia il tuo stesso figlio un domani, resterai sempre il mio piccolo.
Ti ho immaginato assorto nella lettura del libro che ho scritto per te.
Imbarazzato dai dettagli scabrosi del rapporto pieno di passione che ho con tuo padre e, forse, un pochino risentito da quel mio non essere felice di averti dentro, definendoti persino un colonizzatore di apparati riproduttori
.
Che brutta definizione.
Ho immaginato il tuo sguardo severo leggendo i miei ripensamenti sul futuro che mi avrebbe atteso, dopo il tuo arrivo.
Ma poi ho immaginato anche che, forse, ti sentirai fortunato perché ricorderai tua madre, quella che è diventata tale dopo averti donato al mondo.
Ricorderai quando ti faccio il verso del polpo, come stasera, e tu ridi così forte da buttare la testa indietro fino a restare senza fiato.
Ricorderai i colori a dito spalmati ovunque, compreso sulle mie cosce, mentre sono seduta sul water e tu hai deciso che sei stufo di dipingere sui fogli: il mio corpo è sicuramente meglio.
Ricorderai le docce fatte insieme, in un box doccia 60x60, appiccicati come due sardine in scatola.
Ed io che ti prendo inavvertitamente a ginocchiate ogni volta che mi giro.
E tu che mi dai gli schiaffi sulle braccia e ridi.
Ricorderai il mio sussurrarti nell’orecchio la mamma è qui con te, non avere paura
ad ogni vaccino, ad ogni visita, in ogni occasione in cui ti hanno dovuto maneggiare, compresi quei mille buchi da farti per misurare la glicemia, appena nato.
Ed eri così piccolo che forse neanche mi sentivi ma io ero lì con te, te lo dovevo dire.
Ricorderai la stupidera
di stasera, la lotta nel letto finita abbracciati a darci mille baci misti a sorrisi.
Io sai cosa ricorderò?
Ricorderò tutto di te.
Ma, in particolare, ricorderò i tuoi occhi chiusi e il tuo respiro profondo, quando al mattino mi avvicino per guardarti prima di uscire di casa.
Quando fuori è ancora buio e tu hai ancora un paio di ore di sonno da godere.
E sei così bello che mi sembri un angelo, ogni mattina.
Esco di casa col sorriso, perché sono così felice che tu sia mio figlio.
Ecco.
Arriverai alla fine di quel libro e poi, forse, verrai a darmi un bacio.
Magari, chissà, mi perdonerai per tutti quei brutti pensieri che ho avuto mentre aspettavo di vederti per la prima volta.
Io fingerò di non capire niente, quel giorno, ma appena ti volterai resterò a guardarti le spalle.
Me le immagino larghe e forti, come quelle di chi vive la propria esistenza come se fosse una conquista.
Tu sei così, per me: il mio conquistatore.
Il mio bambino dagli occhi che sorridono.
Cresci felice, amore della mia vita, di questa vita e di quell’altra vita. E di tutte le vite che verranno.
Ti voglio tanto bene,
Mamma
Legami (al cuore)
Allora, siete pronti?
.
Un leggero cenno con la testa.
Il grande giorno era arrivato: finalmente si tornava a casa.
La nonna sorrideva di felicità, spingendo un carrozzino agghindato a grande festa, preparato con amore, per il suo adorato nipotino.
Ma erano tutti pronti per davvero?
No.
Qualcuno non lo era.
Non lo era la mamma, non lo era il bambino.
Ma non avevano alternative.
L’ora era arrivata.
D’altronde non potevano restare in eterno in quella stanza d’ospedale!
Dovevano fare il loro ingresso in società, dovevano percorrere, per la prima volta, la strada che li avrebbe condotti fino a casa.
La giovane ragazza iniziò a fasciare il neonato in un lenzuolo morbido di color crema.
Era concentrata nell’intento di fare un buon lavoro.
Un triangolo di stoffa rimboccato dietro la schiena, le braccia del piccolo adagiate lungo il suo corpo.
Sembrava il bozzolo di un baco da seta.
Una caramella da scartare.
Lo teneva tra le braccia mentre dormiva beato, al sicuro, lontano da quel rumore di sottofondo che presto li avrebbe divorati.
Il suo bambino era così perfetto.
Lo guardava e non riusciva a fare altro che sorridere: sembrava fatto di porcellana e le sue guance, lisce e morbide come la buccia di una pesca, erano sfumate di porpora e tramonti.
Aveva gli stessi colori di un dipinto antico: tenui e delicati, così dolci che li puoi guardare in estasi anche in eterno, senza stancarti.
Labbra umide come fossero bagnate di rugiada.
Occhi dipinti dalla mano esperta di un anziano pittore cinese, con la china migliore.
Un linea netta.
Scuri come la notte e profondi come il mare, pieni di misteriosi segreti ancora tutti da svelare.
Le ciglia folte e lunghe a fare da cornice.
Era incantata da quel viso, a tal punto da rischiare di perdersi ancora una volta.
Ma l’incanto non sarebbe potuto durare a lungo.
Era ora di uscire, era ora di tornare a casa.
Ed allora la ragazza, alzandosi con il suo bambino tra le braccia, iniziò a camminare verso la porta d’uscita.
Ma dove stai andando!!
chiese la nonna del