Italiano per caso
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Anteprima del libro
Italiano per caso - Mario Contini Jr.
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PRIMO CAPITOLO
1.
Arrivato a casa, mio padre mi venne incontro. Sembrava felice e mi disse con il sorriso sulle labbra, senza nascondere la sua euforia: «Ha telefonato l’Addetto Culturale dell’Ambasciata d’Italia e ci ha chiesto di andare a trovarlo!»
Guardandolo gli chiesi, ostentando una certa amarezza: «Cosa voleva sapere? Se mi sono già laureato in giurisprudenza?»
«Credo di no! Possiamo andare lì domani mattina e domandare direttamente a lui. Non sei curioso? Magari ha delle belle notizie! Non essere sempre pessimista!»
«Sì! Certo che sono curioso! Non è pessimismo, ma in ogni caso non vorrei crearmi tante illusioni. Non ci credo tanto, anche perché ci ha fatto fare molti viaggi a vuoto! Non ti ricordi quante volte siamo andati lì e ci ha detto soltanto cavolate?»
In fondo, io volevo credere di riuscire a concretizzare il mio sogno di partire. Sapevo che c’era la possibilità di realizzare un grande sogno. L’istinto mi portava a fare nuove esperienze e nuove conoscenze. Sentivo che in me sonnecchiava un esploratore che mi premeva a cercare nuovi posti e a chiedermi cosa poteva esserci di là del mio mondo. Non mi sentivo spinto soltanto all’esplorazione geografica: desideravo mettermi alla prova, conoscere nuovi modi di fare, lanciarmi in nuove scoperte, verificare nuove soluzioni e individuare nuove strategie per soddisfare i miei bisogni. Senza questo stimolo, sarei rimasto lì, nel mio piccolo mondo: la curiosità è stata determinante per lo sviluppo della mia persona.
Quest’esplorazione del mondo era concepita in me come un bisogno vitale: la mia curiosità, quella tendenza alla ricerca di cose nuove si rifletteva nel mio sforzo di migliorare le mie conoscenze e trovare, così, un equilibrio psico-emotivo.
Come tutti i figli di italiani immigrati all’estero, sono cresciuto sentendomi più italiano che brasiliano. La terra di arrivo, per lo straniero, è lungi dall’essere il luogo dove regnano l’amore, l’armonia, dove c’è la possibilità di crescere raggiungendo un livello di vita dignitoso; il nuovo paese si trasforma, invece, in un campo di battaglia, dove i forestieri e i cittadini locali si affrontano ogni giorno per la sopravvivenza in una lotta selvaggia. Basta pensare a tutti gli slogan di propaganda razzista che inducono le persone del luogo a odiare lo straniero, a vederlo come un nemico da combattere.
Le famiglie italiane immigrate all’estero hanno la tendenza a mitizzare la patria abbandonata. Non è importante se l’allontanamento sia stato dettato da motivi legati alle difficoltà economiche oppure dal tentativo di ricominciare, su altre basi, una vita più soddisfacente lontano dalla terra natale. Non era diverso per la mia famiglia, che aveva lasciato un’Italia distrutta dalla guerra, cercando fortuna in una nuova patria. Una famiglia costretta a partire trasmette ai discendenti l’idea di un passato, di una terra d’origine che non trova corrispondenza con la realtà dei fatti: i racconti sul paese lontano sono arricchiti da immagini romantiche e nostalgiche, dove gli aspetti positivi prevalgono su quelli negativi fino a mitizzare il luogo di origine. Così è stato per i miei genitori, che hanno cresciuto noi figli educandoci secondo la loro cultura di origine, tramandandoci le conoscenze della loro generazione, con i soliti problemi vissuti dalle seconde generazioni di immigrati.
In Italia vige il principio di cittadinanza per discendenza (ius sanguinis) che si ritiene derivi dalle tesi romaniche dell’identità tra nazione e cultura. Io e i miei fratelli abbiamo beneficiato di questa legge. Eravamo brasiliani ma anche italiani. Con me era scattato un processo d’identificazione come appartenente a una famiglia. Si era creato così lo stereotipo di riferirsi a me come all’italiano
. Ho da sempre vissuto questo conflitto.
In ogni caso, non si può trascurare il fatto che l’adolescenza sia un periodo in cui i ragazzi mettono in discussione le certezze della loro infanzia e iniziano a costruirsi un’identità. Questo processo di costruzione dell’identità (della propria identità etnica, sia attraverso il modello proposto dalle famiglie d’origine sia attraverso la socializzazione, quando i ragazzi entrano in contatto con altri modelli d’identità provenienti dalla comunità d’arrivo) di per sé già complesso, diventa ancora più arduo per i ragazzi immigrati o figli di immigrati che si trovano a mettere in discussione la loro identità etnica per integrarsi in una nuova cultura e società, senza perdere, al contempo, le loro radici. Ciò provoca, spesso, anche conflitti familiari. Ad ogni modo, da parte mia e dei miei fratelli questo non era accaduto; io, così come gli altri, ero italiano e lo sentivo nel sangue che scorreva nelle mie vene.
Nel mio caso, la costruzione della mia identità era vissuta come uno scontro fra due mondi nettamente diversi e fra i quali la comunicazione era minima o segnata da pregiudizi reciproci. Io, da adolescente, oscillavo tra due soluzioni: la doppia identità
– (attraverso un lento ma profondo lavoro analitico cercavo di ottenere un equilibrio armonizzando e integrando i valori delle due differenti culture e, soprattutto, cercando un senso di duplice appartenenza) e la Resistenza culturale
, facendo riferimento, prevalentemente o esclusivamente, alla mia cultura di origine, anche se le amicizie, così come i momenti di scambio e di confronto con l’esterno, erano brasiliane. Erano poche le famiglie italiane a Brasilia con figli della mia età che avrei potuto frequentare. L’integrazione tra la cultura del paese d’origine e quella del paese ospite fu buona; nonostante io abbia ricevuto un’educazione piuttosto rigida, avevo, così come i miei fratelli, un’intensa vita sociale fuori dell’universo familiare.
Da una parte mi sentivo brasiliano perché ero nato in quel paese, ma dall’altra ero stato cresciuto con la nostalgia dei miei genitori per l’Italia. Mi sentivo, quindi, anche italiano. Io ero così uno straniero nel proprio paese. I miei genitori erano stranieri in ogni caso, ma nonostante avessero abbandonato la loro patria alla ricerca di una possibilità migliore, avevano conservato il ricordo della propria terra, rafforzandolo con aspetti più belli di quelli reali. Loro erano e saranno stranieri in qualsiasi luogo si trovino. In questa condizione non c’è un elemento negativo in assoluto. La bellezza del sentirsi straniero sta proprio nel senso di libertà che dà la parola stessa: sta nel vagabondaggio intrapreso attraverso corpo e mente che supera e distrugge ogni barriera. Democrito affermava che la patria dell’uomo saggio è tutto l’universo
. Presso gli antichi greci l’ospite era sacro, anche se non era l’unico popolo ospitale e benevolo verso i forestieri. Naturalmente non tutto era dettato dall’altruismo. Lo straniero nell’antichità era ben accolto perché spesso era fonte di differenti modi di pensare, di nuove conoscenze e tecnologie ma, soprattutto, portava notizie di altre zone del mondo di cui si sapeva poco.
Io ero disposto a tutto e non avevo mai perso la speranza, un giorno, di imbarcarmi in un’avventura verso il paese dei miei genitori. Poiché non avevo mai conosciuto la loro patria e vedevo quanto soffrivano ogni volta che il ricordo li assaliva; mi sono messo a sognare la loro patria che non conoscevo affatto e, attraverso i loro racconti, ho iniziato a immaginare l’altra patria come fosse stata la mia, un’altra sorta di paese con altri paesaggi e altra gente, con un’altra maniera di pensare. Costruivo in sogno questa Italia fantasticata e non smettevo mai di sognare. L’Italia, quel luogo ideale che avevo imparato ad amare senza conoscere era, per tanti aspetti, simile al Brasile: entrambi avevano vissuto sotto l’autoritarismo e la repressione di una dittatura. Il Brasile viveva ancora questo brutale periodo.
Una delle cose che mi ricordo con maggior chiarezza si riferisce alla preoccupazione dei miei genitori per l’Italia. Ogniqualvolta in televisione il telegiornale riportava una notizia sull’Italia, rimanevano attaccati allo schermo per sapere cos’era successo. In quel periodo era solito che il Parlamento italiano non riuscisse quasi mai ad arrivare alla fine di una legislatura. In conseguenza di ciò o si faceva un impasto di governo oppure si andava a nuove elezioni. Questo, per loro, era fonte di preoccupazione ed io non riuscivo a capire e soffrivo quella catastrofe
. Gli Italiani che vivevano all’estero alcuni anni fa ‒ i tempi erano altri, i mezzi d’informazione erano diversi e meno globali e le notizie arrivavano con meno frequenza ‒ avevano una paura gigantesca dei cambiamenti; forse per questo, in quel periodo, i partiti al governo desideravano tanto l’estensione del voto agli italiani residenti fuori dal paese. Sapevano che la paura dei cambiamenti avrebbe portato gli italiani all’estero a votare sempre per il mantenimento dello status quo. Questa grossa paura, io personalmente, la superai più tardi, al momento del mio arrivo in Italia, vedendo che la caduta di un governo era così all’ordine del giorno che ormai gli italiani erano talmente abituati da non farci neanche caso. Forse gli italiani sarebbero stati più spaventati da un governo stabile che dai soliti, repentini cambiamenti di alleanze politiche a cui, ormai, si erano abituati. Per gli italiani partiti nel dopoguerra era solito vedere soltanto un uomo al potere, avevano vissuto l’esperienza del ventennio fascista, erano abituati alla stabilità
del potere e qualsiasi oscillazione appariva ai loro occhi come un rischio che non volevano correre.
Oggi sono felice di vedere, nonostante quello che di negativo può significare la discontinuità nella politica, i partiti che si alternano al potere. Ho esperienza di una vita vissuta sotto un regime autoritario e, se mai dovessi scegliere, mi spaventa meno la possibilità di cambiamento rispetto all’immobilità di un paese: non vorrei assolutamente che il paese in cui vivo, tanto il Brasile quanto l’Italia, ritornasse a vivere un periodo che fa gola a tanti nostalgici.
Avevo frequentato il liceo in quella che poteva essere chiamata la zona alta
della città di Brasilia. Ero un ragazzo riservato e timido, cominciavo a frequentare giovani con esperienze di vita molto diverse della mia. Avevo conosciuto, in particolare, un ragazzo che faceva attività politica, nonostante la giovane età. In quel momento io, pur nutrendo un interesse enorme per la politica, ne avevo solo una conoscenza teorica; quel giovane mi coinvolgeva con le sue chiacchierate e rubava la mia attenzione in modo totale. Io non riuscirò mai a dimenticarlo, non soltanto perché arrivava sempre a scuola con i calzini di colori diversi e con gli occhi gonfi di sonno, sbadigliando di continuo, ma anche perché conosceva molto bene la musica di protesta brasiliana. Parlava delle canzoni censurate dal governo militare con eccellente cognizione di causa. Io ero affascinato dalla sua conoscenza e, quando lo vedevo, ero entusiasta di sentire i suoi racconti. Lo cercavo con frequenza e, col tempo, avevo acquisito la sensazione di trovare in questo amico una guida. La più importante esperienza fatta durante la mia prima giovinezza nel periodo liceale è stata la sua amicizia: le parole dette alle volte in maniera sgarbata e troppo sicura, la sua vicinanza, influenzarono la mia vita. Attraverso i suoi racconti prendevo coscienza della realtà politica di quel periodo. Con lui si rinforzavano i miei sogni, dandomi fiducia in me stesso. Cominciavo a sentire sulla pelle il calore del sangue che, scorrendo nelle vene, mi faceva sentire utile, con la forza necessaria per credermi capace di cambiare qualsiasi cosa potesse avere la parvenza d’ingiustizia sociale. Non posso negare l’importanza di questi anni per me e per la mia crescita come persona.
In quel periodo, la situazione del paese sembrava cambiare progressivamente. Il malcontento popolare per l’aumento delle disuguaglianze sociali aveva portato a un’incisiva vittoria del partito di opposizione nelle elezioni del 1974 e, di nuovo, nel 1978. Erano anni difficili. Il Generale al Governo aveva promulgato una legge che vietava il dibattito politico nei mezzi di comunicazione. La misura era la risposta all’espressiva crescita dell’opposizione nelle elezioni parlamentari del 1974.
Anche se nel ’74 vinse il partito di opposizione, gli assassinii nelle camere di tortura delle caserme miliari non cessarono. Questa volta era toccato a un operaio. Nella versione ufficiale si era trattato di suicidio per impiccagione. Dopo questo fatto, il governo cercò di porre fine alla pratica della tortura condotta dagli organi di sicurezza, ma alcuni esponenti del governo non permisero di debellare definitivamente questa truce attività. Davanti a questa situazione, il Governo scelse l’apertura politica che voleva dire il ritorno alla democrazia. Sono così risorte timidamente, a partire del 1977, forme d’associazione popolare; sono ritornati gli scioperi, questa volta estesi anche alla classe media che cominciava a sentire, tanto quanto il proletariato, gli effetti negativi della politica economica del Governo. I militari più intransigenti cercarono di impedire questi cambiamenti così, nel settembre 1977, la polizia militare invase prepotentemente l’Università Cattolica di São Paulo, dove migliaia di studenti si trovavano riuniti per discutere la riorganizzazione dell’UNE, l’Unione Nazionale degli Studenti, che in quel momento era ancora illegale.
Il Governo, pressato dalla rinascita di forze popolari e dalla scissione al suo interno, fu costretto a promuovere l’amnistia.
All’inizio del 1979 cadde l’AI-5, l’Atto Istituzionale 5, istituito nel 1968 che legittimava la dittatura di allora: con quest’atto del ‘68 il Generale di turno alla Presidenza della Repubblica era autorizzato a sciogliere il Parlamento, a interferire negli Stati e Municipi della Federazione, a ritirare e sospendere i diritti politici e l’habeas corpus per tutti i delitti considerati politici. Furono soppresse le libertà politiche. I metodi terroristici del Governo furono usati sistematicamente. Con quest’atto si era impiantato in Brasile il regime fascista. Così, nel 1979, con la democrazia
fu reintrodotto l’habeas corpus, la legalizzazione dei partiti (tranne di quelli di sinistra) e la riforma elettorale. Questo processo di transizione democratica, però, fu bloccato a causa degli attentati politici da parte di organizzazioni paramilitari di destra contrarie all’apertura politica. I militari della linea dura cercarono di ostacolare questa fase di distensione. Soggetti legati alla Chiesa Cattolica furono sequestrati e pacchi-bomba postali
scoppiarono nelle sedi delle istituzioni democratiche. L’episodio più grave fu l’attentato terroristico a Rio de Janeiro, promosso dai militari nel Centro di Convenzioni Riocentro, fatto durante un concerto di musica che festeggiava il rientro degli esiliati politici nel paese e a cui assistevano migliaia di giovani. Una bomba, preparata per la strage, esplose all’interno di una macchina occupata da un sergente, morto nel locale mentre un capitano dell’Esercito rimase gravemente ferito. Un’altra bomba scoppiò in un ospedale nel centro di Rio de Janeiro ma senza causare vittime. Il governo, nonostante le evidenze, non ammise la responsabilità dei militari nell’attentato.
In quel periodo io già sentivo un certo interesse culturale e politico, così cominciai a coltivare alcune amicizie che mi coinvolsero nella politica. Dopo tanti problemi vissuti, direttamente e indirettamente, con il Governo del paese, i miei genitori erano scettici e spaventati da questa novità. Avevo imparato tanto da mio padre; Francesco, così si chiamava, visse durante tutta la sua esistenza situazioni critiche e accumulò una grande esperienza di vita.
Finito il liceo, trovai lavoro in un’anagrafe vicino casa. In Brasile le anagrafi sono private. Tutti i documenti che possono servire, come il certificato di nascita, di morte, la scrittura d’immobile, l’autenticazione di firma e documenti, sono rilasciati dalla mafia dei notai che si arricchiscono senza tanto sforzo grazie a questa concessione del Governo, a spese della popolazione più povera. Io, in ogni caso, entrai a far parte del complesso dei dipendenti di un Cartório, quello della mia città. Il lavoro andava bene e, in poco tempo, imparai tutto di ogni ripartizione. Con il tempo cominciai a osservare e capire il rapporto tra dipendenti e datore di lavoro, ogni sorta di ingiustizie e sopraffazione, in un ambiente dove nessuno si sentiva tanto sicuro della stabilità del posto. Vidi tante volte colleghi di lavoro perdere il loro posto per niente: bastava che il notaio si svegliasse male la mattina perché la sera colpisse una vittima, licenziando qualcuno senza il minimo scrupolo o ripensamento.
Dopo aver appreso che il Movimento Brasiliano di Alfabetizzazione cercava insegnanti per una scuola per adulti, mi sono presentato come volontario, così decisi d’affrontare la nuova sfida. La decisione era maturata durante il periodo in cui avevo provato a entrare all’Università ma senza grande successo.
In Brasile, il sistema universitario è a numero chiuso. Si tiene una battaglia senza limiti tra decine di migliaia di candidati per pochi posti. I miei primi tentativi per entrare alla facoltà di ingegneria furono frustranti, anche perché la mia scelta era stata influenzata indirettamente da mio padre e da mio fratello, entrambi ingegneri. Seguire l’orma di mio padre era tutto quello che sognavo; lui era il mio mito, ma immediatamente nacquero le prime difficoltà per riuscire a trovare la mia strada. Dopo questi primi ostacoli, maturai l’idea, con l’appoggio di mio padre, di proseguire gli studi in Italia. Mio padre andò all’Ambasciata italiana a Brasilia per informarsi sulle borse di studio. Uno dei miei fratelli già si trovava in Italia per studiare, ed io ero affascinato da questa opportunità. Così io e mio padre ci presentammo all’addetto culturale dell’Ambasciata che ci diede, però, delle spiegazioni poco convincenti. Il responsabile affermò che sarebbe stato più facile studiare in Italia se fossi stato già iscritto all’università; in questo modo ogni ostacolo sarebbe stato superato: avrei dovuto soltanto chiedere un trasferimento. Io, dopo aver sentito con attenzione le parole del funzionario, mi decisi a studiare con ancor più determinazione per riuscire a superare la selezione delle università brasiliane.
2.
Con il tempo acquisii e rafforzai comportamenti sociali per me vantaggiosi: condividendo la sofferenza dei più deboli, feci miei quegli strumenti che mi consentivano di difendere meglio le persone che mi erano vicine da ogni forma di discriminazione o sopruso. Crebbe ulteriormente in me un impulso che mi induceva a prestare soccorso al prossimo e a cercare di lottare per quella cosa che io credevo non potesse mai mancare: la giustizia sociale. Questa forte solidarietà mi fu trasmessa dai miei genitori: la mamma si prodigava e soccorreva i bisognosi senza alcun compenso, ma solo per il piacere di fare del bene.
Mentre lavoravo all’anagrafe, iniziai il lavoro a scuola come volontario. Insegnavo le prime nozioni della lingua agli adulti che non avevano avuto la possibilità di frequentare la scuola. Ancora giovanotto, ero entusiasta dell’idea di sentirmi utile, cercavo di dare il massimo delle mie forze. I primi giorni, a causa della mia timidezza, accusavo un certo imbarazzo trovandomi davanti a delle persone più grandi di me.
Il movimento creato per alfabetizzare gli adulti fu una creatura generata dai militari che stravolsero completamente il metodo di insegnamento del sociologo Paulo Freire. Fu questa la grande trovata dei militari. Il diritto di voto in Brasile era riservato soltanto agli alfabetizzati ma, secondo la legge che corrispondeva al pensiero militare, chiunque sapesse firmare era considerato idoneo a votare. Le vittorie elettorali del partito che rappresentava il Governo avevano come punto di riferimento il voto della massa; le persone più incolte non riuscivano a liberarsi dalla massacrante propaganda elettorale dei militari. Esisteva una grande ignoranza politica di base che bloccava ogni tentativo dell’opposizione di conquistare vittorie (significative).
I militari sfruttavano l’ingenuità dei giovani e inesperti volontari per rafforzare, senza che questi se ne accorgessero, il loro potere, dimostrando così, nelle pseudo elezioni libere, il grande prestigio che riuscivano a riscuotere nella nazione. Quando entrai nella struttura, non capii quest’aspetto demagogico dell’insegnamento e proseguivo su quella strada e, senza conoscere il metodo Paulo Freire
, in maniera incosciente portavo avanti una battaglia che significava non solo alfabetizzare ma anche sollecitare la nascita di uno spirito critico nell’apprendente. I frutti, pian piano, cominciarono ad arrivare: tanti dei miei alunni, oltre ad imparare a scrivere il proprio nome, si sentivano stimolati a proseguire sulla strada della conoscenza. Presi coscienza del significato rappresentato da quel tipo di volontariato, del male che si poteva creare pur avendo buone intenzioni. Capii che i miei sforzi non potevano trovare riscontro negli organizzatori e così decisi di abbandonare il movimento, non senza aver prima espresso una critica decisiva su quanto stavano facendo gli organizzatori.
Nel frattempo, dopo le prime frustrazioni con la facoltà d’ingegneria, decisi che la strada da seguire era quella dell’insegnamento. Mi presentai alla selezione universitaria come aspirante alla facoltà di Lettere. Riuscii a entrare ma, a questo punto, mi trovai costretto ad abbandonare il volontariato, anche perché l’università esigeva la frequenza obbligatoria dei corsi ed era impossibile conciliare le due cose. Superato l’esame di ammissione, ritornai all’Ambasciata italiana, ma lo stesso funzionario mi spiegò che sarebbe stato ancora più semplice se mi fossi presentato come laureato, così sarei potuto andare in Italia per una specializzazione. Disilluso dalle chiacchiere, in ogni caso decisi di finire il corso. In questo modo mi sarei potuto imbarcare verso il paese dei miei genitori. Sono stato educato a essere più italiano che brasiliano, anche a causa dei problemi che la mia famiglia aveva trovato in Brasile. Nella mia infanzia, avevo imparato da mio padre non soltanto ad amare il paese che lui fu costretto a lasciare, ma anche quella necessità, trasformata più tardi in passione, di spostarsi, di essere in movimento e in continuo viaggio.
I miei genitori educarono noi figli ad assumerci le nostre responsabilità. Nessuno di noi possedeva le chiavi di casa. Tutti, senza eccezione, dovevamo rientrare a casa a una certa ora. Mio padre diceva sempre che quella casa non era un albergo in cui ognuno poteva fare come meglio credeva. Gli orari erano ben definiti e inflessibili e tutti mangiavamo insieme e alla stessa ora.
Il mio primo giorno d’università papà mi chiamò in disparte e mi consegnò un paio di chiavi approfittandone per dirmi: «Sì! Ora potrai