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L’Altro: Una storia mediorientale
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L’Altro: Una storia mediorientale
E-book203 pagine2 ore

L’Altro: Una storia mediorientale

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Info su questo ebook

«In un conflitto, spesso, l’Altro non viene preso in considerazione, non esiste o, se esiste, non ha viso e, se ha viso, non ha sentimenti, viene disumanizzato per eliminare qualsiasi possibilità di colpa. Non dimenticherò più quei visi di soldati egiziani…»

Poche persone al mondo possono dire di aver vissuto una vita così intensa, sentita, sofferta e lacerata come quella di Marina Ergas Schiff. Autrice e protagonista di questo racconto sconvolgente. A soli vent’anni, Marina si lascia alle spalle Milano e la vita agiata che aveva conosciuto fino a quel momento, per dirigersi in Israele, armata di coraggio e desiderio di cambiare il mondo. La sua famiglia era giunta in Italia dopo secoli di nomadismo, come ogni famiglia ebrea, ma per Marina, il richiamo verso la Terra Promessa, verso il “suo” popolo che non conosce pace, diventa irresistibile. Durante la sua crociata per la pace, però, assiste ad un’escalation di violenze sempre più incontrollate e assurde, in cui il nemico, “L’Altro”, cambia volto ed etnia come in una roulette impazzita. Ebrei, israeliani, siriani, giordani, palestinesi, libanesi, russi, giapponesi, ognuno diventa “L’Altro” per qualcun altro. Un “Altro” da combattere ed uccidere senza pietà. Trent’anni passati seguendo un ideale politico, sociale e religioso, che l’autrice vedrà sgretolarsi sotto i colpi di attentati, massacri e migliaia di giovani vite sacrificate. Resterà solo un enorme dolore, un senso di vuoto e d’impotenza. Miracolosamente scampata alla morte, disillusa e piena di amarezza, Marina lascerà la Terra Promessa.
LinguaItaliano
Data di uscita27 giu 2018
ISBN9788893847148
L’Altro: Una storia mediorientale

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    Anteprima del libro

    L’Altro - Marina Ergas

    Heschel

    PREFAZIONE

    La situazione creatasi nello Stato d’Israele dopo l’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin ha causato una depressione profonda in tutti noi israeliani che avevamo, fino a quel momento storico, creduto nell’unità del popolo ebraico, e del nuovo popolo israeliano in particolare. Per la prima volta dalla costituzione dello Stato, quest’unità, che sembrava alla base della sua stessa costruzione, viene a mancare; si riconsiderano le regole del gioco.

    Le nuove regole che sembrano svilupparsi in questo momento nel paese provocano in me profonda preoccupazione; sia dal punto di vista culturale che normativo, sia politico che morale.

    Ho deciso di mettere per iscritto alcune mie esperienze degli ultimi trent’anni di vita in Israele, perché sono arrivata alla conclusione che non avrei potuto fare nient’altro per dimostrare la mia preoccupazione sull’attuale situazione. L’opposizione per le strade e le riunioni politiche non sembrano molto efficaci in questo determinato momento, anche perché vengono limitate dalla paura e dalla stanchezza.

    INTRODUZIONE

    Questo libro racconta parte della mia storia attraverso gli avvenimenti dal 1967, quando ho lasciato l’Italia e sono partita per Israele, fino al cinquantenario dello Stato d’Israele – El Naqba palestinese.

    La storia analizza la mia attitudine psicologica nei confronti del Nemico, attraverso schizzi di incontri personali con la popolazione palestinese, durante quasi trent’anni di vita.

    Non c’è la pretesa di fare un’analisi politica o storica del conflitto.

    Questo libro vuole esprimere il dolore e il disappunto delle conseguenze dell’assassinio di Yitzhak Rabin, del cambiamento del governo israeliano e del quasi totale arresto del processo di pace.

    Vuole esprimere il timore di uno sviluppo maggiore delle forze fondamentaliste nella zona e la speranza che i due popoli continuino il loro cammino nel rispetto reciproco e nella salvaguardia dei Diritti Umani.

    La storia comincia intorno ai miei vent’anni.

    Nell’ingenuità di quell’età non riuscivo a comprendere ciò che accadeva nel mondo e cominciai a cercare la mia strada per dare il mio contributo a migliorare la situazione, a rendere il mondo un luogo migliore.

    Per fare ciò rimisi in discussione ogni concetto, ogni opinione, le idee e i comportamenti che mi venivano mostrati o insegnati. Questo fece di me una ribelle.

    La vita borghese nella quale si viveva mi disturbava profondamente. La ritenevo superficiale, pettegola e, a eccezzione di alcuni casi, stagnante. Il doppio comportamento, quello naturale e quello formale, insieme ai molteplici compromessi, mi apparivano regole di vita del tutto assurde. Le notizie che mi arrivavano dal mondo esterno, attraverso i media, erano disastrose.

    Guerre, massacri, bombe atomiche, furti, omicidi erano la routine giornaliera. Le notizie positive riguardavano le scoperte scientifiche e ridavano un barlume di speranza.

    Dopo una guerra così disastrosa, dopo l’Olocausto non sarebbe dunque cambiato nulla?

    Dovevo cercare oltre.

    Divenni socialista, coadiuvata in ciò da due ottimi insegnanti di Storia e Filosofia. Cercai di sviluppare molte amicizie e poche conoscenze, nella necessità di capire e di essere capita. Non era abbastanza; c’era qualcosa che piangeva dentro di me alla consapevolezza del male e una forza dentro di me che mi spingeva alla ricerca del bene.

    Erano questi i pensieri da ragazza che mi hanno accompagnata nell’arco della mia vita, attenuandosi via via, col passare degli anni.

    Il mio mestiere, cioè ciò che so fare nella vita, è raccontare storie a un pubblico; finora l’ho fatto oralmente, ora cerco di farlo per iscritto. Per iscritto è più semplice, perché nessuno ribatte, nessuno domanda.

    Invece di mettere nel baule della nonna tutti gli impegni, l’ossessione di giustizia e il desiderio mai cessato di migliorare il mondo in cui viviamo, ho deciso oggi di condividerlo con chi avrà il desiderio di leggerlo.

    Qui comincio a raccontare una storia, una mia storia.

    1967

    Alla fine di aprile la situazione politica in Israele continuava ad aggravarsi e si era in attesa di uno scoppio bellico.

    Eravamo appena usciti dalle ceneri di Auschwitz. Ci sarà un secondo Olocausto?

    Olocausto, questa parola con la quale siamo nati e cresciuti, che ci accompagna e ci continuerà ad accompagnare fino alla fine della nostra vita; sterminio e distruzione. Lo Stato d’Israele è l’unico fattore che impedirà un nuovo Olocausto; e ora è là che incombe il pericolo di distruzione.

    Non mi sarei mai perdonata di essere rimasta a casa, a Milano, senza far nulla, senza partecipare alla difesa di questo mio popolo, decimato negli ultimi anni nei campi di sterminio.

    Avrei aiutato nella difesa.

    E così sono partita, partita per un mondo che non conoscevo; da signorina milanese ben educata, borghese e viziata, studentessa di estrema sinistra, pronta a cambiare il mondo, divenni lavoratrice dei campi in un kibbutz in Israele; dall’Europa al Medio Oriente.

    È stato un richiamo atavico, quasi un archetipo al quale aggrapparsi per dare significato alle proprie azioni.

    I miei avi avevano dovuto abbandonare la terra d’Israele, terra dove Abramo, Isacco e Giacobbe avevano pascolato le loro greggi. I miei avi erano stati cacciati dalla Spagna nel 1492, con l’editto di Ferdinando e Isabella; quella Spagna alla quale sono ancora legata da una lingua, e che non ho ancora visitato. I miei genitori e nonni erano dovuti scappare per l’Europa da un luogo all’altro, per secoli. Era tempo di tornare a casa.

    1492

    In seguito all’espulsione degli ebrei dalla Spagna, i membri della famiglia di mio nonno materno evitarono probabilmente la morte o l’esilio attraverso la conversione; divennero marrani per un certo periodo e ritornarono alla loro fede dopo essere arrivati nella penisola italica, durante il sedicesimo secolo. Da lì, più tardi, si diressero verso l’impero ottomano, così ben disposto verso la popolazione ebraica, e si stabilirono a Costantinopoli (così chiamava ancora mio nonno la Istanbul di oggi).

    La famiglia di mia nonna materna percorse la stessa strada e qualche secolo più tardi si spostò in Gran Bretagna, a Londra.

    All’inizio del XX secolo entrambe le famiglie si ritrovarono in Italia.

    La famiglia di mio padre, di origine portoghese, subì anch’essa l’editto di espulsione, anche se qualche anno più tardi; questo la portò a stabilirsi a Livorno, dove ancora oggi si possono vedere le tombe di famiglia del sedicesimo secolo. Il nome di questa famiglia si ritrova in manoscritti dell’epoca. Ad Ancona, nel diciassettesimo secolo, la famiglia Ergas favorì l’emigrazione della popolazione ebraica verso l’impero ottomano. In seguito, si stabilì a Salonicco e in altre città della Macedonia.

    1939

    La Seconda Guerra Mondiale portò a nuovi spostamenti e le due famiglie si ritrovarono in Italia alla fine del conflitto. Parlavano ancora l’antico spagnolo, con differenze dialettali tra una famiglia e l’altra, ma si capivano perfettamente, appartenevano alla stessa gente, pregavano o non pregavano nelle stesse sinagoghe, sinagoghe dove il vuoto e il silenzio generato dalle conseguenze della guerra riunivano atei e religiosi.

    La parte italiana della famiglia fu sfollata in Brianza, poi scappò a Roma, fu catturata dai tedeschi, fuggì e si nascose in un convento; la parte macedone passò quattro anni nei campi di concentramento e di lavoro, prima in Albania e poi a Ferramonti di Tarsia, vicino a Cosenza.

    1947

    Mia madre sognava spesso; uno dei sogni più frequenti riguardava un campo di calcio, pieno zeppo di gente che urlava, all’interno del quale si trovava anche lei. Si svegliava urlando, piangendo e raccontava il sogno. L’incubo dei campi di concentramento diventava più reale con il continuo flusso delle notizie e dei profughi che arrivavano da tutta Europa.

    Arrivavano, attraverso le pagine dei giornali molti articoli e documentazione fotografica sui campi di sterminio nazisti; nonostante gli adulti cercassero di tenerli lontani dagli occhi dei bambini, le immagini facevano parte dell’atmosfera nella quale si cresceva.

    Avevano ammazzato sei milioni di ebrei. Essere ebrei significa essere in pericolo, significa essere diversi dagli altri, significa essere nomadi, senza radici, non voluti. Io ero ebrea. Sarei quindi dovuta essere uccisa. Ero colpevole di una colpa che non conoscevo.

    Alcuni dicevano che noi ebrei avevamo ammazzato Dio.

    Chi era questo Dio che mia nonna pregava e nel nome del quale mi benediceva? Quello in cui mia madre credeva e non credeva? Quello che aveva permesso quello che aveva permesso? Quello che ci aveva scelto come popolo per poi distruggerci… ma non del tutto?

    Se i tedeschi ci avessero ucciso, tu non saresti mai nata.

    Succederà ancora?

    1967

    Partii, con una sola frase in mente: l’anno prossimo a Gerusalemme!, sentendomi parte attiva della storia del mio popolo. Partii con la speranza messianica di costruire un mondo migliore, un uomo migliore; ingenuità giovanile impregnata di dopoguerra.

    Noi avremmo fatto meglio dei nostri predecessori e la giustizia avrebbe prevalso nel mondo.

    Mi imbarcai per Israele a Roma, all’aeroporto di Fiumicino.

    Qui mi attendeva mio padre che, da buon ateo, richiese al rabbino Toaff, capo della comunità di Roma, di benedirmi prima della partenza. Toaff era presente in quanto due dei suoi figli erano in partenza con me.

    Sono certa di non essere stata la sola a sentirmi importante durante quella giornata; come se il destino dell’intero popolo ebraico fosse sulle spalle del nostro piccolo gruppo di volontari italiani.

    Ci imbarcammo su un aereo della compagnia israeliana El Al; sarebbe stato un volo breve, soltanto tre ore. L’aereo era pieno di giornalisti provenienti da ogni parte del mondo; fui intervistata da una rete televisiva americana che mi piazzò in viso dei forti riflettori per le riprese; se ben ricordo mi chiesero il perché della mia presenza a bordo di questo aereo diretto verso una guerra.

    Uno dei passeggeri era l’attore americano Danny Kaye.

    Arrivati non lontano dalle coste israeliane, fu possibile vedere, accanto al nostro aereo, aerei militari che erano stati inviati per assicurare il nostro atterraggio all’aeroporto di Lod (l’attuale aeroporto di Ben Gurion nelle vicinanze di Tel Aviv). Il nostro aereo fu il primo a poter atterrare in Israele, dall’inizio delle operazioni belliche, da quando i cieli erano stati chiusi al traffico.

    Era il 7 di giugno, il terzo giorno di guerra. Nel terminal non c’era illuminazione, soltanto gente che circolava con pile in mano. Era in vigore l’oscuramento. I poliziotti che si occupavano di verificare i passaporti avevano una pila elettrica legata in fronte, che permetteva loro di controllare i dettagli di ognuno di noi; lo stesso sistema fu usato anche per recuperare i nostri bagagli. Radio transistor accese continuavano a dare notizie, notizie dal fronte.

    L’entusiasmo era indescrivibile. Abbiamo conquistato Gerusalemme! La città vecchia è nelle nostre mani! Il muro del pianto! Sul Monte del Tempio sventola la bandiera israeliana!.

    Queste furono le parole gridate nell’aria, che io non capivo e che mi venivano tradotte automaticamente dai figli del rabbino. La radio continuava a trasmettere in ebraico, senza che io potessi capire una sola parola; dal tono dello speaker si sentivano trapelare l’emozione e l’ebbrezza create dalla vittoria.

    Non appena furono concluse le procedure doganali, alcune persone ci accolsero. Capii più tardi che costoro erano i responsabili dei gruppi di volontari che si sarebbero riversati nel paese durante i mesi a venire, responsabili inviati dall’Agenzia Ebraica.

    Fummo imbarcati su autobus rossi e ci trasferirono in quello che io pensai fosse un albergo. Il viaggio avvenne nel buio e nel silenzio più totale; i fari delle automobili erano dipinti di nero e quindi quasi del tutto non visibili. Ci si trovava in un’atmosfera del tutto irreale, ovattata. Al nostro arrivo, anche l’albergo apparve del tutto oscuro; entrammo nella hall e, di colpo, una tenda nera di stoffa pesante fu sollevata e là tutto era illuminato! Vi era una tavola apparecchiata con vassoi pieni di fette di pane e di formaggio. IIl ricordo delle due fette di pane con formaggio che mangiai allora mi accompagna tuttora. Avevo così fame. Eravamo in viaggio dalla mattina presto. Vi erano state incertezze se l’aereo fosse veramente potuto partire o no e inoltre risentivo della stanchezza del viaggio. Non avevamo toccato cibo, l’emozione aveva troncato l’appetito. Dopo questo spuntino notturno, ci divisero in coppie dello stesso sesso e ci distribuirono nelle camere. Cercammo la valigia nel buio più totale, salimmo le scale, trovammo il numero della stanza a noi assegnata, ci spogliammo e ci coricammo nel letto. La mia compagna di stanza era una ragazza portoghese; questo è l’unico ricordo che ho di lei, e da allora non la vidi mai più. Non parlo il portoghese. Ricordo il buio di quella stanza; nella penombra s’intravedeva la semplicità dell’arredamento: due brande, un tavolo, due sedie. Un po’ di luce arrivava da una finestrella dalla quale s’intravedeva un fazzoletto di cielo.

    Era una calda notte mediorientale, era primavera e c’erano le stelle.

    Scambiammo qualche parola, parole che non avevano necessità di essere capite, ma soltanto per poter sentire una voce, per rassicurarci a vicenda.

    In lontananza si sentivano i suoni della guerra; una cittadina non lontana fu bombardata durante quella stessa notte.

    Dove mi trovo?

    Per la prima volta fu come se fossi uscita dal sogno delle ultime ventiquattr’ore e mi fossi ritrovata di fronte alla realtà. Cosa stavo facendo in quella stanza, con una portoghese che non conoscevo? Cosa stava succedendo, nel frattempo, a casa mia in Italia?

    Mi sembrava tutto già così remoto nel tempo e nello spazio. Cosa mi sarebbe successo? Forse mi trovavo veramente in pericolo?

    La stanchezza sopraffece le domande e mi addormentai con i primi dubbi sulla decisione che avevo preso.

    Fummo svegliati alle cinque del mattino e ci riunimmo tutti in un giardino a fare la prima colazione; insieme a noi, la sera precedente, erano arrivati una ventina di volontari da diversi paesi del mondo.

    Il luogo dove ci trovavamo era una casa di riposo che era stata evacuata a causa della guerra. Era situata a due passi dal mare; la giornata era stupenda, il sole risplendeva sulle dune di sabbia con colori che non avevo conosciuto prima, il tutto era inondato da una luce fortissima che contribuiva alla sensazione irreale del sogno. Finita la prima colazione ci divisero in due gruppi: coloro che mantenevano le regole religiose ebraiche e coloro che, come me, non le conoscevano neppure.

    Alla luce dello sviluppo preoccupante degli ultimi anni in Israele, questa divisione così netta, che anche allora mi sorprese, avrebbe dovuto accendere in me il campanello d’allarme. Gli avvenimenti erano troppo coinvolgenti per poterne analizzare logicamente e freddamente i dettagli.

    I due gruppi di volontari furono destinati a diversi kibbutzim¹, alcuni del tutto laici e altri in cui si applicavano le regole della religione ebraica.

    E via, di nuovo sul pullman rosso che viaggiava su strade sconosciute verso il nord del paese.

    Dopo circa un’ora di viaggio sulla strada maestra che costeggiava il mare, apparve un gruppo di casupole su una collinetta; lasciammo la strada principale e l’autobus si arrampicò per una strada piena di curve che arrivò fino al villaggio sulla collina, il kibbutz Ma’ayan Tzvi.

    Dall’alto di questa collina si godeva di una vista riposante che spaziava su un lungo

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