Antonio
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Anteprima del libro
Antonio - Delio Miorandi
Fraccari
Il dottore sedeva nel bar dell’Inghilterra, un vecchio Hotel romano dall’aria ancora nobile ed accogliente, nelle vicinanze di Piazza di Spagna, nel cui ristorante l’odore di pietanze appetitose avrebbe potuto sostenere il confronto con la sala di un qualche prestigioso club inglese. Si era accomodato su una vecchia e accogliente poltrona, la cui pelle, color verde bottiglia mostrava le crepe del tempo. A quell’ora era l’unico ospite del bar. Pregustava il solito Campari che gli avrebbero servito e il tintinnare del ghiaccio nel bicchiere.
Tutt’intorno le pareti erano rivestite in mogano. Il pianista suonava Night and Day
con leggerezza, come la colonna sonora di un tempo quasi dimenticato. Sulla coda del pianoforte facevano mostra di sé delle candele bianche in candelabri d’argento. Il musicista con la testa leggermente piegata rivolse all’unico ospite in sala un sorriso di circostanza, come faceva con tutti. Il dottor Fraccari però era un cliente abituale e non lasciava che i suoi pensieri fossero distolti dalla musica.
Renato Fraccari, sottosegretario del ministro delle finanze Angelo De Benedetti, appariva rilassato. Il viso affilato ed abbronzato, con un inizio di stempiatura sulla fronte che lo rendeva forse ancora più affascinante, la bocca carnosa, l’accuratezza nel vestire, gli occhi castano-scuri, il portamento slanciato, gli conferivano un aspetto tale per cui molti lo osservavano ammirati. Aveva un figlio di sei anni che viveva con la madre, una donna che nonostante tutto gli era da sempre devota, tanto da educare il figlio ad amare ed ammirare il padre.
Fraccari in realtà era inquieto. La conferenza pomeridiana era stata fastidiosa, a momenti irritante. Si era parlato fino alla noia delle normative sull’esportazione della frutta.
Consapevole della lunghezza dell’impegno il giovane economista aveva fissato l’importante appuntamento che lo attendeva solo per il tardo pomeriggio e col passare dei minuti consultava sempre più nervosamente l’orologio.
Mentre godeva della frescura del bar in quella calda giornata di luglio, gli capitò tra le mani il Corriere. Stava dando un’occhiata distratta, quando una notizia catturò la sua attenzione: la morte di un uomo che aveva conosciuto un tempo, Ascanio Ridolfi.
Lo ricordava bene: borse sotto gli occhi, fumatore accanito, si esprimeva gesticolando e scaldandosi in un modo tutto suo. Figlio di un avvocato e di una cantante, era stato, anni prima, uno dei principali protagonisti delle trattative tra i rappresentanti del mondo economico tedesco e i lavoratori italiani. Si prospettavano incredibili sviluppi per l’economia di quel paese che però minacciavano di svanire se non si fossero rimpiazzati in fretta i morti sui campi di battaglia.
A Verona ed a Napoli erano stati allestiti degli uffici con a capo dei commissari, in essi si preparavano liste di uomini del sud Italia che cercavano un lavoro e con esso una via d’uscita alle loro sofferenze. Nei corridoi c’era una ressa incredibile. I più poveri tra i poveri: chi era arrivato in treno, chi in autobus o usufruendo di un passaggio in automobili di conoscenti più benestanti. Aspettavano pazientemente, fino a quando venivano chiamati per poter presentare agli interpreti ed ai segretari i loro incartamenti. Di tanto in tanto questi nuovi arrivati, all’inizio esclusivamente maschi, tiravano fuori delle bottiglie, sorseggiando il vino rosso delle loro terre e mangiando pane e salame, avvolti in fazzoletti o in carta di giornale. Era proibito fumare. Qualcuno dormiva. Altri giocavano a carte. Tuttavia, sulle loro facce, si poteva leggere la brutale paura per l’ignoto, per le loro vite e le loro case lontane ormai lasciate.
Si abbandonò ai ricordi, vide apparire Ascanio Ridolfi davanti ai suoi occhi, con la sua andatura agile, il corpo tondeggiante, abile diplomatico, sempre con la cravatta ben annodata. Era stato sempre un conservatore, che nei preparativi per le trattative con i rappresentanti di quella che si riteneva una delle principali economie del mondo, cercava di proporre qualcosa che richiamasse la grandezza dei latifondisti del Mezzogiorno. Parlava però al muro. Il traffico di quella povera manodopera era cosa riservata ad una cerchia ristretta di potenti. L’arroganza dei padroni, con la complicità della mafia, era diventata insopportabile per lo stesso Ridolfi.
Però era quasi sottinteso che la politica dovesse chiudere un occhio con i latifondisti perché erano proprio loro a spingere i poveri all’estero.
Specialmente al Sud, dopo la guerra, si erano diffuse speranze e impegni di ampie riforme nel paese, che togliessero vento alle vele spiegate del comunismo. Ma, mentre i politici alimentavano quelle promesse, in realtà negoziavano con i tedeschi. A Roma si era deciso di far danaro con la tratta dei poveri e dei disoccupati del Sud. Si intravvedeva la possibilità di liberarsi di costoro, allontanando nel contempo la minaccia socialista.
Fraccari, mentre sorseggiava il suo Campari che il cameriere gli aveva servito con studiata eleganza ed un deferente inchino, rammentò che il periodo trascorso in seno alla commissione destinata a quelle trattative era stata un’esperienza preziosa. Riaffioravano alla memoria anche immagini del suo soggiorno nella capitale tedesca. Grazie ai mezzi del governo aveva viaggiato lungo il grande fiume, al quale i tedeschi avevano attribuito l’appellativo di padre
. Fra roccaforti e castelli aveva bevuto un vino forte che faceva contrarre la bocca.
I primi accordi con i tedeschi prevedevano di far venire dalle assolate terre del Sud almeno cinquecento persone. Era stato piuttosto faticoso per i rappresentanti tedeschi rabbonire Sturm, ministro del lavoro nel gabinetto Lauerstedt. Fraccari lo aveva conosciuto da vicino ed era entrato nelle sue grazie. Soffriva di acidità di stomaco e si lamentava spesso. Di fatto doveva continuamente fare i conti con le tante dita puntate contro di lui, soprattutto da parte del ministro dell’economia, quel franco di Fürth, dal collo taurino, sempre col suo puzzolente sigaro in bocca. Un fastidio continuo, una logorante partita a scacchi: il compito dei migranti sarebbe stato quello di svolgere i lavori più duri e peggio retribuiti, in modo da consentire ai colleghi tedeschi di frequentare dei corsi di formazione professionali più evoluti.
Il ministro del lavoro Sturm non immaginava che in realtà il corpulento diplomatico tedesco stesse trattando con gli italiani sulla base di ben centomila lavoratori. Un colpo da maestro, ricordò Fraccari, accendendosi una Memphis, ed avvertendo per la prima volta una punta di nervosismo. La sua bella sarebbe arrivata? Non glielo aveva ancora confermato. Non riusciva a tener ferme le braccia sulla poltrona. Le dita delle sue delicate mani tamburellavano nervosamente, seguendo lo swing del pianista. Questi tedeschi, bisogna pur ammetterlo, anche se di malavoglia, erano lavati con tutte le acque
. Non per niente il ministro De Benedetti diffidava di loro, e sapeva il perché. Conosceva quella vecchia volpe di Lauerstedt. Gli industriali tedeschi non potevano desiderare di meglio, in quel periodo: vedevano nel cattolico Köln un integerrimo procuratore, che a suo tempo era addirittura entrato in conflitto con i nazisti. Quest’uomo segaligno sapeva che non si doveva essere precipitosi. Era meglio essere furbi, temporeggiare. La reputazione dell’industria tedesca e delle banche era pesantemente compromessa dai tanti debiti contratti dal regime nazista. Per giunta bisognava tenere a bada le irrequietudini dei lavoratori. Ed era ancora convinzione comune, seppur sempre più debole, che il ceto industriale fosse stato l’unico beneficiario della politica hitleriana.
Al termine di innumerevoli conferenze e di animate discussioni, gli italiani decisero di fissare per l’anno seguente i termini per sottoscrivere i contratti di lavoro. Si andò incontro ai signori della Renania, nel senso che i giovani emigranti, dopo aver lavorato in Germania, pagato le tasse ed i contributi, sarebbero tornati da dove erano venuti. In questo modo la previdenza sociale e l’assistenza sanitaria non avrebbero sofferto più di tanto.
I sindacalisti avevano fatto il loro compitino, ma niente che potesse essere veramente decisivo per le sorti dei lavoratori.
In un confronto con i politici conservatori, i dirigenti di alcuni sindacati avevano avanzato il timore di un infiltrarsi di comunisti tra i lavoratori italiani in arrivo.
Thomas Mann, il grande scrittore tedesco, non aveva forse parlato dell’anticomunismo come la principale follia del secolo? Questo tipo di follia però sembrava connaturato al popolo tedesco. Fraccari, da uomo colto, sapeva che un’isteria di quel genere sarebbe stata abilmente alimentata, diffondendo la paura; tuttavia il timore di un’infiltrazione comunista sembrò sin da subito infondato, tanto che non furono predisposti particolari controlli.
Sorseggiando il suo Campari ritornò col pensiero a quel tempo, a quanto gli facesse rabbia che i suoi connazionali fossero stati venduti
senza calcolare gli aspetti negativi di quella migrazione. Basti pensare alla pessima accoglienza che fu loro riservata fin dall’inizio. De Benedetti aveva intravisto la chance di dare lavoro e pane alla gente del Sud, senza dover sottostare alla mezzadria
, grazie alla quale il latifondista si assicurava la metà dei guadagni dei lavoratori. In sostanza lo Stato italiano si liberò della responsabilità nei confronti dei propri figli, confidando sulle floride prospettive dell’economia tedesca. La cosa sembrava ingiusta anche a Fraccari. Oltretutto quei ragazzi amavano il loro paese sopra ogni cosa, lo portavano dentro più di ogni altro popolo. Prima della partenza su di loro veniva fatto tre volte il segno della croce per proteggerli. Tuttavia spedendo a casa quasi tutti i soldi guadagnati, quegli uomini rivivevano le ristrettezze dalle quali pensavano di essere fuggiti. E nel sottosegretario Fraccari montava la rabbia per il disfacimento di tante famiglie e della identità nazionale; si rendeva conto che queste persone venivano considerate ormai vera e propria merce.
Il pianista si avvicinò al bar, si accomodò al banco, incrociò le gambe con le sue scarpe laccate in mostra e si accese una sigaretta. Senza dire una parola il barista gli servì una vodka. Il musicista, un ebreo ungherese, si chiamava Mejer. Al dottore piaceva, e una volta, quando tutti ormai se ne erano andati, aveva continuato a suonare solo per lui. Ai tempi delle sommosse ungheresi, si era prima trasferito in Jugoslavia, quindi in Italia: un beffardo destino. Suo padre, commissario politico presso l’Armata Rossa alla fine degli anni ’20, era stato trucemente giustiziato dalla Guardia Bianca nei pressi di Minsk. Sua madre, una scrittrice, aveva discusso per una mezza nottata con Stalin, nel suo ufficio al Cremlino, perché non volevano far pubblicare uno dei suoi libri. Sugli sviluppi di quel colloquio, accompagnato da vino pesante e da forti sigarette, nei suoi racconti non si era mai soffermato.
Fraccari guardò l’ora. Quando sarebbe arrivata Carla, la sua bella, la sua amata? Ci pensava, ma sempre più distrattamente. Ormai era preso dal ricordo, dal pensiero di quegli emigranti: in fondo, gli uni avevano bisogno di quello che gli altri avevano. Ognuno cercava il proprio tornaconto: qualche volta si arrivava alla guerra per ottenerlo, oppure si trattava per averlo, soprattutto quando era finita una guerra.
Era sorprendente. Quelli che sedevano nelle commissioni si conoscevano già da prima del conflitto, e Fraccari sapeva che erano stati alleati o avversari. Ora li accomunava un unico interesse: il maggior guadagno possibile. L’unico vero obiettivo era fare cassa senza lasciare pericolose tracce.
E così, quando tutta la parte burocratica fu espletata da parte di segretari, sottosegretari, interpreti, quando i vari protocolli furono sottoscritti e le conferenze stampa convocate, la storia degli emigranti iniziò davvero. Una storia fatta di lacrime e di nostalgia per la madre patria.
Buona sera, dottore
. Fraccari, distolto improvvisamente dai suoi pensieri, alzò lo sguardo e vide il volto sorridente del pianista. Cosa vorrebbe ascoltare? Ha una speciale richiesta?
Fraccari ricambiò il sorriso e, dopo una rapida riflessione rispose: Lascio a lei la scelta, mio caro
sfiorando appena il braccio del musicista, che disinvoltamente andò al pianoforte ed intonò Bel Ami
.
Fraccari non si era accorto che Carla era lì, ferma sulla porta. Anche lei sembrava presa e affascinata dalla musica: portava una borsetta di coccodrillo e indossava un vestito nero, attillato, delle calze antracite e un vistoso rossetto… Fraccari fu come percorso da una scossa: si alzò e andò a baciarle la mano. La guardò negli occhi, nei quali brillava un desiderio trattenuto a stento, mentre il pianista, ad arte, cambiò canzone ed intonò When love is young
.
Malumore
Le sette case di Malumore si assomigliavano come sorelle, al pari di quelle degli altri borghi, del comune di Marani. Gli altri borghi si chiamavano Mantenimento, Canaletto, Cisterna, Cavone e Rissa. E proprio di Rissa era originario Aurelio Scaletta, che per una storia di mafia era stato tramortito di botte su ordine del latifondista Delcroce. Gli abitanti della zona avevano costruito le loro case sfruttando la roccia lavica dell’Etna, un vero e proprio dono del cielo. Alcuni di questi edifici erano appoggiati l’uno all’altro, come per sostenersi a vicenda, e le rocce usate venivano tenute assieme da argilla e da viluppi di radici. L’assetto di queste abitazioni era quanto meno avventuroso
, ma non era certo la sola preoccupazione della gente.
A Malumore viveva il bracciante Francesco Gioia, che aveva generosamente adottato Antonio, quando era ancora un bambino. I parenti più stretti, che avrebbero dovuto provvedere a lui alla morte del padre e della madre, se ne erano completamente disinteressati. Senza incertezze Francesco aveva preso in braccio il bambino e l’aveva stretto a sé, come fosse stato un figlio. Il piccolo, con i suoi grandi occhi scuri, trotterellava per i campi, tenendo la mano del bracciante, e giocherellava con delle palline mentre gli altri, compreso Francesco, lavoravano sodo.
All’età di cinque anni il bimbo già sapeva mungere le due capre che avevano. Addirittura parlava con le bestie mentre dava loro da mangiare. Ti piace?
chiedeva all’asina. Gli occhi dell’animale sembravano illuminarsi, le orecchie si muovevano mentre il ragazzino l’accarezzava. Io voglio cavalcarti
. E pareva proprio che l’asina capisse. Le capre gli giravano intorno e gli leccavano le mani, mentre lui esclamava: Io sono Antonio… voi siete mie amiche
.
Francesco Rampone tirò su il ragazzo con grande dedizione. Non l’aveva mai sentito come un peso; per lui era stato come un regalo della vita, da poter amare. Lo educò come meglio poteva, cercando di scoprire i suoli talenti e valorizzarli. Gli insegnò la vita della campagna, l’utilità delle piante, lo mise in guardia dalle vipere velenose. Una volta ne decapitò una col falcetto proprio un attimo prima che lo mordesse. Gli fece capire come si potevano prevedere i cambiamenti del tempo, lo depose sull’albero dai luccicanti limoni, gli fece ammirare la bellezza dei cardi, e gli fece gustare i dolci fichi d’India. Dietro la casa crescevano pomodori, fagioli, piselli, patate e piccoli arbusti di peperoncini. L’asina, che se ne stava nel suo piccolo recinto fatto di resti di rami e di radici, portava il bracciante al lavoro. Un asino rappresentava a quel tempo un grande patrimonio, come del resto le due capre.
Venti di tempesta frustavano il mare della costa orientale della Sicilia, e quegli ululati si sentivano fino a Malumore, che distava pochi chilometri. Nella maggior parte delle case penetrava una forte umidità, contro la quale poco potevano le piccole stufe di ferro, per cui Francesco ed il piccolo gelavano nel loro letto matrimoniale, nonostante le coperte di lana e le pelli di pecora. Sul comò c’era la foto dei genitori di Antonio, Mario e Concetta. La nostalgia ed il dolore erano ancora vivi nel profondo della sua giovane anima. Vicino alla camera da letto c’era la cucina, col suo pavimento argilloso, un tavolo e tre sedie. Alla parete le fotografie dei genitori di Francesco ed una che lo riprendeva durante il servizio militare. Dalla latrina, vicino alla cucina, veniva puzzo d’urina.
Questo era Malumore, il paese in cui Antonio trascorse l’infanzia.
Purtroppo arrivarono tempi difficili per il padre adottivo. Per notti intere pregò e cercò di trovare una soluzione, ma non trovò altra via d’uscita che consegnare anche il ragazzino a Delcroce. I miseri guadagni non erano più sufficienti per entrambi, e Francesco si arrese. Era troppo per morire e troppo poco per vivere. Quando, accarezzandogli il viso, confessò al bambino la triste verità, aveva la voce rotta dal pianto. Antonio si strinse a lui, che a fatica riuscì a sopportare la commozione di quegli istanti.
Il giorno dopo andarono assieme al lavoro nei campi. Antonio da quel giorno lasciò le palline a casa. Francesco non riuscì più a sentirsi il cuore in pace: lui, proprio lui, che lo aveva adottato e lo aveva cresciuto con tutte le premure, si sentiva colpevole da quel momento di avergli rubato l’infanzia.
Marani
Nella piazza di Marani, con le sue superbe palme, la gente passeggiava gesticolando e chiacchierando tra i suoni e gli odori del Sud. Di tanto in tanto si fermava, per poi riprendere il passeggio. Si discuteva, talvolta con leggerezza, talaltra con serietà. Il brulichio ed il continuo vociare accompagnavano la mitezza delle serate.
Assunta Lamesa continuava a girarsi intorno mentre passeggiava con le amiche, tra gli interessati sguardi degli uomini. Ad un certo punto lo vide; provò un brivido, come mai le era capitato prima. Li separavano meno di dieci passi e i loro occhi si incrociarono. Fu come un incantesimo: Assunta continuò a guardarlo da sopra le spalle e gli occhi