Eneide
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Edizione integrale con testo latino a fronte
Massimo poema della latinità e, con l’Iliade e l’Odissea, capolavoro dell’antichità classica, l’Eneide è l’epopea di un popolo, ma abbraccia idealmente la storia dell’umanità, il cui centro per Virgilio è Roma. Presente, passato e futuro (Enea, Anchise, Ascanio) si fondono in una visione unitaria, sorretta e illuminata dal Fato. Il curatore, in questa nuova versione poetica (che è anche una ri-creazione), è riuscito a sposare felicemente il fluire armonico e la dignità del verso con la chiarezza e la semplicità del linguaggio, rendendo il poema accessibile a tutti e in particolare agli studenti.
«Canto l’eroe che profugo da Troia
venne in Italia ai lidi di Lavinio,
che, sballottato per terra e per mare
dal volere divino e dalla rabbia
tenace di Giunone, in lotta ancora
molto soffrì, finché pose nel Lazio
la sua sede e i suoi dèi, donde la stirpe
latina, i padri Albani e l’alta Roma.»
Virgilio
Publio Virgilio Marone nacque ad Andes, presso Mantova, nel 70 a.C. Studiò a Cremona, a Milano e a Roma, dove fu avviato all’avvocatura ma, timido e non portato all’eloquenza, trattò una sola causa. Oltre all’Eneide (29-19 a.C.), compose le Bucoliche (42-39) e le Georgiche (36-29). Nel 19, per perfezionare il poema, si recò in Grecia, ma, vittima di un’insolazione, morì a Brindisi durante il viaggio di ritorno.
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Eneide - Publio Virgilio Marone
Liber primus
Ille ego, qui quondam gracili modulatus avena
carmen, et egressus silvis vicina coëgi
ut quamvis avido parerent arva colono,
gratum opus agricolis, at nunc horrentia Martis
1 Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris
Italiam fato profugus Laviniaque venit
litora, multum ille et terris iactatus et alto
vi superum, saevae memorem Iunonis ob iram,
5 multa quoque et bello passus, dum conderet urbem
inferretque deos Latio, genus unde Latinum
Albanique patres atque altae moenia Romae.
Musa, mihi causas memora, quo numine laeso
quidve dolens regina deum tot volvere casus
10 insignem pietate virum, tot adire labores
impulerit. Tantaene animis caelestibus irae?
Urbs antiqua fuit (Tyrii tenuere coloni)
Karthago, Italiani contra Tiberinaque longe
ostia, dives opum studiisque asperrima belli;
15 quam Iuno fertur terris magis omnibus unam
posthabita coluisse Samo: hic illius arma,
hic currus fuit; hoc regnum dea gentibus esse,
si qua fata sinant, iam tum tenditque fovetque.
Progeniem sed enim Troiano a sanguine duci
20 audierat, Tyrias olim quae verteret arces;
hinc populum late regem belloque superbum
venturum excidio Libyae: sic volvere Parcas.
Id metuens veterisque memor Saturnia belli,
prima quod ad Troiam prò caris gesserat Argis:
25 necdum etiam causae irarum saevique dolores
exciderant animo; manet alta mente repostum
iudicium Paridis spretaeque iniuria formae
et genus invisum et rapti Ganymedis honores:
his accensa super iactatos aequore toto
30 Troas, relliquias Danaum atque immitis Achilli,
arcebat longe Latio, multosque per annos
errabant acti fatis maria omnia circum.
Tantae molis erat Romanam condere gentem.
Vix e conspectu Siculae telluris in altum
35 vela dabant laeti et spumas salis aere ruebant,
cum Iuno aeternum servans sub pectore volnus
haec secum: «Mene incepto desistere victam
nec posse Italia Teucrorum avertere regem?
Quippe vetor fatis. Pallasne exurere classem
40 Argivom atque ipsos potuit submergere ponto
unius ob noxam et furias Aiacis Oilei?
Ipsa Iovis rapidum iaculata e nubibus ignem
disiecitque rates evertitque aequora ventis,
illum exspirantem transfixo pectore flammas
45 turbine corripuit scopuloque infixit acuto;
ast ego, quae divom incedo regina, Iovisque
et soror et coniunx, una cum gente tot annos
bella gero. Et quisquam numen Iunonis adorat
praeterea aut supplex aris imponet honorem?».
50 Talia fiammato secum dea corde volutans
nimborum in patriam, loca feta furentibus austris,
Aeoliam venit. Hic vasto rex Aeolus antro
luctantis ventos tempestatesque sonoras
imperio premit ac vinclis et carcere frenat.
55 Illi indignantes magno cum murmure montis
circum claustra fremunt; celsa sedet Aeolus arce
sceptra tenens mollitque animos et temperat iras.
Ni faciat, maria ac terras caelumque profundum
quippe ferant rapidi secum verrantque per auras:
60 sed pater omnipotens speluncis abdidit atris
hoc metuens molemque et montis insuper altos
imposuit regemque dedit, qui foedere certo
et premere et laxas sciret dare iussus habenas.
Ad quem tum Iuno supplex his vocibus usa est:
65 «Aeole (namque tibi divom pater atque hominum rex
et mulcere dedit fluctus et tollere vento)
gens inimica mihi Tyrrhenum navigat aequor,
Ilium in Italiani portans victosque penatis:
incute vim ventis submersasque obrue puppes,
70 aut age diversos et dissice corpora ponto.
Sunt mihi bis septem praestanti corpore nymphae,
quarum quae forma pulcherrima Deïopea,
conubio iungam stabili propriamque dicabo,
omnis ut tecum mentis prò talibus annos
75 exigat et pulchra faciat te prole parentem».
Aeolus haec contra: «Tuos, o regina, quid optes,
explorare labor; mihi iussa capessere fas est.
Tu mihi quodcumque hoc regni, tu sceptra Iovemque
concilias, tu das epulis accumbere divom
80 nimborumque facis tempestatumque potentem».
Haec ubi dieta, cavom conversa cuspide montem
impulit in latus: ac venti velut agmine facto,
qua data porta, ruunt et terras turbine perflant.
Incubuere mari totumque a sedibus imis
85 una Eurusque Notusque ruunt creberque procellis
Africus et vastos volvont ad litora fluctus.
Insequitur clamorque virum stridorque rudentum.
Eripiunt subito nubes caelumque diemque
Teucrorum ex oculis; ponto nox incubat atra.
90 Intonuere poli et crebris micat ignibus aether
praesentemque viris intentant omnia mortem.
Extemplo Aeneae solvontur frigore membra;
ingemit et duplicis tendens ad sidera palmas
talia voce refert: «O terque quaterque beati,
95 quis ante ora patrum Troiae sub moenibus altis
contigit oppetere! o Danaum fortissime gentis
Tydide! mene Iliacis occumbere campis
non potuisse tuaque animam hanc effundere dextra,
saevos ubi Aeacidae telo iacet Hector, ubi ingens
100 Sarpedon, ubi tot Simois correpta sub undis
scuta virum galeasque et fortia corpora volvit!».
Talia iactanti stridens aquilone procella
velum adversa ferit fluctusque ad sidera tollit.
Franguntur remi; tum prora avertit et undis
105 dat latus: insequitur cumulo praeruptus aquae mons.
Hi summo in fluctu pendent, his unda dehiscens
terram inter fluctus aperit, furit aestus harenis.
Tris Notus abreptas in saxa latentia torquet,
(saxa, vocant Itali mediis quae in fluctibus Aras,
110 dorsum immane mari summo), tris Eurus ab alto
in brevia et syrtis urguet (miserabile visu)
inliditque vadis atque aggere cingit harenae.
Unam, quae Lycios fidumque vehebat Oronten,
ipsius ante oculos ingens a vertice pontus
115 in puppim ferit: excutitur pronusque magister
volvitur in caput; ast illam ter fluctus ibidem
torquet agens circum et rapidus vorat aequore vertex.
Apparent rari nantes in gurgite vasto,
arma virum tabulaeque et Troia gaza per undas.
120 Iam validam Ilionei navem, iam fortis Achatae
et qua vectus Abas et qua grandaevos Aletes,
vicit hiemps; laxis laterum compagibus omnes
accipiunt inimicum imbrem rimisque fatiscunt.
Interea magno misceri murmure pontum
125 emissamque hiemem sensit Neptunus et imis
stagna refusa vadis, graviter commotus; et alto
prospiciens summa placidum caput extulit unda.
Disiectam Aeneae toto videt aequore classem,
fluctibus oppressos Troas caelique ruina.
130 Nec latuere doli fratrem Iunonis et irae.
Eurum ad se Zephyrumque vocat, dehinc talia fatur:
«Tantane vos generis tenuit fiducia vestri?
iam caelum terramque meo sine mimine, venti,
miscere et tantas audetis tollere moles?
135 Quos ego...! sed motos praestat componere fluctus.
Post mihi non simili poena commissa luetis.
Maturate fugam regique haec dicite vestro:
non illi imperium pelagi saevomque tridentem,
sed mihi sorte datum. Tenet ille immania saxa,
140 vestras, Eure, domos; illa se iactet in aula
Aeolus et clauso ventorum carcere regnet».
Sic ait et dicto citius tumida aequora placat
collectasque fugat nubes solemque reducit.
Cymothoé simul et Triton adnixus acuto
145 detrudunt navis scopulo; levat ipse tridenti
et vastas aperit syrtis et temperat aequor
atque rotis summas levibus perlabitur undas.
Ac veluti magno in populo cum saepe coorta est
seditio saevitque animis ignobile volgus,
150 iamque faces et saxa volant, furor arma ministrati
tum pietate gravem ac meritis si forte virum quem
conspexere, silent arrectisque auribus adstant;
ille regit dictis animos et pectora mulcet:
sic cunctus pelagi cecidit fragor, aequora postquam
155 prospiciens genitor caeloque invectus aperto
flectit equos curruque volans dat lora secundo.
Defessi Aeneadae, quae proxima litora, cursu
contendunt petere et Libyae vertuntur ad oras.
Est in secessu longo locus: insula portum
160 efficit obiectu laterum, quibus omnis ab alto
frangitur inque sinus scindit sese unda reductos.
Hinc atque hinc vastae rupes geminique minantur
in caelum scopuli, quorum sub vertice late
aequora tuta silent; tum silvis scaena coruscis
165 desuper horrentique atrum nemus imminet umbra;
fronte sub adversa scopulis pendentibus antrum,
intus aquae dulces vivoque sedilia saxo,
nympharum domus. Hic fessas non vincula navis
ulla tenent, unco non alligat ancora morsu.
170 Huc septem Aeneas collectis navibus omni
ex numero subit; ac magno telluris amore
egressi optata potiuntur Troes harena
et sale tabentis artus in litore ponunt.
Ac primum silici scintillam excudit Achates
175 succepitque ignem foliis atque arida circum
nutrimenta dedit rapuitque in fomite flammam.
Tum Cererem corruptam undis Cerealiaque arma
expediunt fessi rerum frugesque receptas
et torrere parant flammis et frangere saxo.
180 Aeneas scopulum interea conscendit et omnem
prospectum late pelago petit, Anthea si quem
iactatum vento videat Phrygiasque biremis
aut Capyn aut celsis in puppibus arma Caici.
Navem in conspectu nullam, tris litore cervos
185 prospicit errantis; hos tota armenta secuntur
a tergo et longum per vallis pascitur agmen.
Constitit hic arcumque manu celerisque sagittas
corripuit, fidus quae tela gerebat Achates,
ductoresque ipsos primum, capita alta ferentis
190 cornibus arboreis, sternit, tum volgus et omnem
miscet agens telis nemora inter frondea turbam;
nec prius absistit, quam septem ingentia victor
corpora fundat humo et numerum cum navibus aequet.
Hinc portum petit et socios partitur in omnis.
195 Vina bonus quae deinde cadis onerarat Acestes
litore Trinacrio dederatque abeuntibus heros,
dividit et dictis maerentia pectora mulcet:
«O socii (neque enim ignari sumus ante malorum),
o passi graviora, dabit deus his quoque finem.
200 Vos et Scyllaeam rabiem penitusque sonantis
accestis scopulos, vos et Cyclopia saxa
experti: revocate animos maestumque timorem
mittite; forsan et haec olim meminisse iuvabit.
Per varios casus, per tot discrimina rerum
205 tendimus in Latium, sedes ubi fata quietas
ostendunt; illic fas regna resurgere Troiae.
Durate et vosmet rebus servate secundis».
Talia voce refert curisque ingentibus aeger
spem voltu simulat, premit altum corde dolorem.
210 Illi se praedae accingunt dapibusque futuris:
tergora diripiunt costis et viscera nudant;
pars in frusta secant veribusque trementia figunt,
litore aèna locant alii flammasque ministrant.
Tum victu revocant vires fusique per herbam
215 implentur veteris Bacchi pinguisque ferinae.
Postquam exempta fames epulis mensaeque remotae,
amissos longo socios sermone requirunt
spemque metumque inter dubii, seu vivere credant
sive extrema pati nec iam exaudire vocatos.
220 Praecipue pius Aeneas nunc acris Oronti,
nunc Amyci casum gemit et crudelia secum
fata Lyci fortemque Gyan fortemque Cloanthum.
Et iam finis erat, cum Iuppiter aethere summo
despiciens mare velivolum terrasque iacentis
225 litoraque et latos populos, sic vertice caeli
constitit et Libyae defixit lumina regnis.
Atque illum talis iactantem pectore curas
tristior et lacrimis oculos suffusa nitentis
adloquitur Venus: «O qui res hominumque deumque
230 aeternis regis imperiis et fulmine terres,
quid meus Aeneas in te committere tantum,
quid Troes potuere, quibus tot funera passis
cunctus ob Italiani terrarum clauditur orbis?
Certe hinc Romanos olim volventibus annis,
235 hinc fore ductores revocato a sanguine Teucri,
qui mare, qui terras omnis dicione tenerent,
pollicitus: quae te, genitor, sententia vertit?
Hoc equidem occasum Troiae tristisque ruinas
solabar fatis contraria fata rependens;
240 nunc eadem fortuna viros tot casibus actos
insequitur. Quem das finem, rex magne, laborum?
Antenor potuit mediis elapsus Achivis
Illyricos penetrare sinus atque intuma tutus
regna Liburnorum et fontem superare Timavi,
245 unde per ora novem vasto cum murmure montis
it mare proruptum et pelago premit arva sonanti.
Hic tamen ille urbem Patavi sedesque locavit
Teucrorum et genti nomen dedit armaque fixit
Troia, nunc placida compostus pace quiescit:
250 nos, tua progenies, caeli quibus adnuis arcem,
navibus (infandum!) amissis unius ob iram
prodimur atque Italis longe disiungimur oris.
Hic pietatis honos? sic nos in sceptra reponis?».
Olii subridens hominum sator atque deorum
255 voltu, quo caelum tempestatesque serenat,
oscula libavit natae, dehinc talia fatur:
«Parce metu, Cytherea: manent immota tuorum
fata tibi; cernes urbem et promissa Lavini
moenia sublimemque feres ad sidera caeli
260 magnanimum Aenean; neque me sententia vertit.
Hic tibi (fabor enim, quando haec te cura remordet,
longius et volvens fatorum arcana movebo)
bellum ingens geret Italia populosque feroces
contundet moresque viris et moenia ponet,
265 tertia dum Latio regnantem viderit aestas
ternaque transierint Rutulis hiberna subactis.
At puer Ascanius, quoi nunc cognomen Iulo
additur (Ilus erat, dum res stetit Ilia regno),
triginta magnos volvendis mensibus orbis
270 imperio explebit regnumque ab sede Lavini
transferet et Longam multa vi muniet Albam.
Hic iam ter centum totos regnabitur annos
gente sub Hectorea, donec regina sacerdos
Marte gravis geminam partu dabit Ilia prolem.
275 Inde lupae fulvo nutricis tegmine laetus
Romulus excipiet gentem et Mavortia condet
moenia Romanosque suo de nomine dicet.
His ego nec metas rerum nec tempora pono,
imperium sine fine dedi. Quin aspera Iuno,
280 quae mare nunc terrasque metu caelumque fatigat,
Consilia in melius refert mecumque fovebit
Romanos rerum dominos gentemque togatam.
Sic placitum. Veniet lustris labentibus aetas,
cum domus Assaraci Pthiam clarasque Mycenas
285 servitio premet ac victis dominabitur Argis.
Nascetur pulchra Troianus origine Caesar,
imperium Oceano, famam qui terminet astris,
Iulius, a magno demissum nomen Iulo.
Hunc tu olim caelo spoliis Orientis onustum
290 accipies secura; vocabitur hic quoque votis.
Aspera tum positis mitescent saecula bellis,
cana Fides et Vesta, Remo cum fratre Quirinus
iura dabunt; dirae ferro et compagibus artis
claudentur Belli portae; Furor impius intus
295 saeva sedens super arma et centum vinctus aènis
post tergum nodis fremet horridus ore cruento».
Haec ait et Maia genitum demittit ab alto,
ut terrae utque novae pateant Karthaginis arces
hospitio Teucris, ne fati nescia Dido
300 finibus arceret. Volat ille per aera magnum
remigio alarum ac Libyae citus adstitit oris.
Et iam iussa facit ponuntque ferocia Poeni
corda volente deo; in primis regina quietum
accipit in Teucros animum mentemque benignam.
305 At pius Aeneas per noctem plurima volvens,
ut primum lux alma data est, exire locosque
explorare novos, quas vento accesserit oras,
qui teneant (nam inculta videt), hominesne feraene,
quaerere constituit sociisque exacta referre.
310 Classem in convexo nemorum sub rupe cavata
arboribus clausam circum atque horrentibus umbris
occulit; ipse uno graditur comitatus
Achate, bina manu lato crispans hastilia ferro.
Cui mater media sese tulit obvia silva,
315 virginis os habitumque gerens et virginis arma,
Spartanae vel qualis equos Threissa fatigat
Harpalyce volucremque fuga praevertitur Hebrum.
Namque umeris de more habilem suspenderat arcum
venatrix dederatque comam diffundere ventis,
320 nuda genu nodoque sinus collecta fluentis.
Ac prior «Heus» inquit, «iuvenes, monstrate, mearum
vidistis si quam hic errantem forte sororum,
succinctam pharetra et maculosae tegmine lyncis,
aut spumantis apri cursum clamore prementem.»
325 Sic Venus, et Veneris contra sic filius orsus:
«Nulla tuarum audita mihi neque visa sororum,
o... quam te memorem, virgo? namque haut tibi
voltus mortalis, nec vox hominem sonat; o dea certe,
an Phoebi soror? an nympharum sanguinis una?
330 sis felix nostrumque leves quaecumque laborem
et quo sub caelo tandem, quibus orbis in oris
iactemur, doceas; ignari hominumque locorumque
erramus, vento huc vastis et fluctibus acti.
Multa tibi ante aras nostra cadet hostia dextra».
335 Tum Venus: «Haut equidem tali me dignor honore;
virginibus Tyriis mos est gestare pharetram
purpureoque alte suras vincire cothurno.
Punica regna vides, Tyrios et Agenoris urbem;
sed fines Libyci, genus intractabile bello.
340 Imperium Dido Tyria regit urbe profecta,
germanum fugiens. Longa est iniuria, longae
ambages; sed summa sequar fastigia rerum.
Huic coniunx Sychaeus erat, ditissimus agri
Phoenicum et magno miserae dilectus amore,
345 cui pater intactam dederat primisque iugarat
ominibus. Sed regna Tyri germanus habebat
Pygmalion, scelere ante alios immanior omnis.
Quos inter medius venit furor. Ille Sychaeum
impius ante aras atque auri caecus amore
350 clam ferro incautum superat, securus amorum
germanae; factumque diu celavit et aegram
multa malus simulans vana spe lusit amantem.
Ipsa sed in somnis inhumati venit imago
coniugis: ora modis attollens pallida miris
355 crudelis aras traiectaque pectora ferro
nudavit caecumque domus scelus omne retexit.
Tum celerare fugam patriaque excedere suadet
auxiliumque viae veteres tellure recludit
thensauros, ignotum argenti pondus et auri.
360 His commota fugam Dido sociosque parabat.
Conveniunt, quibus aut odium crudele tyranni
aut metus acer erat; navis, quae forte paratae,
corripiunt onerantque auro. Portantur avari
Pygmalionis opes pelago; dux femina facti.
365 Devenere locos, ubi nunc ingentia cernis
moenia surgentemque novae Karthaginis arcem,
mercatique solum, facti de nomine Byrsam,
taurino quantum possent circumdare tergo.
Sed vos qui tandem, quibus aut venistis ab oris,
370 quove tenetis iter?». Quaerenti talibus ille
suspirans imoque trahens a pectore vocem:
«O dea, si prima repetens ab origine pergam
et vacet annalis nostrorum audire laborum,
ante diem clauso componet Vesper Olympo.
375 Nos Troia antiqua, si vestras forte per auris
Troiae nomen iit, diversa per aequora vectos
forte sua Libycis tempestas appulit oris.
Sum pius Aeneas, raptos qui ex hoste penatis
classe veho mecum, fama super aethera notus.
380 Italiani quaero patriam et genus ab love magno.
Bis denis Phrygium conscendi navibus aequor
matre dea monstrante viam data fata secutus;
vix septem convolsae undis euroque supersunt.
Ipse ignotus egens Libyae deserta peragro,
385 Europa atque Asia pulsus». Nec plura querentem
passa Venus medio sic interfata dolore est:
«Quisquis es, haut, credo, invisus caelestibus auras
vitalis carpis, Tyriam qui adveneris urbem.
Perge modo atque hinc te reginae ad limina perfer.
390 Namque tibi reduces socios classemque relatam
nuntio et in tutum versis aquilonibus actam,
ni frustra augurium vani docuere parentes.
Aspice bis senos laetantis agmine cycnos,
aetheria quos lapsa plaga Iovis ales aperto
395 turbabat caelo; nunc terras ordine longo
aut capere aut captas iam despectare videntur:
ut reduces illi ludunt stridentibus alis
et coetu cinxere polum cantusque dedere,
haut aliter puppesque tuae pubesque tuorum
400 aut portum tenet aut pieno subit ostia velo.
Perge modo, et qua te ducit via, derige gressum».
Dixit et avertens rosea cervice refulsit
ambrosiaeque comae divinum vertice odorem
spiravere; pedes vestis defluxit ad imos,
405 et vera incessu patuit dea. Ille ubi matrem
adgnovit, tali fugientem est voce secutus:
«Quid natum totiens, crudelis tu quoque, falsis
ludis imaginibus? Cur dextrae iungere dextram
non datur ac veras audire et reddere voces?».
410 Talibus incusat gressumque ad moenia tendit.
At Venus obscuro gradientis aere saepsit
et multo nebulae circum dea fudit amictu,
cernere ne quis eos neu quis contingere posset
molirive moram aut veniendi poscere causas.
415 Ipsa Paphum; sublimis abit sedesque revisit
laeta suas, ubi templum illi centumque Sabaeo
ture calent arae sertisque recentibus halant.
Corripuere viam interea, qua semita monstrat.
Iamque ascendebant collem, qui plurimus urbi
420 imminet adversasque aspectat desuper arces.
Miratur molem Aeneas, magalia quondam,
miratur portas strepitumque et strata viarum.
Instant ardentes Tyrii; pars ducere muros
molirique arcem et manibus subvolvere saxa,
425 pars optare locum tecto et concludere sulco.
Iura magistratusque legunt sanctumque senatum.
Hic portus alii effodiunt, hic lata theatris
fundamenta petunt alii immanisque columnas
rupibus excidunt, scaenis decora alta futuris.
430 Qualis apes aestate nova per florea rura
exercet sub sole labor, cum gentis adultos
educunt fetus, aut cum liquentia mella
stipant et dulci distendunt nectare cellas
aut onera accipiunt venientum, aut agmine facto
435 ignavom fucos pecus a praesaepibus arcent;
fervit opus redolentque thymo fragrantia mella.
«O fortunati, quorum iam moenia surgunt!»
Aeneas ait et fastigia suspicit urbis.
Infert se saeptus nebula (mirabile dictu)
440 per medios miscetque viris neque cernitur ulli.
Lucus in urbe fuit media, laetissimus umbrae,
quo primum iactati undis et turbine Poeni
effodere loco signum, quod regia Iuno
monstrarat, caput acris equi: sic nam fore bello
445 egregiam et facilem victu per saecula gentem.
Hic templum Iunoni ingens Sidonia Dido
condebat, donis opulentum et numine divae,
aerea cui gradibus surgebant limina nixaeque
aere trabes, foribus cardo stridebat aènis.
450 Hoc primum in luco nova res oblata timorem
leniit, hic primum Aeneas sperare salutem
ausus et adflictis melius confidere rebus.
Namque sub ingenti lustrat dum singula tempio
reginam opperiens, dum, quae fortuna sit urbi,
455 artificumque manus inter se operumque laborem
miratur, videt Iliacas ex ordine pugnas
bellaque iam fama totum volgata per orbem,
Atridas Priamumque et saevom ambobus Achillem.
Constitit et lacrimans «Quis iam locus», inquit, «Achate,
460 quae regio in terris nostri non piena laboris?
En Priamus. Sunt hic edam sua praemia laudi;
sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt.
Solve metus; feret haec aliquam tibi fama salutem».
Sic ait atque animum pictura pascit inani
465 multa gemens largoque umectat flumine voltum.
Namque videbat, uti bellantes Pergama circum
hac fugerent Grai, premeret Troiana iuventus;
hac Phryges, instaret curru cristatus Achilles.
Nec procul hinc Rhesi niveis tentoria velis
470 adgnoscit lacrimans, primo quae prodita somno
Tydides multa vastabat caede cruentus,
ardentisque avertit equos in castra, prius quam
pabula gustassent Troiae Xanthumque bibissent.
Parte alia fugiens amissis Troilus armis,
475 infelix puer atque impar congressus Achilli,
fertur equis curruque haeret resupinus inani,
lora tenens tamen; huic cervixque comaeque trahuntur
per terram et versa pulvis inscribitur hasta.
Interea ad templum non aequae Palladis ibant
480 crinibus Iliades passis peplumque ferebant,
suppliciter tristes et tunsae pectora palmis:
diva solo fixos oculos aversa tenebat.
Ter circum Iliacos raptaverat Hectora muros
exanimumque auro corpus vendebat Achilles.
485 Tum vero ingentem gemitum dat pectore ab imo,
ut spolia, ut currus, utque ipsum corpus amici
tendentemque manus Priamum conspexit inermis.
Se quoque principibus permixtum adgnovit Achivis
Eoasque acies et nigri Memnonis arma.
490 Ducit Amazonidum lunatis agmina peltis
Penthesilea furens mediisque in milibus ardet,
aurea subnectens exsertae cingula mammae,
bellatrix, audetque viris concurrere virgo.
Haec dum Dardanio Aeneae miranda videntur,
495 dum stupet obtutuque haeret defixus in uno,
regina ad templum, forma pulcherrima Dido,
incessit magna iuvenum stipante caterva.
Qualis in Eurotae ripis aut per iuga Cynthi
exercet Diana choros, quam mille secutae
500 hinc atque hinc glomerantur Oreades, illa pharetram
fert umero gradiensque deas supereminet omnis
(Latonae tacitum pertemptant gaudia pectus):
talis erat Dido, talem se laeta ferebat
per medios instans operi regnisque futuris.
505 Tum foribus divae, media testudine templi,
saepta armis solioque alte subnixa resedit.
Iura dabat legesque viris operumque laborem
partibus aequabat iustis aut sorte trahebat:
cum subito Aeneas concursu accedere magno
510 Anthea Sergestumque videt fortemque Cloanthum
Teucrorumque alios, ater quos aequore turbo
dispulerat penitusque alias avexerat oras.
Obstipuit simul ipse, simul percussus Achates
laetitiaque metuque; avidi coniungere dextras
515 ardebant, sed res animos incognita turbat.
Dissimulant et nube cava speculantur amicti,
quae fortuna viris, classem quo litore linquant,
quid veniant: cunctis nam lecti navibus ibant
orantes veniam et templum clamore petebant.
520 Postquam introgressi et coram data copia fandi,
maximus Ilioneus placido sic pectore coepit:
«O regina, novam cui condere Iuppiter urbem
iustitiaque dedit gentis frenare superbas,
Troes te miseri, ventis maria omnia vecti,
525 oramus: prohibe infandos a navibus ignis.
Parce pio generi et propius res aspice nostras.
Non nos aut ferro Libycos populare penatis
venimus aut raptas ad litora vertere praedas;
non ea vis animo nec tanta superbia victis.
530 Est locus, Hesperiam Grai cognomine dicunt,
terra antiqua, potens armis atque ubere glaebae;
Oenotri coluere viri; nunc fama minores
Italiani dixisse ducis de nomine gentem:
hic cursus fuit,
535 cum subito adsurgens fluctu nimbosus Orion
in vada caeca tulit penitusque procacibus austris
perque undas superante salo perque invia saxa
dispulit: huc pauci vestris adnavimus oris.
Quod genus hoc hominum? quaeve hunc tam barbara morem
540 permittit patria? hospitio prohibemur harenae;
bella cient primaque vetant consistere terra.
Si genus humanum et mortalia temnitis arma,
at sperate deos memores fandi atque nefandi.
Rex erat Aeneas nobis, quo iustior alter
545 nec pietate fuit nec bello maior et armis.
Quem si fata virum servant, si vescitur aura
aetheria neque adhuc crudelibus occubat umbris,
non metus. Officio nec te certasse priorem
paeniteat; sunt et Siculis regionibus urbes
550 armaque Troianoque a sanguine clarus Acestes.
Quassatam ventis liceat subducere classem
et silvis aptare trabes et stringere remos,
si datur Italiani sociis et rege recepto
tendere, ut Italiani laeti Latiumque petamus;
555 sin absumpta salus et te, pater optume Teucrum,
pontus habet Libyae nec spes iam restat Iuli,
at freta Sicaniae saltem sedesque paratas,
unde huc advecti, regemque petamus Acesten».
Talibus Ilioneus; cuncti simul ore fremebant
560 Dardanidae.
Tum breviter Dido voltum demissa profatur:
«Solvite corde metum, Teucri, secludite curas.
Res dura et regni novitas me talia cogunt
moliri et late finis custode tueri.
565 Quis genus Aeneadum, quis Troiae nesciat urbem
virtutesque virosque aut tanti incendia belli?
Non obtunsa adeo gestamus pectora Poeni,
nec tam aversus equos Tyria Sol iungit ab urbe.
Seu vos Hesperiam magnam Saturniaque arva
570 sive Erycis finis regemque optatis Acesten,
auxilio tutos dimittam opibusque iuvabo.
Voltis et his mecum pariter considere regnis:
urbem quam statuo, vestra est; subducite navis;
Tros Tyriusque mihi nullo discrimine agetur.
575 Atque utinam rex ipse noto compulsus eodem
adforet Aeneas! equidem per litora certos
dimittam et Libyae lustrare extrema iubebo,
si quibus eiectus silvis aut urbibus errat».
His animum arrecti dictis et fortis Achates
580 et pater Aeneas iamdudum erumpere nubem
ardebant. Prior Aenean compellat Achates:
«Nate dea, quae nunc animo sententia surgit?
omnia tuta vides, classem sociosque receptos.
Unus abest, medio in fluctu quem vidimus ipsi
585 submersum; dictis respondent cetera matris».
Vix ea fatus erat, quom circumfusa repente
scindit se nubes et in aethera purgat apertum.
Restitit Aeneas claraque in luce refulsit
os umerosque deo similis; namque decoram
590 caesariem nato genetrix lumenque iuventae
purpureum et laetos oculis adflarat honores:
quale manus addunt ebori decus aut ubi flavo
argentum Pariusve lapis circumdatur auro.
Tum sic reginam adloquitur cunctisque repente
595 improvisus ait: «Coram, quem quaeritis, adsum
Troius Aeneas, Libycis ereptus ab undis.
O sola infandos Troiae miserata labores,
quae nos, reliquias Danaum, terraeque marisque
omnibus exhaustis iam casibus, omnium egenos
600 urbe domo socias, grates persolvere dignas
non opis est nostrae, Dido, nec quicquid ubique est
gentis Dardaniae, magnum quae sparsa per orbem.
Di tibi, si qua pios respectant numina, si quid
usquam iustitia est et mens sibi conscia recti,
605 praemia digna ferant. Quae te tam laeta tulerunt
saecula? qui tanti talem genuere parentes?
In freta dum fluvii current, dum montibus umbrae
lustrabunt convexa, polus dum sidera pascet,
semper honos nomenque tuum laudesque manebunt,
610 quae me cumque vocant terrae». Sic fatus amicum
Ilionea petit dextra laevaque Serestum,
post alios, fortemque Gyan fortemque Cloanthum.
Obstipuit primo aspectu Sidonia Dido,
casu deinde viri tanto, et sic ore locuta est:
615 «Quis te, nate dea, per tanta pericula casus
insequitur? quae vis immanibus applicat oris?
tune ille Aeneas, quem Dardanio Anchisae
alma Venus Phrygii genuit Simoentis ad undam?
Atque equidem Teucrum memini Sidona venire
620 finibus expulsum patriis, nova regna petentem
auxilio Beli; genitor tum Belus opimam
vastabat Cyprum et victor dicione tenebat.
Tempore iam ex ilio casus mihi cognitus urbis
Troianae nomenque tuum regesque Pelasgi.
625 Ipse hostis Teucros insigni laude ferebat
seque ortum antiqua Teucrorum a stirpe volebat.
Quare agite o tectis, iuvenes, succedite nostris.
Me quoque per multos similis fortuna labores
iactatam hac demum voluit consistere terra:
630 non ignara mali miseris succurrere disco».
Sic memorat; simul Aenean in regia ducit
tecta, simul divom templis indicit honorem.
Nec minus interea sociis ad litora mittit
viginti tauros, magnorum horrentia centum
635 terga suum, pinguis centum cum matribus agnos,
munera laetitiamque dii.
At domus interior regali splendida luxu
instruitur, mediisque parant convivia tectis:
arte laboratae vestes ostroque superbo,
640 ingens argentum mensis caelataque in auro
fortia facta patrum, series longissima rerum
per tot ducta viros antiquae ab origine gentis.
Aeneas (neque enim patrius consistere mentem
passus amor) rapidum ad navis praemittit Achaten,
645 Ascanio ferat haec ipsumque ad moenia ducat;
omnis in Ascanio cari stat cura parentis.
Munera praeterea Iliacis erepta ruinis
ferre iubet, pallam signis auroque rigentem
et circumtextum croceo velamen acantho,
650 ornatus Argivae Helenae, quos illa Mycenis,
Pergama cum peteret inconcessosque hymenaeos,
extulerat, matris Ledae mirabile donum;
praeterea sceptrum, Ilione quod gesserat olim,
maxima natarum Priami colloque monile
655 bacatum et duplicem gemmis auroque coronam.
Haec celerans iter ad navis tendebat Achates.
At Cytherea novas artes, nova pectore versat
Consilia, ut faciem mutatus et ora Cupido
prò dulci Ascanio veniat donisque furentem
660 incendat reginam atque ossibus implicet ignem.
Quippe domum timet ambiguam Tyriosque bilinguis;
urit atrox Iuno et sub noctem cura recursat.
Ergo his aligerum dictis adfatur Amorem:
«Gnate, meae vires, mea magna potentia solus,
665 gnate, patris summi qui tela Typhoia temnis,
ad te confugio et supplex tua numina posco.
Frater ut Aeneas pelago tuus omnia circum
litora iactetur odiis Iunonis acerbae,
nota tibi, et nostro doluisti saepe dolore.
670 Nunc Phoenissa tenet Dido blandisque moratur
vocibus; et vereor, quo se Iunonia vertant
hospitia; haut tanto cessabit cardine rerum.
Quocirca capere ante dolis et cingere fiamma
reginam meditor, ne quo se numine mutet,
675 sed magno Aeneae mecum teneatur amore.
Qua facere id possis, nostram nunc accipe mentem.
Regius accitu cari genitoris ad urbem
Sidoniam puer ire parat, mea maxima cura,
dona ferens pelago et flammis restantia Troiae;
680 hunc ego sopitum somno super alta Cythera
aut super Idalium sacrata sede recondam,
ne qua scire dolos mediusve occurrere possit.
Tu faciem illius noctem non amplius unam
falle dolo et notos pueri puer indue voltus,
685 ut, cum te gremio accipiet laetissima Dido
regalis inter mensas laticemque Lyaeum,
cum dabit amplexus atque oscula dulcia figet,
occultum inspires ignem fallasque veneno».
Paret Amor dictis carae genetricis et alas
690 exuit et gressu gaudens incedit Iuli.
At Venus Ascanio placidam per membra quietem
inrigat et fotum gremio dea tollit in altos
Idaliae lucos, ubi mollis amaracus illum
floribus et dulci adspirans complectitur umbra.
695 Iamque ibat dicto parens et dona Cupido
regia portabat Tyriis duce laetus Achate.
Cum venit, aulaeis iam se regina superbis
aurea composuit sponda mediamque locavit;
iam pater Aeneas et iam Troiana iuventus
700 conveniunt stratoque super discumbitur ostro.
Dant manibus famuli lymphas Cereremque canistris
expediunt tonsisque ferunt mantelia villis.
Quinquaginta intus famulae, quibus ordine longo
cura penum struere et flammis adolere penatis;
705 centum aliae totidemque pares aetate ministri,
qui dapibus mensas onerent et pocula ponant.
Nec non et Tyrii per limina laeta frequentes
convenere, toris iussi discumbere pictis.
Mirantur dona Aeneae, mirantur Iulum
710 flagrantisque dei voltus simulataque verba
pallamque et pictum croceo velamen acantho.
Praecipue infelix, pesti devota futurae,
expleri mentem nequit ardescitque tuendo
Phoenissa et pariter puero donisque movetur.
715 Ille ubi complexu Aeneae colloque pependit
et magnum falsi implevit genitoris amorem,
reginam petit. Haec oculis, haec pectore toto
haeret et interdum gremio fovet, inscia Dido,
insidat quantus miserae deus. At memor ille
720 matris Acidaliae paulatim abolere Sychaeum
incipit et vivo temptat praevertere amore
iam pridem resides animos desuetaque corda.
Postquam prima quies epulis mensaeque remotae,
crateras magnos statuunt et vina coronant.
725 It strepitus tectis vocemque per ampia volutant
atria; dependent lychni laquearibus aureis
incensi et noctem flammis funalia vincunt.
Hic regina gravem gemmis auroque poposcit
implevitque mero pateram, quam Belus et omnes
730 a Belo soliti; tum facta silentia tectis:
«Iuppiter (hospitibus nam te dare iura locuntur)
hunc laetum Tyriisque diem Troiaque profectis
esse velis nostrosque huius meminisse minores.
Adsit laetitiae Bacchus dator et bona Iuno;
735 et vos o coetum, Tyrii, celebrate faventes».
Dixit et in mensam laticum libavit honorem
primaque libato summo tenus attigit ore;
tum Bitiae dedit increpitans; ille impiger hausit
spumantem pateram et pieno se proluit auro;
740 post alii proceres. Cithara crinitus Iopas
personat aurata, docuit quem maximus Atlans.
Hic canit errantem lunam solisque labores,
unde hominum genus et pecudes, unde imber et ignes,
Arcturum pluviasque Hyadas geminosque Triones,
745 quid tantum Oceano properent se tinguere soles
hiberni vel quae tardis mora noctibus obstet.
Ingeminant plausu Tyrii Troesque secuntur.
Nec non et vario noctem sermone trahebat
infelix Dido longumque bibebat amorem,
750 multa super Priamo rogitans, super Hectore multa;
nunc quibus Aurorae venisset filius armis,
nunc quales Diomedis equi, nunc quantus Achilles.
«Immo age, et a prima, die, hospes, origine nobis
insidias» inquit «Danaum casusque tuorum
755 erroresque tuos; nam te iam septima portat
omnibus errantem terris et fluctibus aestas.»
Libro primo
[Quell’io che già sull’esile zampogna
sciolsi il mio canto e, uscito poi dai boschi,
piegai gli attigui campi all’ingordigia
dei contadini, impresa assai gradita
al mondo agreste, qui di un’aspra guerra]
Canto l’eroe che profugo da Troia
venne in Italia ai lidi di Lavinio,
che, sballottato per terra e per mare
dal volere divino e dalla rabbia
5 tenace di Giunone, in lotta ancora
molto soffrì, finché pose nel Lazio
la sua sede e i suoi dèi, donde la stirpe
latina, i padri Albani e l’alta Roma.
Dimmi, o Musa, il perché, da quale offesa
10 turbata la regina degli dèi
forzò l’eroe pietoso a tanti affanni.
Così potente è l’ira dei celesti?
La città di Cartagine, abitata
dai coloni di Tiro, minacciava
15 da lontano l’Italia e il biondo Tevere,
ricca di mezzi e molto bellicosa;
Giunone l’adorava più di Samo:
lì teneva il suo carro e lì sognava
di porre il regno più grande del mondo.
20 Ma sapeva che un popolo, cresciuto
dal sangue dei Troiani e valoroso,
avrebbe infranto le rocche di Tiro
e indotto in schiavitù l’Africa intera.
Così voleva il Fato. E lei, la figlia
25 di Saturno, temendo questo e ancora
memore della guerra da lei mossa
contro i Troiani per gli amati Argivi
(l’odio e il dolore erano ancora vivi
nel cuore suo: la sua bellezza offesa
30 dal giudizio di Pàride, gli onori
di Ganimede e la stirpe nemica),
respingeva dal Lazio i pochi Teucri
scampati ai Greci ed al feroce Achille;
e da molti anni ormai, spinti dai fati,
35 quelli erravano intorno a tutti i mari.
Tanto costò la nascita di Roma!
Al largo già della Sicilia, date
le vele ai venti, andavano tranquilli,
quando Giunone: «Ed io dovrò piegarmi?
40 Raggiungerà l’Italia il re troiano?
M’è contro il Fato: Pallade distrusse
la flotta greca e l’annegò nel fondo
per colpa d’uno solo, Aiace Oilèo,
scagliò dal cielo il fulmine di Giove,
45 squassò le navi, il mare arse coi venti,
e lui, che folgorato già spirava,
spinse contro uno scoglio a sfracellarsi.
Ed io, regina degli dèi, sorella
e consorte di Giove, sono in guerra
50 col mondo intero. E chi mi adora, ormai?
Chi porta doni al mio superbo altare?».
Col cuore acceso da questi pensieri,
giunse in Eolia, terra di uragani
e d’austri furibondi. In una vasta
55 grotta il re Eolo tiene imprigionati
i riottosi venti e le tempeste,
che premono ai cancelli, strepitando
tanto che ne rimbomba la montagna.
E lui, seduto in cima, col suo scettro
60 ne doma e tempra i ribollenti sdegni:
se non facesse ciò, quelli, correndo,
trarrebbero con sé la terra, i mari
e il cielo stesso in un gorgo funesto.
Ma il Padre onnipotente li rinchiuse
65 in antri tenebrosi, ai quali impose
moli di monti, e diede loro un re
che con legge sicura l’imbrigliasse
a suo comando o gli sciogliesse il freno.
A lui, dunque, pregandolo, Giunone:
70 «Eolo», disse, «a cui Giove, signore
degli dèi e degli uomini, concesse
di calmare le acque e di turbarle
con i venti, una gente a me nemica
naviga il mar Tirreno, conducendo
75 Ilio in Italia e i vinti suoi Penati.
Voglio che tu scateni una tempesta
che ne squassi le navi, le rovesci
e le sommerga, o che disperda almeno
i loro corpi. Quattordici ninfe
80 mi fanno cerchio, di leggiadro aspetto,
e la più bella è Deiopèa: costei,
se tu mi ascolti, ti prometto in cambio
quale tua sposa, che con te felice
viva e ti dia meravigliosi figli».
85 Ed Eolo a lei: «Regina, tu comanda
ed io ti servirò: questo mio regno
lo devo a te, tu mi rendi propizio
il grande Giove, tu mi fai sedere
alle mense celesti e per te sono
90 signore di uragani e di tempeste».
Così dicendo, rovesciò lo scettro
e con la punta al cavo monte il fianco
squarciò d’un colpo, al che subito i venti
si scagliarono fuori in fitta schiera,
95 spazzolando la terra come un turbine;
giunti sul mare, Noto, Africo ed Euro
lo sconvolsero, giù, fin nel profondo,
sì che i marosi invasero le spiagge.
S’alzano grida, cigolano i legni,
100 una compatta nuvolaglia oscura
il cielo azzurro ed una cupa notte
piomba sul mare; la volta celeste
rintrona tutta e ripetuti lampi
vi guizzano: dovunque è orrore e morte.
105 Un brivido percorre Enea, che, alzate
le mani al cielo: «O fortunato», esclama,
«tre, quattro volte, chi sotto le mura
dell’alta Troia, al cospetto dei padri,
ebbe la morte! Oh, perché mai non caddi
110 per mano del fortissimo Tidìde,
dove col grande Sarpedònte giace,
per i colpi di Achille, Ettore, e dove
il fiume Simoènta nei suoi gorghi
trascina tanti corpi di guerrieri?».
115 Così gridava ed una forte raffica
di Aquilone, stridendo, ecco gli squarcia
la vela, alzando al cielo un’onda. I remi
si spezzano, la prua si gira e il fianco
scopre ai marosi, una montagna d’acqua
120 crolla dal cielo, e chi va in cima all’onda,
chi, tra i flutti che s’aprono, sgomento,
vede la sabbia smuoversi nel fondo.
Tre navi afferra Noto e le fracassa
contro gli scogli (gl’Itali li chiamano
125 Are, affioranti come un dorso enorme
a pelo d’acqua), tre, dall’alto, Euro
ne spinge sulle secche (oh, vista orrenda!),
le incaglia nei fondali e le sprofonda
nella rena; una ancora, che trasporta
130 i Liei e il fido Oronte, un’onda immensa
investe a poppa, sbalza il timoniere
che a testa in giù precipita, tre volte
fa girare lo scafo su se stesso,
finché un vorace vortice l’inghiotte.
135 Nel vasto gorgo nuotano qua e là
naufraghi ed armi, tavole di legno
e i tesori di Troia. Già le navi
d’Acàte, dTlionèo, del vecchio Alète
e d’Abànte soggiacciono alla furia
140 della tempesta e imbarcano torrenti
d’acqua dai giunti e dalle falle aperte.
Intanto, udito quel fracasso e visto
rimescolarsi e ribollire il mare
sin nei profondi abissi, il dio Nettuno,
145 gravemente turbato, spinse il capo
fuori dall’onde e scorgendo la flotta
di Enea dispersa per l’ampia distesa
e i Troiani sommersi dai marosi
e dalla pioggia, subito comprese
150 che in quel disastro c’era lo zampino
di Giunone, per cui, chiamati a sé
Zefiro ed Euro: «Quale ardire è questo?»,
gridò sdegnato. «A tanto vi sospinge
l’essere figli di un Titano? Il cielo
155 e la terra così mi sconvolgete,
sollevando montagne d’acqua, senza
il mio consenso? Io vi farò...Ma prima
calmiamo i flutti, poi mi pagherete
con ben altri castighi un tale oltraggio.
160 Via dal mio sguardo, e dite al vostro re
che a me fu dato e non a lui l’impero
del mare e l’implacabile tridente,
a lui le rupi e le caverne: quella
è la sua reggia e lì governi, Eolo,
165 nella chiusa prigione dei suoi venti».
Così brontola e, in meno che non dica,
la scompigliata e gonfia superficie
delle acque si placa, il nero ammasso
delle nubi dilegua e torna il sole.
170 Tritóne intanto e la ninfa Cimòtoe
disincagliano a forza le tre navi
dalla dura scogliera, le altre tre,
sepolte dalla sabbia, le solleva
col tridente egli stesso, dischiudendo
175 le vaste secche, e sul suo carro a pelo
d’acqua volando con le ruote appiana
l’ampia distesa. Come in una folla,
se scoppia una rivolta, il vile volgo
s’infiamma e scaglia sassi ed aste e fiaccole
180 e dispensa le armi a destra e a manca,
ma poi, se vede un personaggio, degno
di rispetto per qualche sua virtù,
subito fa silenzio e, circondandolo,
tende le orecchie, e lui, parlando, frena
185 quelle menti sconvolte e placa gli animi,
così tutto cessò nel vasto mare
quel gran fracasso, dopo che, portato
lo sguardo intorno, il dio, spiccato il volo
nel cielo sgombro con l’agile carro,
190 lanciò i cavalli, allentando le briglie.
Stanchi, i Troiani volgono la rotta
alle vicine spiagge della Libia.
Lungo la costa c’è un’insenatura
che un’isola protegge, offrendo il fianco
195 ai flutti che si frangono dall’alto
o s’infiltrano nelle fenditure.
Ai lati nude rocce con due scogli
enormi, sotto cui, liscio e tranquillo,
si stende il mare; sopra, sullo sfondo,
200 un nero bosco d’ombre cupe e fredde.
Di fronte s’apre, nella rupe, un antro
con acque dolci; incisi nella pietra,
tutt’intorno, sedili: un luogo, insomma,
degno di ninfe. Qui non c’è bisogno
205 di alcun legame per le imbarcazioni,
né d’ancora dal morso adunco. Qui,
con sette navi, le sole rimaste,
s’addentra Enea; assetati di terra,
sbarcano i Teucri e zuppi di salsedine
210 si distendono, esausti, sulla riva.
Acàte intanto, strofinando un sasso,
accende il fuoco sopra delle foglie
e lo ravviva, mentre gli altri portano,
con gli attrezzi di Cerere, il frumento
215 danneggiato, lo pongono sul fuoco
e lo tritano quindi sulla pietra.
Enea, salito sopra un’alta rupe,
esplora il mare, cercando se mai,
sballottato dal vento, scorga Anteo
220 e le frigie biremi, o Capi, o in cima
alla poppa l’insegna di Caìco.
Ma di navi nessuna. E però vede
sulla spiaggia tre cervi vagabondi
e dietro loro una nutrita schiera
225 che va brucando lungo la vallata.
Si ferma, afferra l’arco e alcune frecce
che il suo fedele Acàte gli consegna,
abbatte i tre, che incedono superbi
col capo eretto e le ramose corna,
230 quindi bersaglia tutto quanto il gregge,
inseguendolo in fuga in una macchia,
e non s’arresta se non quando ha steso
al suolo sette cervi, pari al numero
delle sue navi; poi ritorna al porto
235 e divide la preda fra i compagni,
dispensa il vino che gli ha dato in dono
il buon Aceste prima di partire
dalla Sicilia, e con calde parole
consola tutti: «O miei fedeli», dice,
240 «anche se tanti ne abbiamo passati,
gli dèi porranno fine ai nostri mali.
Avete vinto la rabbia di Scilla,
sfiorato i neri e risonanti scogli,
sperimentato gli antri dei Ciclopi:
245 rincuoratevi, adesso, allontanate
ogni timore; verrà forse un giorno
in cui vi sarà dolce ricordare.
Per diverse vicende e tanti rischi
tendiamo al Lazio: lì ci assegna il Fato
250 una sede sicura; un’altra Troia
lì sorgerà. Preservatevi, dunque,
ad un destino di prosperità».
Così dice, a parole, e, mentre finge
la speranza nel volto, un grande cruccio
255 gli stringe il cuore. Tutti quanti, allora,
s’accostano alla preda, e chi ne trae
dalla pelle le carni e mette a nudo
le viscere, chi taglia i pezzi e, ancora
palpitanti, l’infila negli spiedi,
260 chi accende il fuoco e prepara i tegami;
finché, stesi sull’erba, si rimpinzano
di quel cibo selvatico e di vino.
Poi, fatti sazi e levate le mense,
rivolgono il pensiero e la parola
265 ai compagni perduti, ancora incerti,
fra il dubbio e la speranza, se doverli
credere vivi o se, già morti, a nulla
serva a quel punto il richiamarli. Enea,
più degli altri, compiange ora la sorte
270 del rude Oronte, ora d’Amico ed ora
di Già, di Lieo e del forte Cloànto.
Intanto Giove andava contemplando
dall’alto il mare solcato da navi,
le spiagge, il mondo con tutte le genti,
275 quando il suo sguardo si posò sui regni
di Libia. Allora Venere, vedendo
che l’agitava il suo stesso pensiero,
piena d’angoscia, con gli occhi lucenti
e bagnati di lacrime, gli disse:
280 «Tu che regni sugli uomini e gli dèi
e che atterrisci il mondo coi tuoi fulmini,
che colpa, dimmi, ha mai commesso Enea
contro di te, quale i Troiani, a cui,
fra tanti lutti, a causa dell’Italia
285 ora è precluso l’universo intero?
Tu m’hai promesso che da Teucro un giorno
sarebbero sbocciati quei Romani
dominatori per terra e per mare
sulle altre genti: l’hai giurato. E allora,
290 perché muti pensiero? Dopo il triste
crollo di Troia già mi consolavo,
contrapponendo a quel crudo destino
una sorte benigna, e invece vedo
che la stessa sfortuna ora perseguita
295 quella gente infelice. Quale fine,
dunque, le dai? Antenore, sfuggito
lui pure ai Greci, potè facilmente
penetrare in Illiria, superare
la Dalmazia e le fonti del Timàvo,
300 e dove il fiume con grande rimbombo
della montagna va per nove bocche
dilagando nel mare e, mare fatto,
inonda i campi coi flutti sonanti,
fondò Padova e lì fissò la sede
305 dei Troiani, a cui diede un nuovo nome,
e, deposte le armi, vive in pace.
E noi, tuo sangue, noi, che tu destini
alla gloria del cielo, ahimè!, perdute
le nostre navi, per la rabbia e l’ira
310 di una sola, traditi, abbandonati,
siamo respinti dall’Italia! È questo
il premio alla pietà? Questo il mio regno?».
Sorrise allora il Padre degli dèi
e degli uomini, quindi, con quel volto
315 che rasserena il cielo e le tempeste,
baciò la figlia e disse: «Non temere,
Citerèa, no, non mutano le sorti
della tua gente, tu vedrai le mura
di Lavinio e porrai, qui, fra le stelle,
320 il magnanimo Enea: la mia sentenza
non cambierà. Ma voglio dirti ancora,
per consolarti e aprirti i più nascosti
segreti del destino, che tuo figlio
combatterà in Italia un’aspra guerra,
325 domerà fiere genti, darà leggi
al suo popolo e mura e per tre anni
reggerà il Lazio, sgominati i Rùtuli.
Ma il figlio Ascanio, a cui ora si aggiunge .
il soprannome Iulo (ed Ilo fu
330 finché Ilio durò), per ben trent’anni,
nel regolare volgere dei mesi,
resterà sul suo trono e da Lavinio
trasferirà la sede in Alba Longa.
Qui durerà per trecent’anni il regno
335 sotto i Troiani, sino a quando Ilia,
una vestale, non partorirà,
messa incinta da Marte, due gemelli.
Fiero del fulvo manto della lupa
che lo nutrì, di questa gente Romolo
340 sarà l’erede, innalzerà le mura
della città di Roma e dal suo nome
nasceranno i Romani. A questi un limite
di potere non pongo, né di tempo:
assegno loro un regno senza fine.
345 E la dura Giunone, che ora turba
la terra, il mare e il cielo, volgerà
in meglio i suoi propositi e con me
favorirà quel popolo, padrone
del mondo in armi e in toga. Così voglio.
350 E verrà tempo in cui Micene, Ftìa
e tutti i Greci saranno soggetti
alla stirpe di Assàraco. Troiano,
sangue di Iulo, della Giulia gente,
Cesare nascerà, con cui l’impero
355 avrà l’Oceano per confine, e gloria
gliene verrà sino alle stelle. Questi,
carico delle spoglie dell’Oriente,
accoglierai, rassicurata, in cielo,
e avrà posto anche lui nelle preghiere.
360 Messe al bando le guerre, da violenti
i tempi allora si faranno miti,
e la candida Fede insieme a Vesta
e Quirino con Remo suo fratello
detteranno le leggi, le funeste
365 porte di guerra saranno serrate
con dure sbarre e all’interno, seduto
sulle sue ferree armi, incatenato
con cento nodi e più dietro le spalle,
l’empio Furore fremerà, tremendo,
370 con la bava alla bocca insanguinata».
Detto ciò, manda subito dal cielo
il figliuolo di Maia, che ai Troiani
spiani la strada, sì che quelle terre
e le novelle mura di Cartagine
375 gli siano amiche, che Didone, ignara
del volere del Fato, non li cacci
dai suoi confini. Il dio, sbattendo l’ali,
corre volando per gli aerei spazi
e atterra infine ai lidi della Libia.
380 Presto, eseguiti gli ordini, secondo
il suo volere i Punici depongono
ogni asprezza e per prima la regina
sente nascere in sé verso i Troiani
sentimenti di pace e d’amicizia.
385 Sul far dell’alba Enea, che nella notte
agitava fra sé molti pensieri,
delibera di andare ad esplorare
quei luoghi sconosciuti e d’indagare
in che paese l’abbia spinto il vento
390 e, vedendolo incolto, se vi siano
uomini o fiere, per poi riferire
ai suoi compagni. Nasconde le navi
sotto una cava rupe, in un anfratto
cinto da un bosco di gelide ombre,
395 e, seguito da Acàte, s’incammina:
portano entrambi due aste di ferro
con punta larga. Ed ecco che nel folto
del bosco si fa incontro a lui la madre,
simile in volto e in veste a una fanciulla
400 spartana in armi, o meglio quale Arpàlice
che in Tracia sprona i suoi cavalli e in corsa
batte l’Ebro veloce. Ha sulle spalle,
come vuole l’usanza, un duttile arco
da cacciatrice ed i capelli al vento,
405 nudi i ginocchi per un nodo stretto
che raccoglie le pieghe della gonna.
«Giovani», esclama, «ditemi se mai
vedeste alcuna delle mie sorelle
con la faretra al fianco, rivestita
410 della pelle screziata d’una lince,
o che, gridando, tallonava in corsa
un bavoso e volubile cinghiale.»
Così Venere, e a lei di contro il figlio:
«Non ho né visto né sentito alcuna
415 delle sorelle tue», risponde, «o... come
devo chiamarti, vergine? Non hai
volto mortale e voce umana: sei
forse una dea? La sorella di Febo?
Una ninfa? Chiunque a noi tu giunga,
420 siaci propizia, allevia i nostri affanni,
ti prego, dicci sotto quale cielo,
su quali terre siamo capitati.
Sbattuti qui dal vento e dalla cieca
furia del mare, non sappiamo nulla
425 di questo luogo né della sua gente.
Se ce ne dai notizia, immoleremo
molte vittime a te presso gli altari».
«Io non mi arrogo, no, celesti onori»,
gli risponde la dea: «questo costume
430 di portare il turcasso e di annodare
sul coturno purpureo la veste
è proprio delle vergini di Tiro.
Regno punico è questo, Tiri sono
gli abitanti e di Agenore è la rocca,
435 ma il paese è la Libia, una nazione
imbattibile in guerra. La regina
è Didone di Tiro, che ha lasciato
la sua città per sfuggire alle insidie
del fratello. È una storia complicata,
440 lunga e piena d’intrighi e di violenze.
Te la racconto in sintesi. Suo sposo
era Sichèo, il più ricco signore
di terre tra i Fenici e molto amato
da lei, che il padre, ancora giovinetta,
445 gli aveva dato in prime nozze. Tiro
era sotto il fratello Pigmalione,
malvagio re quanto altri mai. Costui,
che odiava, ricambiato, la sorella,
per sete d’oro uccise a tradimento
450 Sichèo presso l’altare, senz’alcuna
pietà per la sua sposa innamorata,
a cui nascose il crimine, illudendola
con vari inganni e inutili speranze.
Ma in sogno a lei si presentò il fantasma
455 del marito insepolto che, turbato,
le mostrò la ferita in mezzo al petto,
l’altare insanguinato e l’empia trama
del fratello, spingendola a fuggire,
a lasciare la patria, e a questo scopo
460 le rivelò, nascosta sotto terra,
una gran quantità d’oro e d’argento.
Scossa, Didone preparò la fuga
ed i compagni, e ne raccolse molti,
o perché timorosi o perché in odio
465 allo spietato re. Così, rubate
alcune navi e caricato l’oro,
se ne andarono via segretamente,
portandosi con sé tutti gli averi
del crudo Pigmalione: era una donna
470 il loro capo! Approdarono qui,
in questi luoghi, dove tu vedrai
le mura immense e la rocca solenne
della nuova città, chiamata Birsa
dalla pelle di un toro che, tagliata
475 in lunghe strisce, definì lo spazio
in cui doveva sorgere. Ma voi
chi siete, dunque? Da dove venite?
E dove andate?» Allora Enea, traendo
dal profondo del petto un gran sospiro:
480 «O dea, se io dovessi raccontarti,
e tu ascoltare, sino dall’inizio
la nostra storia travagliata e triste,
non la concluderei prima che Vespero,
chiuso l’Olimpo, ponga fine al giorno.
485 Noi veniamo da Troia (se il suo nome
mai vi giunse alle orecchie): per diversi
mari ci ha spinto qui, su queste spiagge,
una tempesta. Io sono Enea, quel pio
noto sino alle stelle, e con me porto,
490 scampati ai Greci, i miei Penati. Cerco
l’Italia, la mia patria, e gli avi miei
nati dal grande Giove. Dalla Frigia
con venti navi mi misi per mare,
seguendo il Fato e la stella materna.
495 Sette me ne rimangono, guastate
dai marosi e dal vento. Forestiero,
senza mezzi, respinto dall’Europa
e dall’Asia, ramingo ora attraverso
i deserti di Libia». Non volendo
500 che il figlio accresca ancora le sue pene,
Venere l’interrompe e lo conforta:
«Chiunque sia, tu non sei certo in odio
agli dèi, se respiri e sei qui giunto
alla città dei Tiri. Ora prosegui
505 e va’ dalla regina. Io ti confermo
che i tuoi compagni sono salvi e, spinte
da benevoli venti, le tue navi
sono al sicuro, se ben m’insegnarono
gli auspici i genitori. Vedi là
510 dodici cigni in festa, che poc’anzi
nel cielo aperto, piombando dall’alto,
un’aquila atterriva – il fido uccello
di Giove – ed ora in una lunga fila
vanno cercando un luogo in cui posarsi,
515 o l’hanno scelto e lo stanno osservando.
Come quelli, tornati, si dilettano
allo stridore delle penne e cantano,
cingendo in cerchio la volta celeste,
così coi tuoi compagni le tue navi
520 o sono giunte in porto o stanno entrando
con le vele spiegate. Ed ora va’:
dove porta la via drizza il tuo passo».
Così disse e voltandosi scoperse
la rosea nuca rilucente, il capo
525 spirò dall’alto un divino profumo
d’ambrosia e, disciogliendosi, la veste
le fluì sino ai piedi: allora parve
veramente una dea nel portamento.
Enea la riconobbe ed inseguendo
530 lei che fuggiva: «Oh, perché mai, crudele»,
esclamò, «così sempre mi deludi
con bugiarde apparenze e non m’è dato
abbracciarti, parlarti ed ascoltare
parole vere?». E nel rimproverarla
535 s’incamminava verso la città.
Ma Venere, prudente, ad evitare
che qualcuno li veda o li trattenga,
chiedendogli chi sono e dove vanno,
li avvolge entrambi in una fitta nebbia.
540 Poi se ne vola a Pafo, a rivedere
la sua sede, il suo tempio e i cento altari
fumosi e caldi d’incenso sabèo
e profumati di fresche ghirlande.
I due frattanto accelerano il passo
545 lungo un sentiero e salgono sul colle
che sovrasta ed abbraccia la città
e ne fronteggia e domina le torri.
Enea guarda stupito la gran mole
degli edifici, dove un tempo c’erano
550 solo capanne, contempla le porte,
le strade rumorose e i Tiri intenti
al lavoro, e chi va tracciando muri
o innalzando la rocca, e chi sospinge
enormi pietre con le braccia o cerca
555 un luogo adatto alla sua casa, oppure
lo cinge con un solco. E c’è chi innalza
i tribunali e il nobile senato,
chi scava il porto o va delimitando
le vaste fondamenta dei teatri
560 e chi stacca colonne gigantesche
dalle rupi, mirabile elemento
decorativo alle scene future:
come le api che nei campi in fiore,
sopraggiunta l’estate, sotto il sole
565 attendono al lavoro, e quali guidano
fuori dall’arnie i propri figli e quali
vanno stipando il luccicante miele
– nettare dolce – nelle varie celle,
o vanno incontro alle loro compagne
570 per rilevarne i pesi, o in fitta schiera
scacciano