Dopo il crepuscolo
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Grace Hastings lavora a tempo pieno in un ristorante del Texas, Stati Uniti. La sua vita segue il corso normale: i guasti al riscaldamento, il cellulare che non funziona, ritardi nel saldare l'affitto ogni mese e un ingente prestito universitario da pagare. Tutto cambia improvvisamente quando incontra sul suo cammino James Stratton, l'uomo più rinomato del mercato immobiliare di Houston. Le giornate del bell'imprenditore si snodano tra il godersi splendide donne, viaggiare per il mondo e firmare assegni esorbitanti. Quando le strade di Grace e James si incrociano, si accenderanno fiamme difficili da spegnere, insieme a un sentimento a cui non vogliono dare un nome e davanti al quale rifiuteranno di piegarsi.
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Anteprima del libro
Dopo il crepuscolo - Kristel Ralston
Alla mia cara Sookie, la migliore shih-tzu del mondo, che mi fa compagnia ogni mattina, mentre scrivo e do vita ai miei personaggi.
INDICE
CAPITOLO 1
CAPITOLO 2
CAPITOLO 3
CAPITOLO 4
CAPITOLO 5
CAPITOLO 6
CAPITOLO 7
CAPITOLO 8
CAPITOLO 9
CAPITOLO 10
CAPITOLO 11
CAPITOLO 12
CAPITOLO 13
CAPITOLO 14
CAPITOLO 15
SULL’AUTRICE
CAPITOLO 1
––––––––
I piedi le dolevano terribilmente, e gli occhi le si chiudevano per il sonno. La sua vicina sofferente di artrite, Rose Hogan, le aveva chiesto di portarle a spasso il cane alle sei di mattina. Non aveva potuto rifiutare. Era grazie a Rose se ancora non la buttavano fuori dall’edificio dove viveva, per insolvenza. Si sentiva in colpa al pensiero che la buona signora Hogan le pagasse l’affitto, ma quella donna adorabile le diceva sempre che poteva restituirle il denaro appena possibile e che non aveva fretta. Essendo orfana, Rose era la persona che più si avvicinava a un familiare, e, per questo, Grace le voleva molto bene.
Adesso, in piedi nella cucina dello Chef Bertinni – un italiano insopportabile –, Grace faceva di tutto per non sbagliare a portare le ordinazioni a un tavolo o all’altro. La cosa più difficile era tollerare i raffinati clienti che ordinavano piatti che un anno prima, quando aveva iniziato a lavorare al Le Gourmet
, le risultavano sconosciuti. Durante il periodo di lavoro al ristorante, aveva imparato un po’ di italiano, e sapeva servire sorridendo un piatto di pesto, carbonara, risotto, ma quando i clienti volevano degli agnolotti del plin, o carciofi alla giudia
, si indignava. «Non potrebbero ordinare qualcosa di più semplice, questi snob?»
DaMarco, il locale in cui lavorava con l’arrogante Bertinni, era uno dei ristoranti più cari ed esclusivi situati sulla Westheimer Road di Houston, Texas. Il salario non era male, e veniva integrato dalle generose mance che andavano direttamente a pagare il prestito universitario. Data la quantità di clienti che venivano ad assaggiare la cucina di quel presuntuoso di Bertinni, lei iniziò ad imparare rapidamente chi era chi: imprenditori, giornalisti, alberghieri, politici, magnati, sceicchi arabi inclusi. E, ovviamente, aveva scoperto anche quali erano le loro mogli e quali le amanti.
Quel giorno in particolare, sentiva che tutto andava storto. La gonna bianca dell’uniforme era stirata a metà, perché non aveva la corrente. «Un’altra delle sue dimenticanze!» La camicia nera era macchiata di salsa su un lato, quasi impercettibile. Ma se lo notava lei, era sufficiente. Aveva perso l’autobus, perché era arrivata con dieci minuti di ritardo alla stazione, in quanto aveva riportato il cane a Rose, ma, dopo la passeggiata mattutina, era anche rimasta col cagnolino fino quasi alle nove, per cui era dovuta uscire di casa in tutta fretta. Come se non bastasse, le scarpe nere col tacco che portava in quel momento la stavano uccidendo. Poteva giurare che, ad ogni passo, vedeva le stelle.
Aveva bisogno di un bel massaggio o di vacanze pagate. Sorrise davanti a quella prospettiva. Anche se non se lo poteva permettere, sognare era gratis. Almeno, nessuno poteva contestarle la quantità di tempo che investiva tentando di vedere le cose in un modo meno pessimista o tragico.
Da quando era uscita dall’università non aveva potuto esercitare come economista, che era il titolo professionale che era riuscita a guadagnarsi con tanti sforzi. Non appena messo piede fuori dall’università, le era toccato iniziare a lavorare per pagare il prestito universitario.
Inoltre, la crisi non permetteva di trovare lavoro, e lei non voleva rimanere per strada; così, le opzioni erano state di accettare di lavorare al DaMarco – che non era nemmeno un ristorante qualsiasi – o finire in giudizio per inottemperanza del contratto con la banca. E lei dava abbastanza valore alla sua libertà e ai pochi risparmi che aveva sul suo conto corrente.
―Hai sentito, Hastings?―le domandò Pietro Bertinni, con il veleno negli occhi. Che, tra l’altro, erano color ossidiana. Intimidatori.
―Sì―rispose automaticamente, quando in realtà nemmeno si era accorta che le aveva rivolto la parola. Se rispondeva di no, avrebbe ricevuto un’altra ramanzina sulla responsabilità e l’impegno e blablabla. Non aveva voglia di aggiungere questa seccatura alla sua giornata. Voleva solo finire quell’ultima ora e andarsene a casa e massaggiarsi i suoi poveri piedini.
―Molto bene. Adesso, mostra il tuo sorriso migliore, perché dal tavolo otto dipende se domani avremo una bella foto sul giornale e un commento lusinghiero.
―Non preoccuparti, Pietro!
—Chef Bertinni— corresse, con tutta la tracotanza di un proprietario di ristorante da tre stelle Michelin, e una lunga lista di riconoscimenti professionali.
―Chef Bertinni— ripeté, imitando il tono di Pietro.
—Vai, vai— le fece dei gesti con la mano —e non dimenticare il vino rosso.
—Hanno già ordinato?— domandò incredula. «Perché mandava lei, se avevano ordinato a un altro cameriere? Non le avrebbero dato la mancia».
—Non hanno bisogno di ordinare, ragazza, io so cosa ordina sempre quel signore. Mi pagano anche per conoscere i gusti dei miei clienti più esclusivi, senza doverli scomodare con domande stupide.
Lei era lì da sei mesi. E non ricordava di aver visto prima l’uomo che notò, una volta uscita dalla cucina congestionata. Avanzando con la massima efficienza possibile, con due coppe di vino, degli antipasti di carpaccio di branzino, pinoli e foie gras, e un prosciutto san daniele, crostini con marmellata di fichi e uno sbadiglio che tentò di mascherare, guardò fisso quell’uomo. «Decisamente, questo viso è nuovo». O forse aveva cambiato tavolo? Di solito, i clienti abituali si sedevano allo stesso posto. «Dovevo prestare più attenzione a Bertinni», si disse, quando arrivò a destinazione.
―Buona sera, mi chiamo Grace ed è un piacere servirvi. I vostri antipasti.―Li servì, evitando di guardare la bionda, che sembrava fatta in 3-D, da quanto era bella. Né si fissò troppo sul suo accompagnatore. ―E i vostri calici di vino― aggiunse con cortesia. Posò con cura i calici davanti ai rispettivi coperti.
Quando sollevò il viso per sorridere loro, e poi svignarsela finché Bertinni non avesse preparato i secondi piatti, sentì l’aria bloccarsi in qualche punto della gola. L’uomo che aveva di fronte era bello da mozzare il fiato e trasudava mascolinità, ma, soprattutto, potere. «Chi sarà?»
―Per prima cosa, cara, non abbiamo chiesto il tuo nome― dichiarò con disdegno la bionda, di botto, impedendole così di allontanarsi come aveva pianificato. ―La servitù non si presenta ai clienti, è di pessimo gusto―. Grace sentì venir meno il coraggio, quando la bionda la guardò, con occhi da gazzella e un gesto sprezzante, dal basso verso l’alto, mentre parlava. ―Credo che dovremo parlarne con Giulio, perché questo tipo di cose non possono accadere in un ristorante d’élite.
Grace contò mentalmente fino a tre. «È un cliente. Pensa alla mancia».
―Mi dispiace, signora...
—Signorina!— la corresse indignata.
«Come se lei avesse dovuto conoscere il suo stato civile. Non l’aveva mai vista in vita sua», si lamentò Grace dentro di sé, tuttavia decise di mantenere il buon umore, che lottava per sfuggirsene da un momento all’altro.
―Signorina...— rettificò.
—Lasciala stare, Georgette— intervenne la voce cupa e sensuale dell’accompagnatore, che fino a quel momento era rimasto un semplice spettatore. —Non si preoccupi, Grace—. La bionda lo perforò con lo sguardo, ma lui non ci fece caso e continuò. —Georgie è sempre un po’... raffinata con l’etichetta. Dato che è stata così gentile da presentarsi, non posso che ricambiare. Sono James Stratton— affermò, e a Grace quasi si piegarono le ginocchia, quando lui accompagnò la frase con un sorriso. «Di quelli al cui fascino, sicuramente, più d’una avrebbe ceduto», pensò lei.
—Molto lieta, signore—. Abbassò leggermente la testa, come faceva con tutti i clienti. Poi si rivolse alla bionda odiosa. —Signorina—. Voleva farle una linguaccia, ma si contenne, perché le tornò in mente qualcosa in merito al giornale del giorno dopo o sulla stampa che avrebbe parlato del ristorante. «Pietro e le sue cavolate», pensò. —Se desiderate qualcosa, sono qui vicino.
Detto questo, praticamente fuggì via dal tavolo.
James era entrato nel ristorante dietro le insistenze della sua amante. L’unica cosa che voleva era la sua compagnia a letto, ma Georgette Spalden voleva esibirsi con lui da tutte le parti. Fuori dal DaMarco, alcuni paparazzi lo avevano fotografato e lei ne aveva approfittato per attaccarsi a lui come una cozza. La sopportava semplicemente perché era molto bella e con un corpo favoloso. Due mesi al suo fianco, e gli argomenti di conversazione, se anche ce ne fosse stato qualcuno non associato alle intenzioni di passare all’alcova o di andare a Parigi e Sydney, erano inesistenti.
Quando la cameriera si era avvicinata, era rimasto impressionato dai suoi splendidi occhi azzurri a mandorla. E quando si era diretta verso di loro, le sue labbra sensuali lo avevano catturato. La cosa più tenera era che, per quanto sembrasse stanca, appariva comunque molto bella. Georgette, ovviamente, non aveva perso occasione per metterla a disagio e cercare di marcare il suo territorio. Un grave errore da parte della sua amante, perché lui non apparteneva a nessuna.
Il brutto di passare troppo tempo con una stessa donna era che questa si arrogava il diritto di pretendere di conoscerlo, e cercare di difendere una posizione, nella sua vita, che non possedeva. Quella sera, si disse, avrebbe mollato Georgette. In ogni caso, Nicholas Spalden avrebbe firmato il contratto, il giorno dopo, ai termini che a lui interessavano. Sua figlia, Georgie, si era semplicemente offerta a lui, che aveva accettato l’offerta, come se fosse parte del pacchetto nella trattativa. Puro pragmatismo, rifletté tra sé.
―Perché l’hai guardata come se volessi spogliarla?— domandò imbronciata.
—Non ho fatto niente del genere, Georgie. Non mi piacciono le donne possessive. Lo sai. Adesso, mangia i tuoi antipasti— chiese con finta indulgenza. Poi, bevve del vino e osservò, senza farsi notare, quella Grace che tentava di lisciare una piega sulla sua gonna. «Non capiva che difetto potesse avere, se, a prima vista, risaltavano le belle forme delle sue gambe attraverso il tessuto della divisa», notò James.
—Oh, James, lo stai facendo adesso. Non mi desideri più?— Si piegò in avanti, mettendogli in mostra il seno, forse troppo generoso, del quale lui era già stufo. La crudeltà non era la sua specialità, ma queste scenette lo rendevano brusco.
—Se continui a cercare di richiamare la mia attenzione in questo modo, è probabile che, uscendo dal ristorante, l’ultima cosa che vorrò sarà chiederti di accompagnarmi a casa.
Consapevole che poteva costarle una notte in più, riuscire a rimanere incinta di uno dei giovani imprenditori trentenni più quotati del Texas, Georgette smise di fare i capricci. «Questa notte riuscirò a rimanere incinta di James Stratton. Accrescere un po’ di più la mia fortuna personale non mi farà affatto male».
—Mi dispiace, amore mio— mormorò. Poi, prese un boccone di foie gras e lo assaporò, e intanto, senza farsene accorgere, tolse la scarpa blu col tacco sotto al tavolo, appartato e discreto, dove si trovavano. Con un movimento agile, piazzò il piede tra le cosce di James. —Mmm...— gustò il boccone, ma guardandolo negli occhi, —sono sicura che non è buono quanto te.
Anche se Georgette non aveva argomenti di conversazione, non voleva dire che un gesto così audace, quando tutta l’alta società di Houston era lì intorno, non lo eccitasse. Non era ipocrita. Stranamente, non reagì come aveva fatto altre volte con lei. Delicatamente, James abbassò la mano, le fece una carezza sulla pianta del piede e lo allontanò.
—Voglio cenare, per ora— fu tutto ciò che disse. Poi prese una forchetta e iniziò a mangiare i costosi antipasti.
Georgette si sentì infastidita; e il fastidio si trasformò in gelosia, quando vide che James spostava lo sguardo verso qualcosa alle sue spalle. «Sarà quella servetta? Nessuno si prende gioco di una Spalden». Tra l’altro, sapeva che suo padre non aveva ancora firmato il contratto che interessava tanto a James. Non la divertiva sapersi usata in quel modo, ma che le importava? Lui sarebbe stato il padre di suo figlio. Non era stupida. Sapeva che presto l’avrebbe scaricata, ma prima avrebbe preso da lui quello di cui nessun’altra donna era stata capace, essere la madre di suo figlio. E per farlo, si sarebbe sbarazzata di qualsiasi ostacolo potesse deviare l’attenzione di lui, per quanto volgare e mal vestito fosse. Sorrise con malizia.
Il maledetto tavolo otto stava dando spettacolo, si disse Grace, guardandoli da lontano. Meno male che, nella prospettiva in cui si trovavano, era visibile solo per il cameriere che li serviva. In quel caso, lei. «Che fortunella», pensò. Avrebbe voluto dare una bella strigliata a quella donna, per il modo in cui l’aveva trattata. «Chi si credeva di essere?»
Se avesse potuto finire in fretta di pagare quel prestito, non avrebbe dovuto sopportare quel mucchio di arroganti, anche se non erano tutti così, ovviamente, che andavano a mangiare lì ogni sera e notte. Le mancavano alcune migliaia di dollari per chiudere il suo debito, e solo per quel motivo non rinunciava al ristorante.
Le dispiaceva che quell’uomo così bello e di successo si rivelasse il tipico capo che cerca solo una scopata, anche se con una compagna pesante come la bionda. E come se lo avesse richiamato col pensiero, di colpo alzò il viso, e i loro sguardi si incrociarono per un fugace istante. Le si accapponò la pelle. « Dio! Non doveva succedere».
Facendo uno sforzo mentale, ricordò una cosa che aveva sentito una volta, associata al nome Stratton. Genitori con problemi, querele legali per la custodia dell’unico erede, abbandono. Espulsioni dal collegio. Un’attività di più di mille milioni di dollari, e un debole per le belle donne. «Come quella Georgette».
Sicuramente, quando lui l’aveva guardata avvicinarsi al tavolo per prendere l’ordinazione, gli era piaciuta poco, a confronto con quelle modelle da catalogo che uscivano sui giornali insieme a lui. Lei... era solo lei. Grace Hastings. Un metro e sessantotto di statura. Se indossava tacchi vertiginosi, al massimo aggiungeva qualche centimetro in più. Capelli mogano ondulati a metà spalla, ma sempre raccolti in una bella coda per il lavoro. Occhi azzurri con ciglia folte. Delle sue ciglia andava più che fiera, perché si risparmiava il trucco che le altre donne usavano per rinfoltirle. E, infine, il corpo. «Ohhh, se potessi ridurre qualcosa, qua e là...», si lamentava sempre davanti allo specchio.
—Ehi, piccola!— salutò Callum Vaughn andando verso di lei, e distogliendola dai paragoni che iniziava a farsi nella mente.
Era lui che le aveva trovato il lavoro al ristorante. Erano stati compagni di università. La differenza era che Cal, come lo chiamavano tutti, si era dedicato all’attività di famiglia: esportazione di prodotti caseari in Europa, e qualcosa anche nel campo immobiliare. Era molto grata a Cal.
Al principio, lui le aveva proposto di lavorare nella sua ditta, ma poi era dovuto andare sette mesi a Singapore e non erano riusciti a concretizzare niente. Successivamente, durante una conversazione, era venuto fuori che era amico di Giulio DaMarco, e era stato così che lei aveva ottenuto il colloquio di lavoro – una pura formalità – e poco dopo, era entrata al ristorante.
—Oh, Cal. Che piacere vederti!
—Ero nel palazzo di fronte, stavo per tornare a casa— la guardò fisso. —Ti vedo stanca, tesoro. Dovresti prenderla con più calma. Vuoi che parli con Giulio, per farti ridurre le ore?— domandò, gli occhi azzurri così amabili.
Non voleva ridurre le ore di lavoro, perché questo avrebbe voluto dire meno guadagni. Inoltre, non le piaceva essere trattata diversamente dagli altri. Il suo senso di uguaglianza e giustizia era molto marcato. E Callum aveva già fatto tanto per lei.
—Mi sono solo svegliata prima del solito. Tutto qui. Non devi parlare con Giulio, Cal, grazie. Piuttosto, come sta la bella signorina che non vedo da tempo, eh?—domandò, quando la sorella minore di Cal, Fiorella, gli si mise accanto.
—Che bello vederti, Grace— esclamò la ragazza dai capelli dorati, che doveva avere sui vent’anni. Esattamente sei meno di lei.
—Sei bellissima, Fiorella. Devono essere i geni.
La ragazza si mise a ridere.
—Bene, lasciamo lavorare Grace, Fio— propose Cal. —Tra poco dovrà andare a casa. Grace, verrai a trovarci uno di questi giorni? Sai che la mia famiglia ti adora.
—Io... sì. Mi piacerebbe— accettò con gioia. Le piaceva molto la famiglia Vaughn. Era l’immagine di ciò che significava essere uniti e amarsi. Quando erano ancora compagni di università, andava sempre a studiare a casa di Cal e passavano molto tempo insieme. Gli voleva molto bene, e non si era mai sentita trattata diversamente per il fatto che apparteneva a una classe sociale piuttosto diversa dalla loro. Non l’avevano mai fatta sentire ridicola o meno apprezzata.
—Perfetto. Ci vediamo presto, Grace.
—Certo che sì.
Si salutarono con un abbraccio caloroso.
Dal tavolo otto, un paio di occhi verdi non si era perso la scena. James conosceva Callum e sapeva che era come lui: un magnate playboy. Non sapeva dire perché, ma vederlo vicino a quella ragazza lo mise a disagio. E non era esattamente un’emozione piacevole.
***
—Desiderate che vi porti i secondi?— domandò Grace avvicinandosi, vedendo che avevano finito gli antipasti.
Stranamente, rifletté Grace, la bionda le sorrise e sembrò quasi sincera. Quasi.
—No, cara. Per favore, portaci altro vino rosso— rispose con voce sdolcinata.
Grace non aveva passato momenti difficili senza imparare che quella aveva qualcosa in mente. «Solo che non riusciva ad immaginare cosa... Forse la stanchezza aveva indebolito il suo sesto senso», pensò.
—Lei, signor Stratton?
James stava per dire che non voleva che lo chiamasse in quel modo così formale, ma preferì evitare una scenata di Georgette.
—Lo stesso, grazie— rispose con più serietà di quanto avrebbe voluto.
Grace pensò che, se magari si fosse comprata un vestito rosa pallido simile a quello che portava la bionda, probabilmente sarebbe rimasta senza soldi per due mesi. «Un giorno potrò comprare quello che desidero e anche ricompensare la signora Hogan per la sua generosità». E fu questo pensiero che l’aiutò a mantenere il sorriso al tavolo otto.
Pietro non le credette, quando gli disse che i clienti non volevano altro da mangiare, ma solo vino. L’accusò di aver capito male e stava quasi per andarci personalmente. Per fortuna, un asparago che minacciava di bruciarsi nell’olio d’oliva attirò la sua attenzione e lei se la svignò con i calici di vino.
Non sapeva dire se si era addormentata per due secondi, o se le mani le avevano ceduto, o se era stato un tiro mancino del destino, a farla inciampare contro qualcosa accanto alla gamba del tavolo. Fatto sta che metà del calice destinato a Georgette si versò sul vestito costoso indossato da quella donna insopportabile. Terrorizzata, Grace prese il tovagliolo e cercò di asciugarla.
— Stupida! Guarda che hai fatto, grazie alla tua distrazione!— esclamò la donna irata alzandosi in piedi, tanto che tutto il ristorante smise di mangiare per un momento. L’ambiente si fece fastidiosamente silenzioso.
—Georgette, calmati, non è niente di che. Torna a sederti— chiese James parlando tra i denti. Odiava gli scandali in pubblico. Non voleva essere il pettegolezzo degli imprenditori né dei paparazzi, il giorno seguente.
—Per favore scusatemi, non so cosa sia successo...— esordì Grace, le mani che le tremavano. Grazie al cielo stava tenendo il tovagliolo, così poteva mitigare l’ansia in qualche modo.
Tutti gli sguardi erano su di lei. Pregava che Pietro non avesse sentito. Per la prima volta, poteva dire che il silenzio faceva rumore.
—Certo, te lo spiego io. Sei un’incompetente che pretende di fare amicizia col cliente ed è priva di qualsiasi educazione. Quindi, chiama immediatamente l’amministratore— ordinò con voce petulante.
«Nooo», gemette Grace dentro di sé.
—Georgette— intervenne James, in tono tagliente e cercando di calmarla. Ma la bionda era impegnata con quello che aveva in mente e non gli prestò attenzione. Le nocche delle mani di lui, sul tavolo, erano quasi bianche dallo sforzo di controllare la voglia di afferrare quella donnetta scandalosa per il braccio e cacciarla via per non vederla mai più, e porre fine, in quella stessa serata, a quei due mesi che già gli pesavano.
—Vuoi che mi calmi?— domandò Georgette con voce stridula.
Grace li guardava, con le mani intrecciate sul davanti, e stringeva la salvietta con apprensione. Era nervosa, ma non voleva dare alla bionda la soddisfazione di vederla preoccupata.
James sibilò un «sì», molto basso. Quasi sputò la parola.
—Perfetto— disse Georgie abbassando la voce; poi si accomodò di nuovo sulla sedia, e, a poco a poco, i commensali tornarono ai propri affari tra i mormorii. —Non dirò più niente, se tu farai una cosa per me, amore— affermò con occhi maliziosi.
—Non mi piace essere ricattato.
—Oh, non lo faccio. È solo un capriccio.
—Non sono neanche il tipo che soddisfa i capricci di nessuno.
A quanto pareva, qualcuno aveva commentato che nel ristorante stava succedendo uno scandalo, perché Grace vide con la coda dell’occhio che Pietro si avvicinava... «No, no, per favore, torna in cucina», supplicò in silenzio.
—Lo fai solo a letto?— domandò la donna, in un modo tale che Grace, che cercava di nascondersi e fuggire da quella conversazione, lo sentì. —Ti ricordo che mio padre mi vuole molto bene e che devi ancora firmare un accordo con lui. Domani, mi pare, vero?— La domanda era retorica.
In quell’istante, James la disprezzò.
―Mi permettano, la cena la offre la casa, per riparare a questo terribile incidente— Grace si affrettò a interromperli, nella speranza che con questa cosa la donna odiosa si accontentasse, che Pietro trovasse tutto calmo e se ne ritornasse alla sua amata cucina. Certo era che, se la cena la offriva la casa, questo voleva dire che sarebbe stata scalata dal suo stipendio, ma la sua priorità era tenere sotto controllo lo chef del ristorante.
Georgette la guardò con derisione e stava per parlare, quando l’incubo personificato dalla figura arrogante di Pietro Bertinni si avvicinò.
—Bella! Carissima! Che succede?— indagò Pietro, venendo verso di loro. Poi, prese con prudenza le mani della statuaria Georgette, che si alzò in piedi per salutarlo. Subito dopo, Pietro si girò verso James. —Signor Stratton! Che onore averla di nuovo con noi, stasera. Spero abbia gradito le mie creazioni— sorrise, come chi spera di essere sollevato dalla tensione con una parola gentile.
—Come sempre, tutto squisito— replicò James all’italiano.
Grace non riuscì a evitare di fissare le mani ben curate e virili di James Stratton.
—Ma con un servizio pessimo— intervenne Georgette, guardando afflitta Grace, alla quale venne voglia di darle due schiaffi, per l’ipocrisia. Ora era più che mai convinta che quella avesse spostato apposta la punta della sua scarpa costosa, per farla inciampare.
Il temuto chef osservò Grace. Che era sicura di apparire serena. Non avrebbe dato a Pietro l’opportunità di dire che la raccomandata di Callum Vaughn era un’inetta. Fosse stato per l’italiano, lei sarebbe finita con le valigie in strada il terzo giorno, perché non riusciva a imparare i nomi di quei benedetti piatti. Le lingue non erano il suo forte, però se la cavava molto bene e l’ometto non aveva scuse per cacciarla.
—Oh?— domandò sorpreso, notando la grande macchia rossa sul vestito rosa pallido di Georgette. —Come ti sei sporcata un Oscar De la Renta da collezione? Che orrore, cara!
—La signorina— James guardò Grace con amabilità —ha detto che la cena è offerta dalla casa, Pietro. Grazie per il tuo interesse— disse James. Poi si alzò in piedi, pronto ad andarsene.
—Pietro, questo tipo di persone non pu lavorare qui!— esclamò la presumibilmente offesa, in modo che la conversazione fosse udibile solo a loro.
Grace impallidì. «L’idiota stava cercando di dire quello che lei credeva cercasse di dire?». L’angoscia si impossessò di lei.
—Basta, Georgette— sbottò James, a voce bassa e furiosa, prendendola per il braccio per uscire da lì.
—Se non la fai licenziare, puoi dire addio al contratto da cinquecento milioni di dollari per la costruzione della prima fase del nuovo complesso residenziale di lusso alla periferia di Houston, caro— gli sussurrò all’orecchio. —Mio padre mi adora... Non dimenticarlo.
James la guardò con fastidio. Provava pena per la bella donna che aveva avuto la disgrazia di servire il suo tavolo e richiamare l’attenzione, senza volerlo, chiaramente, di una ragazzina capricciosa come Georgette. Doveva scegliere: affari o accondiscendenza.
Non era fatto per combattere i problemi del mondo, e aveva avuto una giornata molto faticosa.
—Pietro, nonostante la buona cena, la tua collaboratrice in questione— guardò Grace in modo significativo, e lei si sentì come se dovesse arrivarle una sentenza di morte, in una forma lenta e dolorosa, —ha offeso la signorina Spalden, rovinandole un vestito molto costoso. Questo non mi è mai capitato da nessuna parte—. Il sorriso di Georgette risplendeva, nel vedere il suo proposito sul punto di concretizzarsi. —Non credo che vorresti che si ripeta con altri invitati, magari meno tolleranti. Gli impiegati che causano disagio ai clienti VIP dovrebbero essere rimossi dalle loro funzioni, per andare a servire una clientela... diciamo più popolare.
Per la prima volta dopo tanto tempo, James si sentì in colpa per quanto stava facendo a quella ragazza. Ma, di sicuro, questa avrebbe trovato facilmente impiego come cameriera in un altro posto. E lui aveva ancora un affare multimilionario da portare a termine. Gli affari erano affari. Non aveva tempo per l’accondiscendenza, né per pensare ai mali e le ingiustizie del mondo. Lui stesso era stato costretto a vivere negli stenti, da piccolo.
Pietro assentì, come un agnellino che ascolta il diavolo che gli dà consigli su quanto sia bella la vita, a prescindere che si scavalchino o no le regole.
—Hastings—