Punto di rottura (Rexford e Charlotte)
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Info su questo ebook
Rexford Sissley è un ex tennista. A trentacinque anni ha raggiunto fama, reputazione e ricchezza. Gli rimane da combattere solo la sua fobia per l'impegno. Una questione complicata, ma chi dice che sia impossibile? In realtà, c'è una persona che ama vanificare i suoi piani per continuare a eludere l'aspetto romantico della vita. Tuttavia, Rexford fa finta di non accorgersi dell'esistenza di Charlotte Jenkins e del fatto che non è più l'adolescente che aveva conosciuto anni prima. Anche se, quando si rende conto che la sua ostinazione era sbagliata, la possibilità di riscattarsi può diventare irraggiungibile.
Agile, intelligente e con un fisico adatto a competere nei grandi tornei del tennis professionista, Charlotte Jenkins è una vincitrice per eccellenza. L'ostacolo più grande della sua vita privata si incarna in Rexford Sissley, un uomo testardo, affascinante e di successo come lei. Lui si rifiuta di accettare l'attrazione tra di loro, mentre lei continua a provocarlo. Le circostanze li spingeranno ad affrontarsi e a riconoscere se sono o no in grado di arrendersi a un avversario che supera le loro possibilità di controllo.
Un'attrazione avvolgente, una chimica inevitabile e una storia d'amore trepidante sono gli ingredienti che si mescolano in quest'ultimo capitolo della serie MATCH POINT.
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Anteprima del libro
Punto di rottura (Rexford e Charlotte) - Kristel Ralston
La paura è la più grande invalidità di tutti
.
Nicholas James Vujicic.
Indice
CAPITOLO 1
CAPITOLO 2
CAPITOLO 3
CAPITOLO 4
CAPITOLO 5
CAPITOLO 6
CAPITOLO 7
CAPITOLO 8
CAPITOLO 9
CAPITOLO 10
CAPITOLO 11
CAPITOLO 12
CAPITOLO 13
CAPITOLO 14
CAPITOLO 15
CAPITOLO 16
CAPITOLO 17
CAPITOLO 18
CAPITOLO 19
EPILOGO
SULL’AUTRICE
©Kristel Ralston 2018.
Punto di rottura
Terzo della serie Match Point.
Titolo originale: Punto de quiebre (2016).
Tutti i diritti riservati.
SafeCreative: 1805217141718.
Disegno di copertina: Karolina García ©Shutterstock.
Traduzione: Cinzia Novi.
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, memorizzata in un sistema o trasmessa in qualsiasi forma, o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico, fotocopia, registrazione o altri metodi, senza previa ed espressa autorizzazione del proprietario del copyright.
Tutti i personaggi e le circostanze di questo romanzo sono fittizi, qualunque similitudine con la realtà è una coincidenza.
CAPITOLO 1
—Charlie, tesoro— chiamò il produttore con il suo tono amichevole, anche se lei sapeva che aveva molta voglia di mandarla al diavolo, —per favore, ripeti la parte in cui sorridi e inviti le tue fan a usare questa crema solare. Forza. È l’ultima ripresa e poi siamo pronti.
Con i capelli biondo scuro e gli occhi azzurri a mandorla, Charlotte Jenkins era fenomenale nei tornei internazionali di tennis. Di successo, bella e fisicamente formosa, a ventitré anni aveva una linea d’abbigliamento giovanile, tre Grand Slam vinti, dieci tornei WTA conquistati e numerosi spot pubblicitari. Come quello che stava facendo in quel momento per una crema solare.
—Grange, mi sento stanca. Credi che potremmo continuare domani?— chiese bevendo da una bottiglia d’acqua. Quando terminò il terzo sorso, una truccatrice si affrettò a ritoccarle le labbra.
Il produttore, che non era precisamente tollerante tranne quando aveva delle celebrità sul set, le sorrise indulgente.
—Ma, tesoro...—iniziò Grange Roberts.
—No, Charlotte —interruppe improvvisamente una voce. Una voce che lei conosceva molto bene. Che non la chiamava mai con il suo soprannome, Charlie, e che non la vedeva mai come una donna, ma piuttosto come un fastidio. Un obbligo —. Se continuerai a sbagliare, rimarremo qui fino alle due del mattino.
Lei lanciò uno sguardo rabbioso verso il punto dal quale proveniva il suono della voce di Rexford, suo allenatore e tutore. La trattava sempre come se non avesse più di dodici anni e come se la sua esistenza gli pesasse.
—Non guadagnerai uno stipendio a mie spese per darmi ordini, Rexford. Le cose funzionano al contrario —rispose altezzosa.
La figura, che fino a quel momento era stata dietro le telecamere, si avvicinò. Le luci lo illuminarono poco a poco sottolineando il suo metro e ottanta di statura. Lineamenti virili con gli angoli marcati, un corpo costruito a base di esercizi, gli occhi verdi più intensi che chiunque potesse ricordare e i capelli biondi, erano le caratteristiche fisiche di Rexford Sissley, una stella del tennis che si era ritirata e che gestiva un’accademia privata, Deuce, insieme ai suoi due migliori amici, Jake Weston e Cesare Ferlazzo. Rex era l’allenatore e il tutore di Charlotte.
—Il tuo atteggiamento non ti porterà da nessuna parte. Non vuoi avere il fine settimana libero per andare alla sfilata esclusiva di Kate Spade a New York?
Lei strinse la mascella con forza. Lui conosceva il suo punto debole. La moda. Charlotte indossava per questo spot un abito della sua marca sponsor, Aditta. Aveva un vestito bianco corto, sportivo, i capelli raccolti in una coda e delle scarpe da ginnastica. A causa del sole sui campi da tennis, la pelle di Charlotte era dorata e gli occhi azzurri brillavano, luminosi.
—Se si tratta di un ricatto...
—Ricatto? Certo che no. È un accordo che io e te abbiamo fatto. Avresti avuto il fine settimana libero dagli allenamenti per volare a New York, nel caso in cui avressi finito questo spot in tre giorni. Ne hai già quattro a carico.
—Sono stanca...—Ed era la verità. Le aveva fatto male la testa per tutta la mattina e credeva quindi di avere qualche virus stagionale—. Siamo rientrati da Kuala Lumpur appena cinque giorni fa.
Lui non le diede tregua.
—È una tua decisione —disse severamente, prima di girarsi e guardare il produttore che, insieme al resto della squadra, aspettava in silenzio—. Grange, lei collaborerà e finiremo lo spot adesso. Vero, Charlotte? —chiese guardandola nuovamente.
—Sì...—rispose tra i denti guardandolo infastidita.
—Bene, e non ti dimenticare —disse abbassando il tono di voce in modo che lo sentisse solo lei—, che tu non mi paghi per lavorare, signorina Jenkins. Tuo padre mi ha lasciato una notevole quantità di soldi per guidare la tua carriera fino al compimento dei ventiquattro anni. Cioè, fra circa due mesi. Fino ad allora, io sono al comando. Quindi cerca di non rovinare, con i tuoi atteggiamenti da diva, quello che hai costruito in tutti questi anni —rispose prima di girarsi e abbandonare lo studio.
Charlotte trattenne la voglia di schiaffeggiarlo. Era un presuntuoso. Come si azzardava a parlarle in quel modo?
—Magnifico! —esclamò Grange, estraneo ai pensieri che giravano per la testa della tennista—. Andiamo, Charlie, tesoro, tu sei la stella. —Si girò verso la sua squadra: —Registriamo, 3...2...1... Azione!
***
Charlotte arrivò al suo attico, sistemato in una delle aree più chic di Santa Monica, California, con i brividi. L’autista, Herman, le chiese se le serviva qualcosa dalla farmacia, lei rispose che sarebbe andata solo a stendersi per un po’ a letto e che presto sarebbe stata bene. Herman annuì e lasciò parcheggiata nel grande garage dell’edificio la Rolls Royce Ghost a quattro porte e col cambio automatico.
Con riluttanza, Charlotte si tolse l’elastico dai capelli e appoggiò la fronte a una delle pareti dell’ascensore. Il suono della porta che si apriva fu come una martellata sulla tempia. Avanzò e prese le chiavi dalla borsa Hermès. Entrò nel suo attico e buttò a terra la giacca, l’elastico, le scarpe, la borsa e le chiavi, senza tante cerimonie.
Camminò verso la sua stanza, che aveva una vista magnifica sulla città e sul mare, chiuse le tende. A fatica si spogliò e riuscì a fare una doccia calda. Uscì avvolta in una telo, afferrò una camicia da notte corta e si mise sotto le lenzuola.
Voleva solo che le passasse quel malessere.
Chiuse gli occhi.
Due ore più tardi era poggiata al water a vomitare. Si sentiva debole e scottava per la febbre. Voleva chiamare qualcuno, ma in quel momento non le serviva nulla. Herman stava già sicuramente dormendo, e contattare il numero delle emergenze per qualcosa che era sicuramente una piccola indigestione non le andava. Odiava creare scandali e ancora di più richiamare l’attenzione per il fatto di essere famosa.
Quindici minuti dopo aver lasciato l’anima nel water, si lavò i denti e tornò a letto barcollando. Durante il volo di ritorno da Kuala Lumpur aveva assaggiato appena un boccone. Era in prima classe, santo cielo! Non potevano dare del cibo avariato, con i prezzi ridicoli che facevano pagare.
La settimana dopo sarebbe andata a comprare un aereo privato. Prima, però, avrebbe dovuto cercare di sopravvivere senza lasciare l’anima nel water. Aveva bisogno di Tobby.
Il suo migliore amico era un incanto, ma tendeva ad essere un po’ melodrammatico. Forse il fatto di essere padre single da quando aveva vent’anni gli aveva cambiato la vita e il modo di vedere i rischi... Come era successo a lei al compimento di quell’età, quando suo padre era stato sopraffatto dal cancro e sua madre si era schiantata con l’amante, lasciandola orfana. Quindi doveva provvedere a sé stessa...
Lasciò da parte il telefono. La figlia di Tobby, Rosie, stava sicuramente dormendo. Quel fine settimana toccava a lui accudirla, perché la mamma della piccola, Clarissa, stava lavorando come modella a Los Angeles. Charlotte non riusciva a capire perché, se Tobby e la sua ex fidanzata erano innamorati, non potevano provare a stare insieme. D’accordo, il fatto che il suo amico fosse un donnaiolo forse aveva a che fare qualcosa con la situazione.
Uno sbadiglio le scappò dalle labbra.
Era sicura che in pochi minuti tutto il mal di testa e i brividi sarebbero rimasti solo un ricordo. Voleva andare in cucina per bere qualcosa di dolce, ma la sola idea di portarsi alla bocca qualcosa che fosse alimento o bevanda, qualunque sapore avesse, le dava la nausea.
Fece un esercizio di respirazione fino a quando si addormentò.
Non sapeva quanto tempo fosse passato, quando l’insistenza con cui suonavano al citofono la fece gemere. Era sicura che non fosse passata nemmeno un’ora da quando si era addormentata.
Nascose la testa sotto il cuscino.
Il rumore non cessava. E non sarebbe cessato, pensò controvoglia, perché in camera aveva un collegamento con il citofono principale. Se non si fosse alzata, le avrebbero forato i timpani.
Stordita e piena di brividi si alzò in piedi. Guardò l’orologio. Mezzogiorno! Wow, apparentemente aveva dormito abbastanza, anche se il suo corpo non lo reputava sufficiente. Andò al lavandino e si lavò i denti. Lo specchio le restituì l’immagine di una persona che sembrava aver passato la notte sotto un ponte. Capelli arruffati e guance pallide.
Si trascinò fino alla piccola consolle vicino alla porta della sua stanza.
—Sì...? —chiese con voce assonnata.
—Spero che mancare al tuo allenamento non sia il tuo modo di rispondere alle mie richieste di soddisfare i contratti, Charlotte.
«Rexford... Non poteva apparire in un momento peggiore.»
—Non hai un’altra vittima da infastidire? Sono malata. Vieni un’altro giorno.
—Apri la porta.
—No. —Chiuse il citofono e tornò a letto.
Un minuto dopo sentiva la sicura della porta del suo attico che si apriva. Chiuse gli occhi e si maledisse per non essersi ripresa la copia delle chiavi. Gliel’aveva data mesi prima quando aveva dovuto viaggiare con l’allenatore sostituto, August, perché Rex aveva una campagna pre-stagione prima di aprire la sua accademia, Deuce.
Rexford non era mai andato oltre la sala, lo studio centrale o la cucina di Charlotte. Solitamente si trattava di una visita breve per lasciarle qualche contratto, avvisarla di qualcosa di importante o semplicemente perché si riunivano a discutere di argomenti correlati ai prossimi tornei.
Ora era tutto tranquillo, e lui si prese il tempo per ammirare, alla luce del giorno, quello che lo circondava. Charlotte aveva buon gusto. In casa predominava l’azzurro. L’arredamento della sala era nero e il tavolo centrale , bianco con dei bei fiori. C’era un biglietto. Si avvicinò.
Per una donna bella dentro e fuori.
Congratulazioni per un altro torneo vinto!
Ti vogliamo bene,
Tobby e Rosie.
«Il suo miglior amico.» Rimise a posto il biglietto. Non aveva idea di dove potesse essere. Iniziò a chiamarla, ma non rispose. Era così testarda e ribelle. Diamine, lo faceva impazzire. E non solo perché era testarda.
Avanzò per il corridoio. Per essere un attico era molto grande. Certo, anche la sua casa di Bel Air era magnifica, ma le proporzioni di ogni proprietà erano diverse. Tornò sui suoi passi e prese una bottiglia di Evian dal frigorifero.
Controllò porta per porta con cautela. Chiamò Charlotte diverse volte, ma lei non rispose. «Che testarda.» L’ultima porta a sinistra era chiusa. Era l’unica. Così immaginò che dovesse essere lì. Aprì senza troppi complimenti.
—Charlotte? —chiese aprendo la porta. Accese la luce.
—Vattene! —gemette lei dal letto—. Spegni quella maledetta luce ed esci da qui una buona volta, Rexford!
Vedendola piegata su sé stessa ad un lato del materasso si avvicinò rapidamente. Era spettinata. Pallida e con le occhiaie. Si aggrappava alla trapunta come se fosse la cosa più preziosa che aveva intorno.
—Che hai? —chiese, inquieto. Le passò la mano sulla fronte. Bruciava per la febbre—. Dio mio, Charlotte, perché non mi hai chiamato?
Lei lo guardò risentita. Prese la trapunta e si coprì fino al mento. Non smetteva di tremare.
—Ti avevo detto già ieri che mi sentivo male, ma mi hai obbligata a lavorare allo spot. O non lo ricordi più? —disse battendo i denti.
Rexford si sentì in colpa. Senza pensare troppo, le diede la bottiglia d’acqua e lei bevve avidamente.
Ultimamente si dimostrava più severo del solito con lei, perché si avvicinava il momento in cui avrebbe dovuto dirle la verità, in merito alla clausola del testamento di Guillaume Jenkins.
Il carattere di Charlotte era appassionato e tempestoso. Due qualità che servivano per vincere in campo, ma non per soddisfare una clausola arcaica il cui fallimento le avrebbe fatto perdere gli ottanta milioni di dollari che suo padre le aveva lasciato in eredità, ma solo a patto che esaudisse le sue ultime volontà.
Guillaume era morto tre anni prima a causa di un cancro molto aggressivo. Mesi dopo la sua morte, la moglie Rita, si era schiantata mentre partecipava ad una gara di automobili fuori dalla California, insieme al suo amante che aveva otto anni meno di lei. Charlotte era rimasta orfana.
I Jenkins erano molto amici di sua madre, e si conoscevano da tanti anni. Quando Teresse era rimasta vedova, Rita era stata un punto d’appoggio molto importante. Si era anche trasferita per diversi mesi a San Francisco, dove Rexford era nato, per confortare la sua migliore amica.
Durante una delle rare visite di Rexford a casa dei Jenkins, Guillaume lo aveva chiamato nel suo ufficio. L’uomo era una quercia, aveva un carattere fermo. La sua unica debolezza era la figlia. La pupilla dei suoi occhi.
—Rexford, so che hai molte cose da fare nella tua vita professionale, e tu e tua madre siete come una parte della famiglia. Tu e mia figlia non vi conoscete molto. Ed è una cosa comprensibile, perché viaggi da dodici anni a causa del tuo lavoro. Charlotte ha diciotto anni... è il mio mondo... e io sono malato. Non so quanto tempo mi resta ancora.
—E perché mi stai dicendo questo? —gli aveva chiesto, incuriosito. In quel periodo aveva trent’anni e gliene rimanevano tre o quattro prima di ritirarsi dalle glorie della sua carriera, prima del temuto declino sperimentato da molti professionisti, che iniziavano con gli allori e chiudevano con il fango.
—Mia moglie mi ha chiesto di parlare con te. Lei non sa che sono malato. Le ho solo detto che mi preoccupa mia figlia e il suo futuro professionale.
—Ti ascolto...
—Sai già che l’allenatore di Charlie è un mascalzone, per dirla in modo carino. Mia figlia è testarda e vuole continuare con il suo metodo di lavoro perché dice che la fa vincere. Ma questo non è vero. Lei è una vincitrice di per sé! Si sta sprecando con un cattivo allenatore.
—Non lo paghi tu?
Guillaume negò mestamente.
—Mia figlia guadagna abbastanza soldi da poter scegliere chi vuole... qualora mi succedesse qualcosa, potresti prenderti cura di lei?
—Non ho tempo di fare il babysitter, Guillaume. E non voglio offenderti, con questo. È una grande responsabilità, quello che mi chiedi... Spiegati meglio.
L’uomo aveva stretto le labbra. Una miscela di frustrazione e orgoglio.
—Ho redatto un testamento. La mia erede è Charlotte. Ovviamente. Ma tu sei una persona molto apprezzata da questa famiglia. So che tra un paio d’anni ti ritirerai dal tennis. Quando questo succederà, accetteresti di ricevere cinque milioni di dollari all’anno per farti carico dell’allenamento di Charlie, quando morirò?
—È troppo denaro e non sai se lo farò bene, o se sui campi da gioco andrà come tu speri. È una responsabilità troppo grande.
—Stupidaggini! Non hai fatto progressi e vinto tanti tornei senza acquisire esperienza. O mi sbaglio?
—No. Non ti sbagli.
—Voglio solo che la alleni. Che la faccia diventare molto più brava di quello che è già da sola. E nel caso in cui ti servisse il consiglio di un amico... Fallo per i soldi. È una bella somma. Indipendentemente dal fatto che tu abbia già abbastanza, incrementare il tuo conto in banca non ti farà male.
—Da questo punto di vista... posso considerarlo come un affare.
—Sì, Rexford. Si tratterebbe di questo.
—Va bene.
Guillaume si era rilassato un po’ davanti all’accettazione.
—Grazie. Bene... Ascolta, il giorno in cui morirò, l’esecuzione di alcune clausole del testamento toccheranno a te.
—Che tipo di clausole? —gli aveva chiesto quel pomeriggio di anni prima, sospettoso.
—Oh, beh, questioni vincolate alla quantità di soldi che erediterà, quando succederà, e al giorno in cui potrai smettere di allenarla perché lei scelga se vuole continuare sotto la tua tutela sportiva, o se per caso preferisce assumere un’altra persona.
—E quando succederà questo?
—Quando compirà ventiquattro anni.
—Ancora mancano sei anni.
—Non so quanto tempo mi resta... Non potevo desiderare una persona con maggiore integrità, e in grado di fare da allenatore e tutore della mia Charlie allo stesso tempo. Mi fido di te.
—D’accordo, Guillaume. D’accordo.
Quel pomeriggio avevano chiuso l’accordo tra gentiluomini con una stretta di mano, e un whisky molto costoso. Due anni dopo quella riunione, Charlotte era rimasta orfana. Rex aveva compiuto trentadue anni. Lei era bravissima, ma aveva un contratto per cinque milioni di dollari all’anno. Lui aveva giocato ancora per un anno, e mentre lo faceva, si prendeva cura di Charlotte insieme al suo allenatore. Così avevano mantenuto il loro ritmo di lavoro fino al suo ritiro, a trentatré anni.
Al di là della promessa fatta alla famiglia Jenkins, Rexford aveva deciso che non era giusto che le desolazione trascinasse via un talento come quello di Charlotte. L’aveva spinta ad andare in terapia, l’aveva allenata come se fosse un soldato, non le aveva dato tregua.
Nonostante le dure circostanze della vita che aveva dovuto affrontare a vent’anni, Charlotte manteneva il suo carattere impetuoso, ribelle e combattente. Era ammirevole come cercava di imporsi nelle sue battaglie: molte le vinceva, altre le perdeva. Ora, a ventitré anni e sul punto di compierne ventiquattro, il lavoro di Rexford con Charlotte aveva una data di scadenza.
—Vattene. Smettila di guardarmi. So già di sembrare un mostro —disse in tono lamentoso, interrompendo i ricordi del bel tennista.
Rex non l’aveva mai vista convalescente, quindi non aveva potuto fare a meno di sorridere. Charlotte era vibrante e piena di energia. Lei lo guardò con rabbia.
—Chiamiamo la dottoressa Edna. Va bene? —chiese Rex.
Charlotte rispose girandosi su sé stessa e nascondendosi sotto la coperta blu zaffiro. Sentì Rexford muoversi per la stanza, aprire le tende e parlare al telefono con la dottoressa, che era solita viaggiare con lei durante i tornei e che la assisteva quando era di ritorno a casa.
Lui avrebbe sicuramente pensato che sembrava un morto vivente. Odiava sapersi vulnerabile.
—La dottoressa arriverà tra venti minuti —mormorò sedendosi sul bordo della pedana del letto queen-size—. Che sintomi hai?
—Non hai detto che arriva la dottoressa Edna? Darò spiegazioni a lei.
Rexford si spostò intorno al letto e si sedette di fronte a lei. Quando Charlotte cercò di girarsi nuovamente, lui glielo impedì mettendole la mano sul volto arrossato e liscio. Lo tenne con fermezza perché lo guardasse.
—Charlotte, dimmi, per favore, cosa ti senti?
Il tono dolce e lo sguardo preoccupato erano sinceri. Così lei sospirò e gli raccontò tutto quello che era successo nelle ultime ore . Mentre parlava, si sorprese del fatto che la mano di Rex si muovesse impercettibilmente sulla sua guancia.
—Questo è tutto...—disse dopo aver spiegato la situazione.
—Deve essere un’infezione allo stomaco, se hai la febbre —mormorò, ipnotizzato dal colore dei suoi occhi azzurri. Quando sentì una stupida e intensa necessità di baciare quelle labbra carnose, spostò rapidamente la mano. Come se si fosse reso conto del fatto che stava toccando qualcosa di proibito. Si spostò improvvisamente—. Sarà meglio che vada a prendere più acqua. Hai frutta nel frigorifero?
Lei annuì.
—Arance...
—Bene, te ne porterò un po’ perché le mangi. La vitamina C fa sempre bene.
—Consiglio da allenatore? —chiese, quando lo vide sul punto di uscire dalla stanza. Era così strano avere quello che aveva sempre desiderato nella circostanza più vergognosa. Si considerava un’idiota per essersi innamorata di Rexford, ma, com’era possibile non farlo? Lo adorava sin da quand’era bambina, ma lui non la notava mai. Si incontravano appena, nonostante le loro madri fossero molto amiche. Le sarebbe piaciuto che sua madre avesse imparato un po’ più della saggezza di Teresse Sissley...
—Qualcosa del genere —disse con un sorriso, prima di sparire nel corridoio.
CAPITOLO 2
––––––––
Due giorni di riposo e molta idratazione. Apparentemente era più di un virus stagionale, si trattava di un’indigestione causata dalle ostriche che aveva mangiato durante il suo scalo di quattro ore a Guangzhou, Cina. Si era ripromessa di non soccombere più ai suoi desideri gastronomici, durante un volo transatlantico. La cosa peggiore non era sentirsi come una bambola di pezza sgonfiata, ma avere Rexford come spettatore.
Apparentemente l’uomo si era autonominato infermiere, e da quando la dottoressa aveva abbandonato l’attico, lui si era sistemato comodamente nella piccola scrivania della sua stanza per fare delle telefonate di lavoro. Charlotte fingeva di dormire. C’era qualcosa di peggio dell’avere nella propria stanza l’uomo di cui era innamorata e non proprio per qualcosa di romantico? Diamine! Era un disastro. Non si faceva mai vedere così, in pubblico. Non le piaceva farsi vedere debole o incapace di cavarsela da sola.
—No, tesoro, oggi non posso. Ti ricompenserò. Sì, piccola...
«Sì, forse c’era qualcosa che contribuiva a farla sentire peggio», pensò Charlotte. Ed era sentire Rexford che parlava con le sue conquiste. Duravano appena due mesi. Nel caso della stupida con la quale usciva in quel momento, si trattava già di darle il consueto preavviso di congedo.
Secondi dopo, il sospiro di Rexford le fece capire che la chiacchierata era finita. Lui indossava una polo che si adattava alla sua perfetta muscolatura, e dei pantaloni bianchi che sembravano tentarla, e la facevano continuare a guardarlo mentre si girava. Aveva un bel posteriore. Ma era la voce, e quel modo tanto spontaneo di ridere quando era rilassato, che la affascinavano. In alcune occasioni aveva cercato di farglielo capire, in maniera molto sottile, ma apparentemente lui non captava i riferimenti indiretti.
Non era da lei, darsi facilmente per vinta. E forse era ora di iniziare a strutturare un piano più aggressivo per fare in modo che Rexford si rendesse conto del fatto che era cresciuta, che era molto più di quella facciata da donna di successo, più di una bambina piena di soldi. Si era guadagnata tutto, letteralmente, con il sudore della fronte. D’altra parte, non capiva la smania che aveva di portarla a eventi noiosi e presentarle più sponsor di quanti ne avesse la stessa Serena Williams.
—Posso immaginare il suo nome?— chiese lei mentre beveva il Gatorade. Rexford era andato a comprarle delle bottiglie di tutti i sapori, mentre la dottoressa la controllava.
—Non so di cosa stai parlando— rispose alzandosi in piedi e girando la testa da un lato all’altro per sbloccare i muscoli del collo.
—La conquista di turno.
Lui si lasciò scappare una risata.
—Si chiama Alysha. E stiamo insieme già da un po’.
—Definisci un po’
.
Rexford si strofinò il collo con la mano.
—Non sei in quel letto perché hai una laurea in analisi delle relazioni di coppia, ma perché devi riposare e idratarti. La mia vita personale, che non influisce sul tuo rendimento e sulle tue aspettative, non