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Il Telegrafista del Re
Il Telegrafista del Re
Il Telegrafista del Re
E-book259 pagine3 ore

Il Telegrafista del Re

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Info su questo ebook

La storia della sua famiglia fornisce al Professor Ernesto Capanna il pretesto per percorrere 150 anni, e più, di storia di Roma, e d’Italia, dai tempi degli ultimi Papa-Re, a quelli dei Re Piemontesi, fino ai nostri giorni repubblicani. In questa raccolta di episodi di vita e di personaggi singolari l’autore trasmette tutto il suo orgoglio di essere romano, in un narrare, talora ironico e dissacrante, delle vicende da lui vissute da ragazzo e udite nei racconti di suo padre.

Nato a Roma nel 1935, Ernesto Capanna è Professore Emerito della Sapienza e Socio Nazionale dell’Accademia dei Lincei. Autore di vari trattati scientifici nel settore della Genetica, della Evoluzione Biologica, e della Storia delle Scienze. Con questo libro si cimenta per la prima volta nella narrativa.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2020
ISBN9788830626232
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    Anteprima del libro

    Il Telegrafista del Re - Ernesto Capanna

    Ernesto Capanna

    Il Telegrafista del Re

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-2623-2

    I edizione elettronica luglio 2020

    Ut memoria maneat

    Dedico questo libro

    alle mie figlie

    e ai figli dei loro figli

    fino alla terza

    e alla quarta generazione

    affinché di questa storia

    ne resti memoria

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    1 «È l’ ovo, c’ha da esse!»

    Come un’introduzione

    Non ricordo più perché mi fosse uscita questa frase, che a casa Capanna era proverbiale. Era di un proverbio che nasceva da un ménage, da un’austera gestione economica di una borghesia romana che viveva la transizione tra il Papa-Re e il Re-Sabaudo. Mio nonno, il Commendatore Edoardo Capanna, era funzionario delle Regie Poste e Telegrafi, ma lo stipendio di un funzionario di una neonata Italietta sabauda era modesto. Mia nonna Elena, Lella in famiglia, amministrava il suo patrimonio dotale e questo stipendio con saggezza e parsimonia per portare decorosamente avanti una comunità familiare numerosa: ai coniugi Capanna si aggiungevano sette figli, la serva Paolina – a quei tempi tale appellativo era usato senza nessun valore negativo di sapore classista – e un numero variabile di cugini di campagna che venivano a Roma per gli studi superiori. Molto spesso sopraggiungeva all’ora di cena un amico del Commendatore Edoardo, un rampollo dell’aristocrazia papalina, che col nuovo Regno aveva perso il posto nell’amministrazione pontificia e, soprattutto, le relative prebende. Così, avanti negli anni, ridotto in miseria, aveva trovato da sbarcare il lunario, portando a fare i loro bisogni i cani dei nuovi ricchi, di quel nuovo ceto che a Roma era chiamato, con velato disprezzo da parte della vecchia aristocrazia, il generone. La sua fine fu tragica: trascinato da un cane più robusto di quanto potessero trattenere le sue vecchie membra, cadde malamente e dopo qualche giorno d’ospedale morì. Costui, dunque, si presentava a casa Capanna verso l’ora di cena, e nonno Edoardo lo salutava con… affettuoso rispetto: «Signor Conte, vi tratterrete a cena con noi?», «Ho appena cenato», mentiva spudoratamente. Il copione prevedeva che a questo punto intervenisse nonna Elena: «Vorrà farci almeno compagnia?», e il Conte finiva per unirsi alla già numerosa tavolata.

    nonna Lella si trovava così a dover gestire due volte al giorno una tavolata più lunga di quella dell’Ultima Cena di Nostro Signore. Così a cena c’era spesso un uovo a testa, diversamente imbandito, ora in tegame col pomodoro, ora in camicia, ma soprattutto a frittata, nelle infinite varianti che permetteva tale trattamento. Ma era pur sempre un uovo!

    Una sera nonno Edoardo e nonna Lella erano stati invitati a cena, ed un lauto succulento desinare li attendeva. Prima d’uscire di casa passarono a salutare i figli, che, seduti attorno al grande tavolo, consumavano la loro solita cena. nonno dovette dire qualcosa che, nell’intenzione sua, doveva essere affettuoso: «Bambini, che se cena de bono ‘sta sera?», al che zia Olga, l’intellettuale di casa, che come vedremo sarà elemento di spicco dell’ala trotzkista della famiglia, rispose con la frase proverbiale dalla quale abbiamo preso l’avvio per questo racconto: «È l’ovo, c’ha da esse!».

    Non ricordo, dicevo, come e perché citai la frase, ma fui obbligato a spiegarne il relativo contesto storico. Alla fine della storia, mia figlia Alessandra disse: «Papà, prima che ti rincoglionisci del tutto, bisogna che tu scriva tutte queste storie!».

    È vero, bisogna che io scriva tutte queste storie, insulse o rilevanti che siano, udite quando ero ragazzo, da mio padre e dalle zie, soprattutto da zia Gabriella e da zia Carmela, depositarie di quella storia familiare aneddotica ed autoironica che deriva dal DNA di mia nonna Lella. Un’ironia beffarda ed ereditaria. «Quello spirito di patata Castagnacci», diceva mia madre, che non sopportava quel fare dello spirito anche su cose serie. Una trasmissione verbale, dunque, che deve essere registrata, perché ne resti memoria, non perché sia importante, ma perché pur esiste e sarebbe peccato andasse perduta.

    Riflettiamo bene: una memoria di che? Delle vicende di una famiglia romana, o piuttosto dei 150 anni di storia unitaria della nostra Italia, che pomposamente si vanno celebrando? Di entrambe, giacché le faccende di una famiglia sono la quotidianità, il riflesso casalingo di eventi storici, il vissuto microscopico di enormi accadimenti. Ed è proprio con questo intento che voglio narrare queste vicende, che ripercorrono 150 anni di storia patria.

    La nostra storia di famiglia risale, infatti, al mio bisnonno Giuseppe, il Primo Capitano della Gendarmeria degli ultimi Papa-Re, che difese il Sacro Soglio di Pietro dall’invasione dei piemontesi e dei senzaddio giacubbini e garibbardini, storia documentata da quelle vecchie carte che mio padre conservava nel cassetto, gelosamente chiuso a chiave, della sua scrivania, un tavolone nero con quattro zampe colonnari tornite. Io avevo scoperto, accoccolato tra queste quattro colonne, che la serratura poteva essere aggirata infilando le mie manine infantili nello spazio angusto tra il ripiano del tavolo e il fondo posteriore del cassetto. Ne estraevo così una cartellina bigia, piena di fogli ingialliti. Crescendo, con gli anni leggevo sempre di più sulla vita di quest’ avo gendarme, fino a quando la mia mano divenne troppo grande per lo spazio sottile che si interponeva tra la mia curiosità e quelle carte. Altre carte le aveva mio zio Umberto, fratello di mio padre, e alla sua morte si aggiunsero a quelle da lui custodite, altre ancora doveva averne l’unico cugino di mio padre, Giuseppe Capanna, che portava il nome dell’avo gendarme, ma di queste non ho più traccia.

    Nei suoi ultimi anni aiutai mio padre a sistemare tutti questi fogli, ai quali lui aggiunse quelli che riguardavano suo padre, il Commendatore Edoardo; e alla morte di mio padre io ho aggiunto quelli che riguardano lui. A dire il vero, in un impeto di narcisismo sto aggiungendo, via via, le carte che riguardano me, ma queste, forse, non interessano nessuno, e certamente non riguardano questa nostra storia. Esiste però una vaga speranza e un mio segreto pensiero: che qualcuno, tra figlie e nipoti, voglia salvarle dalla dispersione e dall’oblio.

    Così tre faldoni organizzano l’archivio familiare, con carte vecchie e carte meno vecchie, che coprono vicende che vanno dal 1817… ai giorni nostri.

    Ho molto riflettuto sul modo di raccontare questi 150 anni di fatti di casa e d’Italia, su come sciorinare questi panni di una famiglia borghese e dei suoi riflessi con la storia patria, e ho deciso di raccontare una sorta di fiaba ove il vero e il leggendario si mescolano, ove solo chi scrive sa quanto è vero, nel senso che è documentato, e quanto è interpolato sulla base dei racconti, di parole non scritte dei personaggi stessi della storia, e quanto, infine, è leggendario, perché deriva dalla libidine affabulatoria di chi scrive, ma verosimile, come sono tutte le leggende.

    2 Un medico-gendarme

    Un medico

    Veniamo al dunque, e partiamo da un antenato documentato: Giuseppe Capanna, primo capitano di Gendarmeria Pontificia. Egli nacque a Roma nel 1817; di suo padre, Pietro Capanna, desumo poche notizie da altri documenti. Mi risulta che fosse anche lui nell’esercito pontificio. Della madre so solo che si chiamava Giovanna. Leggo, infatti, nel certificato di Cresima: "… Josephum Capanna filium Petri Capanna et Joannae, Paroecia S. Mariae Transtyberim". Il bisnonno Giuseppe non solo era romano, mappuranco tresteverino, e questo, se mi consentite, è un blasone di tutto rispetto.

    Il bisnonno Giuseppe conseguì il Baccalaureato in Facultate Chirurgica Pontificii Romani Achigymnasii in data 5 dicembre 1836: aveva diciannove anni. Com’era prescritto, egli entrò in qualità di praticante nell’Ospedale della Consolazione. Questo ospedale, anzi Arcispedale, non c’è più, spazzato via dalle demolizioni imperiali del 1940, messe in atto per dar spazio alla via del Mare. A ridosso del foro Romano, al termine del Clivo Jugario si conserva, però, la chiesa seicentesca di Santa Maria della Consolazione: guardando la facciata absidale della chiesa, sulla sinistra c’è quel che resta dell’ospedale, un basso edificio grigio, quasi senza finestre, che ora ospita uffici comunali. Eppure un tempo era tra i principali Hospitali della città, ed era proprio la Consolazione che durante le epidemie assumeva il triste ruolo di lazzaretto. Qui, infatti, San Luigi Gonzaga contrasse il tifo petecchiale curando gli ammalati, e qui morì nel corso della grande pestilenza di quel morbo del 1591. Il ricordo di San Luigi, e della sua carità verso gli ammalati, doveva essere ancora assai vivo alla Consolazione, se il nostro bisnonno Giuseppe compose un ispirato testo, più mistico che medico, dedicato al Santo, e sul comportamento da tenersi verso i malati.

    È certo, però, che il bisnonno Giuseppe avesse anche un notevole talento medico e una felice attitudine alla chirurgia, come vedremo qualche riga più in là, certificato dal Primario Chirurgo del venerabile Arcispedale. Dopo la lettura della sua famosa dissertazione Sopra il braccio, posso farne fede io stesso. Queste pubbliche dissertazioni anatomiche, spesso accompagnate da dimostrazioni dissettorie, si tenevano tradizionalmente a Roma, e nelle altre università del Patrimonio di San Pietro, durante le feste di Carnevale, onde ricordare ai gaudenti l’ineluttabilità della morte e la caducità delle cose terrene. Io ho letto questo manoscritto, una ventina di pagine a penna, scritte con grafia minuta ma perfettamente leggibile e godibile; un testo pregevole, più di quanto ci si sarebbe potuto aspettare per un’epoca che nel contesto romano era scientificamente statica, ancora fortemente ancorata all’autorità dei grandi personaggi della scuola medica romana, Giorgio Baglivi e Giovanni Maria Lancisi; di questi due maestri fa menzione Giuseppe Capanna nella parte iniziale del suo discorso, definendo il Baglivi l’Ippocrate moderno. Di fronte a tanti maestri egli si sente vergognoso in pensando quanto io sia mediocre d’ingegno, giovane d’anni, e inesperto della Scienza. Egli però ha ragione solo quando si definisce giovane d’anni, poiché da quanto scrive, e da come lo fa, non sembra proprio essere di mediocre ingegno né inesperto in scienza. La sua cultura anatomica è notevole, non cita solo Vesalio e Ippocrate, ma discute su opere di autori che oggi sono classici, ma che allora erano contemporanei: Xavier Bichat, che lui italianizza, come era uso a quei tempi, in Bisiat, Jean Riolan divenuto Riolano, Peter Camper, e François Chaussier che il bravo Peppino translittera in Sciossiè.

    Ho definito famosa questa dissertazione sopra il braccio, e tale doveva essere a casa Capanna, se a distanza di due generazioni ancora se ne parlava, soprattutto a proposito di un’avventura dissettoria del nostro anatomista di famiglia. Il fatto trasmesso con dovizia di particolari è, in breve, questo: mentre nella notte a Roma impazzava il Carnevale, nella sala incisoria della Consolazione Giuseppe stava preparando la spalla di un poveruomo morto di fresco. La dissertazione, infatti, doveva prevedere, come detto, una parte dimostrativa. Sul tavolo di marmo faceva luce una lampada a petrolio, e il nostro, chino sul cadavere, era intento a rimuovere con precisione gli strati muscolari superficiali per mettere in evidenza il tendine dell’adduttore del braccio e la sua inserzione sulla tuberosità maggiore, e relativa cresta, della testa dell’omero. Forse a causa di una pressione sul tendine, o chissà per quale altro motivo il braccio del morto si solleva, urta la lampada che si rovescia e si spegne, e fa cadere sul tavolo il giovane Giuseppe che era sbilanciato in avanti. Così il poverino si viene a trovare al buio, sul tavolo di marmo e abbracciato da un cadavere. Questo fatto ha effettivamente una consolidata tradizione verbale, anche se è lecito pensare, considerando la macabra natura stessa del racconto, che particolari siano stati aggiunti in fasi successive, forse proprio da zio Umberto, medico anche lui.

    Ma il Carnevale è pur sempre una festa e gli amici di Peppino festeggiarono il successo scientifico del dotto amico con una scampagnata fuori porta San Pancrazio. Qui, tra applausi e bevute, Giovanni Lotti, che si definisce poeta dilettante, recita una Anacreontica di Giubilo. Si conserva tra i vecchi fogli dell’archivio questo testo poetico: i versi sono un po’ zoppi e le rime traballanti, vi si parla d’omero, di scapola e di bicipite inferiore, di una caduta da cavallo del poeta avvenuta a Sutri e della conseguente frattura del summenzionato omero. Si accenna anche alla situazione politica, e questo ci è utile per comprendere l’atteggiamento politico che correva nella cerchia delle amicizie del nostro avo. Cito quei versi:

    Il rione di Trastevere

    sempre si è fatto onore

    Forti con Re e Repubbliche

    e fidi al suo Pastore.

    Anch’io nacqui al Giannicolo

    Siamo di Patria figli

    Là dove Orazio Coclite

    Dette al Toscan perigli.

    Per le feste di Carnevale del 1841 Giuseppe Capanna viene invitato nuovamente a tenere una dissertatio, questa volta intitolata Dissertazione anatomica e fisiologica sopra l’organo del gusto. Ho letto anche questa, ma a me pare meno bella della prima. Forse si sente che Giuseppe sta maturando la decisione di lasciare la carriera medica. Nel giugno dello stesso anno, infatti, si presenta ai suoi superiori il Primario chirurgo Andrea Belli e il Priore dell’ospedale Giuseppe Squilla, per comunicare loro la sua intenzione di abbandonare la professione medica per arruolarsi nell’esercito pontificio.

    La sorpresa, ed anche il vivo rincrescimento per questa decisione, sono palesemente espressi nella lettera di attestato con la quale il Primario chirurgo congeda l’onesto giovane. Mi piace trascrivere questa lettera perché è un documento bello, per qualche verso commovente, che descrive il distacco di un maestro da un allievo sul quale aveva riposto speranze.

    Attesto io sottoscritto che l’onesto Giovane romano Sig.

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