Tanti volti nella memoria: Ricordi di un medico
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Tanti volti nella memoria - Donato De Michele
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Titolo dell’opera:
TANTI VOLTI NELLA MEMORIA
© 2021 Altrimedia Edizioni
ISBN: 9788869601392
© Altrimedia Edizioni è un marchio di
Diòtima srl - servizi e progetti per l’editoria
Prima edizione digitale: marzo 2022
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
INTRODUZIONE
Quando mi misi in pensione alla fine del 2011, dopo qualche settimana di totale inattività mi resi conto che i miei pensieri andavano spesso ai tanti avvenimenti legati al passato lavorativo e privato. Mi ritrovavo spesso a pensare con nostalgia alle tante persone che avevano affollato il mio mondo, a come potevano essere finite dal punto di vista umano certe storie che si erano presentate alla mia diretta osservazione e altre che spesso gli stessi protagonisti mi raccontavano per rendermi più comprensibili alcuni comportamenti all’interno delle loro famiglie, al fine di poter meglio inquadrare le situazioni personali che stavano vivendo ed eventualmente intervenire più accuratamente nella loro gestione.
Insomma, ero diventato una specie di confessore, man mano checol tempo il rapporto professionale si trasformava naturalmente in una relazione più umana e personale. D’altronde, era questo il tipo di lavoro che avevo scelto allorquando una disposizione sanitaria iniqua costrinse il medico a decidere se lavorare solo come medico ospedaliero o solo come medico di famiglia, la cui dizione più precisa era medico di base. Era il naturale corollario degli studi umanistici che avevo fatto da ragazzo e che mi facevano prediligere il contatto umano.
Aggiungo, per meglio sottolineare questa mia propensione, che, nonostante le mie specializzazioni in cardiologia e dietologia, le mie letture preferite riguardavano argomenti di psicologia. Poiché, quindi, dopo il pensionamento, la mia mente aveva preso piacere a ricostruire gli avvenimenti del passato, prima che il tempo li cestinasse definitivamente nel dimenticatoio, cominciai a scrivere tutto quello che ricordavo sulle persone che avevo visto più frequentemente, mettendo, negli abbozzi iniziali del libro, le loro generalità e invece successivamente, quando decisi di dare una forma letteraria a questa raccolta di aneddoti, trasformando così le persone in personaggi, decisi di chiamarli genericamente l’uomo
, la signora
, l’anziano signore
, così, in completo anonimato, eliminando del tutto i riferimenti anagrafici e modificando gli avvenimenti narrati, in modo da rendere non identificabili e irriconoscibili i personaggi raccontati.
Ogni storia avrebbe potuto costituire materiale letterario per un
futuro eventuale romanzo, e potrebbe ancora esserlo. In fondo, cos’è la letteratura se non la trasposizione scritta del proprio libro interiore fatto di personaggi e avvenimenti realmente vissuti?
C’è una famosa, commovente canzone cantata da Gabriella Ferri (i cantautori di ogni tempo hanno un tocco delicato nel raccontare i sentimenti, con l’aiuto delle note musicali, che li avvicina di buon diritto ai grandi poeti classici), la quale recita così: «Ognuno è un cantastorie, tante facce nella memoria, tanto di tutto tanto di niente, le parole di tanta gente; tanto buio tanto calore, tanta noia tanto amore, tante sciocchezze tante passioni, tanto silenzio tante canzoni». E poi termina: «Anche tu così presente, così importante nella mia mente, anche tu diventerai un ritornello che nessuno canta più».
Una piccola poesia, un’aria toccante sulla nostalgia che pervade l’esistenza delle anime più sensibili e sul destino doloroso che attende i tanti personaggi che hanno affollato la vita di ciascuno di noi, alla fine della nostra parabola terrena. Spetta allo scrittore o al poeta il compito – o almeno il tentativo – di renderli immortali. Tornando agli appunti che stavo mettendo insieme in maniera frenetica, non pensavo minimamente di farne un libro, volevo solo salvare quella parte di me che aveva avuto la fortuna di osservare, registrare, fotografare una realtà, o meglio frammenti di una realtà vera, autentica, non una mistificazione di essa fatta di ripensamenti, ritrattazioni, una mera realtà di circostanza, ricca di omissioni significative e ampie sforbiciate.
Erano pezzi di vita autentica che Freud sarebbe riuscito a portare alla luce con grande fatica accanto al suo lettino da visita, ma che nel mio caso erano frutto di una spontaneità e di una sincerità incontrovertibili, di una confessione diretta non rimaneggiata.
Quello che venne fuori quando assemblai tutti quei racconti brevi, aneddoti, contenenti pensieri, stati d’animo, frasi cariche di un particolare significato umano, flash mnemonici che erano rimasti scolpiti nella mia mente, era la storia dell’uomo, l’uomo con tutte le sue sfaccettature e la sua complessità, l’uomo con i suoi difetti e le sue fragilità, le sue contraddizioni, la sua tristezza profonda, il suo amaro sentimento di insoddisfazione, di noia, di condanna; l’uomo con le sue mezze verità, le sue verità nascoste, le sue mille ipocrisie cui lo costringe la società; l’uomo schiacciato dalle mille sofferenze, scontento di sé e del mondo; l’uomo di fronte alla realtà limitatrice e meschina in cui si dibatte la sua esistenza. In fondo al tunnel, la luce degli aneddoti sui nipotini sono come un bicchiere d’acqua fresca in un caldo e afoso pomeriggio d’estate.
AMICIZIE PERDUTE
Ricordo la sua figura imponente mentre scendeva la contrada dell’Onda a Siena, di ritorno dalla mensa degli studenti che quell’anno, il mio primo anno di università, era allocata in cima a quella contrada. Doveva essere il 1964. Si chiamava Lilino ed era di Matera. Chi l’avrebbe mai detto che, dopo la laurea, sarei andato a vivere in quella città! Lilino si accompagnava sempre con Nino, foggiano come me. Stavano sempre insieme e avevano preso in fitto un appartamento a Porta Camollia, lontano dalla contrada dell’Onda. Studiavano Medicina, entrambi erano qualche anno avanti a me.
Ricordo la litigata, condita con parole grosse, tra Lilino e un ragazzo napoletano alla mensa di Porta Pispini, forse per motivi di precedenza alla fila della mensa. Erano due colossi. Nonostante la sua balbuzie, Lilino gliene cantò a muso duro e se ne andò, lasciando l’altro incavolato a bestemmiare.
Di sera, spesso, noi foggiani, studenti a Siena, ci incontravamo tutti in piazza del Campo, passeggiavamo per via Banchi di sopra e Banchi di sotto e, camminando, ci raccontavamo di tutto, parlando in dialetto foggiano, a volte improvvisando delle gag comiche che divertivano anche gli altri ragazzi del Sud come noi. Poi si andava a bere qualcosa al bar Nannini, dove ci fermavamo a vedere una partita di calcio o un incontro di pugilato in televisione, oppure si andava al cinema a vedere un film con Alberto Sordi o con Franco e Ciccio. Le risate per quelle gag comiche improvvisate in stretto dialetto foggiano non si sono mai più ripetute.
Qualche anno dopo, Nino si laureò e Lilino si trasferì in un’altra università, non ricordo perché. In seguito, non l’ho più rivisto. Ci rincontrammo a Matera circa trent’anni dopo. Lui aveva preso casa nel capoluogo, trasferendosi dalla provincia, e aveva scelto me come medico di famiglia. Non si era più laureato, e penso che questo fosse il suo cruccio: non essere riuscito a diventare medico dopo diversi anni di università. Qualche volta, ci siamo visti a cena con le nostre mogli, a casa mia e a casa sua. In quelle occasioni si parlava dei tempi andati, di Siena, dei professori universitari più tosti, e di qualche collega comune, come Gino di Foggia, il quale aveva una corporatura notevole e i capelli pettinati indietro, caratteristica che gli era valso il soprannome di Elvis Presley, cosa di cui non ero mai stato a conoscenza ma di cui Lilino si ricordava bene. E naturalmente l’amico ritrovato voleva che gli parlassi di Nino, della sua carriera ospedaliera.
Ma io potevo dirgli ben poco al riguardo, dal momento che avevo perso i contatti con Foggia e quindi con i colleghi che lavoravano in quel nosocomio. Ricordavo perfettamente che Nino era diventato primario del manicomio in via Lucera e che una volta, ne ero sicuro, gli avevo inviato un mio assistito perché lo tenesse sotto controllo, in reparto, e in quell’occasione ci eravamo trattenuti a telefono, raccontandoci le cose più importanti della nostra vita lavorativa e non.
Lilino mi raccontò, a malincuore, che aveva ereditato i terreni del padre e che da anni ormai si occupava della conduzione dell’azienda agricola. Si sentiva che era un ripiego e che avrebbe voluto fare altro. Ma i tempi di Siena e dell’amicizia con Nino gli avevano lasciato dei ricordi incancellabili. Per questo diceva che gli dispiaceva che non si fossero più sentiti da allora e che gli avrebbe fatto tanto piacere rincontrare il suo vecchio e caro compagno di studi. Intanto, si ammalò di cuore e fu operato fuori regione.
Dopo qualche anno, per giunta, cominciò a smagrire il viso mentre lentamente gli veniva fuori un grosso pancione. Era un tumore intestinale raro ed estremamente invasivo, per il quale fu operato più volte. Ma quella bestiaccia ricresceva sempre in poco tempo.
Era diventato penoso andare a fargli visita, ormai si trattava di visite di cortesia: dal punto di vista medico c’era ormai poco da fare. Eppure, il suo pensiero andava sempre a Nino che non s’era fatto più sentire da Foggia. Così, una sera, mi decisi a contattare Nino telefonicamente, cosa che avevo in mente ormai da diverso tempo. Gli raccontai le condizioni di Lilino e lo pregai di telefonargli qualche volta per parlare dei vecchi tempi andati e di dargli la gioia di risentire il vecchio amico prima del grande salto.
Nino telefonò e Lilino fu contentissimo di aver ricevuto la tanto attesa telefonata da parte dell’amico dei tempi di Siena, anche perché quest’ultimo gli aveva promesso di andare a trovarlo a Matera. Lilino lo aspettò a lungo con ansia, ma Nino non andò mai a trovarlo. Non se la sentiva, o forse era del tutto svanito l’incanto dei bei tempi, della giovinezza, dell’università.
Svanito del tutto.
UNA VISITA IMPORTUNA
Era una sera d’inverno. Ricevetti una telefonata. Una voce femminile chiese del medico, c’era bisogno di una visita urgente a casa sua. Le chiesi se si trattava di un mio assistito, rispose di no aggiungendo se questo fosse un problema per me. Le chiesi l’indirizzo, mi rispose e io commentai che l’abitazione si trovava in un rione che frequentavo raramente.
«Senta» le proposi «per non perdere tempo con le indicazioni e i numeri civici poco visibili di sera, potremmo vederci di fronte alla chiesa che sta vicino al Brancaccio?» Rispose che andava bene.
L’appuntamento era dopo dieci o quindici minuti, il tempo materiale per arrivare.
Il luogo dell’appuntamento era dall’altra parte della città, la parte nord, sicché dovetti fare una vera corsa per arrivare in tempo. Quando giunsi sul posto stabilito, vicino alla chiesa, c’era buio. Una macchina era parcheggiata sotto l’unico lampione acceso e una signora fuori della macchina guardava verso la mia auto che stava sopraggiungendo. Mi accostai verso il marciapiede e mi fermai dietro la sua auto. La signora lanciò un’altra occhiata verso di me ed entrò nel suo mezzo. Partì immediatamente, evidentemente non c’era tempo da perdere, forse ero addirittura in ritardo. Comunque, seguii l’auto della signora che andava spedita. Raggiungemmo una strada per me nuova. La signora si fermò davanti a un alto cancello di ferro che si aprì immediatamente, lo superò e io la seguii. Entrammo in un cortile abbastanza ampio. La signora scese dall’auto e si diresse verso un portone correndo. Io fermai la mia auto, presi il più velocemente possibile la mia borsa da medico e mi precipitai verso il portone nel quale era appena entrata la signora. Ma il portone si chiuse e io non feci in tempo a entrare.
Rimasi un po’ infastidito di questo contrattempo e restai in attesa di qualcuno che venisse ad aprirlo, ma nessuno si decideva a scendere. Dopo un po’, cominciai a chiedermi che cosa stesse succedendo. Ritornai verso la mia auto, mi appoggiai con la schiena contro uno sportello, la borsa tra le mani, e mi misi in paziente attesa.
Dopo una manciata di secondi, uscì dal palazzo la signora di prima accompagnata da un uomo.
«Chi è lei?» mi fece costui.
«Come, chi sono», risposi con un briciolo di irritazione «sono un medico, la signora mi ha chiamato per una visita urgente e ci siamo dati appuntamento davanti alla chiesa vicina alla casa di riposo. Quando sono arrivato, ho visto la signora che mi ha guardato e si è infilata subito in macchina. Io l’ho seguita, ed eccomi qui per la visita».
«Guardi che noi non abbiamo chiamato nessun medico» fece l’uomo. Io rimasi di ghiaccio.
«Ma come è possibile» risposi «ho visto la signora che mi ha guardato appena sono arrivato sul posto, ed è entrata nella sua auto come se non ci fosse tempo da perdere con i convenevoli. E io l’ho seguita».
Loro due continuavano a guardarmi in silenzio, come se stessero decidendo se credermi o no. Mi resi conto che mi ero messo in una situazione che andava chiarita, prima che si arrivasse al peggio. Con una notevole presenza di spirito, tesi la mano alla signora. «Permettetemi di presentarmi» dissi, e feci il mio nome. «E io sono la dottoressa Tal dei Tali (non ricordo più i nomi), lavoro in ospedale» e mi accennò il reparto in cui prestava servizio.
«Non è possibile» dissi abbozzando un sorriso «questa è da raccontare in giro. Chiedo scusa, ma si tratta chiaramente di un malinteso. Per fortuna, siamo colleghi e ci possiamo capire. Praticamente, non è lei la persona che mi ha chiamato».
«Questo è poco ma sicuro!» fece lei.
«E allora» aggiunsi, convinto di essermela cavata a buon mercato, «mi conviene ritornare sul luogo dell’appuntamento dove certamente mi starà aspettando la persona che mi ha chiamato a telefono».
Chiesi di nuovo scusa per l’increscioso episodio, mi girai sui tacchi e raggiunsi la mia Mini Innocenti in preda a una forte rabbia e a un’indescrivibile vergogna.
IL PREDATORE PREDATO
Era anziano, piccolo e magro, e sembrava ancora più basso perché aveva sempre le