Il Re Nero
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Fantascienza - romanzo (314 pagine) - Il romanzo che ha svelato il talento di uno dei maggiori autori di fantascienza italiani, Premio Urania 2010.
Dopo La città dei dissonanti torniamo a Polis Aemilia, città-stato del futuro nata dall'unione di Reggio Emilia, Modena e Bologna, ridisegnata sulla base delle antiche polis greche, un isolato faro di ordine nel caos del paese, e una eccellenza nella tecnologia e nella scienza e livello planetario.
A Polis Aemilia muore una squillo: niente di straordinario, pensa Riccardo Mieli, una specie di investigatore privato con agganci nei servizi: la ragazza era una sacrificabile come tante. Ma chi sono i Dissonanti? Cosa è successo nel mondo? E chi muove i pezzi nella micidiale partita che ha per posta l'ultimo avamposto della civiltà sulla penisola? Una serie di enigmi che sembrano senza rapporto tra loro, a poco a poco convergono verso un centro. Ma al centro c'è qualcosa di oscuro, qualcosa che gli uomini chiamano con terrore: il Re Nero.
Maico Morellini, classe 1977, vive in provincia di Reggio Emilia e lavora nel settore informatico. Con il suo primo romanzo di fantascienza Il Re Nero ha vinto il Premio Urania 2010, pubblicato nel novembre del 2011 da Mondadori. Ha ricevuto segnalazioni al Premio Lovecraft e al Premio Algernoon Blackwood, collabora con la rivista di cinema Nocturno, ha pubblicato racconti su diverse antologie tra cui 365 Racconti sulla fine del mondo, 50 sfumature di sci-fi, D-Doomsday, I Sogni di Cartesio oltre che sulla rivista Robot e sulla Writers Magazine Italia.
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Anteprima del libro
Il Re Nero - Maico Morellini
Il primo principio dell’attacco:
non lasciare che l’avversario sviluppi i suoi pezzi.
Rueben Fine
Prologo
Martedì 12 settembre
Pioggia.
Da cinque giorni cadeva, implacabile, sovraccaricando le protezioni magnetiche del Policlinico e scorrendo sulle vetrate come un fiume caotico.
– È arrivato.
– Spacca il minuto. Hai avvertito la direzione?
– Sì, hanno detto di farlo salire.
Un rumore metallico indicò l’avvenuto aggancio della navetta ai segnalatori di posteggio. Le porte del Policlinico si aprirono lasciando sfuggire un po’ di luce all’esterno. La notte modenese rispose soffiando un frammento di oscurità nell’atrio. L’uomo entrò.
– Benvenuto. La stanno aspettando. Ultimo piano.
– Grazie.
La figura di tenebra si lasciò alle spalle la luce dell’ingresso e passò oltre la reception nel più completo silenzio.
Non gli erano mai piaciuti gli ospedali. L’idea stessa di ammassare tutte insieme le persone malate aveva qualcosa di innaturale. Gli sguardi dei pazienti toglievano energia. Osservavano i visitatori come vampiri, in cerca di qualcuno da contaminare.
La notte però trasformava tutto. Le corsie divenivano filari di lapidi, i numeri sulle stanze brevi epigrafi, l’intero Policlinico un vasto cimitero.
Sorrise. I cimiteri erano luoghi pieni di dignità. Gli piacevano.
L’ascensore, prima di attivarsi, emise un lieve ronzio: evidentemente le bobine magnetiche avevano bisogno di una revisione.
Era giusto che la direzione risparmiasse: i suoi servizi costavano molto.
Il buio lo inghiotti di nuovo mentre saliva, piano dopo piano, mentre le gocce di pioggia bagnavano la capsula di vetro.
– Benvenuto. – Un gracchiare metallico lo accolse non appena le porte dell’ascensore si schiusero. Rispose con un cenno del capo.
La stanza era avvolta nella penombra così come l’uomo che aveva parlato: curvo come un nero rapace in agguato, il volto nascosto dall’oscurità.
La sensazione di essere in un cimitero si rafforzò, mettendolo a suo agio.
– Spero che queste blande precauzioni non le creino disturbo – gracchiò di nuovo il corvo
, la voce distorta da un dispositivo elettronico. – Per trattare un certo genere di affari preferiamo riservatezza.
– Capisco.
– Abbiamo una questione delicata per le mani e lei ci è stato consigliato da alcuni nostri amici che sono stati suoi clienti.
– Non amo si parli di me. – La gradevole sensazione di poco prima se ne andò, scacciata dall’interlocutore.
C’era troppa vita in quella stanza.
– No, certo – balbettò l’altro. – Le assicuro che la riservatezza è una delle nostre priorità.
– Me lo auguro. Per tutti quanti.
Il corvo fece qualche passo indietro, nascondendosi ancora di più tra le ombre dello studio.
– Ha paura che possa vederla al buio? I miei clienti – marcò quell’ultima parola con un ghigno – hanno esagerato.
Passarono alcuni secondi.
– Sappiamo che è specializzato in operazioni di recupero. In particolare quelle che riguardano persone non convenzionali
. Come lei, per esempio – precisò il corvo.
– Come me?
– Non si dimentichi dove siamo e per chi lavoro. Che lei ora goda di una certa libertà, di una certa autonomia, dipende in buona parte dal segreto che la circonda. – Parola dopo parola, la constatazione divenne sempre più simile a una minaccia.
– Molto interessante. I corvi sanno anche ruggire.
– Prego?
– Nulla. Ha catturato la mia attenzione. L’ascolto.
– Non vuole sedersi? Ci vorrà un po’ di tempo, temo.
– No. – Troppa vita in quella stanza.
Il corvo finì di gracchiare mentre sotto di loro la città annegava in una pioggia di lacrime. Presto qualcun altro avrebbe fatto la stessa fine.
Era soltanto questione di tempo.
Parte Prima
Il nero muove
1
Circostanze
Mercoledì 13 settembre
– Detesto i cimiteri – mormorò Riccardo Mieli scendendo controvoglia dall’aerotaxi. – Soprattutto quando piove – aggiunse.
– Ha detto qualcosa?
– No no, niente. Quant’è?
– Diciotto euro.
– In cambio cosa mi dà?
– Come dice?
– Be’, per diciotto euro mi aspetto almeno un portachiavi. Ce l’ha?
– Senta, non ho tempo da perdere.
– Sì sì, ho capito. Tenga il resto.
Il tassista prese i diciotto euro, contati, in banconote e monete, e li controllò rapidamente.
– Mo và a cagher – mise in moto.
– A buon rendere. – Riccardo sorrise mentre la navetta decollava. Era sempre più raro sentire qualcuno che parlasse il dialetto in quel mondo dove tutti si riempivano la bocca con il greco e il latino. Ed era ancora più raro riuscire a divertirsi.
Omicidio, cimitero, funerale, cliente.
Con quelle quattro parole aveva annotato l’appuntamento. Avrebbe potuto aggiungere pioggia
a occhi chiusi. Non faceva altro che scendere acqua dal cielo da quasi una settimana. Nessuno di quei termini, pioggia o no, era divertente.
Il vialetto di ghiaia strisciava ai piedi di una bassa collina prima di perdersi in una moltitudine di cappelle. Pochi visitatori vagavano in mezzo alle lapidi, destreggiandosi tra i laghetti di acqua piovana.
Riccardo sfiorò la cintura. Un campo magnetico lo avvolse riparandolo dalla pioggia, ma non dalla fastidiosa malinconia che lo aveva aggredito.
Iniziò a scendere lungo il sentiero. Se ci fosse stato il sole, avrebbe individuato con facilità le tre zone nelle quali era diviso il cimitero. Il caratteristico colore delle cappelle, verde per Reggio, rosso per Modena e bianco per Bologna, era un tratto distintivo. Tuttavia, con l’autunno grigio appena iniziato anche i colori parevano brillare controvoglia.
– Sono Mieli. Sono arrivato al cimitero. – Il campo magnetico che lo avvolgeva provocò alcune scariche statiche, disturbando l’olochiamata.
– Prenda per la Zona Blu. Il funerale è quasi finito.
– Grazie, sarò lì tra poc… – L’altro aveva già riattaccato. Omicidio, cimitero, funerale, cliente potenzialmente rompiscatole.
Aggiungere due parole alla lista del giorno non aveva migliorato di molto la situazione.
Zona Blu. Dove venivano seppelliti coloro che non avevano la cittadinanza effettiva di Reggio, Modena o Bologna. Praticamente dal lato opposto del cimitero.
Accelerò il passo, sistemandosi gli occhiali. Alla batteria che alimentava il campo magnetico restava sì e no un’ora e mezza di autonomia e l’ultima cosa che desiderava era inzupparsi.
– Signor Mieli, la ringrazio della puntualità nonostante il poco preavviso. – L’uomo in impermeabile parlò senza guardare negli occhi Riccardo. Sotto la giacca si intravedeva una costosa camicia, abbinata a una costosissima cravatta in perfetta armonia cromatica con l’ombrello. Un avvocato. Solo gli avvocati continuavano a ripararsi dalla pioggia in quel modo.
– Non si preoccupi. La reperibilità fa parte del mio lavoro. – Riccardo seguì con lo sguardo le pochissime persone
che stavano lasciando il funerale. – Chi è la ragazza? Non aveva molti amici, a meno che il prete non sia uno di loro.
– No, non aveva molti amici. Anzi direi nessuno. Questo aspetto della faccenda è strettamente legato al motivo per cui lei è qui, e io non posso scendere in dettagli. Almeno finché non avrà accettato l’incarico.
– Capisco.
– Non credo. Mi chiamo Enrico Maestri e rappresento l’onorevole Mattia Raimondi. Tra poche ore diverrà di pubblico dominio la possibile implicazione dell’onorevole in una serie di eventi molto spiacevoli. È nostra intenzione assumerla affinché ci aiuti a dimostrare l’estraneità ai fatti del mio assistito.
– Mi sta chiedendo di accettare a scatola chiusa?
– Sto dicendo che quello che le dirò ora è strettamente confidenziale e che vige il vincolo di riservatezza. Da questo momento, la nostra conversazione sarà registrata e immagino lei sappia che in tribunale una prova vocale è considerata attendibile.
– Si rende conto che non sta facendo nulla per rendersi simpatico e per invogliarmi ad accettare? A prescindere dal lavoro che vuole propormi.
– Io sono un professionista. Come lei. Non è necessario che ci siamo simpatici.
Riccardo sospirò.
Omicidio, cimitero, funerale, cliente stronzo.
– E va bene. – L’investigatore si avvicinò all’avvocato. – Accetto il vincolo di segretezza. Chiunque ascolterà questo nastro sappia che tutto quello che ho spifferato non potevo dirlo e che…
– La prego, Mieli. Basta così.
Sì: era molto difficile divertirsi. Sistemò ancora gli occhiali.
– Come vuole. Parliamo un po’ di questo funerale. La ragazza è la vittima a cui mi ha accennato durante la telefonata, giusto? Era di Reggio, Modena o Bologna?
– Si chiamava Helena Brahamovich. – Maestri fece qualche passo verso un vialetto. – Possiamo continuare la conversazione altrove, qui non c’è più niente da vedere. Mi segua.
– Vede, Mieli – riprese l’avvocato, mentre camminavano – persone come la Brahamovich non hanno molti amici perché fanno un mestiere nel quale non c’è posto per l’amicizia.
– Una prostituta?
– Esattamente.
– Senta, non mi piace giocare agli indovinelli. Facciamo prima se mi dice tutto quello che devo sapere e poi risponde alle mie domande.
– Nel primo pomeriggio i mezzi di informazione divulgheranno il coinvolgimento dell’onorevole Raimondi nell’omicidio della Brahamovich. L’accusa ha già inviato richiesta al tribunale per iniziare il processo nel minor tempo possibile.
– Immagino che il magistrato sarà ben lieto di sbrigare la faccenda.
– Perspicace da parte sua. I magistrati, soprattutto quando si tratta di politici, si sforzano in tutti i modi di dimostrare che il vecchio sistema giudiziario conta ancora qualcosa, che non può essere smantellato. In più, saprà anche lei che il rigore morale aemiliano esige tributi molto costosi in casi come questo.
– Nessuno ha mai fatto nulla per ricucire la frattura tra gli alti papaveri e i magistrati.
Maestri smise di camminare. – Non è una tribuna politica, Mieli. Non siamo in una bettola di quarta categoria.
– Torniamo alla ragazza. – Riccardo sospirò, prima di riprendere a muoversi. – Che rapporti aveva con Raimondi?
– L’onorevole frequenta abitualmente prostitute. La Brahamovich era una di loro, e di una certa classe.
– Be’, apprezzo la sua franchezza, avvocato.
– È una situazione piuttosto complicata.
– Il mio motto.
– Mieli, per favore. Ci sono prove schiaccianti che indicano il mio cliente come unico colpevole dell’omicidio. Tracce di sangue. Tracce di sperma. Alcuni testimoni. Gli incartamenti dell’accusa citano anche una ripresa satellitare cittadina. Tutti gli ingredienti per chiudere il caso in meno di cinque settimane.
– Le prove sono attendibili?
– Assolutamente sì.
– Comincio ad avere un panorama abbastanza inquietante della faccenda, avvocato.
– Lo è, perché, a dispetto di tutto, il mio cliente è innocente.
– Ne è sicuro? Dimentichi per un attimo di fare il mestiere che fa e mi dica senza mezzi termini se Raimondi ha ucciso la ragazza.
– Sostiene di aver trascorso la notte con la Brahamovich e di essere uscito una decina di minuti prima che la donna venisse uccisa.
– Com’è morta la puttana?
Una piccola smorfia deformò il volto altrimenti impassibile dell’avvocato.
Non gli era piaciuto usare quella parola, ma l’atteggiamento arrogante di Maestri lo irritava. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per contrariarlo.
– La prostituta – calcò la parola – è stata uccisa con un coltello da cucina. Diciassette ferite, distribuite tra torace e addome. All’arrivo della polizia, l’arma del delitto era ancora conficcata nel corpo della ragazza. Le impronte del mio cliente erano su tutto il manico e su alcune parti della lama. Accanto al cadavere hanno rinvenuto una sorta di camice, completamente coperto di sangue. Nessun segno di scasso, di effrazione o di violenza. A tutti gli effetti, l’unico indiziato e possibile assassino è l’onorevole Raimondi.
– Non è rimasto molto che possa chiederle. Pensa che la polizia abbia fatto un buon lavoro oppure, vista l’evidenza dei fatti, si sia accontentata di rilievi superficiali?
– È in corso una campagna politica della magistratura per guadagnarsi le simpatie dei residenti della Zona Blu. È nel loro interesse raccogliere gli indizi in modo minuzioso e con grande scrupolo. Dopo i primi accertamenti, la possibile identità dell’assassino è stata trasmessa agli agenti scientifici e da quel momento la dovizia di dettagli nel rapporto è raddoppiata.
– Non ha risposto alla mia domanda.
– Strano, pensavo il contrario. I rilievi dei RIS sono stati eseguiti in modo impeccabile. Tuttavia, mi sento di escludere che le indagini abbiano vagliato ipotesi alternative, potenzialmente favorevoli al mio assistito. La polizia cittadina, per quanto alle dipendenze di Torre Imperium, è legata alla vecchia magistratura.
A Riccardo stava venendo un leggero mal di testa. Maestri parlava in modo così barocco da essere persino fastidioso.
– Ho capito. Dovrò iniziare da zero. C’è altro?
– No. Lei è la prima persona che ho contattato – rispose Maestri.
– Il mio giorno fortunato. Chi le ha fatto il mio nome?
– Non sia modesto. Non le riesce bene. A dispetto dei suoi modi, è un professionista. Altrimenti non sarei qui.
– Avvocato, è stato un piacere. Conosce il mio compenso.
– Arrivederci, Mieli. Si ricordi che non abbiamo, che lei non ha, molto tempo.
Riccardo si girò e tornò sui suoi passi: non aveva ancora visto il viso della ragazza. Una goccia di pioggia si infilò dietro gli occhiali, gli accecò un occhio castano per poi strisciargli sulla guancia. La batteria della cintura magnetica era esaurita. Prima di arrivare alla lapide e riprendere un taxi si sarebbe bagnato fino alle ossa. Questo sì che è divertente
pensò.
L’attico di corso Garibaldi, nel centro di Reggio Emilia, soffriva molto per le intense precipitazioni degli ultimi giorni. Le bobine che alimentavano la protezione magnetica dell’intera struttura si erano sovraccaricate con il risultato che ora funzionavano a intermittenza. Così metà del terrazzo era allagato.
Da quando era iniziato il progetto della Città Unica, Reggio Emilia aveva subito un progressivo incremento del verde pubblico, una sorta di ricompensa per essere divenuta un enorme cimitero. Di conseguenza, i pochi nuclei residenziali si erano sviluppati in verticale.
Purtroppo, godere di un’ampia vista sul nucleo reggiano aveva i suoi svantaggi, soprattutto in serate come quelle.
– Trentaquattro piani di palazzo e l’unico coglione che si prende l’acqua sono io – ringhiò Riccardo squadrando le immense pozzanghere che stavano annegando le sue piante. – Farei meglio a piantare mangrovie. Va be’, torniamo al lavoro.
Si sedette. La larga scrivania in vetroacciaio nero riluceva illuminata da cinque monitor sui quali scorreva un costante flusso di dati.
– Telefonata criptata, livello 3.1. Nucleo telecomunicazioni dell’Acropoli. Codice destinatario: Demiurgo. Uno dei cinque schermi si oscurò per poi lampeggiare brevemente.
– Mieli? – Una voce roca uscì dagli amplificatori olo, seguita dal comporsi di un volto sullo schermo.
– Proprio io. Sorpreso?
– Sono due anni che non ti fai vivo, stronzo. Fortuna che non ho aspettato te per pagare i miei debiti.
– Ti ho lasciato un po’ di tempo per cambiare il tuo codice destinatario, ma vedo che l’ho sprecato. Quando cresci? Scommetto che hai ancora Platone?
– Non è giornata. Non farmi pentire di averti risposto.
– Che vi prende a tutti quanti? Possibile che nessuno abbia più voglia di ridere?
– Parli bene tu, con il tuo bel lavoro di lusso e il culo nel velluto. Io almeno due volte al giorno devo rompermi le palle con quelli della Security Europea. Fanno pesare quello straccio di influenza che gli è rimasta sull’attività dei network! Come se non bastasse, hanno iniziato a starmi addosso anche quegli invasati dei Corpi Medici.
– Corpi Medici? Mai sentiti. Eppure viviamo nella stessa città.
– Bella battuta. Sei in forma oggi, Mieli. Ci hai messo due anni per scriverti i dialoghi? Vuoi sfondare con uno spettacolo comico alla Latteria?
– Se non altro, con il cabaret mi divertirei un po’.
– Tutto a un tratto non mi sembra poi passato così tanto tempo dall’ultima volta che ci siamo sentiti. Hai finito con le cazzate?
– Finito.
– Che vuoi?
– Il nome Mattia Raimondi ti dice niente?
– L’onorevole Raimondi? Quello degli ambientalisti?
– Proprio lui.
– Lavori alla grande se hai clienti di quel tipo. Il solito culo.
– Tieni d’occhio i notiziari del pomeriggio e scoprirai di cosa mi occupo adesso.
– Che vuoi sapere? Perché, se si tratta di metterlo nella merda, scordatelo: mi sta simpatico. Molto più di te.
– Su di lui nulla; il mio obiettivo è una ragazza. Si chiama Helena Brahamovich. È stata uccisa questa notte.
– E che c’entra con Raimondi?
– Sei il Demiurgo o no? Ti chiamo domani per sapere che hai scoperto. Compenso doppio rispetto all’ultima volta.
– Accetto solo per i soldi. Tu resti un coglione.
Riccardo sorrise. – Lo vedi che se ti impegni sai ancora ridere? A domani.
– Sì sì, non faccio altro. Addio Mieli.
Il volto dalla barba incolta che aveva dominato fino a quel momento lo schermo venne lavato via dal consueto scorrere di dati. Come al solito, il Demiurgo aveva sbuffato, vomitato offese, per poi finire con l’accettare l’incarico. Un modo di fare così lamentoso e pittoresco doveva per forza ispirarsi a un libro o a qualche vecchio film.
Eppure lo avrebbe aiutato; nel raccogliere informazioni non c’era nessuno bravo come lui.
Questa è fatta
pensò.
Cinque settimane non erano tante per un caso come quello. Non poteva contare sui magistrati e sulle forze di polizia della città. Forse nel nucleo di Modena qualcuno si sarebbe lasciato corrompere ma non a Reggio. E men che meno a Bologna.
Aveva molti contatti. Persone conosciute negli anni, che lavoravano per lui occasionalmente, e altre che invece lo aiutavano quasi a tempo pieno.
Mattia Raimondi: un politico che frequentava prostitute. Un ingenuo che si era comportato da sciocco rendendosi bersaglio facile per chiunque desiderasse incastrarlo. Se voleva avere qualche possibilità di risolvere l’imbroglio, doveva convincersi per primo dell’innocenza di Raimondi. Ma se così non era, cosa poteva avere spinto l’onorevole a uccidere con tale violenza? Forse la ragazza non si era prestata a soddisfare le sue perversioni? Forse l’uomo nascondeva un lato violento e schizofrenico? Non sarebbe stata la prima volta. La politica era diventata una faccenda assai complicata e c’erano cose che nessuno diceva, nemmeno al proprio avvocato.
Ma magari a qualcuno pagato per ascoltare sì.
Si massaggiò le tempie.
La più grande magia di quei tempi era l’esercito instancabile di psicologi (o terapeuti del lavoro, come preferivano essere chiamati) insediato nelle ricche profondità del tessuto sociale. Come grassi parassiti succhiavano i deliri e le paure dei padroni per poi distorcerli e adattarli alle loro parcelle.
Prosperavano nutrendosi di follia, ansia e perversione.
Lì doveva cercare i suoi alleati. Tra loro poteva esserci qualcuno che conosceva gli scheletri di Raimondi.
C’era una cosa che non aveva detto all’avvocato: se durante le indagini avesse accertato la colpevolezza dell’onorevole, tutte le prove sarebbero finite in mano alla magistratura, che fosse corrotta o meno. Fine del suo lavoro.
Fine dell’onorevole.
Un leggero senso di nausea lo assalì, come sempre, quando entrava nel vivo di un caso. Era inevitabile per lui percepire tutte le sfaccettature oscure del mondo in cui viveva e provarne disgusto. Capire i meccanismi che muovevano la città significa sì saper lavorare bene, ma anche toccare con mano tutti i cancri che vi prosperano, e forse anche quelli che accompagnavano lui stesso da più di quattro anni.
Non poteva permettersi una delle sue crisi proprio adesso. Prima doveva vedere una persona.
A Modena.
2
Equilibrio
Mercoledì 13 settembre
Le strade del nucleo bolognese da molto tempo non conoscevano più la vergogna della miseria e della povertà.
È una questione di equilibrio, dare e avere
pensò, mentre scivolava tra le ombre dei vicoli come un frammento di tenebra.
Centralizzazione delle strutture pubbliche, divisione delle forze di polizia, distribuzione delle tasse sui tre nuclei cittadini. Ecco il dare.
L’avere era stato pianificato in cinque anni di progettazione urbana con il coinvolgimento di uno degli architetti più famosi d’Europa.
Era nata Polis Aemilia. Indipendente e autonoma.
Reggio, Modena e Bologna, già unite da un cordone di zone industriali e quartieri ad alta densità abitativa, si erano fuse in un unico organismo pulsante, ristrutturato secondo le idee dell’archistar.
Così erano nate sia la ricca Acropoli bolognese, sia la pittoresca necropoli reggiana, verde polmone di morte della prima. Al loro centro la polis modenese, cuore delle strutture di servizio, scuole e trasporti soprattutto. E l’immenso impero del Policlinico. Tra queste colonne portanti, erano stati rigurgitati nomi latini con i quali battezzare monumenti, aree, quartieri. Un’altra arma per la formalizzazione di un progetto che trovava le sue origini in fasti e miti passati.
Una megalopoli, divisa per funzionalità e ricchezza.
Le sue, pensò, erano soltanto fredde constatazioni, un gioco di causa ed effetto: dietro quell’equilibrio non vi erano segreti che valesse la pena scoprire.
Muovendosi a piedi lungo via Indipendenza, nell’Acropoli, ricordò come quella strada fosse divenuta ciò che era. Lucente, ricca e antica.
Un tenue lampeggiare sul polso lo strappò dalla contemplazione dei portici.
– Pronto – rispose infastidito.
– Sono io. Abbiamo qualche novità, e non delle migliori. Non rispose.
– Il legale di Raimondi ha coinvolto Riccardo Mieli per tentare di scagionare il suo cliente – continuò il suo interlocutore.
– Mieli?
– Sì. È un problema per lei?
– No. Non lo è.
– Ne è sicuro?
– Non amo ripetermi.
– Come vuole. Tuttavia, le persone che rappresento hanno insistito perché le ricordi che Mieli non è uno sprovveduto. Gli stia lontano. Non vogliamo complicazioni.
– Dica loro di non preoccuparsi. L’unico a dover temere qualcosa è lei, Bassi.
Riattaccò.
Le labbra si schiusero in un sorriso obliquo, da clown. Aveva fatto la prima mossa contro i suoi stessi mandanti. Ora Nicola Bassi sapeva di non essere più una voce telefonica, o un corvo nascosto tra le ombre del Policlinico.
Aveva un nome, un cognome, un volto. Una famiglia.
E, cosa più importante di tutte, iniziava ad avere paura. Prima o poi capitava a tutti quelli che incrociavano il suo cammino.
Dove era rimasto?
Acropoli. Bologna. Formalizzare l’unione di tre città in una mastodontica struttura per poi allontanarle l’una dall’altra con una divisione così marcata dei ruoli aveva accentuato la già scarsa collaborazione tra le polizie locali, gli organi di sorveglianza e le strutture parastatali. Le tre polis, di fatto, erano unite soltanto dal desiderio di essere migliori rispetto al mondo esterno. Per questo il governatore, che da Torre Imperium esercitava il comando, stava ridisegnando la cartografia del potere, sostituendo le vecchie strutture con nuovi apparati più consoni alla purezza
della Polis.
Nelle zone d’ombra lasciate da questi conflitti, lui e quelli come lui si muovevano con una ferocia e un’efficacia capaci di abbattere ogni ostacolo.
Accelerò il passo lasciandosi alle spalle l’arteria principale dell’Acropoli e con essa il respiro malato della vita.
Cominciava a provare ansia. E rabbia. Raramente si costringeva a congiungersi con il caldo flusso sanguigno della città, ma quanto accadeva il suo organismo reagiva come a un trapianto sgradito.
Infilò una mano sotto l’impermeabile ed estrasse una piccola ipodermica dal contenuto ambrato.
Con un gesto fluido, dettato dall’abitudine, la piantò alla base del collo: avvertì il cocktail di calmanti genetici entrare in circolo, localizzarsi nei recettori e trasmettere al cervello sensazioni piacevoli, di tranquillità.
Ma l’effetto non fu quello atteso. Non del tutto: si stava assuefacendo anche a quella miscela.
Afferrò il cellulare.
– Sono io. I tranquillanti stanno perdendo effetto. Me ne serve una gamma di dodici dosi con matrice nuova, e mi serve subito.
– Dodici dosi? Non credo di potermi procurare tutte quelle cellule staminali in così poco tempo. I Corpi Medici si sono rimessi in movimento e ci marcano stretti. Sembra di essere tornati al periodo dei Dissonanti. – La voce femminile all’altro capo del telefono suonava esitante.
– Non te lo sto chiedendo. Ti ho detto quello che mi serve. Sai che posso pagarti bene e sai anche cosa può succedere se resto senza i tuoi preziosi intrugli. Sono impegnato in un lavoro molto, molto delicato.
– Ah. – Seguirono diversi secondi di silenzio. – Pensi di resistere fino a domani sera? Dovrò scontentare qualche cliente.
– Domani alle tredici sarò da te. Mi servono anche due impronte genetiche. Tra qualche minuto riceverai i file e un cospicuo anticipo, tanto per motivarti. Sono certo che troverai tutto di tuo gradimento.
– Va bene. Mi metto subito al lavoro.
– Buona idea.
Si fermò. Il vicolo era deserto; stretto, strettissimo, ricordava il corpo di un serpente pronto a soffocarlo con le sue spire di cemento.
Appoggiò le spalle alla parete, respirando a fondo una, due, tre volte.
Nascoste nelle zone più periferiche di Polis Aemilia, tra strade ormai in disuso e piccole baraccopoli, fiorivano comunità di senza tetto lontane dal lusso e dagli sguardi dei bravi cittadini.
Aveva bisogno di ritornare in quella miseria, dove la natura umana si faceva indifferente e ferina.
E di uccidere. A mani nude.
Aveva bisogno di percepire la vita che se andava, il caos che allentava la sua presa sulla città. Una polis meno viva. Più libera.
Quello era l’unico modo. Nessun farmaco. Nessuna droga genetica. Nessuna inutile terapia. Solamente lui, la vita e la morte. E la libertà.
Un mosaico del quale pochi, per ora, comprendevano il senso.
Le spire del vicolo parvero sciogliersi: aveva ritrovato il controllo, ma non per merito delle droghe. Da un lato questa consapevolezza era un vantaggio, dall’altro una tragica fragilità. In condizioni di stress, che richiedevano risposte rapide, non poteva far altro che ricorrere ai miscugli genetici dai quali era ormai dipendente.
Eppure, la verità era un’altra: la sua vita era paura,
ansia e minaccia, tuttavia non avrebbe saputo vivere altrimenti. Si staccò dal muro e riprese a camminare.
La sola idea di dover tornare nell’Acropoli lo disgustava. Accelerò il passo. Ancora un paio di incroci e la muta oscurità del Perla Nera sarebbe venuta in suo soccorso.
– Che posso fare per te?
– Servirmi un bicchiere di vino e prepararmi la sala del mare. Sto aspettando Alan.
– Ok, la sistemo subito. Che vino vuoi?
– Rosso, un Chianti. Correggilo con le fenotiazine, mille parti per milione.
– Cazzo! Con rispetto parlando, eh. Ci vai giù forte di prima mattina. Non come quei froci che bevono solo birra e assenzio, e dopo un bicchiere li vedi sotto il Nettuno a vomitare, dire un mare di cazzate e pisciarsi nei pantaloni. Se avessero davvero le palle, andrebbero a un safari nelle Casse del Secchia.
– Già. Invece con le fenotiazine la voglia di parlare passa. – Sollevò gli occhi dal bancone, incrociando lo sguardo del barista.
– Ho capito, vado a sistemare la sala. Ma voi sociopatici mi avete rotto i coglioni. – Appoggiò con poca grazia un bicchiere da vino sul banco.
Il Perla Nera era uno dei più vecchi edifici di Bologna, sopravvissuto al vento dell’innovazione dal quale era nata Polis Aemilia. I vecchi tavoli in legno tra il barocco e il gotico, gli archi con le loro colonne e un soffitto strangolato da lampadari in ferro battuto creavano un’atmosfera surreale. Alcuni avventori nostalgici in cerca della vecchia cucina emiliana, ormai scomparsa, si ritrovavano lì. Lui no. Mangiava per necessità, i suoi veri appetiti erano altri.
La città sembrava lontana.
Il gusto forte del vino aumentò quella sensazione e le fenotiazine si combinarono con i calmanti ancora in circolo. La fioca, debole illuminazione delle candele che ornavano le pareti nelle loro bugie parlava di solitudine, di malinconie.
Un rumore sgraziato lo distolse dai suoi pensieri. C’era qualcuno.
– Di solito sei tu che fai aspettare me – esordì l’uomo sulla cinquantina, capelli grigi. Aveva abiti sgargianti, in netto contrasto con quelli dell’altro.
– Fuori mi stavo annoiando. E avevo sete.
– Splendido, veramente. Non vedo Leonardo al banco. È di là a sistemare il Mare, oppure ha detto qualcosa di troppo? Non avrai perso la pazienza, vero? – Alan Terenzi, proprietario del Perla Nera, socchiuse gli occhi.
– Perché, ti sembro nervoso?
– Non mi piaci quando fai domande. Di solito dici quello che vuoi e basta: sentirti chiedere mi mette i brividi.
– Ecco perché vivrai a lungo. Sei intelligente.
– Ah. – Terenzi seguì con lo sguardo il ritorno del barista. – La sala è pronta?
– Sì, tutto a posto.
Si voltò.
– Andiamo?
– Fai strada, Alan.
– Mi innervosisce sentirmi chiamare per nome da te. Ogni cosa che esce dalle tue labbra sembra sbagliata. Lo sai che fai questo effetto alle persone, vero?
– Così mi spezzi il cuore.
Terenzi gli lanciò un’occhiata da sopra