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Anteprima del libro
Diario 1922 - Italo Balbo
Intro
I paragrafi che compongono Diario 1922, di Italo Balbo, si snodano fra il 1° gennaio e il 30 ottobre 1922, ripercorrendo gli storici avvenimenti di quel fatidico anno, dall’inizio fino alla marcia su Roma del 28 ottobre. Si tratta, come scrive lo stesso Balbo nella Premessa al Diario
, di: « Annotazioni, appunti, rapidi promemoria di giorni bruciati, incalzanti, folgoranti: materiale adatto per l’azione, e niente affatto per la letteratura».
Roma, il 21 settembre X.
Caro Italo,
abbiamo letto il tuo «Diario» e siamo molto lieti di ringraziarti per la esatta e scrupolosa esposizione degli eventi che ci hanno condotto a Roma nelle memorabili giornate dell’ottobre 1922.
Ti abbracciamo.
Aff. mo Emilio De Bono
Aff. mo Cesare M. De Vecchi
di Val Cismon
PREMESSA AL DIARIO
Queste che seguono, sono le pagine di un diario dove fu registrata, non dirò la storia, onor troppo grande e presunzione impossibile per il frettoloso marginatore, ma la cronaca degli avvenimenti del 1922, quali furono vissuti giorno per giorno da chi ebbe in sorte la somma ventura d’esserne uno dei protagonisti. Annotazioni, appunti, rapidi promemoria di giorni bruciati, incalzanti, folgoranti: materiale adatto per l’azione, e niente affatto per la letteratura: un incontro, un colloquio, un ordine di movimento, un dispaccio ricevuto o spedito, l’abbozzo di un discorso, un viaggio, un urto con gli uomini, un contrasto di tendenze o di tattica, la trascrizione quasi stenografica di una idea, una previsione, un punto fermo su decisioni irrevocabili - ecco di che cosa consta questo giornale di passione e di battaglia, che oggi, dopo dieci anni, quasi integralmente credo utile pubblicare. Il lettore che già conosce i fatti principali che hanno condotto alla conquista integrale del potere da parte del Fascismo, vi troverà, se non altro, una rievocazione fedele, una messa a punto di avvenimenti, una testimonianza sempre scrupolosa e qualche volta aspra della verità: e poiché il pellegrinaggio attraverso un passato appassionatamente vissuto non manca di poesia, troverà forse in questo rapido volume, tutt’altro che patetico come spirito e come intenzioni, più di uno spunto a rievocazioni care al cuore e qualche motivo di ritorno allo spirito infiammato del tempo, l’età della sognante giovinezza, a cui molti dicono troppo presto addio, invecchiando prima del tempo. Gli altri che conoscono solo parzialmente i fatti o non li conoscono per nulla, perché la stampa del tempo li svisò con resoconti di seconda mano, troveranno qui più di un documento e il gusto di una riesumazione tutta personale e diretta, priva di fioriture retoriche e letterarie, ma colorita di sincerità assoluta anche nei riguardi di rispettabilissimi camerati d’oggidì, fiancheggiatori o avversari nel lontano 1922. Mi sarebbe sembrato indegno modificare oggi nello scritto il mio pensiero d’allora.
Insomma anche la pubblicazione di questo diario, nel decennale della Marcia su Roma, risponde a quel criterio di attività che è nel mio carattere: uno scritto, che sia, un poco, una battaglia. Infatti il lettore troverà in queste pagine frammentarie una idea centrale che tutte le muove e le giustifica: la certezza che al Fascismo, sin dagli inizi, incombeva il destino della conquista integrale e rivoluzionaria del potere. Integrale: cioè senza compromessi e su tutto il fronte della vita pubblica italiana; rivoluzionaria: cioè con un atto violento, insurrezionale, che segnasse un netto distacco, anzi un abisso, tra il passato e il futuro. Questa idea che fu certamente di Benito Mussolini e si tradusse nello scrittore di queste pagine in passione struggente, non fu di tutti i fascisti e non fu che tardi intuita dalla gran massa del popolo italiano, il quale, anche dopo la Marcia su Roma, continuò a lasciarsi ingannare dagli avversari del Fascismo, fermi a negare la portata rivoluzionaria dei fatti dell’ottobre 1922, e a lasciarsi sedurre dai cosiddetti fiancheggiatori che con melati argomenti e omeopatiche lusinghe tentarono di addomesticare la rivoluzione trionfante.
Riaffermare oggi la natura, la continuità rivoluzionaria del periodo che dalla guerra condusse alla Marcia su Roma, può essere ancora necessario se si pensa che dieci anni sono passati da quell’evento, e dieci anni non sono pochi per chi li ha vissuti in tensione continua e per chi incomincia ora, ignaro dei precedenti, a vivere il decennio nuovo. Il Fascismo si distende ormai nel tempo: il tempo è per definizione galantuomo, ma qualche volta tradisce, o fiacca, o cancella. Durare è sempre invece la grande parola.
Del resto penso che rievocare la mia esperienza personale, nonostante sia, per dono di fortuna, più singolare di quella dei miei coetanei, valga a dare un esempio su mille del destino che condusse tanta gioventù italiana al Fascismo. E poiché ci insegnavano a scuola la bontà del detto «ex uno disce omnes», si troverà forse qui la chiave della formazione spirituale, degli orientamenti straordinari e imprevisti, per tanti borghesi incomprensibili, delle generazioni uscite dalla guerra e avviate alla rivoluzione.
Io non ero, in sostanza, nel 1919-1920, che uno dei tanti: uno dei quattro milioni di reduci dalle trincee: partito per la guerra diciottenne, già orientato, come i tre quarti dei ragazzi di allora, verso le idee della estrema sinistra, interventista per ideali di giustizia umana e niente affatto per motivi di nazionalismo conservatore o «destro» come allora si diceva. Un figlio del secolo che ci aveva fatti tutti democratici anticlericali e repubblicaneggianti; antiaustriaci e irredentisti esasperati in odio all’Asburgo tiranno, bigotto e forcaiolo; adoratori, con le lagrime agli occhi, di una Italia carducciana, che amava la Francia victorughiana fino... ad odiarla per i suoi travisamenti antitaliani, ma credeva alla razza di Roma, alla fraternità latina, alla civiltà occidentale, raggiante di razionalistica luce contro il fenomeno tedesco di forza bruta e di prepotenza.
Quando tornai dalla guerra - appunto come tanti - avevo in odio la politica e i politicanti, che a mio parere avevano tradito le speranze dei combattenti, riducendo a una pace vergognosa l’Italia e a una umiliazione sistematica gli Italiani che mantenevano il culto degli eroi. Lottare, combattere, per ritornare al paese di Giolitti, che faceva mercato di ogni ideale? No. Meglio negare tutto, distruggere tutto, per tutto rinnovare dalle fondamenta. Molti a quell’epoca, anche generosissimi, piegarono verso il nichilismo comunista. Era il programma rivoluzionario già pronto, e, apparentemente, più radicale: in lotta contro la borghesia e contro il socialismo, su due fronti ugualmente impegnati. È certo, secondo me, che, senza Mussolini, i tre quarti della gioventù italiana reduce dalle trincee sarebbero diventati bolscevichi: una rivoluzione a qualunque costo!
Mussolini deviò il corso degli avvenimenti: diede alla gioventù combattente quel programma di negazione radicale del presente che essa cercava, e in più, al di là dell’evento rivoluzionario, un miraggio positivo: il regime dei giovani, l’Italia di Vittorio Veneto al potere, lo Stato Fascista.
Allora quelle migliaia di reduci, che non volevano far la rivoluzione per morire, ma per vivere secondo l’ottimismo inestinguibile e le suggestioni della nostra razza sana, non incline al misticismo morbido dell’Est, videro uno sbocco. Messi al bando dall’Italia ufficiale, trattati da incomodi testimoni, evasi per puro caso dalle carneficine della guerra, e degni, per primi, della grande espiazione di cui parlava Treves alla Camera, quei reduci difesero insieme la vita propria e quella della Nazione.
Chi scrive non partecipò all’adunata di San Sepolcro, né all’attività politica del Fascismo diciannovista, semplicemente perché fu ancora soldato per tutto quell’anno terribile. Era ancora in divisa, a Udine, tra i suoi scarponi, e pubblicava L’Alpino, diretto ai suoi compagni di trincea, un settimanale che aveva la sua redazione in caserma, il primo che osasse parlare, tra militari, di rivolta contro il pavido regime di Nitti e da questo avesse l’onore della censura. Era ancora soldato quando a Firenze febbrilmente cercava di guadagnare il tempo perduto nei quattro anni di guerra, completando i suoi studi senza i quali giudicava impossibile e indegno per un giovane affrontare i problemi della conquista dello Stato. Però a Firenze, con gli ufficiali studenti si batté a revolverate contro i selvaggi e bestiali persecutori degli ufficiali e i denigratori della guerra.
Ragazzi tutti: dai ventidue ai venticinque anni; nel ’19-’20 il sottoscritto ne aveva precisamente 23-24. Quando si congedò, quasi contemporaneamente, dalla caserma e dalla università (un brusco richiamo al benevolo reggimento si avvicendava con un appello di esami), non portò con sé che il suo pugnale di ardito e un tascapane di bombe a mano, trafugate in un deposito dove erano state abbandonate all’acqua, oggetti in disuso. Aveva avuto cura di sceglierle ben asciutte. Erano un cimelio della guerra passata, ma potevano diventare l’arma della guerra futura. Quale? La guerra dei giovani. C’era Fiume, Mussolini, Il Popolo d’Italia, dove aveva scritto i primi articoli nel 1914, ed al quale nel ’19 e nel ’20 aveva inviato i suoi telegrammi di adesione da studente-soldato.
Intuiva che per farsi largo i giovani dovevano combattere a fondo, senza remissione, contro la Italia decrepita del governo del parlamento. Era pronto. La guerra gli aveva insegnato a comandare e a obbedire. L’una cosa e l’altra gli si offrì non appena toccò dopo tanti anni il suolo di Ferrara, città nativa, che usciva alla fine del 1920 - il 20 dicembre - da un lavacro di sangue, l’eccidio del Castello Estense. Da quei giorni data, io credo, dopo i fatti di Palazzo d’Accursio a Bologna nel novembre e quelli di Ferrara nel dicembre, la definitiva marcia del Fascismo verso la conquista rivoluzionaria del Paese.
Gli anni che precedono, appartengono, nella storia del Fascismo, a una élite: quella che ebbe la fortuna di trovarsi non solo spiritualmente (ché già noi combattenti eravamo tutti con lui) ma anche materialmente vicino a Mussolini. I tre quarti dei diciannovisti di San Sepolcro erano milanesi o abitavano a Milano. I nuclei fascisti sparsi per l’Italia erano pattuglie animose, ma scarse di numero, eterogenee e senza grande efficacia. Io credo che fino al 1920 soltanto Mussolini sapesse di preciso che cosa voleva e dove era necessario arrivare.
La lotta, feconda di eroismi leggendari, si coloriva di passioni e di aspetti diversi e spesso contrastanti. Negli ultimi mesi del ’20, la bestialità sanguinaria dei socialisti, combinata con l’abulia dei partiti liberali, la demagogia sturziana, la paralisi del parlamento, la nullità del governo, inducono tutte le forze vive del paese a raggrupparsi nei Fasci; praticamente incomincia il paradossale governo del Fascismo in uno Stato che è governato dall’antifascismo: la conquista del potere procede a tappe forzate, con la contemporanea svalutazione degli organi ufficiali di esso e il predominio delle forze rivoluzionarie.
Delle quali, strumento decisivo, furono le squadre d’azione.
Non riassumerò gli avvenimenti del 1921, fin troppo noti. Un particolare che credo degno di nota, per quanto mi riguarda, è il seguente: che nel progressivo e rapido incalzare del destino, che mi portava dalla mia città di provincia a capeggiare forze rivoluzionarie delle provincie vicine e da queste al comando di reparti nazionali, io mi occupai, con maggior passione, delle formazioni militari del movimento fascista. La mia vocazione era, e restava, quella del soldato. Intuitivamente veniva fatto a me di anteporre ad ogni questione politica quella della efficienza offensiva e difensiva delle squadre d’azione: e a Mussolini e ai grandi capi del movimento, di vedere in me un combattente, abituato al dominio degli uomini, per temperamento istintivo e, per esperienza singolare di guerra, resolutissimo. Così entrai nel Fascismo ferrarese quale capo militare delle squadre, per violare la già intangibile e rossa campagna ferrarese, ove i fascisti non si erano ancora avventurati, lasciando ad altri il compito della segreteria politica. Non importa se, dopo pochi giorni, anche questa piovve sulle mie spalle (e non fu all’inizio priva di amarezze per le inevitabili gelosie locali). - Io mi assunsi il compito di portare disciplina, gerarchia, responsabilità ai manipoli volanti, che dovevano spezzare per sempre il terrore rosso; di armarli (non mancavano sotto il mio comando moschetti, bombe e mitragliatrici); di stabilire una tattica dell’assalto, una certa tecnica delle sorprese, una elementare strategia contro ai rossi, che ci combattevano di fronte, e ai poliziotti e guardie regie che miravano a sorprenderci alle spalle. In quel giuoco con la morte da una parte, con la galera dall’altra, educai i camerati ad essere imbattibili. Una baldanza, una temerarietà, una spregiudicatezza, una cavalleria, non priva di gaiezza, caratterizzò quelle scorribande fulminee, il cui esito dipendeva da una precisione al cento per cento nell’esecuzione del piano comandato. A chi mi chiedeva quale fosse il segreto di una organizzazione volontaria così perfetta, rispondevo: prima l’esempio, secondo la disciplina. Non transigere con se stessi, non transigere con gli altri: avere e comunicare l’orgoglio del pericolo, ma dare lo scrupolo della responsabilità, la coscienza di un dovere di guerra, a chi comanda e a chi ubbidisce. Inoltre, imbandierare di poesia, illuminare di generosa emulazione la giovinezza armata. Adunate, giuramenti, canzoni, riti di guerra: minuzioso inquadramento; intuizione delle singolari qualità e delle particolari attitudini degli individui; scuola del comando, educazione all’ardimento, sprezzo della battaglia a parole, esaltazione della violenza come il mezzo più rapido e definitivo per raggiungere il fine rivoluzionario. Davanti all’ideale conquista dello Stato, nessuna borghese ipocrisia e nessun sentimentalismo: l’azione rude e aspra, condotta a fondo, a qualunque costo.
Il 1921 è stato per il Fascismo l’anno dell’organizzazione e della raccolta. Le masse aderiscono al movimento a centinaia di migliaia. Nella bassa valle del Po è il grande quadrilatero: Ferrara, Mantova, Bologna, Modena; nel ’21 esso è già la piattaforma dell’azione collettiva in grande stile. Alle elezioni politiche, non ancora venticinquenne, fui ben lieto sostituire al mio il nome di Mussolini nel posto che mi era stato riservato come primo nella lista dei candidati. Mussolini fu eletto plebiscitariamente deputato di Ferrara. Egli optò per Milano. Le polemiche sui minorenni non mi interessavano. Molte ambizioncelle personali covavano a quel tepore di battaglia parlamentare. Ad altri la politica di Montecitorio: c’era per me - ambito compito - l’azione di propaganda e l’azione militare.
L’Emilia costituiva la più vasta riserva di uomini del Fascismo italiano. Potevo agire, ormai, con forze imponenti. Ed esser sicuro del fatto mio.
Feci, nel settembre, il primo esperimento grandioso: la mobilitazione di 3.000 uomini, la Marcia su Ravenna. Per la prima volta il Fascismo metteva al suo attivo una impresa di così grande portata. Le squadre delle due provincie - Ferrara e Bologna, con una rappresentanza di reggiani - furono divise in due colonne di 1.500 uomini ognuna, ogni colonna suddivisa in compagnie e plotoni. E ogni formazione ebbe il suo Capo. Ogni Capo i suoi gradi. Fece in questa occasione la sua grande prima comparsa, come divisa militare, la camicia nera, che era il costume ordinario del lavoratore di Romagna e che diventò la divisa del soldato della rivoluzione.
Potei condurre quei 3.000 uomini inquadrati perfettamente e non imperfettamente armati, a Ravenna, in tre tappe di marcia a piedi. Le due colonne s’incontrarono a Lugo, innanzi alla tomba di Baracca, e procedettero riunite. Da Lugo a Ravenna ebbi al mio fianco Grandi, rappresentante dell’Emilia al Comitato Centrale, che aveva guidata la colonna bolognese. Festeggiavamo il Poeta della antichissima e nobilissima Italia, padre e creatore della lingua che aveva conservato l’unità spirituale al popolo più diviso e tiranneggiato del mondo in sei secoli di storia: e insieme col fiero ghibellino, la cui vita era stata tutta una lotta nelle competizioni civili del suo tempo, rivendicavamo