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Come quando piove con il sole
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Come quando piove con il sole
E-book317 pagine4 ore

Come quando piove con il sole

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Info su questo ebook

Koraline è alla ricerca di una nuova vita. New York è la sua meta. Ma un incontro inaspettato cambierà per sempre le sue prospettive.

Koraline Appleton, di fronte all’ennesima delusione, prende una decisione drastica: lasciare tutto e cercare di costruirsi una nuova vita altrove. Ha così inizio un viaggio “on the road” che la porta dalla cittadina dell’Idaho in cui è sempre vissuta fino a New York. Ma una volta arrivata a destinazione dovrà rivedere i suoi piani. L’incontro inconsueto con l’affascinante e misterioso Ethan Forsyte cambierà la sua esistenza e le sue prospettive? O i suoi sentimenti ostili nei confronti dell’amico-rivale d’infanzia John Keats si trasformeranno in qualcosa di completamente diverso? Sicuramente nella grande città Koraline scoprirà l’amore. Per Ethan, per John ma soprattutto per se stessa.

Tra dolcezza e passione, la storia di una donna alla scoperta di se stessa e di un amore che sconvolgerà la sua esistenza.
 
LinguaItaliano
Data di uscita11 lug 2023
ISBN9781915077059
Come quando piove con il sole

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    Anteprima del libro

    Come quando piove con il sole - Barbara Morgan

    COME QUANDO PIOVE

    CON IL SOLE

    (Previsioni d’amore)

    Barbara Morgan

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    Proprietà letteraria riservata

    Copyright ©2021 Ghostly Whisper Ltd.

    Prima Edizione: 2015

    Progetto grafico: Le Muse - Grafica

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi e luoghi narrati sono un’invenzione dell’autore o usati in maniera fittizia. Qualsiasi analogia con persone, eventi e luoghi reali è puramente casuale.

    A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile è vietata la riproduzione di questo libro o parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilm, registrazioni o altro.

    ISBN  978-1-915077-05-9

    Website: http://www.ghostlywhisper.com

    Facebook: https://www.facebook.com/ghostlywhisperltd

    Instagram: https://www.instagram.com/ghostlywhisperltd

    Twitter: https://twitter.com/GW_BooksEtc

    D:\Dati\Pictures\Pictures\MATERLIALE GHOSTLY WHISPER\LogoRomaceBarbara.png

    Koraline è alla ricerca di una nuova vita. New York è la sua meta. Ma un incontro inaspettato cambierà per sempre le sue prospettive.

    Koraline Appleton, di fronte all’ennesima delusione, prende una decisione drastica: lasciare tutto e cercare di costruirsi una nuova vita altrove. Ha così inizio un viaggio on the road che la porta dalla cittadina dell’Idaho in cui è sempre vissuta fino a New York. Ma una volta arrivata a destinazione dovrà rivedere i suoi piani. L’incontro inconsueto con l’affascinante e misterioso Ethan Forsyte cambierà la sua esistenza e le sue prospettive? O i suoi sentimenti ostili nei confronti dell’amico-rivale d’infanzia John Keats si trasformeranno in qualcosa di completamente diverso? Sicuramente nella grande città Koraline scoprirà l’amore. Per Ethan, per John ma soprattutto per se stessa.

    Tra dolcezza e passione, la storia di una donna alla scoperta di se stessa e di un amore che sconvolgerà la sua esistenza.

    CAPITOLO 1

    Ogni fine è un inizio. Si dice così vero? Non so dove l’ho sentito. Forse l’ho letto da qualche parte, su un libro di crescita personale. Oppure l’ho solo sognato. In ogni caso indietro non ci torno. Non per contemplare la fine. La fine della mia carriera universitaria insieme a quel briciolo di dignità che mi è rimasta. La fine della mia vita come avevo immaginato che fosse, o come gli altri se l’erano immaginata al mio posto, perché a quanto pare io sono troppo pigra e sconclusionata anche solo per immaginare.

    Una decisione però alla fine l’ho presa. Da sola questa volta. Chi l’avrebbe mai detto? Sono riuscita miracolosamente ad arrivare alla stazione in tempo per prendere al volo l’autobus della Greyhound per New York. Al volo, letteralmente. Forse avrei fatto meglio a prendere l’aereo considerando il viaggio infinito ed estenuante che mi aspetta.

    In ogni caso ho corso come una dannata perché l’autista mi vedesse prima di chiudere tutto e partire. Così mentre l’autobus era già in movimento ha riaperto e mi ha urlato: «Sali ragazza!»

    Se non mi avesse fatta salire a quest’ora mi starei ancora aggirando per Idaho Falls in preda alla disperazione. Non che qui sia meno disperata, certo. Ma probabilmente al campus sarei stata anche in preda a John Keats, oltre che alla disperazione. Quel bamboccio malefico, arrogante e pieno di sé. Bamboccio malefico perché è pure più giovane di me, di ben sette mesi.

    Come diavolo fa ad essere così avanti e in anticipo praticamente in tutti i corsi? Sempre stato così. Non sembra ci sia qualcosa che non sappia fare egregiamente il bamboccio malefico! E questo, se devo essere onesta, mi irrita a morte.

    Guardo fuori dal finestrino. La strada che mi scorre davanti agli occhi sembra così uguale a se stessa. Sempre, sempre, sempre. Sono vissuta in Idaho tutti i ventidue anni della mia vita, eppure ancora mi stupisco di questa vastità. Deserto, deserto e ancora deserto. Tanto che a volte mi sembra di perdere l’orientamento. Sì, sono il tipo di ragazza che si perde ovunque, anche nella propria città.

    Appoggio la mano al finestrino e sorreggo la testa, come se mi facesse da cuscino. Avrei preferito che la donna seduta al mio fianco non si fosse alzata per farmi passare nel posto vicino al suo, l’unico disponibile accanto a una persona che si spera non mi fissi le tette durante il lungo viaggio che mi aspetta. Avrei preferito restare seduta all’esterno. Per non rendermi conto così inequivocabilmente che me ne sto davvero andando.

    Ho fallito ancora una volta. Sono una fallita quindi. E il risultato del mio fallimento è là, nella bacheca del college sotto gli occhi di tutti. Il mio nome, Koraline Appleton, in fondo alla lista accanto a un miserabile numero che dice che io non sono abbastanza. Il nome di John Keats, il bamboccio malefico, invece è il primo di quella schifosa lista. Tanto per cambiare.

    Sempre il primo, lui. E mentre ero là ferma, impalata come una statua di marmo, eccolo che arriva. Solleva un sopracciglio e guarda in alto con aria compiaciuta per il suo ennesimo successo. Poi giù, giù, giù… ancora più giù… e là, proprio in fondo che più fondo non si può, ci sono io. L’ho visto con la coda dell’occhio, essendosi messo lui un passo davanti a me. Ha anche aperto la bocca per dire qualcosa, quasi si volesse scusare. Come se ci fosse qualcosa da dire!

    Nervosa batto il piede a terra e la donna al mio fianco volta il viso e mi scruta con espressione interrogativa. Sembra la classica madre di famiglia messicana. Me la immagino circondata da bambini dalla pelle color caramello. Il pensiero mi spinge ad accennarle un sorriso. Lei ricambia il sorriso e torna a fissare lo sguardo sulla rivista che tiene tra le mani.

    Tutti nella mia famiglia sono medici, da generazioni. Non ricordo nemmeno più a quando risale il legame indissolubile tra la mia famiglia e la medicina. Se fosse possibile anche i due cani di mio padre e il gatto persiano di mia madre sarebbero medici. Stessa cosa nella famiglia del bamboccio malefico, i Keats. Suo padre è il migliore amico del mio, sempre che a quell’età abbiano ancora il concetto di migliore amico. Per cui la mia è stata una sorta di condanna perpetua, fin dalla più tenera età. Condannata ai Keats e al loro figliolo prodigio. Non sono la pecora nera di una famiglia, ma di due. E se il continuo confronto con mia sorella e mio fratello potevo tollerarlo, quello con John Keats, più vicino a me per età, proprio no.

    A volte quasi mi convinco che sia stata tutta colpa mia. Forse è il karma che mi perseguita. Dev’essere stata la botta in testa che si è preso da bambino quando aveva appena imparato a camminare e io l’ho spinto facendolo inciampare nel nostro trenino elettrico. Sì, proprio così, avevamo un trenino elettrico in comune. La cosa buffa è che pur essendo così piccolo si tratteneva dal piangere anche se aveva le lacrime agli occhi.

    I nostri genitori hanno continuato a esaltare per anni l’orgoglio di John fin dalla prima infanzia. Come se io fossi stata una frignona! Insomma, che noia quel bamboccio! Almeno a camminare ho imparato prima di lui, anche se mi si potrebbe contestare il fatto che avendo sette mesi in più è abbastanza normale, nemmeno da quello mi deriva un merito personale. Poi le ho prese quella volta che l’ho fatto cadere intenzionalmente, ma almeno ne è valsa la pena. O forse non proprio, se è stata quella botta a renderlo tanto intelligente.

    In ogni caso è bello questo viaggio, entusiasmante. L’uomo dietro di me sta russando come… come non so cosa, non ho idea con che cosa si possa paragonare. Un trombone forse… un trombone con fischio incorporato?

    La questione fondamentale è che bamboccio malefico lo chiamo solo dentro di me, tra i miei pensieri. Sono troppo una brava ragazza per chiamarlo così pubblicamente. Anche perché almeno un difetto ce l’ha pure lui, non è altissimo. È mediamente alto. Non potrà mai essere un campione di basket. Nemmeno se lo desiderasse con tutta l’anima. No, niente da fare ragazzino!

    Però lui, al contrario, Appleline mi chiama sia in privato sia in pubblico. Koraline Appleton. Per lui sono diventata Appleline, come se la mia linea fosse quella di una mela! Una mela di norma è… rotonda. Io un po’ tondetta lo ero alle medie, ma poi mi sono snellita. Altroché se mi sono snellita! Ma quel fetente ha continuato imperterrito a chiamarmi Appleline e si è sempre divertito un mondo.

    Io invece non sono mai riuscita a creare nomi ridicoli dal suo nome per prenderlo in giro. In che modo lo storpio un nome come John Keats? Sì, John Keats proprio come il poeta inglese! Insomma, se anche lo avessi fatto, poi sarebbe sembrato che prendessi in giro il poeta. E non vorrei provare sensi di colpa nei confronti della letteratura inglese.

    Ho un mal di testa atroce. Questa situazione deve finire, una volta per tutte. Ora me ne andrò a New York da Sharon, la mia migliore amica. Conta come migliore amica, anche se non la vedo da dieci anni? Cioè, non di persona. La sento spesso però, sia al telefono che in chat su Facebook. Sarebbe stato diverso se Sharon fosse rimasta qui. Cioè a Idaho Falls. Non mi sarei sentita così sola, così accerchiata dal nemico. Anche gli sguardi di rimprovero dei miei genitori forse mi sarebbero pesati di meno.

    Ho lasciato un messaggio a mia sorella Katherine, che vive a Los Angeles, prima di spegnere il cellulare e nasconderlo sul fondo alla borsa. Ho preferito avvisare lei e non mio fratello Kevin. Certe cose le donne le capiscono prima e meglio. Solo per farle sapere che me ne sono andata di mia spontanea volontà per un po’, ci penserà lei ad avvisare gli altri. I nostri genitori, insomma. Almeno non perderanno tempo credendo che sia stata rapita, massacrata di botte, uccisa e abbandonata in un bosco o in fondo a un burrone. Sapranno che non sono scomparsa nel nulla ma me ne sono andata di mia spontanea volontà per essere lasciata in pace. Sempre che riesca a trovarla, la pace. Sempre che esista da qualche parte.

    CAPITOLO 2

    È deprimente che io mi senta così. Deprimente e immaturo. Eppure, da qualche parte in fondo all’anima, mi sento ancora una bambina bisognosa di consolazione. Già mi manca mia madre. Il suo modo di essere estremamente severa ma subito dopo estremamente dolce. Nessuno di noi tre figli ha ereditato i suoi splendenti occhi azzurri. Occhi che sanno ridere, dice papà. Non riesce a restare arrabbiata mamma, con quegli occhi che sanno ridere. Kevin ha gli occhi tendenti al blu, ma molto più scuri, nulla a che vedere con gli occhi ridenti della mamma.

    Percorro con le unghie la mia borsa di stoffa. Mi sembra di essere un gattino che si fa gli artigli. No, non cercherò il cellulare sul fondo. Non lo accenderò. E non chiamerò. Nemmeno invierò un messaggio. Però intanto mi mordo le labbra forte. Forte finché passa la nostalgia che già sento crescermi nel petto. La mia casa. I miei prati. Gli alberi e il cielo che sembra non finire mai. Il mio nulla, il mio Idaho se ne sta andando ogni istante di più. Ma io non posso e soprattutto non voglio tornare indietro.

    Ho come un sobbalzo. Dove siamo? L’abbiamo già oltrepassato il confine? Siamo già in Utah o forse addirittura in Wyoming. Sono completamente andata. Persa. Fuori di testa. Mi è sfuggita la cognizione del tempo. Passo le mani sul viso e le ritrovo umide. Le ripasso nuovamente sotto gli occhi. Non ho mai avuto nostalgia di casa prima di questa volta. E del resto come avrei potuto se non me n’ero mai andata prima d’ora? Non così per lo meno. In vacanza sì, in California e in Nevada soprattutto. Ma non è mai stato un vero andarmene.

    Magari avrei potuto prendere l’autobus per Los Angeles, andare a trovare Kitty Kath. Immagino cosa sarebbe successo. Mia sorella Katherine mi avrebbe dato un buffetto sulla guancia, ci saremmo fatte una scorpacciata di tanta roba grassa e dannosa per la salute. Magari questa volta mi avrebbe anche concesso di ubriacarmi un po’. Ma poi, alla fine, mi avrebbe rimandata a casa. O mi ci avrebbe riportata lei stessa, se avessi opposto resistenza.

    Kitty è sempre stata il mio idolo, fin da bambina. Ha sette anni più di me ed è splendida. Splendida sempre, non quando capita, con i suoi lunghi capelli castani naturalmente ondulati e gli occhi da cerbiatta. In effetti ci somigliamo, abbiamo caratteristiche fisiche molto simili. Ma lei riesce sempre a essere bellissima, io invece no purtroppo. Anzi, io quasi mai direi. Anche in tenuta sportiva, anche quando andavamo in campeggio in Nevada con i Keats e gli altri amici dei miei, Kitty era splendida.

    I ragazzi la guardavano tutti con espressione estasiata. I miei genitori l’hanno avuta quando avevano all’incirca la mia età. Alla sola idea mi vengono i brividi. Eppure, sono riusciti comunque a studiare e ad affermarsi nella loro professione. E quando, dopo Kitty, è arrivato Kevin e poi sono arrivata io, hanno rifilato anche a noi un nome iniziante per K. Come Ketchum, la cittadina dove si sono conosciuti. Mi chiedo come si possa essere così maledettamente romantici! Due brillanti menti scientifiche così romantiche sono qualcosa di inconcepibile dal mio punto di vista.

    Io, al contrario di mia sorella, in tenuta da campeggio assumevo sempre più l’aspetto trasandato di una pezzente. Certo, a lei Kevin e il bamboccio malefico non osavano fare scherzi. Se dopo aver fatto la raccolta dei ragni li avessero infilati dietro la sua maglia invece della mia, Kath li avrebbe menati di brutto. Io mi sono limitata a nascondere loro i vestiti mentre facevano il bagno alle cascate. Non capirò mai la mania dei maschi di fare il bagno nudi. Ovviamente le mutande sono volate, come per magia, sulla cima di un albero. Quello è stato il mio grande atto di vendetta. Sono dovuti tornare al campeggio nudi come vermi. Anzi con davanti una foglia non so se di fico, come Adamo, o di altro.

    In realtà non sono mai riuscita a ideare un piano veramente perfido. Forse non è nella mia indole. Eppure, non che non se lo meritassero!

    Katherine ora si sta affermando come neuropsichiatra. La mia Kitty Kath, sono talmente orgogliosa di lei che non riesco proprio a provare invidia. Vorrei essere simile a lei ma non riesco a invidiarla. Kevin si è da poco laureato ad Harvard, facoltà di medicina ovviamente. Anche lui in anticipo sui tempi, ha solo ventiquattro anni. Ora ha iniziato la specializzazione in chirurgia plastica, come mamma. Mamma è un chirurgo plastico molto particolare in realtà. Credo sia l’unica al mondo che cerchi di convincere le persone ad accettarsi come sono quando si tratta di problemi puramente estetici. È quasi come se lei riuscisse a scorgere la bellezza nei suoi pazienti e li aiutasse a vederla loro stessi, senza tagliuzzarli qua e là. Quando invece il problema è fisico e davvero grave, usa il bisturi come se fosse un prolungamento della sua mano. Io non l’ho mai vista operare, ma è quello che dicono i suoi colleghi.

    Io non mi sono nemmeno sognata di fare domanda ad Harvard, Yale o altre università prestigiose. Già tanto che mi abbiano presa all’università di Idaho Falls. Il bamboccio malefico, lui sì che ci sarebbe potuto andare, fin da subito. E mi sono sempre chiesta perché non l’abbia fatto! Perché diavolo ha preferito restare nella mia stessa università a tormentare me? Probabilmente non si voleva perdere il divertimento di umiliarmi a ogni esame.

    Ci sono state volte in cui mi sono chiesta se per caso i miei mi avessero adottata o trovata in giro da qualche parte e non abbiano mai avuto il coraggio di raccontarmi la verità. O forse c’è stato uno scambio e si sono ritrovati la figlia di qualcun altro. Perché in alternativa resta il fatto che tutta la loro scorta di neuroni è andata a Kitty e Kev e per me è rimasto ben poco!

    Da piccola le maestre dicevano che avevo tanta fantasia. Ma a cosa serve la fantasia? E i parenti vari mi umiliavano ancora di più. Kitty era sempre definita una bellezza. Una bella bambina, poi una bella ragazza. E pure intelligente. In quanto a me ero una bambina simpatica. Che accidenti significa una bambina simpatica? È un modo gentile per dire niente di eccezionale? Con Kevin era diverso. Per i maschi non contano queste cose. Lui è sempre stato considerato una sorta di erede al trono.

    Che combinerà mai nella vita una bambina simpatica con tanta fantasia? Non il medico, certo. Perché potrei, sempre con tanta fantasia, attaccare alle persone i pezzi sbagliati. Oppure fare delle diagnosi simpaticamente fantasiose. O fantasiosamente simpatiche.

    Sbuffo e decido di aprire la borsa per cercare il mio iPod, disperso da qualche parte. Ho bisogno di far passare il tempo, possibilmente smettendo di pensare. Lo trovo e lo accendo, dopo essermi messa gli auricolari. Attaccano le note di Fix you dei Coldplay, quasi a prendersi gioco dei miei pensieri.

    CAPITOLO 3

    Preferisco tenere gli occhi chiusi in una sorta di dormiveglia. Preferisco non sapere dove siamo arrivati. Vorrei riaprirli e ritrovarmi già a New York, anzi possibilmente già in casa di Sharon.

    Invece con un contraccolpo sento l’autobus fermarsi. Come riapro gli occhi, vedo tutti gli altri viaggiatori alzarsi e prepararsi per scendere. Guardo fuori dal finestrino, proprio mentre l’autista annuncia che faremo una pausa di venti minuti per fare rifornimento di cibo, sgranchirci le gambe e necessità varie. Non ho voglia di scendere. Non ho proprio voglia di muovermi dal mio posto.

    La donna seduta al mio fianco si alza e mi guarda con le mani posate sui fianchi, come in attesa di qualcosa. Dallo sguardo leggermente corrucciato credo voglia chiedermi il motivo per cui non ho intenzione di scendere. Non so nemmeno dove siamo arrivati e non ho fretta di scoprirlo. Scuoto la testa facendole segno di no. No, grazie, sto bene dove sto.

    «Vamos, chica.»

    Mi è sempre piaciuto sentir parlare in spagnolo. Ha un suono dolce, carezzevole. E la donna ha proprio una bella voce. A volte bastano solo due piccole parole per capirlo. Questa donna, che potrebbe essere mia madre, ha davvero un istinto materno molto sviluppato.

    «Gracias…» non so come proseguire nella sua lingua, allora parlo lentamente, scandendo le parole. «Sto bene così, davvero.»

    La donna non si muove dalla sua postazione, inclina solo leggermente il viso e aggrotta la fronte.

    «Tienes que comer, niña.» A quanto pare non si vuole arrendere.

    Intuisco il significato delle sue parole ma la guardo un po’ perplessa. Perché questa sconosciuta si preoccupa per me? Lei, credendo che io non abbia capito, imita il gesto di mangiare.

    «Para ser feliz!» continua imperterrita.

    Credo voglia dire che mangiare possa servire a farmi sentire più contenta, insomma a migliorare il mio umore. Non ci credo affatto. Però decisamente ho trovato qualcuno più testardo di me. E comunque… davvero ho l’aria così depressa?

    «Bueno!» replico alzandomi di scatto. «Vamos.»

    Temo che se non acconsento di mia iniziativa, arriverebbe al punto di caricarmi sulle spalle per farmi scendere. Visualizzo pure la scena, davvero tragicomica. Lei sorride e annuisce, mentre ci avviamo entrambe per scendere dall’autobus.

    Non so nemmeno dove siamo. Saltando dall’ultimo gradino mi guardo intorno. Scorgo Denver sull’insegna dell’autogrill dove ci siamo fermati. Siamo ancora troppo lontani dalla meta. Mi ripeto, nuovamente, che avrei potuto e dovuto prendere l’aereo. Sarebbe stato tutto più rapido e indolore.

    Raggiungiamo gli altri all’interno del grill. Mi sento inondare di musica country un po’ datata. Davanti al bancone alcuni cowboys, probabilmente un po’ brilli, accennano passi di danza.

    La canzone successiva la conosco bene, è Olivia Newton-John con If you love me let me know. Anzi, più che bene, visto che appartiene a un cd che mamma metteva sempre quando eravamo piccoli. E noi ballavamo per casa insieme a lei in una sorta di frenetico trenino: io, Kitty, Kev e talvolta c’era anche John insieme a noi.

    Quando era di quell’umore andava anche a prendere papà e lo trascinava fuori dal suo studio, qualsiasi cosa lui stesse facendo, qualsiasi caso superimportante stesse analizzando. Poi mamma ballava insieme a papà, Kitty con Kev e io con John. Io e John più che ballare saltavamo una sui piedi dell’altro fino a cadere a terra e ridere come dei pazzi. Facevamo la gara. Di solito si fa a chi guardandosi in faccia ride per primo, noi invece come due idioti la facevamo a chi per primo smetteva di ridere. Ridevamo tanto, fino a farci male alle mascelle.

    E ora non riesco a trattenermi, accidenti! Ho una voglia pazza di ballare. Inizio a muovere un piede a tempo di musica. Anche la testa. Koraline, maledizione, almeno la testa tienila ferma!

    Troppo tardi! Un vecchio cowboy dall’aria scanzonata mi raggiunge e mi afferra la mano. Sembrava un po’ brillo invece si muove meglio di un ventenne nel farmi girare e rigirare come una trottola. Quest’uomo decisamente ha un futuro come ballerino country. O forse un passato. Rido, rido e mi diverto. Se potessi resterei qui a ballare per ore. Mi ricorda anche i primi balli del liceo. I primi ragazzi che mi hanno guardata con occhi diversi durante i balli in cui Kitty mi aiutava ad abbigliarmi come una ragazza carina. E tentavano anche di avvicinarmi, quei poveretti. Tentavano, sì. Perché da una parte e dall’altra del salone sostavano, a guardia della mia virtù, mio fratello e John Keats.

    Che poi il senso del dovere di fratello maggiore di Kev lo posso anche capire. Ma il bamboccio malefico che diavolo voleva? Anche quando gli capitava di ballare con qualche ragazza teneva gli occhi fissi su di me, come pronto a intervenire per rovinarmi la festa. Fortunatamente non è mai capitato che ballassimo insieme durante le feste a scuola. Avrei avuto il timore che cominciassimo a ridere senza riuscire a smettere come quando eravamo piccoli.

    Mi ritrovo in mano un bicchiere di birra e un panino. Il barman mi strizza l’occhio. Che è, un’offerta della casa per lo spettacolo che sto offrendo al locale? Non male, sono piuttosto affamata in effetti.

    La mia compagna di viaggio, che a quanto pare ha sostituito Kev e John come guardiana della mia virtù, mi picchietta sulla spalla. Ho capito, è ora di ripartire. Sorrido e saluto gli allegri cowboys. Quello che è stato il mio ballerino

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