Il Dio del Pallone: Ascesa e caduta di Diego Armando Maradona nella letteratura
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Anteprima del libro
Il Dio del Pallone - Paquito Catanzaro
Maradona nel romanzo di formazione
Villa Fiorito è uno dei quartieri più poveri alla periferia di Buenos Aires. Una fila di baracche coi tetti in lamiera. Non c’è elettricità, linea telefonica, acqua corrente. In un posto del genere si attende la pioggia, la si considera provvidenziale poiché permette di riempire i secchi d’acqua che, altrimenti, andrebbero trasportati a mano dalla fontana più vicina fino all’abitazione.
È questo lo scenario dickensiano in cui viene al mondo il più forte calciatore di tutti i tempi. È domenica 30 ottobre 1960 e la frenesia di casa Maradona viene spezzata dal vagito del primo figlio maschio di don Diego e doña Tota. Un esserino piccolo e gracile destinato allo stesso destino di indigenza delle quattro sorelle nate prima di lui.
È la povertà la prima avversaria del Pibe de oro. Una condizione di fronte alla quale, nei primi anni di vita, si sente minuscolo ma tutt’altro che impaurito. La miseria lo costringerà a un gioco di squadra nel quale saranno coinvolti lui e gli altri nove elementi della famiglia. Quella dei Maradona è praticamente un’equipo, una squadra capitanata da don Diego senior (che fa turni massacranti per portare il pane a casa) e con doña Tota nel ruolo di mediano metodista (a lei il compito di tenere sempre unita la famiglia e di far da filtro tra un marito severo e figli che vengono al mondo con imbarazzante frequenza). La maglia numero 10 finisce sulle spalle di un ragazzino che ha sognato di fare il calciatore nell’istante in cui ha incontrato il pallone e ha cominciato a palleggiare con naturalezza.
Il primo ad accorgersi del precoce talento di Diego è Francisco Gregorio Cornejo, creatore delle Cebollitas, la squadra messa su con ragazzini talentuosi ma calcisticamente indisciplinati. A Cornejo bastano pochi minuti per comprendere che quel bambino più basso e più gracile degli altri può diventare un fuoriclasse. Un calciatore mancino è un’anomalia, uno così forte una rarità. Gli affida il ruolo di attaccante e, soprattutto, di leader delle cipolline (questa la traduzione di cebollitas). Per centotrentasei partite di fila Maradona e compagni non subiranno sconfitte. Anni durante i quali i tifosi supporteranno quei bambini con lo stesso entusiasmo che si riserva ai professionisti; campionati durante i quali ci si rifarà gli occhi di fronte alle giocate di quel bambino con la chioma così folta da essere appellato Pelusa.
«Sicuro di essere del 1960?» è questa la domanda che, a ogni partita, verrà rivolta a Diego. Un quesito al quale toccava rispondere con certificati di nascita e altre carte bollate. Nessun allenatore, presidente o direttore sportivo voleva passare per imbroglione: quei documenti servivano solo a ratificare la presenza in squadra di un fuoriclasse in miniatura, un ragazzino che aveva le idee chiarissime e che dichiarava «Ho due sogni: il primo è giocare un Mondiale, il secondo è vincerlo».
Un’ingenua profezia destinata ad avversari, non senza ostacoli da superare e un cammino tutt’altro che lineare. Quello che il giovanissimo Maradona intraprende è un viaggio dell’eroe, un percorso sinusoidale, anzi sismografico, nel quale si raggiunge la vetta (metaforicamente e non solo) e si precipita nel baratro. Tutto a velocità folle, con colpi di scena e svolte che lasciano spiazzati.
Una prima determinante svolta avviene il giorno in cui Diego gioca la sua prima partita da professionista con la maglia dell’Argentinos Juniors: è il 20 ottobre del 1976 e un ragazzino non ancora sedicenne (spegnerà le candeline dieci giorni dopo) entra in campo con addosso la maglia numero 16. È quello l’anno zero del calcio moderno.
«Vai, Diego. Gioca come sai».
Questa la sola direttiva che giunge dall’allenatore Juan Carlos Montes. Il mister ha aggregato il ragazzino alla prima squadra per carenza d’organico, ma pure perché ha intravisto in quell’adolescente qualcosa di inaspettato: un talento precoce che attende solo di esplodere.
Maradona prende sul serio quelle parole e fa subito un tunnel a un avversario. Non era superbia la sua, solo esuberanza. Lo strafottente entusiasmo di un quindicenne che si trova a giocare in mezzo ai grandi. Una cipollina che ne avrebbe avuto di tempo per maturare ma che, in quel momento, conosceva ancora troppo poco il calcio dei professionisti. Il suo campo da gioco era ancora la strada, quella in cui trascorreva interi pomeriggi insieme ai compagni, nella quale dilettare amici e conoscenti palleggiando col sinistro qualsiasi cosa avesse una forma sferica.
L’Argentinos Juniors si diceva. Maglia rossa con fascia bianca che taglia trasversalmente il busto dalla spalla fino al fianco. A guardarla attentamente pare quella del River Plate con i toni al rovescio. È con questa camiseta che Diego esordisce tra i professionisti, colleziona oltre centocinquanta presenze e realizza più di cento gol. Ma, soprattutto, è con questi colori che si misura per la prima volta con la sconfitta. Il suo esordio, infatti, coincide con un 0-1 in favore del Talleres. Uscendo dal campo, Maradona è deluso. Potrebbe giocarsi l’attenuante dei pochi minuti giocati e dell’inesperienza, ma avviandosi sotto la doccia sente smuoversi le viscere: si sente responsabile di quel risultato negativo al pari degli altri compagni di squadra. Scuote il capo e ricorda il suo proposito: Voglio essere il numero uno. Voglio vincere tutte le partite e se non potrò vincerle, devo almeno provarci. Sempre
.
Diego vuole cancellare l’onta di quella sconfitta e farlo da protagonista. A quasi un mese dal debutto arriva il primo gol, anzi i primi due. Il ragazzo non ama l’ordinarietà e se deve lasciare il segno deve farlo a modo suo: due gol al San Lorenzo nel 5-2 con cui l’Argentinos batte i rivali. Ha la maglia numero 15, sedici sono gli anni compiuti da due