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Storia degli Italiani. Tomo XV
Storia degli Italiani. Tomo XV
Storia degli Italiani. Tomo XV
E-book543 pagine6 ore

Storia degli Italiani. Tomo XV

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Info su questo ebook

Con questo volume, ricco di dotte appendici, si conclude l’imponente lavoro dello storico, letterato e politico lombardo Cesare Cantù.
LinguaItaliano
EditoreE-text
Data di uscita12 dic 2024
ISBN9788828103592
Storia degli Italiani. Tomo XV

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    Storia degli Italiani. Tomo XV - Cesare Cantù

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    QUESTO E-BOOK:

    TITOLO: Storia degli italiani. Tomo XV

    AUTORE: Cantù, Cesare

    TRADUTTORE:

    CURATORE:

    NOTE: Il testo è presente in formato immagine su The Internet Archive (https://www.archive.org/). Realizzato in collaborazione con il Project Gutenberg (http://www.gutenberg.net/) tramite Distributed proofreaders (https://www.pgdp.net/).

    CODICE ISBN E-BOOK: 9788828103592

    DIRITTI D'AUTORE: no

    LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: liberliber.it/opere/libri/licenze/

    COPERTINA: [elaborazione da] Sibilla Cumana (circa 1617) – di Domenichino (1581–1641) - Galleria Borghese, Roma, Italia. - https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Domenichino_-_The_Cumaean_Sibyl_-_WGA06405.jpg - Pubblico dominio.

    TRATTO DA: [Storia degli italiani] 15 / per Cesare Cantù. - Torino : Unione tipografico-editrice, 1877. - 386 p. ; 20 cm

    CODICE ISBN FONTE: n. d.

    1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 15 ottobre 2023

    INDICE DI AFFIDABILITÀ: 2

    0: affidabilità bassa

    1: affidabilità standard

    2: affidabilità buona

    3: affidabilità ottima

    SOGGETTO:

    HIS020000 STORIA / Europa / Italia

    CDD:

    945 STORIA. ITALIA

    DIGITALIZZAZIONE:

    Distributed Proofreaders, http://www.pgdp.net/

    REVISIONE:

    Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

    IMPAGINAZIONE:

    Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

    Carlo F. Traverso (ePub)

    Marco Totolo (revisione ePub)

    PUBBLICAZIONE:

    Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it

    Claudia Pantanetti, liberabibliotecapgt@gmail.com

    Ugo Santamaria (ePub)

    Liber Liber

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    Indice

    Copertina

    Colophon

    Liber Liber

    Indice (questa pagina)

    APPENDICE I. DEI PARLARI D'ITALIA

    § 1° Proposizione.

    § 2° Lingue de' prischi Italioti.

    § 3° Origini del latino.

    § 4° Latino primitivo.

    § 5° Seconda età del latino.

    § 6° L'età dell'oro e dell'argento.

    § 7° La lingua scritta e la lingua parlata: la lingua rustica.

    § 8° Della pronunzia.

    § 9° La traduzione della Bibbia.

    § 10° La lingua latina si sfascia. Età del ferro.

    § 11° Differenze del latino dall'italiano.

    § 12° Andamento consimile nelle evoluzioni di varie lingue.

    § 13° Influenza de' Barbari. Periodo di scomposizione.

    § 14° Periodo di formazione dell'italiano nell'età barbara.

    § 15° Periodo d'organamento.

    § 16° Prime scritture italiane.

    § 17° Della lingua romanza e della siciliana.

    § 18° Del toscano.

    § 19° Riassunto e paragoni.

    § 20° Illazioni. Sistema della trasformazione.

    § 21° Dei dialetti: loro antichità. Il libro del Vulgare Eloquio.

    § 22° La lingua italiana è patrimonio esclusivo d'una provincia? Sue vicende.

    APPENDICE II. DELL'ANNO E DE' CALENDARJ

    APPENDICE III. INCERTEZZA DELLA STORIA PRIMITIVA DI ROMA E FONTI DI ESSA

    APPENDICE IV. LE SIBILLE

    APPENDICE V. NOMI E GENTI ROMANE

    APPENDICE VI. MONETE, MISURE E VALORI FRA I ROMANI

    APPENDICE VII. FAVOLE INTORNO A VIRGILIO

    APPENDICE VIII. DANTE ERETICO

    APPENDICE IX. STATISTICA

    AGGIUNTE E CORREZIONI

    INDICE ALFABETICO

    Note 1 – 147

    Note 148 – 267

    STORIA

    DEGLI ITALIANI

    PER

    CESARE CANTÙ

    EDIZIONE POPOLARE

    RIVEDUTA DALL’AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI

    TOMO XV.

    TORINO

    UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE

    1877

    APPENDICE I.

    DEI PARLARI D'ITALIA

    (Vol. I, pag. 83)nota_1.

    Sermonem Ausonii patrium, moresque tenebunt.

    Virgilio.

    § 1°

    Proposizione.

    Senza toccare le origini del parlare, che è il problema capitale nello studio dell'uomo, avvertiremo solo come nel linguaggio trovasi una convenzione tacita per designare le cose stesse colle stesse parole, esprimere gli stessi giudizj colle stesse forme grammaticali; onde bisogna supporvi condizioni fisiologiche, val a dire un organo per produrre i suoni elementari, vocali o consonanti; un organo di udito per raccoglierli dalla bocca altrui e dalla propria; e condizioni soprorganiche, cioè un'attività volontaria per mettere in moto gli organi fonici, e ripetere con intenzione i suoni semplici o complessi che ciascuna lingua ammette; inoltre un'intelligenza capace di idee generali e di una coordinazione per istituire delle radicali, per recarle ad associazioni o derivazioni, per istabilire regole di sintassi.

    V'è dunque alcuna cosa nell'uomo che lo fa, non solo superiore, ma essenzialmente diverso dal bruto; nè, speriamo, si dirà inopportuno il cominciare da tale protesta.

    Dalla quale raccogliendoci allo scopo del presente lavoro, diremo come tre opinioni diverse corrono sull'origine dell'italiano. L'una che, per l'irruzione de' Barbari, la lingua latina sia stata mutata e lessicamente e grammaticalmente, fino ad originarne una nuova, questo vulgare nostro; è il sistema di Castelvetro, Muratori, Raynouard, Max Müllernota_2. L'altra, che sia il latino, svolto sotto gl'influssi degli idiomi indigeni nei paesi ove quello fu portato dalla conquista; sistema del Fauriel. La terza, che questo nostro vulgare sia il latino anticamente parlato, non cangiato di essenza e di natura, ma soltanto modificato dal tempo e dagli accidenti.

    Noi intendiamo provare che l'italiano non è se non l'alterazione naturale della lingua che usava il Lazio antico: sicchè la legge di continuità, dal Leibniz stabilita nella fisica, e quella dell'evoluzione, oggi in moda, avveraronsi anche nell'idioma nostro; non sovvertimenti improvvisi, ma successivi svolgimenti, conformi ai metodi con cui lo spirito umano crea, usa, trasforma la parola, e perciò somiglianti a quelli d'altri linguaggi. Tale è la nostra opinione, e cercheremo dimostrarla storicamente, seguendo l'alterazione passo passo dall'età arcaica e traverso al medioevo, sin quando, verso il 1200, anche nelle scritture si adoperò la nuova forma che si costituiva, insieme coll'antica che si sfaceva. E al modo che l'Ausonia, l'Enotria, l'Esperia si chiamò Italia senza per questo mutarsi, così la lingua latina cangiò il nome in italiana. Venuta a mano degli scrittori, i più insigni tra questi, per un sapiente caso, furono toscani, e adoperarono francamente la propria favella, mentre a questa cercarono accostarsi coloro che parlavano altri dialetti; onde ebbero assicurato al toscano il vanto di lingua nazionale tipica.

    Meramente scolastico non crederà questo studio chi sappia che la storia della parola è storia dello spirito umano e talora segna le epoche. Questo solo noi vogliamo, senza ardire di inoltrarci in quella nuova filologianota_3, che studia il linguaggio nelle sue relazioni collo spirito umano, negli elementi costitutivi delle favelle, nell'interna loro struttura; nell'attenzione ai dialetti, nell'indagine paleontologica, che tanto innanzi portò la prova della evoluzione delle lingue, e insieme tanto profittò all'etnografia, all'archeologia, alla conoscenza delle religioni. Noi ci limitiamo ad uffizio di storici.

    § 2°

    Lingue de' prischi Italioti.

    Allorchè, sul terminare del medioevo, si rintegrò lo studio dell'antichità, poteasi rivolgere l'attenzione alle prische lingue, mentre tanta ne costava il purgare la latina? Ma dopochè la filologia fu ajutata da ricca messe di nuovi documenti, parve vergogna il porre all'indiano o all'egizio maggior cura che non ai parlari italiani antichi, e i dotti vi applicarono quell'assiduità che merita tutto ciò che avvicina alla cuna d'una lingua com'è la latina, studiata da tutt'Europa perchè ha monumenti in ogni paese, dal lembo dei deserti africani sino ai perpetui geli polari.

    Però l'interpretare iscrizioni in favelle che non si conoscono e con caratteri per lo meno incerti, richiede circospezione insieme ed ardimento, quali non sempre accoppiarono i moltissimi che, ai dì nostri, assunsero questo temanota_4. Le conchiusioni, a cui arrivano questi e gli altri laboriosi cercatori, differentissime, eppur dimostrate tutte con altrettanta certezza, attestano che non fu raggiunto ancora un vero assoluto, e neppure scientifico. È pur doloroso che, mentre s'avanzò tanto la cognizione e dei caratteri e delle lingue egiziana e babilonese e persepolitana, restiamo così indietro quanto alla etrusca, fino a non accertare a qual gruppo essa appartenga.

    Guglielmo Corssen (Ueber die Sprache der Etrusker, Lipsia 1874) espone i lavori dei precedenti investigatori, cominciando dal favoleggiatore Annio di Viterbo, fino al Risi (Dei tentativi fatti per spiegare le antiche lingue italiane e specialmente la etrusca, Milano 1863); e riprovando lo Janelli, il Tarquini, lo Stickel... che l'etrusco reputano semitico, e peggio quei che lo danno per armeno, o finnico, o celto, o slavo; loda i nostri che, fino al Conestabile e al Fabretti, adoprarono la comparazione per attestarlo affine al latino, come egli pure lo crede. Valendosi dei tanti monumenti scoperti ed esaminati ultimamente, e argomentando sull'epigrafia, l'archeologia, la onomatologia, la fonologia, lo crede idioma flessivo, di stipite indo-europeo, di famiglia italica, poco differente dall'osco, dall'umbro, dal latino, ma più duro, con inasprimento, e molte consonanti, con caratteri affini agli altri idiomi italici. Alla sua opinione contrasta l'autorità di Dionigi di Alicarnasso, che, al tempo d'Augusto e mentre vivea Varrone, cercando in Roma le antichità italiche, asseriva che gli Etruschi nel vivere come nel parlare erano dissimili dalle altre genti. In fatti egli troppo asserisce senza provare le deduzioni ardite, e noi, dolendoci che non ce ne restino se non iscrizioni di tombe e qualche specchio, eserciteremo l'ars nesciendi.

    Aufrecht, professore di Edimburgo, che col Kirchhoff esponendo le Tavole Eugubine, vi riconobbe il linguaggio degli Umbri, testè alla Società filologica di Londra indicò il suo parere sull'indole della lingua etrusca: ed enumerava il poco che se ne conosce. Ciò sono i primi sei numerali e loro composti: avils età; ril anni; clan figlio; hinðial spettro; fleres statua; il suffisso al è affine al latino ali; i suffissi asa, esa, isa, usa indicano i cognomi di donne: p. es. pumpuasa, lecnesa, moglie di Pomponio, di Licinio: e conchiude che l'etrusco differisce da tutti gli altri linguaggi europei. In precisa opposizione al Corssen è anche W. Deecke (Corssen und die Sprache der Etrusker, Stuttgard 1875); ribatte tutte le prove di questo, e crede col Mommsen gli Etruschi un popolo estraneo agli altri d'Italianota_5.

    Nella lingua sanscrita, che è la classica e sacerdotale degli antichi Indiani, avi significa vivere, e ris tagliare, da cui il greco ῥαίω, ῥέσσω), il latino rodo e rado, il tedesco reissen, il russo riezu; ri esprime anche movere, trascorrere, da cui il greco ῥέω, il latino ruo, il francese rue, l'inglese ride. Il ril etrusco potrebbe derivare dall'uno o dall'altro, considerando l'anno come uno scorrimento di tempo, o come una divisione.

    Altre parole etrusche di non ben sicuro significato sono antar aquila, usil il sole, tutas il verbo tutari, lar signore, nepos lussurioso, clan figliuolo, see figlia. I filologi dalla somiglianza di queste voci con altre d'idiomi viventi si fanno forti per aggregare l'etrusca alle lingue indo-europee, anzichè alle semitiche.

    Della lingua umbra il monumento principale sono le Tavole Eugubine di bronzo, scoperte il 1444; cinque scritte con caratteri etruschi; le due più grandi (che sono il maggiore monumento di liturgia pagana) con lettere latine, come pure undici linee d'una terza, che alcuni non credono appartenere alla serie delle altre; tutte poi di ortografia, scrittura e linguaggio differenti fra loro in modo, da farle credere di età diversa; ma non si sa di quale: nè veruna ragione fa piede alla congettura di Lepsius, che quelle scritte con caratteri latini sieno posteriori a quelle d'alfabeto etrusco, e queste appartengano al sesto, quelle al quarto secolo di Roma. Perfino il chiamare umbra la lingua in cui sono scritte è convenzione, non fondata su d'altro che sul paese dove furono trovate; anzi la bizzarria delle forme potrebbe trarre a vedervi un esempio delle scritture arcane, usitate fra i sacerdoti nell'antichità.

    Bizzarrissime interpretazioni se ne diedero, seguendo il capriccio, anzichè canoni di filologia comparata; Gori, Lami, Bardetti pretesero leggervi i lamenti de' Pelasgi per le sciagure sofferte, e tutti vi fanno le più arbitrarie rimutazioni. Per esempio, in una d'esse Tavole si legge:

    cvestre tie vsaiesvesvvvebistitiste teies.

    Dividono

    cuestre tie usaies vesv vvebis titiste teies,

    per interpretare

    cuestor tie οσας vesum vuebis τιθεστε deies

    cioè

    Questor dicit: quascumque vobis visum est,

    constituite dies.

    Opinione nuova mise fuori, poco fa, Guglielmo Bentham nell'Accademia reale irlandese; l'antico etrusco essere identico colla lingua iberno-celtica e coll'irlandese, quale oggi si parla in quelle isole; e conforme a ciò diede la versione della quinta e settima delle Tavole Eugubine, prescelte come di materia più importante. Secondo lui, vi è esposta la scoperta delle isole Britanniche, fatta dagli antichi Etruschi, e l'uso dell'ago calamitato nella navigazione. La sesta comincia con invitare a scompartirsi o prendere a fitto le terre occidentali, ove sono tre isole di suolo ubertoso, con bovi e montoni assai, e damme negre, oltre miniere e belle acque. La settima finisce col rammentare che le isole scoperte possono dare incremento al commercio, protette dal mare contro i nemici, e che offrirebbero asilo qualvolta il loro paese restasse invaso da questi. L'iscrizione fu fatta trecento anni dopo il gran fragore sotterraneo! Dopo il Baldo, il Van Scrieck, il Dempster, il Maffei, l'Abati Olivieri, il Passeri, il Gori, il Borgnet, il Lami, venne il Lanzi interpretando qualche passo: Otfried Müller confermò che non erano in etrusco ma in umbro: Lepsius, celebre egittologo, e Lassen eminente indianista, Grotefend persianista, vi applicarono la nuova linguistica comparativa. Dalla sesta leviamo un brano d'una specie di litania, la quale mostra un parallelismo ed il ritorno di certi vocaboli, qual costumava fra gli Ebrei:

    Tejo dei Grabove.

    Dei Grabovi ocreper fisiv tota per iiovina erer nomneper erar nomneper fossei pacersei ocrefisei.

    Di Grabovie tio esu bue peracrei pihaclu, ocreper fisiu totaper iiovina erer nomneper erar nomneper.

    Di Grabovie orer ose persei ocrem fisiem pir ortom est toteme iovinem arsmor dersecor subator sent pusei neip hereitu.

    Di Grabovie persei tuer prescler vasetom est pesetom est peretom est prosetom est daetom est tuer perscler viresto avirseto vas est.

    Di Grabovie persei mersei esu bue perderei pihaclu pihafei.

    Di Grabovie pihatu ocrer fisier totar iiovinar nome nerf arsmo veiro pequo castruo fri pihatu futu fons pacer pase tua ocre fisi tote iiovine erer nomne erar nomne.

    Di Grabovie salvom seritu ocrem fisier totar iiovinar nome nerf arsmo veiro pequo castruo frif salva seritu futu fons paver pace tua ocre fisi tote iiovine erer nomne erar nomne.

    Di Grabovie tiom esu bue peracri pihiaclu ocreper fisiu tota per iiovine erer nomneper erar nomneper... ecc.

    Esibiamo la seguente interpretazione come delle meno improbabili:

    Jovi Grabovi subvoco.

    Jovem Grabovem invoco in sacrificio pro tota jovina (gente), eorum nomine, earum nomine, uti tu volens sis, propitius sis sacrificio.

    Jupiter Grabovi, macte esto eximio bove piaculo sacrificio pro tota jovina, eorum nomine, earum nomine.

    Jupiter Grabovi, hujus rei ergo quoniam ad sacrificium ignis ortus est toti jovinæ, armi desecti subactique sint tamquam sacrificio uno.

    Jupiter Grabovi, prout pesclos mactare factum est, positum est, dictum est, mactare pesclos fas jusque esto.

    Jupiter Grabovi, disecto eximio bove, piaculo piatus esto.

    Jupiter Grabovi, piamine sacrificiorum totius jovinæ nominibus, agrûm, virûm, pecus, oppido expiato, fiasque volens propitius pace tua sacrificio totius jovinæ gentis, eorum nomine, earum nomine.

    Jupiter Grabovi, salvo satu sacrificiorum totius jovinæ nominibus arvûm, virûm, pecudum, oppido satum sospita, fiasque volens propitius sacrificio totius jovinæ gentis, eorum nomine, earum nomine.

    Jupiter Grabovi, macte esto eximio bove piaculo sacrificio, pro tota jovina gente, eorum nomine, earum nomine.

    Si scosta in varie parti e nella lettura del testo e nella versione il Grotefend, il cui lungo e pazientissimo studio fu ben lungi dal condurre a risultamenti decisivi: e che così legge e interpreta un brano:

    Teio subocav suboco Dei Grabovi, Fisovi Sansi, Tefra Jovi! ocriper Fisiu, tota per Iiovina, erer nomneper, erar nomneper: fos sei, pacer sei ocre Fisei, tote Iiovine, erer nomne, erar nomne. Arsie! tio subocav suboco. Dei Grabove. Asier fritte tio subocav suboco, Dei Grabove! ecc.

    Te bonas preces precor, Jovem Grabovem! Fisovem Sansium! Tefram Joviam! pro monte Fisio, pro lota Iguvina, pro illius nomine, pro hujus nomine, uti sis volens propitius monti Fisio, toti Iguvinæ, illius nomini, hujus nomini. Benevole! te bonas preces precor, Jovem Grabovem! Benevoli Fidicia, te bonas precor, Jovem Grabovem!

    Meglio Aufrecht e Kirchhoff, con sapienza e tatto ravvicinando i passi simili, tennero i veri modi di tentare quella interpretazione, invano conturbata da Huschke, e spinta innanzi dai più recenti filologi.

    Sono gli atti della fratrecate dei frater atijediur, cioè fratelli attidiani, della città di Attidio, forse il moderno Attigio, che dirigono preci a varj Dei, alcuni simili, altri differenti dai romani; se ne prescrivono i riti, e pajono appartenere al vi o vii secolo di Roma. Hanno qualche relazione cogli atti de' Fratelli Arvali, che furono quasi completati da recenti scavi; riferendosi entrambi a un culto di divinità campestri dell'Italia antica, sopravvissuto alla invasione di Roma.

    Chi si sgomenta de' libri, può vedere la serie delle ricerche e delle scoperte in un articolo della Revue des Deux Mondes, 1 novembre 1875. L'opera più recente che conosciamo è Bréal, Les Tables Eugubines, texte, traduction et commentaire, avec une grammaire et une introduction historique, Parigi 1875.

    La lingua più diffusa nell'Italia meridionale era l'osca, che parlavasi da popolo estesissimo e suddiviso, e fin nel Bruzio e nella Messapia ove nacque Ennio, il quale, secondo A. Gellio (xvii. 17), tria corda habere se se dicebat, quod loqui græce, osce et latine sciret. Dalle iscrizioni vi appajono elementi del latino estranei al greco, sotto forme che nel latino perdettero e sillabe e terminazioni, e con flessioni inusitate a quello. Il p si sostituisce spesso al q, come pid per quid, e forse opici per equi; l'ei all'i; l'ou all'u; aggiungesi il d a molte voci cadenti in o. Gli Oschi dicevano akera, anter, phaisnum, tesaur, famel, solum, quel che i Latini dissero acerra, inter, fanum, thesaurus, famulus, solus..... Questa favella, se crediamo a Klenze, non ebbe fondamentale differenza dalla latina, talchè se avessimo libri scritti in essa, potremmo, se non tutte le parole, intenderne però il senso. A Roma si poneano iscrizioni in quella lingua; Plinio dice che scriveasi sulle case arse verse, cioè arsionem averte; e si continuò a rappresentare burlette in osco, delle quali il popolo si spassava grandemente. Strabone ancora al tempo di Tiberio scriveva, nel v della Geografia: — Benchè sia perita la gente degli Oschi, la loro favella resta fra i Romani, talchè si recano sulla scena certi canti e commedie in una gara che si celebra per antica consuetudine». E forse l'osco era il parlare fondamentale dell'Italia, cioè del vulgo; e sempre visse fra questo anche quando le persone colte e gli scrittori adopravano il latino, per poi prevalere allorchè le sventure scemarono la coltura e allontanarono la Corte: talchè sarebbe esso il vero padre del nostro vulgare.

    Marsi, Sabini, Marrucini, Piceni parlavano il sabellico, che forse era identico col volsco, ma differiva dal sannita, il quale era osco, giacchè Tito Livio (x. 20) dice che, per esplorare l'esercito sannita, furono mandati uomini, gnari oscæ linguæ. Varrone invece farebbe solo affini le due favelle, dicendo che sabina usque radices in oscam linguam egit (De lingua lat., vi. 3). Anche i Volsci dovevano differirne in qualche cosa, poichè Titinio poeta, contemporaneo del prisco Catone, in un passo riferito da Festo alla voce Oscum, scrive che i popoli abitanti intorno a Capua, Terracina e Velletri obsce et volsce fabulantur, nam latine nesciunt. I Bruzj parlavano osco e greco, onde dicevansi bilingues Brutiates (Festo). Citano la voce hirpus, lupo, come comune ai Falisci ed ai Sanniti (Dionigi d'Alicarnasso, i. 21). Servio attribuisce ai Sabini la parola hernæ, rupi, e Varrone la voce multa (multæ vocabulum non latinum sed sabinum est; idque ad meam memoriam mansit in lingua Samnitium, qui sunt a Sabinis nati; lib. xix); e informa che, invece di farena, diceano hasena (Velio Longo grammatico), e tebas i colli; dall'embratur de' Sabini deriva l'imperator de' Romani. Infine, secondo Livio, i Cumani chiesero ut publico loquerentur, et præconibus latine vendendi jus esset (xl. 42): il che prova che fin a quell'ora aveano usato lingua propria. I Marsi adottavano i caratteri romani e la lingua latina: i Sabini conservarono sempre l'osca.

    Del dialetto volsco quest'iscrizione fu trovata a Velletri, sul cui significato fu molto discusso fra Lanzi, Orioli, Guarini, Janelli ed altri:

    Deve Declune statom sepis atahus

    Pis velestrom fak esaristrom se

    Bim asif vesclis vinu arpalitu sepis ‒ toticum covehriu

    sepu ferom pihom estu ec se cosrties ma ‒ ca tafanies

    medix sistiatiens.

    Più facile a dicifrarsi parve questa osca, da Avella portata nel seminario di Nola, e illustrata dal Passeri, Simbole Goriane, tom. i:

    Sul pendaglio d'una bella statua di bronzo, dissepolta presso Todi nel 1835, si trovarono parole, le quali (a lasciar via le fantasie e le arguzie) furono diversissimamente interpretate dai dotti. Il bibliotecario Cicconi, ricorrendo al greco, tradusse: Io lungamente tempestato in mare, offersi; il Campanari spiegò dapprima Ahala legato in onor di Marte offriva, dappoi: Ahala figlio di Trottedio il Marte Fonione dedicò; il padre Secchi divinò: Aveial Quirinus Vibii f. nomine Vibius; il Lanzi coll'ebraico intese: Acco da Todi e Tito effigiarono il simulacro della Vittoria; il Vermiglioli: Aeia L. Trutinus punu mi vere, cioè Aeia figlia di Trutino pongo sono vero; il De Minicis, Trutino Fono figlio di Aeia fece. Tanto vacilla ancora la paleografia italiota.

    Nella guerra Sociale, ultima riazione degl'Italiani contro il predominio di Roma, i popoli collegati assunsero per pubblico decreto il linguaggio natìo, e l'adoprarono nelle monete (Lanzi, Disc. proem. alla Galleria). Tardi poi visse l'etrusco: e che differisse molto dal latino lo prova quel passo di A. Gellio, ove si narra che, avendo uno detto apluda e floces, voci antiquate, gli astanti, quasi nescio quid tusce aut gallice dixisset, riserunt (xi. 7). Quintiliano (Inst. orat., i. 9), trattando delle parole non di lingua, scrive: Taceo de Tuscis, Sabinis et Prænestinis quoque; nam ut eo sermone utentem Vectium Lucilius insectatur, quemadmodum Pollio deprehendit in Livio patavinitatem. Chi potrà ora determinare quelle differenze di dialetti? Tanto più che gli antichi non avevano raggiunto il sentimento della natura delle lingue, e dell'illustrazione che da esse deriva all'indole dei popoli, sicchè vi scorgessero un interesse filosofico; laonde, non si fermando sui caratteri essenziali di somiglianza, faceano dell'idioma di ciascuna città indipendente una lingua a parte, designata col nome degli abitanti.

    Ariodante Fabretti, davanti al Glossarium italicum, in quo omnia vocabula continentur ex umbricis, sabinis, oscis, volscis, etruscis, ceterisque monumentis quæ supersunt collecta (Torino 1857) dice:

    «In una materia così difficile sarebbe strano desiderare un lexicon alla foggia delle lingue conosciute, antiche o moderne; conciossiachè accanto alle voci di sicura spiegazione avvene molte che resistono alla critica, e non permettono che congetture. Non tutte le voci sono chiarissime nel significato al pari delle umbre: karne carne, vinu vino, purka porca, sif sues, vitlu vitulo, est est, fetu facito, seritu servato, peturpursus quadrupedibus, alfir albis, rofa rufa, salvom salvum, karu coram, prufe probe, nomneper pro nomine, pupluper o popluper pro populo ecc.; ‒ delle osche: aasas aras, dolud dolo, ligud lege, genetaí genitrici, kvaísstur quæstor, regaturei rectori, aíkdafed ædificavit, deicum dicere, fefacust fecerit, herest volet, prúfatted probavit, set sit, alttram alteram, pús qui, amiricatud immercato, malud malo, anter inter, contrud contra, inim enim, nep neque ecc.; ‒ e delle etrusche: etera altera, clan natus, phuius filius, avils ætatis, turce donum, tece posuit, ecc. Un gran numero di vocaboli, ripetuti o modificati, varrà, se non altro, a fermare certe leggi eufoniche che governano gli antichi idiomi italici; ed alcuni nomi, che è bene conoscere, dovranno entrare quando che sia nei dizionarj della latina favella, come quelli delle tuscaniche divinità Tina Juppiter, Thalna Diana, Turan Venus, Menrva Minerva, Sethlans Vulcanus; o passati di Grecia in Etruria, come Aplu Apollo Turms Ἑρμῆς, Thethis Thetis, oltre una folla di greci eroi, quali Hercle Hercules, Achle Achilles, Achmemrun Agamemnon, Clutumita Clytemnestra, Menle Menelaus, Neptlane Neoptolemus, Pentasila Penthesilea, Urusthe Orestes ecc.

    «Un'opinione male accreditata e la pubblicazione di certi alfabeti antichi d'Italia guasti ed errati, fanno dire a molti che nulla s'intenda delle vecchie epigrafi degli Osci, degli Umbri e degli Etruschi; eppure ad ogni passo si offrono chiare intere locuzioni. Nelle Tavole Eugubine per esempio: PVSEI. SVBRA. SCREHTO. EST uti supra scriptum est; VITLV. TORV. TRIF. FETV vitulos tauros tres facito; SALVA. SERITV. FVTV FOS (o FONS). PACER PASE TVA. OCRE FISI TOTE IOVINE. ERER NOMNE. ERAR NOMNE salva servato, esto volens, propitius pace tua, colli Fisio civitati Iguvinæ, ejus (colli) nomine, ejus (civitatis) nomine; ‒ e nella tavola osca di Banzia SVAE PIS CONTRVD EXEIC FEFACVST si quis contra hoc fecerit: PIS CEVS BANTINS FVST qui civis Bantinus fuerit. Nella epigrafia etrusca un gran numero di leggende funerarie, più preziose se bilingui come questa

    Iscrizione

    ‒ P. VOLVMNIVƧ A. F. VIOLENS CAFATIA NATVS, ci dà una serie di nomi di famiglie, che verosimilmente passarono dall'Etruria in Roma, od hanno colle romane un riscontro storico e filologico; anzi taluni di questi nomi rivelano altrettanti vocaboli dalla lingua parlata dagli abitatori della media Italia, come i gentilizj cantini, capras, crace, crespe, plaute, pumpu, senate, spurie, sacria, salvis, vitli, ecc. Anche qualche etimologia, professata ab antico, viene raddirizzata col soccorso delle etrusche inscrizioni; per esempio la voce Iscrizione_2 od Iscrizione_3 (usil), che in due specchi metallici indica il Sole od Apollo, ivi rappresentato co' suoi attributi, ci riconduce alla famiglia degli Auseli (Aurelii) a sole dictam (Paul., pag. 23, ediz. Müller) ed alla radice sanscrita svar, forma primitiva di sur (splendere), respingendo il detto di Cicerone (De natura Deorum, ii. 68): Cum sol dictus sit, vel quia solus ex omnibus sideribus est tantus, vel quia cum est exortus, obscuratis omnibus, solus apparet.

    «La fratellanza dei vetusti dialetti sparsi in Italia, riconosciuta dai segni alfabetici, si dimostra meglio coi ripetuti raffronti delle voci umbre ed osche ed etrusche in tra loro e coll'idioma latino; così l'osco deded, e con etruschi caratteri tetet, era tez nell'Etruria e forse dede nell'Umbria, dedet e dede (dedit) nelle bocche del popolo romano. Con gl'idiotismi ed arcaismi che occorrono spesso nella latina epigrafia, si avranno argomenti per discorrere fondatamente intorno alla origine della lingua italiana, più remota di quel che generalmente non credesi: moltissime forme popolari verranno innanzi, raccolte dai monumenti de' più bei tempi di Roma repubblicana e dai modesti funebri ricordi dei primi martiri della Chiesa».

    § 3°

    Origini del latino.

    Le primitive lingue italiche traggono interesse quasi unicamente dalla loro connessione colla latina, la quale, per quanta sia l'importanza del greco e degli idiomi asiatici, resta la più meritevole dell'attenzione di chiunque fida negli insegnamenti della storia, come quella (dice Du Méril) che meglio parve opportuna alla tradizione delle idee altrui, e ad iniziare alla scienza del passato; sicchè costituisce quasi un ponte fra l'antico mondo e il nuovo. Lo studio filosofico del latino, risalendo alle sue fonti e accompagnandone gli svolgimenti, dovrebbe dunque essere introduzione allo studio dei suoi monumenti letterarj.

    I dubbj sulla origine di esso sono cresciuti da certe metafore incoerenti di lingua madre o lingua figlia. Non volendo qui fare che da storici, ricorderemo come il carmelitano Ogerionota_6 voleva dedurre il latino dall'ebraico: frà Paolino di San Bartolomeonota_7 e Klaprothnota_8 dal sanscrito, e in generale dalle lingue orientali; nel che concordano Calmbergnota_9, Madvignota_10, Praschnota_11, Jäkelnota_12. Vi fu persino chi lo tirò dallo slavonota_13; nè era a credere vi facesse fallo la scuola un tempo di moda dei Celtisti; onde il Funcke pronunciò l'avola della latina lingua essere sconosciuta, madre la celtica, maestra la grecanota_14. Oltre i già citati Donaldson e Edelstand Du Méril, abbiamo molte monografie di Tedeschi, fra le quali vogliamo distinguere i saggi di Hertz intorno ai grammatici latininota_15.

    L'artificio dei ciurmadori consiste nell'offrire un solo aspetto; gli scolari ignoranti e i leggicchianti si lasciano convincere, perchè non sanno che le medesime ragioni appoggiano anche assunti diametralmente opposti. Fatto è che il latino appartiene alla grande famiglia delle lingue indo-europee. Perocchè dalle falde dell'Ecla fino alle rive del Gange, una folla di popoli, disgregati gli uni dagli altri per secoli, quai civili, quai barbari, quali oscuri, quali famosi, parlarono e parlano ancora lingue estremamente diverse a prima vista, ma d'incontestabile parentela, giacchè non solo hanno comune un certo numero di radicali, ma la grammatica di ciascuna ha profonde analogie colle grammatiche di tutte le altre, anzi tutte ne formano propriamente una sola. Al sanscrito, che di essa grande famiglia sta in capo, seguono come derivati l'antico e moderno persiano, il greco, il latino con tutti gli idiomi da questo rampollati, italiano, francese, spagnuolo, ecc.; infine gli idiomi germanici, gli slavi, e sino i celticinota_16.

    Che il latino sia figlio del greco sostennero gli antichi, massime dacchè, coll'imitare gli autori greci, si venne a ravvicinarlonota_17. Ma il vocabolario ha le origini stesse che le tradizioni e la vita d'un popolo, e la lingua non può essergli imposta da una potenza estrania alla sua vita. Molte voci latine derivano dal sanscrito senza passare pel greco; e fin nomi che più tenacemente si conservano perchè più aderenti alla famiglia: onde soror da svasar che in greco è ἀδελφὴ, frater da bhràtar: vidua da vidhavà, che in greco è χήρη: puer da putra: juvenis da juvan: vir da vira, che i Greci dicono παῖς, νεανίας, ἀνήρ.

    Nella costruzione grammaticale, al latino vennero dal sanscrito senza intermedio del greco la terminazione in bus del dativo plurale, e in i del genitivo singolare, e quelle in bilis, bundus, brum, viepiù notevoli perchè il b occorreva rarissimo nel latino prisco. Il latino procedendo s'avvicinò al greco, anzichè se ne scostasse: Tironenota_18 dice che veteres Romani græcas literas nesciverunt, et rudes græca lingua fuerunt; Festo aggiunge, che nel quinto e sesto secolo storpiavano i nomi ellenici, necdum adsueti græcæ linguæ.

    Effettivamente nel latino possono discernersi due elementi; uno originale, uno affine al greco, benchè abbastanza distinto da quello. Massimamente s'accosta al dialetto eolico, con affettazione di accento; onde Dionigi d'Alicarnasso disse che «i Romani parlano lingua nè affatto barbara, nè del tutto greca, la cui maggior parte è dall'eolico»nota_19. Asserì alcuno che nel latino derivino dal greco le parole di economia domestica e rurale, non quelle attenenti a guerra e a governo. Sarebbero delle prime bos, vitulus, ovis, aries, e arvigna, agnus, rus, caper, porcus, pullus, canis, ager, silva, aro, sero, vinum, lac, mel, sal, oleum, lana, malum, ficus, glans; oltre forma travolto da μορφή, repo da ἕρπο, specto da σκοπέω: mentre non hanno a fare col greco tela, arma, currus, lorica, scutum, hasta, pilum, ensis, gladius, sagitta, jaculum, clypeus, cassis, balteus, ocrea; nè i termini forensi jus, lis, forum, mutuum, vas, testis; nè rex, populus, plebsnota_20; ἄριστος diceano i Greci l'uom migliore, da Ἄρες dio della guerra: optimus lo dicono i Latini, da opes ricchezza. Chi peraltro da ciò volesse, come il Niebuhr, arguire che una popolazione aborigena pacifica vi rimanesse soggiogata da una bellicosa, ricordi che in tutte le lingue indo-europee trovasi somiglianza de' termini riferentisi alle pacifiche occupazioni, mentre sono più speciali di ciascun popolo quelli di caccia e guerra.

    Inoltre l'asserzione del Müller è troppo assoluta, giacchè vitulus (ἴταλος) non si trova che nel dialetto siciliano, ove molte parole italiche introdussero gli Enotri; e vacca, mulus, juvencus, verres non hanno a fare col greco; agnus e aries sono troppo stiracchiati da ἀρνός e da κριός: asinus ed equus poco tengono a ὄνος e ἵππος; e πῶλος nel senso ristretto di pullus è poco antico: mentre invece equus somiglia al sanscrito açva, pecus a paçv, ovis ad avi, canis a çvan, anser a hansa; e con parole tutt'altro che greche si esprimevano i prodotti dell'agricoltura, ador, avena, cicer, faba, far, fœnum, hordeum, seges, triticum. Nei pochi frammenti rimasti di Epicarmo e Sofrone siciliani s'incontrano altre voci ignote al greco e affini al latino, γέλα gelu, κάρκαρον carcer, κάτινον catinus, πατάνα patinanota_21.

    Ma derivate da ceppo comune, le lingue italiche, col lungo errar de' popoli, col lasso del tempo, colle mescolanze, si alterarono in modo,

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