Alain de Benoist PDF
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Ogni teoria nominalista postula che le idee non sono vere se non in quanto incarnate, cio vissute. Non questa solo
una questione di etica (mettere d'accordo le proprie idee e i propri atti), ma una affermazione di portata molto pi
generale: non c' verit al di fuori di ci che incarnato; il che, per noi, equivale a dire che non c' realt al di fuori del reale.
Il nostro "anti-intellettualismo" deriva da questa convinzione che la vita vale sempre pi dell'idea che ce ne si fa;
che c' preminenza dell'anima sullo spirito, del carattere sull'intelligenza, della sensibilit sull'intelletto, dell'immagine sul
concetto, del mito sulla dottrina.
Parimenti, impossibile dimostrare in astratto che un comportamento preferibile ad un altro. Qualsiasi comportamento
pu essere preferibile secondo il sistema di valori e i criteri di apprezzamento ai quali ci si riferisce, coscientemente o
incoscientemente (se la morte giudicata peggio di qualsiasi cosa, val meglio disertare che andare a battersi; se invece
il disonore giudicato peggio che la morte, vero il contrario). Non si pu mai dimostrare in assoluto la verit dei postulati
sui quali si costruisce un sistema di valori. La si dimostra soltanto a partire da quei postulati, ed a favore esclusivamente
di coloro che li ammettono. La scienza stessa non sfugge alla regola: l'errore di un Jacques Monod quando parla di
"etica della conoscenza" di non vedere che non evidente per tutti che un enunciato scientifico debba essere preferito
ad un altro. qui che bisogna rompere con il positivismo (le cui qualit critiche ci sembrano per altro indiscutibili): la
prospettiva scientifica non che una prospettiva tra le altre; la ragione ha un ruolo puramente strumentale: non un
valore in s, ma uno strumento.
Prima di esaminare a quale sistema di valori noi scegliamo di far riferimento, e in quale maniera operiamo la nostra
scelta, appare necessario fare un breve richiamo teorico in due campi della nostra visione del mondo: filosofia della
storia e concezione/percezione dell'universo.
cui la sola attesa, sebbene eternamente delusa, efficace e necessaria", Le judaisme, Buchet-Chastel, 1977).
Si dir della concezione lineare della storia, per riassumere, che essa permea la storia di un carattere unidimensionale, di
una necessit (ineluttabile: impensabile che la storia non si svolga, messe da parte tutte le contingenze e gli accidenti,
secondo la "Rivelazione" che l'uomo ne ha avuto - nella Bibbia o nel Capitale) e di una finalit. La storia acquista cos un
senso, nelle due accezioni del termine: essa ha un significato, va dunque in una certa direzione. Di conseguenza, la
libert dell'uomo strettamente limitata: l'uomo non libero di fare della storia ci che vuole, non ha che la scelta di
accettare la rivelazione che gli fatta coni mezzi della pi alta autorit possibile in rapporto al sistema (“Dio" nello
schema giudeo-cristiano, la "scienza sociale” nello schema marxista). D'altra parte, il passato, il presente e il
futuro sono percepiti come radicalmente distinti l'uno dall'altro: il passato (all'interno della storia) ci che non ritorner mai
pi; il futuro, ci che non ancora mai avvenuto; il presente un punto su di una linea, di cui si conosce l'inizio e la fine,
pur ignorandone la durata. C' unidimensionalit del tempo storico.
Contrariamente alla concezione lineare, la concezione ciclica della storia una concezione autoctona europea. Essa
appare comune a tutta l'antichit europea precristiana ed indotta dall'osservazione del mondo-cos-come-: spettacolo di
un certo numero di alternanze (le stagioni), di connessioni (le generazioni), di ripetizioni-nella-differenza e di differenze-
nella-ripetizione (non ci si bagna mai due volte nella stessa acqua; il sole si leva ogni mattina e, allo stesso tempo, non
mai esattamente lo stesso sole). Si basa sull'intuizione di una armonia possibile, riposante sulla regolarit dei cicli e la
conciliazione dei contrari. Questa idea forse da ricollegare alla percezione di un paesaggio fondamentalmente variato
(Renan oppone lo "psichismo della foresta" allo "psichismo del deserto", che induce la nozione d'assoluto: "il deserto
monoteista"). In questa concezione la storia non ha n inizio n fine. Essa semplicemente il teatro di un certo numero
di ripetizioni analogiche, che bisogna, secondo le scuole, prendere pi o meno alla lettera. Questa "permanenza dei cieli"
d alla storia il suo statuto ontologico: un'ontologia che non pi esteriore o trascendente in rapporto al divenire degli
uomini, ma che con questo si confonde.
Noi ci situeremo nella prospettiva tracciata da questa concezione ciclica della storia, ma apportandole, sulla scia di
Nietzsche, un'importante correzione. Se la si osserva da vicino, la concezione ciclica tradizionale resta in effetti in un
certo senso lineare. L'immagine alla quale fa riferimento quella di una linea disposta in circolo. Certo, le "estremit" di
questa linea si toccano (e, in conseguenza di ci, tendono a scomparire), ma, all'interno del circolo, gli avvenimenti
continuano a svolgersi in un ordine immutabile. Come le stagioni si susseguono sempre nel medesimo ordine, i cicli,
anche loro, si svolgono secondo uno schema inesorabile. Negli assertori moderni della teoria tradizionale dei cicli (Julius
Evola, Rene Gunon), la nostra epoca corrisponde cos a un periodo di fine del cielo (Kali-yuga indiano, "et del lupo"
della mitologia nordica). La nostra libert nei suoi riguardi ne risulta pertanto limitata, con tutti i rischi che derivano
logicamente nella pratica da una simile analisi: smobilitazione, o politica del tanto peggio tanto meglio. In un celebre
passo di Cos parl Zarathustra, Nietzsche sostituisce a questa concezione ciclica della storia una concezione
decisamente sferica - il "circolo" sussiste, ma la "linea" scompare - equivalente a un'affermazione radicale del non-senso
della storia e a una rottura tanto con la necessit inerente alla concezione lineare quanto con la necessit inerente ad ogni
speculazione meccanica sulle "et della umanit" (da Esiodo a Gunon).
Si vede subito in cosa il circolo e la sfera si rassomigliano e in cosa differiscono: la sfera possiede una dimensione
supplementare, pu in ogni momento ruotare in tutti i sensi. Parallelamente, nella concezione generale che vi si ricollega,
la storia pu in ogni momento svolgersi in qualsiasi direzione, alla condizione che una volont abbastanza forte le imprima
il movimento e tenuto conto, ben inteso, dei processi di cui teatro. La storia non ha un senso: essa non ha che quello
che le danno coloro che la fanno. Essa non " agisce " l'uomo, se non in quanto "agita" da lui per prima.
Le conseguenze per ci che concerne la libert dell'uomo sono evidenti (ci ritorneremo pi avanti). Inoltre passato,
presente, futuro non sono pi punti distinti su di una linea provvista di una sola dimensione, ma al contrario prospettive
che coincidono in completa attualit. Il passato. ricordiamolo, non mai percepito come tale se non in quanto inscritto nel
presente (gli avvenimenti ai quali si riferisce non sono "passati" che nel presente: quando si svolgevano, erano presenti).
Accade la medesima cosa per il futuro. Cos ogni attualit non un punto, ma un crocevia: ogni istante presente attualizza
la totalit del passato e potenzializza la totalit del futuro. C' tridimensionalit del tempo storico. La questione se si pu o no
far "rivivere il passato" diviene caduca: il passato-concepito-come-passato rivive sempre nel presente; una delle
prospettive grazie alle quali l'uomo pu elaborare dei progetti e forgiarsi un destino.
storica maggiore noi individuiamo nel monoteismo. L'idea di un Dio unico implica quella di una Verit unica, assoluta. Gli
uomini devono sottomettersi a questa verit perch la verit-in-s; quelli che non vi si sottomettono sono nell'"errore", e
quelli che sono nella verit hanno il diritto di strappare gli altri dall'errore, all'occorrenza con qualsiasi mezzo, con in pi la
buona coscienza. Per il suo carattere instrinsecamente universalista, il monoteismo produce tendenzialmente il
riduzionismo (ogni conoscenza finalmente ricondotta all'unit) e I'egualiuarismo (gli uomini sono uguali davanti a Dio:
godono di una "ragione" oggettiva sganciata darle contingenze che permette loro di discernere la " verit " e cos salvarsi),
sia che gli adepti delle credenze monoteiste mettano o meno i loro principi in pratica, sia che ne deducano o meno delle
conclusioni nell'ordine delle cose terrestri. Nello stesso senso, e inversamente, il nominalismo, cio il rifiuto degli
"universali", costituisce allo stesso tempo il fondamento della tolleranza positiva, dell'antiuniversalismo e
dell'antiegualitarismo, poich esiste un legame logico fra il riconoscimento della diversit fondamentale degli esseri e il
riconoscimento dell'ineguaglianza - ogni differenza in qualche modo valorizzante - che ne deriva nell'ambito delle cose
concrete.
L'"ordine" che constatiamo intorno a noi, infatti, non altro che quello che noi stessi vi mettiamo, il pi delle volte senza
neppure rendercene conto. Siamo prigionieri di una "illusione ottica" dovuta alle strutture ordinatrici e classificatrici del
nostro spirito: abbiamo la tendenza ad interpretare come "dati da tutti i tempi" i collegamenti logici che si stabiliscono per
comodit di ragionamento fra fatti, serie di fatti, circostanze, etc. In realt, non esiste una "logica" esteriore all'uomo pi di
quanto non esistano "frontiere naturali predestinate”. L'uomo un animale donatore di senso: una volta che ha
messo senso nelle cose, tende a credere che quello vi sia sempre stato. Parimenti, abbiamo intimo la tendenza ad
interpretare serie fattuali, di per s assolutamente neutre, in termini di teleologia, di finalit. Piazziamo la necessit l dove si
potrebbe mettere altrettanto bene il caso, senza accorgerci che, in ultima analisi, caso e necessit sono una sola e
medesima cosa (cfr. Clment Rosset, citando Malcolm Lowry: tutto ci che accade avviene somehow anyhow
“comunque in qualche modo”; dal fatto che le cose sono inevitabilmente come sono, e non altrimenti, non
si pu far derivare l'idea che la loro esistenza risponda a una intenzione prestabilita). “Al centro del cosmo, il potere
non pi sovrano, ma anonimo” dice Ernst Jnger. Globalmente parlando, il mondo in s caos. Infine non
bisogna dimenticare che le leggi “naturali” che noi rileviamo nel mondo-intorno-a-noi hanno un carattere
sempre contingente.
Per definizione, ogni enunciato scientifico rivedibile. Le leggi naturali sono ripetizioni probabilistiche di circostanze che
una eccezione potr sempre, per principio, falsificare (cfr. Popper ). Esse non valgono, in altre parole, che per condizioni
date. Da due secoli, non abbiamo smesso di scoprire che leggi che noi pensavamo "universali" avevano in realt una
validit circoscritta a condizioni particolari. Questa evidenza ha dapprima riguardato campi come quello della fisica, della
chimica, etc. Ha finito per coinvolgere tutte le sfere del pensiero: gli enunciati matematici, le proposizioni generali della
logica, o non sono sempre dimostrabili (cfr. Gdel), o sono semplici tautologie. Sappiamo che ci che vale per la
macrofisica non vale per la microfisica (dalla teoria della relativit alla teoria dei quanti). Sappiamo anche che gli strumenti
di misura non fanno che affinare la soggettivit delle nostre percezioni, senza per altro renderle obbiettive. Sappiamo
infine che il solo fatto della nostra presenza nell'universo influisce sulla percezione che ne abbiamo: la presenza
dell'osservatore modifica la configurazione dei paesaggi osservati (principio di Korbzybsky: la carta geografica non mai
tutta la carta, come minimo non considera infatti colui che la consulta). Dalla esistenza relativa di leggi hic et nunc, non si
pu mai dedurre l'esistenza universale di leggi assolute.
originariamente, in proprio. Inoltre, in una prospettiva storica sferica, c' correlazione naturale tra il "passato" e il "futuro".
Questo processo ha ben inteso come preliminare una presa di coscienza positiva della nostra appartenenza e della
nostra identit collettiva. Scegliamo di assumere un'eredit, per poterla perpetuare e rifondare: accettiamo di essere ci che
siamo per poter essere pi di quanto non siamo stati.
Seconda osservazione: in ogni momento, in ogni societ, un soggettivo "funziona" come assoluto. In altre parole, una
societ non esiste che in rapporto a certe norme. Non c' alcun esempio storico di societ senza norme, ad esclusione,
precisamente, delle societ in disfacimento. Ci che qui conta non tanto il contenuto della norma (che variabile) quanto
l'esistenza stessa della norma (che costante). Per il fatto che una norma varia, non per ci stesso lecito concludere
che essa sia facoltativa. E tuttavia il caso comune, se ci si riflette un attimo, del momento attuale - e molti sono gli
ideologi che, per una specie di gioco di prestigio, deducono dalla variabilit delle norme l'idea della loro inutilit. Certi
neofemministi, per esempio, che sottolineano il fatto che i ruoli sociali maschile-femminile di cui la storia europea ci dona
esempio non si ritrovano necessariamente in tutte le culture del globo - cosa che assolutamente esatta - omettono
tuttavia di ricordare che se non si ritrovano quelle norme, se ne rinvengono delle altre: i ruoli sociali maschile-femminile
possono variare, ma non vi alcuna societ in cui la differenziazione dei ruoli non esista.
- Un "soggettivismo eroico"
Nel corso dei secoli, la prodigiosa efficacia delle norme venuta dal fatto che queste erano “viste” e
percepite come assolute. Esse erano agenti, operanti. nella misura in cui nessuno si interrogava, nessuno pensava ad
interrogarsi, sulla ragion d'essere di queste (altrimenti che in una maniera passeggera, immediatamente rimossa dallo
spirito del tempo). Ci si comportava in un modo piuttosto che in un altro perch lo si era "sempre fatto", perch quella
data cosa "si faceva cos, e non altrimenti". Una simile assenza di dubbio a proposito delle norme caratteristica di una
cultura in piena espansione: l'energia fa tacere il dubbio. Al contrario, in una cultura indebolita, in una societ in declino,
un'immensa ondata di dubbio sommerge lo spirito del pubblico. Di fatto, da circa due secoli - astraiamo dai precedenti - ,
le norme si manifestano poco a poco per ci che sono, vale a dire per delle convenzioni - cio come i risultati di una
scelta, ma di una scelta dimenticata. La tradizione, l'azione storica, il gioco degli avvenimenti, il processo di replicazione
delle generazioni, hanno, in un dato momento, cristallizzato i costumi e le "leggi" sociali con sufficiente potenza da farli
apparire come "naturali", come se fossero esistiti da sempre: la cultura s' data come natura. In un secondo tempo, il
crollo dei miti di fondazione, l'apparizione di ideologie divenute coscienti di se stesse, hanno operato, poco a poco, una
critica sulle fondamenta che si sviluppata rapidamente in tutte le direzioni. Questa critica, eminentemente distruttrice e
corrosiva, ha portato alla distruzione completa delle norme e, quindi, alla scomparsa del senso nella vita degli associati e
delle possibilit di comunicazione che ne derivano. Un po' per volta, la societ, perdendo le proprie norme, s' sfasciata: il
dubbio ha invaso tutto; niente va pi da s; nessuno vede pi la "ragione" che ci sarebbe di fare questo o quest'altro;
l'autorit non pi avvertita come principio trascendente colui che l'incarna, ma come semplice questione di gendarmi;
l'informazione, non trovando pi il suo posto in alcun quadro, rinforza il dubbio invece di scongiurarlo; il sapere stesso,
invece di essere reso strumento in vista di una azione pi efficace, diviene essenzialmente inibitore e paralizzante.
Si pu certo deplorare una tale situazione, ma non si pu purtuttavia annullarla. Una norma che si scoperta come
convenzione non "funzioner" mai pi come assoluto - a meno di passare ad un livello superiore di espressione ("Dio
morto": - Dio "muore" dal momento in cui lo si interroga sulla sua "ragione d'essere", e dunque sulla sua "morte
possibile"; un dio che si mette in questione non esiste gi pi - ma resta sempre la possibilit di nuovi dei).
A partire da qui ci sono due atteggiamenti possibili. II primo, quello che predomina oggi, consiste nel ricusare le norme
che non hanno valore assoluto, vale a dire ogni norma (salvo poi in qualche caso finire per ricadere nel sistema della
religione rivelata - da cui la posizione di Max Horkeimer, come quella di Bernard-Henri Lvy), per adottare un
atteggiamento di critica e di rifiuto sistematici. Ci non pu evidentemente che accelerare il processo di dissoluzione
spontanea, il processo di implosione sociale. E allora che si cade nell'ipersoggettivismo: niente vale niente, tutto vale
tutto.
Il secondo atteggiamento, quello a cui ci ricolleghiamo, parte dalle medesime premesse, ma sfocia in una conclusione
esattamente inversa. Esso consiste, prendendo atto del fatto che una norma "convenzionale" non in definitiva altro che
una norma creata dall'uomo, nel tentare di suscitare le condizioni in cui delle nuove norme potranno apparire. Non si
tratta, pi precisamente, di cercare di creare norme bench queste non possano essere mai che "convenzioni", ma al
contrario di cercare di crearle con tanta pi forza proprio in quanto esse sono necessariamente il risultato dello sforzo
umano, in quanto non sono emanate da una qualsiasi divinit, dedotte da un qualsivoglia ordine naturale, o derivate da
una qualunque necessit storica.
La stessa constatazione che porta alcuni ad abbandonare ogni norma - non senza manifestare di passaggio una curiosa
"sete d'assoluto delusa" - pu cos condurre a volerne fondare di nuove. In effetti, se le norme sono convenzioni, e
nessuna societ pu fare a meno di norme, allora non c' altro comportamento possibile, dal nostro punto di vista, che
quello consistente nell'assumere e nell'istituire una certa soggettivit collettiva con sufficiente potenza affinch questa sia
percepita a sua volta come una norma “naturale”, funzionante come assoluto nella struttura sociale. Una
simile impresa esige probabilmente di pervenire ad un livello di coscienza superiore a quello che abbiamo potuto
conoscere fino ad ora. Essa non costituisce peraltro la sola risposta possibile alla sfida che la nostra epoca ha lanciato a
se stessa, sfida senza altro precedente che quella che un dato tipo di umanit ha conosciuto al momento della rivoluzione
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neolitica, e alla quale ha segnatamente risposto, nel seno della nostra cultura, la tripartizione indoeuropea, in quanto
fonte di una nuova norma "ideologica", religiosa, filosofica e sociale. L'"eroismo" contemporaneo potrebbe consistere in
un procedimento "sovrumano" di questo tipo - la creazione di nuove norme in rapporto alla sfida che ci siamo lanciati. Si
pu dare a questo procedimento il nome di "soggettivismo eroico". E si dir che un popolo presso cui si producesse una
tale fondazione, risolverebbe la crisi attuale, supererebbe s stesso nel medesimo tempo e si affermerebbe un'altra
volta come autosufficiente, vale a dire come causa di se stesso - come creatore di se medesimo.
Giungiamo cos a tutta una concezione dell'uomo, di cui bisogna ricordare i tratti principali. L'uomo un essere vivente e,
in quanto tale, sottomesso ad un certo numero di costrizioni risultanti dalla sua condizione biologica. Ma non un
essere vivente come gli altri. Differisce dagli altri animali per una maggiore e perpetua malleabilit (stato di neotenia o
"giovinezza costante" - la giovinezza corrispondendo al periodo di "apprendistato"). Nell'uomo, il determinismo biologico
puramente negativo. Esso non si esprime che sotto forma di potenzialit. La nostra costituzione non ci "dice" nulla di ci
che faremo; ci "dice" soltanto ci che non faremo. Nei limiti e nei presupposti della nostra "natura", la nostra libert resta
completa. tutta qui la differenza tra l'istinto e ci che presso l'uomo la pulsione: la pulsione non implica
programmazione in rapporto all'oggetto. L'uomo non libero di essere o di non essere il teatro di un certo numero di
pulsioni, ma libero di scegliere l'oggetto rispetto al quale queste pulsioni si mettono in azione. Se "ereditiamo" un
mucchio di mattoni, possiamo con quei mattoni costruire ci che vogliamo; la sola cosa che non possiamo fare di
trasformare il mattone in ardesia o in marmo. La medesima cosa accade con lo stock genetico. Cos, l'uomo pu sempre
rimettersi in questione. Non , diviene. sempre incompiuto. Non creato una volta per tutte; continua perpetuamente a
creare se stesso. E questo il segreto della sua superiorit - ma anche della sua pi grande fragilit: pu, in ogni momento,
perdere la sua umanit come dotarsi di una sovraumanit. E la stessa cosa per le esperienze collettive: a ogni
generazione, l'eredit rimessa in questione. Pu sempre, anch'essa, perdersi o superare se stessa.
L'uomo si costruisce. Edifica se stesso per mezzo di una costrizione esercitata su di s; prendendosi per suo proprio
oggetto, stabilendo al proprio interno delle trame di abitudini (Arnold Gehlen), fissandosi degli obbiettivi e dei principi
legati all'idea che si fa di se stesso. Il superuomo non un "superman" con dei grossi bicipiti o un alto QI, n "un nuovo
stadio dell'evoluzione", ma chi si mette nella situazione "eroica" di autosuperarsi, fondando un nuovo tipo secondo le
norme che sono le sue. L'uomo il "signore delle forme" (Jnger). Mette forma nel mondo come in se stesso: una forma
che, prima, fuori di lui e senza di lui, non esisteva. E concepisce questa forma come dotata di senso. Si ritrova qui
un'idea esposta all'inizio di questo testo; sono "vere" solo le idee e le forme incarnate - e pi c' incarnazione, pi c'
"verit" (ma non parimenti nemmeno una sacralizzazione della forza, perch ad una forza pu sempre opporsene
un'altra che trover le sue fondamenta in un altro sistema di valori e si manifester in funzione di un altro disegno; e non
nemmeno un pretesto per accettare in anticipo l'ordine, o il disordine, stabilito, perch precisamente le "verit" non si
valgono l'un l'altra).
E’ perci "buono" in questa prospettiva ci che ci permette di costruirci secondo le norme che ci siamo fissate;
"cattivo", ci che ci demolisce rispetto a queste stesse norme. La regola vale per gli individui come per la societ. E in
funzione delle norme che noi ci siamo fissate, norme legate all'apprendimento dei valori propri alla nostra cultura, che si
pu, per esempio, sviluppare una critica dell'edonismo (la societ "permissiva") contemporaneamente, e per le medesime
ragioni, ad una critica dell'ascesi negativa e mortificatrice (la mistica della sofferenza). Nell'azione intrapresa, la gioia
nasce dal fatto di raggiungere lo scopo che ci si fissato - e, allo stesso tempo, di vederne un altro che si scopre
all'orizzonte del volere -, non da ci che procura questo fatto di raggiungere lo scopo. E’ risaputo il proverbio: "La
caccia val pi della preda". Non significa che si debba disdegnare la preda, ma che bisogna per prima cosa voler
cacciare - e che la preda venga, eventualmente, in pi. Piacere e dispiacere sono soltanto delle conseguenze. Il piacere,
come il dispiacere, s'aggiunge all'azione, non ne il motivo: ne l'effetto, non la causa. qui tutta la differenza tra la
volont e il desiderio: mossi da un desiderio, ne siamo gli schiavi, mentre se la radice dell'azione risiede per prima cosa
nel volere (il quale, a sua volta, causa di se stesso), allora ne siamo i padroni. La "dialettica del signore e dello schiavo"
comincia cos, "a monte": siamo nello stesso tempo signori e schiavi di noi stessi. Eccellente criterio indicato da Evola:
volere soltanto ci a cui si anche capaci di rinunciare. In altre parole: si ha il diritto di volere tutto, alla condizione di
poterne anche fare a meno.
La decadenza comincia quando si considera che ci che era la conseguenza dell'azione pu legittimamente divenirne la
causa. Dal momento, in effetti, in cui si fa del piacere il valore supremo, si giustifica in anticipo tutto ci che ne permette
l'ottenimento. Non si vuole altro che ottenere cose piacevoli in quantit sempre maggiori (principio del piacere). Alla fine,
questa attitudine porta alla distruzione della personalit interiore. Si vede qui quanto la necessit dello sforzo sia distinta
dal lavoro, anche se questo ne resta l'istanza pi corrente. La "morale" liberale come la "morale" marxista pretende che
l'uomo sar tanto pi "libero" quanto sar meno costretto a lavorare. In realt, quando anche il lavoro (nel senso pi
prosaico e contemporaneo del termine) divenisse inutile, sussisterebbe sempre per l'uomo la necessit di costruirsi, di
darsi una forma, per mezzo di una volont di costrizione su di s generatrice di sforzi.
L'etica dell'onore
Costruire se stessi, darsi una forma, ci pu anche significare: passare dallo status di individuo a quello di persona. Tutti
sono individui, non tutti sono persone; si conosce la distinzione romana tra animus e anima: la persona l'individuo che
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si dato un'anima. Sarebbe sicuramente ingiusto che tutti gli uomini avessero un'anima; giusto che alcuni tra loro, al
termine della loro autocreazione, giungano a darsene una. Pu far ci solo chi regna come signore su se stesso, chi regna
come sovrano sul suo impero interiore. L'onore non allora nient'altro che la fedelt alla norma che ci si data,
all'immagine che ci si fatta di se stessi. Henri de Montherlant osserva che bisogna mantenere anche le promesse che
si sono fatte ad un cane, perch ci che impegna non il contenuto o l'importanza della promessa o il suo destinatario,
ma il fatto di aver promesso. Parimenti, la fedelt ad una convinzione, ad un'idea, si giustifica per il solo fatto di avervi
aderito - all'inizio, niente forzava a questa adesione. Un simile atteggiamento contiene la propria giustificazione: la fedelt
alla norma si giustifica per il fatto che una norma - e, all'occorrenza, una norma scelta, accettata e voluta. Proverbi
dell'Ancien Rgime: a) "la nobilt esige la nobilt"; b) "nobilt tace". La giustificazione dell'atteggiamento derivante dalla
norma non pu essere esteriore a questa; non pu risiedere in un interesse (foss'anche metafisico), il che ricusa ogni
morale utilitaria.
Da qui l'importanza dello stile. Esiste un rapporto evidente tra lo stile e la forma. Dare una forma al mondo, darsi una
forma, significa contemporaneamente istituire uno stile. E’ per questo che non si pu mai separare la lettera dallo
spirito, la forma dal fondo, il contenente dal contenuto. "Lo stile, l'uomo": il modo di fare le cose vale quanto le cose
stesse; le questioni di forma non sono mai superflue.
La morale aristocratica, segnata dal sigillo dell'onore, pu definirsi per un criterio costante: la capacit se necessario di
agire contro i propri interessi. E’ esattamente il contrario della teoria liberale, secondo cui l'uomo, essenzialmente
definito come agente economico, persegue sempre il suo "migliore interesse". Ma non si tratta d'altro canto di cadere
nell'ascesi negativa o nell'angelismo: una societ normale non si compone solo di eroi; tuttavia necessario che siano gli
eroi a servire da esempio, e non gli altri. Sombart definisce l'"eroe" come qualcuno che cerca costantemente ci che pu
dare alla vita, come pu arricchire l'esistenza, in opposizione al "borghese", che ricerca continuamente ci che pu ricavare
dalla vita, come pu arricchire la sua propria esistenza. Lo studio degli atti e delle situazioni eroiche mostra che le ragioni
per vivere e le ragioni per morire sono esattamente le stesse - e in questo senso, normale che in un'epoca in cui non si
trovano pi ragioni per morire, non si trovi pi parimenti senso alla vita. Ad un livello pi comune: ammettere che ogni
diritto deve avere la propria contropartita nell'ordine dei doveri. Se un uomo ha un diritto, ci significa che ha anche dei
doveri. Pi precisamente, se deve esserci parit di diritti, deve esserci anche parit di doveri. Ci pone il problema di sapere
quali sono i doveri che si in diritto di esigere da ogni uomo - e, contemporaneamente, d la misura dei diritti che ogni
uomo potrebbe rivendicare. Questo principio "funziona" evidentemente nei due sensi: se vero che chi si impone pi
doveri deve avere anche pi diritti, non si pu in compenso imporre molti doveri a chi non ha che pochi diritti. Un diritto
non armonizzato con un dovere diviene rapidamente un privilegio (nel senso attualmente assunto da questo termine).
Esso allora avvertito come ingiustizia, ci che scatena - e legittima - un processo "rivoluzionario" ben noto.
In una prospettiva nominalista, il tragico nasce dalla chiara percezione di una doppia "contraddizione": in primo luogo fra
la nostra piccolezza e la nostra brevit davanti all'immensit e all'infinit del mondo; poi tra il fatto che noi siamo contenuti
nel mondo sul piano "materiale" e il fatto che il mondo, pur cos immenso, allo stesso tempo contenuto in noi sul piano
"spirituale". Ci rendiamo cos conto che, per quanto infimi possiamo essere, siamo nondimeno i soli a poter "far uscire il
pi dal meno", a poter aggiungere all'universo forme che al di fuori di noi non esisterebbero. Gli Antichi avevano capito
molto bene che l'intensit una forma di "rivincita" sulla brevit; avevano notato anche che l'intensit varia in maniera
inversamente proporzionale alla durata (non si vive perpetuamente sulle vette). Il tragico sta allora nella nozione di
fatum, di "destino" (da non confondere con la "sorte": il destino ci che accadr, la sorte ci che accaduto), nozione che,
bisogna ricordare, non porta ad alcun fatalismo, anzi, al contrario. Il sentimento del fatum genera due atteggiamenti
precisi: ammettere che pu esserci un destino per ognuno di noi, senza vedere nel suo carattere ineluttabile il bench
minimo motivo per rinunciare a tentare di cambiarlo se stimiamo che non corrisponda alle norme che ci siamo fissate ( il
movente costante della tragedia greca); una volta che si fatto tutto il possibile secondo la norma che ci si fissata (e
qui, non dimentichiamolo, potere dovere), non soltanto accettare il corso delle cose quale si effettivamente prodotto,
ma anche volerlo: amor fati. Da "l'uomo libero" del 01/07/1981