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Alfonso Liguori - Pratica Del Confessore

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Sant'Alfonso Maria de Liguori

Pratica del confessore


Per ben esercitare il suo ministero

I Edizione IntraText CT
Copyright Èulogos 2002 - Vedi anche: Crediti

IntraText CT è il testo ipertestualizzato completo di liste e concordanze delle parole.


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- Indice -

 Approccio alla lettura

 Scheda
 Introduzione di Giuseppe Pistoni
 Introduzione di Stefano Manelli OFMC

 ABBREVIAZIONI SPECIALI USATE NELLE NOTE E NELLE AGGIUNTE

 INTRODUZIONE

 CAPITOLO I - DEGLI OFFICI DEL CONFESSORE

 § I - Circa l'officio di padre


 § II - Circa l'officio di medico
 § III - Circa l'officio di dottore
 § IV - Circa l'officio di giudice

 CAPITOLO II - DELLE DOMANDE DA FARSI A' PENITENTI ROZZI

 CAPITOLO III - DELLE DOMANDE DA FARSI A PERSONE DI DIVERSI STATI CONDIZIONI CHE SONO DI
COSCIENZA TRASCURATA

 CAPITOLO IV - COME DEBBA PORTARSI IL CONFESSORE CON COLORO CHE SI RITROVANO IN


OCCASIONE PROSSIMA DI PECCATO

 CAPITOLO V - COME DEBBA PORTARSI IL CONFESSORE COGLI ABITUATI E RECIDIVI

 CAPITOLO VI - COME DEBBA PORTARSI IL CONFESSORE CON I PENITENTI CHE SONO LIGATI DA
QUALCHE CENSURA O CASO RISERVATO O PURE DA OBBLIGO DI DINUNZIA O CON IMPEDIMENTO
DIRIMENTE O IMPEDIENTE DI MATRIMONIO

 CAPITOLO VII - COME DEBBA PORTARSI IL CONFESSORE CON PERSONE DI DIVERSI GENERI
 § I - Come debba portarsi co' fanciulli, giovani e signorine
 § II - Come debba portarsi co' scrupolosi
 § III - Come debba portarsi colle persone divote
 § IV - Come debba portarsi co' muti e sordi
 § V - Come debba portarsi co' moribondi
 § VI - Come debba portarsi co' condannati a morte
 § VII - Come debba portarsi cogl'infestati da' demoni

 CAPITOLO VIII - DELLA PRUDENZA DEL CONFESSORE

 CAPITOLO ULTIMO - COME DEBBA PORTARSI IL CONFESSORE NELLA GUIDA DELLE ANIME SPIRITUALI

 § I - Circa l'orazione di meditazione


 § II - Circa l'orazione di contemplazione e de' suoi diversi gradi
 § III - Circa la mortificazione
 § IV - Circa la frequenza de' sagramenti

 Avvertimenti generali per perfezione

 APPENDICE I

 § I - Avvertimenti a' confessori


 § II. - Avvertimenti a' parroci
 § III - Breve pratica dell'orazione mentale.

 APPENDICE II

 § I - Avvisi al sacerdote assistente


 § II - Rimedi contro le tentazioni
 § III - Motivi ed affetti da suggerirsi a' moribondi
 § IV - Avvertimenti circa gli ultimi sagramenti e modo di farli ricevere con frutto.
 § V. - Avvisi per l'agonia e morte
 § VI - Affetti da suggerirsi in tempo dell'agonia e spirazione
 § VII - Segni della prossima morte
 § VIII - Preci, atti cristiani e benedizioni

Crediti

Fonte a stampa S. Alfonso Maria de Liguori, “PRATICA DEL CONFESSORE”, Frigento 1987

Fonte della trascrizione P. Salvatore Brugnano, CSSR


elettronica

Marcatura ETML Èulogos

Note editoriali L'approccio alla lettura è a cura di P. Salvatore Brugnano, CSSR.

Edizioni contemporanee a S. Alfonso

1755, Napoli De Simone, in calce al 2° tomo della Theologia Moralis (2ªed. ).


1755, Napoli, De Simone, in 12°, p. 192, 36

1760, Napoli, Migliaccio, in 12°, p. 287

1771, Venezia, Vitto, in 12°, p. 298 (1ª ed. veneta)

Traduzione latina: Praxis confessarii ad bene excipiendas confessiones

1757, Roma, Sumptibus Remondinianis, p. 130-193, t. 3,Theol. Mor. (3ª ed.)

1757, Venezia, Remondini, in 12°, p. 216.

1763, Roma-Bologna, Sumptibus Remondinianis, p. 129-169, t. 3,Theol. Mor. (5ª ed.)

1764, Venezia, Remondini, in 12°, p. 243.

1765, Augsburg-Innsbruck, Wolff, in 12°, pp. 259.

1767, Roma, Sumptibus Remondinianis, p. 126, 166, t. 3,Theol. Mor. (6ª ed.)

1768, Laybach, Carinzia, s. n. (dedicata a Sodalibus... sodalitatis B. V. M. In coelos assumptae)

1771, Augsburg-Innsbruck, Wolff.

1772-73, Bassano Remondini, p. 126-166, t. 3,Theol. Mor. (7ª ed.).

1779, Bassano Remondini, p. 126-166, t. 3,Theol. Mor. (8ª ed.).

1781, Bassano Remondini, in 12°, p. 240.

1785, Bassano Remondini, p. 126-166, t. 3,Theol. Mor. (9ª ed.)

Fino al 1912 tutti quelli che hanno parlato della Pratica del Confessore l’hanno datata nel 1748. Essi si
basavano su una lettera del 31 maggio di quell’anno, nella quale S. Alfonso parla a un Padre della Compagnia
di Gesù di una Pratica che sta per uscire. Questa lettera si trova nella Raccolta di Lettere del venerabile servo
di Dio A. M. De Liguori, pubblicata a Roma, presso Bourlié, nel 1815. Siccome l’originale è andato perduto, le
altre raccolte l’hanno riprodotta tale e quale all’edizione romana (l’errore rimane ancora nelle Lettere di S.
Alfonso 1887, t.1, p. 152).

Il P. G. Blanc C.Ss.R., nella prefazione dell’edizione latina della Pratica (Roma 1912) ha provato che la data
del 1748 è certamente erronea.

In effetti S. Alfonso dice al suo corrispondente che questo nuovo trattato è come un riassunto della sua
Theologia Moralis pubblicata precedentemente. Ora la grande opera della Morale apparve per la prima volta nel
settembre del 1748 con l’imprimatur del 23 luglio di quest’anno. Dunque, bisognerebbe leggere all’intestazione
della lettera sulla quale ci si basa per datare la Pratica, non "1748", ma "1758". L’errore della raccolta del 1815
si spiega facilmente sia per una distrazione dei tipografi, sia del fatto che sotto la penna di S. Alfonso le cifre 4
e 5 sono appena differenti: il che può aver dato luogo ad una copia difettosa dell’originale.

La Pratica, di cui parla la lettera del 31 maggio 1758, non è quella esposta qui, ma l’Istruzione e Pratica per un
confessore (Homo Apostolicus) apparsa verso la fine del 1757, qualche settimana prima che fosse scritta la
summenzionata lettera, che S. Alfonso spesso chiama "la Pratica grande" per distinguerla da questa qui, molto
meno estesa.
La Praxis Confessarii, di cui qui si tratta, apparve nel 1755 in appendice alla 2ª edizione della grande Theologia
Moralis, come risulta chiaramente dalla lettera dedicatoria del libro a Benedetto XIV e da una lettera del Santo
a Remondini il 12 giugno 1756.

Questa ultima lettera ci fa apprendere che S. Alfonso fece stampare questo lavoro anche in opera separata:
"L’ho fatta stampare a parte"; egli suggerisce al suo editore veneziano l’idea di farne una tiratura a parte:
"Sarebbe una cosa utilissima e stia certo che nell’Italia ne farebbe uno smaltimento grandissimo".

Non sembra che il Remondini abbia dato seguito al suggerimento di questo progetto; ma egli ha pubblicato più
tardi parti distinte della traduzione latina che erano nel secondo volume della terza edizione della Theologia
Moralis del 1757 sotto il titolo: Praxis confessarii ad bene excipiendas confessiones.

Questa traduzione fu fatta in parte dallo stesso S. Alfonso e in parte dai padri Cajone e Ferrara sotto la guida
dell’autore (Cf. lettera del Santo del 25 luglio 1756). Le edizioni separate del trattato si fecero generalmente in
italiano. Intanto ve ne furono in latino a Venezia-Bassano nel 1757, 1764 e 1781, a Vienna e Innsbruck nel
1765 e 1771 e a Laybach (Carinzia) nel 1768.

Bisogna segnalare ancora una edizione latina della Pratica a Siracusa nel 1776 ad opera di Mercurio Maria
Teresi; ma questo teologo vi fece tanti adattamenti e modifiche che l’opera non è più di S. Alfonso.

Zaccaria, nella sua Storia letteraria d’Italia (Modena 1758, t. 12, p. 332), dà alla Pratica questo apprezzamento
molto elogiativo: "Oh che buon contravveleno è questa mai a quella anzi Filippica, che Istruzione dei
Confessori o dei Penitenti stampati dall’Occhi nel 1753. Qual diversità. La Pratica del P. Ligorio spira
un’unzione di Dio, tutta carità, tutta dolcezza, tutta moderazione; l’Istruzione spira furore, tutta trasporto, tutta
fierezza, tutto fanatismo. In quella si vede l’uomo saggio che cerca la salute delle anime; in questo uno Scrittore
impetuoso, che alla disperazione precipita i Fedeli. La prima con diritto metodo procede, e con giusta dottrina
alla penitenza spiana la strada; la seconda è un zibaldone disordinato e con istravolte opinioni odiosa rende la
sacramental confessione... Sia benedetto questo dotto e pio Religioso!"

L’Istruzione dei Confessori, così maltrattata in questa recensione di Zaccaria, è quella del domenicano Concina.
I seguaci di questa teologia rigida se ne offesero e ne fecero una replica risentita in Notomia di tutti i tomi della
Storia Letteraria (Lucca 1761, t. 4, p.29).

L’Elenchus degli Acta Doctoratus cita in data 1748 due opuscoli: Regolamento per una religiosa che dimanda
d’esser guidata per la via di maggiore perfezione, e Avvertimenti generali per la perfezione, i quali non sono
che due frammenti della Pratica. Essi pertanto non devono essere numerati tra le opere ascetiche del Santo e la
loro data, come quella del libro da cui sono estratti, deve essere ricondotta al 1755.

P. Maurice De Meulemeester

Bibliographie générale des écrivains rédemptoristes,

Louvain 1933, pp. 81-83

Introduzione di Giuseppe Pistoni

Non conosco alcun'opera che possa essere tanto vantaggiosa al sacerdote nel ministero della penitenza quanto la
Pratica del confessore di s. Alfonso, libro che è tutto profonda scienza morale, ascetica e mistica, tutto carità,
prudenza e moderazione ed insieme ardente zelo per la salvezza delle anime.

Nel Congresso teresiano di Madrid, tenuto nei giorni 1-4 maggio 1923, fu acclamata la seguente conclusione:
"Nessun confessore né direttore deve ignorare il trattato Praxis confessarii di sant'Alfonso Maria de Liguori,
dov'è compendiata tutta la dottrina - mistica ed ascetica di s. Teresa di Gesù, di s. Francesco di Sales e del
medesimo s. Alfonso". (R. Bayon, Come escribió Alfonso de Ligorio, Madrid, El Perpetuo Socorro, 1940, pp.
344-345). E quest'elogio che non dice poco, non indica certo tutti i pregi dell'opera.

Essa non è propriamente un compendio di teologia morale come ne conosciamo tanti, che pare pretendano
concentrare in poche formole la inesauribile varietà degli atti umani e la sempre nuova applicazione ad essi dei
principi: tocca soltanto quei principi morali e quelle applicazioni pratiche che più frequentemente occorrono nel
confessionale o che presentano particolare difficoltà: è un libro pratico e, come tale, è tutto ordinato all'azione,
illuminato da studio indefesso e potenziato dalla carità di un santo: non contiene tutta la teologia, ma ne
propone i principi con tanta altezza che facilmenle in essi si trova la soluzione delle questioni particolari non
esplicitamente trattate.

Non comprende tutta la teologia morale, ma qualche cosa di più: i principi dell'ascetica e della mistica,
chiaramente esposti ricordano che compito del confessore non è solo dare o negare un'assoluzione, ma anche
consolare, illuminare ed elevare mediante l'uso dei mezzi di santificazione che, secondo le disposizioni naturali
ed i doni che Iddio largisce ad ognuno, devon trasformare l'uomo vecchio in immagine vivente di Cristo. È
insomma un libro che con frase chiara e suadente vuole richiamare i novelli sacerdoti che già conoscono la
scienza sacra a sentire i grandi principi teologici che devono guidarli e ad applicarli alle indefinitamente varie
esigenze delle anime: ad essere dotti e santi per illuminare e santificare.

Che questo fosse il fine di s. Alfonso è indicato dalle parole con le quali egli inviando la Pratica a Benedetto
XIV, così sintetizza le speranze che l'hanno sorretto nella sua fatica: "Spero che debba riuscire molto utile per
l'istruzione de' confessori novelli, circa ciascuno stato e genere di persone, peccatrici e spirituali ". (Lettera 8
giugno 1755 al Sommo Pontefice Benedetto XIV. Lettere di s. Alfonso Maria de' Liguori, Roma, Desclée,
1887, 1, p. 286).

L'opera fin dal suo apparire suscitò tale ammirazione che, come scrisse il servo di Dio. P. BRUNONE
LANTERI (Riflessioni sopra la santità e dottrina del b. Alfonso Liguori, Vers. it. Reggio, Davolio, 1825, p.
94): "si giunse a dire da' più savi, che aveva avuto in dettarla una speciale assistenza del suo angelo tutelare".

Il santo Dottore annetteva tanta importanza a questo suo lavoro che lo volle aggiunto, prima nella stesura
originale italiana, poi nella versione latina a tutte le edizioni della Theologia moralis dal 1755 in poi.

La certezza di far opera utile al clero italiano mi ha indotto a preparare questa nuova edizione che, con l'assenso
di S. E. Rev.ma Mons. Arcivescovo, dedico a voi, cui sovente è andato il mio pensiero durante la diuturna
fatica: la tradizione alfonsiana modenese, che si onora dei nomi di G. P. Cavazzuti, di Mons. G. Baraldi e
Mons. P. Cavedoni, non deve né interrompersi né indebolirsi.

Ma una seconda speranza mi ha sorretto nel lavoro: quella di contribuire ad una migliore conoscenza di s.
Alfonso specialmente tra il clero italiano, promuovendo un più deciso ritorno alle fonti della sua dottrina da
parte degli studiosi. Non è ultimo privilegio per noi italiani l'avere tra i nostri santi ed i nostri grandi il maestro
più autorevole della teologia pratica, né ultimo onore per la lingua di Dante l'essere stata da s. Alfonso piegata,
con uno stile semplice, chiaro ed efficace, ad enunciare le verità teoriche e pratiche della fede ed a guidare i
ministri di Dio nell'arte delle arti, la cura spirituale delle anime.

Eppure s. Alfonso, anche tra noi, è poco, troppo poco conosciuto. Il popolo, tra la copiosa produzione a lui
destinata dal Santo, conosce appena alcuni opuscoli di ascetica, spesso presentati in edizioni che egli
chiamerebbe senza eufemismi: scellerate... che è un vituperio; e gli stessi sacerdoti si contentano in generale di
conoscere la Theologia Moralis e l'Homo apostolicus, e per lo più di seconda mano.

Le opere del santo Dottore, che si estendono a quasi l'intero campo della sacra dottrina, dalla morale alla
dogmatica, dalla storia all'eloquenza, dall'ermeneutica sacra alla liturgia, al diritto, alla catechetica, all'ascetica e
mistica, all'arte sacra, destinate a tutte le classi di persone: vescovi e seminaristi, religiosi e parroci, monache e
persone coniugate, campagnuoli e giovani studenti, e, in generale, al popolo, pur con le imperfezioni
inseparabili da ogni attività umana, hanno ancora, dopo quasi due secoli, una tale freschezza ed efficacia di
espressione, una tale aderenza ai bisogni, alle aspirazioni, ai mali della nostra età, che si crede esser doveroso
auspicare un ritorno tra noi della santità e della dottrina del Santo, attraverso la lettura, lo studio, la meditazione
dei suoi scritti.

A questa conoscenza del s. Dottore hanno portato eccellente contributo, "mediante la pubblicazione e diffusione
delle sue opere, il P. L. Gaudé, redentorista, con la edizione critica della Theologia moralis (Romae, Vaticana
19054912) ed il suo confratello G. M. Blanc che ne completò il lavoro per quanto concerne la Praxis
confessarii pubblicata nel 4° volume della Theologia moralis ed a parte (Romae, Vaticana, 1912).
Recentemente i PP. Redentoristi hanno iniziata una edizione critica delle Opere ascetiche di s. Alfonso (Isola
del Liri, Macioce e Pisani, 1938 s.), edizione pregevolissima, ma tuttora incompleta e certo non diffusa quanto
meriterebbe.

A questi tentativi vorrebbe aggiungersi, ultima per la mole e perfezione, questa edizione. Se questo mio duplice
intento sia legittimo e se l'attuazione sia adeguata, giudicheranno i lettori.

La Pratica del confessore, da non confondersi con la Istruzione e pratica per un confessore, edita nel 1757
(Napoli, Pellecchia) e successivamente col titolo Istruzione e pratica per li confessori, e la cui versione latina è
l'Homo apostolicus (prima ediz. Venezia, Remondini, 1759), fu pubblicata la prima volta nel 1755, "ad usum
iuventutis praefatae congregationis", cioè del ss. Redentore, nella seconda edizione della Theologia moralis
(Neapolli, De Simone, 1753-1755) e nello stesso anno separatamente col titolo: Pratica del confessore per ben
esercitare il suo ministero. Data in luce dal R. P. D. Alfonso de Liguori rettor maggiore della Congregazione
del SS. Redentore. Quest'operetta sta già inserita nell'Opera grande di morale ultimamente stampata dal
medesimo in due tomi, ma si è posta a parte per maggior comodità de' lettori. In Napoli, MDCCLV. Presso
Giovanni di Simone. Con licenza de' superiori. In 24, pp. 191 più 3 n.n.

(…)

La composizione di quest'aurea operetta, almeno per i nove capitoli, è senza dubbio anteriore al 1755 di almeno
quattro anni, ché l'approvazione ecclesiastica della seconda edizione della Theologia moralis, in cui essi sono
stampali, porta la data del 19 ottobre 1751.

Vivente s. Alfonso uscirono altre due edizioni della Pratica: nel 1760 a Napoli, Migliaccio, in 24, pp. 287 e nel
1771 a Venezia, Vitto, in 24, pp. 298; ma queste due edizioni, come asseriscono i predetti editori della Praxis
(p. XI) furono preparale ad insaputa del s. Dottore, od almeno senza ch'egli ne fosse preavvisato, il che, quanto
almeno all'edizione Vitto è fuori di ogni dubbio. Infatti il 15 giugno 1772 il Santo scriveva a G. B. Remondini:
"Mi ha scritto un certo Sig. Giovanni Vitto, avvisandomi di aver stampata la mia Pratica del Confessore, cioè
non la grande, ma quella picciola in un tometto... e mi ha mandato 12 libretti della Pratica... dicendomi che
avendo esso stampata questa Pratica, tra pochi giorni ne aveva smaltite mille copie". (Lettere, 3, p. 410). Che
poi anche la edizione di Migliaccio sia uscita senza la cooperazione del Santo è quasi altrettanto certo, non solo
perché era uso degli editori napoletani stampare le sue opere, per motivo di lucro, senza farne parola a lui, ma
perché l'editore, se s. Alfonso avesse curata o riveduta tale edizione, non avrebbe mancato di informarcene nel
frontespizio del volumetto.

Gaudé-Blanc (o. cit. p. XI) parlano di una edizione italiana che sarebbe uscita dalla tipografia remondiniana nel
1757, immediatamente dopo la terza edizione della Theologia moralis. Certo tale edizione, se fosse stata
stampata, meriterebbe particolare attenzione e dovrebbe essere preferita alle altre, anche perché s. Alfonso
aveva dimostrato al suo editore veneto il proposito di "impinguarla di molle altre buone cose... perché ora è
molto breve" (Lettere a G. Remondini, 16 e 12 giugno 1756, Lettere, pp. 31, 29).

Ma quest'edizione non fu stampata. Anzitutto le due lettere di s. Alfonso sulle quali Gaudé-Blanc fondano la
loro asserzione non danno certezza alcuna, ché in quella del 16 giugno 1756 (Lettere, 3, p. 31) il Santo parla del
proposito di ristampare l'opera, non dell'attuazione di esso: "Questa Pratica è stata universalmente piaciuta... se
V. S. Ill.ma volesse poi stamparla a parte, anco in italiano... "; nell'altra del 22 luglio dell'anno successivo
(Lettere, 3, p. 59) ringrazia l'editore del suo "generosissimo dono... delle 22 Pratiche", ma queste parole
possono intendersi riferite alla edizione latina, Praxis, pubblicata dal Remondini in quell'anno 1757. E che la
prova a favore della edizione del 1757 ricavata da queste ultime parole sia di nessun valore risulta anche dal
fatto che s. Alfonso ripetutamente nelle sue lettere usa la parola Pratica senz'aggettivo, anche per indicare la
versione latina (Vedi, per es. Lettere, 3, pp. 39, 40, 46). Inoltre Remondini, nella presentazione della sua
edizione della Praxis, uscita nel 1764, scrive: "Praxis haec... non semel italico sermone in lucem prodiii. Nam
et secundae neapolitanae editioni Theologiae moralis ab eodem auctore concinnatae adiuncta est et seorsim
etiam Neapoli itidem"; ora, non è ammissibile che egli non abbia qui fatto cenno di una sua edizione, se
realmente l'avesse data in luce. Si aggiunga che il diligentissimo DE MEULEMEESTER (Bibliographie
générale des écrivains rédemptoristes, 1, La Haye-Louvain, Nijhoff-S. Alphonse 1933, p.82, nota 2) afferma:
"Nous n'avons rencontré dans aucune bibliothéque une édition italienne de Venise en 1757"; parole che sono
appieno confermate dalle mie ricerche.

Possiamo dunque concludere con tutta la certezza possibile in questa materia che, dopo la duplice edizione
napoletana del 1755, due sole edizioni, della Pratica furono pubblicate durante la vita di s. Alfonso (Napoli,
Migliaccio 1760 e Venezia, Vitto, 1771): l'una e l'altra senza la cooperazione del Santo.

Le edizioni postume, senza contare la presente, sono state tredici, alle quali possiamo aggiungere quattordici
edizioni della versione francese, una della versione polacca, oltre a numerose edizioni parziali.

Intanto, verso la metà del 1756, s. Alfonso e Remondini convengono che, data la diffusione della Theologia
moralis all'estero, è necessario tradurre in latino la Pratica. Dapprima il Santo, impedito da infermità e da altre
occupazioni, prega l'Editore di provvedere lui alla versione (3 luglio 1756, Lettere, 3, p. 33-34) poi si adatta a
darne incarico a due suoi religiosi: al p. Girolamo Ferrara (col suo concorso), per i primi sette capitoli, al p.
Gasparo Caione dal capitolo VIII a tutto il Regolamento per una religiosa e per l'Assistenza a' moribondi (24
luglio 1756, Lettere, 3, pp. 38-39). Egli si impegna a rivedere il lavoro e scriverà che la traduzione gli è costata
tre (altrove sei mesi di tempo (1, 4, 11 e 29 ottobre e 4 novembre 1756, 15 aprile f757, Lettere, 3, pp. 40, 42,
43, 45, 47, 56).

Questa versione latina: Praxis confessarii ad bene excipiendas confessiones, stampata per la prima volta da
Remondini a Roma nel 3° volume della terza edizione della Theologia moralis e separatamente a Venezia dallo
stesso editore nel medesimo anno, ebbe, vivente il Santo, altre undici edizioni in Italia ed all'estero e 33
postumo.

Ecco con quali criteri ho preparato questa edizione:

1° Ho preferito la redazione italiana alla versione latina, non tanto perché quest'ultima è facilmente reperibile
almeno nelle biblioteche, né perché ai miei confratelli sia difficile il latino, quanto perché il testo italiano è
opera genuina di s. Alfonso, quand'invece la Praxis, come s'è detto, benché da lui riveduta, è quasi interamente
opera d'altri e palesa talora, e non si mancherà di notarlo presentandosene l'occasione, i difetti che
accompagnano ogni versione.

2° In mancanza di manoscritti, distrutti od introvabili, base di questa edizione è il testo pubblicato da Di


Simone unitamente alla seconda edizione della Theologia moralis e separatamente nel 1775, essendo questa
soltanto la edizione curata dal Santo. Si sono tenuti presenti, più che le edizioni Migliaccio e Vitto, già indicate,
quei luoghi della Istruzione e pratica in cui sono riportati brani della Pratica. Quanto siano numerosi tali luoghi
e brani risulta dalla Tavola di raffronto che si pubblica alla fine di questo volumetto. Le edizioni della
Istruzione e pratica consultale sono le ultime cui ha posto mano l'Autore e cioè: Bassano, Remondini, 1764 e
1768 e Napoli, Di Domenico (a spese di Migliaccio), 1765.

Quando si tratta di semplici differenze di lezione (ortografia, modo di esprimersi), ho preferito la lezione di
Istruzione e pratica, perché posteriore; ma quando le aggiunte o mutazioni sono notevoli, per il pensiero o per
la forma, ho attribuito ciò all'indole particolare dell'Istruzione e pratica e non mi sono scostato dall'edizione di
Di Simone. Solo in casi di evidente opportunità ho tenuto conto della seconda redazione nelle note. Non ho
riprodotto dall'edizione del 1755 le Propositiones damnatae, ma aggiunto, come s'è fatto ordinariamente nelle
edizioni postume e nella Praxis, il trattato: Dall'assistenza a' moribondi.

3° Il testo è stato riprodotto 'con la più scrupolosa fedeltà ed esattezza, introducendo però nella punteggiatura e
nella grafia delle iniziali maiuscole i cambiamenti voluti dall'uso odierno. Ho pure introdotto alcune mutazioni
conformi ai cartellini coi quali s. Alfonso, diligentissimo anche in questo, raccomandava a Remondini le
correzioni da introdursi nelle nuove edizioni dei suoi scritti, come dee anziché deve, in oltre e non inoltre, per li
e non per i o per gli. (Cfr. O. GREGORIO, L'edizione critica delle Opere ascetiche di S. Alfonso M. de'
Liguori. Estr. da La Scuola Cattolica, aprile 1936, Milano, S. Giuseppe, 19,36, pp. 10-12).

Le voci o frasi che, per essere corrotte o scorrette sono state emendate, vengono indicale (ove non si tratti
evidentemente di solo errore di stampa), nell'Elenco ortografico.

4° Le note, benché non distinte tipograficamente per evidenti ragioni economiche, sono di due generi: pratiche
e critiche. Quanto alle note pratiche mi sono limitato per lo più a far notare le modificazioni volute dalla
legislazione canonica posteriore a s. Alfonso, riportando o soltanto accennando, secondo mi sembra imposto
dall'indole del libro. Per non alterare questa stessa indole non mi sono occupato delle opinioni sostenute da
teologi in contrasto con s. Alfonso: basti ricordare che, secondo il decreto della S. Congregazione dei Riti 18
maggio 1803, approvato da Pio VII, fu dichiarato: "Nihil censura dignumn repertum fuisse"nelle opere di s.
Alfonso e che la S. Penitenzieria il 5 luglio 1831 rispose al card. de Rohan-Chabot: "Theologiae professores
tuto posse sequi ac profiteri opiniones b. Alphonsi, quin tamen ideo reprehendendi censeantur, qui opiniones ab
aliis probatis auctoribus traditas sequuntur; nec inquietandum esse confessarium, qui in praxi sacri tribunalis
poenitentiae omnes b. Alphonsi opiniones sequitur, non perpensis etiam earum rationibus, hoc solo
fundamento, quod a Sede Apostolica nihil in operibus illius censura dignum repertum fuerit" (cit. da J.
AERTNYS - C. DAMEN, Theologia moralis, Taurini, Marietti, 1939, 1, 95). Pio X nella lettera al P. Gaudé,
stampata al principio della citala edizione della Theologia moralis, ripete, parlando di s. Alfonso: "quem tuto
omnes in morum doctrinis sequi possunt". Questi singolarissimi elogi ,della dottrina di s. Alfonso vanno riferiti,
per la parte positiva, alla disciplina vigente al suo tempo e non dispensano il maestro o il confessore
dall'aggiornarne l'insegnamento alla luce delle odierne leggi e delle attuali condizioni.

Le altre note si limitano ad indicare qualche raffronto, che :ho giudicato utile, tra la dottrina della Pratica e
quella di altre opere di s. Alfonso, specialmente tra il testo della Pratica e quello della Praxis oppure, nel
maggior numero, ad indicare le fonti cui il s. Dottore ha attinto o in cui son le notizie o parole da lui riportate.
Per queste ultime note ho adottato le seguenti norme: - a) Le citazioni che in s. Alfonso già sono chiare ed
esatte, sono lasciate nel testo, tra parentesi, come ha fatto spesso lo stesso s. Dottore.- b) le citazioni che sono
risultate inesatte o poco chiare sono state corrette, completate o chiarite in nota senz'alcun segno speciale; - c)
quando poi s. Alfonso ha indicato solo il nome dell'autore o genericamente: un autore, senza altra
determinazione, le note sono contrassegnale da un "*" per indicare che sono dovute esclusivamente all'editore; -
d) quando finalmente le parole della fonte citata non corrispondono alla lettera a quelle riportate dal Santo, si fa
precedere alla nota: Cfr.

Il lavoro, anche così condotto, difficilmente potrà accontentare tutti i lettori, ma se questa edizione servirà ad
entusiasmarvi per lo studio di s. Alfonso e vi stimolerà ad attuarne le massime e gli esempi specialmente
nell'amministrazione del sacramento della penitenza e nella predicazione e vi infonderà completa e operativa
unione alla Chiesa nelle sue leggi e nei suoi Pastori, mi terrò ricompensato della fatica.

Ai figli di s. Alfonso, cui non fa diletto né competenza né amore, l'onore e l'onere di dare al clero e al popolo
una edizione completa delle opere del loro santo fondatore, che saranno tanto provvidenziali in queste ore
agitate e decisive.

Modena. 2 agosto 1948, festa di S. Alfonso.

Can. Giuseppe Pistoni

in S. ALFONSO M. DE LIGUORI

Pratica del Confessore

per ben esercitare il suo ministero


Tip. Pontificia ed Arcivescovile Immacolata Concezione,

Modena 1948, pp. III-XV

Introduzione di Stefano Manelli OFMC

S. Alfonso Maria de Liguori fu definito "Dottore utilissimo", per la sua vita e per i suoi scritti con cui fecondò i
tre campi della Teologia Morale, della Teologia Spirituale, dell'Apologetica.

Proprio pensando a S. Alfonso si avverte stridentemente, oggi, che nella Chiesa anziché dottori "utilissimi", ci
sono tanti dottori "dannosissimi": quei dottori che il Papa Paolo VI definì "teologi da camera" e "autoteologi",
dei quali "diffidare", giacché anche per essi valgono le terribili parole profetiche di S. Pietro nel mettere i . n
guardia i primi cristiani dai maestri di errori e deviazioni: "Tra voi ci saranno dei falsi dottori che
provocheranno dannose fazioni e rinnegheranno il Signore che li redense, attirando su se stessi una rapida
rovina... Costoro sono fonti senz'acqua, nubi agitate dalla bufera, dense di tenebre. Pronunciano discorsi gonfi
di vanità, adescano con le concupiscenze della carne, con le dissolutezze... Promettono loro libertà, mentre essi
stessi sono schiavi della corruzione" (2 Pt 2, 1 e 18-19).

A suo tempo, anche S. Alfonso parlava allo stesso modo - e parlerebbe tanto più oggi - dei falsi teologi, "che
senza preoccuparsi del vero scrivono per piacere al mondo. Sempre pronti a mettere guanciali sotto il capo dei
peccatori, li addormentano nel vizio... Questi teologi cagionano un danno immenso alla Chiesa, perché chi ama
la via facile si affretta a seguire le loro massime".

Davvero contro i "falsi maestri" (2 Pt 2,1), S. Alfonso fu realmente "guida dei fratelli e difesa del popolo",
come si espresse S. S. Pio VII. Il nostro "Dottore utilissimo", ebbe a che fare con i falsi teologi e pretesi maestri
che infestavano la Chiesa di dottrine erronee o pericolose. Ad essi egli oppose la dottrina intatta epura della
Chiesa, colta nelle sue immutabili radici: S. Scrittura, Tradizione, Magistero Pontificio. Per tutta la Chiesa
l'opera di S. Alfonso fu, e resta, una corrente poderosa di aria pura che spazza via i miasmi degli errori,
ridonando respiro e vita alle anime.

"Dottore zelantissimo", fu anche definito. E ben a ragione. Perché la sua azione, in campo dottrinale e pastorale,
fu anche insonne, oltre che poderosa.

Sappiamo che egli si era impegnato con voto a non perdere neppure un istante di tempo disponibile. Di poche
ore era il suo sonno. Immobile alla sua scrivania, studiava o scriveva finché gli occhi o le dita non si
immobilizzavano anch'essi. Lavorava anche infermo, con indosso l'artrite e altri acciacchi. Lancinato da dolori
al capo, con una mano si premeva una pietra di marmo sulla fronte, con l'altra continuava a scrivere senza posa.
(La pietra si può vederla ancor oggi, accanto al quadro di Maria SS. del Buon Consiglio, sull'umile tavolino,
nella sua povera cella di Pagani).

In una pagina concisa e forte, il P. Berthe ci offre questa descrizione della vita di S. Alfonso: "Passava il suo
tempo libero ai piedi di Dio, in pie letture ed in sante orazioni. Dopo una preparazione, spesso assai lunga,
celebrava la Messa con la pietà di un Angelo: il suo ringraziamento durava ore intere. Le sue visite al SS.
Sacramento, che erano assai frequenti, lo infiammavano di amore divino e lo univano sì strettamente all'Ospite
del tabernacolo, che non lo lasciava mai senza rammarico. Affine di rassomigliare a Gesù Crocifisso, non
indietreggiava dinanzi a nessuna mortificazione. Il cibo malissimo preparato... pareva a lui troppo delicato:
quindi trovava il mezzo di amareggiarlo, mescolando a tutte le pietanze aloè e mirra. Spesso il suo pasto
consisteva in una minestra ordinaria, e di più mangiata in ginocchio o seduto per terra, con una pietra sospesa al
collo, come un colpevole. Il sabato, per onorare la sua Madre Maria, digiunava a pane ed acqua. Portava cilizio,
catenelle di ferro... Due volte la settimana si dava la disciplina a sangue. Più avido egli di sofferenze, che i
mondani di piaceri, seguiva con ardore la sola via che mena dalla terra al cielo: la via della croce" (1).

A proposito del suo amore alla povertà eroica, ricordiamo, ad esempio, che "quando S. Alfonso prese possesso
della sua sede vescovile si trovò in grandi impicci. "Siamo in tutto - diceva scherzosamente - un vecchio
vescovo, un vecchio cocchiere, una vecchia vettura e un paio di vecchi cavalli". Ma le difficoltà, la vecchia
carrozza, i vecchi cavalli non gli impedirono di fare meraviglie" (2). E ancora: "S. Alfonso impegnò la sua
croce pettorale per assistere i poveri. Tenne l'anello soltanto perché per quello non vollero dargli nulla" (3),
mentre "le scarpe che doveva portare da Vescovo gli durarono venticinque anni!" (4).

Se è vero che in quello stesso secolo non mancarono, alla Chiesa, altri valorosi apologisti come l'Huet, il
Muratori, il Bergier, tuttavia, fra quelli, S. Alfonso fu la "stella della Chiesa militante", come disse ancora Pio
VII, e tutti ,egli sovrastò di gran lunga per l'influsso formativo esercitato sulle masse dei fedeli, in Europa e
oltre.

Si sa che S. Alfonso venne creato Dottore della Chiesa principalmente per la sua Theologia Moralis. La dottrina
morale di S. Alfonso "ha creato una corrente nuova - afferma il De Luca - dopo un secolo e mezzo di moralismi
a volte esasperati, e questa corrente è stata quella che ha poi adottato la Chiesa. S. Tommaso nella Dommatica,
sant'Alfonso nella Morale" (5).

La comparsa della Theologia Moralis di S. Alfonso fu un vero avvenimento e una grande provvidenza nella
Chiesa. Ricordiamoci che a quei tempi anche i teologi più eminenti - come scrive il Berthe - navigavano a
stento fra Scilla e Cariddi" (6), ossia fra il lassismo e il rigorismo. E S. Alfonso, finalmente, fu colui che seppe
"segnare una via sicura tra le opinioni o troppo larghe o troppo rigide dei teologi" (7). Per questo
principalmente fu Dottore in universa Ecclesia, da seguirsi "senza timore di ingannarsi" (Pio IX, Breve del 9
luglio 1871).

Nove edizioni della Theologia Moralis si esaurirono vivente ancora il Santo, senza contare i diversi compendi
in italiano e in latino da lui stesso compilati per l'uso pastorale (La Pratica del confessore, L'Homo
Apostolicus). Il Papa Pio XII, inoltre, nel 1950 gli conferì anche il titolo di "Celeste Patrono dei confessori e
dei moralisti" (8).

Ciò vale singolarmente per il nostro Santo Dottore e per le sue opere, di cui, appunto, il Servo di Dio Don
Calabria poté affermare: "Gli scritti di S. Alfonso hanno un pregio loro tutto caratteristico: non vanno mai fuori
moda, non sono mai vecchi" (9).

Anche questo "utilissimo" volume, "La Pratica del confessore", che ha avuto numerosissime edizioni fino al
passato più recente, ed è servito a generazioni e generazioni di confessori, specialmente giovani, non è affatto
vecchio né fuori uso. Al contrario, forse mai come in questi tempi di lacerante crisi della confessione, di
scarsità e impreparazione dei confessori, proprio quest'opera del grande Dottore e sommo moralista, deve
ritornare fra le mani di tutti i ministri del Sacramento della Riconciliazione. Con questo volume,
opportunamente adeguato al nuovo Codice di Diritto Canonico, S. Alfonso offre ai confessori una sintesi
mirabile dei principi e delle norme morali per una retta e feconda amministrazione del Sacramento del perdono,
con riferimenti pratici e preziosi a gruppi differenziati di penitenti e a molteplici casi delicati e scabrosi.

È una pista sicura, è un vademecum di prima qualità a sostegno del confessore nella difficile arte della
purificazione delle anime, a garanzia dei penitenti nel cammino della conversione attraverso la Confessione.

Se S. Alfonso è Dottore della Chiesa soprattutto come Maestro di morale, è alla sua scuola che debbono tornare
i ministri della riconciliazione. Se S. Alfonso è il Dottore "utilissimo" e "zelantissimo", è a lui che dobbiamo
tornare per imparare da lui a rendere il nostro ministero sacerdotale "utilissimo" e "zelantissimo" su tutto il
fronte della dottrina e della pratica pastorale per la guida delle anime alla salvezza e alla santificazione.

Per l'idea di fare una nuova edizione della Pratica siamo in debito nei confronti di P. Basilio Maria Arthadeva,
O.M. V., Direttore della rivista Cristo al Mondo.

P. Stefano Maria Manelli O.F.M.Conv., S.T.D.

Ministro Provinciale

della Religiosa Provincia Napoletana di S. Francesco


in S. ALFONSO DE LIGUORI

Pratica del Confessore

Casa Mariana, Frigento 1987, pp. XIII-XVIII

-----------

(1) A. Berthe, S. Alfonso de' Liguori, Pagani 1933, pp. 83-84. Cfr. J. Angot des Rotours, S.
Alfonso de Liguori, Rorna 1910, pp. 78, 133,190.

(2) A. Roche, Sublimità dei Santi, Roma 1958, p. 84.

(3 Ivi, p. 86.

(4) Ivi, p. 86.

(5) G. De Luca, Sant'Alfonso mio maestro di vita cristiana, Roma 963, p. 84; cfr. pure pp. 90 e
138. Vedere la 1 Aggiunta di questa Pratica.

(6) A. Berthe, S. Alfonso de' Liguori, Pagani 1933, p. 282.

(7) Decretum super concessione tituli Doctoris, 23 marzo 1871.

(8) AAS 42, p. 597.

(9) Riportato da O. Gregorio nella Premessa a La vera Sposa di Gesù Cristo, Alba 1965, p. 8.

ABBREVIAZIONI SPECIALI USATE NELLE NOTE E NELLE AGGIUNTE

N.B.:—Nelle citazioni si indicano, ordinatamente, le divisioni e suddivisioni del testo; il numero


delle pagine, quando è indicato, è preceduto da p. o pp.

Abbiamo indicato con l'asterisco (*) certe opere italiane di S. Alfonso. Brani di queste nelle Aggiunte
e nelle Note firmate "A.M.", sono presi da Opere di S. Alfonso M. de Liguori Torino, Giacinto
Marietti, 1845-1855, 10 voll. Poche voci non più in uso sono state cambiate, conservando il senso,
secondo l'Elenco dei cambiamenti ortografici, p. 381.

AAS = Acta Apostolicae Sedis. Commentarium officiale. Romae, Vaticana, ab anno 1909.

A-D 1950 = J. Aertnys - C. Damen, Theologia Moralis. Torino, Marietti, 1950. Due voll.
A-D-V = J. Aertnys- C. Damen - J. Visser, Theologia Moralis, Torino, Marietti, 1967-1969, 4 voll.

A.M. = P. Alfonso Maria Sutton, O.F.M. Conv., S.T.D., Casa Mariana, Frigento (AV), compilatore
delle Aggiunte e di quelle Note che hanno la sua firma (A.M.).

ASS = Acta Sanctae Sedis in compendium opportune redacta et illustrata. Pubblicata a Roma dal
1865 fino al 1908.

Berthe = A. Berthe, Sant'Alfonso Maria de 'Liguori, Vers it. Firenze, Barbera, 1903. Due voll.

Comm. Cod. = Pontificia Commissio ad Codicis canones authentice interpretandos.

Conf. Diretto * = S. Alfonso M. de Liguori, Confessore diretto per le confessioni della gente di
campagna.

De Meulem. = M. De Meulerneester, Bibliographie générale des écrivains rédemptoristes, I,


Bibliographie de S. Alphanse M. De Liguori. La Haye-Louvain, Nijhoff— S. Alphonse, 1933.

Denz.-Rahner = H. Denzinger - Carolus Rahner, Enchiridion Symbolorum, Definitionum, et


Declarationum, Barcellona, Herder, 1955.

D-S = H. Denzinger - A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum, Definitionum, et Declarationum de


Rebus Fidei et Morum. Barcellona, Herder, 1973.

El Colegial = S. Antonio Maria Claret, El Colegial ó seminarista teórica y praticamente instruido.


Barcellona, Libreria Religiosa, 1865. Due voll.

Ench. Cl. = S. Cong. pro institutione catholica, Enchiridion Clericorum - Documenta ecclesiae
futuris sacerdotibus formandis. Vaticana, 1975.

Ench. Vat. = Enchiridion Vaticanum - Documenti ufficiali della Santa Sede. Edizioni Dehoniane.
Bologna. Documenti dall'anno 1962 fino a tempo indeterminato.
Fontes = Codicis iuris canonici fontes, cura et studio E.mi Petri Card. Gasparri (voll. VII-IX E.mi
Justiniani Card. Seredi). Roma, Vaticana, 1926-1939. Voll. 9.

G.B. = Note dei PP. Gaudé-Blanc in: S. Alphonsus M. de Ligorio, Praxis confessarii, cura et studio
P. G. B. Blanc... ex editione critica a P. L. Gaudé curata. Roma, Vaticana, 1912.

Homo Ap. * = S. Alfonso M. de Liguori, Homo Apostolicus.

Istr. e Prat. * = S. Alfonso M. de Liguori, Istruzione e pratica pei confessori.

Leges Ecclesiae = Leges Ecclesiae post codicem iuris canonici editae, cura et studio Xaverii Ochoa,
C.M.F. Roma, Libreria Vaticana, 1966-Voll. 5.

Lettere = Lettere di S. Alfonso Maria de' Liguori, Fondatore della Congregazione del Ss.mo
Redentore..., pubblicate per un Padre della stessa Congregazione. Società S. Giovanni, Desclée,
Lefebvre e Cia, Roma, 1890.

Praxis = S. Alfonso M. de Liguori, Praxis confessarii ad bene excipiendas confessiones. Edizione


ora citata con note dei PP. Gaudé-Blanc.

Preces = Preces et pia opera in favorem omnium christifidelium vel quorumdam coetuum
personarum indulgentiis ditata et opportune recognita. Roma, Vaticana, 1938.

Prontuario = Prontuario de la teologia moral, di Francisco Larraga, O.P., ampliato e corretto


("adicionado y corregido" secondo il frontespizio) dall'arcivescovo S. Antonio M. Claret. Barcellona.
1860.

Selva * = S. Alfonso Liguori, Selva di materie predicabili ed istruttive.

SRC-concessionis1 = S. Rituum Congregatio, Concessionis tituli Doctoris in honorem S. Alphonsi


Mariae de Ligorio. Roma, Typographis S. Cong. de Propaganda Fide, 1870.

Th M = S. Alphonsus M. Ligorio, Theologia Moralis, curata da L. Gaudé e G. M. Blanc. Roma,


Vaticana, 1905-1912. Ristampa 1953.
1 Questo libro ha cinque sequenze di pagine, che distinguiamo premettendo 1/, 2/, ecc, ai numeri delle pagine che citiamo.

INTRODUZIONE

-1-

1. Grande certamente sarà il premio e sicura la salvazione de' buoni confessori che s'impiegano nella salvezza
de' peccatori; ce ne accerta s. Giacomo: Qui converti fecerit peccatorem ab errore viae suae, salvabit animam
eius (cioè suam d'esso convertente, come parla il testo greco)1 a morte et operiet multitudinem peccatorum2
(Jac. 5, 20).

Ma piange la Chiesa in vedere tanti suoi figli perduti per cagione de' mali confessori, poiché principalmente
dalla loro mala o buona condotta dipende la salvezza o ruina de' popoli. Dentur idonei confessarii (disse s. Pio
V) ecce omnium christianorum plena reformatio.3 È certo

-2-

che se in tutti i confessori si ritrovasse la scienza e la bontà conveniente a tanto ministero, il mondo non sarebbe
così infangato di peccati, né l'inferno così ripieno d'anime. E per bontà non intendo qui la sola bontà abituale,
cioè il semplice stato di grazia, ma una bontà positiva, quale appunto conviensi ad un ministro della penitenza,
a cui fa bisogno come alla nutrice doppio alimento, e per sostentare sé e per nutrire la prole. Intanto il
confessore deve diriger le coscienze altrui, senza errare o per troppa condescendenza o per troppo rigore: deve
maneggiar tante piaghe, senza imbrattarsi: praticar con donne e con giovanetti, ascoltando le loro cadute più
vergognose, senza riceverne danno; deve usar fortezza con persone di riguardo, senza farsi vincere da' rispetti
umani: deve in somma esser pieno di carità, di mansuetudine, di prudenza. Or a far tutto ciò vi bisogna una
bontà non ordinaria, alla quale non mai giungerà chi non è persona di orazione (usando la meditazione
quotidiana), altrimenti non avrà la luce e le grazie necessarie per ben esercitare quest'officio formidabile (come
suol dirsi), anche agli omeri degli angioli.

Ma veniamo alla pratica del modo di prender le confessioni, della quale intendo qui solamente parlare. In
questa Pratica io accennerò molte dottrine appartenenti alla medesima; ma per non replicare ciò che ho posto

-3-

nell'Opera accennata4, qui noterò solamente, (colle lettere frapposte)5 i luoghi del Libro, dove il mio lettore
troverà poi le dottrine stese più diffusamente colle loro ragioni ed autorità de' dottori.

1 Veramente i critici (cfr. le edizioni greche del Nuovo Testamento di H. J. Vogels, A. Merk, etc.) alla lezione: sósei psuchén autú (autú =
eautú, sui ipsius, cioè d'esso convertente) preferiscono l'altra: sósei psuchèn autú (autú con lo spirito lene = eius, cioè del peccatore). Altre
edizioni greche omettono il possessivo. L'interpretazione di s. Alfonso, ripetuta anche in Selva di materie predicabili, 1, 9, 18, ha a suo favore
una buona tradizione, come può rilevarsi dai commenti a questo versetto di A. Lapide, Calmet, etc.
2 Chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati.

3 Si abbiano confessori idonei (disse s. Pio V) ecco la totale riforma di tutti i cristiani. Questo pensiero, riguardante per altro i

sacerdoti in genere e non i soli confessori, ricorre spesso in s. Pio V, ma non è stato possibile rintracciare le
parole qui citate. Cfr. Selva di materie predicabili, 2, 4, 7.

4 Le dizioni: Opera grande, Opera, Morale, Libro, indicano la Theologia moralis del Santo, che qui è detta Opera accennata perché già
ricordata in alcune parole premesse alla Pratica nella edizione stampata separatamente da Di Simone nel 1755.

Citerò sempre la Theologia moralis indicando i libri ed i numeri marginali della edizione critica curata da L.
Gaudé, Romae, Vaticana, 1905-1912.

5 In questa edizione i libri e numeri marginali della Theologia moralis sono indicati nel testo, fra parentesi.

CAPITOLO I - DEGLI OFFICI DEL CONFESSORE

2. Quattro sono gli offici che deve esercitare il buon confessore: di padre, di medico, di dottore e di giudice.
Parleremo in questo capitolo di ciascun officio in particolare.

-5-

§ I - Circa l'officio di padre

3. Il confessore, per adempire la parte di buon padre, dev'esser pieno di carità. E primieramente deve usar
questa carità nell'accogliere tutti, poveri, rozzi e peccatori.

Alcuni confessano solamente l'anime divote o solo qualche persona di riguardo, perché non avranno l'animo di
licenziarla; ma se poi s'accosta un povero peccatore, lo sentono di mala voglia, ed infine lo licenziano con
ingiurie. E quindi succede che quel miserabile, il quale a gran forza sarà venuto a confessarsi, vedendosi così
mal accolto e discacciato, piglia odio al sagramento, si atterrisce di più confessarsi, e così, diffidando di trovar
chi l'aiuti e l'assolva, si abbandona alla mala vita ed alla disperazione.

-6-

Non fanno così i buoni confessori: quando si accosta un di costoro, se l'abbracciano dentro il cuore e si
rallegrano quasi victor capta praeda,1 considerando di aver la sorte allora di strappare un'anima dalle mani del
demonio. Sanno che questo sagramento propriamente non è fatto per l'anime divote, ma per li peccatori,
giacché le colpe leggiere, per essere assolte, non han bisogno dell'assoluzione sagramentale, ma possono
cancellarsi in diversi altri modi. Sanno che Gesù Cristo si protestò dicendo: Non veni vocare iustos, sed
peccatores2 (Marc. 2, 17). E perciò, vestendosi di viscere di misericordia, come esorta l'Apostolo, quanto più
infangata di peccati trovano quell'anima, tanto maggior carità cercano d'usarle, affin di tirarla a Dio, con dirle
per esempio: Orsù allegramente, fatti ora una bella confessione. Di' tutto con libertà; non pigliar rossore di
niente. Non importa che non ti sei a pieno esaminato, basta che mi rispondi a quel che io ti dimando. Ringrazia
Dio che ti ha aspettato finora. Mo hai da mutar vita. Sta allegramente, che Dio ti perdona certo, se hai buona
intenzione: a posta t'ha aspettato, per perdonarti. Di' su allegramente.
-7-

4. Maggiormente poi deve il confessore usar carità nel sentirlo. Bisogna pertanto ch'egli si guardi di mostrar
impazienza, tedio o maraviglia de' peccati che narra; se pure non fosse così duro e sfacciato che dicesse molti e
gravi peccati senza dimostrarne alcun orrore o rincrescimento, perché allora è di bene fargli intendere la loro
deformità e moltitudine, bisognando allora svegliarlo dal suo mortal letargo con qualche correzione. È vero,
come dicono i dottori, che deve astenersi il confessore di far la correzione dentro la confessione de' timidi, per
timore che il penitente si atterrisca e lasci di dire gli altri peccati che tiene; però ciò s'intende parlando
regolarmente, ma del resto alle volte3 conviene non passare avanti e far subito la correzione, precisamente
quando il penitente si confessa di qualche peccato più enorme o pure abituato, per fargl'intendere la gravezza di
quel vizio, ma senza inasprirlo, né atterrirlo; onde il confessore, dopo ch'ha corretto per quanto è necessario,
subito gli faccia animo a confessare gli altri peccati, con dirgli: Orsù, te lo vuoi levare questo vizio così brutto?
sì eh? sta allegramente. Di' tutto mo, non lasciare qualche peccato che tieni. Avesti da fare un sacrilegio?
Questo sarebbe un peccato più grande di quanti n'hai fatti. Di' tutto mo allegramente; fatti una buona
confessione, che Dio ti perdona.

5. In fine poi della confessione è necessario che il confessore con maggior calore faccia conoscere al penitente
la gravezza e moltitudine de' suoi peccati e lo stato

-8-

miserabile di dannazione in cui si trova; ma sempre con carità. È vero che allora può servirsi di parole più gravi
per farlo entrare in se stesso, ma deve fargli conoscere che tutto ciò che gli dice non nasce da sdegno, ma da
affetto di carità e di compassione; per esempio: Figlio mio, vedi che vita è questa di dannato? Vedi il male ch'ai
fatto? Che t'ha fatto Gesù Cristo, che lo tratti cosi? Se Gesù Cristo ti fosse stato il maggior nemico capitale,
avresti potuto trattarlo peggio? un Dio ch'è morto per te? Ah! se fossi morto in questo tempo, in questa notte,
dove saresti andato? dove saresti mo? saresti dannato per sempre. Che ti pare, se seguiti a vivere cosi ti potrai
salvare? Non lo vedi che sei dannato? Che te ne trovi di tanti peccati ch'hai fatti? non lo vedi ch'hai un inferno
qua e un altro là? Orsù, figlio mio, finiscila mo, datti a Dio; basta quanto l'hai offeso. Io ti voglio aiutare
quanto posso, vieni a trovarmi sempre che vuoi. Fatti santo mo, statti allegramente. Oh che bella cosa stare in
grazia di Dio! ecc. (S. Francesco di Sales, per tirare i peccatori a Dio, specialmente costumava di far loro
intendere la pace che godon quelli che vivono in grazia di Dio, e la vita infelice che fa chi vive lontano da
Dio)4. Quindi l'aiuterà a far l'atto di dolore; e se quegli è disposto, l'assolverà con dargli i rimedi per emendarsi,
di cui parleremo nel paragrafo seguente; se poi non può assolverlo, o stima

-9-

conveniente di differirgli l'assoluzione5, gli assegni il tempo del ritorno con dirgli: Orsù t'aspetto in tal giorno:
non lasciar di venire; portati forte come ti ho detto; raccomandati alla Madonna e vieni a trovarmi; se io sto al
confessionario, accostati, ch'io ti farò passare, o pure mandami a chiamare, ch'io lascerò tutto per sentirti. E
così ne lo mandi con dolcezza6. Questa è la via di salvare i peccatori, trattarli quanto si può con carità;
altrimenti quelli, se trovano un confessore austero che li tratta con modi aspri e non sa far loro animo, pigliano
orrore alla confessione, lasciano di confessarsi e son perduti.

1 come il vincitore che ha fatto buona preda (Is. 9, 2). Vedere VII Aggiunta.

2 Non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori (Mc 2, 17).


3 Praxis: multoties (molte volte).

4 Cfr. S. Francois de Sales, Avertissements aux confesseurs, 1, s in Oeuvres complètes, Annecy, Niérat, 1892-1925, 23, p. 284.
5 Se il confessore non ha dubbi sulle disposizioni del penitente e questi chieda l'assoluzione, essa non sia negata né differita. Can. 980; cfr.
quanto alle censure, il can. 1331. Si tenga presente anche il can. 982. Vedere VIII Aggiunta, C. di questa Pratica, p. 360.

6 Non è precisa la storia che il Santo quasi mai negava l'assoluzione. Vedere VIII Aggiunta, D, p. 361. —A. M.

-9-

§ II - Circa l'officio di medico

6. Il confessore, affine di ben curare il suo penitente, deve per prima informarsi dell'origine e cagioni di tutte le
sue spirituali infermità. Alcuni confessori dimandano solamente la specie e 'l numero de' peccati e niente più; se
vedono il penitente disposto, l'assolvono; se no, senza

- 10 -

dirgli niente, subito lo licenziano, dicendo: va', che non ti posso assolvere. Non fanno così i buoni confessori:
questi primieramente cominciano ad indagare l'origine e la gravezza del male, domandano la consuetudine e le
occasioni che ha avute il penitente di peccare, in qual luogo, in qual tempo, con quali persone,7 con qual
congiuntura, poiché così poi meglio possono far la correzione, disporre il penitente all'assoluzione ed
applicargli i rimedi.

7. Fatte le suddette dimande e così ben informatosi il confessore dell'origine e della gravezza del male, proceda
a far la dovuta correzione o ammonizione. Sebben egli come padre deve con carità sentire i penitenti, però è
obbligato come medico ad ammonirli e correggerli quanto bisogna; specialmente coloro che si confessano di
rado e sono aggravati di molti peccati mortali.

E ciò è tenuto a farlo anche con persone di conto, magistrati, principi, sacerdoti, parrochi e prelati, allorché
questi si confessassero di qualche grave8 mancanza con poco sentimento.

Dice il pontefice Benedetto XIV nella sua Bolla Apostolica,9 che le ammonizioni del confessore sono più
efficaci che le prediche dal pulpito: ed a ragione, mentre il predicatore non sa le circostanze particolari, come le
conosce il confessore; onde questi assai meglio

- 11 -

può far la correzione ed applicare i rimedi al male. Né deve allora il confessore badare agli altri penitenti che
aspettano, poich'è meglio, come dicea s. Francesco Saverio,10 far poche confessioni e buone che molte e mal
fatte.

E qui bisogna anche avvertire quanto mal fanno quei confessori che, trovando un penitente indisposto, subito lo
licenziano, per non pigliarvisi fastidio. È sentenza ben fondata de' dd. (6, 608, v. Hic adverte) che, benché il
penitente si accosti indisposto, il confessore è obbligato a far quanto può per disporlo all'assoluzione: con porgli
avanti (per esempio) l'ingiuria fatta a Dio, il pericolo di sua dannazione, etc. E non importa che altri aspettino o
se ne vadano: il confessore di quel solo che tiene avanti è tenuto a render conto a Dio, se si perde, e non degli
altri.
8. E così ben anche è obbligato il confessore ad ammonire chi sta nell'ignoranza colpevole di qualche suo
obbligo, o sia di legge naturale o positiva.

Che se il penitente l'ignorasse senza colpa, allora, quando l'ignoranza è circa le cose necessarie alla salvezza, in
ogni conto gliela deve togliere; se poi è d'altra materia, ancorché sia circa i precetti divini, e 'l confessore
prudentemente giudica che l'ammonizione sia per nocere al penitente, allora deve farne a meno e lasciare il
penitente, nella sua buona fede; ed in ciò s'accordano anche gli autori più rigidi. La ragione si è, perché si deve
maggiormente evitare il pericolo del peccato formale che del materiale,

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mentre Dio solamente il formale punisce, poiché da questo solo si reputa offeso. Ciò sta provato pienamente nel
Libro colla opinione de' dd. a eccezione di pochi (6, 610).

E quindi s'inferisce anche colla comune (6, 611), che nel caso che 'l penitente avesse contratto matrimonio
invalido per qualche impedimento occulto e stesse in buona fede, ed inoltre vi fosse pericolo d'infamia, di
scandalo o d'incontinenza, se gli fosse manifestata la nullità, allora deve il confessore lasciarlo in buona fede
finché gli ottenga la dispensa (eccettoché se la dispensa facilmente e subito potesse ottenersi).11 Ed in tal caso,
cioè quando sta in buona fede, se mai il penitente si confessasse di ave negato senza giusta causa il debito
coniugale, dicono i dd (ibid) che il confessore deve benanco a ciò obbligarlo.

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Come poi debba portarsi il confessore cogli sposi che stessero per contrarre qualche matrimonio nullo e si
temesse di peccato formale o di scandalo, manifestandosi loro la nullità, si osservino le risoluzioni poste nel
Libro (6, 612 - 613).12

Così anche, secondo la comun sentenza, deve omettersi l'ammonire di qualche obbligo di restituzione chi stesse
in piena buona fede, se certamente si prevedesse che 'l penitente non ubbidirebbe all'ammonizione (6, 614, v.
Infertur 2).

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9. Deve però eccettuarsene per I quando dall'ignoranza dovesse avvenirne danno al ben comune (6, 615),
perché allora il confessore, essendo egli costituito ministro a pro della repubblica cristiana, è tenuto a preferire
il ben comune al privato del penitente, sebbene preveda che a costui non gioverà l'ammonizione: onde in ogni
conto deve ammonire i principi, i governatori, i confessori ed i prelati che mancano al loro obbligo, perché la
loro ignoranza, sebbene invincibile, sempre sarà di danno alla comunità almeno per lo scandalo, mentre gli altri
facilmente stimeranno esser lecito ciò che vedono fare da' superiori. E com'insegna il nostro ss. p. Benedetto
XIV, Bulla Apostolica n. 20,13 lo stesso deve praticarsi con coloro che frequentano i sagramenti, affinché gli
altri non prendano da essi mal'esempio. Se n'eccettua per II se 'l penitente interrogasse, perché allora è
obbligato il confessore a scoprirgli la verità (6, 616), essendo che in tal caso l'ignoranza non sarà più affatto
incolpabile, come si richiede per potersi omettere l'ammonizione. Se n'eccettua per III, se al penitente tra breve
sia per giovare l'ammonizione, benché al principio egli non acconsenta (Ibid. v. Excipiendum 3). Che cosa poi
debba fare il confessore nel dubbio se l'ammonizione sia per giovare o per nocere, si osservi il Libro (Ibid. v.
Utrum autem).

10. Indi, fatte le dovute correzioni o sieno ammonizioni, bisogna che 'l confessore attenda a disporre il penitente
all'assoluzione con un vero atto di dolore e di proposito;
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avvertendo che rari14 son quei penitenti, e spezialmente i rozzi, che prima di confessarsi fanno l'atto di dolore.
Alcuni confessori si contentano con dimandare a talun di costoro: Orsù di tutto questo ne cerchi perdono a
Dio? (il che per altro non è vero atto di dolore) o pure: te ne penti di cuore? E senza dir altro, gli danno
l'assoluzione. I buoni confessori non fanno così; attendono sopra tutto a far concepire ai loro penitenti (parlando
degli aggravati di peccati mortali) un vero pentimento e detestazione del mal fatto; procurano che facciano
prima un atto di attrizione e per esempio: Ah figlio mio, dove avresti da stare mo? Nell'inferno ah? dentro il
fuoco, disperato, abbandonato da tutti, abbandonato anche da Dio, per sempre? Dunque ti penti d'aver offeso
Dio per l'inferno che ti hai meritato. Avvertasi qui che non fa bene l'atto d'attrizione chi si pente del peccato
commesso perché s'ha meritato l'inferno, ma bisogna che si penta d'aver offeso Dio, perché s'ha meritato
l'inferno.

Indi gli faccia fare un atto di contrizione: Figlio mio, ch'ai fatto? hai offeso un Dio bene infinito, l'hai perduto il
rispetto, l'hai voltate le spalle, hai disprezzata la sua grazia. Orsù, perché hai offeso un Dio bontà infinita, ora
te ne penti con tutto il cuore? detesti ed odii tutte le ingiurie che l'hai fatte sopra ogni male? mai più, etc.

Notisi qui per 1. che quando il penitente si confessa qualche altro peccato dopo l'assoluzione, sebbene lo
dicesse immediatamente, per essere assolto bisogna che di

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nuovo faccia l'atto di dolore, essendo quello nuovo giudizio (6, 448).

Notisi per 2. esser sentenza probabile di molti dd. (6, 445), che la confessione, per esser sagramentale, deve
essere informata dal dolore; onde quando si confessa alcuno che non ha fatto prima l'atto di dolore, non basta,
(trattandosi già di valore del sagramento) farglielo fare dopo la confessione, ma bisogna15 dopo l'atto di dolore
fargli replicare la confessione con dirgli almeno: Orsù ora di nuovo t'accusi di tutti i peccati che m'hai detti?

11. In fine il confessore deve attendere ad applicare i rimedi più opportuni alla salvezza del suo penitente, con
dargli quella penitenza che più conviene al suo male, e inoltre quegli verisimilmente sarà per adempire.

Notisi ciò, perché sebbene la penitenza dev'essere corrispondente a' peccati, e 'l sacro concilio di Trento (Sess.
14, de Poenit. c. 8) dichiara partecipi delle colpe de' penitenti quei confessori che levissima quaedam opera pro
gravissimis delictis iniungunt;16 tuttavia per giuste cause può il confessore diminuir la penitenza, come se il
penitente avesse una gran compunzione, o vero se fosse tempo di giubileo o d'indulgenza plenaria, e
specialmente se quegli fosse infermo di corpo o di spirito, sicché prudentemente si tema che non adempisca la
soddisfazione proporzionata: così insegnano comunemente i dd. con S.

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Tommaso17 (6, 509 - 514). È vero che nel Tridentino (Sess. 14, de Poenit. c. 8) dicesi che la penitenza deve
corrispondere alla qualità de' delitti, ma ivi stesso si aggiunge che le penitenze debbono essere pro poenitentium
facultate, salutares et convenientes.18 Salutares, cioè utili alla salvezza del penitente; et convenientes, cioè
proporzionate non solo a' peccati, ma anche alle forze del penitente. Ond'è che non sono salutari né convenienti
quelle penitenze a cui i penitenti non sono atti a soggiacere per la debolezza del loro spirito, poiché allora
queste piuttosto sarebbon cagioni di lor ruina. In questo sagramento più s'intende l'emenda che la soddisfazione:
perciò dice il Rituale Romano (De sacram. Poenit. 19) che 'l confessore nel dar la penitenza deve aver ragione
della disposizione de' penitenti. E s. Tommaso dice: Sicut medicus…non dat medicinam ita efficacem…, ne
propter debilitatem naturae maius periculum oriatur, ita sacerdos, divino instinctu motus, non semper totam
poenam, quae uni peccato debetur, iniungit, ne infirmus desperet et a Poenitentia totaliter recedat.19 Ed in altro
luogo, dice che come un picciol fuoco si estingue, se vi sovrappongono molte legna, così può accadere che il
picciolo affetto

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di contrizione del penitente si estingua per lo peso della penitenza, e soggiunge: Melius est quod sacerdos
poenitenti indicet quanta poenitentia esset sibi iniungenda, et iniungat nihilominus… quod poenitens
tolerabiliter ferat.20 Ed in altro luogo aggiunge: Tutius est imponere minorem debito quam maiorem: quia
melius excusamur apud Deum propter multam misericordiam quam per nimiam severitatem… quia talis
defectus in Purgatorio supplebitur.21 E lo stesso dicono il Gersone22, il Gaetano23 e singolarmente s.
Antonino24, il quale dice (6, 509 - 510) che deve darsi quella penitenza che si stima che il penitente appresso
verisimilmente eseguirà e che allora di buona voglia accetta. E se 'l penitente si protesta che non ha forza di far
la penitenza che si conviene, conclude finalmente s. Antonino: Tunc, quantumcumque deliquerit, non debet
(sacerdos eum) dimittere sine absolutione, ne desperet.25 Bastando allora, dice il Santo,

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che se gl'imponga in generale tutto ciò che farà di bene, colle stesse parole del Rituale: Quidquid boni feceris,
etc.26. le quali opere nel sagramento ingiunte, come insegna anche l'Angelico,27 avranno in virtù del sagramento
maggior valore a soddisfare per li peccati commessi. Di più aggiungono probabilmente molti dd. (6, 510, v.
Hinc probabiliter) esser giusta causa per diminuir la penitenza il giudicare che così il penitente resti più
affezionato al sagramento. Quanto è bello il consiglio finalmente di s. Tommaso da Villanova: Facilem unam
iniunxeris, et acriorem… consulueris!28 È bene far apprendere al penitente la penitenza che si meriterebbe; al
che può giovare anche l'indicargli le penitenze antiche de' canoni penitenziali (queste nel Libro, 6, 530, le
troverete notate). Gioverà benanche, come dice s. Tommaso da Villanova29, consigliare al penitente una
penitenza più grave; ma poi bisogna imporgli solamente quella che prudentemente si stima che adempirà.
Insinua s. Francesco di Sales30, e lo stesso si dice nel Rituale Parigino31 (6, 510, v. Apposite) che giova perciò
dimandare al penitente se si sente di far quella penitenza, altrimenti gliela si muti.

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Giova ancora alle volte imporre fra le opere ingiunte qualche penitenza grave, ma non sotto colpa grave (6,
518) o pure qualche opera già altronde precettata o dovuta (6, 513, v. Dubitatur igitur 1).

12. Da tutto ciò si rileva con quanta imprudenza operino quei confessori che ingiungono penitenze
improporzionate alle forze de' penitenti.32 Quanti di costoro alle volte non dubitano di assolvere facilmente i
recidivi indisposti ed ancora quei che stanno in occasione prossima di peccato, e scioccamente poi stimano di
guarirli con imporre loro gravissime penitenze, sebbene vedano che certamente quelli non l'adempiranno.
Impongono, per esempio, il confessarsi ogni otto giorni per un anno a chi appena si confessa una volta l'anno:
quindici poste di rosario a chi non lo dice mai: digiuni, discipline ed orazione mentale a chi non ne sa neppure il
nome. E poi che ne succede? Ne succede che quelli, benché accettino a forza la penitenza per carpirne
l'assoluzione, tuttavia dopo non la fanno, e credendo di esser caduti di nuovo in peccato, anzi di esser nulla la
confessione fatta (come credono per lo più i rozzi) per non adempire la penitenza data, di nuovo si rilasciano
alla mala vita ed atterriti dal peso della penitenza ricevuta pigliano orrore alla confessione e cosi seguitano a
marcir nelle colpe. E questo è il frutto per molti miserabili di tali penitenze che dicono proporzionate, ma
debbon meglio dirsi improporzionatissime.

13. Del resto, fuori del caso di gravissima infermità o d'una compunzione straordinaria, non farebbe bene il
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confessore ad imporre per le colpe gravi una penitenza per sé leggiera che importi leggiera obbligazione; poiché
sebbene, quando è conveniente può ingiungersi un'opera che rispetto a' peccati è leggiera, però sempre deve
imporsi una penitenza grave che induce obbligo grave.

E qui è bene notare più cose attenenti alla pratica circa le penitenze. Notisi per I, quando il penitente si ha
dimenticata la penitenza, è sentenza comune (6, 520) che non sia obbligato più a niente, se pur non fosse ch'egli
facilmente potesse risaperla dal confessore che gliel'ha data. Per II non possono imporsi penitenze pubbliche
per peccati occulti, ma bensì per peccati pubblici; anzi v'è obbligo d'imporle quando altrimenti non può ripararsi
lo scandalo dato o l'onore pubblicamente tolto a qualche persona. Ma non deve costringersi poi il penitente a
fare una penitenza pubblica quand'egli rilutta, e lo scandalo può toglierlo d'altro modo, come con frequentare i
sagramenti, visitar le chiese o entrare in qualche congregazione, etc. (6, 512). Per III può imporsi qualche volta
qualche penitenza sotto condizione se 'l penitente ricade (6, 524); ma avvertasi che tali sorte di penitenze forse
per lo più non riescono profittevoli, specialmente se son date per lungo tempo, perché facilmente poi nelle
ricadute si trascurano e si raddoppiano i peccati. Per IV, se mai il penitente desidera che gli si muti la penitenza
data da un altro confessore, vogliono molti dd. che costui debba ripetere la confessione al nuovo confessore,
almeno in confuso, per dargli notizia dello stato di sua coscienza. Ma molti altri anche probabilmente (6, 529, v.
Dubitatur 1) dicono ciò non esser necessario, bastando che 'l confessore faccia il giudizio, per mutar la
penitenza, che 'l penitente

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sia impotente a quel peso; potendo al contrario dalla stessa penitenza data arguire la materia de' peccati per cui
era imposta: e così si regolerà nel mutarla o diminuirla. E probabilmente (ibid. in fine) ciò può farlo da sé il
confessore quando prevede che 'l penitente verisimilmente seguiterà a trascurar la penitenza come prima. Ma
non è permesso poi al confessore inferiore mutar la penitenza imposta dal superiore per casi riservati, fuorché
quando il penitente difficilmente potesse ritornare al superiore, ed inoltre vi fosse grave causa di mutar la
penitenza; perché allora ragionevolmente si presume la connivenza del superiore (6, 529, v. Dubitatur 2). Per V
la penitenza non può commutarsi fuor della confessione, neppure dallo stesso confessore; solamente ciò può da
lui farsi immediatamente dopo l'assoluzione, prima che parta il penitente dal confessionario (6, 529, v.
Dubitatur 3).

14. Circa le penitenze particolari da imporsi avvertasi che la penitenza non solo dev'essere medicinale, ma
anche soddisfattoria delle colpe passate. La regola vuole che s'impongano opere di mortificazione a' peccati di
senso, di limosine a' peccati d'avarizia, d'orazione alle bestemmie, etc. Ma sempre bisogna vedere ciò ch'è più
conveniente ed utile per lo penitente. Benché sono utilissime per sé le penitenze della frequenza de' sagramenti,
dell'orazione mentale e della limosina, però in pratica riescono dannose per chi non mai o poco l'ha usate.

Le penitenze utili generalmente per tutti sono, per esempio, entrare in qualche congregazione, fare ogni sera,
almeno per qualche tempo, un atto di dolore, rinnovare ogni mattina il proposito, dicendo con s. Filippo Neri

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33: Signore tenetemi quest'oggi le mani sopra, affinché non vi tradisca, la visita ogni giorno al ss. Sagramento
ed a qualche immagine di Maria ss., cercando loro la perseveranza, dire il rosario e tre Ave, Maria, la mattina e
la sera alla Madonna, con dire: Mamma mia, aiutami oggi, affinché non offenda Dio (questa picciola penitenza
delle tre Ave, Maria, colla suddetta preghiera io per lo più ho costume d'imporla34 a tutti coloro che non la
praticavano); in porsi a letto dire: Ora avrei da stare nel fuoco dell'inferno, o pure: Un giorno su questo letto ho
da morire; a coloro che sanno leggere, e specialmente agli ecclesiastici, il leggere qualche libretto spirituale
ogni giorno. Avverte però s. Francesco di Sales35 che non si gravi il penitente di molte cose, affinché non si
confonda e si spaventi.

15. Parlando poi de' rimedi da insinuarsi a' penitenti, altri sono generali, altri particolari per qualche particolar
vizio.

I generali da insinuarsi a tutti sono: 1. l'amore a Dio,36 giacché Dio a questo sol fine ci ha creati; e con ciò diasi
ad intendere la pace che gode chi sta in grazia di Dio, e l'inferno anticipato che prova chi vive senza Dio,

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colla ruina anche temporale che porta con sé il peccato. 2. Lo spesso raccomandarsi a Dio e alla Madonna col
rosario ogni sera, all'angelo custode ed a qualche speciale santo avvocato. 3. La frequenza de' sagramenti; e che
se mai cadono in colpa grave, subito si confessino. 4. La considerazione delle massime eterne, e specialmente
della morte; ed a' padri di famiglia il far l'orazione mentale ogni giorno in comune con tutta la casa, almeno il
rosario insieme con tutti i loro figli. 5. La presenza di Dio in tempo della tentazione, con dire: Dio mi vede. 6.
L'esame di coscienza ogni sera col dolore e proposito. 7. Agli uomini secolari l'entrare in qualche pia
associazione ed a' sacerdoti l'orazione mentale e 'l ringraziamento dopo la Messa; almeno che si leggano
qualche libretto spirituale prima e dopo d'aver celebrato.

16. I rimedi poi particolari si assegneranno secondo la diversità de' vizi: per esempio, a chi ha tenuto qualche
odio s'insinui che ogni giorno raccomandi a Dio quella persona con un Pater ed Ave; e quando si sente punto
dalla memoria di qualche affronto ricevuto, si ricordi dell'ingiurie ch'esso ha fatte a Dio. A chi è caduto in colpe
d'impurità, il fuggire l'ozio, i mali compagni e le occasioni; e chi è stato abituato per lungo tempo in questo
vizio deve fuggire non solamente l'occasioni prossime, ma anche certe occasioni rimote che per lui, ch'è
diventato così debole, saranno prossime. Costui specialmente non lasci di dire ogni giorno le tre Ave, Maria,
alla purità della bb. Vergine mattina e sera, con rinnovare sempre avanti la sua immagine il proposito e la
preghiera per la perseveranza: e procuri di frequentare la comunione, che

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si chiama vinum germinans virgines.37 A chi è stato solito bestemmiare s'insinui di fare qualche tempo nove o
cinque croci colla lingua per terra, e di dire un Pater ed un'Ave ogni giorno a quei santi che ha bestemmiati, ed
ogni mattina in alzarsi rinnovi il proposito di aver pazienza nelle occasioni d'ira, e dica tre volte la mattina:
Madonna mia, dammi pazienza; ciò servirà non solo affinché Maria ss. l'aiuti, ma anche affinché nelle
occasioni si trovi l'abitudine fatta a dire le stesse parole, o pure si avvezzi a dire: Mannaggia il peccato mio,
mannaggia il demonio etc. Altri rimedi poi li assegnerà il confessore colla sua prudenza secondo le circostanze
delle occasioni, delle persone e de' loro impieghi.

7 Vedere n. 97 e nota 8 in quel luogo. Osservate che il nome del complice non viene mai chiesto. —A. M.

8 Praxis non traduce quest'importante aggettivo.

9 Benedictus XIV, ep. encycl. Apostolica constitutio, 26 iun. 1749, n. 22; Fontes, 400.

10 H. Tursellinus, De uita Francisci Xaverii Romae, Zanetti, 1596, pp. 304-305.


11 Quanto alla convalidazione del matrimonio, il confessore, se vi sia pericolo di grave male nell'attesa e manchi il tempo di ricorrere alla
Sede Apostolica o all'Ordinario del luogo, ha la facoltà di dispensare da tutti gli impedimenti di diritto ecclesiastico (eccettuati quelli la cui
dispensa è riservata alla Sede Apostolica), purché il caso sia occulto. Cann. 1079. 3 e 1080. Si avverta che, in queste circostanze, il
confessore può usare delle predette facoltà, come si detto, solo per gli impedimenti occulti (per quelli cioè che non possono provarsi in foro
esterno davanti al superiore ecclesiastico) la cui dispensa, come pure si è detto, non sia riservata alla Sede Apostolica. Gli impedimenti poi la
cui dispensa è riservata alla Sede Apostolica sono: 1. l'impedimento proveniente dai sacri ordini o dal voto pubblico perpetuo di castità
emesso in un istituto religioso di diritto pontificio; 2. l'impedimento di crimine, di cui al can. 1090 (coniugicidio allo scopo di contrarre
matrimonio col coniuge dell'ucciso e cooperazione fisica o morale all'uccisione di un coniuge). Can. 1078. 2. Avverta ancora il confessore che
per questa convalidazione semplice (la sanazione in radice può essere concessa; dalla Sede Apostolica o dal Vescovo diocesano nei singoli
casi e

nelle circostanze di cui nel can. 1165), oltre alla rimozione dell'impedimento, se necessaria, si richiede la
rinnovazione del consenso, secondo le prescrizioni dei cann. 1156-1165.

12 Qui si tratta non già di convalidazione del matrimonio già contratto, di cui si è detto nella nota precedente, ma di dispensa per un
matrimonio ancora da contrarsi. Le facoltà del confessore sono così indicate dal can. 1079. 3: In pericolo di morte il confessore ha la facoltà
di dispensare dagli impedimenti occulti nel foro interno, sia durante sia fuori della confessione sacramentale. Riguardo a questa facoltà si
ripete che l'impedimento è occulto quando non può essere provato in foro esterno e che la dispensa si estende a tutti e soli gli impedimenti di
diritto ecclesiastico, eccetto l'impedimento proveniente dal sacro ordine del presbiterato.

Fuori del pericolo di morte: Ogniqualvolta si scopra un impedimento mentre tutto è già pronto per le nozze e
non è possibile, senza probabile pericolo di grave male, differire il matrimonio finché non si ottenga la
dispensa dall'autorità competente, il confessore ha facoltà, purché il caso sia occulto, di dispensare nel foro
interno, sia durante sia fuori della confessione sacramentale, da tutti gli impedimenti, eccettuati quelli la cui
dispensa è riservata alla Sede Apostolica, citati nel can. 1078. 2, n. 1. Così il can. 1080. 1. Il confessore tenga
presente che si ritiene impossibile il ricorso all'Ordinario del luogo, se lo si può fare solo tramite telegrafo o
telefono ed altro mezzo simile. Cfr. can. 1079. 4. L'uso di questi mezzi di comunicazione può anche essere
illecito quando c'è pericolo di violazione del segreto.

13 Benedictus XIV, ep. encycl. Apostolica constitutio, cit. n. 20.


14 Praxis: perpaucos, cioè pochissimi.
15 S. Alfonso mutò poi questa opinione fino dalla sesta edizione della Theologia moralis (1767) come si può vedere nel luogo citato.

16 Cioè: Ingiungono penitenze leggerissime per delitti gravissimi.


17 Suppl. q. 18, a. 4.

18 Le penitenze debbono essere, per le possibilità del penitente, salutari e proporzionate.

19 Come il medico... non prescrive una medicina molto efficace, perché dalla debolezza della natura non nasca un pericolo più grave, cosi il
sacerdote, mosso da ispirazione divina, non impone sempre tutta la pena che è dovuta al peccato, affinché chi è debole non disperi e non si
allontani per sempre dalla Penitenza. —Ibid.

20 È meglio che il sacerdote mostri quanto grave penitenza gli si dovrebbe imporre, e, ciò non ostante, gli assegni quella che il penitente può
accettare senza difficoltà. —Quodl. 3 a. 28.

21 È via più sicura imporre una penitenza minore piuttosto che maggiore del necessario; perché siamo più facilmente scusati davanti a Dio
per la grande misericordia, che per la troppa severità... poiché tale difetto sarà supplito nel Purgatorio. — Opus. (apocr.) De officio sacerdotis.

22 J. Gersonius, Regulae morales, 138, in Opera omnia, Ant vverpiae, Sumptibus Societatis, 1706, t. III.

23 Caietanus, Summula, Venetiis, De Lenis, 1581, v. Satisfactio.

24 S. Antoninus, Summa theologica, III, 17, 20 (Veronae, Typ. Seminarii, 1740).

25 Allora, per quanto il penitente abbia peccato, il confessore non deve congedarlo senza assoluzione, onde non cada in disperazione.
26 Tutte le opere buone che farai.
27 Quodl. 3, a. 28.

28 Cioè: Potrai assegnare una penitenza facile, consigliandone un'altra... più pesante. —S. Thomas A Villanova, Feria sexta post quartam
dominicam quadragesimae, in Conciones, Romae, Verme, 1659, p. 175.

29 Ibid.

30 S. Francois de Sales, Avertissements, 8, 1 in Oeuvres, 23, p. 293.

31 Rituale Parisiense. edit. 1701, De sacram. Poenit., § Ubi eum. (G. B.).

32 Cfr. can. 981.


34 Praxis aggiunge: aut saltem consulere (o almeno consigliarla).

35 S. Francois de Sales, Avertissements, 8, 1, in Oeuvres, 23, p. 293.

36 Ritengo che questo primo rimedio è presentato come rimedio, credendo che l'esortazione del sacerdote può essere strumento della grazia
per commuovere i penitenti a questi sentimenti e disposizioni (A. M.).

37 Il vino che dà forza alle vergini (Zach. 9, 17). Vedere V Aggiunta, D e E, per altri rimedi (A. M.).

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§ III - Circa l'officio di dottore

17. Labia… sacerdotis custodient scientiam, et legem requirent ex ore eius (Malach. 2, 7)37A. Il confessore, per
ben esercitare l'officio di dottore, bisogna che ben sappia la legge; chi non la sa, non può insegnarla agli altri.

Ma qui bisogna avvertire quel che scrisse s. Gregorio che l'officio di guidare l'anime per la vita eterna è l'arte

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delle arti: Ars artium regimen animarum.38 E s. Francesco di Sales39 dicea che l'officio di confessare è il più
importante e 'l più difficile di tutti. E così è: esso è il più importante, perch'è il fine di tutte le scienze, ch'è la
salute eterna; il più difficile, mentre per prima l'officio di confessore richiede la conoscenza quasi40 di tutte
l'altre scienze e di tutti gli altri offici ed arti; per secondo la scienza morale abbraccia tante materie disparate;
per terzo ella consta in gran parte di tante leggi positive, ciascuna delle quali si ha da prendere secondo la sua
giusta interpretazione. Inoltre ogni legge di queste si rende difficilissima per ragione delle molte circostanze de'
casi, dalle quali dipende il doversi mutare le risoluzioni. Alcuni, che si vantano d'esser letterati e teologi d'alto
rango, sdegnano di leggere i moralisti, che chiamano col nome (presso loro d'improperio) di casisti. Dicono che
basta, per confessare, possedere i principi generali della morale, poiché con quelli possono sciogliersi tutti i casi
particolari. Chi niega che tutti i casi si hanno da risolvere coi principi? Ma qui sta la difficoltà: in applicare a'
casi particolari i principi che loro convengono. Ciò non può farsi senza una gran discussione delle ragioni che
son dall'una e dall'altra parte; e questo appunto è quel che han fatto i moralisti: han procurato di chiarire con
quali principi debbano risolversi molti casi particolari. Inoltre oggidì, come si é detto, vi sono tante leggi
positive, bolle e decreti, che non

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possono sapersi, se non si leggono questi casisti che li rapportano, ed in ciò i moderni scrittori son certamente
più utili degli antichi. Giustamente dice il dotto Autore41 dell'Istruzione per i confessori novelli (part. I, n. 18),
che molti gran teologi, quanto sono profondi nelle scienze speculative, altrettanto si trovano scarsi nella morale
la quale, come scrisse il Gersone,42 è la più difficile di tutte, e non vi è dotto (per versato che sia) che non trovi
sempre cose nuove e nuove difficoltà; donde inferisce che 'l confessore non deve mai tralasciare lo studio della
morale. Parimenti dice il dottissimo Sperelli,43 che molto errano quei confessori che si danno tutti allo studio
della scolastica, stimando quasi tempo perduto lo studio della morale, e poi non sanno distinguere lepram a
lepra; qui error (soggiunge) confessarios simul et poenitentes in aeternum interitum trahet.44

18. Non si nega poi che vi vuole meno scienza a confessare persone semplici che curialisti, negozianti,
ecclesiastici e simili; meno a confessare in un villaggio che in una città; specialmente se in qualche luogo vi
fosse tale scarsezza di confessori che i penitenti dovessero stare lungo tempo senza confessione (6, 628). Ma
ciò non basta a scusare alcuni che, dopo aver letta di passaggio qualche

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picciola somma di morale, si mettono temerariamente a confessare.

Bisogna almeno che 'l confessore sappia per I. dove si stenda la sua giurisdizione; avvertendo qui specialmente
il confessore che i sacerdoti secolari non possono assolvere i religiosi senza licenza de' loro prelati45, eccettoché
quando si trovano in viaggio o dimorano altrove, e quando non hanno socio o altro sacerdote idoneo della stessa
religione. Ed allora i religiosi possono essere assolti da ogni semplice sacerdote, mentre allora i superiori,
dando licenza a' loro sudditi, intendono secondo la consuetudine dare ad essi licenza di confessarsi a qualsiasi
sacerdote idoneo (6, 575). Di più sia inteso de' casi e delle censure

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riservate, almeno delle più frequenti ad incorrersi, come sono la scomunica papale della bolla Coenae46 per chi
cade in eresia esternata, o in leggere, ritenere e vendere: libri d'eretici che trattano di religione ex professo, o
contengono eresia formale; i cinque casi papali di Clemente VIII47, cioè la percussione enorme o mediocre del
chierico o monaco, la simonia reale o confidenziale, la violazione della clausura di monasteri di monache a mal
fine, la violazione dell'immunità e 'l duello: la scomunica fulminata dal regnante Pontefice contro i confessori
che assolvono il complice in materia turpe48 (6, 553), e contro coloro che insegnano potersi dal confessore
domandare

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il nome del complice, anche negando l'assoluzione a chi ricusa manifestarlo49 (6, 491) e l'altre scomuniche
ovvie che possono osservarsi nel trattato de censuris.

Sappia per II. distinguere i peccati veniali da' mortali, almen di suo genere, che comunemente càpitano; e degli
altri almeno sappia dubitare.

Per III. le dimande che deve fare,50 le circostanze de' peccati, almeno quelle che mutano le specie: ciò che
costituisce l'occasione prossima o induce obbligo di restituzione; le qualità del dolore e del proposito, e
finalmente i rimedi opportuni per l'emenda. In somma è certo ch'è in istato di dannazione un confessore che
senza la sufficiente scienza si espone a sentir le confessioni. Dio stesso lo riprova: Quia tu scientiam repulisti,
repellam te, ne sacerdotio fungaris mihi (Os. 4, 6).51 Né può scusarlo l'approvazione del vescovo, quando egli
manifestamente si conosce inabile: l'approvazione non dà la scienza necessaria, ma la suppone. Dico
manifestamente; mentre chi solo ne dubitasse, ben può e deve quietarsi su 'l giudizio del suo superiore, con
procurare almeno di abilitarsi con qualche studio maggiore. Ma ogni confessore non deve

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mai tralasciare lo studio della morale; perché in tante cose così diverse e disparate che s'appartengono a questa
scienza, molte (sebbene lette) perché sono meno frequenti ad accadere, col tempo escono dalla mente; onde
bisogna sempre andar rinnovando le specie.

37A Cioè: Le labbra del sacerdote devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca la istruzione.
38 Cioè: La guida delle anime è l'arte delle arti—S. Gregorius Regulae pastoralis, liber I, 1 (ML. 77, 14).

39 S. Francois de Sales, Avertissements, Epitre dédicatoire, in Oeuvres, 23, pp. 279-280.

40 Praxis omette: quasi, è così Di Simone.


41 (P. F. Giordanini), Istruzione per i novelli confessori, p. 26. Cito l'ediz. di Venezia, Remondini, 1757.

42 J. Gersoniug, Tractatus de oratione et de suo valore, 3, in Opera omnia, t. 3, p. 262.

43 A. Sperelli, Il vescovo, Roma, Corvo, 1656, 3, 14 (vol. 3, p. 71).

44 Cioè: Non sanno distinguere lebbra da lebbra — e questo errore trascinerà insieme confessore e penitente all'eterna rovina.
45 Questo capoverso va ora sostituito così: Quanto ai religiosi e religiose, non si richiede speciale facoltà per ascoltarne le confessioni ed
assolverli: cfr. cann. 967. 2 - 3 e 969. La disciplina vigente esige che si conoscano almeno queste prescrizioni: Per la valida assoluzione dei
peccati si richiede che il ministro, oltre alla potestà di ordine, abbia la facoltà di esercitarla sui fedeli ai quali imparte l'assoluzione. Can. 966.
1.

Coloro che godono della facoltà di ricevere abitualmente le confessioni... possono esercitare la stessa facoltà
ovunque, a meno che l'Ordinario del luogo... non ne abbia fatto divieto. Can. 967. 2.

Per il diritto stesso hanno ovunque la medesima facoltà verso i membri e verso quanti vivono giorno e notte
nella casa dell'istituto o della società, coloro che in forza dell'ufficio o della concessione del Superiore
competente... sono provvisti della facoltà di ricevere le confessioni; essi inoltre se ne avvalgono lecitamente, a
meno che qualche Superiore maggiore per quanto riguarda i propri sudditi... non ne abbia fatto divieto. Can.
967. 3.

Ogni sacerdote, anche se privo della facoltà di ricevere le confessioni, assolve validamente e lecitamente tutti i
penitenti che si trovano in pericolo di morte, da qualsiasi censura e peccato, anche qualora sia presente un
sacerdote approvato. Can. 976.

Si abbia presente anche il can. 977: L'assoluzione del complice nel peccato contro il sesto comandamento del
Decalogo è invalida eccetto che in pericolo di morte; ed anche il can. 982: Colui che confessa d'aver
falsamente denunziato un confessore innocente presso l'autorità ecclesiastica per il delitto di sollecitazione al
peccato contro il sesto comandamento del Decalogo, non sia assolto se non avrà prima ritrattata formalmente
la falsa denuncia e non sia disposto a riparare i danni, se ve ne siano.

Quanto alle censure il confessore abbia presenti le condizioni necessarie per incorrerle (cann. 1321-1323) e
ricordi che il semplice confessore può rimetterle solo in foro interno sacramentale e che non si può rimettere la
censura se non al delinquente che abbia receduto dalla contumacia, a norma del can. 1347. 2, a chi abbia
receduto poi non si può negare la remissione. Can. 1358. 1; e questo vale evidentemente per la remissione di
qualsiasi censura, anche non riservata. Tra queste censure latae sententiae non riservate, non dimentichi il
confessore le scomuniche che incorrono l'apostata, l'eretico e lo scismatico (can. 1364. 1) e chi procura 1'
aborto, ottenendo l'effetto (can. 1398); tra quelle poi latae sententiae riservate alla Sede Apostolica, quelle che
colpiscono chi profana le Specie consacrate, oppure le esporta o le conserva a scopo sacrilego (can. 1367); chi
usa violenza fisica contro il Romano Pontefice (can. 1370. 1); chi assolve il complice nel peccato contro il
sesto comandamento del Decalogo (can. 1378. 1); il Vescovo che senza mandato pontificio consacra qualcuno
Vescovo e chi da esso ricevette la consacrazione (can. 1382) ed il confessore che viola direttamente il sigillo
sacramentale (can. 1388. 1). Speciali facoltà di assolvere dalle censure sono concesse al canonico penitenziere
(can. 508), e, quando il penitente è in pericolo di morte, ad ogni sacerdote (can. 976), come si è detto parlando
dell'assoluzione dai peccati. Fermo restando tutto ciò, ogni confessore può rimettere in foro interno
sacramentale la censura latae sententiae di scomunica o d'interdetto, non dichiarata, se al penitente sia
gravoso rimanere in stato di peccato grave per il tempo necessario a che il Superiore competente provveda. Il
confessore nel concedere la remissione imponga al penitente l'onere di ricorrere entro un mese sotto pena di
ricadere nella censura al Superiore competente o a un sacerdote provvisto della facoltà (come al canonico
penitenziere, a meno che si tratti di censura riservata alla Sede Apostolica) e di attenersi alle sue decisioni;
intanto imponga una congrua penitenza e la riparazione, nella misura in cui ci sia urgenza, dello scandalo e
del danno. Il ricorso poi può essere fatto anche tramite il confessore, senza fare menzione del nominativo del
penitente. Can. 1357. 1-2. Allo stesso onere di ricorrere sono tenuti, dopo essersi ristabiliti in salute, coloro
che a norma del can. 976 furono assolti da una censura inflitta o dichiarata oppure riservata alla Sede
Apostolica. Can. 1357. 3.

46 Paulus V, bulla Coenae seu Pastoralis Romani, 8 apr. 16 in Bullar. Mainardi (G. B.). In un decreto del 14 giugno 1966 Chiesa decentrò
piuttosto la sua disciplina senza cambiare la dottrina morale circa i libri cattivi, che resta sempre la stessa; il decreto infatti diceva che l'Index
librorum prohibitorum non più "ha il vigore di legge ecclesiastica con le censure che sono state attaccate ma che "esso conserva la sua
validità morale per istruire le coscienze dei fedeli, poiché la legge naturale lo richiede, e si guardino da quegli scritti che possono mettere in
pericolo la fede e la moralità". La Chiesa contava sui vescovi per provvedere contro i libri cattivi e "se c'è bisogno, per... condannarli" (AAS
58, p. 445). Un decreto del 19 marzo 1975 (AAS 67, pp. 281 sg.) e Cann. 823-832 del Diritto Canonico del 1983 accentuano la stessa
dottrina morale contro i libri cattivi e la responsabilità dei prelati. Vedere V Aggiunta, C. (A. M.).

47 S. C. EPP. ET REG. 26 nov. 1602. Fontes, 1616.

48 Benedictus X1V, const. Sacramentum poenitentiae, 1 iun 1741; const. Apostolici muneris, 8 febr. 1745; ep. encycl. Inter praeteritos, 3
dec. 1749. Cfr. Pius IX, const. Apostolicae Sedis, 12 oct. 1869, 1. 10. Fontes, 309, 355, 404, 552.

49 Benedictus XIV, const. Ubi primam, 2 iun. 1741; const. Ad eradicandam, 28 sept. 1746. Cfr. Pius IX, Apostolicae Sedis, 12 oct, 1869, n.
1. Fontes, 370, 373, 552. La scomunica non esiste più.

50 Il sacerdote nel porre le domande proceda con prudenza e discrezione, avendo riguardo anche della condizione e dell'età del penitente, e
si astenga dall'indagare sul nome del complice. Can. 979.

51 Poiché tu rifiuti la conoscenza, rifiuterò te come mio sacerdote. Os 4, 6.

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§ IV - Circa l'officio di giudice

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L'officio finalmente che il confessore ha di giudice importa che come il giudice è tenuto prima a sentire le
ragioni delle parti, poi ad esaminare i meriti della causa e finalmente a dar la sentenza, così il confessore per
prima deve informarsi della coscienza del penitente, indi deve scorgere la sua disposizione, e per ultimo dare o
negare l'assoluzione.

E circa il primo obbligo d'informarsi de' peccati del penitente, benché l'obbligo dell'esame principalmente al
penitente s'appartenga, però (checché alcuni dd. si abbiano detto)52 non deve dubitarsi che 'l confessore,
scorgerdo non essersi a sufficienza esaminato il penitente, è obbligato egli ad interrogarlo, prima de' peccati
ch'ha potuto commettere, e poi delle loro specie e numero, come si

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prova dal testo in c. Omnis utriusque sexus, de Poenit. etc., e dal Rituale Romano.53

20. E qui bisogna avvertire più cose.

Per I. che mal fanno quei confessori che licenziano i rozzi, affinch'essi meglio esaminino la loro coscienza. Ciò
il p. Segneri54 lo chiama un errore intollerabile: e con ragione, perché questi tali, per quanto si affatichino,
difficilmente si esaminano abbastanza e così bene come allora

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può esaminarli il confessore; ed inoltre, essendo licenziati, v'è pericolo che, atterriti dalla difficoltà
d'esaminarsi, si ritraggano dal confessarsi e restino in peccato (6, 607, v. Notamus autem 1). Onde il confessore
a questi tali dev'egli stesso fare l'esame, interrogandoli secondo l'ordine de' precetti, specialmente se sono
garzoni, vetturali, cocchieri, servidori, soldati, birri, tavernai e simili persone che sogliono vivere trascurate
della salvezza ed ignoranti delle cose di Dio, perché poco si accostano alle chiese e tanto meno sentono
prediche. E maggior errore sarebbe mandare indietro ad esaminarsi alcuno di tali rozzi che per rossore avesse
lasciati i peccati, benché avessero a replicarsi le confessioni di molti anni, per lo maggior pericolo che allora vi
è, cioè che costui non torni e si perda. Avverta però il confessore a non esser troppo minuto nell'interrogar
questi tali; gl'interroghi solamente de' peccati usuali, secondo la loro condizione e capacità (Ibid. 3). E quando il
penitente, benché rozzo, par che già bastantemente sia istruito e diligente nel confessarsi i peccati colle loro
circostanze, secondo il suo stato e secondo la sua capacità (poiché d'altro modo è obbligato ad esaminarsi uno
ch'è colto, d'altro chi è rozzo), allora il confessore non è tenuto ad interrogarlo d'altro (Ibid. 2).

Per II. notisi esser meglio che 'l confessore esamini singolarmente i peccati secondo li riferisce il penitente che
riserbarsi in fine d'esaminarli tutt'insieme; perché in fine o facilmente il confessore si dimenticherà delle
materie intese, o dovrà obbligare il penitente con gran peso a ripetere le cose già confessate. (Ibid. 4).

Per III. errano quei confessori che vogliono far giudizio della qualità del peccato, che sia grave o leggiero, con

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dimandare a questi penitenti rozzi se lo tenevano per mortale o veniale; questi tali rispondono a caso e ciò che
prima lor viene in bocca; e ciò si vede coll'esperienza (come ho veduto io milioni di volte) che, se poco
appresso il confessore replica loro la dimanda, dicono tutto il contrario.

Per IV. circa il numero de' peccati in coloro che sono abituati, quando non può aversi il numero certo, cerchi il
confessore di pigliare lo stato del penitente, cioè il modo di vivere, l'applicazione avuta ad altri affari, il tempo
della conversazione col complice, il luogo dove per lo più ha fatto dimora ed indi faccia l'interrogazione del
numero, dimandando al penitente quanto più o meno ha peccato nel giorno o nella settimana o nel mese;
mettendogli avanti diversi numeri, per esempio, tre o quattro volte, o pure otto o dieci, per vedere a qual
numero il penitente s'appiglia; e se il penitente s'appiglia al numero maggiore, è bene di nuovo interrogarlo d'un
maggior numero. Ma in ciò avverta il confessore a non far giudizio certo: noti la frequenza in generale, ed in
confuso faccia il giudizio, prendendo i peccati per quanti sono avanti a Dio. Dicono alcuni dd. che ne' peccati
interni degli abituati, come sono d'odio, compiacenze sensuali e desideri basta ordinariamente domandare il
tempo in cui ha durato la mal'abitudine: ma ciò non appieno mi soddisfa, perché uno sarà più applicato d'un
altro, o pure sarà in luogo dove avrà meno occasioni di far mali pensieri; qualcuno sarà più preso dalla passione
d'un altro; e perciò bisogna far queste dimande in generale dell'applicazione, del luogo, della passione etc., per
far giudizio almeno della maggiore o minore frequenza di questi atti interni. Del resto,

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dopo due o tre interrogazioni, non deve angustiarsi il confessore, se gli pare che 'l giudizio che fa è molto
confuso; poiché dalle coscienze imbrogliate e confuse è moralmente impossibile lo sperarne maggior chiarezza.

Per V. bisogna avvertire che, sebbene le confessioni generali sono utilissime, però non deve il confessore esser
troppo rigoroso a far ripetere le confessioni già fatte; poiché55 la presunzione sta per la loro validità, sempreché
la loro nullità non apparisce certa (6, 505). Onde dice il p. Segneri56 non esservi obbligo di ripetere le
confessioni, se non in caso di chiara necessità ed in cui sia manifesto l'errore. Né le ricadute son certo segno
d'essere state nulle le confessioni fatte, specialmente se la persona si è trattenuta qualche tempo a non ricadere,
o pure se prima di ricadere ha fatta qualche notabile57 resistenza. Altrimenti però deve giudicarsi se 'l penitente
per lo più è ricaduto subito, come fra due o tre giorni dopo la confessione fatta e senza alcuna resistenza, perché
allora pare che sia moralmente certa la mancanza del pentimento e del proposito.

52 T. Lohner, Instructio practica de confessionibus, Venetiis 1, 3, 2, Quaer. 1 (Opera all'Indice).

53 Tit. 3, c. I, 12 e 16. Quanto alla integrità della confessione vedere cann. 988-989 e cfr. can. 960. "Il concilio di Trento dichiarò con
magistero solenne che, per avere la piena e perfetta remissione dei peccati, si richiedono nel penitente tre atti come altrettante parti del
sacramento, cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione: dichiarò, altresì, che l'assoluzione data dal sacerdote è un atto di natura
giudiziaria e che, per diritto divino, è necessario confessare al sacerdote tutti e singoli i peccati mortali nonché le circostanze che modificano
la specie dei peccati, dei quali uno si ricordi dopo un accurato esame di coscienza. (Cf. Sess. XIV, Canones de sacramento paenitentiae 4, 6-
9: D-S 1704, 1706-1709.)... Dev'essere fermamente ritenuta e fedelmente applicata nella prassi la dottrina del concilio di Trento. È da
riprovare, pertanto, la consuetudine che di recente è apparsa qua e là, per la quale si pretende di poter soddisfare al precetto di confessare
sacramentalmente i peccati mortali, al fine di ottenere l'assoluzione, con la sola confessione generica o—come dicono—celebrata in forma
comunitaria. Questo urgente dovere è richiesto non solo dal precetto divino, come è stato dichiarato dal concilio di Trento, ma anche dal
grandissimo bene delle anime, che, per secolare esperienza, deriva dalla confessione individuale, quando è ben fatta e bene amministrata. La
confessione individuale e completa con l'assoluzione resta l'unico mezzo ordinario, grazie al quale i fedeli si riconciliano con Dio e con la
Chiesa, a meno che un'impossibilità fisica o morale li scusi da una tale confessione". S. C. pro Doctrina Fidei, Sacramentum paenitentiae, 16
giugno 1972 (AAS 64, 510-514; Ench. Vat., 4, 1653 e 1655). (A. M.).

54 Il confessore istruito, 2, in Opere, Torino, Società Tipografico-Libraria, 1833, XI, p. 239.


55 Praxis omette: poiché... certa.

56 Ibid. p. 236.

57 Praxis non traduce quest'aggettivo.

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CAPITOLO II - DELLE DOMANDE DA FARSI A' PENITENTI ROZZI

21. Non aspetti il mio lettore ch'io parli qui di tutte le dottrine che si appartengono a' precetti di Dio e della
Chiesa, circa le cose in essi permesse o proibite; di queste bastantemente ne ho parlato nel Libro. Qui solamente
noterò le interrogazioni che ordinariamente deve fare il confessore a' penitenti rozzi ch'egli giudica non essersi
abbastanza esaminati; ed alcune altre poche cose che specialmente debbono notarsi per la pratica, diversamente
da ciò che speculativamente si stima.

22. Circa il I precetto. Dimandi per 1. al suo penitente se sa i misteri principali della fede, essendo che se non sa
i quattro misteri principali, come sono, che vi sia Dio, che sia rimuneratore del bene e del male, il mistero della
SS. Trinità e 'l mistero dell'Incarnazione e morte di Gesù Cristo, non è capace d'assoluzione, secondo la
proposizione 64 condannata da Innocenzo XI.1 Di più, se sa il Credo, i precetti, i sagramenti ecc., almeno in
sostanza.

Ma qui ben avverte il celebre e dotto missionario, il p. Leonardo da Porto Maurizio, nel suo Discorso mistico e
morale (n. 25)2 esser obbligo del confessore l'istruire

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i penitenti rozzi ne' misteri della fede, almeno ne' suddetti quattro principali; onde soggiunge così: Non è buon
consiglio mandare a dietro simili ignoranti, affinché da altri sieno istruiti, perché non se ne cava altro frutto se
non che se ne rimangono nelle tenebre dell'ignoranza sino alla morte; e perciò l'espediente più opportuno si è
insegnar loro brevemente… i suddetti misteri principali, con far loro fare un atto di fede, di speranza, d'amor
di Dio e di contrizione, con obbligo che vadano poi da' loro curati per essere istruiti più compiutamente sì di
questi come degli altri misteri necessari a sapersi de necessitate praecepti.3 E per le persone civili trascurate
che hanno a rossore essere interrogate sopra tali cose, dice il medesimo scrittore esser ben che 'l confessore lor
dica così: Orsù facciamo insieme gli atti cristiani. E facendo l'atto di fede soggiunga: Dio mio, perché voi siete
verità infallibile, e l'avete rivelato alla santa Chiesa, credo quanto la s. Chiesa m'insegna a credere; credo
specialmente che siete tre Persone, ma un solo Dio; credo che 'l Figliuolo si fece uomo, morì per noi in croce,
risorse e salì al cielo, donde ha da venire a giudicare tutti, per dare il paradiso a' buoni e l'inferno a' cattivi in
eterno4. Per 2. dimandi se ha fatte o insegnate cose di superstizione, e se in quelle si è servito d'altre persone,
facendole cooperare al suo peccato; nel che bisogna spiegare a' rozzi che le superstizioni sempre sono illecite,
benché si facciano per carità e benché in caso di necessità. Quali

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azioni poi sieno o no superstiziose, vedi nel Libro (3, ex n. 14).

Per 3. se mai per lo passato ha lasciato qualche peccato per vergogna; e questa dimanda si procuri di farla per lo
più a' rozzi ed alle donne che poco frequentano i sagramenti, dicendo loro: Avresti qualche scrupolo della vita
passata? fatti mo una buona confessione, di' liberamente ogni cosa, non aver paura, levati tutti gli scrupoli.
Con questa domanda diceva un buon operaio aver salvate molte anime dalle confessioni sacrileghe.

Se poi trova già tali sacrilegi fatti, dimandi (per prendere il loro numero) quante volte si è confessato e
comunicato fra questo tempo in cui ha lasciat'i peccati: e se ogni volta che si confessava o comunicava,
avvertiva al sacrilegio, poiché ad alcuni avviene di fare qualche confessione sacrilega specialmente in tempo di
fanciullezza, e poi scordarsene; questi non sono obbligati a ripeter le confessioni fatte in tempo della
dimenticanza. Di più dimandi se sapeva che con una tal confessione o comunione sacrilega trasgrediva anche il
precetto pasquale. Questa dimanda de' sacrilegi è bene di farla al principio della confessione, affinché, se si fa
dopo e si trova il sacrilegio fatto, non abbia di nuovo a rifarsi la confessione con più esattezza della vita passata.
Ed a coloro che si trovano aver lasciat'i peccati bisogna far conoscere qual gravissimo eccesso è questo di porsi
il Sangue di Gesù Cristo sotto i piedi.

Per 4. se ha soddisfatta la penitenza, domandando in ciò se l'ha dimenticata, o pure ha voluto lasciarla o
differirla per adempirla appresso o per farsela commutare, e se in tal dilazione stimava di peccare.

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Per 5. circa gli scandali, se ha cercato d'indurre altri a peccare, se in ciò si è servito d'altre persone e se ha
cooperato al peccato d'altri. A' tavernai, se han dato vino a chi era solito d'ubbriacarsi (2, 69). A donne, se con
parole poco modeste o con burle, risa, occhiate fisse, gonna alzata o petto scoperto han provocati gli uomini a
mali pensieri; se han ricevuto regali dati da costoro a mal fine (2, 76).

23. Circa questa stessa materia dello scandalo può anche domandare se ha cooperato al peccato d'alcuno. Ma in
ciò deve il confessore esser bene istruito quando la cooperazione sia formale e quando sia materiale.

La formale è quando si coopera attualmente al peccato, come avviene nella fornicazione, o pure si coopera alla
mala volontà d'un altro, come se voi guardaste le spalle all'assassino o ladro; mentre allora cooperereste
propriamente alla mala intenzione di colui, con dargli animo ad eseguire il suo peccato: questa cooperazione è
formale ed è sempre illecita, essendo intrinsecamente cattiva.

La materiale poi è quando si coopera ad un'azione per sé indifferente d'un altro, il quale se ne serve a mal fine,
come sarebbe dare il vino a chi vuole ubbriacarsi; e questa può esser lecita quando v'è causa giusta e
proporzionata alla cooperazione. Quest'è un punto di molta importanza, che mi è costato molta fatica a
decifrarlo; si osservino le ragioni e le risoluzioni registrate nel Libro (2 63, v. Ad distinguendum, et 3, 571).

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24. Circa il II precetto il confessore interroghi de' spergiuri, de' voti trasgrediti e delle bestemmie.

Intorno a' spergiuri domandi al penitente se ha giurato il falso e se in giudizio o fuori; perché, giurando il falso
in giudizio, oltre il peccato contro la religione, ha offesa anche la giustizia, per cui alle volte sarà obbligato o a
disdirsi o pure a restituire il danno fatto. Per 2. dimandi come ha giurato, se per Dio, per li santi o per l'anima;
poiché se ha giurato per la coscienza o per la fede (senza aggiungervi fede santa o fede di Cristo),
probabilmente può scusarsi da spergiuro e da peccato grave (3, 135). S'avverta qui che molti rozzi non
apprendono per peccato grave lo spergiuro anche per li santi, quando non vi è danno. E per lo più quando
dicono a' figli, a' garzoni: Per Dio, per Cristo, ti voglio uccidere un'altra volta che lo fai, non intendono di fare
spergiuro, sebbene veramente non intendano poi d'eseguir la minaccia: almeno non l'avvertono.

25. Intorno a' voti fatti, primieramente il confessore esamini bene il penitente, se quello che ha fatto è stato vero
voto; perché la gente semplice non di rado confonde i desideri, o propositi co' voti. A distinguere ciò poco
giova l'interrogarlo, come fanno alcuni, se mai ha avuta intenzione di obbligarsi al voto sotto peccato mortale,
poiché i rozzi, essendo così interrogati, facilmente dicono di no; meglio sarà dimandargli se, quando fece il
voto, pensava che avrebbe peccato gravemente o no, se poi non l'avesse soddisfatto. E così meglio s'intenderà,
se si è obbligato al voto con obbligo grave o no. Appurato poi che avrà il confessore quello essere stato vero
voto, dimandi al

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penitente se nel differirlo ha pensato di peccare mortalmente, o pure stimava essere scusato perché avesse il
proposito di adempirlo appresso.

26. Qui giova il notare qualche cosa circa la commutazione o dispensa de' voti.5

Già si sa che cinque sono voti riservati, cioè di religione, di castità perpetua e de' tre pellegrinaggi, a Roma, a S.
Giacomo di Galizia ed a Gerusalemme: questi non possono essere dispensati se non dal Papa, purché siano voti
assoluti, non già penali o condizionali (3, 261). Gli altri voti poi possono essere commutati o dispensati da'
vescovi6, che possono ancora delegarne la facoltà agli altri (3, 256), o pure da' confessori regolari, (3, 257, v
Immo), o vero dagli altri confessori per facoltà avuta nel giubeleo o per altro privilegio.

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Parlando della commutazione, il confessore non sia scrupoloso intorno alla causa, perché basta ogni ragionevole
motivo: basta che col commutare il voto vi sia minor pericolo di trasgressione (3, 245); né intorno al
determinare la materia eguale da surrogarsi, poiché non si ricerca un'egualità a peso di bilancia, ma basta che
sia morale. Domandi al penitente quali opere suol fare fuori delle precettate, o a quali più inclina, ed in quelle
commuti il voto. La commutazione poi più sicura d'ogni sorta di voto è nella frequenza de' sagramenti (3, 243).
Avverta che i voti perpetui ben possono commutarsi in temporali, purché vi sia la dovuta proporzione; e così
anche i reali ben possono commutarsi in personali, e per contrario i personali in reali (3, 247, v. Notandum).

Parlando poi della dispensa, a questa si richiede causa più grave, come un gran pericolo della trasgressione, una
gran difficoltà nell'esecuzione, la leggerezza o deliberazione imperfetta con cui s'è fatto il voto, etc. (3, 252 -
253). Sempre però è bene aggiungere qualche commutazione a simili dispense.

Queste dispense poi e commutazioni possono farsi anche fuori della confessione, purché la facoltà non sia data
con tal condizione, come nel giubileo (3, 257, v. Immo), ma è consiglio farle in confessione.

27. Intorno poi le bestemmie, dimandi per 1. se ha bestemmiati i santi e come ha detto. Se mannaggia, atta o
potta7; poiché il dir mannaggia è certo peccato mortale;

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atta in sé è veniale, perché tal parola non contiene ingiuria, ma alcuni rozzi v'hanno lo stesso orrore che quando
dicono mannaggia, ed allora bisogna prenderla per bestemmia grave, ma spiegare al penitente, che tal detto non
è vera bestemmia. Il dire potta in sé sarebbe peccato grave secondo l'idioma spagnuolo, ma nella nostra lingua
non è bestemmia, non significando altro tal parola che una interiezione di sdegno (3, 124, v. Neque iurare).
Però è di bene pigliarne il numero, poiché i rozzi v'hanno un certo orrore più notabile. Ma essendo equivoca tal
parola e potendosi prendere nel miglior senso, ben può dirsi al penitente ch'essa secondo la nostra lingua non è
bestemmia, giacché i nostri paesani non intendono certamente proferirla nel peggior senso dell'idioma
spagnuolo: ma che si guardi dallo scandalo se mai vi fosse.

28. Dimandi per 2. se ha bestemmiato i giorni santi, come Pasqua, Natale, l'Epifania, Sabato santo ecc. il che
non può scusarsi da peccato mortale, benché molti rozzi non l'apprendono chiaramente per tale: ma perché è
dubbio se l'apprendono o no, se ne prenda il numero, e tali bestemmie si piglino come stanno avanti a Dio.

Per 3. dimandi se dopo aver proferite le suddette bestemmie di Dio, de' santi o di giorni santi, ha soggiunto
immediatamente: Se l'ho fatt'io, o pure: Fuori di Dio; poiché quei rozzi che dicono così unico actu, ben dice

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l'autore dell'Istruzione per li confessori di terre e villaggi8, che almeno per ignoranza sono scusati dal peccato
grave, mentre allora non intendono di bestemmiare. E benché nel Libro abbiam detto9, che tal ditterio sia vera
bestemmia, perché alla bestemmia non vi si ricerca l'intenzione di bestemmiare, ma basta che la proposizione
sia da sé ingiuriosa a Dio o a' santi, però facendo miglior riflessione, parmi probabile con altri che ciò non sia
bestemmia, giacché il vero senso d'ogni proposizione si ha dall'ultime sue parole: onde ben può dirsi che la
suddetta proposizione, presa intieramente, non importi vera ingiuria. Ma altrimenti deve dirsi se colui, dopo
aver veramente bestemmiato, dicesse come per rimediare al mal fatto: Se l'ho fatto io, etc.

29. Per 4. quando questi rozzi dicono: Mannaggia la fede tua, non si prende per bestemmia, perché non
intendono la fede cristiana; e per fede anche può intendersi la fede umana; altrimenti poi deve giudicarsi se
bestemmiassero la fede santa o pure di Cristo.
Così anche non è peccato grave il maledire i morti, se non si dicesse o pure s'intendessero precisamente (da chi
li proferisce) i morti di Cristo o l'anime del purgatorio o l'anime de' morti. La ragione in breve si è, perché una
tal maledizione non contiene, né in sé né per l'intenzione

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di coloro che la proferiscono, ingiuria all'anime del purgatorio, come abbiam dimostrato nel Libro, (3, 130)10;
poiché in verità questi prescindono dal considerare i corpi o l'anime, e non intendono allora i morti, ma i vivi, a'
quali dirigono tali maledizioni a modo d'ingiurie. Ho trovato già che tre autori, i quali hanno scritto su tal punto,
han detto lo stesso, cioè il p. Mazzotta nella sua Teologia morale11, l'Autore dell'opera contro la bestemmia12 e
l'Autore dell'Istruzione per li confessori di terre e villaggi13, la quale con gran lode è stata da per tutto approvata
e specialmente dall'illustrissimo e dottissimo vescovo monsignor D. Giulio Torni14. Di più io per mia sicurezza
ne scrissi in Napoli a molti uomini dotti, e specialmente alle tre congregazioni de' missionari15, dov'è il fiore del
clero napoletano; e tutte conformi furono le risposte ch'io dopo registrai ad verbum in un breve foglio che diedi
alle stampe16. Anzi, avendo poi un certo Anonimo17 dato fuori un foglio contrario, ho saputo con

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certezza che l'uno e l'altro furono dal Nunzio18 mandati al N. SS. P. regnante Benedetto XIV, il quale avendo
data l'incombenza di decifrare il punto, se la maledizione de' morti si scusava da peccato grave, al R. P. D.
Tommaso Sergio, Pio Operario, consultore del S. Officio di Roma (al presente defunto), il medesimo fu del mio
sentimento, ch'essa non fosse vera bestemmia; e mi si assicura da un altro p. Pio Operario che anche il Papa,
avendo osservato il parere del p. Sergio, dimostrò esser dello stesso sentimento.

30. Per 5. si dubita se il maledire il mondo sia vera bestemmia. L'autore della suddetta Istruzione19 l'ha negato;
ma io ho dimostrato il contrario (3, 129, v. Sed hic); tuttavia ho detto che se mai per lo mondo s'intendesse il
mondo contrario a Dio, certamente non sarebbe peccato. Ma perché verisimilmente i rozzi non l'intendono così,
ma piuttosto intendono il mondo creato da Dio, e se ne accusano con grande orrore, perciò ho detto e dico che
più probabilmente deve prendersi per colpa grave.

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Per 6. il maledire le creature irragionevoli, come il vento, la pioggia, gli anni, i giorni, il fuoco, ecc., non è
bestemmia, se pure non si riferissero tali creature espressamente a Dio, come sarebbe il dire: Mannaggia il
fuoco di Dio, il pane di Dio, ecc. Il maledire poi il paradiso o l'anima non deve dubitarsi che siano gravi
bestemmie (3, 129).

Per 7. il maledire il demonio non è peccato mortale, perché suol maledirsi come autore del male e nemico di
Dio, e perciò in sé neppur è veniale, prescindendo dall'atto d'impazienza che facilmente vi è (Ibid. v.
Maledicere). Il dire poi: Diavolo santo o pure onnipotente, è certa bestemmia e gravissima, anzi ereticale se si
dicesse con error d'intelletto; il che per altro ordinariamente parlando non si presume. Ma non già è bestemmia
il chiamare il demonio potente o sapiente, perché quegli di sua natura è tale, purché ciò non si dicesse per dargli
onore, né pure dire: Santo Dia… o santo Diana (3, 124, v. Insuper).

Per 8. poi, s'interroghi il penitente quante volte e per quale occasione ha bestemmiato, se nel gioco o nella
taverna o per la caccia etc., e da quanto tempo tiene questo vizio: per vedere s'è recidivo, e se vi è occasione
prossima che 'l penitente sia obbligato a togliere.
31. Per 9. s'interroghi se ha bestemmiato avanti a' figli o garzoni; poiché allora, oltre il peccato della
bestemmia, avrà peccato anche di scandalo. Per ultimo aggiungo qui con un dotto Autore20 non21 essere scusati
i

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bestemmiatori da peccato grave a cagion che la forza della abitudine o di qualche veemente passione d'ira non
abbia fatto avvertire e conoscere quel che dicevano; perché questi mali abituati, benché abbiano una cognizione
meno vivace degli altri che non sono usati a bestemmiare, tuttavia sempre hanno la cognizione attuale
sufficiente a far che l'atto sia deliberato e mortale. Essendo ch'essi fan poco conto del peccato, perciò nello
spirito loro non si fa quella sensibile impressione che sentirebbe un altro di coscienza men guasta; e di qua
nasce che nella loro memoria non rimane vestigio dell'attuale cognizione che ben'ebbero del peccato, o pure il
vestigio è sì leggiero che, interrogati, facilmente rispondono che non vi hanno avvertito; ma un confessore
accorto non deve lor credere, e neppure a questi bisogna dimandare se vi hanno avvertito o no; bisogna pigliarle
tutte per vere bestemmie attuali, sempreché costoro le sapeano per tali.

32. Circa il III precetto. In quanto all'obbligo di sentire la Messa nelle feste, s'interroghi il penitente se qualche
volta l'ha perduta, e se ha avvertito che la perdeva, o pure ne ha dubitato in tempo che potea sentirla. Poiché

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molte volte il penitente, riducendosi al tardi, benché a caso avrà trovata poi la Messa e l'avrà intesa, tuttavia già
si sarà posto senza giusta causa in pericolo di perderla, e di ciò il rozzo non se ne accuserà. Di più, se il
penitente si accusa che ha perduta la Messa, dimandi per qual cagione l'ha perduta; se per necessità, come
accade a' garzoni che non possono lasciar il gregge, o alle madri che non possono lasciare i bambini o a'
congiunti che non possono lasciar gl'infermi o a' viandanti che non possono lasciar la compagnia senza un
grande incomodo, come di essere spogliati da' ladri o di non sapere la strada da sé soli, etc., (3, 328), o pure a
qualche persona che non avesse vesti decenti da comparire in chiesa (3, 330).

33. In quanto poi all'opere servili, vietate nella festa, s'interroghi se ha faticato in giorno di festa. E se quegli
risponde di sì, gli si domandi per 1. per quanto tempo ha faticato e qual sorta di fatica ha fatta. Poiché, secondo
la più comune, i dd. (3, 305), scusano da peccato grave chi fatica per sole due ore; anzi altri ammettono qualche
tempo di più, almeno se la fatica è per sé leggiera, o vi è qualche causa più notabile. Se poi il penitente si
confessa che alle volte ha faticato più, alle volte meno, si dimandi quante volte ha faticato, credendo di faticare
in materia grave. Ma bisogna spiegargli che il faticare lungo tempo, anche occultamente e per divertimento e
senza paga, per sé22 è peccato. Per 2. per quale cagione ha faticato: se per la consuetudine comune del paese, se
per necessità.

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È vero che la povertà può scusare, come per lo più sono scusati i poveri, che, se non faticano, non possono
alimentare se stessi o la loro famiglia (3, 297); come anche quei che nella festa rappezzano le vesti, non
potendo nei giorni di lavoro (Ibid.); ma bisogna disingannare quei rozzi che stimano erroneamente poter
faticare la festa quando si fatica per la casa propria o senza paga. Molti dd. scusano coloro che faticano per
evitare l'ozio, nel quale sarebbero in probabile pericolo di peccare; ma questa sentenza noi l'abbiamo ammessa
solamente nel caso rarissimo in cui la persona fosse allora infestata da una tentazione così molesta che non
potesse vincerla se non faticando.

Alcuni servi o garzoni sono alle volte costretti da' padroni a faticar la festa frequentemente ed anche a lasciar la
Messa; or questi sono obbligati a lasciar tali padroni, purché non fossero tenuti a servire per istrumento23 o
purché non temessero giustamente che, ripugnando, avessero a patirne grave incomodo. E parimente per questa
sola ragione possono essere scusati i figli e le mogli costrette a faticar la festa, da' padri o da' mariti (3, 296)24.
Si domandi ancora se han mangiato cibi proibiti nelle vigilie, nella quadragesima e ne' venerdì e sabati25. 34.
Circa il IV precetto. Se si confessano i figli, si dimandi loro per 1. se han portato odio a' genitori; perché

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allora han peccato doppiamente, contro la carità e contro la pietà.

Per 2. se loro han disubbidito in materia grave, contro il loro espresso precetto, ed in cosa giusta, come sarebbe
di non uscir di notte, di non giocare a' giuochi perniciosi, di non conversare con mali compagni o pure con
persone di diverso sesso e simili. Ho detto in cosa giusta; perché circa poi l'elezione dello stato non sono
obbligati i figli di ubbidire a' genitori; anzi peccano gravemente questi se, senza ragionevol causa, costringono i
figli ad accasarsi o a farsi preti o religiosi, o pure li ritraggono con modi ingiusti dallo stato che vogliono
eleggere (3, 335, v. Praeterea, et 4, 77).

Per 3. si domandi se han perduto il rispetto a' genitori con fatti o con imprecazioni o con ingiurie gravi, in loro
presenza, come sarebbe col chiamarli ubbriachi, bestie, scellerati, fattucchieri, ladri, pazzi, o pure col
contraffarli o con dire altre parole con cui gravemente li avessero contristati. Il chiamarli poi vecchi, ignoranti,
storditi e simili non si deve condannare assolutamente di peccato mortale, se non quando quelli gravemente se
ne offendessero.

Si noti che i figli, avendo perduto il rispetto a' genitori, sono poi obbligati a restituir loro l'onore dovuto con
cercar loro perdono, ed anche in presenza d'altre persone avanti a cui i figli han peccato. Alcuni confessori poco
accorti impongono in tal caso per penitenza a' figli che, giunti alla casa, bacino i piedi a' lor genitori, e così li
assolvono; ma quelli poi non ne fanno niente e fanno nuovo peccato. Meglio è procurare che prima
dell'assoluzione cerchino il perdono, ma senza imporre loro che

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bacino i piedi o la mano, perché quelli figli che non sono usati a ciò fare difficilissimamente ciò l'adempiscono.
Se poi non si potesse comodamente esigere quest'atto di cercar perdono prima dell'assoluzione, non si imponga
per obbligo grave, ma piuttosto loro si esorti come consiglio, mentre si presume certamente, almeno per lo più,
che i genitori rimettano a' loro figli quest'obbligo, per non vederli di nuovo in disgrazia con Dio.

35. Se si confessano all'incontro i genitori, si dimandi loro per 1. se mancano nell'educazione de' figli,
trascurando che sappiano la dottrina cristiana, che sentano la Messa, che frequentino i sagramenti,26 che
fuggano i mali compagni o le persone di diverso sesso. Di più si dimandi se han dato loro qualche scandalo con
bestemmiare avanti di essi, etc.; se non l'han corretti ne' loro peccati, specialmente ne' furti che han fatti: se han
permesso che gli sposi delle loro figlie entrassero in casa e singolarmente se han tenuti i figli nel letto o a
dormire insieme maschi e femmine. Di più, se han mancato di dar loro gli alimenti necessari; se han forzati i
figli con modi ingiusti a casarsi o farsi religiosi o sacerdoti contro loro voglia, del che i padri non se ne fanno
scrupolo, e da ciò ne viene la ruina de' figli e della Chiesa.

Dimandi ancora a' padroni se han corretti i loro garzoni che bestemmiavano o non adempivano il precetto
pasquale o non sentivano la Messa o parlavano disonesto, specialmente in tempo di vendemmia; poiché i
padroni

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son tenuti ad impedire, potendo, gli scandali che allora si commettono.

Si dimandi ancora a' mariti se hanno alimentata la famiglia; alle mogli se han provocati i mariti a bestemmiare,
e se han renduto il debito coniugale; per lo più si dimandi ciò alle mogli, perché molte si dannano per questo
capo, e son cagione che si dannino anche i mariti, i quali, vedendosi negato il debito, fanno mille scelleraggini;
però in dimandare ciò si usino i termini più modesti per esempio: Sei ubbidiente a tuo marito, anche nel
matrimonio? o pure: Hai alcuno scrupolo circa il matrimonio?27

Ma questa dimanda si lasci con quelle mogli che fanno vita spirituale.

36. Circa il V precetto. Si dimandi per 1. se si è compiaciuto del male del prossimo o gli ha desiderato male con
mandargli imprecazione. Ed in ciò si noti che se uno desidera al suo nemico diversi mali, come di morte,
d'infamia, di povertà, è obbligato a spiegarli tutti, e quelli sono diversi peccati in numero distinti, quando
gliel'ha desiderati di fare efficacemente, o pure se ha desiderato specificamente in particolare che gli
succedessero28.

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Altrimenti poi, come dicono probabilmente molti dd. (5, 50, v. Quaeritur 5) se glieli ha desiderati sotto genere
di male, cioè come mezzi della di lui ruina.

E qui è la confusione de' poveri confessori, in far giudizio se le imprecazioni (che sogliono essere usuali in
questi rozzi) siano peccati mortali o veniali. In ciò bisogna dimandare in primo luogo al penitente se ha
desiderato deliberatamente in quell'atto di vederle. Ma ciò non basta a far certo giudizio; onde bisogna in
secondo luogo dimandare se l'ha mandate ad estranei o ai congiunti perché ai congiunti (specialmente a' figli,
coniugi o genitori) di rado vi è l'animo pravo. In terzo luogo bisogna dimandar la ragione per cui l'ha mandate,
giacché, essendovi cagione grave ed una grand'ira, è facile allora che vi sia anche il pravo desiderio. Del resto,
non basta a scusare queste imprecazioni il dire che solo in quell'atto si voleano vedere, ma non appresso, perché
ciò basta già per essersi commessa in quell'atto la colpa grave; onde il confessore allora ne prenda il numero, e
le giudichi almeno come sono davanti a Dio; e chi trova recidivo in tal vizio non l'assolva, se non vede prima
l'emenda o segno straordinario di dolore.

37. Per 2. s'interroghi se ha fatte o dette ingiurie gravi al prossimo, e se innanzi ad altri, perché allora è

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obbligato avanti alle stesse persone a restituirgli l'onore con cercargli perdono, o con altri segni di stima, purché
non si presumesse prudentemente la remissione dell'ingiuriato (3, 984), o ch'egli ricusasse quella pubblica
soddisfazione, per non rinnovarsi presso di sé il rossore e presso degli altri la memoria dell'ingiuria ricevuta; o
pure se non si temesse che con quell'atto di soddisfazione si svegliasse di nuovo l'odio (3, 988). Se poi l'ingiuria
è stata in segreto, benanche in segreto è obbligato a cercar perdono, secondo la vera sentenza (3, 985).

Avvertasi qui però che l'ingiurie che si dicono scambievolmente tra loro questi rozzi, benché in sé sarebbero
gravi, tuttavia non sono sempre gravi rispetto loro (come quando si chiamano ladri, streghe, meretrici), perché
essi stessi non ne fan molto caso, né chi sente le crede; eccettoché se si nominassero i fatti e le persone complici
in particolare.

Si dimandi per 3. se avesse fomentate discordie con riferire quel che ha inteso da una parte all'altra.

38. Per ultimo dimandi se ha avuta qualche inimicizia ed ha negati al nemico i segni comuni d'amicizia.
E qui è bene far menzione di quel dubbio che si fa fra dd., se mai l'offeso è obbligato a far la remissione al suo
offensore. Dicono i Salmaticesi29 che l'offeso è bene obbligato a rimettere l'ingiuria, ma non già la pubblica
pena, perché questa ridonda in bene della repubblica. Speculativamente parlando, la sentenza è vera; ma
parlando in pratica, io non mai mi son fidato d'assolvere

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alcun di costoro che dicevano di perdonar l'inimico, ma voler che la giustizia avesse il suo luogo, affinché
fossero castigati i malfattori: poiché non ho potuto mai persuadermi che questi tali, che vengono alle volte pieni
di peccati, abbiano poi quest'affetto al ben comune ed alla giustizia (non già per gli altri deliquenti, ma solo pel
loro offensore) che sia depurato da ogni passione di vendetta. Onde in costoro è facilissimo, come dicono molti
altri dd. (2, 29, v. Licet), che 'l loro amore al ben comune sia un bel pretesto per colorire il desiderio della
propria vendetta. Tuttavia stimo che ben si possa assolvere l'offeso, primieramente, se volesse già fare la
remissione, ma giustamente pretendesse d'esser prima soddisfatto dell'interesse patito, purché l'offensore non
fosse così povero che in niun conto potesse soddisfare. Per secondo, se facesse la remissione colla condizione
che l'offensore stesse fuori del paese, o perché tiene fratelli e figli grandi risentiti, o perché l'offensore fosse
talmente discolo e proclive alle risse ch'egli giustamente temesse per la sua debolezza di non poter soffrire le
sue insolenze.30

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39. Circa VI praeceptum.31 I. Interrogentur de cogitationibus: num desideraverint aut morose delectati fuerint
de rebus inhonestis, et an plene ad eas adverterint et consenserint. Deinde, num concupierint puellas aut viduas
aut nuptas; et quid mali cum illis se acturos intenderint. In quo advertendum quod rustici, communiter
loquendo, existimant maius peccatum stuprum quam simplicem fornicationem; e contrario nesciunt malitiam
adulterii; ideo cum iis qui huius vitii consuetudinem habent non expedit eos monere de adulterii malitia cum
praevidetur monitio parum profutura31A. De his autem cogitationibus quibus assentiti sunt sumendus est
numerus

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certus, si haberi potest: sin autem, exquiratur quoties in die vel hebdomada vel in mense cogitationibus
consenserint. Sed si nec etiam id explicare possint, interrogentur num concupierint singulas quae sibi
occurrerunt vel in mentem venerunt; aut num habitualiter turpiter de aliqua in particulari cogitarint, numquam
pravis consensibus resistendo; et an semper illam concupierint, vel an tantum quando ipsam aspiciebant.

Demum interrogentur etiam num media apposuerint ad malas cogitationes exsequendas, nam (ut diximus in
Libro, 5, 42) tunc illa media, etsi indifferentia, a malitia interna informantur et ideo explicanda ut peccata
externa sive opera incoepta.32

40. II. Circa verba obscoena, interrogentur 1. coram quibus et quoties ita locuti sint, ratione scandali; an coram
viris aut feminis, coniugatis aut non, pueris vel adultis. Facilius enim scandalizantur puellae et pueri quam
adulti, praesertim qui in hoc vitio sunt habituati.

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2. Quae dixerint, verba an v. gr. nominarint pudenda sexus a suo diversi; hoc enim difficulter excusatur a
mortali.
3. Num verba protulerint ex ira vel ioco; nam ex ira difficilius aderit complacentia et scandalum32A. (Caveat
confessarius ab absolvendis huiusmodi recidivis in colloquiis turpibus, quamvis dicant ea protulisse ex ioco,
nisi prius emendentur vel signum extraordinarium doloris afferant).

4. Num iactaverint se de aliquo peccato: tunc enim tria peccata frequenter concurrunt, scilicet ingens scandalum
audientium, iactantia de malo commisso et complacentia de peccato narrato: ideoque interrogandi sunt de quo
peccato in specie se iactarint (5, 26).

Interrogentur etiam an delectati sint audiendo alios inhoneste loquentes, et an tunc adverterint ad correctionis
praeceptum, putantes eam profuturam.33

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41. III. Circa opera. Interrogentur cum qua rem habuerint; num alias cum eadem peccarint; ubi peccatum fuerit
patratum (ad occasiones removendas); quoties peccatum fuerit consummatum, et quot actus interrupti adfuerint,
seorsim a peccato; num peccato multum ante consenserint: nam tunc actus interni interrumpuntur, iuxta dicta
(5, 36); et tunc expedit formare iudicium toties multiplicata esse peccata, quot morulae somni, distractionis etc.
interfuerint, prout sunt coram Deo, tantum interrogando de temporis duratione in peccato. Secus si malum
propositum fuerit conceptum per duos vel tres dies ante consummationem peccati, et intra illud tempus non
fuerit retractatum. Vide dicta ibid.

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Se polluentes interrogentur etiam de tactibus impudicis separatis a pollutionibus, et moneantur ea esse mortalia.
Item interrogentur an in actu pollutionis concupierint, vel an delectati fuerint de copula cogitata cum aliqua vel
pluribus mulieribus aut pueris; tunc enim tot peccata distincta committunt.

Circa autem peccata coniugum respectu ad debitum maritale, ordinarie loquendo, confessarius non tenetur, nec
decet, interrogare nisi uxores, an illud reddiderint, modestiori modo quo possit, puta an fuerint oboedientes viris
in omnibus. De aliis taceat, nisi interrogatus fuerit. Quae autem liceant et quae non inter coniuges circa idem
debitum, vide quae fuse dicta sunt in Libro (6, 900).34

42. Circa il VII precetto. Dimandi se ha pigliato robe d'altri e da chi; e se da una o più persone e se in una o più
volte. Perché se in ogni volta ha presa materia grave, ogni volta ha peccato mortalmente; se poi ha presa poca
materia la volta, allora non ha peccato gravemente, se non

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quando la materia è giunta ad esser grave, purché da principio non abbia avuta intenzione di giungere a materia
grave. Ma quando la materia è giunta già ad esser grave, sebbene egli non vi abbia peccato gravemente, pure
con obbligo grave sarà tenuto alla restituzione (3, 553), almeno di quell'ultima materia che ha compita la
materia grave (Ibid: in fine).

Notisi però che ne' furti minuti vi vuole più materia a costituire la grave; e più, se si son prese da diverse
persone: onde dicesi che ne' furti minuti fatti in più volte e da diversi, vi vuole il doppio (3, 530); e se tra loro è
passato notabil tempo, come due mesi, allora i furti probabilmente non si uniscono a far materia grave (Ibid.).

Probabilmente poi quei che mangiassero frutti nelle vigne d'altri, purché non sieno rari e di prezzo, possono
scusarsi almeno da peccato grave, purché non ne portino fuori in gran quantità (3, 529 v. Quaeritur 2); poiché
in
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queste sorte di robe che sono molto esposte vi vuole maggior quantità a far la materia grave (3, 529).

E così anche possono facilmente scusarsi i garzoni e le serve che per uso loro prendono da' padroni cose
commestibili, purché non sieno in gran quantità o pure straordinarie (3, 545).

Neppure debbono condannarsi di peccato grave quei che prendono legna o pascolano gli animali ne' luoghi
della propria comunità, sebbene sia stato lor proibito; perché tali proibizioni si giudicano puramente penali (3,
529 e 614, v. 2. Qui in loco). La gravità poi della materia si misura dalla qualità della persona fraudata; ciò sta
bene esaminato nel Libro (3, 527). Quando poi i furti si fanno da' figli e dalle mogli, vi vuole molta maggior
materia per esser grave; e di rado questi son tenuti alla restituzione con grave obbligo (3, 539 e 543).

43. Appurato ch'abbia il confessore l'obbligo grave del penitente, veda se il penitente può restituire subito35,
sebbene con qualche incomodo; e non l'assolva se prima non restituisce, sebbene quegli dia segni straordinari di
emenda (3, 682): poiché le robe sono un certo sangue che non si cava dalle vene, se non con gran violenza e
dolore; onde, se non si restituiscono prima dell'assoluzione, difficilissimamente si restituiscono dopo, come
purtroppo insegna la sperienza. Solo può eccettuarsene qualche penitente che fosse di tal timorata coscienza che
di lui non potesse dubitarsi.

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Ho detto con qualche incomodo; perché se quegli non potesse restituire senza porsi in grave necessità, cioè
senza decadere dal suo stato giustamente acquistato, allora egli può differire la restituzione, purché il creditore
non stia già in grave necessità. Anzi sebbene il creditore stia in grave necessità, probabilmente neppure è
obbligato il debitore a restituire, quando egli sta parimente in grave necessità e colla restituzione dovrebbe porsi
in una necessità quasi estrema: purché (ciò s'intende) la cosa rubata non exstet in specie, e purché precisamente
per quel furto non si sia ridotto il creditore in quella grave necessità (3, 703).

Procurisi almeno allora, cioè quando può differirsi la restituzione, di insinuare al penitente che restituisca
qualche poco la volta, o pure faccia qualche fatica o donativo da quando in quando al creditore.

44. Non è possibile qui rivangare tutte le dottrine che debbono sapersi in questa materia di restituzione, la quale
è così vasta e così intricata. Si osservi ciò che diffusamente sta notato nel Libro. Solamente voglio qui notare
alcune poche cose che son più frequenti ad accadere e più s'appartengono alla pratica.

Per 1. quando alcuno è andato con altri a rubare, per giudicare se egli sia tenuto a restituire tutto il danno o no,
bisogna distinguere: se egli è stato meramente indotto da' compagni, e senza lui già sarebbe succeduto dello
stesso modo il furto, non sarà allora obbligato a restituire che la sola sua parte; ma se poi di concerto (gli uni
animando gli altri) sieno andati a fare il furto, ciascuno allora è obbligato in solidum alla restituzione (3, 579, v.
Quaeritur). Ma

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in pratica i rozzi, specialmente quei che sono di coscienza poco timorata, difficilmente essi possono persuadersi
esser tenuti a restituire quel che si han preso gli altri; e dall'altra gli stessi padroni si presume che si contentino
della loro parte, per la stessa ragione, poiché se si obbligano al tutto, facilmente lasciano di restituire e l'uno e
l'altro. Però il confessore gli faccia sapere ch'è obbligato a restituire, senza spiegargli di quanto, facendolo
restituire quanto la coscienza gli detta (3, 579, in fine, ed Istruzione pei confess. di terre etc., cap. 8).36
Per 2. avvertasi che niuno è obbligato a restituire il danno fatto, senza averne ricevuto alcun utile per sé, se non
ha preveduto tal danno, almeno in confuso (3, 613, in fine); o pure se non è stato già condannato dal giudice a
rifare il danno (1, 100, in fine, e 3, 544, in fine).

Per 3. quando il furto è incerto, cioè s'è incerta la persona che ha ricevuto il danno, deve obbligarsi il penitente
a restituire con farne dir Messe o limosine a' poveri o luoghi pii (3, 589, in fine), e, se esso è povero, può anche
applicarlo a se stesso o alla sua famiglia (3, 672). Ma se la persona è certa, deve a lei restituire; onde è
maraviglia il trovare tanti confessori ignoranti che, essendo certa la persona del creditore, impongono al
penitente che del debito ne faccia limosine o dir Messe. In tal caso io ho ritenuto (3, 704) che 'l penitente sia
obbligato di nuovo a restituire, perché il ladro è obbligato in tutti i casi, anche fortuiti, a rendere indenne il
padrone; né ho potuto accomodarmi all'opinione contraria. Solamente

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ho detto (3, 534, Qu. 2), che quando i furti fossero minuti, benché uniti giungessero a molta somma, e benché i
padroni fossero certi, ma diversi, allora scuserei da peccato grave chi volesse restituire a' poveri, per la ragione
ivi posta; ed anche dal veniale, se vi fosse ragionevol causa, come se non potesse farsi la restituzione a' padroni
senza notabile incomodo, o pure se alcuni poveri stessero in tal necessità che si presumesse il consenso de'
padroni che a quelli si facesse la restituzione (3, 595, in fine).

Se poi alcuno ha fraudato molti cittadini, ma incerti, con furti minuti, per es. con vendere vino, olio, etc.,37 io ho
ritenuto ch'egli è obbligato di restituire a' cittadini medesimi, o con diminuire il prezzo o con accrescere il peso,
e non già a' poveri di quel luogo, come altri permettono; benché (come ho detto di sopra) se lo desse a' poveri,
non peccherebbe gravemente, e neppure venialmente se vi fosse giusta causa (3, 595).

Per 4. notisi che se alcuno avesse preso roba d'altri o pure la ritenesse colla presunzione che, se la cercasse al
padrone, volentieri ce la donerebbe, questi non deve obbligarsi alla restituzione (3, 700. v. Quaeritur hic 1).

Per 5. non deve obbligarsi neppure alla restituzione chi ha donato al suo creditore, con dono meramente
gratuito, ciò che gli dovea dopo il debito contratto, benché immemore del suo debito (3, 700, v. Quaeritur 2).

Per 6. avvertasi che per essere obbligato il penitente alla restituzione sotto colpa grave, quando la cosa rubata è
consunta e quegli non si è fatto diziore, bisogna per prima che vi sia stata sua colpa grave interna contro la

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giustizia commutativa (3, 550). Inoltre vi si richiede per sua parte l'azione esterna, ossia l'influsso che sia stato
efficace cagione del danno (3, 504), e di più che questo influsso sia stato compitamente ossia gravemente
ingiusto (3, 551) e sia moralmente certo che sia stato tale (3, 562 e 658). Questo è in quanto all'accezione.

In quanto poi alla retenzione della roba, quando il penitente tiene per sé l'opinione probabile col possesso
legittimo, cioè di buona fede, non può il confessore obbligarlo alla restituzione (1, 83); anzi chi ha cominciato
con buona fede a possedere qualche cosa, dopo la diligenza fatta per trovar la verità, non è obbligato a restituir
cosa alcuna, se non si fa certo del jus ossia ragione che compete al prossimo, come in più luoghi s'è provato (3,
547 circa fin. e 669). Che se poi l'obbligo di restituire fosse certo, ma il penitente stesse certamente in buona
fede, e certamente prevedesse il confessore che l'ammonizione non sia per giovare, allora deve tralasciarla, per
non fare che il peccato da materiale diventi formale colla ruina di quell'anima, come dicono comunemente i dd.
(6, 614, v. Infertur 2).

Per ultimo, circa l'obbligo di restituzione per ragione di contratto, bisogna dimandare, studiare e poi decidere.
Del resto, solamente qui deve avvertirsi che quando si trovano alcuni contratti praticati da lungo tempo in un
paese, specialmente dove si son fatte le missioni, non dev'esser facile il confessore a condannarli, se prima non
esamina tutte le circostanze: poiché molti contratti a prima vista sembrano usurari o ingiusti, e poi, discernendo
meglio le cose, non si trovano tali. Circa poi la prescrizione de' beni, osserva 3, 504.

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45. Circa il precetto VIII.

Per 1. s'interroghi il penitente se ha tolta la fama ad alcuno, e se l'ha infamato di delitto falso o vero, e, quando
il delitto è vero, se era occulto o pubblico in qualche luogo per fama o per sentenza del giudice. Di più, dimandi
se l'ha infamato presso d'uno o presso di molti e quanti; di più se ha pubblicato il fatto come a se noto o come
inteso dagli altri.

Circa poi il restituir la fama, se il delitto narrato è falso, l'infamante è obbligato a disdirsi. Ma se è vero, deve
rimediare come meglio può senza mentire; dica per esempio: Ho preso abbaglio, mi sono ingannato, ho fatto
errore. Ammettono altri anche il dire: Ho mentito, equivocando, mentre ogni peccato è bugia, come si dice
nella Scrittura. Io soglio consigliare a dire: Me l'ho cacciato da capo, anche equivocando, perché tutti i detti
escono dalla mente, per cui s'intende il capo. Che se mai il restituir la fama si stimasse probabilmente dover
riuscire di maggior danno che d'utile al diffamato, perché la cosa si presumesse dimenticata (come si presume
quando la diffamazione fosse accaduta da lungo tempo, e poi non se ne fosse fatta più menzione), allora è
meglio cercar di lodare il diffamato in qualche sua virtù, per metterlo in buona opinione, che andar rinnovando
la memoria colla predetta restituzione.

Tali sorte di restituzioni procuri il confessore, quando comodamente si può, di farle fare prima dell'assoluzione,
perché dopo difficilmente si fanno; benché queste per altro sian meno difficili delle restituzioni d'interesse.

S'avverta qui per ultimo che il dire il delitto del prossimo, allora è propriamente detrazione ed è peccato,

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quando s'intende, come dice s. Tommaso (2, 2, qu. 73, a. 2) denigrare l'altrui fama, ma non già quando s'intende
l'evitare qualche danno, come sarebbe il dirlo a' genitori, al padrone, al prelato, o per l'emenda del reo o per
provvedere al danno d'altri; purché il danno altrui non fosse leggiero o di lungo minore del danno del diffamato.
Si osservi ció che sta nel Libro (3, 968).

46. Dell'obbligo poi di restituire l'onore tolto ad alcuno per qualche ingiuria fattagli, già se n'è parlato al
precetto V al num. 37. In questo precetto VIII. parlano ancora i dottori de' giudizi temerari. Molti rozzi si
accusano di aver fatti giudizi temerari. In ciò bisogna loro avvertire per 1. che quando vi sono sufficienti motivi
da così giudicare di qualche fatto, il giudizio non è temerario, ma giusto, e perciò non è colpevole. Per 2. che
per lo più questi non son giudizi, ma sospetti che i padroni ed i padri di famiglia alle volte sono anzi obbligati a
farli per impedire qualche peccato, per esempio affinché i servi non rubino, affinché le figlie non pecchino
praticando cogli uomini e cose simili. Solamente loro s'avverta che tali sospetti poi non li comunichino ad altre
persone senza necessità.

47. Resterebbe a parlare de' precetti della Chiesa; ma circa questi, degli obblighi di sentir la Messa e di non
faticar la festa, già se n'è parlato.38

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Circa il digiuno ricordiamo tre cose al confessore: per I. che non tutte le fatiche scusano dal digiuno, ma
solamente quelle che portano molt'agitazione nel corpo (3, 1041). Per II. che i faticatori in quei soli giorni sono
scusati dal digiuno ne' quali attualmente faticano, o pure quando sperano di dover il giorno appreso faticare, e
non possono se non mangiano il giorno precedente (3, 1044)39; per III che non basta a soddisfare il digiuno il
non mangiare fuor di pranzo e di cena, e40 la sera cenar meno del solito, com'erroneamente credono molti;
poiché il digiuno importa cibarsi una sola volta il giorno, e nella sera altro non si permette che la semplice
colazione di otto oncie, secondo la consuetudine comune, o al più di dieci a chi fosse abituato per maggior
esigenza di cibo a cenar in quantità eccedente l'ordinario (3, 1025).41

I poveri poi che la mattina non avessero il cibo sufficiente e non potessero mantenersi colla sola colazione della
sera, questi sono scusati (3, 1033, v. Secundo). Che se la sera questi avessero il pasto bastante, dicono molti dd.
che sono obbligati al digiuno con far la colazione nella

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mattina42; ma molti altri ciò lo negano per ragione che 'l digiuno in tal modo apporterebbe un incomodo
straordinario: si osservi il Libro (3, 1034, v. An autem).

Dopo fatto un tal esame a' rozzi, come poi il confessore debba disporre il penitente al dolore, come regolarsi
nell'imporgli la penitenza, già se n'è parlato di sovra alli numeri 10 ed 11. Ma avverta prima di tutto a non
trascurare un tal esame dove si scorge il bisogno, mentre si trova che forse la maggior parte de' confessori in
questo punto vi manca.

1 S. C. S. OFF. decr. 4 mart. 1679, in Fontes 754.

2 In Opere sacro-morali, Modena, Camerale, 1823, 25, pp. 102-107.


3 Ibid. p. 104.

4 Ibid. p. 105. Citaz. non letterale.


5 Per quanto concerne la dispensa e commutazione dei voti, il confessore semplice non ha facoltà speciali, essendo ora la materia disciplinata
dal canone 1196: Oltre al Romano Pontefice, possono dispensare dai voti privati (i voti pubblici sono tutti riservati) per una giusta causa e
purché la dispensa non leda l'altrui diritto acquisito: 1. l'ordinario del luogo e il parroco, relativamente a tutti i propri sudditi e pure ai
forestieri; 2. il Superiore di un istituto religioso o di una società di vita apostolica se sono clericali di diritto pontificio, relativamente ai
membri, ai novizi e alle persone che vivono giorno e notte in una casa dell'istituto o della società; 3. coloro ai quali sia stata delegata la
potestà di dispensare dalla Sede Apostolica o dall'Ordinario del luogo. È chiaro peraltro che ogni confessore può proporre la commutazione
dell'opera promessa con voto privato con un bene maggiore od uguale, a norma del can 1197.

6 Intendi, più esattamente, dagli Ordinari del luogo (can. 134. 2). La facoltà dei confessori regolari pare possa sostenersi anche dopo il nuovo
Codice.

7 Su queste parole, cfr. Th. Mor. 3, 124 e 129. "Atta, inter. capperi, poffare... Mannaggia, sincope di malannaggia, partic. composta ad
imprecazione dal v. avere e dal n. malanno = abbia malanno, accidenti, maledizione... Potta, poffare... Al popolo è ignoto il significato
toscano di q. v. " R. D'Ambra, Vocabolario napolitano - toscano, s. l. 1873, vv. atta, malannaggia, potta.

8 (G. Jorio), Istruzione chiara e pratica per li confessori di terre e villaggi.. composta da un fratello... della Congregazione del P. Pavone,
Venezia, Bortoli, 1747, p. 126.

9 Nella prima e seconda edizione (non già in quelle posteriori alla Pratica): 3, 124, v. Sic quoque.
10 S. Alfonso sviluppa il suo pensiero nella Th. Mor. 3, 130 e nella Epistola responsiva inserita ibid. dopo il n. 123. Cfr. De Meulem., 33-34.

11 N. Mazzotta, Theologia moralis, Neapoli, 1748, 2, 1, 3, 2, n. 1, 1.


12 Ven G. M. Sarnelli, Opera contro la bestemmia, Napoli, 3, 2, 3.

13 Jorio o. cit. p. 124.

14 Torni Giulio Nicolao, + 1756, maestro di S. Alfonso.

15 Quelle cioè dell'Arcivescovado ossia della Propaganda, del p. Pavone e di s. Giorgio (Istruzione e pratica, 5, 10).

16 Lettera ossia dissertazione sopra l'abuso di maledire i morti, pubblicata da s. Alfonso intorno al 1746 e perduta. De Meulem. 8.

17 Si ignora chi sia l'autore dell'Epistola critica pubblicata a Roma contro la Lettera di s. Alfonso che replicherà nel 1748 con la Exspiatio a
nonnullis in me disseminatis calumniis ob epistolam super maledictionem mortuorum, Napoli, Pellecchia; De Meulem. 8 e 10. Forse è il p.
Gesualdo Dandolfo (De Meulem. 8).

18 Il nunzio è, quasi certamente, mons. Ludovico Gualtieri, arciv. di Mira, che ricoprì tale carica dal 23 marzo 1747 a tutto il 1753; era stato
suo predecessore per alcuni mesi il card. Francesco Landi, arciv. di Benevento. (Notizie gentilmente comunicate da mons. D. Mallardo).

19 Jorio, p. 118.
20 Jorio, pp. 121-122.

21 "Secus vero si adhibitis diligentiis inadvertenter blasphemat" (Cioè: A meno che, pur usando diligenza bestemmi inavvertitamente). Th.
Mor., 5, XIV, 3°; cfr. 5, 4, v. Tertio modo. Dice S. Antonio M. Claret: "Quando una bestemmia è detta senza consapevolezza, la persona che
non ha il vizio di bestemmiare, mosso dalla passione, non commette peccato mortale. Quando qualcuno ha il vizio di bestemmiare e non fa
nessuno sforzo possibile per sradicare questo vizio, tutto ciò che proferisce di bestemmia sono peccati mortali". —Llave de oro, p. 657
(un'appendice al sopraddetto Prontuario), tradotto da noi. —A. M.

22 Praxis omette: per sé.


23 Cioè: con contratto scritto.

24 Vedi can. 1247 (A. M.).

25 La legge oggi è diversa. Cfr. cann. 1247-1253 (A. M.).


26 Vedi VI Aggiunta. (A. M.).
27 Riguardo a questa e ad altre domande da farsi alle donne si abbiano presenti le parole delle Normae de agendi ratione confessariorum
circa VI Decalogi praeceptum, del 16 maggio 1943, edite da Gregoriana, Padova 1959, con commento dall'editore di questa Pratica. "Eas dum
alloquitur, pronomen „tu‟ ubi familiarem consuetudinem significet, omnino ne adhibeat" (Mentre parla a esse, non adoperi il pronome ‘tu’
dove significa un modo di dire familiare) - N. 3 delle Norme. Vedere V Aggiunta, B (VIII) e (IX).

28 "... quando gliel'ha desiderati di fare efficacemente". Spiega S. Alfonso, Istr. e Prat., 3, 39: "Tra' pensieri peccaminosi debbon distinguersi
tra loro il desiderio, il gaudio (o sia compiacenza), e la dilettazione morosa. Il desiderio riguarda il tempo futuro, e è quando l'uomo ambisce
deliberatamente di consumare un'opera mala; questo desiderio si dice efficace, quando la persona propone di eseguirlo; inefficace, quando
consente all'intenzione di porlo in esecuzione, se potesse, v. g. dicendo: se potessi prendermi il tesoro della chiesa, me lo prenderei" (A. M.).

29 Salmanticenses, Cursus theologiae moralis, Venetiis, Pezzana, 1750, 21, 18.

30 Istr. e prat. (Cap. ult. 25) aggiunge: "L'offeso ben può pretendere in giudizio la soddisfazione dell'ingiuria, se altrimenti restasse infamata
la sua famiglia. Di più s'avverta quel che dice s. Tommaso (2-2, qu. 108, art. 1, c.), che giustamente può pretendersi il castigo dell'offensore,
o per frenare la di lui insolenza o per ottenere la quiete degli altri: Si vero (dice il Santo) intentio vindicantis feratur principaliter ad aliquod
bonum, ad quod pervenitur per poenam peccantis (puta ad emendationem peccantis, vel saltem ad cohibitionem eius, et quietem aliorum et
ad iustitiae conservationem et Dei honorem), potest esse vindicatio licita. [Cioè: Se invece l'intenzione di chi vuole il castigo mira
principalmente ad un qualche bene al quale si arriva mediante la pena del colpevole (come alla emendazione del peccante od almeno a porre
un freno a lui e dare quiete agli altri ed a promuovere la giustizia e dare onore a Dio), esigere la punizione può essere lecito. ] Ma circa il
punto della conservazione della giustizia (che per lo più affacian gli offesi) bisogna che il confessore stia molto accorto, perché praticamente...
in quel desiderio della giustizia si nasconde il desiderio della propria vendetta".
31 Per le interrogazioni in tutta questa materia si tengano presenti le Normae emanate dal S. Ufficio il 16 maggio 1943 e già citate,
specialmente quanto alle domande da farsi al penitente e consigliate nel testo ai numeri 40, 2 e 41 primo capoverso.

31A Praxis inserisce: "sed tantum effectura ut poenitens duplici peccato peccet, si carnis concupiscentiis non resistet" [Ma soltanto avrebbe
l'effetto che il penitente pecchi con doppio peccato, se non resisterà alle concupiscenze della carne]. L'adulterio è un doppio peccato mortale.
In questo caso si può lasciare il penitente nell'errore che questo peccato uguaglia il peccato mortale di fornicazione, tacendo la speciale
malizia dell'adulterio (contro il bene comune, il Sacramento, ecc.), quando le regole nei nn. 8 e 9 di cui sopra dirigono così. Riguardo alla
speciale malizia dell'adulterio, vedere Th. M. 3, 445 e D-S 2150. Il bene comune esige che non lasciamo (e mai confermiamo) il penitente
nell'errore che l'adulterio non è peccato mortale affatto (A. M.).

32 La traduzione in italiano è questa: "39. Quanto al VI precetto. Siano interrogati intorno ai pensieri: se hanno desiderato o si sono dilettati
volontariamente di cose disoneste e se con piena avvertenza e deliberato consenso. Poi, se hanno desiderato ragazze o vedove o sposate; e
che cosa di male abbiano voluto compiere con esse. È da avvertire a questo riguardo che i rozzi, parlando comunemente, giudicano più grave
peccato lo stupro che la semplice fornicazione; al contrario ignorano la malizia dell'adulterio; perciò con coloro che hanno l'abitudine di questo
vizio non è opportuno ammonirli della malizia [speciale] dell'adulterio, quando si prevede che l'ammonizione sarebbe poco giovevole [Vedere
nota 31A]. Quanto poi a questi pensieri ai quali hanno acconsentito, si deve appurarne il numero certo, se lo si può avere; altrimenti si cerchi
quante volte abbiano acconsentito a quei pensieri in un giorno, in una settimana o in un mese. Ma se non possono dire neppure questo, si
domandi se hanno desiderato tutte le donne che hanno incontrato o son loro venute in mente; o se abitualmente abbiano rivolto pensieri
turpi a qualcuna in particolare senza resistere mai alle dilettazioni o desideri cattivi, e se l'hanno sempre desiderata o soltanto quando la
vedevano.

Infine vengano interrogati anche se hanno usato dei mezzi per eseguire le cattive idee, poiché (come abbiamo
detto nel Libro, 5, 42) allora quei mezzi, anche se indifferenti in se, sono specificati dalla malizia interna e
quindi sono da dichiarare come peccati esterni ed azioni incominciate".

32A Mi sembra che ci sarebbe qualche scandalo, ma meno che se ci fosse non l'ira (A. M.)

33 Così in italiano: "40. II. Quanto alle parole oscene. Siano interrogati: I. davanti a quali persone e quante volte abbiano parlato così, a
cagione dello scandalo, se davanti ad uomini o donne, coniugati o meno, fanciulli o adulti. Più facilmente infatti sono scandalizzate le ragazze
ed i fanciulli che gli adulti, quelli specialmente che sono abituati a questo vizio. — 2. Che cosa abbiano detto, come anche se hanno nominato
i genitali dell'altro sesso; perché questo difficilmente si scusa da colpa mortale. —3. Se hanno pronunciato quelle parole per ira o per gioco;
perché se per ira, sarebbe più difficile che ci sia stata compiacenza e scandalo [Vedere nota 32A. ]. (Si guardi il confessore dall'assolvere
questi recidivi in colloqui turpi, benché dicano che li hanno tenuti per gioco, se prima non si emendano dando un segno straordinario di
dolore). — 4. Se si sono vantati di qualche peccato; allora infatti concorrono spesso tre peccati, cioè grande scandalo degli uditori, millanteria
del male commesso e compiacenza del peccato narrato; perciò debbono essere interrogati di quale peccato in particolare si siano vantati (5,
20).

Siano interrogati anche se abbiano goduto ascoltando altri che parlavano in modo disonesto e se allora abbiano
pensato al precetto della correzione da farsi a coloro che parlavano in questa maniera quando giudicavano
giovevole una tale correzione".

34 Così in italiano: "41. III. Quanto alle opere. Siano interrogati su colei con la quale hanno peccato [non però sul nome—cfr. sotto n. 97 e
can. 979] e se ciò è accaduto altre volte con la stessa e dov'è avvenuto il fatto (per togliere le occasioni); quante volte il peccato è stato
consumato e quanti atti non terminati ci sono stati indipendentemente dal peccato (consumato); se hanno acconsentito al peccato molto
tempo prima; perché, in questo caso, gli atti interni sono interrotti, come si è detto (5, 36), per cui conviene giudicare esservi stati tanti
peccati quante volte l'atto interno è stato ripreso dopo le pause dovute al sonno, alla distrazione, ecc. intervenute, come stanno davanti a
Dio, interrogando solamente sul tempo della durata nel peccato. È da giudicarsi in maniera diversa se l'attuazione del cattivo proposito fu
concepita per due o tre giorni prima di quando essa effettivamente avvenne, senza che in quello spazio di tempo venisse ritrattato il cattivo
proposito. Vedi quanto si è detto al medesimo luogo.

Coloro che sono caduti nel peccato solitario, siano interrogati anche sui toccamenti impudichi separati dalla
polluzione e siano ammoniti che sono colpe mortali. Siano anche interrogati se durante la polluzione abbiano
desiderato e si siano dilettati del pensiero della unione con una o più donne o fanciulli, perché allora
commettono altrettanti peccati distinti.

Quanto poi ai peccati dei coniugi relativamente al dovere matrimoniale [cfr. sopra n. 35], ordinariamente
parlando, il confessore non è obbligato, né è conveniente rivolgere altre domande alle mogli oltre quella avente
come oggetto l'assolvimento o meno del suddetto dovere, interrogandole nel modo più modesto che può, ad
esempio usando frasi sul tipo: ‘siete stata obbediente in tutto a vostro marito?’ Degli altri argomenti taccia, se
non è interrogato. Per ciò poi che è lecito o meno tra i coniugi, vedi ciò che è stato detto diffusamente nel Libro
(6, 900)". Vedere la V Aggiunta.
35 Praxis omette l'avverbio.
36 Jorio, p. 225.
37 Praxis: mensura detracta aut pondere imminuto (cioè: alterata la misura o diminuito il peso).
38 Sopra, 32, 33.
39 "Ii qui uno vel altero die non laborant... si manifeste ipsi grave incommodum ex ieiunio non sustinerent, tenerentur ieiunare. Secus, si
non manifeste: in dubio enim excusantur". ("Coloro che per un giorno o due non lavorano... se manifestamente non patiscono un grave
incomodo, debbono digiunare. Altro è da dirsi se non patiscono manifestamente: in dubbio sono scusati"). Th. M 3, 1044.

40 Praxis: aut.

41 La disciplina vigente è così compendiata nel Capitolo II del Libro IV del Codice di Giovanni Paolo II sotto il titolo i giorni di penitenza.

Can. 1249—Per legge divina, tutti i fedeli sono tenuti a fare penitenza, ciascuno a proprio modo; ma perché
tutti siano tra loro uniti da una comune osservanza della penitenza, vengono stabiliti dei giorni penitenziali in
cui i fedeli attendano in modo speciale alla preghiera, facciano opere di pietà e di carità, sacrifichino se stessi
compiendo più fedelmente i propri doveri e soprattutto osservando il digiuno e l'astinenza a norma dei canoni
che seguono. — Can 1250 - Sono giorni e tempi di penitenza nella Chiesa universale tutti i venerdì dell'anno e
il tempo di quaresima. —Can. 1251- Si osservi l'astinenza dalle carni o da altro cibo, secondo le disposizioni
della Conferenza Episcopale, in tutti e singoli i venerdì dell'anno, eccetto che coincidano con un giorno
annoverato tra le solennità; l'astinenza e il digiuno, invece, il mercoledì delle Ceneri e il venerdì della
Passione e Morte del Signore Nostro Gesù Cristo. —Can. 1252 - Alla legge dell'astinenza sono tenuti coloro
che hanno compiuto il 14° anno di età; alla legge del digiuno, invece, tutti i maggiorenni (coloro che hanno
compiuto i 18 anni) fino al 60° anno iniziato. Tuttavia i pastori d'anime e i genitori si adoperino perché anche
coloro che non sono tenuti alla legge del digiuno e dell'astinenza a motivo della minore età, siano formati al
genuino senso della penitenza. — Can. 1253 - La Conferenza Episcopale può determinare ulteriormente
l'osservanza del digiuno e dell'astinenza, come pure sostituirvi, in tutto o in parte, altre forme di penitenza,
soprattutto opere di carità ed esercizi di pietà.

42 Praxis: "antevertendo coenulam ad meridiem". (Cioè cambiando il pasto della sera col pranzo).

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CAPITOLO III - DELLE DOMANDE DA FARSI A PERSONE DI DIVERSI STATI CONDIZIONI


CHE SONO DI COSCIENZA TRASCURATA

48. Qui s'avverte che circa le obbligazioni del proprio stato o impiego non sempre basta che 'l confessore
dimandi solo al penitente se ha adempito al suo obbligo. Quando si vede che la persona è di coscienza
trascurata, o pure altronde ha ragionevol sospetto il confessore che quella manchi a' suoi obblighi, allora
bisogna che faccia le dimande in particolare, almeno circa gli obblighi più principali.

49. E I. s'è sacerdote quegli che si confessa, gli si dimandi se ha soddisfatto all'Officio ed agli obblighi di
Messe, o se queste l'ha differite per notabil tempo1; se fa negozi; se giuoca a giuochi proibiti; se dice la Messa
in fretta: essendoché se la termina fra lo spazio meno d'un quarto d'ora, egli non sarà scusato da colpa grave,
come fondatamente dicono più dd. (6, 400): poiché in tempo così breve non è possibile terminar la Messa senza
un gran strapazzo di parole e delle cerimonie; almeno non può celebrarsi con quella gravità e decenza che si
conviene ad

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un tanto sacrificio; onde ne avviene ancora il grave scandalo de' secolari, a cui (dice il Bellarmino) (Ibid.)2 tali
sacerdoti sembrano che non credano esservi nella Messa la divina maestà di Gesù Cristo.

Di più,3 non sarà improprio dimandargli se nel suo paese vi fosse molta penuria di confessori; poiché in tal caso
quel sacerdote potrà essere obbligato ad abilitarsi per la confessione, come abbiam provato con forti ragioni (6,
625)4 a cui aggiungesi la dottrina di s. Tommaso, il quale nel Suppl. q. 34, a. 1, dice che Dio a tal fine ha
istituito l'ordine de' sacerdoti nella sua Chiesa, affinché questi amministrassero agli altri i sagramenti: Et ideo
(parole del Santo) posuit Ordinem in ea ut quidam aliis sacramenta traderent.5 E perciò i sacerdoti son
chiamati luce del mondo, sale della terra e coadiutori di Dio. Essendo dunque il fine del sacerdote
l'amministrare i sagramenti, com'egli potrà essere scusato da colpa quando vede le genti del suo paese non
avere a chi confessarsi e perciò viver molti in peccato con gran pericolo di dannarsi, quando egli rende già
frustraneo il fine del Signore, per cui l'ha fatto sacerdote, non abilitandosi per pigrizia ad amministrare loro il
sagramento della penitenza, che, dopo

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il battesimo, è il più necessario alla salute eterna? Son troppo terribili le parole del Signore contro di questi
sacerdoti negligenti nella salvezza del prossimo: Si dicente me ad impium: Morte morieris, non adnuntiaveris
ei…, ipse impius in iniquitate sua morietur, sanguinem autem eius de manu tua requiram (Ezech. 3, 18)6. Se poi
un tal sacerdote si scusasse con addurre la sua inabilità ed insufficienza, senta quel che dice s. Francesco di
Sales, il quale chiama7 falsa l'umiltà di coloro che ricusano d'impiegarsi nella salute dell'anime a titolo di
conoscere la propria debolezza. Dice che tutto ciò è arteficio dell'amor proprio ed umiltà maligna, per cui si
pretende di ricovrire con uno specioso pretesto la propria pigrizia. Soggiunge che Dio, con accordarci qualche
talento, pretende che ce ne serviamo: onde ben si dimostra umile chi se ne avvale ed ubbidisce. Il superbo aver
ben motivo di non intraprender cosa alcuna, come quello che fida in se stesso; l'umile al contrario dover esser
coraggioso, perché non conta sulle proprie forze, ma confida in Dio, a cui piace di esaltare la sua onnipotenza
nella nostra debolezza; e perciò conchiude che chi è umile può intraprendere ogni cosa.

Se poi tal sacerdote sia confessore, gli dimandi specialmente se ha studiato abbastanza e se continua a studiare;

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poiché (come abbiam detto al n. 18 in fin.) per confessar bene non basta aver studiato una volta. Di più, se ha
assolto coloro che stavano in occasione prossima di peccato o erano recidivi e non portavano segni straordinari
di disposizione8. Se poi per disgrazia un tal confessore avesse sollecitato qualche persona ad turpia9, gli
dimandi se sa che egli non può celebrare, mentre a' sollecitanti è imposta dal nostro SS.P. Benedetto XIV10 la
inabilità perpetua e riservata al Papa, la quale, come abbiam dimostrato (6, 705), s'incorre prima d'ogni
sentenza11 ed anche dagl'ignoranti12, non essendo censura ma impedimento.

50. II. Se viene un parroco, è bene dimandargli per 1. se attende alle dovute correzioni13 con i sudditi che

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tengono odi o male pratiche o entrano nelle case delle spose. Ed a questo proposito l'avverta fortemente a non
prender le parole per i fidanzamenti, se non poco tempo prima di farsi le nozze, come usano i buoni parrochi;
altrimenti tutto quel tempo fino al matrimonio sarà tempo di peccati.14 Per 2. se invigila che i suoi sudditi
adempiscano il precetto pasquale, senza eccezione di persone15. Quanti ne troviamo nelle missioni,
specialmente degli uomini di maggior riguardo, che per molti anni avranno lasciato il precetto, senza che 'l
parroco l'abbia ammoniti e v'abbia presi gli opportuni espedienti! Per 3. se ha amministrati i sagramenti
(specialmente della penitenza) per se stesso in pericolo di morte, o quando n'è stato richiesto (6, 623, v. Resp. 2.
et 3.)16. Dico per se stesso; perché quando esso può non sodisfa amministrandoli per altri (4, 127, v. Hinc.). Per
4. se ha assistito a' moribondi17. Per 5. se ha predicato la domenica18; poiché non essendo legittimamente
impedito e non predicando per un mese continuo o per tre mesi discontinuatamente fra l'anno, da' dd. non viene
scusato da colpa grave (3, 269). Se ha fatte le dovute limosine, avendo benefici pingui eccedenti la congrua19.
Per 6. se ha atteso ad insegnare la dottrina cristiana a' figlioli ed a' rozzi20 circa i misteri della fede e circa i
mezzi della salvezza.

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Specialmente se ha istruiti i rozzi circa il dolore necessario de' peccati ed i fanciulli circa la communione,
quando ne son capaci, cioè (ordinariamente parlando) nell'età dalli 10 sino alli 12 anni o al più fino alli 14 (6,
301, v. Sed hic.)21. S. Carlo ordinò a' suoi parrochi che abilitassero alla communione tutti i figliuoli arrivati al
decimo anno (Ibid.)22 ed alcuni parrochi poi fan difficoltà di dare ad essi la communione anche nel duodecimo
anno, perché? per non prendersi l'incomodo d'istruirli.

Per 7. se sono stati condescendenti a far le fedi agli ordinandi per rispetti umani; nel che bisogna che i parrochi
non si contentino della conoscenza negativa, ma debbono averne la positiva, e perciò son tenuti ad informarsene
singularmente. Si trovano alle volte ordinandi carichi

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di peccati, che si saranno comunicati appena una volta l'anno, anzi che avran lasciato anche il precetto, e poi
portano le fedi del parroco della bontà de' costumi e della frequenza de' sagramenti. Quelli poi già si ordinano e
diventano lo scandalo de' paesi; e di tutti i loro peccati certamente il parroco ne ha da rendere conto a Dio,
poiché i vescovi in ciò de' parrochi si fidano: ma i vescovi più accorti non si fidano dei parrochi in questa
materia sì importante, da cui dipende la salute de' popoli.

51. III. Se viene un vescovo di cui prudentemente dubitasse il confessore che non adempisca i suoi obblighi, gli
dimandi per 1. se usa la dovuta diligenza (oltre l'esame della scienza) in accertarsi della bontà positiva degli
ordinandi, secondo impongono i sacri canoni, il concilio di Trento e l'Apostolo23; non contentandosi delle fedi
de' parrochi, le quali (come si è detto) per lo più o sono false o sospette.

Per 2. se ammette per confessori sacerdoti bene esperimentati nella dottrina e ne' costumi, altrimenti quelli
faranno molto più danno che utile. Per 3. come spende le rendite della mensa; poiché, come abbiamo provato
(3, 492) il vescovo, toltone l'onesto suo mantenimento, tutto il resto è tenuto a dispensarlo a' poveri.

Per 4. come soddisfa l'obbligo della residenza; poiché neppure per li tre mesi concessi dal Concilio (come ha
dichiarato il regnante Pontefice) egli può uscire

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dalla sua diocesi, se uscisse per causa futile o sia per pura ricreazione.

Per 5. come invigila ad informarsi se vi sono scandali tra le sue pecorelle, per ripararli nel miglior modo che si
può, implorando anche l'aiuto del braccio secolare, se bisogna.

Per ultimo gli domandi come si porta in dar buon esempio; perché certamente il prelato è tenuto con modo
speciale ad essere esemplare; altrimenti come potrà correggere i suoi ecclesiastici, per es. a non andar a
conversazioni di donne, a non frequentare i giuochi di carte, quand'egli ne desse il mal esempio?
IV. Se la penitente è religiosa di monastero, le dimandi specialmente se ha mancato nel voto di povertà24,
prendendo o donando senza licenza. Se ha detto l'Officio divino, mentre l'opinione che le monache in privato
non sieno tenute a recitar l'Officio non è abbastanza probabile, come abbiamo dimostrato (4, 141)25. Di più se
ha tenuta qualche corrispondenza pericolosa, per esservi state parole o biglietti d'affetto etc. E se colei non vuol
lasciarla, sia forte il confessore in non assolverla, perché in tali corrispondenze, sebbene non vi sia fine
gravemente cattivo, sempre però v'è il pericolo; almeno v'è

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lo scandalo e il mal esempio per le altre26. Se conserva qualche rancore con qualche delle religiose.

Alle officiali poi si dimandi in particolare qualche cosa del loro officio, come: alla rotaia, se porta lettere o
imbasciate sospette di male; alla portinaia, se tiene aperta la porta con qualche pericolo di scandalo delle
monache o della gente di fuori; alle superiore, se non usano la debita diligenza nell'ingresso e dimora degli
uomini, o se permettono abusi nuovi, che, sebbene in sé leggieri, saran peccato grave alla superiora per lo grave
danno dell'osservanza (4, 13)27. 52. V. Se viene un giudice, gli domandi se ha fatta eccezione di persone; se ha
sbrigate le cause; se ha giudicato per passione o senza studio.

S'è scrivano28, gli domandi come s'è portato nel prender le informazioni; se ha fatte dimande suggestive; se ha
diminuito o alterate le deposizioni.

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53. VI. Se viene un medico, gli si dimandi 1. se ha lo studio e pratica sufficiente per lo passato29, e se s'applica a
studiare ne' casi più difficili, quando capitano, com'è obbligato.

Per 2. se ha data licenza di mangiar carne o di lasciar l'Officio o la Messa per rispetti umani senza necessità o
almeno senza il dubbio che il soddisfare all'obbligo potesse cagionar grave danno o pur recare notabile
incomodo30. Per 3. se ha applicato qualche rimedio pericoloso all'infermo non ancor disperato della vita (1, 46 e
4, 291, 4).

Per 4. se ha mandate le ricette alla bottega di qualche speziale non fedele o poco pratico o che suol tenere
rimedi poco buoni, per solo rispetto che quegli era suo amico.

Per 5. se ha atteso alla cura de' poveri, essendo salariato: o se no, stando i poveri in estrema o grave necessità31.
Per 6. gli dimandi con cura molto speciale se ha procurato che i suoi infermi si confessassero a tempo
opportuno, secondo il precetto de' Pontefici. Di tal punto già ne ho parlato in più luoghi del Libro (3, 182 e 6,
664)

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dove si è detto che Innocenzo III32 ordinò che i medici non prendessero la cura d'alcun infermo, se prima quegli
non si fosse confessato: e s. Pio V33, confermando il precetto, aggiunse che 'l medico sia tenuto a lasciare di
visitarlo dopo il terzo giorno, se non sa che siasi già confessato; e di più che tutti i medici avanti di assumere il
grado del dottorato giurino di osservare questo precetto; e ciò sta ordinato a tutti i collegi.

Ma il dubbio sta come s'intenda tal precetto e giuramento. Molti dd. han ritenuto che ciò s'intende quando
l'infermità è pericolosa, o almeno quando v'è dubbio che sia pericolosa; ed in questo senso dicono esser stata
ricevuta la bolla di s. Pio V. Ma la sentenza più comune vuole che tal precetto, benché non obblighi in ogni
morbo leggiero, tuttavia non debba intendersi solamente per li morbi attualmente pericolosi, ma anche quando
prudentemente si giudica che il morbo possa in appresso diventar mortale. E la ragione si è, perché Innocenzo
ordina che il medico imponga la confessione all'infermo prima che ne prenda la cura, affinché (dice il detto
Pontefice) l'infermo coll'avviso della confessione, mettendosi in disperazione, non incorra più facilmente il
pericolo della morte; dunque intende che facciasi confessare l'infermo prima che 'l

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morbo divenga mortale. Questa sentenza a me pare che sia la vera; però so che universalmente la pratica de'
medici è in contrario, almeno nel nostro Regno, e stimo che lo stesso sia da per tutto; e parlo anche de' medici
timorati di coscienza, i quali non sogliono avvertire i loro infermi a confessarsi, se non quando l'infermità già
probabilmente è fatta pericolosa. Né in ciò pensano di peccare contro del giuramento dato secondo la bolla di s.
Pio V, appoggiati a quel che dicono più dd. (6, 664, v. Circa autem) che 'l detto giuramento non obbliga se non
per quella parte nella quale è stato dalla consuetudine ricevuto.

Del resto è certo presso tutti che peccano mortalmente almeno quei medici che non avvisano gl'infermi a
confessarsi quando l'infermità è grave. Che miseria è il vedere tanti infermi (e specialmente quando son persone
di riguardo) ridursi ad aggiustare i conti per la morte quando son già quasi cadaveri, che poco posson parlare,
poco sentire e poco concepire lo stato della loro coscienza e 'l dolore de' loro peccati! E tutto succede per colpa
di tali medici che, per non disgustare gl'infermi o i loro parenti, non li avvisano del loro pericolo, anzi li
lusingano che non vi è timore, sino che non sono affatto disperati.

Attenda dunque il confessore, quando viene un medico di coscienza trascurata, ad interrogarlo su tal punto e ad
inculcargli, non di passaggio, ma con fortezza e calore, l'obbligo di ordinare la confessione, almeno quando
scorge che 'l morbo sia grave, o dubbiamente grave; nel che convengono tutti i dottori. Con fortezza, dico,
poiché da questo punto dipende la salute spirituale non solo del medico penitente, ma di tutti coloro che
staranno sotto la sua cura.

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54. VII. Se poi è cerusico o speziale34, gli si dimandi se ha dati rimedi a donne gravide per farle abortire35; se
ha dato un medicamento per un altro, ed a maggior prezzo di quel che la roba valeva (3, 821)36. 55. VIII. Se
viene un negoziante, gli si dimandi se ha mancato nel peso o misura; se ha venduto più del prezzo supremo,
specialmente nel dar la roba a credenza, quando le persone erano sicure e non v'era suo danno.

Se si possa avanzarsi il prezzo nel vendere a credenza per ragione che tale è il prezzo corrente delle vendite in
credenza, secondo la comune estimazione, e se le robe a minuto possano vendersi a maggior prezzo, si
osservino le dottrine notate nel Libro (3, 809).

56. IX. Se viene un sartore, gli si dimandi se ha faticato per tempo notabile nella festa per finire le vesti e
portarle a' padroni, senza qualche causa straordinaria (3, 303, v. Sartoribus); se ha fatti i digiuni comandati
dalla Chiesa, poiché il sartore non è scusato per la fatica di cucire (3, 1041, v. Item Palaus); se ha alterato il
prezzo,

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dicendo che il mercante gli ha dati i panni per meno prezzo a riguardo suo. Quando per altro fosse vero che
quella parte del prezzo fosse stata a lui donata a suo solo riguardo, allora può ritenerla, purché abbia fatta una
moral diligenza e sappia per certo che gli altri mercanti non danno quella roba a prezzo minore (3, 826, v.
Caute igitur); ma ciò ha da essere più che certo, altrimenti non potrà esigere niente più del prezzo pagato.
Di più, se ha ritenuti i ritagli delle vesti, poiché non può certamente ritenerseli, se non quando o vi fosse la
volontà de' padroni, o quando essi gli pagassero la fattura meno dell'infimo prezzo secondo la comune
estimazione. Di più, se forse gli è occasione prossima di peccare il prender la misura alle donne37, come
avviene non di rado a' giovani di mala coscienza.

57. X. Se viene un sensale o una venditrice (intendesi di coloro che prendono le robe a vendere da' padroni), gli
si dimandi se si ha ritenuto niente del prezzo esatto dalla vendita. Poiché noi abbiam ritenuto (3, 825, v.
Quaer.), contro l'opinione d'altri, ch'egli non può ritenersi il di più, sebbene il padrone avesse determinato il
prezzo che ne volea: perché la determinazione si fa affinché la roba non vendasi meno, non affinché l'avanzo se
lo ritenga il sensale: e ciò corre sebbene dal padrone siasi assegnato il luogo dove vender la roba e 'l sensale,
fatta ivi la

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diligenza, l'avesse poi venduta più in altro luogo molto distante, mentre anche allora noi diciamo ch'egli non
può ritenersi tutto l'avanzo, ma solo ciò che gli può spettare per quella fatica straordinaria, poiché la roba
sempre fruttifica al suo padrone.

N'eccettuiamo (3, 825, v. Bene autem), per 1. se 'l sensale avesse migliorata la roba e perciò l'avesse venduta
più di quel che prima valea; per 2. se egli avesse convenuto col padrone di non dargli più del prezzo
determinato, e ciò o espressamente o tacitamente: come sarebbe quando il padrone non gli avesse assegnato
stipendio per la sua fatica; per 3. se l'avanzo fosse di poca importanza, sì che si presumesse che 'l padrone glielo
condonasse; per 4. se 'l sensale, avendo fatta la diligenza ordinaria, esso stesso si comprasse la roba per lo
prezzo trovato, e poi l'avesse venduta con vantaggio o in altro luogo o in altro tempo. Lo stesso dicesi poi se
alcuno avesse commesso al sensale di comprargli qualche roba a tal prezzo, e quegli l'avesse comprata a meno:
allora il sensale non può esigerne più, se non fosse per una fatica straordinaria che ci avesse usato per lo
risparmio, o pure se 'l sensale avesse comprata la roba a nome suo, assumendone in sé il pericolo. Ciò però
s'intende dopo ch'egli avesse fatta già una moral diligenza e non avesse trovato a comprarla a prezzo minore.

58. XI. Se viene un barbiere o parrucchiere, gli si dimandi se rade le barbe nella festa, dove non vi sia tal
consuetudine, mentre al contrario ciò non gli è illecito dove la consuetudine già è introdotta, o pure se ivi le
persone abbian necessità di farsi la barba nella festa, come sono quei che vivono colla fatica.

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Di più gli dimandi se fa la testa alle donne, secondo l'uso maledetto oggidì introdotto dal demonio. Io tengo che
(comunemente parlando) ciò sia a' giovani38 occasione prossima di peccare mortalmente con compiacenze
sensuali o almeno con cattivi desideri; onde dico non potersi permettere ad alcuno che non ne avesse una lunga
esperienza in contrario. Che se mai alcuno avesse esperimentato per qualche tempo notabile di non esservi
caduto, questi non può condannarsi di peccato mortale, ma con tutto ciò procuri il confessore di rimuoverlo
quanto può da un tal mestiere, che in sé certamente è pericoloso.

Non entro qui poi a decifrare il punto, se le donne che si fanno far la testa dagli uomini possano stare o no in
buona coscienza. Sento che molte ordinariamente così praticano; e si confessano e si comunicano; videant ipsae
et ipsarum confessarii39. Almeno il mio lettore loro imponga che facciano diligenza di trovarsi qualche donna
che sappia fare lo stesso officio; e, non trovandola, almeno non si servano de' giovani e specialmente di taluno
del quale siansi avvedute da' portamenti che non operi con semplicità40. Del resto, certamente credo che le
donne di più delicata coscienza non si serviranno degli uomini per adornarsi la testa, ma si contenteranno delle
donne al miglior modo che la sanno fare.
1 Si tengano presenti i cann. 947-958 e 1173-1175 con le relative decisioni del Concilio provinciale e della riunione dei Vescovi.
2 S. R. Bellarminus, De gemitu columbae, 2, 5, in Opera omnia, Coloniae Agrippinae, Gualtherus, 1617, 7, p. 1604.

3 D'ora in poi i numeri di questa nostra edizione non corrispondono a quelli della Praxis.

4 Cfr. cann. 986. 2 e 213.

5 Iddio ha istituito nella Chiesa l'Ordine, affinché alcuni amministrino agli altri i sacramenti.
6 Se io dico al malvagio: Tu morirai! e tu non lo avverti... egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto
a te.

7 P. G. Gallizia, La vita di S. Francesco di Sales, Venezia Pezzana, 1743, p. 372. Cfr. S. Francois de Sales, Entretiens, 5, in Oeuvres
complètes, Paris, Blaise. 1821, 15, p. 85.

8 Vedere III Aggiunta, A.

9 L'attuale disciplina è così contenuta nel can. 1387: Il sacerdote che, nell'atto o in occasione o con il pretesto della confessione
sacramentale, sollecita il penitente al peccato contro il sesto precetto del Decalogo, a seconda della gravità del delitto, sia punito con la
sospensione, con divieti, privazioni e, nei casi più gravi, sia dimesso dallo stato clericale.

10 S. C. S. OFF. decr. 5 aug. 1745, in Fontes, 795.

11 Dalla sesta edizione della Th. Mor. (1767) il s. Dottore in segnò (l. cit.) che tale inabilità non aveva valore prima della sentenza del
giudice, almeno quando il confessore avesse dovuto astenersi dal celebrare per lungo tempo e con sua infamia.

12 S. Alfonso cambiò parere anche a questo riguardo, asserendo, fino dalla versione latina (Praxis) e dalla terza edizione della Th. Mor.
(1757), essere probabile che questa inabilità non s'incorresse dagli ignoranti. Nella attuale disciplina non esistono pene latae sententiae
contro il confessore sollecitante.

13 Cfr. cann. 528 e 529.


14 Vedere nota 2, n. 60, p 91.

15 Can. 920.

16 Can. 528.

17 Can. 529.

18 Cann. 528, 767, e 768.

19 Can. 282.

20 Cann. 768 e 776.


21 Per poter amministrare la santissima Eucaristia ai fanciulli si richiede che essi posseggano una sufficiente conoscenza e una accurata
preparazione, così da percepire, secondo la loro capacità, il mistero di Cristo ed essere in grado di assumere con fede e devozione il Corpo del
Signore. Tuttavia ai fanciulli che si trovino in pericolo di morte la santissima Eucaristia può essere amministrata se possono distinguere il
Corpo di Cristo dal cibo comune e ricevere con riverenza la comunione. - Can. 913.

È dovere innanzitutto dei genitori e di coloro che ne hanno le veci, come pure dei parroci, provvedere affinché
i fanciulli che hanno raggiunto l'uso di ragione siano debitamente preparati e quanto prima, premessa la
confessione sacramentale, alimentati di questo divino cibo; spetta anche al parroco vigilare che non si
accostino alla sacra Sinassi fanciulli che non hanno raggiunto l'uso di ragione o avrà giudicati non
sufficientemente disposti. - Can. 914.

22 S. Carlo Borromeo, Avvertenze ai curati della Città e Diocesi sua, per amministrare il Santissimo Sacramento dell'Eucaristia, in Acta
Ecclesiae Mediolanensis, Mediolani, Pontius, 1599, p. 718.

23 I principali doveri del Vescovo sono indicati nel nuovo Codice ai cann. 382-400. Quanto al giudizio su coloro che debbono essere ammessi
ai sacri Ordini, cfr. cann. 1025-1052.

24 Praxis, 54: circa vota, praesertim paupertatis.

25 Sono vincolati all'obbligo di celebrare la liturgia delle ore... a norma delle proprie costituzioni... i membri degli istituti di vita consacrata.
Can. 1174. 1. Sarà quindi necessario vedere quali siano le prescrizioni delle proprie costituzioni.

26 Praxis, 54: respectu aliorum (cioè: per gli altri). Qui s. A. cita: A. Diana, Resolutiones morales, p. 5, tr. 7, resol. 21 e 22, ma ivi non è
trattato quest'argomento (Ediz. di Lione, 1650).

27 Praxis, 54, ha: advertendo quod, licet particulares moniales peccent leviter levem regulam transgrediendo, superiores tamen quae non
curant impedire, cum possint, observantiae relaxationem, peccant in re gravi. (Avvertendo che, quantunque le singole monache pecchino
venialmente, trasgredendo una lieve regola, le superiore che non cercano d'impedire, potendolo, il rilassamento della osservanza regolare,
peccano in cosa grave).

28 Notaio.
29 Praxis, 57: An satis fuerit versatus in studio medicinae et in praxi medendi (Se sia sufficientemente dotto nella medicina e nella pratica
della medesima).

30 Praxis, 57: An alicui impertierit licentiam edendi carnes ob merum humanum respectum sine iusta causa (Se ha dato licenza a qualcuno
di mangiar carne per puro rispetto umano, senza giusta causa).

31 J. Trullench, Opus morale, Barcinonae, 1701, 1, 4, 1, 11. 6.


32 Innocentius III, Concilium Lateranense IV (1215), 22, in J. D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, Venetiis, Zatta,
1778, 22, p. 1010.

33 S. Pius V, const. Supra gregem dominicum, 8 martii 1566, in Bullarium, 4-2, p. 281; cfr. L. Pastor, Storia dei Papi, Vers. it., Roma,
Desclée, 1910 - 1934, 8, p. 62. Tanto questa costituzione quanto il decreto del conc. lateranense non obbligano più.

34 Farmacista.

35 Cfr. can. 1398. Quanto all'imposizione della punizione e ai complici, cfr. cann. 695, 1323-1324, e 1329. 2. (A. M.).

36 Praxis, 58, aggiunge: "Hic adde, Gregorium XIII, in constitutione 29 Cum officio pastorali omnem vetuisse societatem pharmacopolas
inter et medicos aut chirurgos". (Qui aggiungi che Gregorio XIII nella costituzione 29 Cum officio pastorali vietò ogni associazione tra
farmacisti e medici e chirurghi). La costituzione predetta, emanata il 1 luglio 1575 (Bullarium Mainardi, 4-3, p. 303, §13), aveva valore solo
per Roma.

37 Praxis, 60, aggiunge: "O fosse (occasione prossima di peccato) derivante dall'aggiustare (o prendere le misure) le vesti delle donne, il che
non si può fare senza toccarle e ciò fosse per il sarto occasione prossima di cadere in cattivi piaceri o desideri". (Tradotto dal latino).

38 Praxis, 62, ha, meno bene: "viris" (agli uomini).

39 Traduzione: Se la vedano loro stesse e i loro confessori. — A. M.

40 Praxis, 62, ha: "eis imponat, ne utantur viro aliquo iuniori, ex cuius actionibus perceperint, eum malitiose se gerere" (imponga ad esse di
non servirsi di qualche giovane dal cui modo di agire abbiano capito che egli agiva con malizia).

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CAPITOLO IV - COME DEBBA PORTARSI IL CONFESSORE CON COLORO CHE SI
RITROVANO IN OCCASIONE PROSSIMA DI PECCATO

59. La massima parte della buona direzione de' confessori affin di salvare i loro penitenti consiste nel ben
regolarsi con coloro che son nell'occasione di peccare o pure che sono abituati o recidivi. E questi sono i due
scogli (occasionari e recidivi) dove la maggior parte de' confessori urtano e mancano al lor dovere. Nel capitolo
seguente parleremo degli abituati e recidivi; ora parliamo di coloro che stanno nell'occasione.

È certo che se gli uomini attendessero a fuggire le occasioni, si eviterebbe la maggior parte de' peccati. Il
demonio senza l'occasione poco guadagna, ma quando l'uomo volontariamente si mette nell'occasione
prossima, per lo più e quasi sempre il nemico vince. L'occasione, specialmente in materia di piaceri sensuali, è
come una rete che tira al peccato ed insieme accieca la mente, sì che l'uomo fa il male senza quasi vedere quel
che fa. Ma veniamo alla pratica.

L'occasione primieramente si divide in volontaria e necessaria. La volontaria è quella che facilmente può
fuggirsi; la necessaria quella che non può evitarsi senza danno grave o senza scandalo.

Per secondo, si divide in prossima e rimota. La rimota è quella in cui l'uomo di rado pecca, o pure quella che da
per tutto si ritrova. La prossima parlando per sé è

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quella nella quale gli uomini comunemente per lo più cadono: la prossima poi per accidens ossia rispettiva è
quella che, sebbene a riguardo degli altri non è prossima, per1 non esser atta di sua natura ad indurre
comunemente gli uomini al peccato, però a rispetto d'alcuno è prossima, o perché quegli in tale occasione
frequentemente è caduto, o perché prudentemente può temersi che cada per la sperienza avuta della sua
fragilità. Alcuni dottori vogliono che non sia occasione prossima se non quella in cui l'uomo quasi sempre o per
lo più sia caduto; ma la più commune e più vera sentenza vuole che l'occasione prossima sia quella nella quale
alcuno frequentemente è caduto (6, 452).

Ma in ciò bisogna ben avvertire ciò che poc'anzi si è detto dell'occasione rispettiva, che conforme alle volte
l'occasione che a rispetto d'altri comunemente è prossima, a rispetto poi d'alcuno molto pio e cauto può esser
rimota (Ibidem), così al contrario certe occasioni che per gli altri comunemente sarebbero per sé rimote, saranno
forse prossime per alcuno il quale, per le tante ricadute fatte e per l'inclinazione a qualche vizio (specialmente
s'è disonesto), si sarà renduto molto debole e facile a cadere; onde costui sarà obbligato a fuggire non solo le
occasioni prossime, ma anche quelle rimote che per lui son prossime.

60. Del resto, è certamente nell'occasione prossima: 1. quegli che ritiene in casa propria qualche donna con

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cui spesse volte è stato solito peccare; 2. quegli che frequentemente nel giuoco è caduto in bestemmie o frodi;
3. quegli che in qualche osteria o casa è stato solito cadere in ubbriachezza o risse o atti o parole o pensieri
osceni.

Or tutti questi tali non possono esser assolti, se non dopo che han tolta l'occasione, o almeno se non prometton
di toglierla, secondo la distinzione che si farà nel numero seguente. E così parimente non può assolversi alcuno
che, andando a qualche casa, benché una volta l'anno, sempre ivi ha peccato: poiché a costui l'andare colà già è
occasione prossima. Neppure possono essere assolti quelli che, sebbene nell'occasione non peccano, tuttavia
sono di scandalo grave agli altri (6, 452, v. Ex praemissis). Aggiungono alcuni dd. e non senza ragione, doversi
anche negare l'assoluzione a chi non lascia l'occasione esterna, quando v'è congiunta un'abitudine viziosa o pure
una gran tentazione o sia una veemente passione, sebbene sino allora non v'abbia peccato; poiché facilmente
appresso vi può cadere, se non si allontana dall'occasione. Onde dicono che, se mai una serva fosse molto
tentata dal padrone, ed ella si conoscesse facile a poter cadere, è tenuta a partirsi da quella casa, se liberamente
può farlo; altrimenti è temerità lo stimarsi sicura.

E qui avvertano i confessori a non permettere agli sposi2 l'andare in casa della sposa, né alle spose o a'

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loro genitori l'ammettere gli sposi in casa; perché di rado succede che tali sposi non pecchino, almeno con
parole o pensieri, in tale occasione, mentre tutti gli aspetti e colloqui tra gli sposi sono incentivi al peccato, ed è
moralmente impossibile trattare insieme e non sentire gli stimoli a quegli atti turpi che debbono poi succedere
in tempo del matrimonio.

Parlando poi generalmente di coloro che fanno all'amore, è vero che non si debbono indistintamente
condannare di peccato grave, ma, ordinariamente parlando, dico che questi difficilmente son fuori
dell'occasione prossima di peccar mortalmente. Ciò si vede dall'esperienza, poiché di cento appena se ne
troveranno due o tre esenti da peccati gravi: e se non al principio, almeno nel progresso; mentre tali
amoreggianti prima discorrono per

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genio, indi il genio si fa passione, e la passione, radicata ch'è nel cuore, accieca e fa precipitare in mille colpe.
Onde il gran cardinale Pico della Mirandola3, vescovo albanese, nella sua diocesi avvertì per editto i suoi
confessori a non assolvere questi amoreggianti, se, dopo essere stati ammoniti da altri per tre volte, non si
fossero corretti da far all'amore, specialmente di notte, o per lungo tempo, o occultamente, o dentro le case, col
pericolo facile di baci e toccamenti, o contro il precetto de' genitori, o quando l'altra parte prorompe in parole
oscene, o con iscandalo, come se amoreggiassero in chiesa o con coniugati o claustrali o chierici in sacris.

Ed in ciò è bene generalmente avvertire che, dove si tratta di pericolo di peccati formali e precisamente di
peccati turpi, il confessore quanto maggior rigore userà col penitente, tanto maggiormente gioverà alla di lui
salvezza: ed al contrario tanto più sarà crudele col suo penitente, quando più sarà benigno in permettergli di
porsi nell'occasione, S. Tommaso da Villanova chiama i confessori in ciò condescendenti impie pios.4 Una tale
carità è contro la carità. In questi casi sogliono i penitenti rappresentare al confessore che, rimovendo
l'occasione, ne nascerà un grande scandalo: stia forte il confessore a non far conto di tali scandali; sempre sarà
più scandalo il vedere il penitente neppure dopo la confessione toglier l'occasione. O gli altri ignorano il suo
peccato, ed allora non faranno alcun sospetto di male; o lo sanno, ed allora piuttosto

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il penitente ricupererà la fama che la perderà con toglier l'occasione.

61. Dicono molti dd. che la prima o seconda volta ben può assolversi alcuno che sia nell'occasione prossima,
benché volontaria, anche prima di togliere l'occasione, purché abbia fermo proposito di subito rimoverla. Ma
qui bisogna distinguere con s. Carlo Borromeo (nell'Istruzione data a' suoi confessori)5 le occasioni che sono in
essere, come quando alcuno tiene la concubina in casa, o quando una serva cade tentata dal suo padrone ed in
casi simili, da quelle che non sono in essere, come chi nel giuoco cade in bestemmie, nelle bettole in risse ed
ubbriachezze, nelle conversazioni in parole o pensieri disonesti, ecc. In queste occasioni di seconda sorta, che
non sono in essere, dice s. Carlo, che quando il penitente promette risolutamente di lasciarle, può assolversi per
due ed anche tre volte; che se poi non si emenda, deve differirglisi l'assoluzione sino che in effetto si scorga
aver egli tolta l'occasione. Nell'altre occasioni poi di prima fatta, che sono in essere, dice il Santo che 'l
penitente non deve assolversi, se prima non ha tolta affatto l'occasione, e non basta che lo prometta. E questa
sentenza io ho tenuta e tengo per certa, ordinariamente parlando, e credo di averla chiaramente provata nel
Libro (6, 454).6 La ragione

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si è, perché un tal penitente è indisposto per l'assoluzione, se vuol egli riceverla prima di toglier l'occasione:
poiché, così facendo, si mette nel pericolo prossimo di rompere il proposito fatto di rimoverla e di non adempire
all'obbligo stretto che ha di toglier l'occasione. È certo che pecca mortalmente chi sta nell'occasione prossima
volontaria di peccato mortale e non la toglie: or'essendo quest'opera di toglier l'occasione una cosa molto
difficile che non si eseguisce se non per mezzo d'una gran violenza, questa violenza difficilmente se la farà chi
già ha ricevuta l'assoluzione; mentre, tolto il timore di non esser assolto, facilmente si lusingherà di poter
resistere alla tentazione senza rimover l'occasione: e così, restando in quella, certamente tornerà a cadere, come
si vede tutto giorno colla sperienza di tanti miserabili, ch'essendo assolti da' confessori poco accorti, non tolgon
poi l'occasione e ricadono peggio di prima. Ond'è che, per ragione del suddetto pericolo di rompere il proposito,
pecca gravemente quel penitente che riceve l'assoluzione prima di rimover l'occasione, e maggiormente pecca il
confessore che gliela dà7.

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62. Ho detto ordinariamente parlando, poiché n'eccettuano per prima i dd. (6, 454, v. Dixi tamen) il caso in cui
dimostrasse il penitente tali segni straordinari di dolore per cui potesse giudicarsi prudentemente non esser più
in lui prossimo il pericolo di rompere il proposito di togliere l'occasione; mentre allora quelli segni indicano che
'l penitente ha ricevuta una grazia più abbondante, colla quale può sperarsi che sarà costante in rimover
l'occasione. Con tutto ciò, sempre che la assoluzione potesse comodamente differirsi, io anche in tal caso ce la
differirei sino che in fatti tolga l'occasione.

Se n'eccettua per 2. il caso in cui il penitente non possa più tornare, o pure se non dopo molto tempo: allora ben
può assolversi se si vede ben disposto col proposito di toglier subito l'occasione; perché in tal caso il pericolo di
rompere il proposito si reputa rimoto, per ragione del gran peso che dovrebbe soffrire il penitente, partendo
senza l'assoluzione, o di ripeter la sua confessione ad altro sacerdote, o pure di star tanto tempo senza la grazia
del sagramento: sicché stando egli allora in una moral necessità di ricever l'assoluzione prima di togliere
l'occasione, ha egli ragione ad esser subito assolto (6, 154, v. Excipiendus 2.); poiché, non potendo costui
toglier l'occasione prima dell'assoluzione, si reputa come stesse in occasione necessaria. Ma ciò neppure deve
ammettersi, se 'l penitente è stato già da altro confessore ammonito a levar l'occasione e non l'ha fatto; perché
allora si ha come

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recidivo, e perciò non può essere assolto, se non apportasse segni straordinari di dolore, come diremo nel
capitolo seguente.

63. Ciò è in quanto all'occasione prossima volontaria; ma se l'occasione è necessaria o fisicamente, come se
alcuno stesse in carcere o pure in punto di morte, in cui non avesse tempo e modo di discacciare l'amica, o
moralmente, cioè se l'occasione non potesse torsi senza scandalo o grave suo danno, di vita, di fama o beni di
fortuna, come comunemente insegnano i dd. (6, 455), in tal caso ben può essere assolto il penitente senza
togliere l'occasione, perché allora non è obbligato a rimoverla, purché prometta di eseguire i mezzi necessari a
far che l'occasione da prossima diventi rimota8, come sono specialmente nell'occasione di peccato turpe il
fuggire la familiarità ed anche l'aspetto, quanto si può, del complice, il frequentare i sagramenti e lo spesso
raccomandarsi a Dio, con rinnovare ogni giorno (precisamente la mattina) innanzi l'immagine del Crocifisso la
promessa di non più peccare e di evitare l'occasione quanto è possibile. La ragione si è perché l'occasione di
peccare non è propriamente peccato in se stessa né induce necessità di peccare; onde ben può consistere
coll'occasione un vero pentimento e proposito di non ricadere. E sebbene ognuno è tenuto a togliersi dal
prossimo pericolo di peccare, ciò s'intende quando l'occasione è moralmente necessaria, allora il pericolo per
mezzo de' rimedi opportuni diventa rimoto,

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e Dio allora non manca di assistere colla sua grazia a chi veramente è risoluto di non più offenderlo. Non dice la
Scrittura che perirà chi sta nel pericolo, ma chi ama il pericolo9; ma non può dirsi che ami il pericolo chi a
questo soggiace contro sua voglia; onde disse S. Basilio10: Qui, urgenti aliqua causa et necessitate, se periculo
obiicit vel permittit se esse in illo, cum tamen alias nollet, non tam dicitur amare periculum quam invitus
subire; et ideo providebit Deus ne in illo pereat11. 64. E da ciò dicono i dd. che ben son capaci d'assoluzione
quelli che non vogliono lasciare qualche officio, negozio o casa in cui han soluto peccare, perché non possono
lasciarla senza grave danno, sempreché son veramente risoluti d'emendarsi e di prendere i mezzi per la emenda;
tali sono per esempio i cerusici, che in medicar le donne, o i parroci, che in sentir le loro confessioni son caduti
in peccati, se lasciando quest'impieghi non potessero vivere secondo il loro12 stato (6, 455, in fine).

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Ma tutti convengono essere conveniente in questi e simili casi il differir l'assoluzione affinché il penitente sia
almeno più attento a praticare i rimedi prescritti. Ma io stimo che 'l confessore non solo può, ma è tenuto a far
ciò, sempreché13 può farlo comodamente, specialmente quando si tratta di materia turpe, poich'egli è obbligato,
come medico dell'anime, ad applicare loro i rimedi più14 opportuni; e ritengo non esservi rimedio più atto a chi
sta nell'occasione prossima che differirgli l'assoluzione, essendo troppo nota l'esperienza di tanti che dopo
l'assoluzione trascurano i mezzi assegnati, e così facilmente ricadono; dove al contrario, quando ad alcuno vien
differita l'assoluzione, egli sarà più vigilante ad eseguire i mezzi ed a resistere alle tentazioni per lo timore di
esser mandato di nuovo senz'assoluzione per quando tornerà al confessore.

Forse in ciò alcuno mi stimerà troppo rigido, ma io sempre ho cosi praticato e seguirò a praticare con coloro che
stanno in occasione prossima, benché necessaria, e benché avessero segni straordinari di dolore, sempreché non
avessi special obbligo di subito assolverli; e così stimo di molto più giovare alla salvezza de' penitenti. Oh
volesse Dio che da tutti si praticasse così! quanti meno peccati si commetterebbero, e quante più anime si
salverebbero!

Io torno a dire che, dove si tratta di liberare i penitenti dal peccato formale, deve il confessore avvalersi delle
opinioni più benigne, per quanto concede la cristiana

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prudenza15; ma dove le opinioni benigne fan più vicino il pericolo del peccato formale, come appunto avviene
in questa materia delle occasioni prossime, dico essere onninamente conveniente e per lo più16 necessario che 'l
confessore si avvaglia delle sentenze più rigide; poiché queste più giovano allora alla salvezza delle anime.

Che se poi alcuno, stando nell'occasione necessaria, sempre ricadesse dello stesso modo con tutt'i rimedi
eseguiti e con poca speranza d'emenda, dico allora doversi a costui in ogni conto negar l'assoluzione, se non
toglie prima l'occasione (6, 457). E qui giudico ch'entri già il precetto del Vangelo: Si oculus tuus scandalizat
te, eice eum17 (Marc. 9, 46). Eccettoché se 'l penitente dimostrasse segni di tal dolore straordinario, che facesse
apparire prudente speranza d'emenda (6, 457, in fine).

1 Praxis, 63, non traduce: per non esser atta... al peccato.


2 S. A. giudicava, per il suo tempo, che gli amoreggiamenti fossero occasione prossima volontaria; cfr. Th. Mor. 6, 462 (IV, pag. 459); F. Ter
Haar, De occasionariis et recidivis, Taurini-Romae, Marietti, 1932, 20-27. — L'Arcivescovo Sant'Antonio M. Claret (1807-1870) elogiava i
genitori di una coppia che si preparava per il matrimonio e la coppia stessa, dove la coppia è riuscita senza fare la corte, a conoscersi
abbastanza per potere scegliersi prudentemente per il matrimonio. Dichiarava che nel prepararsi "gli ottimi e unici mezzi per assicurarsi in
questo affare sono la vita santa, la preghiera, e il consiglio. Tuttavia, lui aggiunge, se vogliono sposarsi, si può tollerare di fare la corte per
qualche tempo, ma non per più di sei mesi... Se il corteggiamento è durato già un anno o più, allora, quantunque vogliano sposarsi, non si
deve permettere più di corteggiarsi insieme; perché avranno peccato durante tanto tempo in pensiero, parole, o azioni, oppure non andrà
molto a lungo che si troveranno nella condizione di peccare, perché è già un peccato rischiare di mettersi in una prossima occasione (o in un
probabile pericolo) di peccare". —Il Santo indica chiaramente che in questo periodo di appuntamenti o corteggiamento ("tratarse"), che
tollera, gl'incontri devono essere regolati ed accompagnati (o sospesi, se altrimenti risulterebbe probabilmente peccato), in tal modo che gli
interessati possono essere certi di non essere negligenti nel loro dovere di restare sempre nella grazia di Dio. (Llave de oro, pp 663-665,
un'appendice del Prontuario scritta dal Santo). Vedere V Aggiunta (A. M.).

3 Non ho potuto rintracciare questo editto.

4 S. Tommaso da Villanova, o. cit.. p. 174.


5 In Acta Ecclesiae Mediolanensis, cit., p. 767.

6 Presentando la stessa dottrina nella Selva (II, ist. 4, n. 15), S. Alfonso dice che i casi eccettuati "son rarissimi: onde difficilmente posson
mai assolversi coloro che stanno nell'occasione prossima (che è in essere) se prima non la rimuovono; e tanto più poi se il penitente avesse
promesso altre volte di toglier l'occasione e non l'avesse adempito. Né vale il dire che il penitente disposto ha stretto ius a ricever
l'assoluzione dopo la confessione". Non è disposto nel senso del can. 980 anche se abbia 1' attrizione, se vera è (come io credo) l'opinione di
S. Alfonso che non è in grado a lungo andare di trarre profitto dall'assoluzione a questo momento. Il confessore dunque, "come medico
spirituale è tenuto a differirgliela, quando ciò conosce spediente [conveniente] all'emenda [correzione] del suo penitente". (Ibidem.) Quanto
al nuovo can. 980, vedere VIII Aggiunta, C, p. 60. —A. M.

7 Parla di peccati oggettivamente gravi, cioè se il penitente ha la coscienza illuminata della situazione. S. Antonio Claret (Prontuario p. 141)
indica che se il penitente non insiste nell'assoluzione, il suo accettare l'assoluzione non sarebbe sempre formalmente mortale. —A. M.

8 Vedere V Aggiunta, E. —A. M.


9 Chi ama il pericolo in esso si perderà (Sir. 3, 25).

10 Il testo qui citato non è di s. Basilio, ma forse d'un suo commentatore nelle Constitutiones monasticae, cap. 5 (Cfr. MLG 31, col. 1359).

11 Chi nell'urgenza di qualche causa o necessità si espone al pericolo e permette di rimanervi, mentre in altre circostanze non lo vorrebbe,
non può dirsi che ami il pericolo, ma piuttosto che lo subisca e perciò Iddio provvederà affinché non vi perisca.

12 Qui "il loro stato" può essere inteso sia in senso largo di vocazione (es. consacrato o coniugato) così come viene inteso nella nota 4, n.
79; sia in senso stretto di condizione di vita (es. nobile o plebeo operaio o professionista, vescovo o semplice parroco).

13 Quanto al Catechismo Tridentino, vedere VIII Aggiunta, B.

14 Istruzione e pratica (c. ult. 7) omette questo importante avverbio.


15 Questo si riferisce al sistema morale del Santo per risolvere dubbi circa la liceità di un certo comportamento. Secondo esso, dopo aver
diligentemente cercato la verità, dobbiamo seguire la soluzione che, nel nostro giudizio, è più probabilmente o più presumibilmente secondo
la divina sapienza. (Istruz. e pratica 1, 12-15. 31-32. 40; Th. M 1, 26.) Vedi XI Aggiunta (A. M.).

16 Praxis 69: quandoque (di tanto in tanto).

17 E se l occhio ti è occasione di scandalo, cavatelo.


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CAPITOLO V - COME DEBBA PORTARSI IL CONFESSORE COGLI ABITUATI E RECIDIVI

65. Bisogna distinguere gli abituati da' recidivi.

Gli abituati son quelli che han contratto l'abitudine in qualche vizio, del quale non ancora si son confessati. Or
questi, come dicono i dottori (6, 459), ben possono assolversi la prima volta che si confessano della
mal'abitudine, o pure, quando se ne confessano dopo averla ritrattata; purché sian disposti con un vero dolore e
con un proposito risoluto di prendere i mezzi efficaci per emendarsi; ma quando l'abitudine fosse molto
radicata, può benanche il confessore differire l'assoluzione,1 per fare esperienza come si porta il penitente nel
praticare i mezzi assegnati ed affinché prenda egli più orrore al suo vizio.

Avvertasi che cinque volte il mese può già costituire la mal'abitudine in qualche vizio di peccati esterni, purché
tra loro vi sia qualche intervallo. Ed in materia di fornicazioni, sodomie e bestialità molto minor numero può
costituire l'abitudine: chi per esempio fornicasse una volta il mese per un anno, ben questi deve dirsi abituato.

I recidivi al contrario son quelli che dopo la confessione son ricaduti nella stessa o quasi stessa maniera senza
emenda.2 Questi, come comunemente s'insegna (6,

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459, v. Recidivus) non possono essere assolti coi segni ordinari, cioè col solo confessarsi e dire che si pentono e
propongono, come si ha dalla proposizione 60 condannata da Innocenzo XI3. Poiché l'abitudine fatta e le
ricadute passate senza alcuna emenda danno gran sospetto che il dolore e 'l proposito che 'l penitente asserisce
avere non siano veri. Onde a costoro si deve differir l'assoluzione per qualche tempo, sino che si scorga qualche
prudente segno d'emenda. Ed in questo punto è cosa da piangere il vedere la gran ruina che cagionano tanti mali
confessori nell'assolvere indistintamente questi recidivi i quali, vedendosi così sempre facilmente assolti,
perdono l'orrore al peccato e seguitano a marcire nelle male abitudini sino alla morte.

Alcuni dottori ammettono che 'l recidivo ben può assolversi con i segni ordinari sino alla terza e quarta volta,
ma a questa opinione io non ho potuto mai accordarmi,

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mentre l'abituato ch'è ricaduto dopo una sola confessione senza emenda già è vero recidivo e dà sospetto
fondato della sua indisposizione.

E notisi qui che questa regola corre anche per li peccati veniali, poiché sebbene comunemente si ammette che
più facilmente possono assolversi quei che ricadono negli stessi peccati veniali, per esservene l'occasioni più
frequenti, tuttavia, essendo comune la sentenza (6, 449, v. Sed dubitatur 1.) che sia peccato grave e sacrilegio il
confessarsi di colpe leggiere senza vero dolore e proposito, né bastando4 il dolersi della moltitudine o sia
numero eccessivo di tali colpe senza dolersi d'alcuna in particolare, come abbiamo ritenuto (Ibid. Dubitatur 2.)
contro l'opinione d'alcuni, deve facilmente temersi che tali confessioni siano sacrileghe o almeno invalide5.
Onde avverta il confessore a non assolvere indistintamente tali penitenti, mentre allora, sebbene quelli stiano in
buona fede, egli però non sarà scusato dal sacrilegio, dando l'assoluzione a chi non è disposto. Procuri pertanto,
se vuole assolverlo, o di disporre il penitente a dolersi specialmente di qualche colpa veniale, a cui tenga più
orrore, o pure di fargli dire qualche peccato della vita passata contro
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qualche virtù (basta che lo dica in generale)6, per aver la materia certa su cui possa appoggiare l'assoluzione;
altrimenti anche a costui bisogna differir l'assoluzione per qualche tempo.

Dico per qualche tempo, poiché tanto a' recidivi di colpe leggiere, quanto di colpe gravi, non è necessaria la
dilazione di anni o mesi, come troppo rigidamente vuole il Giovenino7, ma basterà regolarmente, se il peccato
nasce da fragilità intrinseca, il tempo di otto o dieci giorni, come dice il dotto Autore dell'Istruzione per li
novelli confessori, stampata in Roma8; e lo stesso scrive l'Autore dell'Istruzione per li confessori di terre e
villaggi9, dove cita per questa dottrina Ludovico Habert10. E soggiungono i suddetti autori essere eccessiva e
pericolosa la dilazione d'un mese, perché dopo tanto tempo è difficile che tornino tali penitenti; ed a questo
sentimento favorisce Benedetto XIV11 il quale parlando de' confessori che giustamente differiscono
l'assoluzione a' penitenti, così poi li esorta: Illos quantocius ut revertantur invitent…

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ut, sacramentale forum regressi, absolutionis beneficio donentur12. Al sommo (io dico) può differirsi a costoro
l'assoluzione per quindici o venti giorni; ma bisogna eccettuarne coloro che si confessano in tempo del precetto
pasquale, mentre a costoro bisogna l'esperienza di maggior tempo che di 8 o 10 giorni, potendosi giustamente
sospettare che questi si astengano dal ricadere più per rispetto di non incorrere nella censura13 che per vera
risoluzione di mutar vita. Bisogna anche eccettuarne coloro che cadono per occasione prossima estrinseca,
poiché questi abbisognano di maggior esperienza, essendo l'occasione (come s'è detto nel capitolo precedente)
un incentivo più forte al peccato. Tuttavia sempre basterà l'esperienza d'un mese; ma il confessore non dica al
penitente che si trattenga un mese a ritornare, perché questi si spaventerà a sentir tanta dilazione: dica che torni
fra otto o al più fra quindici giorni, e così con bel modo lo trasporterà a ricever l'assoluzione in fine del mese.

66. Sicché per assolvere i recidivi non bastano i segni ordinari, ma vi bisognano gli straordinari di dolore e di
proposito: i quali segni al contrario, secondo la comune (6, 459, v. Recidivus), son certamente sufficienti a dar

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l'assoluzione; poiché il segno straordinario (purché sia solido e fondato) toglie il sospetto dell'indisposizione
cagionato dalle ricadute.

Ben dissero i vescovi della Fiandra congregati nello anno 1697 in un decreto fatto per la direzione de'
confessori delle loro diocesi, parlando di questo punto: Deum in conversione peccatoris non tam considerare
mensuram temporis quam doloris14. Onde proibirono a' confessori l'esigere per legge stabile da' penitenti anche
recidivi l'esperienza di tempo notabile prima di dar loro l'assoluzione. E con ragione, poiché non è l'unico segno
della volontà mutata la sola pruova del tempo, mentre la volontà del peccatore si muta per virtù della grazia
divina, la quale non ricerca tempo, ma opera alle volte in un istante; perlocché la mutazione della volontà ben
può conoscersi per altri segni senza l'esperienza del tempo. Anzi gli altri segni della disposizione attuale del
penitente tal volta manifestano la mutazione della sua volontà molto meglio che la pruova del tempo: poiché
tali segni dimostrano direttamente la disposizione, dove che l'esperienza la dimostra solo indirettamente,
accadendo non di rado che alcuno siasi per lungo tempo astenuto dal peccare, e con tutto ciò sia ancora
indisposto.

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Onde dice l'Autore mentovato dell'Istruzione per li novelli confessori15: Se la ricaduta nasce dalla propria
fragilità, senz'altra causa estrinseca volontaria, è quasi temerità il dire che ogni ricaduto sia indisposto. Ed
altrove16 dice che 'l ricaduto per forza della mal'abitudine deve assolversi sempreché dimostra ferma volontà di
usare i mezzi per emendarsi, aggiungendo: E giudichiamo che 'l fare altrimenti sia troppo rigore, e che 'l
confessore, facendolo, s'allontanerebbe dallo spirito della Chiesa… e del Signore… e dalla natura del
sagramento, il quale non solamente è giudizio, ma è medicina… salutare.

67. Diversi poi sono questi segni, come insegnano i dd. (6, 460): I. Maggior dolore manifestato per lagrime
(purché siano di vera compunzione) o per parole ch'escano dal cuore, le quali alle volte ben possono essere
segni più certi che le lagrime17. II. Il numero diminuito de' peccati (s'intende quando il penitente si è trovato
nelle stesse occasioni e tentazioni di peccare); o pure se 'l penitente dopo l'ultima

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confessione si è mantenuto in grazia molto tempo, per esempio 20 in 30 giorni, dove prima solea cadere più
volte la settimana, o pure se fosse caduto dopo un gran contrasto colla tentazione o pure se prima di venire al
confessarsi, per lungo tempo si fosse astenuto dal peccato mortale abituato.

III. La diligenza usata per l'emenda, come sarebbe se 'l penitente ha fuggita l'occasione, se ha adempiuti i mezzi
prescritti dal confessore; ovvero ha fatti digiuni, limosine, orazioni, ha fatto dir Messe per farsi una buona
confessione18. IV. Se egli cerca allora rimedi o nuovi mezzi per emendarsi, o se promette di adempire i mezzi
che allora gli dà il confessore, massimamente se non è stato mai avvertito dagli altri a prenderli; ma a queste
promesse di rado può aversi tanta fede che basti, se non vi è qualche

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altro segno, mentre i penitenti, per aver l'assoluzione, facilmente promettono, ma difficilmente poi l'attendono.

V. La confessione spontanea, cioè se 'l penitente viene, non già a soddisfare al precetto pasquale, né per certo
pio uso di confessarsi in alcune feste, come di Natale, della Beata Vergine e simili; né viene spinto da' genitori
o dal padrone o dal maestro, ma viene affatto volontariamente e veramente inspirato da lume divino a solo fine
di ricevere la divina grazia; specialmente se per confessarsi ha fatto un lungo viaggio o si è astenuto da un lucro
notabile o ha sopportato un grande incomodo o ha superato un gran contrasto interno o esterno.

VI. S'è venuto spinto da qualche straordinario impulso, come per aver udita la predica o la morte di qualche
paesano o per timore di qualche flagello imminente, terremoto, peste, ecc.19.

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VII. Se si confessa di peccati gravi lasciati per vergogna nelle altre confessioni.

VIII. Se per l'ammonizione del confessore manifesta di avere appresa una nuova cognizione ed orrore del suo
peccato o del pericolo di sua dannazione.

IX. Se il penitente prima di confessarsi avesse restituita la roba o fama tolta.

Altri aggiungono altri segni: come se 'l penitente accetta volentieri una gran penitenza; se asserisce essersi
subito pentito dopo aver fatto il peccato; se si protesta di voler morire piuttosto che peccare. Ma questi segni
non so se possono bastare soli; piuttosto dico che potrebbero servire ad aiutare altri segni i quali soli non
basterebbero.

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68. In somma, sempreché v'è qualche segno per cui possa prudentemente giudicarsi che la volontà del penitente
siasi mutata, ben può essere assolto: poiché sebbene il confessore per assolverlo dev'essere moralmente certo
della sua disposizione, tuttavia si ha da avvertire che negli altri sagramenti, dove la materia è fisica, fisica
dev'essere anche la certezza; ma in questo sagramento della penitenza, essendo la materia morale, come sono
gli atti del penitente, basta la certezza morale o sia rispettiva, come si è provato, cioè basta che 'l confessore
abbia una prudente probabilità della disposizione del penitente senz'alcun prudente sospetto in contrario20;
altrimenti difficilmente mai potrebbesi alcun peccatore assolvere, poiché tutti i segni de' penitenti altro non
fondano che una probabilità della loro disposizione.

Non ricercasi altro (dice l'Autore dell'Istruz. per li nov. conf.)21… per amministrare la Penitenza, che un
giudizio prudente e probabile della disposizione del penitente… onde… se le circostanze… non fondano un
dubbio prudente ch'egli non sia sufficientemente disposto, non deve il confessore inquietare se stesso né il
penitente per averne l'evidenza che non è possibile (part. I, n. 360).

Si avverta circa la mal'abitudine che più facilmente possono assolversi i recidivi nelle bestemmie che negli altri
peccati di odi, disonestà e furti, a' quali l'abitudine più radicalmente si attacca per ragione della maggior
concupiscenza che vi interviene.

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S'è detto che 'l confessore può dar l'assoluzione allo abituato e recidivo quando è disposto col segno
straordinario; ma non si dice che sia obbligato, perché può ancora differirgliela, quando lo stima conveniente,
come comunemente s'insegna (6, 462); poiché sebbene il penitente ha jus all'assoluzione dopo la confessione
fatta de' suoi peccati, tuttavia non ha jus di essere subito assolto, mentre il confessore come medico ben può,
anzi alle volte è tenuto a differir l'assoluzione, quando giudica esser tal rimedio necessariamente utile alla
salvezza del suo penitente22. Se poi sia conveniente di usare ordinariamente questo rimedio o no, senza il
consenso del penitente, è certo che no quando la dilazione può apportare più danno che profitto; e lo stesso
dicesi da' dd. quando dalla dilazione il penitente avesse a patirne qualche nota o pericolo d'infamia (6, 463).
Fuori poi di questi casi, alcuni vogliono esser meglio di differir l'assoluzione a tali recidivi, altri più
comunemente che ciò di rado sia conveniente; e di tal sentimento è stato anche il gran missionario de' nostri
tempi il p. Leonardo da Porto Maurizio nel suo bel Discorso mistico e morale, dato alle stampe in Roma23.
Meglio però è il dire che in tal punto non può stabilirsi regola certa, ma il confessore deve regolarsi secondo le
circostanze occorrenti. Egli si raccomandi a Dio, e secondo si sente ispirato, così faccia. Il mio sentimento è
questo: Dico colla sentenza comunissima de' dd. (Ibid. v. Ut

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autem) che se il penitente è ricaduto per fragilità intrinseca, (come accade ne' peccati d'ira, d'odio, di
bestemmie, di polluzioni o dilettazioni morose), stimo che di rado giovi il differir l'assoluzione al recidivo
quand'è disposto, poiché deve sperarsi che più giovi a costui la grazia del sagramento che la dilazione
dell'assoluzione.

69. Dico; per fragilità intrinseca, perché altrimenti devesi praticare con chi è ricaduto per occasione estrinseca,
benché necessaria: essendoché l'occasione eccita pensieri assai più vivaci, e la presenza dell'oggetto24
commuove molto più i sensi e rende più intenso l'affetto al peccato che non fa la mal'abitudine intrinseca; e
perciò il penitente ha da farsi una gran forza non solo per vincer la tentazione, ma anche per allontanarsi dalla
familiarità e presenza dell'oggetto25 affinché il pericolo da prossimo rendasi rimoto. E tanto più ciò corre se
l'occasione è volontaria e deve affatto togliersi; perché allora chi riceve l'assoluzione prima di toglier
l'occasione, come abbiam dimostrato nel capitolo precedente al n. 64, sta in gran pericolo di rompere il
proposito di rimoverla.

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Nell'abituato, al contrario, per cagione intrinseca è più rimoto il pericolo di violare il proposito, mentre da una
parte non v'è l'oggetto estrinseco che sì violentemente lo spinga al peccato, e dall'altra a lui non è volontario il
ritenere la sua mal'abitudine26, com'è volontario il non toglier l'occasione27; onde al mal'abituato in tal bisogno
Dio maggiormente soccorre, e perciò più che dal differirgli l'assoluzione può sperarsi l'emenda dalla grazia del
sagramento, che lo renderà più forte e renderà più efficaci i mezzi ch'egli adoprerà per estirpare la
mal'abitudine.

E perché mai, dicono giustamente i Salmaticesi (p. 5, q. 86, a. 5, ed. I)28 si deve maggiormente sperare che ad
un peccatore il quale non ha la grazia giovi la dilazione dell'assoluzione che non giovi ad un amico di Dio
l'assoluzione per cui riceve la grazia? E 'l cardinal Toledo29, parlando precisamente del peccato di mollizie,

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stima egli che per tal vizio non vi è rimedio più efficace che lo esso fortificarsi col sagramento della penitenza;
e soggiunge che questo sagramento è il freno più grande a chi commette tal peccato; e chi non l'usa, dice che
non si prometta l'emenda se non per miracolo. Ed in fatti san Filippo Neri, come si legge nella sua vita,
massimamente di questo mezzo della frequente confessione servivasi a pro' de' recidivi in tal vizio30. A ciò ben
anche conferisce quel che dice il Rituale Romano, trattando della Penitenza: In peccata facile recidentibus
utilissimum erit consulere ut saepe… confiteantur et, si expediat, communicent31. E, dicendo facile
recidentibus, intende certamente parlare di coloro che non ancora hanno estirpato l'abitudine32. Alcuni autori,
che per la sola via del rigore par che vogliano salvare l'anime, dicono che tutt'i recidivi si fanno peggiori
quando sono assolti prima d'emendarsi. Ma io vorrei sapere da questi miei maestri se tutti i recidivi, quando son
licenziati senza l'assoluzione, privi della grazia del sagramento, tutti diventano più forti e tutti si emendano.
Quanti io ne ho conosciuti nel corso delle missioni ch'essendo loro stata negata l'assoluzione, si sono

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abbandonati alla mala vita ed alla disperazione e per molti anni non si sono più confessati?

Del resto, torno a dire, ognuno deve guidarsi in ciò secondo il lume che il Signore gli concede. Questo è certo
che in tal materia tanto errano quelli che più del giusto son facili, che quelli che son difficili ad assolvere. Molti
per la troppa facilità son cagione che tante anime si perdano: e non può negarsi che questi siano in maggior
numero e facciano maggior danno, poiché a costoro si accostano in maggior numero i mali abituati. Ma altri per
lo troppo rigore anche sono di gran danno. E non so se un confessore si debba fare solamente scrupolo quando
assolve gl'indisposti, e non anche quando licenzia i disposti senza assolverli.

Conchiudo qui col dire il mio sentimento in tal punto. Dico in primo luogo e non nego che qualche volta ben
può giovare anche al recidivo disposto il differirgli l'assoluzione. Dico in secondo che sempre gioverà che 'l
confessore l'atterrisca col fargli mostra come non potesse assolverlo. Dico per ultimo che, ordinariamente
parlando, a' recidivi per fragilità intrinseca e disposti per qualche segno straordinario, più gioverà il beneficio
dell'assoluzione che la dilazione.
Volesse Dio che i confessori assolvessero i recidivi solamente allora che portano segni straordinari! Il mal'è che
la maggior parte, per non dire la massima, de' confessori universalmente assolvono i recidivi senza distinzione,
senza segno straordinario, senza ammonirli e senza dar loro almeno qualche rimedio per emendarsi; e da ciò
veramente nasce (non già da assolvere i disposti), la ruina universale di tante anime.

- 117 -

70. Ciò però che si è detto parlando comunemente per gli abituati e recidivi non corre già per gli ordinandi
abituati in qualche vizio (specialmente nel peccato d'impurità) che vogliono ascendere a qualche ordine sacro33;
poiché per costoro corre altra ragione.

Il secolare abituato può essere assolto sempre ch'è disposto per ricevere il sagramento della penitenza: ma
l'ordinando abituato, se egli vuole prender l'ordine sacro, non basta che sia disposto per lo sagramento della
penitenza, ma bisogna che sia anche disposto per ricevere il sagramento dell'ordine, altrimenti non sarà disposto
né per l'uno né per l'altro, mentr'essendo indegno di salir sull'altare colui che appena esce dallo stato di peccato
e non ha la bontà positiva necessaria all'altezza dello stato in cui vuol porsi, egli pecca, se senza questa vuol
prendere l'ordine sacro, sebbene si metta in grazia. Onde allora il confessore non può assolverlo, se non
promette di astenersi dal prender l'ordine, al quale non potrà ascendere se non dopo la prova di molto tempo,
almeno di più mesi34.

- 118 -

Ciò sta pienamente provato nella dissertazione posta nel Libro (6, 63 - 77) colla comune sentenza de' dd. ivi
riferiti, i quali dicono che per ascendere agli ordini sagri non basta la bontà comune, cioè l'essere
semplicemente esente da peccato grave, ma vi bisogna una bontà speciale, per cui sia il soggetto depurato dalle
mal'abitudini, come

- 119 -

insegna s. Tommaso: Sacri ordines praeexigunt sanctitatem… unde pondus ordinum imponendum est
parietibus iam per sanctitatem desiccatis… id est… ab humore vitiorum (2 - 2, q. 189, a. 1, ad 3)35. E la ragione
si è, perché, se l'ordinando non ha questa bontà speciale, è indegno d'esser costituito sopra la plebe ad esercitare
gli altissimi ministeri dell'altare: Sicut illi (parla lo stesso santo Dottore) qui Ordinem suscipiunt super plebem
constituuntur gradu ordinis, ita et superiores sint merito sanctitatis36 (Suppl. q. 35, a. 1, ad 3). Ed in altro luogo
più espressamente assegna la suddetta ragione: Quia per sacrum ordinem aliquis deputatur ad dignissima
ministeria, quibus ipsi Christo servitur in sacramento Altaris, ad quod requiritur major sanctitas interior quam
requirat etiam religionis status37 (2 - 2, q. 184, a. 8, c.).

Non per tanto se n'eccettua il caso quando il Signore desse a taluno una compunzione sì straordinaria che lo
guarisse dalla sua primiera debolezza; poiché, come dice il medesimo Angelico: Quandoque tanta commotione
converti

- 120 -

(Deus) cor hominis ut subito perfecte consequatur sanctitatem spiritualem38 (3, q. 86, a. 5, ad 1).
È vero che tali conversioni son rare, e specialmente negli ordinandi, sebbene vengano a far gli esercizi chiusi in
qualche casa religiosa, perché questi per lo più vengono a forza; ma quando veramente alcuno ricevesse una tal
grazia da Dio (le cui misericordie sono ammirabili) che lo rendesse talmente mutato che sebbene sentisse
ancora qualche moto pravo ne' sensi, tuttavia si ritrovasse con un grande orrore al peccato e si sentisse già
notabilmente diminuito l'ardore della concupiscenza, sì che, avvalorato dalla grazia, facilmente già resistesse
alle tentazioni, e da altra parte stesse fermamente risoluto per l'avvenire non solo di fuggire i peccati e le
occasioni, ma anche di prendere i mezzi più opportuni per vivere da buon sacerdote e già avesse cominciato ad
aiutarsi con pregare istantemente il Signore per la perseveranza, con una grande e tal confidenza in Dio che lo
rendesse moralmente sicuro d'una gran mutazione di vita; in tal caso ben potrebbe assolverlo il confessore,
sebbene volesse prender l'ordine sagro subito dopo la confessione39.

- 121 -

Con tutto ciò, ben anche in tal caso che 'l penitente sia molto compunto, il confessore deve far quanto può per
indurlo a differire la sua ordinazione, affinché così meglio si purghi dalla sua mal'abitudine, e meglio eseguisca
i propositi fatti. Anzi a quest'effetto, se egli non vuol differire di ordinarsi, può ancora il confessore, come
medico, per maggior profitto di esso, differirgli l'assoluzione, affinché il penitente differisca d'ordinarsi; purché
da una tal dilazione non vi fosse pericolo di patirne infamia, perché allora (come si è notato al n. 60) il penitente
ha jus d'esser subito assolto.

Del resto, debbono i confessori esser restii quanto si può in assolvere tal sorta d'ordinandi, che ordinariamente
poi fanno pessima riuscita e sono la ruina de' popoli e della Chiesa.

1 Vedi la nota 5 nel Capitolo I, e la VIII Aggiunta.

2 "Il recidivo... è chi dopo la confessione è ricaduto nello stesso o quasi stesso modo nel peccato abituato". — S. Alfonso, Conf. Diretto, c. 15,
n. 13. —A. M.

3 La proposizione condannata con decr. S. C. S. OFF., 4 mart 1679, almeno come scandalosa e praticamente dannosa è la seguente:
Poenitenti habenti consuetudinem peccandi contra legem Dei naturae aut Ecclesiae, etsi emendationis spes nulla appareat, nec est neganda,
nec differenda absolutio: dummodo ore proferat, se dolere, et proponere emendationem (Al penitente che ha l'abitudine di peccare contro la
legge di Dio, della natura, o della Chiesa, benché non appaia speranza di emendamento, non si deve negare né rinviare l'assoluzione, purché
egli dichiari oralmente che si duole e propone di correggersi). —Fontes, 754; D—S 2160. Nella Th. M. (6, 459) S. Alfonso giudica che in
questa prop. 60 condannata da Inn. XI "non è escluso assolutamente ogni genere di abituato, ma sono esclusi coloro che non danno nessuna
speranza di emendamento. Quindi... l'abituato che dà qualche speranza di emendamento, purché sia solida e fondata, può essere assolto".
Cfr. VIII Aggiunta, specialmente nota 4 (A. M.).

4 Le parole: "né bastando... opinione d'alcuni" furono omesse nell'Istruzione e pratica (c. ult. 9), perché il s. D. dopo la prima edizione della
Pratica cambiò parere, come può rilevarsi dalla Th. M.6, 449, p. 453, Dicunt autem.

5 "Il S. Dottore sosteneva ciò nella prima edizione della Th. M., col. 717; ma nella seconda edizione scrive: „Queste due opinioni sembra si
possano facilmente conciliare, poiché è impossibile pentirsi di una grande quantità (di peccati) e non pentirsi almeno dei più recenti che
formano il cumulo della grande quantità‟ ". (Traduzione di una nota di Gaudé-Blanc in Praxis, 71). (A. M.).

6 Praxis, 71, aggiunge: absque numero (senza il numero).

7 G. Juenin, Commentarius historicus et dogmaticus de Sacramentis, Venetiis, Dorigoni, 1761, diss. 6, qu. 7, c. 4, art. 7, p. 365 (Parla dei
peccati mortali).

8 Giordanini, o. cit. 1, 215, p. 147.

9 Jorio, o. cit. 1, 4, pp. 15-16.


10 L. Habert, Praxis sacramenti poenitentiae, Bassani, Remondini, 1770, 4, p. 249.

11 Benedictus XIV, ep. encycl. Apostolica constitutio, 16 iun 1749, n. 22, in Fontes, 400.
12 Li invitino a ritornare quanto prima... affinché, presentatisi nuovamente al confessionale, ricevano il dono dell'assoluzione. — Praxis, 72,
aggiunge: "nota verba quantocius et donentur" (bada alle parole quanto prima e ricevano).

13 La scomunica esistente in parecchie diocesi contro chi non si accostava alla comunione a Pasqua.
14 Iddio nella conversione del peccatore non bada tanto alla lunghezza del tempo, quanto alla intensità del dolore. —Decreto dei Vescovi del
Belgio, Istruzione pastorale... per l'esecuzione del recente Breve di Sua Santità Innocenzo XII relativa all'amministrazione dei sacramenti,
ecc. 12 aprile 1697.

15 Giordanini, o. cit. 1, 356, p. 238.

16 Id. o. cit. 1, 213, p. 145.

17 Nella Th. M, 6, 460, il S. Dottore descrive questo primo segno più lungamente (tradotto così dal latino): "Il maggior dolore manifestato
con lacrime, sospiri, o parole di cuore.. Dice però Genettus che non spesso bisogna credere alle lacrime dei peccatori infatti spesso le lacrime
provengono da affezione umana. Questo autore invece di non spesso avrebbe detto meglio non sempre; infatti davvero,... specialmente nelle
donne e nei rozzi, non sempre sono segni di vera penitenza; a volte infatti provengono da qualche passione che i penitenti espongono; o per
la negazione dell'assoluzione, o per un danno subìto o imminente. Del resto le lacrime dei penitenti per lo più vengono dalla compunzione del
cuore, specialmente se scorrono dopo aver udito un discorso o un'ammonizione del confessore che offre loro qualche motivo di compunzione
o di dolore. Perciò S. Leone così insegna: Nel dispensare i doni di Dio non dobbiamo essere difficili né dobbiamo trascurare le lacrime e i
gemiti dei penitenti, perché dobbiamo credere che questa commozione sia per ispirazione di Dio. Si noti l'espressione perché dobbiamo
credere, perciò ordinariamente si deve credere che il penitente pianga per ispirazione di Dio se non si comprende il contrario". - A. M.

18 Praxis, 74: ad vitium extirpandum (ad estirpare il vizio).


19 Quando il confessore vuole differire l'assoluzione, ma il penitente dice: "Ma se nel frattempo mi viene la morte? ", questa obiezione è un
segno straordinario? Ecco il s. Dottore come parla in una predica:

"Il confessore ti dice che torni fra otto o quindici giorni per l'assoluzione, e frattanto levi l'occasione, ti
raccomandi a Dio, stii forte a non ricadere ed usi gli altri rimedi ch'egli ti assegna. Ubbidisci, e così ti libererai
dal peccato; non vedi che per il passato, essendo stato sempre subito assolto, appena passati pochi giorni sei
ritornato al vomito? Ma se frattanto mi viene la morte? Ma Dio non ti ha fatto morire per tanto tempo che sei
stato in peccato, e non pensavi di emendarti; ed ora che vuoi emendarti, ora Dio vuol farti morire? Ma può
essere, che fra questo tempo mi venga la morte. E se ciò può essere, fra questo tempo fa' continuamente atti di
(perfetta) contrizione. Già lo spiegai... che chi ha intenzione di confessarsi e fa un atto di (perfetta) contrizione,
resta subito perdonato da Dio. Che ti serve il ricever subito quell'assoluzione, sempre che vai a confessarti,
quando non levi il peccato? Tutte quelle assoluzioni ti saranno più fuoco all'inferno. Senti questo fatto. Un certo
cavaliere teneva un peccato abituale, e si era procurato un confessore, che sempre l'assolveva, ma egli sempre
ricadeva. Morì questo cavaliere, e fu veduto dannato sopra le spalle di un altro dannato che lo portava. Gli fu
domandato, chi era quegli che lo portava? Rispose: Questi è il mio confessore, che, con l'assolvermi sempre
ch'io mi confessavo, mi ha portato all'inferno; io mi son dannato, e si è dannato lui ancora, che all'inferno mi
ha portato E così, fratello mio, non ti sdegnare quando il confessore ti differisce l'assoluzione, e vuol vedere
come frattanto ti porti. Se tu sempre ricadi nello stesso peccato, con tutto che te l'hai confessato il confessore
non ti può assolvere, senza qualche segno straordinario e manifesto della tua disposizione: e se ti assolve, sei
dannato tu e il confessore. E perciò ubbidisci allora, fa' quello ch'egli ti dice; perché quando tornerai ed avrai
fatto quel che ti ha imposto, egli ti assolverà senza dubbio, e così potrai liberarti dal peccato". —Istruzione al
popolo, parte 2, c. 5, nn. 54-55 (Opere, vol. 9, p. 968-Torino, Marietti, 1855). S. Leonardo da Porto Maurizio
narra lo stesso episodio del cavaliere in maniera più particolareggiata. - Discorso mistico e morale, 32 (Opere
complete, vol. 1, p. 425-Venezia, 1868) (A. M.).

20 Vedere VIII Aggiunta, B e IX Aggiunta.

21 Giordanini, o. cit 1. 360, pp. 240-241.


22 Vedere la nota 2 al n. 5 e la VIII Aggiunta, C.

23 S. Leonardo da Porto Maurizio, Discorso mistico e morale, 9, in opere sacro-morali, Modena, Camerale, 1823, p. 58.
24 Praxis, 77, ha: complicis (del complice).

25 Praxis, 77 ha ancora: complicis. Parlando di recidivi che abbiano almeno la imperfetta contrizione manifestata con segni straordinari, i
quali non abbiano uno speciale bisogno di ricevere l'assoluzione immediata, come può essere il pericolo della morte, o altra grave ragione, S.
Alfonso dice: "Se è ricaduto ex occasione extrinseca (cioè, a causa di un allettamento fuori di se stesso, come una donna o una casa di
divertimento) dico che l'assoluzione certamente deve essere differita finché l'occasione non sia tolta, se sia volontaria, ma se è necessaria,
finché il pericolo di ricadere non si cambi da prossimo a remoto. E per questo, parlando ordinariamente, certamente non basta un rinvio di
dieci o di quindici giorni".

Tradotto da Th. M., 6, 463.) Nella sua Selva (II, 4, n. 16), il Santo aggiunge: "Benché nell'occasione necessaria,
parlando secondo le regole della morale, può essere assolto il penitente quando è disposto, tuttavia quando
l'occasione è di senso, sempre sarà spediente (conveniente), ordinariamente parlando, che gli si differisca
l'assoluzione sin tanto che non si vede colla sperienza conveniente di qualche tempo notabile, come di venti o
trenta giorni, che il penitente siasi portato fedelmente nel praticare i mezzi e non sia più ricaduto". Quanto al
modo di differire l'assoluzione per un mese è preferibile spostarla di quindicina in quindicina, anziché un mese,
come si è detto nell'ultimo capoverso del n. 65. —(A. M.).

26 Abito qui vuol dire l'inclinazione alla quale il penitente deve resistere, non la cattiva volontà. Cfr. Th. M., 6, 459 (A. M.).

27 Praxis, 77, aggiunge: cum possit (quand'è possibile).

28 Salmanticenses, o. cit.

29 F. Toletus, Instructio sacerdotum, Venetiis, Guariscus 1619 5, 13, 6. Non è del Toledo la terza asserzione a lui attribuita da S. Alfonso
dietro citazione di P. Sporer, Theologia moralis Venetiis, Pezzana 1731, 3, 333.

30 G. Bacci, Vita di S. Filippo Neri Venezia, Fracasso, 1794, 2, 6, 2, vol. 2, pp. 184-185.

31 A coloro che con facilità ricadono nei peccati sarà molto utile consigliare che... si confessino spesso e, se è opportuno, si comunichino. —
Rituale Romano, Tit. 3, 1, 20.

32 Cfr. nota 26.


33 Le fasi attraverso le quali s. A. giunse a questa certezza sono indicate in Berthe, 485 e De Meulem 18.

34 "Più mesi" qui vuol dire "molti mesi" nella versione latina ("plurium mensium", Praxis, 78) approvata dal Santo e nella versione spagnola
("muchos meses", Prontuario, p. 576) edita da S. Antonio Claret, il quale esige (El colegial, Parte I, sec. 2, c. 36, a. 4, nota) "che almeno da
un anno non pecchi contro la castità". L'unico trattato lungo e dettagliato di S. Alfonso su questo tema (che si trova in Th. M, 6, 63-77) non
dice se ci vogliono mesi o anni per la prova, non parla di mesi o di anni. Non è più specifico che quando cita Tournely-Collet che una prova
esige 18 o 20 mesi, e quando cita S. Gregorio Magno, che esige una prova di alcuni anni. Anche due istruzioni della Santa Sede esigono una
prova di "almeno un anno" (vedere II Aggiunta.) Un anno dunque è una delle prove necessarie di una permanente conversione, la quale deve
essere certa. Se, nonostante tutti i documenti e le testimonianze (lettere testimoniali, lettere dimissorie, ecc.) "il vescovo per precise ragioni
dubita che il candidato sia idoneo a ricevere gli ordini, non lo promuova" (Can. 1052. 3).

"Siccome il vescovo non può ordinare alcuno, se prima non è ben provato nella castità, così parimente il
confessore non può permettere l'ordinarsi al suo penitente incontinente, se prima non si assicura moralmente
che quegli sia libero dal mal abito contratto ed abbia acquistato l'abito della virtù della continenza". Così S.
Alfonso in Selva, parte I cap. 10, n. 10.

Parlando della durata della prova, notate che un anno è il minimo. "Una prova di più mesi (complurium
mensium) per uno che ha l'abitudine impura (il caso discusso da S. Alfonso in Th. M., 6, 63 sgg.) certamente
non basta per un seminarista che da più anni è stato sottoposto invano a tali prove, perché per timore di essere
escluso dagli ordini, rimarrebbe casto per alcuni mesi comunque. La rieducazione di tali candidati, se è
possibile, esige più anni. Lo stesso S. Alfonso dapprima ebbe una diversa opinione. Tuttavia dall'anno 1751
definì improbabilissima la sua precedente sentenza...". (Tradotto dal latino di A-D-V, IV, 54).

Il Santo aggiunge nella Selva (loc. cit.): "... prescrisse s. Gregorio: Nullus debet ad ministerium altaris
accedere, nisi cuius castitas ante susceptum ministerium fuerit approbata (cioè: Nessuno si deve avvicinare al
ministero dell'altare senza che la sua castità sia stata provata prima di ricevere il ministero. —Lib. 1, epist. 42.)
E questa prova volle il pontefice che si avesse per più anni (Ne unquam ii qui ordinati sunt pereant, prius
aspiciatur si vita eorum continens ab annis plurimis fuit. Cioè: Perché mai periscano coloro che sono ordinati,
si veda prima se la loro vita era da molti anni pura. —Lib. 3, epist 26)" (A. M.).

35 Gli ordini sacri preesigono la santità... quindi il peso degli ordini si deve imporre a pareti già rese asciutte dalla santità... cioè... dall'umore
dei vizi.

36 Coloro che ricevono l'ordine, come diventano superiori al popolo per grado di ordine, cosi debbono essere superiori per il merito della loro
santità.

37 Perché per l'ordine sacro uno è destinato ad altissimi ministeri per i quali si serve a Cristo stesso nel Sacramento dell'altare, al quale si
richiede maggior santità interiore di quella voluta anche dallo stato religioso.

38 Talora (Dio) converte il cuore dell'uomo con tale trasformazione che immediatamente raggiunga la santità spirituale.

39 Mentre gli uomini sono naturalmente scettici circa i miracoli morali, S. Alfonso pensa che non dobbiamo chiudere la mente alla possibilità
di rari casi e che bisogna essere preparati a riconoscerli. Il Santo chiama "rara" questa rapida eliminazione de "le scorie del peccato" (Th. M,
6, 70-71), e ammonisce che il confessore non deve precipitosamente presumere che avvenga questo miracolo, come alcuni confessori hanno
fatto, con rovinose conseguenze (o. cit. 6, 77) (A. M.).

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CAPITOLO VI - COME DEBBA PORTARSI IL CONFESSORE CON I PENITENTI CHE SONO


LIGATI DA QUALCHE CENSURA O CASO RISERVATO O PURE DA OBBLIGO DI DINUNZIA O
CON IMPEDIMENTO DIRIMENTE O IMPEDIENTE DI MATRIMONIO

71. Per I. dunque, se alcuno viene che abbia qualche censura o caso riservato sopra cui il confessore non abbia
facoltà, già abbiamo detto di sopra1 esser atto di carità il ricorrere egli al vescovo, il quale può assolvere tutti i
casi papali occulti e delegarne anche agli altri la facoltà (fuori però de' casi della Bolla Coenae, se pur non fosse
che 'l penitente è impedito di andare in Roma) o pure lo scrivere alla S. Penitenziaría, se 'l caso è papale e
specialmente se è occulto, per ottenerne la facoltà d'assolverlo. Il modo poi di scrivere alla Penitenziarìa lo
noteremo qui appresso al n. 762. Solamente qui s'avverte che chi non sa la censura papale non incorre neppure il
caso, perché i

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casi papali si riservano principalmente per la censura (6, 580) a differenza de' casi vescovili, dove chi non sa la
censura incorre non pertanto il caso, perché i vescovi riservano principalmente il caso (6, 581); e ciò sebbene
s'ignori la riserva del caso, come abbiam provato (Ibid.). Ma niuna censura s'incorre da chi invincibilmente
l'ignora (7, 43).

Di più s'avverta che quando alcuno s'è confessato sacrilegamente nel giubileo, allora non vien tolta la riserva,
come sta provato, specialmente colla dichiarazione fatta dal nostro Ss.P. Benedetto XIV (6, 537, v. Quaeritur
2)3. E lo stesso abbiamo ritenuto, se la confessione è stata invalida, parlando del giubileo; ma fuor di giubileo,
se alcuno si fosse confessato invalidamente a qualche confessore che avea la facoltà sopra i peccati riservati, è
sentenza comune e più probabile che resti sciolto dalla riserva (6, 594, v. Quaeritur 4); ed è più comune ed
abbastanza probabile, quantunque la confessione fosse stata sacrilega, purché il penitente non avesse con colpa
taciuto specialmente il peccato riservato (Ibid.).

72. Per II. avverta il confessore ch'egli è tenuto sotto colpa grave ad imporre al penitente l'obbligo di denunziare
a' superiori alcuno che seriamente abbia proferito qualche proposizione o bestemmia ereticale, con error
d'intelletto e pertinacia4 non già per ignoranza o incuria o

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trascorso di lingua; poiché in tal caso basta che 'l penitente l'ammonisca del suo errore (4, 254, v. Notandum 2).

Di più deve obbligare le donne o i figliuoli a dinunziare i confessori che le han sollecitate a cose turpi o hanno
avuto con esse trattati disonesti. Osservate il Libro, dove molto distintamente sta decifrata questa materia (6, ex
n. 675).

Ma per la pratica avverta il confessore per 1. in questa materia di sollecitazione a non precipitare subito il
giudizio in imporre al penitente l'obbligo della dinunzia, poiché non deve imporsi nel dubbio se quella sia o non
sia stata vera sollecitazione (6, 702) eccettoché quando le parole o gli atti da sé importassero sollecitazione, e si
dubitasse solo dell'intenzione del sollecitante, o pure se vi siano veementi indizi, benché non evidenti, della
sollecitazione, senza indizi in contrario; perché allora quelli fondano in certo modo una moral certezza. (Ibid. v.
Excipiendum). Avverta per 2. a non esser facile a prendersi il peso della dinunzia, se non in qualche caso raro in
cui la carità ciò gli dettasse, per la difficoltà che forse provasse il penitente di andare a' superiori. Avverta per 3.
ch'egli non deve mai tralasciare d'imporre al penitente sollecitato un tal obbligo della dinunzia, benché
prevedesse che 'l penitente non sia per adempirlo, poiché direttamente al confessore è ingiunto dal Pontefice il
peso di intimare un tal obbligo (6, 694)5: onde fintanto che 'l penitente

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non l'adempisce, è conveniente che gli si differisca l'assoluzione. E se 'l confessore dubita che quegli
difficilmente l'adempirà, deve allora in ogni conto differirgli l'assoluzione. Ben può non pertanto assolverlo, se
'l penitente sta per allora impedito ma è risoluto di adempirlo subito che comodamente può (6, 693). Tali
dinunzie debbono farsi almeno fra lo spazio d'un mese (Ibid. v. Hoc tamen).

Di più avvertasi che dal N. Ss. P.Benedetto XIV (6, 491)6 sta imposto l'obbligo di dinunziare il confessore che
si sapesse aver obbligato il penitente a manifestare il complice, purché non l'avesse fatto per mera semplicità o
imprudenza. Per ultimo deve notarsi circa i sortilegi fatti da' secolari che presentemente nel nostro regno, per
ragione dell'insinuazione del nostro Regnante Monarca Carlo III7, che Dio guardi, non v'è obbligo di dinunziarli
se non quando v'intervenisse abuso della SS. Eucaristia o dell'olio santo (4, 253 in fine).

73. Per III. Circa gl'impedimenti di matrimonio,8 quando il penitente tiene qualche impedimento e 'l matrimonio

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non è ancora contratto, bisogna distinguere più cose: se l'impedimento è di consanguinità o cognazione
spirituale o di affinità per copula lecita fino al quarto grado, o pure di pubblica onestà, sebbene fosse occulto, il
confessore deve obbligare il penitente o a dinunziare l'impedimento o ad ottenerne la dispensa dalla Dataria. Se
poi l'impedimento è d'affinità per copula illecita colla consanguinea della sposa fino al secondo grado, modo
adfuerit
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copula consummata cum seminatione perfecta (6, 1036 e 1075), o pure di delitto, cioè di omicidio del coniuge
colla cospirazione d'ambe le parti, o di omicidio coll'adulterio, o di adulterio colla fede o attentato del
matrimonio, come sta divisato nel Libro (6, 1033), in questi casi, sempreché l'impedimento è occulto, deve
ottenersene la dispensa dalla S. Penitenziaria. E lo stesso corre se 'l penitente tiene l'impedimento di voto di
castità o religione.

Se mai però vi fosse causa urgentissima in qualche caso raro, come di scandali, risse o infamia imminente, e
non vi fosse tempo o modo di ricorrere alla Penitenziaria, potrebbe allora anche il vescovo dispensare (6, 1122).
E se non vi fosse modo di ricorrere neppure al vescovo, osservisi ciò che sta detto nel Libro (6, 613)9. 74. Se
poi il penitente avesse già contratto il matrimonio nullo per ragione d'impedimento dirimente, allora, se
l'impedimento proviene da copula lecita si osservi il Libro (6, 1144)10; se da illecita o da delitto e 'l penitente sta
in buona fede, ed inoltre vi sarebbe pericolo di morte, scandalo o incontinenza, quando egli manifestasse

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l'impedimento11, in tal caso il confessore deve tacerlo e frattanto procurar la dispensa dalla S. Penitenziaria, la
quale ottenutasi, deve scovrir l'impedimento e deve ben consigliare il modo con cui debba farsi la
riconvalidazione. Per questa già non è necessaria l'assistenza del parroco e testimoni, come si è provato (6,
1110), ma, secondo abbiam detto, (6, 1115), è obbligata la parte consapevole dell'impedimento a far intesa
l'altra della nullità del matrimonio, giusta la clausola solita della S. Penitenziaria: Ut dicta muliere de nullitate
prioris consensus certiorata, etc.12. E perciò, parlando per sé, non basta il dire (come ammettono alcuni dd.): Se
non m'avessi presa per moglie, mi prenderesti ora? Di': io ti voglio; o pur: Per mia consolazione rinnoviamo il
consenso: perché tal consenso è sempre dipendente dal primo, ch'è stato nullo. E neppure vale la copula,
sebbene s'abbia per affetto maritale. Basta però il dire: Il nostro matrimonio è stato nullo per una certa ragione
(mentre non v'è obbligo di manifestare la qualità dell'impedimento); rinnoviamo il consenso; o pure Quando mi
maritai io non ebbi vero consenso (perché il consenso nullo non è vero consenso): o vero: io sto in dubbio del
valore del nostro matrimonio, ecc.; perché

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allora il consenso che si dà è già indipendente dal primo.

Ma quando si temesse prudentemente che da' detti modi si scovrisse il delitto, e ne succedessero pericoli di
risse, d'infamia o di scandalo, e dall'altra parte il coniuge conscio dell'impedimento non potesse scusarsi dal
rendere il debito, allora, eseguita che sia la dispensa, basta ch'egli adopri alcuno de' primi modi detti di sopra,
ed anche basta ch'esso solo metta il suo consenso, potendo in tal necessità avvalersi della sentenza che dice
bene unirsi a far valido il matrimonio il suo consenso col consenso dato al principio dalla parte ignorante, il
quale dura virtualmente per la continuazione dell'uso del matrimonio o della coabitazione (6, 1116).

75. Se poi il penitente avesse l'impedimento ad non petendum debitum per ragione di copula avuta colla
consanguinea in secondo grado di sua moglie,13 questi dev'essere sciolto da tale impedimento o dalla S.
Penitenziaria o dal vescovo o da qualche confessore regolare che ne tenga la facoltà dal prelato del suo
monasterio (6, 1076, v. Insuper). Ma quando il penitente non sapesse la legge ecclesiastica che, oltre la divina,
proibisce un tale incesto, allora non incorre l'impedimento (6, 1072). Anzi, ancora quando sapesse la legge, ma
ignorasse tale pena, anche è probabile che non l'incorra (6, 1074). Almeno non deve porsi in mala fede, se v'è
pericolo d'incontinenza

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76. Registriamo qui le formole per ottenere dalla S. Penitenziaria14 la dispensa per detti impedimenti o voti o
irregolarità.

Circa gl'impedimenti di matrimonio, da dentro alla lettera si ponga così: Eminentiss. e Reverendiss. Signore15.
NN. avendo avuto copula con una donna, si ritrova aver data parola di matrimonio ad NN. sua sorella16; e
perché l'impedimento è occulto, e, non succedendo detto matrimonio, ne verrebbe molto scandalo, supplica
perciò l'Em. S. a volergli concedere la dispensa. La risposta si degnerà di mandarla a Napoli (o pure ad Aversa
per la posta di Napoli), in testa di… (qui si esprima il nome e cognome) confessore approvato. E l'avrà a
grazia, etc.

Se poi il matrimonio è già fatto, si può scrivere così: NN. ignaro (o consapevole) dell'impedimento, ha contratto
matrimonio con una donna la cui madre (o sorella) avea prima carnalmente conosciuta17: onde, essendo
l'impedimento occulto, e perciò non potendosi separare senza scandalo, supplica l'Em. S. per l'assoluzione e
dispensa. La risposta, etc.

Circa i voti di castità o religione18: NN. si ritrova aver fatto voto di castità; ma perché sta in grave pericolo

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di incontinenza, prega per tanto l'Em. S. a dispensare nel suddetto voto, affine di poter contrarre matrimonio,
etc.

Circa l'irregularità19: NN. sacerdote ha incorsa irregularità per cagione d'omicidio (o d'aborto, o violazione di
censura, etc.); ed essendoché vi è pericolo d'infamia, se si astiene dal celebrare, per tanto supplica, etc.

Da fuori poi alla soprascritta si metta20: All'Eminentissimo e Reverendissimo Signore, Signore e Padrone
Colendissimo.

Il Signor Cardinale Penitenziere Maggiore. Roma.

Il confessore poi a cui21 sarà stata commessa la esecuzione della dispensa, in dispensare, dopo data
l'assoluzione sagramentale, potrà servirsi della formula seguente22: Et insuper, auctoritate apostolica mihi
concessa, dispenso tecum super impedimento primi (seu secundi, seu primi et secundi) gradus proveniente ex
copula illicita,

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a te habita cum sorore mulieris cum qua contraxisti (aut contrahere intendis), ut matrimonium cum illa rursus
contrahere possis, renovato consensu; et prolem, si quam suscipies (vel suscepisti), legitimam declaro. In
nomine Patris etc.Se poi la dispensa è dal voto di castità, dirà: Insuper tibi votum castitatis quod emisisti, ut
valeas matrimonium contrahere et illo uti, in opera quae tibi praescripsi, dispensando, commuto. In nomine
etc.Se alcuno non ostante il voto di castità, avesse contratto il matrimonio, dirà: Item, non obstante voto
castitatis quod emisisti ut in matrimonio remanere et debitum coniugale exigere possis, auctoritate apostolica
tecum dispenso. In nomine etc.

In quali casi poi la S. Penitenziaria possa assolvere, dispensare ecc. da' casi papali, censure, irregolarità, voti,
giuramenti, restituzioni incerte ecc. osservate il Libro in fine (7, 470). Ed in quali casi possa dispensare
negl'impedimenti di matrimonio, vedi L. 6, 1144.
1 Per tutto ciò che qui è esposto si veda la nota 45 aggiunta sopra al n. 18. Qui si ricorda soltanto che nella disciplina oggi vigente non
esistono peccati riservati dal diritto comune, tenendo per altro presenti i cann. 977 e 982.

2 Praxis, 80-81, inserisce alcuni periodi che praticamente non hanno più alcun valore.

3 Benedictus XIV, ep. encycl. Inter praeteritos, 3 dec. 1749, n. 62, in SS. D. N. BENEDICTI Pp. XIV Bullarium, Romae, Propaganda, 1746-
1757, 3, p. 217.

4 La legge positiva generale di denunciare gli eretici, è andata in desuetudine, ma lo esige la legge naturale quando la denuncia è necessaria
a prevenire o togliere un pericolo della fede o della religione o qualche pubblico male. Anche le altre prescrizioni contenute in questo n. 72
non esistono più come leggi positive.

5 Benedictus XIV, const. Sacramentum poenitentiae, 1 iun. 1741, n. 2.


6 Benedictus XIV, ep. encycl. Suprema, 7 iul. 1745; const. Ubi primum 2 iun. 1746, const. Ad eradicandum, 28 sept. 1746, const. Apostolici
ministerii, 9 dec. 1749; cfr. Pius IX, const. Apostolicae Sedis, 12 oct. 1869, n. 2, 1, in Fontes, 360, 370, 373, 405, 552. Non esiste più la
scomunica contro chi insegna o sostiene che è lecito esigere il nome del complice sotto pena di negare l'assoluzione, ne l'obbligo nel
penitente di denunciarlo.

7 Carlo di Borbone (1716-1788) figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese, duca di Parma e Piacenza dal 1731 col nome di Carlo I,
dal 1735 re di Napoli e di Sicilia (Carlo VII) e di Spagna dal 1759 (Carlo III).

8 Si veda quanto s'è detto in nota al n. 8. Qui si avverte che: 1. Non esistono più impedimenti impedienti, ma il Can. 1071 enumera sette
casi nei quali c'è divieto di contrarre matrimonio, tranne che in caso di necessità, senza la licenza dell'Ordinario del luogo; 2. la
consanguineità dirime il matrimonio nella linea retta... tra tutti gli ascendenti, sia legittimi che naturali; nella linea collaterale... fino al quarto
grado incluso; l'impedimento di consanguineità non si moltiplica; non si permetta mai il matrimonio, se sussiste qualche dubbio che le parti
siano consanguinee in qualunque grado della linea retta o nel secondo grado della linea collaterale (Can. 1091; cfr. Can. 108); 3. l'affinità
sorge dal matrimonio valido, anche se non consumato, e sussiste tra il marito e i consanguinei della moglie, e parimenti tra la moglie e i
consanguinei del marito; si computa in maniera tale che coloro che sono consanguinei del marito, siano affini della moglie nella medesima
linea e grado e viceversa (Can. 109); l'affinità nella linea retta rende nullo il matrimonio in qualunque grado (Can. 1092); 4. l'impedimento di
pubblica onestà sorge dal matrimonio invalido in cui vi sia stata vita comune o da concubinato pubblico e notorio; e rende nulle le nozze nel
primo grado della linea retta tra l'uomo e le consanguinee della donna, e viceversa (Can. 1093); 5. non possono contrarre validamente il
matrimonio tra loro nella linea retta o nel secondo grado della linea collaterale, quelli che sono uniti da parentela legale sorta dall'adozione
(Can. 1094); 6. quanto agli impedimenti dirimenti di età, di impotenza, di vincolo precedente, di disparità di culto, di ordine sacro, di voto
pubblico perpetuo di castità, di ratto e di crimine si vedano i cann. 1083-1090, ricordando che quest'ultimo è riservato alla Sede Apostolica,
insieme con quelli provenienti dai sacri ordini o dal voto pubblico perpetuo di castità emesso in un istituto religioso di diritto pontificio (Can.
1078).

9 Vedi ancora al n. 8.

10 Si rimanda ancora alla nota aggiunta al n. 8, ammonendo che la facoltà e necessità di dispensa non variano per il fatto che la copula sia o
meno occulta. La dispensa dagli impedimenti occulti dev'essere domandata alla Penitenziaria Apostolica; dagli impedimenti pubblici (ma
questo non concerne il confessore come tale) dalla S. Congregazione per la dottrina della fede per la disparità di culto, dalla Congregazione
per l'evangelizzazione dei popoli nei luoghi e le persone ad essa soggette, dalla Congregazione per le Chiese orientali se almeno uno dei
contraenti è di rito orientale dalla Congregazione per i religiosi per il voto e dalla Congregazione per i sacramenti per gli altri impedimenti;
tutto questo, s'intende, per quei pochi impedimenti dai quali non può dispensare l'Ordinario del luogo.

11 Praxis, 85, ha, più chiaramente: se ad essa si manifestasse l'impedimento.

12 Affinché informata la predetta donna della nullità del precedente consenso...


13 L'impedimento impediente ad non petendum debitum non esiste nel diritto attuale.

14 Quale sia la congregazione o tribunale romano al quale si deve ricorrere per le dispense matrimoniali, è detto sopra, nota 10.

15 La domanda di dispensa, sebbene inviata ad un E. mo Cardinale, si suol rivolgere al S. Padre: Beatissimo Padre.

16 Si ripete che ora l'affinità nasce solo da matrimonio valido (can. 109).

17 Stia attento il confessore, in questa ipotesi, all'impedimento di consanguinità ed al prescritto del can. 1091. 4.
18 Cfr. quanto si è detto nelle note precedenti.
19 Qualsiasi confessore può dispensare da tutte le irregolarità provenienti da delitto occulto (eccettuate quelle derivanti da omicidio
volontario o da aborto umano quando ne sia seguito l'effetto e quelle dedotte al foro giudiziale) nel casi occulti più urgenti in cui non possa
farsi ricorso all'Ordinario o vi sia grave pericolo di scandalo o di infamia, ma al solo fine che il penitente possa esercitare lecitamente gli ordini
già ricevuti (can. 990. 2; cfr. can. 990. 1 e 991).

20 All'E. mo Signore.

Signor CARDINALE PENITENZIERE MAGGIORE CITTÀ DEL VATICANO

21 Praxis, 88: aut is cui (o colui al quale).

22 La formula è tradotta così: Ed inoltre, per autorità apostolica a me concessa, ti dispenso dall'impedimento di primo grado (o di secondo o
di primo e secondo) che proviene da copula illecita avuta da te con la sorella della donna con la quale hai contratto (o intendi contrarre)
affinché possa nuovamente contrarre matrimonio con la medesima, rinnovando il consenso; e dichiaro legittima la prole che avrai o hai
avuto). Nel nome del Padre ecc.. Inoltre, dispensando, commuto nelle opere che ti ho prescritto il voto di castità che hai emesso, onde possa
contrarre ed usare il matrimonio. Così, nonostante il voto di castità che hai emesso, di autorità apostolica ti dispenso affinché possa
permanere nello stato coniugale ed esigere il debito coniugale.

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CAPITOLO VII - COME DEBBA PORTARSI IL CONFESSORE CON PERSONE DI DIVERSI


GENERI

§ I - Come debba portarsi co' fanciulli, giovani e signorine

77. Con i fanciulli bisogna usare tutta la carità ed i modi più dolci che sian possibili. Prima bisogna domandare
loro se sanno le cose della fede; e se non le sanno, bisogna con pazienza istruirli per allora, se v'è tempo, o
mandarli da alcuno a farsi istruire, almeno circa le cose necessarie alla salvezza.

Quindi, venendo alla confessione, bisogna al principio far loro dire i peccati che si ricordano da loro stessi e poi
potranno farsi loro le seguenti dimande: 1. Se han taciuto qualche peccato per vergogna. 2. Se han bestemmiato
i santi o i giorni santi, o pure giurato colla bugia. 3. Se hanno lasciata la Messa, o se dentro quella han ciarlato,
e se han faticato la festa. 4. Se hanno disubbidito a' genitori, o perduto loro il rispetto con alzar le mani, o detta
loro qualche ingiuria in presenza, o han mandate imprecazioni con farcele sentire, o fatte loro beffe. E notisi qui
ciò che si è detto al num. 34 del come si ha da

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imporre a' fanciulli il cercar perdono a' genitori. 5. Se han commessa qualche oscenità. Ma in ciò il confessore
sia molto cautelato nelle dimande. Cominci interrogando con raggiri e parole generali, e prima se han dette
male parole, se han fatte burle con altri figliuoli e figliuole e se quelle burle le han fatte di nascosto. Indi
dimandi se han fatte cose brutte o male parole (così chiamano i fanciulli i fatti osceni). Molte volte, sebbene
essi neghino, giova il far loro dimande suggestive: E bene, quante volte l'hai fatte queste cose? dieci, quindici
volte? Dimandi loro con chi dormano, e se nel letto hanno burlato colle mani. Alle signorine, se han fatto
all'amore, e se ci son stati mali pensieri, parole o atti. E dalle risposte s'inoltri alle dimande; sed abstineat ab
exquirendo a puellis vel a pueris an adfuerit seminis effusio1. In somma con questi è meglio che si manchi
nell'integrità materiale della confessione che si faccia loro apprendere quel che non sanno, o che si pongano in
curiosità di saperlo. Si dimandi anche a' fanciulli, se han portate imbasciate o regali di uomini a donne; ed alle
signorine se han presi doni da persone sospette, e specialmente da' ammogliati, ecclesiastici o religiosi. Per 6.
dimandi se han rubato o fatto danno alle robe d'altri cogli animali o d'altro modo. Per 7. se hanno detto male di
qualcheduno. Per ultimo circa i precetti della Chiesa si dimandi se si son confessati e comunicati la Pasqua. Se
hanno mangiato carne2 ne' giorni proibiti, vigilie, venerdì, etc.

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78. Circa poi l'assoluzione da darsi a questi fanciulli vi bisogna molta attenzione. Quando consta che abbiano
già il sufficiente uso della ragione, come se si confessano con distinzione o pure rispondono adequatamente alle
dimande, e si vede che ben comprendono che col peccato hanno offeso Dio e si han meritato l'inferno, allora, se
sono disposti, si assolvano; ma se fossero recidivi ne' peccati mortali, debbon trattarsi come gli adulti; onde, se
non danno segni straordinari di dolore, si deve lor differire l'assoluzione.

Se poi si dubita del perfetto uso della ragione, come quando essi nell'atto di confessarsi non istessero composti,
ma andassero girando gli occhi, burlando colle mani, frapponendo cose impertinenti, allora, se stanno in
pericolo di morte o in tempo di adempire il precetto pasquale, debbonsi assolvere sotto condizione, e tanto più
se si son confessati di qualche peccato mortale dubbio (6, 432, v. Dico 3.); poiché ben può amministrarsi il
sagramento sotto condizione quando v'è giusta causa, come sarebbe questa di liberare quel figliuolo dallo stato
di dannazione, se mai v'è incorso (6, 28, v. Licitum). E così deve farsi, sebbene sia recidivo; mentre in tanto
deve differirsi l'assoluzione a coloro ch'hanno il perfetto discernimento, in quanto con tal dilazione v'è speranza
che ritornino disposti: ma questa speranza difficilmente si ha cogli altri che non hanno il perfetto uso della
ragione.

E probabilmente dicono alcuni dd. (6, 432, v. Dico 3.) che questi figliuoli dubbiamente disposti possano
assolversi (almeno ogni due o tre mesi) sotto condizione, sebbene portassero soli peccati veniali, affinché non
restino

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privi della grazia sagramentale, e forse anche della grazia santificante, se mai avessero qualche colpa grave loro
occulta.

Bisogna poi far fare a questi figliuoli l'atto di dolore nel modo più proprio per essi, per esempio: Vuoi bene a
Dio, ch'è un Signore così grande, così buono, che t'ha creato ed è morto per te, etc.? Ora questo Dio tu l'hai
offeso. Esso ti vuole perdonare, e tu spera che per lo Sangue di Gesù Cristo ti perdoni; ma bisogna che te ne
penti. Che dici? Ti penti mo di averlo offeso, etc.? E con queste offese ch'hai fatte a Dio t'hai meritato l'inferno;
ti dispiace che l'hai fatte? Mai più, etc.

La penitenza poi a' figliuoli bisogna che sia leggiera quanto si può, e si faccia da essi adempiere quanto più
presto; altrimenti o se ne scordano o non la fanno. Procurisi specialmente d'insinuare loro la divozione a Maria
ss. con dire il rosario e quelle tre Ave, Maria, la mattina e la sera, sempre colla preghiera: Mamma mia, liberami
da peccato mortale3.

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79. Circa poi lo stato che debba eleggersi qualche giovane, non deve porsi il confessore egli a determinarglielo,
ma solamente deve regolarsi da' segni della sua vocazione a consigliargli quello stato a cui prudentemente può
stimare che Dio lo chiami4. Per coloro che voglion farsi religiosi, procuri il confessore prima di tutto vedere in
qual religione vuole il giovane entrare: perché, se mai la religione è rilasciata, generalmente parlando, meglio
sarà che resti nel secolo;
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poiché, andando colà, egli farà come fanno gli altri e lascerà quel poco di bene che prima faceva, com'è
avvenuto a molti. Onde si faccia molto scrupolo il confessore, specialmente se lo fa ad insinuazione de' parenti,
di consigliare ch'entrino in tali sorte di comunità. Se poi la religione è osservante, provi bene il confessore la
vocazione del suo penitente con vedere se per quella ha qualche impedimento di salute, di poco talento, di
povertà de' parenti; e precisamente esamini il fine, s'è retto, come di stringersi più con Dio o di correggere i
trascorsi della vita passata e sfuggire i pericoli del secolo. Che se il fine primario fosse mondano, di star più
comodo o di liberarsi da' congiunti di mala condizione o di compiacere a' genitori che l'importunano, non glielo
permetta; perché in tal caso quella non è vera vocazione, e senza vocazione farà mala riuscita. Se poi il fine è
buono e non v'è impedimento, non deve né può il confessore (né altri, come dice s. Tommaso), senza colpa
grave impedirgli la vocazione: benché sarà prudente alle volte differirgli l'esecuzione, per meglio esperimentare
s'è ferma; specialmente quando sapesse che il giovin è volubile, o pure se la risoluzione fosse stata fatta in
tempo di missione o di esercizi spirituali, mentre in tali occasioni si fanno certe risoluzioni che, passando poi
quel primo fervore, vengono meno.

80. Se qualche giovane volesse farsi prete secolare, non sia facile il confessore ad accordarglielo senza un
lungo e provato esperimento di scienza o almeno capacità sufficiente e di retto fine. I sacerdoti secolari han
certamente lo stesso, anzi maggior obbligo de' religiosi, ed inoltre restano negli stessi pericoli del secolo; onde,
per

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riuscire alcuno buon sacerdote nel secolo (in cui rari se ne trovano, per non dire rarissimi), bisogna che prima
abbia fatta precedere una vita molto regolata, lontana da' giuochi, dall'ozio, da' mali compagni e data
all'orazione ed alla frequenza de' sagramenti (ma quis est hic, et laudabimus eum?); altrimenti si metterà in uno
stato quasi certo di dannazione, specialmente se lo fa per secondare il fine de' parenti, ch'è d'aiutar la casa. Già
poi s'è detto di sopra al num. 35 il gravissimo peccato che commettono quei genitori i quali forzano i figli a
farsi preti o religiosi contro loro voglia.

Per le signorine poi che vogliono consacrare la loro verginità a Gesù Cristo, non permetta loro di far voto
perpetuo di castità, se non vede che alcuna è ben radicata nelle virtù e nella vita spirituale e specialmente
nell'orazione. A principio può permetterle di farlo solamente per qualche tempo, come da una solennità all'altra.

Per quelli giovani in fine che vogliono o debbono ammogliarsi (dico debbono, come si è provato nel Libro 6,
75, parlando di coloro che fossero incontinenti e non volessero servirsi degli altri mezzi opportuni per
contenersi), come peccherebbero i genitori che senza giusta causa impedissero loro un matrimonio onesto (6,
489, v. Conveniunt), così al contrario peccherebbero i figli (e perciò il confessore deve impedircelo) che
volessero casarsi con disonore della famiglia, o se, quantunque il matrimonio non fosse indecoroso, volessero
però farlo con disgusto e scandalo de' parenti, senz'avere essi figli alcun giusto motivo che gli scusasse. Vedasi
come ciò sta dichiarato nel Libro (6, 849).

1 Ma si astenga dal domandare alle fanciulle ed ai fanciulli se c'è stata emissione di seme.

2 Praxis, 90, aggiunge: aut lacticinia.


3 Poiché qui il testo propone un'invocazione che può essere indulgenziata, per risparmiare ripetizioni in seguito si dà ora una sintetica
nozione delle Indulgenze e specialmente delle invocazioni pie che più facilmente s'incontrano nel nostro libro.
L'indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa,
che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni acquista per intervento della Chiesa, la quale,
come ministra della redenzione, dispensa ed applica autoritativamente il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e
dei Santi (Can. 992).

L'indulgenza è parziale o plenaria secondo che libera in parte o in tutto dalla pena temporale dovuta per i
peccati (Can. 993).

Ogni fedele può lucare per se stesso o applicare ai defunti a modo di suffragio indulgenze sia parziali sia
plenarie (Can. 994).

È capace di lucrare indulgenze chi è battezzato, non scomunicato, in stato di grazia almeno al termine delle
opere prescritte. Per lucrare di fatto le indulgenze il soggetto capace deve avere almeno l'intenzione di
acquistarle e adempiere le opere ingiunte nel tempo stabilito e nel modo dovuto, a tenore della concessione
(Can. 996).

Le pie invocazioni, per quanto riguarda le indulgenze, non sono più da considerarsi come opera distinta e
completa, ma come complemento dell'opera con cui il cristiano nell'adempiere i suoi doveri e nel tollerare i
dolori della vita, eleva con umile fiducia l'anima a Dio. È da preferirsi quella invocazione che è più aderente
alle circonstanze delle cose e dell'animo; esse possono nascere spontaneamente dall'animo od essere scelte tra
quelle che da lungo tempo sono in uso tra i fedeli. Cfr. Enchiridion indulgentiarum, Romae, Typ. Polygl.
Vatiacanis, 1986.

4 S. Alfonso credeva che specialmente grande è l'importanza, in questo caso, di cercare la volontà di Dio, che mai è indifferente. Nel Selva,
Parte I, c. 10, nn. 13-14, il Santo presenta questa dottrina: "Dio... secondo l'ordine della sua provvidenza, destina a ciascuno lo stato di vita,
e, secondo lo stato a cui lo chiama, prepara poi le grazie e gli aiuti convenienti... Se uno erra la vocazione, andrà errata tutta la sua vita;
perché in quello stato, a cui non l'ha chiamato Dio, rimarrà egli privo degli aiuti opportuni per ben vivere... Ciascuno... sarà ben atto per
adempire quell'officio a cui l'elegge Dio, così al contrario sarà inetto per quell'officio a cui Dio non l'elegge". Quindi dice: "Niuno dunque,
quantunque dotto, prudente e santo, può da se intromettersi nel santuario, se prima non vi è chiamato ed introdotto da Dio" (Ibidem, n. 1.)
(A. M.).

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§ II - Come debba portarsi co' scrupolosi

81. Molte regole assegnano i dottori per gli scrupolosi; ma è certo che per costoro, dopo l'orazione, il rimedio
maggiore (anzi l'unico, come ben dice il p. Segneri)5 per guarirli è l'ubbidienza al direttore. Onde prima di tutto
procuri il confessore di persuadere ad un penitente di tal fatta due massime principali: la prima, ch'egli va sicuro
innanzi a Dio nell'ubbidire al padre spirituale dove non v'è evidente peccato; poiché allora non ubbidisce
all'uomo, ma a Dio stesso, che ha detto: Qui vos audit, me audit. (Chi ascolta voi ascolta me. Lc. 10, 16). Così
insegnano tutti i dottori e maestri di spirito con s. Bernardo6, s. Antonino7, s. Francesco di Sales8, s. Filippo
Neri9, s. Teresa10, s. Giovanni della Croce11, s.

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Ignazio di Loyola12, il b. Dionisio Cartusiano13, il b. Umberto14, il ven.p. Maestro Avila15, il gran Gersone16,
etc. La seconda, che il maggiore scrupolo che dev'egli fare è in non ubbidire per cagione del gran pericolo a cui
s'espone di perdere non solamente la pace, la divozione e l'avanzamento nelle virtù, ma benanche il cervello, la
salute ed anche l'anima, poiché potrebbero talmente avanzarsi gli scrupoli che lo riducessero o a disperarsi con
darsi la morte, com'è succeduto a molti, o a rilasciarsi ne' vizi.

Di più insinui il confessore al penitente scrupoloso, come ben dice il dotto Autore dell'Istruzione per li novelli
confessori (I, 79)17 che con Dio non si deve pretendere di fare i conti, come suol dirsi, colla penna: il Signore
vuole per nostro bene che noi viviamo incerti della nostra salvezza; onde, usando noi una moral diligenza per
non offenderlo, dobbiamo abbandonarci nella sua misericordia, e confessando che non possiamo salvarci se non
per la sua grazia, questa dobbiamo cercargli sempre con

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perseveranza, confidenza e pace. Il meglio è, dicea s. Francesco di Sales18, camminare alla cieca sotto la divina
provvidenza, fra le tenebre e perplessità in questa vita. Conviene contentarsi in sapere dal p. spirituale che si
cammina bene, senza cercarne la cognizione. Non s'è mai perduto un ubbidiente. S. Filippo Neri asseriva che
chi ubbidisce al confessore si assicura di non render conto a Dio dell'azioni che fa19. E d'altra parte s. Giovanni
della Croce dicea: Il non appagarsi di ciò che dice il confessore è superbia e mancamento di fede20. 82. Dopo
ciò il confessore procuri per 1. di parlare spesso ad un tal penitente della confidenza grande che dobbiamo avere
in Gesù Cristo, il qual'è morto per salvarci, e nella sua santissima Madre, ch'è tanto potente e pietosa con chi le
si raccomanda; onde l'esorti a viver sicuro, sempre che ricorre a Gesù e Maria, che certamente esaudiscono chi
gl'invoca.

Per 2. gli proibisca di leggere libri che svegliano scrupoli e di conversare con persone scrupolose; e ad alcuno
molto angustiato gli vieti anche di sentir prediche di terrore e d'esaminar la coscienza in quelle cose dove fa
scrupolo, ma senza ragione.

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Per 3. se lo scrupolo consiste nel timore di acconsentire a' mali pensieri (per esempio contro la fede, la purità o
la carità), sia libero e franco il confessore nel disprezzarli ed in dirgli che a lui questi pensieri son pene, ma non
consensi né peccati. Ed in ciò precisamente s'avvaglia il confessore di quella gran regola che danno i dd. (6,
476) che, quando la persona è di timorata coscienza, se non è più che certo il peccato mortale, deve giudicarsi
non esservi stato: poiché (come dice il p. Alvarez)21 un tal mostro non è possibile ch'entri in un'anima che
l'abborrisce, senza conoscerlo chiaramente. Onde giova a' scrupolosi benanche alle volte imporre che di tali
pensieri non se ne accusino affatto, se non sanno certo e possono giurare di avervi acconsentito.

E qui notisi che gli scrupolosi non si han da guidare con dar loro regole particolari, ma generali, poiché colle
particolari gli scrupolosi non mai arrivano a potersi risolvere, dubitando sempre se quella regola vale per lo
caso presente, che sempre gli parrà differente dal caso supposto dal confessore.

83. Per 4. per coloro che fanno scrupolo circa le confessioni passate, cioè che non abbiano in quelle spiegati
tutti i peccati o le loro circostanze, o che non v'abbiano avuto il dolor necessario, il confessore, quando vede
che questi tali o si han fatta la confessione generale, o pure per qualche tempo notabile sono andati ripetendo le
cose

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passate, a costoro deve imporre che non vi pensino più deliberatamente e che non parlino più de' peccati della
vita passata, se non quando possono giurare che sieno stati certi peccati mortali e di più che certamente non se
l'abbiano mai confessati: mentre insegnano i dd. (1, 16) che gli scrupolosi sebbene avessero lasciato per
inavvertenza qualche peccato grave, non sono obbligati (almeno quando non ne sono certi) con tanto incomodo
e pericolo all'integrità della confessione, dalla quale minore incomodo di questo già può scusare (6, 488).

In ciò sia forte il confessore in farsi ubbidire, e se 'l penitente non ubbidisce, lo sgridi, gli tolga la comunione e
lo mortifichi quanto può. Gli scrupolosi debbon trattarsi con dolcezza, ma quando mancano nell'ubbidienza
debbon trattarsi con gran rigore, poiché se perdono quest'ancora dell'ubbidienza, essi son perduti, perché o
diventano pazzi o si danno ad una vita rilasciata.

84. Per 5. alcun'altri poi temono di peccare in ogni azione che fanno; a costoro bisogna imporre che operino
liberamente e che vincano, anzi che sono tenuti a vincere lo scrupolo, sempreché non vedono evidentemente
che quell'azione è peccato. Così col p. Segneri22 insegnano i dd. (6, 486).

E non importa che operino coll'attuale timore (senza deporre lo scrupolo, il che è quasi impossibile sperarlo
dagli scrupolosi), poiché tal timore non è vero dettame di coscienza ossia coscienza formata, come ben
distingue

- 147 -

Gersone23, né vero dubbio pratico; né toglie il giudizio prima fatto (il quale virtualmente persevera, benché
allora non s'avverta per l'impeto del timore), cioè che, facendo qualunque azione che non conoscono certamente
per mala essi non peccano: mentre allora non operano contro la coscienza, ma contro quel vano timore.
Ingiunga dunque il confessore ad un tal penitente che disprezzi e vinca lo scrupolo, con far liberamente ciò che
lo scrupolo gl'impedisce; e di più gl'imponga che dopo affatto non se ne confessi.

5 P. Segneri, Il confessore istruito, c. ult. in Opere, Torino, Società Tipografico-Libraria, 1832-33, 11, p. 316.

6 S. Bernardus, Liber de praecepto et dispensatione, 21 (ML. 182, 873).

7 S. Antoninus, Summa theologica, Veronae, Typ. Seminarii, 1740, 1, 3, 10, 10.

8 S. Francois de Sales, Introduction à la vie dévote, 1, 4.

9 Bacci, o. cit., 1, 20, 19, vol. 1, pp. 137-138.

10 S. Teresa, Libro de las fundaciones, Prologo e cap. 5, in Obras, Burgos, El Monte Carmelo, 1915-924, 5, pp. 3 e 41-42.

11 S. Juan De La Cruz, Subida del Monte Carmelo, 22, 16-18, in Obras, Burgos, El Monte Carmelo, 1929-1931, 2, pp. 193-194.
12 S. Ignatius a Lojola, in Institutum Societatis Jesu, Pragae, Typ. Universitatis, 1757, Constitutiones et declarationes, 3, 1, 23; 6, 1 (1, pp.
373 et 408).

13 B. Dionysius Carthusianus, In secundam librum Sent. Coloniae, Quentel, 1535, dist. 39, 3.

14 B. Humbertus, Espositio super Regulam D. Augustini, Comi, Frova, 1602, cap. 163.

15 P. M. Avila, Lettere spirituali, Vers. it. Brescia, Gromi, 1728, p. 99.

16 J. Gersonius, De praeparatione ad Missam et pollutione nocturna, consid. 3, in Opera omnia, Antwerpiae, Typ. Societatis, 1706, 3, p. 326.

17 Giordanini, o. cit. 1, 79, p. 64.


18 Les vrays entretiens spirituels, 10-11, in Oeuvres cit. 6, pp. 165 et 191.

19 Bacci, o. cit. 1, 20, 19, vol. 1, p. 138.


20 S. Giovanni della Croce, Trattato delle spine dello Spirito Santo, colloq. 4, 1, 8, in Opere, Venezia, Geremia, 1747, 2, pag. 13. Questo
trattato è apocrifo (P. Silverio de Santa Teresa, in S. Juan de la Cruz, Obras, cit. 4, pp. LXI). Il pensiero citato da s. Alfonso è espresso da S.
G. della Croce in Noche oscura, 1, 6, 2, in Obras cit. 2, p. 381.

21 J. Alvarez de Paz, De exterminatione mali et promotione boni, 1, 3, 12, 5, in Opera, Lugduni, Cardon et Cavellat, 1623, 2, p. 287.
22 O. cit. 11, p. 317.
23 J. Gersonius, Compendium theologiae: De esse naturae et qualitate conscientiae, De conscientia indiscreta, in Opera cit. 1, p. 400.

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§ III - Come debba portarsi colle persone divote

85. Alle persone divote che frequentano la comunione, regolarmente parlando, deve insinuarsi che almeno ogni
settimana ricevano l'assoluzione.

Queste, quando si confessano sole imperfezioni che non sieno colpe veniali certe, dice il Bonacina24, che
possono assolversi sotto condizione; ma io ciò non l'ammetterei

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se non di rado e quando esse non potessero assegnar materia certa della vita passata, o non senza gran molestia.
Del resto dico che, quando il penitente non dà materia certa, non è tenuto il confessore ad inquietarsi in andarla
indagando per dargli l'assoluzione; ed in caso che fosse andato indagandola e non l'avesse trovata, non è
obbligato a dar l'assoluzione condizionata. Questo è quando il penitente si confessa imperfezioni di cui si dubita
se giungono a peccati veniali; ma se si confessa peccati veniali certi che sono usuali, come impazienze,
intemperanze, distrazioni all'Officio25 e simili, per assolverlo bisogna vedere se egli s'è aiutato alle volte ed ha
superata la passione, perché allora può giudicarsi che le sue mancanze piuttosto sian provenute da umana
fragilità che dal non avere dolore e proposito. Ma al contrario, se egli cadesse frequentemente in tali colpe e
senza resistenza, allora deve trattarsi come recidivo, secondo s'è detto al num. 65. Si guardi il confessore di
proibire a queste persone divote, specialmente alle donne, di andare ad altro confessore: ma, andandoci, ne
dimostri gradimento; anzi loro imponga che qualche volta vadano ad altri, eccettoché se fosse qualche anima
molto scrupolosa, di cui26 si temesse che, andando ad altro il quale non sa la sua coscienza, si avesse
notabilmente ad inquietare. Il confessore non dimostri impegno a qualche anima di volerla guidare.

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Non dica mai male degli altri confessori, ma procuri con prudenza di scusare qualche abbaglio da loro preso.

Non prenda la guida di chi cerca lasciare il suo direttore, senza urgente cagione, come dicono s. Filippo Neri27,
s. Francesco di Sales28 e s. Carlo Borromeo29; mentre da ciò ne nascono poi dissipamenti di spirito, disturbi ed
alle volte anche scandali. Né basta per mutar confessore, che il penitente senta un certo abbominio verso di lui o
che non trovi più confidenza ne' suoi detti, perché spesso questa è tentazione del demonio, come dice s.
Teresa30. Onde insegna s. Francesco di Sales: Non bisogna mutar confessore senza gran ragione; ma (dice al
contrario) non si deve neppure essere invariabile, sopravvenendo cagioni legittime di mutazione31. Del resto
scrive s. Teresa32 che può essere causa giusta di mutare il confessore la mancanza di bontà: Se il confessore
(dice la Santa)33 va inclinato ad alcune vanità, si muti… essendo egli vano, farà vane le altre. Di più può essere
causa giusta di mutarlo la mancanza di dottrina; di ciò però bisogna che vi sia certa presunzione. Per
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altro dice s. Teresa34 che ne' dubbi ben può il penitente, anzi alle volte è conveniente che si consigli con altro
dotto direttore.

Di più sfugga il confessore di dimostrar parzialità: alcuni si attaccano con qualche anima, con lei è tutto
l'impegno, il tempo e la cura. È vero che qualche anima avrà maggior bisogno d'assistenza d'un'altra; ma altra è
l'assistenza, altro è l'attacco che fa avere poca cura dell'altre: perciò sarà bene che il confessore a quella persona
più bisognosa l'assegni qualche giorno o tempo a parte, senza che l'altre ne riportino incomodo.

Non alzi troppo la voce nel confessare queste persone divote, sebbene non parli di peccati, perché gli altri
possono spaventarsi di confessare i loro peccati, per tal timore che il confessore parli forte.

Non sia facile a dar licenza alle signorine divote di tagliarsi i capelli e porsi sopra qualche abito religioso, ma
procuri ch'esse prima sian fermate per molto tempo nella vita spirituale e nelle virtù. Per questa facilità de'
confessori quante se ne vedono poi che si spogliano e si maritano con iscandalo del paese e con mal'esempio
per le altre!

A queste tali non permetta il confessore che si facciano insegnar di leggere e tanto meno di scrivere dagli
uomini; quante signorine semplici coll'impararsi a leggere vi han perduta l'anima! Questa, se non è occasione
prossima di peccato, almeno è non poco pericolosa. Si35

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facciano insegnare da qualche donna o da qualche fratello picciolo (e pure con cautela), altrimenti non l'assolva;
e non assolva neppure le madri che ciò permettono.

Né anche permetta alle giovani che vadano vagando, visitando chiese, e che stiano in chiesa più lungo tempo di
quanto è necessario con disturbo de' parenti, ma l'esorti che attendano ad obbidire loro, con abbracciare le
fatiche della casa che occorrono.

Del come e quando il confessore debba guardarsi dalla familiarità colle sue penitenti, se ne parlerà al num. 98.
Della guida poi delle anime spirituali se ne parlerà in tutto l'ultimo capitolo.

24 M. Bonacina, De poenit. qu. 4 punct. 3, n. 1 (edit. Venet. 1683), addit: "Melius tamen est in tali eventu curare, ut poenitens aliquod
anteactae vitae peccatum exprimat" (È molto meglio in tal caso procurare che il penitente manifesti qualche peccato della vita passata) (G. B.
99).

25 Praxis, 99, aggiunge: in oratione.

26 id. 100, inserisce: prudenter.


27 Bacci, o. cit. 3, 9, 32, vol. 2, p. 105.

28 Lettre à la Baronne de Chantal, 14 juin 1604, in Oeuvres cit. 12, p. 278.

29 Avvertenze... ai confessori, in Acta Ecclesiae Mediolanensis, Mediolani, Pontius, 1599, p. 762.

30 Camino de perfección, 4, in Obras cit. 3, pp. 29-30.


31 Lettre à la Mère de Chastel, 2 avril 1620, in Oeuvres, 19, p. 176.

32 L. cit. p. 29.

33 L. cit.
34 Vida, 13, in Obras cit. 1, pp. 97-100; Camino de perfección, 5, in Obras cit. 3, p. 32.

35 Praxis, 101, premette: si cupiunt talia addiscere (Se desiderano imparare tali cose).

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§ IV - Come debba portarsi co' muti e sordi

86. Quando il muto fosse anche sordo, come avviene ordinariamente, per confessarlo bisogna ritirarlo in
qualche luogo segreto, per ricavarne qualche segno de' suoi peccati e del dolore, al miglior modo che si può.
Ma procuri il confessore prima d'informarsi da coloro che ci praticano di qualche vizio che di lui sappiano e del
modo che deve tenere per farsi intendere da esso e per intenderlo, e quando arriva a percepire qualche di lui
peccato in particolare col segno di pentimento, deve assolverlo; ma io sempre l'assolverei sotto condizione, se
non avessi qualche moral certezza della sua disposizione.

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87. Il muto, se mai sapesse scrivere, secondo la nostra sentenza (6, 479, v. Quaer.), è obbligato a confessarsi
per iscrittura; mentre chi è tenuto al fine è tenuto a' mezzi ordinari. Dico ordinari, perché non sarebbe mezzo la
scrittura al muto quando avesse a porci una gran fatica per farsi la sua confessione o vi potesse esser pericolo di
manifestazione.

88. Se poi venisse al confessionario una donna sorda (o pure sordastra che poco senta) e 'l confessore36
s'accorgesse dalle dimande ch'ella è sorda, si fa il dubbio se possa il confessore dirle a voce alta che torni in
tempo e luogo opportuno. Questo caso spesso avviene nelle missioni e molto angustia i poveri missionari.

Io dico così: se 'l confessore s'accorge della sordità al principio della confessione, allora può37 dirle liberamente
che ritorni. Ma se mai se ne accorgesse in progresso della confessione, dal vedere che la penitente non risponde
coerentemente alle sue dimande, allora non può dirle a voce forte che ritorni38, perché darebbe sospetto alle
circostanti di essersi quella confessata di qualche colpa grave o almeno dubbia grave: onde, sebbene la
penitente si sia accusata di qualche colpa grave, se la conosce disposta, l'assolva assolutamente; altrimenti
l'assolva sotto

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condizione, giacché, per custodire il sigillo, non può dirle che ritorni né può accertarsi della sua disposizione; e
le dia una penitenza leggiera, giacché quella l'ha da far sentire anche alle altre. Si osservi il Libro (6, 644, v.
Petes).

36 Praxis, 104, aggiunge: in progressu confessionis, interrogans de circumstantiis peccati confessi.


37 Istruzione e pratica, 16, 155, ha: deve.

38 Praxis, ibid. aggiunge: ita ut circumstantes hoc audiant (così che i presenti odano ciò).

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§ V - Come debba portarsi co' moribondi

89. Nel confessare i moribondi non deve andare il confessore con tanta esattezza circa il numero e le
circostanze, specialmente se fosse già arrivato il sacerdote col Viatico, e39 il medico facesse premura che si
prenda presto; poiché allora è meglio attendere alla disposizione che all'integrità, imponendo al moribondo che
faccia poi la confessione intiera quando sarà guarito; e la penitenza sia leggierissima, con dargli la
proporzionata per quando starà bene, o pure con imporgli che allora torni da lui.

I feriti e le parturienti, che d'ordinario non possono essere abbandonate dagli assistenti, basta che si facciano
accusare in generale de' loro peccati ed in particolare di qualche colpa leggiera, come40 dell'impazienze o bugie,
col proposito di confessarsi intieramente se guariscono.

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Avverta il confessore che se il moribondo è obbligato a far qualche restituzione che può allora adempirla, deve
imporgli che la faccia subito; e non basta che ne lasci il peso agli eredi: altrimenti non l'assolva41. 90. Se mai
poi il confessore vede che il moribondo stesse in istato di ricever l'estrema unzione e la ricusasse42, gli
rappresenti i grandi effetti di tal sagramento, cioè di dare all'anima una gran forza per resistere alle tentazioni
dell'inferno nell'ultima battaglia e di scioglierla dalle colpe veniali ed anche mortali, se sono occulte, ed inoltre
di conferire anche la sanità al corpo, quando fosse conveniente alla salute dell'anima; ma questa sanità non la
conferisce quando il moribondo è giunto a tale stato che non possa più guarire se non per miracolo, mentre il
sagramento opera per via ordinaria coadiuvando le cause naturali.

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Se mai con tutto ciò l'infermo non acconsentisse, è molto probabile (6, 733) che quegli pecchi mortalmente,
almeno contro la carità verso se stesso, privandosi d'un aiuto così grande in sì grande bisogno.

Se poi l'infermo avesse a ricevere una grande afflizione d'animo in sentire che si comunica per Viatico, è
probabile che 'l parroco possa dargli la comunione, tacendo le parole: Accipe Viaticum etc., e dicendo le altre
della comunione ordinaria: Corpus Domini nostri Jesu Christi custodiat etc.

39 Praxis, 105, ha: aut.

40 Praxis, ibid. omette.


41 Jorio, o. cit., 14, p. 293.

42 Sul sacramento della unzione degli infermi si abbiano presenti le nuove norme contenute nei cann. 998-1007. Si avverta anche che, in
base alle Variationes pubblicate dalla S. Congregazione per i Sacramenti ed il Culto divino il 12 settembre 1983:
(a) Anche ai bambini la sacra unzione si amministri quando hanno un tale uso di ragione da poter essere
confortati da questo sacramento; in dubbio se abbiano raggiunto l'uso di ragione questo sacramento sia
amministrato; (b) il sacerdote che per una causa ragionevole conferisce questo sacramento con il consenso
almeno presunto del ministro indicato nel can. 1003. 2 lo informi dell'avvenuta amministrazione; (c) in caso di
necessità qualunque sacerdote può benedire l'olio da usare nell'unzione degli infermi, però nella stessa
celebrazione del sacramento. Cfr. cann. 1004 e 999.

È da aggiungere che a coloro che sono in pericolo di morte, se ne è il caso, ogni sacerdote può amministrare
anche la confermazione (Can. 883. 3). Se il Viatico è ricevuto durante la celebrazione della Messa, l'infermo
può ricevere la Comunione sotto le due specie.

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§ VI - Come debba portarsi co' condannati a morte

91. Procuri il confessore con alcuno di questi poveri afflitti di trattarlo con tutta la carità e pazienza.

Nella prima visita cominci a dargli ad intendere che quella morte è grazia che Dio gli fa perché lo vuol salvo.
Gli dica che tutti abbiamo da morire, e tra breve, per andare all'eternità che non finisce mai. Quindi gli parli
della vita felice de' beati e dell'infelice de' dannati; e poi l'esorti a ringraziare il Signore, che l'ha aspettato fino a
quel punto e non l'ha fatto morire quando stava in peccato. L'induca in fine ad accettare la morte, unendola colla
morte che Gesù Cristo patì per suo amore; e l'animi con dirgli che, se accetta la morte, è salvo, e salvo con gran
suo merito, onde ne avrà un gran premio in paradiso.

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Quindi l'induca poi a confessarsi e dire liberamente tutti i suoi peccati. Gli dimandi specialmente se tiene odio
con alcuno; se conserva sopra di sé particole consecrate od olio santo o scritti di superstizione. Gli dimandi
anche se tiene qualche patto col demonio, etc. Dopo averlo assolto procuri di farlo comunicare più volte, con
dirgli che spesso si raccomandi a Maria ss. che l'aiuti a fare una buona morte.

In uscire colla giustizia gli dica: Orsù, figlio mio, va appresso a Gesù Cristo, ch'è andato già al Calvario a
morire per te.

Arrivando al luogo del supplicio, di nuovo lo riconcilii e l'assolva e gli faccia prendere qualche indulgenza, e
poi gli dica: Allegramente, N., stai in grazia di Dio; già stanno aperte per te le porte del paradiso: là
t'aspettano Gesù Cristo e Maria Vergine. Unisci la tua morte con quella di Gesù Cristo, che morì dissanguato e
svergognato per amor tuo. Li vuoi bene? di' con me: Signore, io t'amo sopra ogni cosa; voglio morire per fare
la tua Volontà. Accetto la morte per li peccati miei. Spero che tu mi abbia perdonato; io di nuovo mi pento
dell'offese che ti ho fatte. Desidero di venire presto a baciarti i piedi in paradiso, per amarti in eterno.

Quando viene bendato e sale la scala, gli dica: Figlio mio, chiama la Madonna, che ti assista. Accetta la morte
per li peccati tuoi ed offeriscila a Dio colla morte di Gesù Cristo. Protestati di non volere acconsentire a niuna
tentazione del demonio.

Salito nella scala, stando già per eseguirsi la giustizia: Ecco Gesù Cristo colle braccia aperte che sta per
abbracciarti. Di': Signore, io t'ho offeso, me ne pento; ora t'amo

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con tutto il cuore. Dio dell'anima mia, tu mi chiami, ecco già vengo. Maria ss. aiutami. Gesù mio, ti dono il
cuore e l'anima mia.

92. Se poi il condannato stesse ostinato a non volersi confessare, per 1. il confessore cerchi d'aiutarlo
coll'orazioni, e lo faccia raccomandare anche dagli altri e specialmente dalle comunità religiose, affinché
l'aiutino con Messe, litanie etc.

Per 2. dica al condannato che, o si confessi o non si confessi, la giustizia si eseguirà.

Per 3. gli dimandi se mai sta disperato per aver data l'anima al demonio: perché allora deve persuadersi che tal
patto non tiene; mentre l'anima è di Dio, e quando egli rivoca la mala volontà, Dio gli perdona tutti i peccati.

Per 4. gli dimandi se tiene odio con alcuno, che sia causa della sua ostinazione.

Di più avverta a non importunarlo le prime volte a confessarsi, perché forse sarà peggio; meglio sarà che gli
discorra della misericordia di Dio, de' gaudi del paradiso e delle pene dell'inferno e della morte a cui tutti
abbiam da soggiacere, gli narri qualche esempio di peccatori morti impenitenti o di condannati morti da santi,
come di quello che moriva innocente, e dicendogli una persona perché non si era aiutato a dimostrare la sua
innocenza, rispose: E come? io ho pregato tanti anni Dio che mi facesse morire svergognato come morì Gesù
Cristo mio per me; io vi sono arrivato, ed ora voglio perdermi questa bella fortuna? E così allegramente andò a
morire. Indi lo lasci a riflettere, e poi torni a vedere se mai siasi mutato, e gli dica: Figlio, s'avvicina la morte:
che vuoi fare? sta a te scegliere il paradiso o l'inferno. Pensa che, se mori ostinato

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te ne pentirai per tutta una eternità, ma non ci potrai più rimediare.

Vedendolo ancora duro, faccia dire da' circostanti per lui una litania alla Madonna; e poi gli s'inginocchi avanti
pregandolo che non si voglia perdere. Se neppure profitta parlando a lui, si volti a parlare al Crocifisso. Se
finalmente il reo è arrivato già al luogo del supplicio, preghi il popolo che s'inginocchino tutti ad orar per
quell'ostinato. Può ancora giovare spaventarlo con dirgli: Va, maledetto, all'inferno, giacché ti vuoi dannare!
Sappi che la tua maggior pena nell'inferno sarà questo tempo che Dio ti dona per convertirti, e tu non te ne
vuoi servire. Ma poi ripigli le parole dolci.

Se mai il condannato, giunto sulla scala, cercasse confessione, preghi i ministri di giustizia che gli permettano
lo scendere; mentre allora sono obbligati a dargli tempo che si confessi. Parlo di colui che non si fosse
confessato ancora; perché se il reo si fosse già confessato, allora il confessore gli faccia fare un atto di dolore43,
con dire che si confessi tutti i suoi peccati, e specialmente quelli a lui prima detti, e così l'assolva.

43 Praxis, 109 ha: et inde sic interroget: Eia fili mi, nunc nonne confiteri mihi omnia peccata tua, et praesertim illa quae mihi dixisti? Et cum
reus annuerit, levissimam ei satisfactionem imponat (v. g. ut invocet Jesum et Mariam) et absolvat. (Traduzione: poi lo interroghi così: Su,
figlio mio, non vuoi tu confessarmi tutti i tuoi peccati e specialmente quelli che mi hai già detto? E, se il reo assente, gli imponga una
lievissima penitenza—per esempio, invochi Gesù e Maria—e lo assolva.)

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§ VII - Come debba portarsi cogl'infestati da' demoni


93. Alcuni sono vessati da' spiriti maligni con fantasmi di terrore e con afflizioni corporali di percosse, dolori
etc.Con questi è facile la cura: s'insinui loro l'orazione, la pazienza e sopra tutto la rassegnazione alla divina
Volontà.

Non sia talmente incredulo il confessore che creda tutte queste invasioni o infestazioni de' demoni essere
fantasie o infermità corporali; perché non può negarsi esservi i veri ossessi anche tra' cristiani, poiché la Chiesa
contro queste invasioni ha istituiti tanti esorcismi, l'esercizio de' quali ci attesta il sacro concilio di Trento44
essere stato sempre in essere nella Chiesa. Inoltre se non vi fossero ossessi, sarebbe stato inutilmente istituito
l'ordine dell'esorcistato, per cui nella sua forma si dà la potestà sovra gli energumeni e catecumeni; e
quest'ordine è certamente uno de' sette che sempre sono stati nella Chiesa di Dio, come ha dichiarato lo stesso s.
concilio nel luogo citato. Del resto è prudenza sospettar sempre di tali invasioni, poiché la maggior parte di loro
non può negarsi che sieno o imposture o fantasie o infermità, specialmente nelle donne.

94. Qui tamen magis solent confessariorum mentem gravioribus difficultatibus implicare sunt ii qui turpibus

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visionibus, motibus ac etiam tactibus vexantur a daemone, qui non solum fomitem sensualem excitat, sed
aliquando etiam cum eis carnale commercium sub forma viri aut mulieris habet, quapropter succubus vel
incubus appellatur.

Quidam hos daemones incubos vel succubos dari negarunt, sed communiter id affirmant auctores, ut Martinus
Del Rio45, p. Hier, Menghi46, cardinalis Petrucci47 et Sixtus Senensis48, ex s. Cypr.49, s. Just.50, Tertull.51, etc. Et
maxime hoc confirmat s. Augustinus52 ubi sic scribit: Apparuisse… hominibus angelos in talibus corporibus ut
non solum videri, verum etiam tangi possent, verissima Scriptura testatur, et multos (quos vulgo incubos
vocant) improbos saepe extitisse mulieribus et earum appetisse ac peregisse concubitum. Quosdam
daemones… hanc assidue immunditiam et tentare et efficere, plures talesque viri asseverant ut hoc negare
imprudentia videatur.

Equidem possunt daemones ad hanc improbum usum defunctorum corpora assumere, vel de novo sibi

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assumere ex aëre et aliis elementis ad carnis similitudinem, ac palpabilium et calidorum corporum humanorum
species effingere, et sic ea corpora ad coitum aptare. Imo tenet praefatus Del Rio, citans53 d. Thomam54, d.
Bonavent.55, Scotum56, Abulens.57 aliosque plures, quod daemon potest etiam verum semen afferre aliunde
acceptum, naturalemque eius emissionem imitari, et quod ex huiusmodi concubitu vera proles possit nasci, cum
valeat daemon semen illius accipere, puta a viro in sommo pollutionem patiente, et, prolificum calorem
conservando, illico in patricem infundere; quo casu proles illa non erit quidem filia daemonis, sed illius cuius
est semen, ut ait d. Thomas58 apud citatum Auctorem.

An autem, inspectis legibus a divina Providentia constitutis pro propagatione generis humani, haec aliquando
evenisse aut evenire posse credendum sit, sapientiorum iudicio remittimus.

Hic autem fit dubium an possit daemon, permittente Deo, absque hominis culpa manus illius admovere ad se
tactibus polluendum? Affirmat Pater Gravina, dominicanus

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59, et quidem probabiliter: si enim valet daemon totum corpus alicuius movere, ut narratur de Simone Mago60,
ope daemonis in aërem sublato, cur non poterit et manum? Praeterea, si daemon potest alicuius commovere
linguam, ut invitus proferat obscoena verba aut blasphemias contra Deum, quidni manus ut turpia patrentur?
Idem sentit card. Petrucci61, ubi sic inquit: Non semel compertum fuisse quod daemon aliquam partem in
humano corpore coeperit quodammodo possidere, puta oculos, linguam vel etiam verenda. Hinc fit linguam
obscoenissima verba proferre, licet mens talia tunc non advertat. Hinc impetus et affectus quandoque se
turpiter denudandi proveniunt. Hinc foediora, quae me conscribere pudet.62

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Se mai dunque viene alcuno infestato dal Nemico con tale sorta di tentazione (chiamata spirito di fornicazione,
da cui la santa Chiesa ci fa pregare specialmente il Signore a liberarcene), deve il confessore star molto attento
a premunire il penitente in sì tremenda battaglia;

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poiché dice il cardinale Petrucci63 che tali persone stanno in gran pericolo, se non si avvalgono di rimedi molto
forti ed anche straordinari alle volte, se bisogna; essendoché, richiedendosi per resistere un aiuto grande per
parte di Dio ed una gran violenza per parte del paziente, difficilmente uscirà vittorioso da tali conflitti chi non
userà perseverantemente una gran mortificazione e sovra tutto una grande orazione, con raccomandarsi cento e
mille volte a' piedi del Crocifisso e di Maria ss., piangendo, gridando e cercando pietà. Altrimenti, se l'anima si
raffredda e manca nel mortificarsi e nel pregare, dice il card. Petrucci64 ch'ella starà in sommo pericolo di
cadere in qualche segreta compiacenza di quelle turpi dilettazioni, almeno indiretta.

Sicché, per venire a' rimedi, se 'l confessore può giudicare non esservi affatto alcuna colpa per parte del
penitente, l'esorti in primo luogo che s'aiuti colla preghiera, invocando spesso i nomi ss. di Gesù e di Maria; di
più poi gl'insinui che si alieni quanto può da' piaceri sensibili, che frequenti la comunione, che spesso si protesti
di non voler mai acconsentire a qualsiasi suggestione o dilettazione che gli facesse sentire il demonio; che
s'avvalga spesso del segno della croce (portandola anche sopra) e dell'acqua santa con aspergerne il letto e la
stanza; porti seco qualche reliquia di santo e l'evangelio di s. Giovanni; che

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s'aiuti anche con esorcismi privati, facendoli esso stesso con dire: Brutta bestia, in nome di Gesù Cristo ti
precetto a partirti da me e non tormentarmi più. L'esorti di più che spesso si umilii e si eserciti in atti di umiltà,
mentre il Signore alle volte, per togliere dall'anima qualche interna superbia, suol permettere tal fatta di
tentazioni.

Ma la maggiore difficoltà è poi di curare taluno che a tali atti v'acconsente o pure da sé li va cercando. Questi
tali difficilissimamente si convertono di cuore: poiché da una parte il demonio ha acquistato un certo dominio
sovra le loro volontà, e dall'altra essi rimangono troppo deboli per resistere; avrebbon bisogno d'una grazia
divina straordinaria, ma questa difficilmente si concede da Dio a tali scellerati.

Tuttavia il confessore, venendo alcuno di costoro, non si sconfidi; procuri d'usargli una somma carità e gli
faccia animo, dicendo che dove non v'è volontà, non v'è peccato; onde, semprech'egli resiste colla volontà, non
vi pecca. Prima di tutto il confessore faccia contro il demonio l'esorcismo almeno privato; il che certamente è
lecito65 (3, 193, De adiuratione, IV) in questo modo: Ego, ut minister Dei, praecipio tibi aut vobis, spiritus
immundi, ut recedatis ab hac creatura Dei. Indi interroghi il penitente se mai ha invocato il Nemico ed ha fatto
seco
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lui alcun patto; se ha negata mai la fede o ha fatto qualche atto contro di essa. Dimandi in qual forma gli
comparisce il demonio: se in forma di uomo, di donna, di bestia o in altra; poiché allora, oltre il peccato contro
la castità e contro la religione, vi sarà anche il peccato di fornicazione o di sodomia o d'incesto, adulterio o
sacrilegio affettivo. Dimandi di più in qual luogo ed in qual tempo ha tenuto il detto commercio. Gli dimostri
poi la gravezza del suo peccato, e cerchi d'indurlo ad una vera conversione e ad una confessione intiera, perché
questi tali facilmente lasciano i peccati. Gli assegni in fine gli stessi rimedi notati di sopra cioè che spesso
ricorra a Dio e alla ss. Vergine, nomini spesso il nome di Gesù e di Maria, usi l'acqua santa ed il segno della
croce, porti sopra qualche reliquia e l'evangelio di s. Giovanni, usi anche spesso lo esorcismo privato, come s'è
detto di sopra. Ciò fatto, gli differisca l'assoluzione, ma lo faccia spesso tornare a lui, per vedere come si porta
nel resistere agli assalti del Nemico e nel praticare i rimedi; e non l'assolva se non dopo una lunga esperienza,
poiché di tali conversioni, come si è detto, rare son quelle che son vere, e rarissime quelle che son perseveranti.

44 Sess 23, c. 2.
45 M. Del Rio, Disquisitionum magicarum libri sex, Coloniae Agrippinae, Henning, 1657, 2, 15, 1.

46 G. Menghi, Compendio dell'arte esorcistica, Venezia, Ugolino 1601, 1, 15 (Opera all'Indice).

47 P. M. Petrucci, Lettere e trattati spirituali e mistici, Venezia, Hertz, 1681 e 1679 (Opera all'Indice), 2, opusc. 5 cap. 14, 5.

48 Sixtus Senensis, Bibliotheca sancta, Neapoli, 1742, 5, annot. 77.

49 S. C. Cyprianus, Liber de habitu virginum (ML 4, 453).

50 S. Justinus, Apologia I (MGL. 6, 335).

51 Tertullianus, De cultu feminarum, 1, 2 (ML. 1, 1419); De virginibus velandis, 7 (ML. 2, 917).

52 S. Augustinus, De civitate Dei, 15, 23 (ML. 41, 468).


53 L. cit. S. Tommaso e s. Bonaventura sono citati dopo.

54 S. Thomas, Quodlibetum 6, 18. L'Angelico Dottore qui non dichiara niente.

55 S. Bonaventura, In 2 Sent 8, 1, 3, 1, in Opera omnia, Ad Claras Aquas, Typ. Collegii S. Bonaventurae, 1882-1892, 2, pag 220. L'editore
scrive a questo riguardo che il santo Dottore usa una certa cautela, non pronunciandosi sul fatto, ma spiega solamente il modo secondo cui
potrebbe avvenire, se Dio lo permette.

56 J. D. Scotus, In 2 Sent. Venetiis, Wit, 1520, dist. 8, q, unic.

57 A. Tostatus (Ep. pus Abulensis), In Librum Genesis, 6, 8, in Opera omnia, Venetiis, 1596.

58 Ibid.
60 Cfr. Constitutiones apostolorum, 6, 9 (MGL. 1, 930); S. Cyrillus Hierosol. Catecheses, 6, 15(MGL. 33, 562); S. Augustinus Enarrat. in Ps.
IX, 24 (ML. 36, 127).
61 O. cit. 2, 2, opusc. 5, 14, 8.

62 Così in italiano: "94. Ma quelli che presentano maggiori difficoltà alla mente dei confessori sono coloro che sono tormentati con turpi
visioni, movimenti ed anche toccamenti dal demonio il quale non solo eccita lo stimolo sensuale, ma talora giunge con essi ad unione carnale
sotto forma di uomo o di donna e perciò è chiamato incube o succube. Alcuni hanno negato che esistano questi demoni incubi o succubi, ma
ciò è confermato comunemente dagli autori, come Martino Del Rio p. Girolamo Menghi, il cardinale Petrucci e Sisto da Siena, da s. Cipriano,
s. Giustino, Tertulliano, ecc. Specialmente poi questo è confermato da s. Agostino quando così scrive: Che siano apparsi... agli uomini in tali
corpi che non solo potessero essere veduti, ma anche toccati, lo attesta la verissima Scrittura e che molti (che comunemente chiamano
incubi) siano stati maligni con le donne ed abbiano bramato ed effettuato l'unione con esse. Che alcuni demoni.. abbiano tentato ed attuato
con frequenza questa immondizia, lo affermano uomini così numerosi e di tale autorità, che sembra imprudente negarlo. Possono infatti i
demoni assumere per questo cattivo uso i corpi dei defunti, o in altro modo rivestirsi dell'aria, di altri elementi a guisa di carne e simulare le
apparenze di corpi umani palpabili e caldi e così adattare quei corpi all'unione. Anzi il citato Del Rio, citando s. Tommaso, s. Bonaventura,
Scoto, l'Abulense e parecchi altri, afferma che il demonio può anche portare vero seme, preso d'altra parte ed imitarne la emissione naturale,
e che da unione del genere possa nascere vera prole, potendo il demonio prendere quel seme per esempio da un uomo che lo ha emesso
durante il sonno e, conservando il calore prolifico, immetterlo subito nell'utero, nel qual caso quella prole non sarà già figlia del demonio, ma
di colui di cui è il seme, come dice s. Tommaso presso il citato Autore.

Se poi, considerate le leggi stabilite dalla divina Provvidenza per la propagazione del genere umano, questo
possa essere avvenuto qualche volta o si debba credere che possa avvenire, lo rimettiamo al giudizio di chi è
più sapiente.

Qui poi si pone il dubbio se il demonio possa, Dio permettendolo, senza colpa dell'uomo, muovere le mani di
questi a provocare con toccamenti la polluzione. Lo afferma il padre Gravina, domenicano, e con probabilità:
se infatti può il demonio muovere tutto il corpo di qualcuno, come si narra di Simon Mago, alzato in aria dal
demonio, perché non potrà muovere la mano? Inoltre, se il demonio può muovere la lingua di uno perché
contro la sua volontà proferisca parole oscene e bestemmie contro Dio perché non potrà muovere le mani
perché facciano cose riprovevoli? Lo stesso pensa il card. Petrucci che dice così: Si è constatato non una sola
volta che il demonio ha incominciato a prendere possesso di qualche parte del corpo umano, come gli occhi,
la lingua ed anche i genitali. Di qui avviene che la lingua pronuncia parole oscenissime, benché la mente
allora non le avverta; di qui lo stimolo e la volontà talora di denudarsi vergognosamente; di qui anche cose
più brutte che il pudore vieta di scrivere".

63 O. cit. 1. cit. 7 e 9.

64 L. cit.
65 Ora però: Nessuno può proferire legittimamente esorcismi sugli ossessi, se non ha ottenuto dall'Ordinario del luogo peculiare ed espressa
licenza. L'Ordinario del luogo conceda tale licenza solo al sacerdote che sia ornato di pietà, di scienza, di prudenza e di integrità di vita (Can.
1172). (Per quanto riguarda l'esorcismo privato proferito senza espressa licenza, vedere IV Aggiunta. —A. M.).

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CAPITOLO VIII - DELLA PRUDENZA DEL CONFESSORE

I. Circa la scelta delle opinioni - II. Circa il corregger gli errori da sé commessi - III. Nel custodire il
sigillo sagramentale - IV. Nel confessare e trattar colle donne

95. Il confessore deve usare una somma prudenza nella scelta delle opinioni.

Io non entro qui a parlare della questione oggidì così dibattuta, se possa seguirsi l'opinione meno probabile e
men sicura in concorso della più probabile; ben ne parlano comunemente gli autori, e specialmente tanti dotti
scrittori che ultimamente ne han trattato1, ne' quali per altro avrei desiderato che più colle ragioni che
coll'invettive mordaci avessero cercato di chiarir la verità.

Solamente qui replico ciò che ho detto di sopra al num. 61 e 64, parlando dell'occasione prossima, cioè che,
quando si tratta di evitare il peccato formale, regolarmente il confessore deve seguire (per quanto è lecito) le
sentenze più miti, poiché il solo peccato formale è offesa di Dio. Ma quando le opinioni benigne espongono il
penitente al pericolo del peccato formale, il confessore deve avvalersi delle opinioni più rigorose, perché queste
allora sono più salutari a' penitenti.

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Tuttavia quando il penitente volesse servirsi di qualche opinione probabile, ed altronde fosse già disposto, il
confessore è tenuto ad assolverlo; poiché per ragione della confessione fatta ha il penitente certo e stretto jus
all'assoluzione, per non essere costretto a riceverla da altro sacerdote, col gravissimo peso di ripeter la
confessione. Questa opinione è comune e si ammette anche da molti autori della più rigida sentenza, come dal
Pontas2, dal Cabassuzio3, dal Vittoria4 e specialmente da s. Antonino5. Si osservi il Libro, dove ciò sta provato
in più luoghi (1, 83 e 6, 604).

Tanto più se 'l confessore volesse obbligare il penitente a qualche restituzione di roba a cui quegli
probabilmente non fosse tenuto, anzi ciò corre sebbene il confessore non avesse per soda probabile l'opinione
del penitente, quando il penitente non fosse rozzo e la tenesse per probabile con altri dottori gravi6: ma ciò
s'intende quando la sua opinione avesse almeno una qualche probabilità, almeno apparente; poiché se mai il
confessore la avesse per affatto falsa, avendo in contrario un principio certo, o sia ragione convincente contro
cui stimasse non

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esservi risposta che potesse indurlo a dubitare della certezza della sentenza propria, allora non deve né può
assolvere il penitente che non vuole a quella acconsentire (6, 604). Quando però prevedesse il confessore che la
sua ammonizione non fosse per giovare al penitente, ma per rendergli formale il peccato, che in esso solamente
è materiale, allora deve dissimulare, eccettuatine alcuni casi. Si osservi quel che si è detto di sopra al n. 8 e 9.
96. Per II. se mai il confessore ha commesso qualch'errore circa il valore del sagramento senza sua colpa, non
è tenuto per giustizia ad avvertirne il penitente, ma solo per carità, la quale non obbliga con grave incomodo (6,
619); purché il confessore non fosse suo parroco, ch'è obbligato a riparare il grave danno del suddito; o vero se
'l penitente non fosse in pericolo di morte o di non confessarsi, perché allora anche la carità obbliga con grave
incomodo. Se poi il confessore in ciò ha commesso colpa grave, allora sempre è tenuto, anche con grave
incomodo, a riparar l'errore (specialmente se avesse lasciato il penitente in occasione prossima), purché il
penitente non siasi ad altri già confessato o almeno si sia comunicato. Ma senza la licenza del penitente non
deve mai né può farsi la suddetta ammonizione fuori di confessione, semprech'ella potesse essergli di gravame.

Quando poi l'errore fosse stato solamente circa l'integrità della confessione, per non aver domandate le specie o
il numero de' peccati, anche con sua colpa, non è obbligato il confessore a rimediare fuor di confessione, perché
in ciò sempre vi è rossore del penitente in sentirsi di nuovo rinfacciare i suoi peccati (6, 620).

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Se poi l'avesse maliziosamente o per ignoranza colpevole disobbligato dalla restituzione, o pure obbligato a
quella ingiustamente, allora è tenuto ad ammonirlo, precedente la dovuta licenza; altrimenti è tenuto esso alla
restituzione. Quando in ciò non ci avesse commessa colpa grave, non è tenuto ad ammonire con grave
incomodo; ma se non rimediasse al detto errore, potendo senza grave incomodo, allora anche è tenuto alla
restituzione. Se per ultimo il confessore avesse tralasciato di ammonire il penitente a restituire, non è obbligato
egli alla restituzione, benché fosse parroco e benché ci avesse commessa colpa grave. Si osservi il Libro (6,
621), dove stan decifrati questi punti colle loro ragioni ed autorità de' dd.
97. Per III. il confessore deve usare molta prudenza nel custodire il sigillo sagramentale7. Già è noto e certo ch
'l confessore non può parlare di cose intese in confessione, sempreché v'è pericolo o di rivelazione del sigillo
(diretta o indiretta) o pure di gravame del penitente, sebbene stia solamente in dubbio se l'ha

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intese o no in confessione o in ordine alla confessione (6, 637). È vero poi che non è vietato al confessore il dire
(parlando in generale) qualche peccato ascoltato in confessione, quando non può venirsi in cognizione del
penitente o pure quando ne avesse licenza espressa dal penitente; però anche in ciò deve usar cautela, per 1. a
non parlare de' peccati intesi avanti a persone semplici, che potessero sospettare che si riveli la confessione. Per
2. a non dire dal pulpito che nel paese regni qualche vizio ch'egli confessando ha compreso esser ivi più
frequente: ciò s'intende quando non l'ha saputo per altra via, e quando quel luogo è picciolo (6, 654, Dub. 1); e
specialmente se predica in qualche monastero, dove non deve inveire più dell'ordinario contro qualche difetto
che in confessione ha inteso esser ivi più comune. Per 3. non sia il confessore importuno in ottener la licenza
dal penitente, poiché di quella licenza, che non è tutta spontanea e pienamente libera, egli neppure potrà
avvalersene. Onde procuri d'essere ritenuto quanto si può in cercare queste licenze senza precisa necessità: ed
allora è più sicuro insinuare al penitente che gli parli di ciò che occorre fuor di confessione. Già si sa poi che
fuor di confessione non può il confessore neppur collo stesso penitente parlare di cose in quella intese senza la
sua espressa licenza; ma dentro la confessione ben può parlarne, sempreché stima esser ciò utile al penitente (6,
652).

Per 4. non può dimandare il nome del complice8 e se nega l'assoluzione a chi non vuol dirlo, incorre la
sospenzione

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ferendae sententiae; e chi insegna potersi ciò fare incorre la scomunica papale ipso facto (6, 491). Ed in caso
che il penitente fosse obbligato sotto colpa grave a manifestare il complice per riparare a qualche danno
comune, io ho ritenuto (6, 492) contro l'opinione d'altri, che neppure allora può il confessore obbligarlo a
manifestargli il complice, ma solamente può e deve imporgli in tal caso che vada a rivelare il complice ad altri
che possono dar riparo allo scandalo; che se poi il penitente da sé volesse manifestarlo al confessore, ben egli
allora può sentirlo e riparare come conviene. Di più avvertasi che per ciò non vien proibito al confessore di
domandare al penitente le circostanze che bisogna sapere per intendere se v'è specie diversa di peccato o per
provedere alla salvezza del penitente, interrogando, per esempio, se il complice è parente, s'è ligato con voto di
castità, se abita in casa, se è serva e cose simili, sebbene con tali dimande abbia a manifestarsi indirettamente la
persona del complice; ma non se ne dimandi mai il nome (Ibid.).

98. Per IV. è necessaria molta cautela al confessore in sentir le confessioni delle donne.

Per 1. si noti che, secondo il decreto della S.C. de' Vescovi del 1620, a' 21 gennaro9 sta detto: Confessarii sine
necessitate audire non debent mulierum confessiones

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post crepusculum vespertinum et ante auroram10. Parlando poi della prudenza del confessore, egli nel
confessionario regolarmente colle giovani sia più austero che avvenente. non permetta ch'esse vengano a
parlargli davanti, e tanto meno a baciargli la mano.

Quando si confessano, non dimostri di conoscerle, poiché alcune tali che fanno le divote, alle volte, in sapere
che 'l confessore le conosce, lasciano di accusarsi intieramente.
Non è prudenza guardare le penitenti ed accompagnarle cogli occhi quando si partono dal confessionario.

Fuori poi del confessionario non si fermi con esse a parlare in chiesa, sfugga ogni familiarità, si astenga dal
prender da esse regali, e maggiormente di andare nelle loro case, fuorché quando fosse chiamato per occasione
di grave infermità; ed allora usi tutta la cautela nel confessarle: tenga la porta aperta, stia a vista della gente di
fuori, e procuri di tener la faccia rivolta altrove. E ciò specialmente se sono persone spirituali, con cui v'è
pericolo di maggior attacco. Dicea il v. p. Sertorio Caputo11 che 'l demonio, per attaccare insieme le persone
spirituali, a principio si serve del pretesto della virtù, affinché fatto l'attacco, passi poi l'affetto dalla virtù nelle
persone. Avverte perciò S. Agostino: Sermo brevis et rigidus cum his mulieribus habendus est: nec tamen, quia
sanctiores sunt, ideo minus cavendae; quo enim sanctiores

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fuerint, eo magis alliciunt12. E l'Angelico Dottore aggiunge: Licet carnalis affectio sit omnibus periculosa, ipsis
tamen magis perniciosa, quando conversantur cum persona quae spiritualis videtur: nam quamvis principium
videatur purum, tamen frequens familiaritas domesticum est periculum; quae quidem familiaritas quanto plus
crescit, infirmatur principale motivum, et puritas maculatur13. E soggiunge che tali persone di ciò non se ne
accorgono subito, perché il demonio al principio non manda saette apertamente avvelenate, ma solo quelle che
alquanto feriscano ed accrescano l'affetto; ma in breve tali persone giungono a segno che non più trattano
insieme come angeli, come han cominciato, ma come vestiti di carne: vicendevolmente si guardano e si
feriscono le menti con parole blande, che sembrano ancor procedere dalla prima divozione; quindi l'uno
comincia ad appetire la presenza dell'altro, sicque (conclude) spiritualis devotio convertitur in carnalem. Ed in
fatti oh quanti sacerdoti, che prima

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erano buoni, per simili attacchi cominciati collo spirito, han perduto poi lo spirito e Dio!

Per 2. inoltre non sia il confessore così addetto talmente a confessar le donne che ricusi di confessare gli
uomini, quando vengono. Quale miseria è il vedere tanti confessori spendere tutta la mattina a sentire
bizzoche14 e divotelle, e se poi si accostano poveri uomini o maritate, che sono pieni di travagli e che a stento
han lasciate le case e i loro impieghi, li licenziano con dire: Ho che fare, andate ad altri! E questi poi, per non
trovar chi li confessi, vivono i mesi e gli anni senza sagramenti e senza Dio. Ma ciò non è confessare per Dio,
ma per genio: onde non so quanto merito abbiano a sperarne tali confessori, esercitando il loro ministero in tal
modo. Io non dico, come dicono alcuni, esser tempo perduto, anzi dico esser opera molto grata al Signore il
guidare l'anime alla perfezione; e perciò ne parlerò a lungo nell'ultimo capitolo. Ma i buoni confessori che
confessano solamente per Dio, come faceva un s. Filippo Neri15, un s. Giovanni della Croce16, un s. Pietro
d'Alcantara17, quando viene qualche anima bisognosa, la preferiscono alle divote, per cui non mancherà poi
tempo di sentirle ed aiutarle quando si vuole.

1 Cfr. Berthe, o. cit. 490-491 (1, pp. 492-494); G. Cacciatore, S. Alfonso de' Liguori e il Giansenismo, Firenze, Fiorentina, 1944, pp. 343-
422. Vedere XI Aggiunta.

2 J. Pontas, Dictionnaire des cas de conscience, Paris, Langlois, 1730, v. Confesseur, 1, 2.

3 J. Cabassutius, Juris canonici theoria et praxis, Venetiis, Zane, 1728, 3, 13, 13.

4 F. Victoria, Summa sacramentorum Ecclesiae, Venetiis, Zanettus, 1571, 177.


5 S. Antoninus, Summa theologica, Veronae, Typ. Seminarii, 1740, 3, 17, 16 et 20.

6 Praxis, 115, aggiunge: ita ut poenitens rectam iam sibi formet conscientiam bene operandi (cioè: in modo che il penitente si formi la retta
coscienza di operare bene).

7 Ecco quanto prescrive il nuovo codice: Il sigillo sacramentale è inviolabile; pertanto non è assolutamente lecito al confessore tradire anche
solo in parte il penitente con parole o in qualunque altro modo e per qualsiasi causa. All'obbligo di osservare il segreto sono tenuti anche
l'interprete, se c'è, e tutti gli altri ai quali in qualunque modo sia giunta notizia dei peccati della confessione (Can. 983).

È affatto proibito al confessore far uso delle conoscenze acquisite dalla confessione con aggravio del
penitente, anche escluso qualsiasi pericolo di rivelazione. Colui che è costituito in autorità ed ha avuto notizia
dei peccati in una confessione ricevuta in qualunque momento, non può avvalersene in nessun modo per il
governo esterno (Can. 984). Quanto alle pene cfr. can. 1388.

8 Cfr. Can. 979: Il sacerdote nel porre le domande proceda con prudenza e discrezione, avendo riguardo anche della condizione e dell'età del
penitente, e si astenga dall'indagare sul nome del complice. Le pene riferite qui nel testo non esistono più. Cfr. n. 72.

9 F. L. Ferraris, Prompta bibliotheca, In Monte Casino, Typ. Abbatiae, 1844 ss. v. Confessarius, 3, 9.
10 Cosi in italiano: I confessori senza necessità non devono udire le confessioni delle donne dopo il crepuscolo della sera e prima dell'aurora.

11 A. Barone, Della vita del P. Sertorio Caputo della Compagnia di Gesù, Napoli, De Bonis, 1691, 1, 3, 8, pp. 331-332.
12 Con queste donne deve tenersi un colloquio breve e rigido; né, perché sono più sante, sono meno da evitare; perché quanto più sono
sante tanto più attirano. S. Augustinus, Enarratio in Ps. 50 (ML. 36, 586), ove si parla solo delle cautele da usarsi trattando con le donne.

13 Benché l'affetto carnale sia pericoloso per tutti, ad essi è maggiormente pericoloso, quando parlano con persona che sembra spirituale;
quantunque il principio sembri puro, la familiarità è un pericolo domestico e quanto maggiormente cresce, il motivo principale s'indebolisce e
la purezza si offusca... e così la devozione spirituale si trasforma in carnale. —De modo confitendi et puritate conscientiae (apocr.): De
periculo familiaritatis dominarum vel mulierum, in Opera omnia, Parmae, Fiaccadori, 1852-1872, 17, p. 317.

14 Bizzòche, bizzòchere, quelle donne che ostentano vita spirituale.

15 Bacci, o. cit. 1, 7, 3, vol. 1, p. 29.

16 P. Marco di S. Francesco, Storia della vita di S. Giovanni della Croce, in S. Giov. della Croce, Opere, Vers. it. Venezia, Geremia, 1747, 2,
p. 89.

17 Fr. Laurentius a D. Paulo, Vita S. Petri de Alcantara, 229, in Acta Sanctorum octobris, 8, Bruxellis, Greuse, 1853, p. 760.

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CAPITOLO ULTIMO - COME DEBBA PORTARSI IL CONFESSORE NELLA GUIDA DELLE


ANIME SPIRITUALI

99. Quel che disse il Signore a Geremia: Ecce constitui te super gentes… ut evellas…et dissipes et aedifices et
plantes (1, 10)1, lo stesso dice ad ogni confessore, il quale non solo deve sradicare i vizi da' suoi penitenti, ma
deve anche in essi piantare le virtù. Ond'è conveniente qui aggiungere in fine questo capitolo, che può servire a'
confessori novelli per l'indirizzo delle anime spirituali alla perfezione.

Non si debbono, come abbiam detto di sopra, discacciare i peccatori, ma al contrario è opera molto cara a Dio
l'abbellirgli le spose, cioè il coltivare l'anime per renderle tutte sue. Vale più innanzi al Signore un'anima
perfetta che mille imperfette. Sicché quando vede il confessore che 'l penitente vive lontano da' peccati mortali,
deve far quanto può per introdurlo nella via della perfezione e del divino amore con rappresentargli il merito
che ha Dio, questo infinito Amabile, per essere amato, e la gratitudine che dobbiamo a Gesù il quale ci ha
amato sino a morire per noi; e 'l pericolo inoltre in cui sono l'anime che sono chiamate da Dio a vita più
perfetta, e fan le sorde.

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In quattro2 cose poi consiste principalmente la guida del confessore intorno all'anime spirituali: nella
meditazione, nella contemplazione, nella mortificazione e nella frequenza de' sagramenti, e di tutte quattro
parleremo distintamente qui appresso.

1 Ecco... ti costituisco sopra i popoli... per sradicare... e abbattere, per edificare e piantare.
2 Praxis, 121, ha: in tribus... scilicet in meditatione et contemplatione, in mortificatione et in frequentia sacramentorum; (In tre cose... cioè
nella meditazione e contemplazione, nella mortificazione e nella frequenza dei sacramenti). Ma il capitolo è diviso in quattro parti.

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§ I - Circa l'orazione di meditazione

100. Il buon confessore dunque, quando vede una anima che abborrisce il peccato mortale ed ha desiderio di
avanzarsi nel divino amore, deve primieramente indirizzarla a far l'orazione mentale, cioè alla meditazione delle
verità eterne e della bontà di Dio. Sebbene la meditazione non è necessaria per conseguire l'eterna salute, com'è
la preghiera, tuttavia par che sia necessaria all'anime per conservarle in grazia di Dio. Cogli altri esercizi può
stare il peccato, ma non possono stare insieme orazione e peccato. O la persona lascerà l'orazione, o lascerà il
peccato. Dicea s. Teresa: L'anima che persevera nell'orazione, per peccati che opponga il demonio, finalmente
tengo per certo che 'l Signore la conduce a porto di salvezza3. E

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perciò niun altro esercizio cerca tanto d'impedire il Nemico, quanto questo dell'orazione, perché, dicea la stessa
Santa: Sa il demonio che l'anima la quale con perseveranza attende all'orazione egli l'ha perduta4. Inoltre
l'amore è quello che lega e stringe l'anima con Dio; ma la fornace dove s'accende la fiamma del divino amore, è
l'orazione ossia meditazione: In meditatione mea exardescet ignis (Psal. 38, 4)5. 101. Cominci dunque il
confessore ad introdurre la anima nell'orazione6. A principio l'assegni il tempo di mezz'ora il giorno, e lo vada
poi accrescendo secondo cresce lo spirito. Né s'arresti per la difficoltà che 'l penitente adduca di non aver tempo
né luogo da ritirarsi: gli dica che almeno nella mattina o nella sera, quando v'è più quiete nella casa, almeno nel
tempo del lavoro (quando altro non potesse) alzi la mente a Dio e pensi alle verità della fede, come ai
novissimi, il pensiero de' quali (e specialmente della morte) è il più utile per li principianti, o vero alla passione
di Gesù Cristo, ch'è la meditazione buona per tutti. Se la persona sa leggere, è bene che si serva di qualche libro
divoto, almeno per entrare nell'orazione, come usava s. Teresa7. L'avverta a scegliere quella materia in cui
prova maggior divozione; e dove l'anima trova qualche sentimento,

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si fermi e lasci di meditare, ma s'impieghi a far atti o a pregare o pure a risolvere.


Dico per 1. a far atti cioè d'umiltà, di ringraziamento, di fede, di speranza, e sopra tutto a replicare gli atti di
contrizione e d'amore verso Dio, con offrirsegli tutta e tutta rassegnarsi nella sua santa Volontà, procurando di
replicare maggiormente quell'atto a cui l'anima si sente più inclinata.

Dico per 2. a pregare, giacché dal pregare dipende ogni nostro bene, mentre, come dice s. Agostino8, il Signore
ordinariamente non dona grazie, e precisamente la grazia della perseveranza, se non per mezzo della preghiera.
Il Signore ci ha detto: Petite et accipietis (Jo. 16, 24)9; dunque, dice s. Teresa10, chi non cerca non riceve.
Sicché, se vogliamo salvarci, bisogna sempre pregare, e sovra tutto cercare queste due grazie, la perseveranza e
l'amore verso Dio; e certamente non vi è tempo più atto a pregare che il tempo dell'orazione mentale. Chi non fa
orazione, difficilmente prega, perché difficilmente s'attua a considerare le grazie che gli bisognano e la
necessità di pregare; e perciò chi non fa orazione difficilmente persevera in grazia di Dio.

Dico per 3. a risolvere, affinché l'orazione non resti infruttuosa, e l'anima metta in esecuzione i lumi che
nell'orazione riceve. Onde, come dice s. Francesco di Sales11, niuno deve terminar l'orazione senza fare qualche

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risoluzione particolare, come di fuggire qualche difetto più pericoloso o più usuale o di esercitare qualche virtù
in cui si conosce più debole. Leggasi su di ciò quel che si dirà nell'appendice I sulla fine, parlandosi
dell'istruzione per l'orazione mentale al § III.

102. Attenda dunque il confessore ad esiger da queste anime il conto dell'orazione, dimandando loro come l'han
fatta, o almeno se l'han fatta, ed imponga loro che si accusino, prima d'ogni altra cosa, dell'orazione omessa,
quando la tralasciano, poiché, lasciando l'orazione, l'anima sarà perduta: L'anima che lascia l'orazione (dicea s.
Teresa)12 è come se da sé stessa si ponesse nell'inferno, senza bisogno de' demoni.

Oh Dio, quanto bene potrebbero fare i confessori con usare questo poco di diligenza! E quanto conto ne han da
rendere a Dio, se lo trascurano! giacch'essi sono obbligati a procurare quanto possono il profitto de' loro
penitenti. Quante anime potrebbero incamminare alla perfezione, e liberarle dal ricadere nei peccati gravi, se
avessero questa picciola attenzione d'indirizzarle all'orazione, e di domandar poi loro, almeno ne' principi della
lor vita spirituale, se l'han fatta o no! Quando un'anima è fermata nell'orazione, difficilmente perde più Dio. E
perciò l'orazione mentale non solo deve consigliarsi a' timorati, ma anche a' peccatori, i quali spesso per
mancanza di riflessione ritornano al vomito.

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103. Singolarmente debbono avere i confessori questa attenzione quando i lor penitenti si ritrovano in
desolazione di spirito. Sul principio che un'anima si dà alla vita spirituale, suole il Signore allettarla con lumi
speciali, lagrime e consolazioni sensibili; ma dopo qualche tempo suol chiudere la vena per provare la loro
fedeltà e per sollevarle a maggior perfezione, staccandole da quelle sensibili dolcezze, alle quali facilmente
l'anima si attacca con qualche impurità e difetto d'amor proprio. Le consolazioni sensibili (anzi anche gli attratti
soprannaturali) sono sì bene doni di Dio, ma non sono Dio; ond'Egli, per distaccare l'anime sue dilette dagli
stessi suoi doni, affinché si riducano ad amare con amore più puro esso stesso donatore, fa che non trovino più
nell'orazione l'antico pabolo e sollievo, ma tedi, aridità e tormenti e talvolta tentazioni.

Attenda dunque sommamente il confessore a dar animo a quest'anime tribolate, affinché non lascino l'orazione
e le comunioni prescritte. Dica loro quel che dicea s. Francesco di Sales13, che pesa più avanti a Dio una oncia
d'orazione fatta in mezzo alle desolazioni che cento libbre in mezzo alle consolazioni. Chi ama Dio per le
consolazioni, ama più le consolazioni di Dio che Dio stesso; ma quegli veramente dimostra d'amarlo che l'ama
e gli va appresso senza consolazioni. Questo è in quanto alla meditazione; ma stimo qui dar brevemente
conoscenza a' confessori novelli dell'orazione infusa di contemplazione e de' suoi gradi, ed anche degli altri
doni soprannaturali,
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colle regole insegnate da' maestri di spirito per la guida dell'anime con tali grazie da Dio favorite.

3 Vida, 8, in Obras, cit. 1, p. 56.


4 Ibid. 19, in Obras, cit. 1, p. 139.

5 Nella meditazione è divampato il fuoco.

6 Al fedele che fa piamente meditazione è concessa indulgenza parziale. Enchiridion indulgentiarum (d'ora in poi si citerà: Enchiridion) p. 60
n. 38.

7 Vida, 4, in Obras, 1, pp. 24-25.


8 De dono perseverantiae, 16 (ML. 45, 1017).

9 Domandate e riceverete.

10 Cfr. Camino de perfección, 23, in Obras, 3, 111.

11 Introduction à la vie dévote, 2, 6.


12 Vida. 19, in Obras, 1, p. 139.
13 P. G. Gallizia, La vita di S. Francesco di Sales, Venezia, Pezzana, 1743, Massime che riguardano noi stessi, 31, p. 432.

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§ II - Circa l'orazione di contemplazione e de' suoi diversi gradi14

104. Quando viene qualche anima favorita col dono della contemplazione, bisogna che 'l confessore stia bene
inteso del come deve guidarsi e liberarla dagl'inganni, altrimenti le farà gran danno e, come dice s. Giovanni
della Croce15, ne dovrà egli rendere gran conto a Dio.

Molto differisce la contemplazione dalla meditazione: nella meditazione si va cercando Dio colla fatica del
discorso; nella contemplazione senza fatica si contempla Dio già trovato. Inoltre nella meditazione opera
l'anima cogli atti delle proprie potenze; nella contemplazione opera Dio, e l'anima solamente patitur e riceve i
doni che

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le vengono infusi dalla grazia, senza ch'ella operi cosa alcuna, poiché la stessa luce ed amor divino, di cui allora
vien ripiena, la rendono amorosamente attenta a contemplare la bontà del suo Dio, che in tal modo allora la
favorisce.
105. Bisogna ancora avvertire che il Signore, prima di concedere all'anime il dono della contemplazione, suole
introdurle nell'orazione di raccoglimento o pure d'ozio contemplativo (come lo chiamano i mistici)16, che non è
ancora contemplazione infusa, poiché l'anima ivi è ancora nello stato attivo.

Questo raccoglimento (intendo qui del naturale, perché del soprannaturale ed infuso se ne parlerà appresso, al
n. 111) è quando l'intelletto non ha bisogno di uscir con fatica quasi fuori dell'anima a considerare qualche
mistero o verità eterna, ma ritirato dalle cose esterne e raccolto come dentro l'anima stessa, senza fatica e con
gran soavità pensa a quella verità o mistero che sia.

L'ozio contemplativo è quasi lo stesso; se non che nel raccoglimento l'anima sta applicata a qualche divoto
pensiero particolare, ma nell'ozio con una conoscenza generale di Dio si sente raccolta ed amorosamente a Dio
tirata. In tale raccoglimento o siasi ozio contemplativo dicono alcuni mistici che sebbene questa orazione sia
naturale, tuttavia l'anima deve cessare non solo dalla meditazione, ma anche dagli atti della volontà, cioè
d'amore, d'offerta, di rassegnazione etc., e starsene solamente con un'attenzione amorosa a Dio senza fare alcun
atto.

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Ma a questa sorta d'incantamento io affatto non mi ci posso accordare. Non nego che quando l'anima già sta
raccolta, non deve applicarsi alla meditazione, perché già ha trovato allora senza fatica quel che andava
cercando; oltreché la stessa meditazione ordinaria, come ben dice il p. Segneri nella sua bell'opera della
Concordia tra la fatica e la quiete17, produce dopo qualche tempo la contemplazione che si chiama acquistata,
cioè quella che ad un sol guardo conosce le verità che prima con discorso e con fatica si son conosciute. Ma
perché poi l'anima deve cessare dagli atti buoni della volontà? Che miglior tempo a far tali atti che farli in
tempo di raccoglimento? È vero che s. Francesco di Sales18 consigliò alla b. Giovanna di Chantal che nella sua
orazione, trovandosi unita a Dio, non replicasse atti nuovi, ma perché? Perché la Beata godeva già la
contemplazione passiva. Ma quando l'anima sta ancora nello stato attivo, perché mai gli atti buoni hanno da
impedire le operazioni della grazia? Lo stesso s. Francesco19 prefiggeva alle anime divote da lui dirette un certo
numero di aspirazioni amorose da farsi fra tanto spazio. Quando l'anima sta nello stato passivo della
contemplazione, allora, benché non meriti, perché in quel tempo non opera ma solamente patitur, tuttavia
riceve un gran vigore per operare in appresso con maggior perfezione;

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ma quando sta nello stato attivo, per meritare deve operare con fare atti buoni, che sono l'opere con cui l'anima
merita la divina grazia. Onde ben conclude il detto p. Segneri20 che, quando Dio parla ed opera, bisogna che
l'anima taccia e fermi le sue operazioni, con porre solamente dal canto suo sul principio un'attenzione amorosa
alle operazioni divine: ma quando Dio non parla, bisogna che l'anima si aiuti come meglio può per unirsi con
Dio colle meditazioni (quando bisognano), cogli affetti, colle preghiere, colle risoluzioni; purché (s'intende) tali
atti non si facciano con isforzo, ma si facciano solamente quelli a cui l'anima si sente dolcemente mossa.

106. Di più avvertasi che Dio, prima di far entrare l'anima nella contemplazione, suol purgarla coll'aridità
soprannaturale, che si chiama già purga spirituale, per purificarla dalle sue imperfezioni, che le sono
d'impedimento per la contemplazione. E qui distinguasi l'aridità sensibile ch'è del senso, dall'aridità sostanziale
ch'è dello spirito.

L'aridità sensibile (della sostanziale parleremo nel numero seguente), quand'ella è naturale, porta con sé un
tedio delle cose spirituali ed un'oscurità più leggiera e meno durevole; ma quando è soprannaturale (ch'è quella
di cui ora parliamo), pone l'anima in un'oscurità molto profonda, che più dura e sempre va crescendo. Tuttavia
in tale stato l'anima da una parte si sente più distaccata dalle creature e tiene sempre il pensiero fisso in Dio, con
un gran desiderio e risoluzione di amarlo perfettamente; ma d'altra parte si vede come impossibilitata ad
eseguirlo per
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le sue imperfezioni, per cui le sembra essersi fatta odiosa a Dio; con tutto ciò non lascia di portarsi forte nelle
virtù.

Quest'aridità penosa è un tratto della grazia: ella è una luce soprannaturale, ma luce che apporta pena ed
oscurità, poiché, volendosi comunicare al nudo spirito e trovando i sensi e le potenze dell'anima non ancora
abili per lei, perché non ancora distaccate da' gusti sensibili ed ancora materiali, piene di forme, immagini e
figure, perciò cagiona all'anima queste tenebre così penose, ma molto utili, poiché con quelle acquista l'anima
un distacco da tutti i piaceri sensibili, così terreni come spirituali; di più acquista una gran cognizione della sua
miseria ed inabilità a far qualsivoglia bene, ed insieme un gran rispetto verso di Dio, che se le rappresenta
maestoso e terribile.

In questo stato il direttore deve animare l'anima, come già s'è detto di sovra, a sperare gran cose da Dio, che
così la tratta. Le dica che non si sforzi a meditare, ma si umilii, si offerisca e s'abbandoni in Dio, tutta
rassegnata alle disposizioni della sua Volontà, ch'è tutta propensa a farci bene.

107. Dopo questa purga del senso suole poi il Signore dare il dono della contemplazione gaudiosa, come del
raccoglimento soprannaturale, della quiete e dell'unione di cui appresso parleremo. Ma prima dell'unione e
dopo il raccoglimento e la quiete, suole Dio purgare l'anima coll'aridità dello spirito, chiamata aridità
sostanziale, con cui vuole il Signore che l'anima si annienti in se stessa.

L'aridità del senso è una sottrazione della divozione sensibile, ma l'aridità dello spirito è una luce divina con

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cui fa Dio conoscere all'anima il suo niente. E qui succede che l'anima si trova in una più terribile agonia,
poiché sebbene allora sta ella più risoluta di vincersi in tutto e più attenta a servire il Signore, tuttavia perché
allora maggiormente conosce le sue imperfezioni, le sembra che Dio già l'abbia da sé discacciata ed
abbandonata, come ingrata alle grazie ricevute: e gli stessi esercizi spirituali che fa, orazioni, comunioni,
mortificazioni più l'accorano; mentre, facendoli con sommo tedio e pena, crede che tutti meritino piuttosto
castigo e la rendano più odiosa a Dio. Anzi alle volte pare a quest'anime che si sentano un odio verso Dio, e che
Dio perciò l'abbia già riprovate come sue nemiche, e che da questa vita abbia cominciato a far loro provare le
pene de' dannati e l'abbandono divino. E talvolta permette il Signore che simili desolazioni vadano
accompagnate da mille altre tentazioni e moti d'impurità, di sdegno, di bestemmie, d'incredulità e soprattutto di
disperazione, sì che le poverelle in quella grande oscurità e confusione, non potendo ben discernere la
resistenza della volontà (la quale resistenza già vi è, ma loro è occulta o almeno dubbia, per cagione delle
presenti tenebre), temono di avervi dato il consenso e perciò tanto maggiormente si credono abbandonate da
Dio.

108. Ora il confessore, quando gli capita qualche anima di questa sorta, che cammini già per la perfezione e si
creda abbandonata, primieramente non si atterrisca in veder questa confusione ed in ascoltare i di lei sentimenti
di timori e disperazioni, né si faccia vedere timido ed esitante, ma con fortezza l'animi a non temere di niente ed
allor più che mai a confidare in Dio, dicendole quel

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che disse il Signore a s. Teresa21, che niuno perde Dio senza conoscere che lo perde. Dicale che tutte quelle
suggestioni di bestemmie, d'incredulità, d'impurità e di disperazioni non sono consensi, ma pene che, tollerate
con rassegnazione, la stringono più con Dio. Le dica che Dio non sa odiare un'anima che l'ama ed ha buona
volontà. Le dica ch'Egli così tratta l'anime più dilette. Con aridità e tentazioni (dicea s. Teresa)22 fa prova il
Signore de' suoi amanti. Benché tutta la vita duri l'aridità, non lasci l'anima l'orazione; tempo verrà che tutto
le sarà pagato. Bel sentimento per un'anima desolata!

L'esorti dunque che faccia animo ed animo grande a sperare gran cose da Dio, giacché la conduce per la via
sicura, ch'è la via della croce; e che frattanto per prima si umilii come degna di tal trattamento per li difetti della
vita passata; per secondo si rassegni tutta alla divina Volontà, offerendosi a patire quelle e maggiori pene, per
quanto a Dio piacerà; per terzo, si abbandoni come morta nelle braccia della divina misericordia e nella
protezione di Maria ss. che si chiama la Madre della misericordia e la Consolatrice degli afflitti.

109. L'aridità del senso dura fintanto che, purificati i sensi, sia atta l'anima per la contemplazione. L'aridità poi
dello spirito dura sino che si renda atta per la divina unione. E notisi che anche dopo l'unione dispone alle

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volte il Signore che faccia ritorno quest'aridità, affinché (come dice s. Teresa)23 l'anima non si trascuri e da
quando in quando riveda il suo niente.

110. Fatta dunque la purga del senso e finita l'aridità sensibile, il Signore mette l'anima in contemplazione.

La contemplazione altra è affermativa, altra negativa. L'affermativa è quando l'anima per mezzo della luce
divina, senza sua opera, vede qualche verità o creata, come l'infelicità dell'inferno, la felicità del paradiso, etc.,
oppure qualche verità increata, come la bontà divina, la misericordia, l'amore, la potenza. La negativa è quando
conosce le divine perfezioni non in particolare, ma in generale, con una conoscenza confusa, ma che l'infonde
un concetto assai maggiore della grandezza di Dio. E così anche conosce in confuso qualche verità creata, come
l'orribilità dell'inferno etc.

Parliamo ora de' primi gradi della contemplazione, che sono il raccoglimento e la quiete, poi parleremo della
unione.

111. Il 1. grado della contemplazione è il raccoglimento soprannaturale.

Del naturale già se n'è parlato di sopra al num. 105, e questo è quando si raccolgono le potenze dell'anima a
considerare Dio dentro di lei. E notisi che si dice naturale non perché l'anima possa operarlo da sé, perché ogni
azione virtuosa, per esser meritoria di premio eterno, ha bisogno

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della grazia, sicché, generalmente parlando egli è soprannaturale; ma dicesi naturale perché l'anima è allora in
istato attivo ed opera coll'aiuto della grazia ordinaria.

Il raccoglimento poi soprannaturale è quello che si opera da Dio per mezzo d'una grazia straordinaria per cui
Dio mette l'anima nello stato passivo, sicché il raccoglimento soprannaturale ossia infuso è quando il ritiro delle
potenze non succede per opera dell'anima, ma per la luce che Iddio infondesse, per cui si accende nell'anima un
grande e sensibile amor divino. In questo stato non deve sforzarsi l'anima a sospendere quel discorso tranquillo
che dolcemente le insinuasse la stessa luce; ma d'altra parte non deve affaticarsi a riflettere a cose particolari,
come24 alla sua indegnità o alle risoluzioni che può fare: né si metta a discernere che cosa sia quel
raccoglimento, ma si lasci da Dio guidare a considerare quelle cose ed a fare quegli atti a' quali si sente da Dio
medesimo condotta.

112. Il 2. grado è di quiete.


Nel raccoglimento la forza dell'amore vien comunicata immediatamente a' sensi esterni, che Dio stesso fa
raccogliere dentro dell'anima. Ma nella quiete vien comunicato l'amore immediatamente allo spirito nel fondo
dell'anima; e l'amore è più ardente, e questo poi si diffonde anche ai sensi25; ma non sempre, sicché alle volte
accade che l'anima abbia l'orazion di quiete, ma senza dolcezza sensibile.

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Dice s. Teresa26 che in questa orazione non si sospendono tutte le potenze: si sospende già la volontà, ed è
ligata, perché allora non può amare altr'oggetto che Dio, il quale a sé la tira; ma l'intelletto e la memoria o la
fantasia alle volte restano sciolti e van vagando di qua e di là. Onde dice la Santa che l'anima di ciò non
s'inquieti: Ridasi (son sue parole)27 del pensiero e lo lasci per pazzo, e stiasi nella sua quiete; e giacché la
volontà è signora, essa lo tirerà senza che voi vi affatichiate. Altrimenti, se l'anima vuol applicarsi a raccogliere
il pensiero, non farà niente e perderà il suo riposo.

In questo stato, tanto meno che nel raccoglimento, come si è detto, deve affaticarsi a far risoluzioni o altri atti
mendicati da se stessa; solamente faccia quelli a cui si sente da Dio stesso dolcemente spinta.

113. Parliamo ora dell'orazione di pura contemplazione, ch'è la contemplazione negativa, già spiegata di sopra
al num. 110, la quale è più perfetta dell'affermativa.

Questa negativa si chiama la chiara caligine, mentre per l'abbondanza della luce s'oscura l'intelletto. Come chi
guarda il sole, abbagliato dal suo splendore, non vede niente, ma intende che 'l sole è un gran lume, così Dio in
questa caligine infonde all'anima una gran luce, che non già le fa comprendere qualche verità particolare, ma
l'infonde una conoscenza generale e confusa della sua incomprensibile

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bontà, per cui l'anima viene a formare una idea confusa sì, ma altissima di Dio. Quando l'anima conosce
alquanto qualche perfezione di Dio, fa ben concetto della sua bontà, ma è più grande il concetto che ne fa allora
quando conosce che la perfezione di Dio non si può comprendere.

Dice il cardinal Petrucci nelle sue dottissime lettere28 che quest'orazione dicesi di caligine perché in questa vita
l'anima non è capace d'intender chiaramente la divinità, onde qui allora l'intende senza intenderla, ma l'intende
meglio d'ogni altro modo: non l'intende, perché, non essendo Dio cosa che formi immagine o figura, l'intelletto
non può formarne idea, e perciò non altro intende, che non può intenderlo; onde tale intelligenza si chiama
dall'Areopagita29; Sublime cognizione di Dio per ignoranza. In quest'orazione di caligine si sospendono tutte le
potenze interne dell'anima, ed alle volte anche i sensi esterni, sì che l'anima talvolta entra anche
nell'ubbriachezza spirituale, per cui prorompe in deliri d'amore, come in canti, gridi, pianti dirotti, salti e simili,
come avveniva a s. Maria Maddalena de' Pazzi30 e ad altri santi.

114. Dopo questi gradi il Signore fa passare l'anima all'unione.

Tutto lo scopo di un'anima ha da essere l'unione con Dio; ma non è necessario all'anima per farsi santa giungere

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all'union passiva, basta giungere all'union attiva. Non tutte l'anime, dice s. Teresa31, anzi son poche quelle che
guida Dio per via soprannaturale; ma nel cielo noi vedremo molte che, senza queste grazie soprannaturali,
saranno più gloriose dell'altre che l'han ricevute.
L'attiva è la perfetta uniformità alla Volontà di Dio, e qui certamente consiste tutta la perfezione dell'amor
divino: Non consiste, dice s. Teresa32, la perfezione nell'estasi, ma la vera unione dell'anima con Dio è l'unione
della volontà colla Volontà divina. Questa é l'unione necessaria, non la passiva; e quelle anime che hanno la
sola attiva, dice la stessa Santa: Potrà essere che abbiano molto più merito, perché è con lor travaglio e le
conduce il Signore come forti e serba tutto quello che qui non godono, per darlo poi loro tutto insieme33. Dice
il cardinal Petrucci34 che, senza la contemplazione infusa, ben può giungere l'anima colla grazia ordinaria ad
annichilare la propria volontà e trasformarla in Dio, volendo solo quel che Dio vuole; e benché senta i moti
delle passioni, questi non l'impediscono di trasformarsi in Dio. Onde soggiunge che, in ciò consistendo tutta la
santità, non deve ciascuno altro desiderare e chiedere che Dio lo regga e faccia in esso la sua volontà.

Parlando poi s. Teresa35 dell'unione passiva, dice la nostra Maestra, che in quella l'anima non vede né sente,

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né s'accorge che sta così: poiché dall'abbondanza della luce e dell'amore viene a formarsi la beata caligine, in
cui si sospendono tutte le potenze dell'anima, mentre la memoria non si ricorda che di Dio, la volontà viene a
Dio legata con tanto amore che non può amare altr'oggetto, e l'intelletto vien ripieno di tanta luce che non può
pensare ad altra cosa e neppure alla grazia che allora riceve; sicché intende assai, ma non può capire quel che
intende. In somma l'anima in questo stato ha una cognizione chiara e sperimentale di Dio presente, che nel
centro dell'anima a sé l'unisce.

Quest'unione dice la stessa Santa36 che non dura lungo tempo, ma al più mezz'ora. Nell'altre contemplazioni, di
cui abbiamo parlato prima, Dio si fa conoscere come vicino, ma qui si fa conoscere come presente, e l'anima
con dolce tocco lo sperimenta a sé unito; onde dice la Santa37 che nell'altre contemplazioni può l'anima dubitare
s'è stato Dio, ma in questa no.

Con tutto ciò il confessore deve avvertirla che non perciò ella è fatta impeccabile; onde le insinui che quanto
più ella si vede così favorita, tanto più dev'essere umile e distaccata, con amar la croce e stare in tutto
uniformata alle divine disposizioni, dovendo giustamente temere che le sue infedeltà saranno d'allora in poi per
la sua ingratitudine castigate da Dio con maggior rigore. Dice s. Teresa38 aver conosciute più anime arrivate già
a questo stato d'unione e poi con gran precipizio cadute in disgrazia di Dio: cosa da tremare.

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115. Vi sono poi tre sorta d'unione: l'unione semplice, l'unione di sponsalizio e l'unione consumata, chiamata di
matrimonio spirituale.

L'unione semplice è quella di cui ora abbiamo parlato.

Parliamo ora dell'unione di sponsalizio. A quest'unione il Signore fa precedere ordinariamente l'aridità


sostanziale, ch'è la purga dello spirito di cui già abbiam parlato di sopra al num. 107. In quest'unione poi di
sponsalizio vi sono tre altri diversi gradi, cioè d'estasi, di ratto e di volo di spirito. Nell'unione semplice si
sospendono le potenze, ma non i sensi del corpo, benché restino questi assai deboli per operare; ma nell'unione
dell'estasi si perde anche l'uso de' sensi, sicché la persona non vede, non ascolta e non sente neppure i tagli e le
scottature. Il ratto poi significa un'impressione più forte della grazia, con cui il Signore non solo eleva l'anima
all'unione, ma la rapisce con moto più subitaneo e violento, sicché alle volte solleva anche il corpo da terra e lo
rende leggiero come penna. Il volo di spirito è quando l'anima sente rapirsi come fuori del corpo39 e sollevarsi
sopra sé stessa con gran violenza, onde l'anima al principio vi prova gran timore. Nel volo di spirito vi è poi
così l'estasi, perché v'è la perdita de' sensi, e vi è anche il ratto, cioè il moto violento. Mi disse una persona
favorita di simili grazie che in tali voli di spirito le parea come l'anima le fosse estratta dal corpo e fosse portata
con tanta velocità come se facesse un viaggio di
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un milione di miglia il momento, con grande spavento, poiché non sapea dove andasse a posare; ma che poi,
fermandosi, era allora illuminata a conoscere qualche segreto divino. Qui si fa il dubbio che, se in tale unione si
sospendono le potenze, e l'intelletto abbagliato dall'abisso della luce non può riflettere a ciò che intende, come
mai ivi l'anima può intendere e riferire quel divino segreto? Rispondono i mistici che, quando Dio vuol fare
intendere all'anima qualche segreto o pure farle avere qualche visione intellettuale o immaginaria, rimette
alquanto la luce, sicché l'anima resti abile a conoscere e riflettere a quel che Dio allora vuol farle intendere.

116. L'unione più perfetta poi, che si chiama consumata e ch'è la maggiore che in questa terra il Signore può
concedere ad un'anima viatrice, è quella detta di matrimonio spirituale, dove l'anima vien trasformata in Dio e
si fa una cosa con Dio, come appunto un vaso d'acqua posto nel mare diventa una cosa coll'acqua del mare.

Notisi, come dicono i mistici, che nell'altre unioni si sospendono le potenze, ma in questa no; poiché le potenze,
già purificate dalla loro sensibilità e materialità, son fatte abili ad unirsi con Dio: sicché la volontà ama con
somma placidezza il suo Dio, e l'intelletto ben conosce e riflette a quest'intima unione di Dio fatta nel centro
della anima: ed è come se uno guardasse il sole senza abbagliarsi, e conoscesse il grande splendore del sole.

Di più notisi che questa unione non è passeggiera, come le prime, ma permanente, sicché l'anima gode
abitualmente la divina presenza a sé unita con una stabile pace, mentre le passioni niente più la disturbano: vede
le

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passioni che s'affacciano, ma non l'affliggono, come appunto fosse chi stesse sopra le nuvole e vedesse le
tempeste che avvengono di sotto ed egli non le provasse.

117. Qui è bene parlare delle visioni, locuzioni e rivelazioni, per discernere le vere dalle false.

Le visioni altre sono esterne, altre immaginarie, altre intellettuali. L'esterne son quelle che si vedono cogli
occhi. Le immaginarie quelle che si vedono nella fantasia o sia immaginativa. Le intellettuali poi non si
veggono né cogli occhi né nella fantasia, ma dal solo intelletto per mezzo della divina luce, che infonde le
specie intelligibili; e questa sorta di visione, come dice s. Teresa40, è tutta spirituale, sicché non v'han parte né i
sensi esterni né gl'interni, che sono già l'immaginativa e la fantasia. Avvertasi che cogli occhi o fantasia l'anima
non può vedere le cose rappresentatele se non con apparenza corporea, sebbene fossero sostanze spirituali; al
contrario coll'intelletto, sebbene le cose sieno materiali, si veggono come spirituali; per meglio dire si
conoscono, non si veggono, ma si conoscono meglio che se si vedessero cogli occhi.

118. Queste visioni però avvertasi che possono operarsi così da Dio come dal demonio: e ben anche le
intellettuali, come par che dica s. Giovanni della Croce41, contro il sentimento del Petrucci42, benché più
facilmente

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le corporali, le quali per lo più (specialmente nelle donne) son formate dalla stessa loro fantasia.

I segni per distinguer le vere dalle false sono per 1. se vengono all'improvviso, senza che l'anima vi pensi. Per
2. se al principio apportano confusione e spavento, ma poi mettono l'anima in pace. Per 3. se son rare, perché le
frequenti son molto sospette. Per 4. se poco durano: poiché, dice s. Teresa43, quando l'anima mira per lungo
tempo la cosa rappresentata, è segno che sia piuttosto atto della fantasia; la visione divina per lo più passa come
un lampo, ma resta poi stabilmente impressa nella mente. Per 5. la visione vera lascia una somma pace ed una
viva cognizione della propria miseria, con un gran desiderio della perfezione, a differenza delle visioni
diaboliche che poco restano impresse e lasciano al contrario l'anima con seccaggine, inquietezza, moti di
propria stima e con un genio sensibile di tali grazie.

Ma con tutti i segni di sopra mentovati, dice s. Teresa44, che non se ne può avere sicurezza, perché molte volte
il demonio sa fingere quiete, pensieri d'umiltà, desideri di perfezione, che non si possono ben distinguere da chi
vengano; poiché talvolta lo stesso Nemico l'insinua per farsi credere e per ricavarne poi qualche inganno che ne
pretende.

Onde il direttore (regolarmente parlando) non già proibisca all'anima di riferirgli tali visioni, anzi deve imporle
che gli palesi ciò che vede, o sia vero o falso, come dice s. Teresa45; ma d'altra parte non dimostri curiosità

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di saper queste cose, né gliene dimandi a minuto; né prevenga con dire: Forse fu così? hai veduta la tal cosa?
perché facilmente l'anima risponderà di sì o per malizia o per semplicità.

Se conosce apertamente che tali visioni sono opere della fantasia o pure diaboliche, perché forse allontanano
l'anima dall'ubbidienza, dall'umiltà o da altra virtù, allora glielo dichiari espressamente. Se poi ciò non lo
conosce, non è bene dire che sono diaboliche o fantastiche, come fanno alcuni troppo increduli (a differenza
d'altri troppo creduli che tutte l'assicurano per buone), ma dica alla penitente che preghi Dio a torla da vie così
pericolose, protestandosi ch'ella vuol conoscerlo qui in terra solo per via di fede. Del resto poi le insinui che
dalle visioni avute, o vere o false che sieno, ne cavi il frutto che fa per sé, di portarsi meglio con Dio; perché,
facendo così, sebbene fosse stato il demonio, esso ne resterà deluso.

119,

Parlando delle locuzioni, la locuzione può essere successiva, formale e sostanziale.

La successiva è quando l'anima, meditando qualche verità di fede, si sente come rispondere dallo stesso suo
spirito, ma come fosse un'altra persona. Questa, quando porta buoni effetti d'amore o d'umiltà straordinaria, può
esser lume speciale di Dio; ma quando si sente lo stesso amore ordinario46, è segno che sia intelligenza del
proprio intelletto.

- 201 -

La formale è quando l'anima ode certe parole formate, ma da fuori di sé; e può ella percepirsi, o coll'orecchio o
coll'immaginativa o coll'intelletto. Questa deve discernersi, se sia divina o diabolica, dalle cose ch'esprime o
impone, e dagli effetti che lascia. Specialmente s'è divina ed impone cose di pazienza o di opera spirituale o di
propria abbiezione, lascerà ella una gran facilità a soffrire, ad operare e ad umiliarsi.

La sostanziale è la stessa che la formale: solo differisce nell'effetto, perché la formale o istruisce o impone, ma
la sostanziale opera subito ciò ch'esprime, come quando dicesse: Consólati, non temere, amami e l'anima allora
nello stesso punto restasse consolata o coraggiosa o infiammata.

Questa locuzione è più sicura dell'altre, perché la prima è molto incerta, la seconda (cioè la formale) è molto
sospetta, specialmente quando impone cose da eseguirsi; onde il direttore, se vede che son cose contro la
prudenza cristiana, deve affatto proibirle; se poi non sono contro la prudenza, è bene che ne sospenda
l'esecuzione fintanto che n'abbia maggior sicurezza, specialmente se le cose sono straordinarie.
120. Parlando finalmente delle rivelazioni di cose occulte o future, come de' misteri della fede, di stati di
coscienza, di predestinazioni d'anime, di morti, di sollevamenti a qualche dignità e simili, queste possono aversi
in tre maniere: per visioni, per locuzioni e per intelligenza di nude verità.

In tali rivelazioni deve il direttore esser molto prudente e ritenuto a crederle e specialmente ad eseguirle,

- 202 -

quando si tratta di dar qualche avviso per la conoscenza avuta dalla rivelazione: proibisca soprattutto all'anima
che non la palesi ad altri, ed egli poi proceda con gran cautela ed anche col consiglio de' dotti, poiché per lo più
queste rivelazioni son dubbie e sospette. Meno sospette sono le intelligenze di nude verità circa i misteri o gli
attributi divini, malizia del peccato, infelicità de' dannati e cose simili; queste, quando sono secondo la fede,
dice s. Giovanni della Croce47, che l'anima non deve cercarle, ma, se le son date, deve con umiltà riceverle e
non rifiutarle.

121. E qui si fa un dubbio se tutte queste sorta di grazie e communicazioni soprannaturali si debbano rifiutare o
accettare.

Bisogna distinguere, come dice un dotto Autore48 con s. Giovanni della Croce49 ed altri. Quelle grazie che
allontanano dalla fede, per ragione che consistono in certe conoscenze distinte, come sono le visioni, locuzioni
e rivelazioni, queste bisogna con ogni sforzo ributtarle; ma quelle al contrario che si confanno colla fede, come
sono le conoscenze confuse e generali ed i tocchi divini che uniscono l'anima con Dio, non si debbono rifiutare,
anzi possono con umiltà desiderarsi e chiedersi, affine di maggiormente stringersi con Dio e stabilirsi nel suo
santo amore. Ciò però s'intende per quelle anime che già son favorite di simili grazie; poiché per le altre la via
più

- 203 -

sicura è di desiderare e chiedere solamente l'unione attiva, ch'è l'unione (come abbiam detto) della nostra
volontà colla divina.

Il direttore dunque, quando viene un'anima con queste comunicazioni di contemplazione o di caligine o
d'unione, non deve ordinarle che le rifiuti, ma che le riceva con umiltà e ringraziamento; ma sempre con parole
che non l'assicurino totalmente, ma la mantengano in un certo timore che da una parte non l'inquieti e d'altra
parte la conservi in umiltà e distacco. Ma le grazie di conoscenze distinte per via di visioni e simili, come
abbiam detto di sopra, bisogna che risolutamente l'imponga a rifiutarle con ispirito d'umiltà (ma senza
dispregio, come di sputare in faccia, far beffe, il che non è lecito, come dicono molti) ed a protestarsi con Dio
ch'ella vuol servirlo in pura fede. Del resto, dice s. Teresa50 che, sempreché l'anima sente con soavità
nell'orazione accendersi d'amore verso Dio, deve ritenere che la comunicazione sia divina, non già per credersi
migliore dell'altre, ma per animarsi a camminare con maggior perfezione; perché, facendo così, Dio farà che 'l
demonio, sebbene l'opera fosse sua, molto vi perda e si faccia danno colle stesse sue armi.

122. Concludiamo questo punto. Il direttore dunque per 1. imponga all'anima, come abbiam detto di sopra, che
riferisca tutte le comunicazioni che riceve nell'orazione, ma egli d'altra parte non si dimostri goloso di saperle,

- 204 -

né vada poi egli manifestando ad altri le grazie soprannaturali concedute alla sua penitente, poiché gli altri per
tal notizia si anderanno a raccomandare a colei e la porranno in gran pericolo d'invanirsi; o pure, se ne vedranno
poi ogni minimo difetto, molto se ne scandalizzeranno o la metteranno in deriso.
Per 2. non dimostri a quest'anima favorita qualche stima particolare, e tanto meno mandi l'altre penitenti a
consigliarsi, sollevarsi o dirigersi da colei; piuttosto faccia vedere che ne tiene meno concetto che dell'altre
anime che camminano per via di fede, giacché quest'anime favorite si han da mantenere, regolarmente parlando,
sempre e molto umiliate.

Per 3. se conosce che l'anima conserva umiltà e timore in tali divine comunicazioni, bisogna aiutarla, ed anche
alle volte assicurarla, se lo conosce conveniente. Dice s. Teresa51 che l'anima non si spingerà a fare gran cose
per Dio, se non conosce d'aver ricevute gran cose da Dio. E52 non v'ha dubbio che le grazie particolari
accendono maggiormente l'amore. Ed in fatti s. Teresa53, quando fu assicurata da s. Francesco Borgia e da s.
Pietro d'Alcantara che i doni da lei ricevuti erano divini, da allora in poi fece un gran volo nello spirito.

Né, perché vedesse il direttore che l'anima cade di quando in quando in qualche difetto (sempreché i difetti non
sono pienamente deliberati o commessi con attacco e senza far conto di tali mancanze), ha da credere che tutte

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le comunicazioni sieno inganni ed illusioni: il Signore favorisce coi doni soprannaturali non solamente l'anime
perfette, ma anche alle volte le imperfette, appunto per liberarle dalle loro imperfezioni e sollevarle a vita più
perfetta. Onde, quando si vede che per mezzo di tali comunicazioni l'anima si va sempre più distaccando dalle
passioni ed in lei si avanza l'amor divino e 'l desiderio della perfezione, è segno che quelle sono buone.

Del resto, quando si tratta di grazie esterne, come di visioni, locuzioni e rivelazioni, regolarmente parlando,
come si è detto, è più sicuro che 'l direttore faccia vedere che ne fa poco conto, con dire quel che avvertì la
stessa s. Teresa dal cielo dopo la sua morte ad una persona religiosa dicendo: Non si assicurino le anime con le
visioni e rivelazioni particolari, né mettano la perfezione in averle: ché, sebbene ve ne sono alcune vere, molte
però son false ed ingannevoli; ed è difficile trovare una verità tra molte bugie (dunque son più le visioni false
che le vere); e quanto più si cercheranno e stimeranno, tanto più si va la persona deviando dalla fede e
dall'umiltà, strada posta da Dio per la più sicura54. Le dica dunque che preghi a donarle la vera estasi, ch'è il
distacco totale dalle cose terrene e da se stessa, senza il quale certamente non si farà santa.

Specialmente poi, se scorge il direttore che l'anima non è ben fondata nel conoscimento della propria miseria e
volesse tenere con certezza che le sue comunicazioni

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son divine, e s'inquietasse nel sentire che 'l direttore non le voglia credere per tali, è mal segno: è segno che o
quelle son opera del demonio, dagli effetti che già se ne veggono di attacco o di superbia, o pure che l'anima
non cammini bene, poich'ella deve almeno porsene in dubbio quando ne dubita il confessore: e perciò in tal
caso egli cerchi di umiliarla e di metterla in timore quanto è possibile; e se non si acquieta, le tolga la
comunione e la mortifichi con rigore, mentre allora sta in gran pericolo d'esser ingannata dal demonio.

Per ultimo il direttore, sebbene stimasse bene di assicurare all'anima che le sue comunicazioni son divine, le
insinui che nell'orazione si metta sempre avanti (almeno a principio) un punto della vita o della passione di
Gesù Cristo. Dicea s. Teresa55 che l'anima che perde la guida del buon Gesù non giungerà mai alla perfetta
unione con Dio. Le anime principianti meditano la passione del Signore col discorso; le contemplative poi non
discorrono, ma, tenendo avanti qualche mistero, ammirano la bontà la misericordia, l'amore divino, e quindi
Dio le solleva quando vuole alla contemplazione della sua divinità.
14 Per questo argomento s. Alfonso attinse, non già a G. B. Scaramelli, Il direttorio mistico, Venezia, Oechi, 1754, opera quindi stampata
dopo la redazione della Pratica, ma all'opera del P. Bernardo da Castelvetere, Direttorio mistico per li confessori, stampato ripetutamente. Mi
riferisco alla seconda edizione: Venezia, Occhi, 1751.

15 Llama de amor viva, 3, 29, in Obras, 4, p. 64; Subida del Monte Carmelo, 2, 18, in Obras, 2, pp. 152-156.
16 Bernardo da Castelvetere, o. cit. 1, 5, 3, p. 239.
17 Segneri, Concordia tra la fatica e la quiete nell'orazione, 1, 1 1, in Opere, cit. 12, p. 144.

18 Questions de la Mère de Chantal à Saint Francois de Sales et réponses de celui-ci, in Oeuvres (de S. Francois de Sales) cit. 26, pp. 281-
282.

19 S. Francois de Sales, Avis pour passer saintement la journée e Petit réglement de l'emploi du temps et des exercices de la journée, in
Oeuvres, ed. Blaise, cit. 16, pp. 477 e 515.

20 O. cit. 1, 1, 2 e 3, 1, vol. cit., pp. 145 e 151.


21 Las relaciones, 28, in Obras, cit. 2, p. 58.

22 Vida, 11, in Obras, cit. 1, pp. 79-80.


23 Vida, 11, in Obras, p. 80. Praxis, 131, omette le parole tra parentesi.
24 Praxis, 133, omette: come... può fare.

25 Praxis, 134, ha: etiam ad sensus externos (cioè: anche ai sensi esterni).
26 Vida, 14, in Obras, 1, pp. 101-102.

27 Camino de perfección, 31, in Obras, 3, p. 148.


28 O. cit., 2, lib. 2, lett. 24.

29 Dionysius Areopagita, Mystica theologia, 1, 3 (MGL. 3, 1002) e Epistola I (MGL. 3, 1066), opere apocrife.

30 Una Carmelitana Santa Maria Maddalena de' Pazzi, Firenze Salani, 1942, pp. 127, 221, 301, 337.
31 S. Teresa, Camino de perfección, in Obras, 2, pp. 29-30.

32 Cfr. Moradas, 5, 3; Conceptos del amor de Dios, 3; Las fundaciones, 5, in Obras, 4, pp. 86 e 239; 5, p. 42.

33 Camino de perfección, 17, in Obras, 3, p. 80.

34 O. cit. 1, tratt. 4, 3, 6, 5-6.

35 Moradas 5, 1, in Obras, 4, p. 73.


36 Vida, 18, in Obras, 1, p. 134.

37 Moradas, 5, 1, in Obras, 4, pp. 72-73.

38 Moradas, 5, 4, in Obras, 4, p. 95.


39 Praxis, 137, traduce: quasi extra se (cioè: quasi fuori di sé).
40 Vida, 27, in Obras, 1, p. 208.
41 Subida del Monte Carmelo, 2, 24, 7. Obras, 2, p. 202. Il pensiero del Dottor Mistico è chiaro e sicuro: Puede también el demonio causar
estas visiones en el alma, mediante alguna lumbre natural, en que por sugestión espiritual aclara el espiritu las cosas.

42 O. cit. 1, 1, 2, tr. 4, part. 3, 3, 6.


43 Moradas, 6, 9, in Obras, 4, pp. 162-163.

44 Moradas, 6, 9, in Obras, 4, p. 164.

45 Moradas, 6, 9, in Obras, 4, p. 165.


46 Praxis, 141, traduce: sed quando non videt augeri consuetum amorem (cioè: Ma quando non vede crescere l'amore consueto).
47 Subida del Monte Carmelo, 2, 32, 4, in Obras, 2, p. 237.

48 Bernardo da Castelvetere, O. cit. 2, 2, 1, p. 384.

49 Subida del Monte Carmelo, 2, 11, 5-8, in Obras, 2, pp. 107-110.

50 Vida, 15 e Moradas, 6, 9, in Obras, 1, p. 112 e 4, pp. 165-166.


51 Vida, 10, in Obras, 1, p. 72.

52 Praxis, 144, omette questo periodo.

53 Vida, 24 e 30, in Obras, 1, pp. 186 e 245.


54 S. Teresa, Avvisi... che dopo la sua morte ha rivelati ad alcune persone del suo medesimo ordine, 5, in Opere spirituali, Venezia, Baglioni,
1729, 2, p. 219.

55 Cfr. Moradas, 6, 7, in Obras, 4, p. 152.

- 207 -

§ III - Circa la mortificazione

123. Circa la mortificazione bisogna avvertire che quando le anime cominciano la vita spirituale, solendo il
Signore (come abbiam detto) allora allettarle con consolazioni più sensibili, in quel primo fervore vorrebbero
uccidersi con discipline, cilizi, digiuni e simili esercizi afflittivi.

Bisogna pertanto che 'l direttore sia molto parco in conceder loro tali mortificazioni, mentre, succedendo poi il
tempo dell'aridità, come d'ordinario avviene, è facile che l'anima, abbandonata dal suo primo fervore sensibile,
abbandoni ella tutte le sue mortificazioni e, posta poi in diffidenza, lasci l'orazione e la vita spirituale, come
cose che non facciano per lei e così perda tutto. Alle volte anche avviene che quest'anime principianti per quel
fervore danno in indiscretezze e cadono in infermità corporali, ed allora per sollevarsi lasciano tutti gli esercizi
spirituali, con gran pericolo di più non ripigliarli. Perciò il direttore deve attendere ch'esse prima si assodino
nella vita spirituale, e poi attese le circostanze della salute, degli impieghi e del fervore, conceda loro quelle
mortificazioni esterne che stimerà loro convenire secondo la cristiana prudenza.

Dico: secondo la cristiana prudenza, poiché, tra i direttori imprudenti, alcuni par che collochino tutto il profitto
d'un'anima nel caricarla di digiuni, cilizi, discipline a sangue, scottamenti e simili. Altri poi par che neghino
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affatto tutte le mortificazioni esterne, come cose inutili al profitto spirituale, dicendo che tutta la perfezione
consiste nella mortificazione interna; ma questo anche è errore, giacché le mortificazioni corporali aiutano le
interne, e sono in qualche modo necessarie (quando possono usarsi) a raffrenare i sensi, e perciò vediamo che
tutti i santi, chi più chi meno, tutti però le han praticate.

Non ha dubbio che la mortificazione interna delle passioni è la principale che si deve esigere, cioè di non
rispondere all'ingiurie, non cercare né palesare cose di stima propria, cedere nelle contese, condescendere alla
volontà d'altri (ma senza danno spirituale): ond'è consiglio talvolta proibire ad un'anima tutte le mortificazioni
esterne, fintanto che si vede distaccata da qualche passione che la dominasse, come di vanità, di rancore,
d'interesse mondano, di stima propria o di propria volontà. Ma il dire che le mortificazioni esterne niente o poco
servono è un massimo errore. Dicea s. Giovanni della Croce56 che a colui che disapprova le penitenze non si
deve dar credito, sebbene facesse miracoli.

Sul principio dunque il direttore primieramente imponga al penitente che non faccia niente contra o senza la di
lui ubbidienza. Quelli che fan penitenze contro l'ubbidienza, dice s. Giovanni della Croce57, questi van più
crescendo ne' vizi che nelle virtù.

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Sia poi, come ho detto, ritenuto a concedere tali mortificazioni, sebbene ne venga importunamente richiesto da'
penitenti; basterà che al principio lor conceda qualche picciola e rara mortificazione, come di catenella,
disciplina o astinenza, affinché ne prendano desiderio piuttosto che per mortificarsi a dovere; e poi col tempo
anderà allargando la mano, secondo vedrà avanzarsi l'anima nelle virtù: poiché, quando ella sarà stabilita nello
spirito, non potrà il direttore senza scrupolo negarle quelle mortificazioni che le convengono58. Del resto abbia
per regola generale (parlando ordinariamente) di non dare mortificazioni esterne, se non richiesto, perché queste
non giovano molto, se non si pigliano con fame; e dandole, sempre dia meno di quel che gli si dimanda, e
piuttosto (come dice Cassiano)59 ecceda nel negare che nel concedere.

Procuri specialmente d'insinuare la mortificazione circa la gola, a cui certe anime spirituali poco v'attendono;
ma in verità questa è la più dura e la più utile allo spirito e spesso anche al corpo. Dicea s. Filippo Neri: Chi non
mortifica la gola, non arriverà mai alla perfezione60. Sia d'altra parte ristretto in concedere mortificazioni del
sonno necessario, perché queste facilmente fan danno alla salute corporale ed anche spirituale, essendoché,
tolto il sonno bastante, patisce la testa, e, patendo la testa, la persona resta inetta a meditare ed a tutti gli altri
esercizi divoti.

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Per qualsivoglia mortificazione poi che concede al penitente, affinché quegli non se n'invaghisca, gli dica ciò
non esser niente a confronto di quel che han fatto i santi e delle pene che ha patito Gesù Cristo per amor nostro.
Dicea s. Teresa: Tutto è schifezza quanto possiamo fare, in comparazione di una sola goccia di sangue che il
Signore sparse per noi (Vida, 39, in Obras, 1, p. 353.).

Ma le migliori mortificazioni, più utili e meno pericolose, sono le negative; per le quali (ordinariamente
parlando) non si richiede neppure l'ubbidienza del direttore, cioè il privarsi di vedere o sentire le cose curiose, il
parlar poco, il contentarsi de' cibi che non piacciono o mal conditi, privarsi di fuoco nel verno, lo scegliersi le
cose più vili, il rallegrarsi quando gli manca qualche cosa anche delle necessarie, poiché in ciò consiste la virtù
della povertà, come dice s. Bernardo: Virtus paupertatis non est paupertas, sed amor paupertatis61. Di più non
lamentarsi negl'incomodi delle stagioni, ne' disprezzi e persecuzioni che si ricevono dal prossimo, nelle pene
dell'infermità che si patiscono. Collo scalpello del patire si formano le pietre della celeste Gerusalemme62.
Dicea s. Teresa: Il pensare che Dio ammetta alla sua amicizia gente comoda è sproposito. Anime che da vero
amano Dio non possono dimandar riposi63.

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124. Qui si fa un dubbio. Il vangelo in un luogo dice: Risplenda la vostra luce avanti degli uomini affinché
vedano le opere vostre buone e ne glorifichino il Padre vostro ch'è ne' cieli (Matth. 5, 16). In un altro luogo
dice: Facendo tu la limosina, non sappia la tua sinistra quel che faccia la tua destra (Matth. 6, 3). Or si
dimanda se l'azioni di virtù si debbano manifestare agli altri o nascondere.

Si risponde con distinzione: le opere comuni, necessarie alla virtù cristiana, debbono praticarsi in palese, come
sono il frequentare i sagramenti, il far l'orazione mentale, il visitare il Venerabile, lo star raccolto ed
inginocchiato in sentir la Messa, lo star modesto cogli occhi, l'osservar silenzio in chiesa, il dire che si vuol far
santo, il fuggire le ciarle, le conversazioni pericolose, le curiosità e cose simili. L'opere poi che sono di
supererogazione straordinaria e che han del singolare, come le suddette penitenze esterne di cilizi, discipline,
orar colle braccia in croce, masticar erbe amare etc., come anche il sospirare o piangere nell'orazione, queste
debbono occultarsi quanto si può. L'altre opere di virtù, come il servire gl'infermi, il far la limosina a' poveri,
l'umiliarsi a chi l'ingiuria e simili, queste meglio è occultarle quanto si può; ma se mai non potessero farsi, se
non con farsi in palese, non debbono tralasciarsi, purché si facciano col solo fine di piacere a Dio64.

56 Avvisi e sentenze spirituali, 339-340, in Opere, Venezia, Geremia, 1747, 1, p. 271.

57 Noche oscura, 1, 6, 2, in Obras, 2, p. 381.


58 Vedere X Aggiunta. (A. M.).

59 Cfr. J. Cassianus, Collationes sanctorum Patrum, collatio 2, specialmente cc. 16-17 (ML. 49, 549-550).

60 H. Bernabeus, Vita, 275, in Acta Sanctorum maii, 6, Antwerpiae, Cnobarus, 1688, p. 574.
61 Cfr. Epistola C. in Opera (ML. 182, 235): Non enim paupertas virtus reputatur, sed paupertatis amor (La virtù della povertà non è la
povertà, ma l'amore della povertà).

62 Cfr. l'Inno del Comune della Dedicazione della chiesa a vespro nella Liturgia delle Ore.

63 Camino de perfección, 18, in Obras, 3, p. 83.


64 Sia qui lecito riportare alcune altre parole di s. Alfonso: Bisogna farsi vedere ad orare in chiesa, a fare il ringraziamento dopo la Messa, a
far la visita al santissimo Sacramento ed alla Divina Madre. Alcuni procurano di far queste divozioni di nascosto, per non farsi vedere: no, il
sacerdote è bene che in ciò si faccia vedere non già per farsi lodare, ma per dar buon esempio e far che gli altri lodino Dio con imitarlo. In
Selva di materie predicabili, Circa il buon esempio, in fine, (in Opere, Torino, G. Marietti, 1847, 3, p. 104.).

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§ IV - Circa la frequenza de' sagramenti


125. Parliamo per ultimo del come deve il confessore guidare l'anime spirituali circa la frequenza de'
sagramenti, cioè della confessione e comunione.

In quanto alla confessione, è bene loro insinuare che si facciano la confessione generale, se non l'han fatta
ancora; perché, se mai l'avessero già fatta, o pure se l'anima fosse angustiata da scrupoli, bisogna vietargliela. In
quanto poi alla confessione ordinaria, alcune persone di coscienza molto delicata han praticato di confessarsi
ogni giorno; del resto, generalmente parlando, basterà alle persone spirituali, specialmente alle scrupolose, il
confessarsi una o al più due volte la settimana. Ma quando alcuna di queste si trovasse aggravata da qualche
colpa veniale e non avesse comodità di confessarsi, dice il p. Barisoni nel suo trattato della comunione65,
coll'autorità di s. Ambrogio66 e di molti altri autori (e lo consiglia anche s.

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Francesco di Sales in una sua lettera)67, che non perciò deve lasciar la comunione, giacché per la remissione de'
veniali insegna il sagro concilio di Trento68 esservi già altri mezzi, come sono gli atti di contrizione o d'amore;
ond'è meglio allora servirsi di quelli per purificarsi da tale colpa che privarsi della comunione per non potersi
confessare. E talvolta diceva un dotto direttore che riesce a qualche anima timorata più fruttuoso il disporsi alla
comunione cogli atti proprii che colla stessa confessione, avvenendo che allora forse ella si dispone con atti più
fervorosi di pentimento, d'umiltà e di confidenza.

126. In quanto poi alla comunione69, non parliamo qui dell'obbligo de' pastori di non negare la comunione ad
alcun suddito che non sia pubblico peccatore e che

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ragionevolmente la dimandi; di ciò ne abbiam parlato nel Libro (6, 254) dove abbiam veduto che Innocenzo
XI70 in un suo decreto ordinò che l'uso della comunione frequente si lasciasse tutto al giudizio de' confessori;
onde senza causa evidente non so come i parroci possano in buona coscienza negar la comunione a chi la cerca.
E notisi che nell'accennato decreto si proibisce così a' parrochi come a' vescovi di determinare in generale a'
loro sudditi i giorni della comunione. Ma parliamo qui solamente de' confessori, come debbano regolarsi
intorno al concedere la comunione a' loro penitenti.

In ciò alcuni errano per soverchia indulgenza, altri per soverchio rigore. Non ha dubbio essere errore, come
bene avverte il pontefice Benedetto XIV nel suo aureo libro De synodo71, il conceder la frequente comunione a
coloro che spesso cadono in peccati gravi né sono molto solleciti di farne penitenza e d'emendarsene, o a coloro
che vanno a comunicarsi coll'affetto a' peccati veniali deliberati, senza desiderio di liberarsene. Giova sì bene
talvolta dar la comunione ad alcuno il quale stesse in qualche pericolo di colpa grave, per dargli forza a
resistere; ma per quelle persone che non sono in tal pericolo e d'altra

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parte commettono ordinariamente peccati veniali deliberati, e non si vede in esse né emenda né desiderio
d'emenda, sarà bene non permettere loro la comunione più d'una volta la settimana. Anzi può giovare il proibire
loro anche in qualche settimana la comunione, affinché prendano maggiore orrore ai loro difetti e maggior
riverenza verso il Sagramento. Tanto più che la sentenza più comune vuole che il comunicarsi col peccato
veniale attuale o coll'affetto al medesimo sia nuova colpa per ragione dell'irriverenza al Sagramento72. Alcuni
adducono il decreto di s. Anacleto, dove dicesi: Peracta consecratione, omnes communicent qui noluerint
ecclesiasticis carere liminibus; sic enim et apostoli statuerunt, et sancta romana tenet Ecclesia73. Ma
primieramente si nega dal p. Suarez74 e da altri che mai vi sia stato questo precetto degli apostoli. Per secondo
un tal decreto, come attesta ivi la glossa75 e il Catechismo Romano76, non era per tutti i fedeli, ma solo per li
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ministri assistenti all'altare. Per ultimo, dato che il detto decreto fosse per tutti, è certo che oggidì è andato in
disuso.

127. D'altra parte errano certamente altri direttori, e molto si allontanano dallo spirito della Chiesa, i quali,
senza riguardo al bisogno o al profitto dell'anime, negano indifferentemente la comunione frequente, non per
altra ragione se non perch'è frequente; mentre lo stesso Catechismo Romano77, spiegando il desiderio del s.
concilio di Trento78 che tutti gli astanti alla Messa si comunicassero, insegna essere officio del parroco esortare
sollecitamente i fedeli alla comunione, non solo frequente, ma benanche quotidiana, con dover loro suggerire
che, come il corpo, così l'anima ha bisogno del quotidiano alimento.

Lascio qui di addurre le autorità de' ss. padri e maestri di spirito a ciò conformi: poiché queste già si ritrovano
registrate in tanti libri che trattano della frequente comunione. Bastami sapere dal catechismo Romano nel
luogo citato e dal decreto d'Innocenzo XI79 riferito nel Libro (6, 254) che l'uso frequente ed anche quotidiano
della comunione (come ivi si attesta) è sempre stato approvato dalla Chiesa e da tutti i ss. padri i quali, come
prova un dotto autore, quando han veduto raffreddarsi l'uso della comunione quotidiana, si sono con ogni sforzo
adoperati per rimetterla in piedi. E nel concilio III di Milano sotto s. Carlo Borromeo80 s'impose a' parrochi

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l'esortare nelle prediche questa frequenza della comunione: e di più s'ordinò a' vescovi della provincia che
proibissero il predicare e castigassero severamente chi andasse disseminando il contrario, come seminatore di
scandali e contraddicente al sentimento della Chiesa. Inoltre nel suddetto decreto d'Innocenzo s'ordina a'
vescovi che con somma diligenza provvedano che a niuno sia negata la comunione, anche quotidiana, e che,
secondo conviene, cerchino d'alimentare questa divozione ne' loro sudditi.

Alcuni spiriti rigorosi non negano già esser lecita la comunione quotidiana, ma dicono a ciò richiedersi la
dovuta disposizione. Ma si desidera sapere che cosa intendano per questa dovuta disposizione: la degna? Se
intendono la degna, e chi mai dovrebbe più comunicarsi? Solo Gesù Cristo si comunicò degnamente, perché
solo chi è Dio può ricevere degnamente un Dio. Se poi intendono la disposizione conveniente, già si è detto di
sopra che a coloro i quali tengono attuali colpe veniali o l'affetto ad esse, senza desiderio d'emendarsi, è ben
giusto il negare loro la frequente comunione. Ma se parliamo poi di quell'anime che, avendo già tolto l'affetto a'
peccati anche veniali e superata la maggior parte delle loro male inclinazioni, han gran desiderio di
comunicarsi, dice s. Francesco di Sales81 che questi col consiglio del direttore ben possono comunicarsi ogni
giorno; e s. Tommaso insegna che quando un'anima esperimenta colla comunione di avanzarsi nel divino amore
e non mancar di riverenza, non dev'ella lasciare di comunicarsi ogni giorno. Ecco le sue parole: Si aliquis
experientia comperisset ex quotidiana

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communione augeri amoris fervorem et non minui reverentiam, talis deberet quotidie communicare82. 128. E
sebbene l'astenersi qualche giorno dalla comunione per riverenza è anche virtù, tuttavia dice il p. Granata nel
suo trattato della comunione83 esser comune opinione de' dottori ch'è meglio accostarsi ogni giorno alla
comunione per amore che astenersene per riverenza; e ciò lo conferma lo stesso s. Tommaso dicendo: Et ideo
utrumque pertinet ad reverentiam huius sacramenti et quod quotidie sumatur et quod aliquando abstineatur…
Amor tamen et spes, ad quem semper Scriptura nos provocat, praeferuntur timori84. Anzi ben dice il p.
Barisoni85 che chi si comunica con desiderio di crescere nel divino amore, anche fa un atto di riverenza verso
Gesù Cristo; anzi questi lo fa positivo, dove chi se n'astiene lo fa solamente negativo.
Molti santi, che certamente hanno avuta gran riverenza a questo Sagramento, non si sono astenuti dal
comunicarsi ogni giorno, come usarono s. Geltrude86, s.

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Caterina da Siena87, s. Teresa88, la b. Giovanna di Chantal89 ed altri. Ed a chi dicesse che oggidì non vi sono più
queste sante Terese, ben risponde il mentovato p. Barisoni90 esser temerità il supporre che al presente sia
abbreviata la mano del Signore. Il v.p. maestro Avila91 giunge a dire che quelli che riprendono chi si accosta
molto spesso alla comunione fanno l'officio del demonio.

129. Del resto, considerando le riferite dottrine, par che non possa senza scrupolo il direttore negar la
comunione frequente ed anche quotidiana (eccettuato, ordinariamente parlando, un giorno della settimana,
come sogliono ordinare alcuni buoni direttori, ed eccettuato quel tempo in cui togliessero la comunione per far
prova dell'ubbidienza o dell'umiltà del penitente o per altro buon fine) ad un'anima che la desidera per avanzarsi
nel santo amore, sempreché ella, stando già distaccata coll'affetto da ogni peccato veniale, attende di più a far
molta orazione mentale e cerca di camminare alla perfezione e non cade in peccati neppure veniali pienamente
volontari; poiché questa è la perfezione, come dice s. Prospero92, che può aversi dall'anime secondo la fragilità
umana.

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E quando il confessore giudica profittevole il dar la comunione frequente a simili persone, dice Innocenzo XI
nel suo decreto che non deve ostare che sieno anche negoziati o casati. Ecco le sue parole: Frequens (ad
Eucharistiam) accessus confessariorum… iudicio est relinquendus, qui ex conscientiarum puritate et
frequentiae fructu et ad pietatem processu laicis negotiatoribus et coniugatis, quod prospiciant eorum saluti
profuturum, id illis praescribere debebunt93.

130. E sebbene alcun'anima cadesse qualche volta in qualche peccato veniale volontario per mera fragilità, ma
presto se ne dolesse e proponesse l'emenda, se poi desiderasse comunicarsi per acquistar forza dal Sagramento a
non cadere e per avanzarsi nella perfezione, perché se l'ha da negare la comunione?

Fu già condannata da Alessandro VIII la proposizione 22 di Baio, che diceva: Sacrilegi sunt iudicandi qui ius
ad communionem percipiendam praetendunt antequam de delictis suis poenitentiam egerint94. E così anche la

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proposizione 23: Similiter arcendi sunt a sacra communione quibus nondum inest amor Dei purissimus et
omnis mixtionis expers95. Il s. concilio di Trento chiama questo Sagramento: Antidotum quo liberemur a culpis
quotidianis, et a mortalibus praeservemur96. Certamente, a questo fine ancora di preservare l'anime dal
ricadere, gli apostoli davano la comunione quotidiana agli antichi cristiani, fra' quali senza dubbio se ne
trovavano imperfetti di tal sorta e forse più, come si ricava dall'epistole di s. Paolo97 e di s. Giacomo98. La s.
Chiesa (nel postcommunio della domenica 24 post Pentec.) prega: Ut… quidquid in nostra mente vitiosum est,
ipsorum (sacramentorum) medicationis dono curetur99. Dunque la comunione è istituita anche per gl'imperfetti,
affinché colla virtù di tal cibo si guariscano. Notisi di più ciò che s. Francesco di Sales nella sua Filotea a tal
proposito dice: Se vi dimandano perché vi comunicate tanto spesso,… dite loro che due sorte di persone si
deono comunicare spesso, i perfetti e gl'imperfetti: i perfetti per conservarsi nella perfezione e gl'imperfetti per
poter giungere alla perfezione; i forti affinché non

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diventino deboli, e i deboli affinché diventino forti; gl'infermi per essere guariti e i sani affinché non
s'infermino. Ed in quanto a voi, com'imperfetta, inferma e debole, avete bisogno di spesso comunicarvi… Dite
loro che quelli che non han negozi mondani debbono spesso comunicarsi, perché ne hanno la comodità, e
quelli che li hanno, perché han bisogno della comunione (2, 21). Conclude finalmente il Santo: Comunicatevi
spesso, Filotea, e più spesso che potete, col consiglio del vostro padre spirituale e credetemi: le lepri diventano
bianche nelle nostre montagne, perché non si cibano che di neve; ed a forza di mangiar la purità in questo
Sagramento, voi diventerete tutta pura (l. cit.). Parimente il p. Granata nel suo trattato della comunione dice
così: Non deve scostarsi l'uomo da questo Sagramento per la propria indegnità, giacché per i poveri s'è
lasciato questo tesoro e per gl'infermi questa medicina. Sicché niuno (soggiunge) per quanto sia imperfetto,
deve allontanarsi da questo rimedio, se desidera veramente guarire100. Anzi dice l'Autore nominato di sopra,
che quanto più alcuno si conosce debole, tanto più deve andare a prender questo cibo de' forti. E ciò è ben
conforme a quel che dicea s. Ambrogio: Qui semper pecco, debeo semper habere medicinam101; e s. Agostino:
Quotidie peccas, quotidie sume102.

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131. Tanto più che s. Tommaso103 insegna che l'effetto del Sagramento, in quanto all'aumento della grazia, non
viene impedito da' peccati veniali, purché questi non si commettano attualmente nel ricever la comunione,
dicendo che questi impediscono sì bene in parte, ma non in tutto l'effetto del Sagramento. E questa sentenza è
comunemente ritenuta dal Soto104, dal Suarez105, dal Valentia106, dal Vasquez107, dal Coninchio108 e da molti
altri.

Inoltre è buona sentenza di molti autori gravi, che questo Sagramento da sé immediatament ex opere operato
rimette i peccati veniali, di cui l'anima non abbia attual compiacenza. E ciò è conforme a quel che dice il
Catechismo Romano: Remitti vero Eucharistia et condonari leviora peccata, quae venialia dici solent, non est
quod dubitari debeat. Quidquid enim cupiditatis ardore anima amisit… totum Eucharistia, eas ipsas minores
culpas abstergens, restituit109. Almeno, come dice l'Angelico

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colla comune, si eccita colla comunione l'atto di carità, per cui si rimettono poi le colpe: Qui (actus caritatis)
excitatur in hoc Sacramento, per quem peccata venialia solvuntur110. 132. Che se poi si scorgesse che colla
comunione frequente l'anima non si vedesse avanzare nella perfezione, né emendarsi dalle colpe deliberate,
benché veniali, come in cercare gusti de' sensi di mangiare, vedere, sentire, vestir con vanità, etc. allora sembra
certamente consiglio restringer l'uso della comunione, anche per farla più avvertita a correggersi e migliorarsi
nello spirito.

Del resto avvertasi che sebbene, come insegna s. Tommaso, affinché poss'alcuno accostarsi alla comunione,
requiritur ut cum magna devotione… accedat111, tuttavia non è necessario che questa divozione sia somma o
che sia sensibile. Basterà che 'l direttore scorga nel fondo della volontà del suo penitente esservi radicata una
prontezza di eseguire ciò che piace a Dio. Altrimenti chi s'astiene dalla comunione per non conoscere in sé un
gran fervore, dice il dotto Gersone112, che sarebbe costui come quegli il quale, avendo freddo, non volesse
accostarsi al fuoco per non sentirsi caldo. Onde insegna il p. Granata

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113 col Gaetano114 che quelle persone pusillanimi, le quali per immoderato timore delle loro indegnità lasciano
le comunioni, fanno un gran pregiudizio al loro profitto.

Né è necessario per proseguire le comunioni, dice s. Lorenzo Giustiniano115, che l'anima senta o conosca
chiaramente in sé l'accrescimento del fervore, poiché alle volte questo sagramento opera senza che noi ce ne
accorgiamo. E s. Bonaventura dice: Licet... tepide, tamen confidens de misericordia Dei fiducialiter accedat,
quia, qui se indignum reputat, cogitet, quod tanto magis aeger necesse habet requirere medicum, quanto
senserit se aegrotum… Nec ideo quaeris te iungere Christo, ut tu eum sanctifices, sed ut tu sanctificeris ab illo.
E poi soggiunge: Nec… praetermittenda est sacra communio, si quandoque non sentit homo specialem
devotionis gratiam, cum se ad illam praeparare studet, vel cum in ipsa perceptione, vel post, forte minus
devotum se sentit, quam vellet116. In

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somma, ben esprime il Santo, che sebbene l'anima sentisse minor divozione dopo la comunione che prima,
neppure deve lasciarla.

Sicché, come quando l'anima sente grande inclinazione alla comunione, giova talvolta mortificarla con
differircela (specialmente se vedesi che colla proibizione s'inquieta, poiché tal'inquiete è segno di superbia che
ne la rende indegna); così al contrario, quando si sente arida e tediosa a comunicarsi, giova allora farla
comunicare più spesso, affinché dal Sagramento riceva forza.

133. Oh volesse Dio, dico finalmente, che si trovassero nel mondo molte di quest'anime (che da alcuni
appassionati per lo spirito del rigore son chiamate irriverenti e temerarie), le quali avendo già orrore anche alle
colpe leggiere, cercassero di comunicarsi spesso, ed anche ogni giorno, con vero desiderio d'emendarsi e
d'avanzarsi nel divino amore, che certamente nel mondo si vedrebbe assai più amato Gesù Cristo!

Ben dà a vedere l'esperienza a tutti coloro che han qualche pratica d'anime, come l'ho veduto io, che molto
profittano quelle persone le quali con buon desiderio si accostano alla comunione, e che il Signore le va
mirabilmente tirando al suo amore, benché spesse volte non lo dia loro a conoscere per loro maggior bene,
lasciandole in desolazione e tenebre e senza conforto di sensibile divozione.

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E per quest'anime, come insegnano s. Teresa117 e 'l b. Errico Susone118, non v'è miglior aiuto che la frequenza
della s. comunione.

Sicché, per concludere, procuri il confessore di consigliar la comunione, sempreché l'anima ne dimostra vero
desiderio, e scorge che colla comunione ella si avanza nello spirito.

Procuri poi d'insinuarle che dopo la comunione si trattenga al ringraziamento per quel tempo che può. Rari sono
i direttori che attendono a questo, cioè d'inculcare a' lor penitenti che si trattengano per qualche tempo notabile
dopo la comunione, perché rari son quei sacerdoti che si fermano a ringraziar Gesù Cristo dopo la Messa, e
perciò si vergognano d'insinuare agli altri ciò ch'essi non fanno. Il ringraziamento ordinariamente dovrebbe
essere di un'ora; almeno sia di mezz'ora, in cui l'anima si trattenga in affetti e preghiere. Dice s. Teresa che dopo
la comunione Gesù Cristo sta nell'anima come in trono di misericordia per dispensar le grazie, dicendole: Quid
vis, ut tibi faciam119? Ed in altro luogo: Dopo la comunione non perdiamo così buona opportunità di negoziare;
non suole sua Maestà mal pagare l'alloggio, se gli vien fatta buona accoglienza120.

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Le insinui ancora che faccia spesso la comunione spirituale, così lodata dal concilio di Trento121. Il comunicarsi
spiritualmente (dice s. Teresa) è di molto profitto. Non lo lasciate, ché qui farà prova il Signore, quanto
l'amate122. Regolamento per una religiosa che domanda d'esser guidata per la via della perfezione.

134. Premetto che le cose che qui soggiungo s'intendono sempreché non ostasse alla penitente qualche
impedimento di salute o d'officio o d'ubbidienza. E tutto s'intende sempre doversi fare colla licenza del padre
spirituale ed anche della superiora del monastero, per quanto spetta alle mortificazioni esterne che appariscono
in pubblico.

135. E per primo circa l'orazione.

1. Tre ore almeno d'orazione mentale, cioè una la mattina, un'altra la sera ed un'altra dopo la comunione123.

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2. La visita al santissimo Sagramento124 ed a Maria santissima per mezz'ora o almeno per un quarto d'ora. In
queste orazioni procuri di rinnovare i voti più volte al giorno, s'è religiosa professa, o quei voti che tiene.

3. Il rosario almeno di cinque poste125, con altre orazioni vocali; ma queste non sieno molte, perché quando son
molte, si dicono con poco frutto, aggravano la testa, ed impediscono poi l'orazione mentale.

4. Usare spesso le orazioni giaculatorie126, per

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esempio: Mio Dio e mio tutto. Dio mio, quanto sei buono! T'amo, Gesù mio, morto per me! Gesù mio, come
non t'amano tutti? Non t'avessi mai offeso! Voglio quanto volete voi. Quando ti vedrò e t'amerò da faccia a
faccia? Eccomi fanne di me quel che ti piace. Insinui fortemente il direttore questi lanciamenti d'amore, e l'
anima ne faccia gran conto.

Per 5. Coll'orazione deve accompagnarsi la lezione spirituale di mezz'ora sopra il p. Rodriguez127, il p. Saint-
Jure128, gli Avvisi a' religiosi129, o altro libro che tratti di virtù, o pure sopra le vite de' santi, la cui lezione è
forse la più utile di tutte.

136. Per secondo la comunione ogni mattina, fuori d'un giorno la settimana; ma nelle novene dello Spirito
Santo, di Natale, di Maria ss.130 e de' santi avvocati ogni giorno. E per ogni giorno almeno tre comunioni
spirituali131.

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137,

Per terzo, circa le mortificazioni:


1. La disciplina a secco ogni giorno per un quarto d'ora in circa e quella a sangue una o due volte il mese.

2. La catenella nella mattina fino ad ora di pranzo e nel giorno qualche picciola catenella al braccio per ricordo.
Non la catenella alla cintura, né cilizi di crini, perché questi molto nocciono alla salute.

3. Il digiuno in pane ed acqua nel sabato e nelle vigilie delle sette feste di Maria per chi può farlo; almeno allora
contentarsi d'una sola minestra. Il digiuno ordinariamente ogni sera, cioè che non si eccedano le otto oncie di
cibo, se non vi fosse qualche urgenza straordinaria. Astenersi da' frutti il mercoledì e venerdì e nelle novene
mentovate di sopra, in cui può anche lasciarsi qualche pietanza, ed accompagnarvi anche col cibo qualch'erba
amara, ma non cenere. Non mangiar mai fuor di tavola, poich'è meglio, comparativamente parlando, far la
suddetta astinenza ogni giorno, che far il digiuno una o due volte la settimana. Il sonno non sia più di sei ore,
ma non meno di cinque, perché l'eccedente mancanza del sonno nuoce alla testa ed impedisce poi gli altri
esercizi spirituali.

4. Osservar silenzio per tre ore del giorno: s'intende astenersi dalle parole non necessarie.

65 P. Barisoni, Lettera ad una signora… (sulla) frequenza del SS. Sacram, cap. 1. in f. et cap. 5, init. (edit. Neapol. 1632). (G. B.). Opera
all'Indice, donec corrigatur.

66 Cfr. De poenitentia, 2, 89, in Opera omnia, Mediolani, Typ. S. Josephi, 1879, 4, p. 561. Barisoni cita l'opera apocrifa di S. Ambrogio, lib. 3
de Sacram. cap. 4.

67 Lettre à madame la présidente Brulart, 3 mai 1604, in Oeuvres, 12, p. 268.

68 Sessio 14, de Poenitentia, cap. 5.

69 Ecco alcune prescrizioni del nuovo Codice al riguardo:

Can. 898—I fedeli abbiano in sommo onore la santissima Eucaristia... ricevendo con frequenza e massima
devozione questo sacramento. Cfr. can. 528. 2.

Can. 917 — Chi ha già ricevuto la santissima Eucaristia, può riceverla di nuovo lo stesso giorno, soltanto
entro la celebrazione eucaristica alla quale partecipa, salvo il disposto del can. 921. 2 (ove si parla di chi è in
pericolo di morte.) Solo una seconda volta, non tutte le volte che partecipa alla celebrazione eucaristica. Pont.
Com. Cod. 26 giugno 1984, I.

Can. 919. 1—Chi sta per ricevere la santissima Eucaristia si astenga per lo spazio di almeno un'ora prima
della sacra comunione da qualunque cibo o bevanda, fatta eccezione soltanto per l'acqua e le medicine... 3.
Gli anziani, coloro che sono affetti da qualche infermità e le persone addette alle loro cure, possono ricevere
la santissima Eucaristia anche se hanno preso qualcosa entro l'ora antecedente.

Can. 915—Non siano ammessi alla sacra comunione gli scomunicati e gli interdetti, dopo l'irrogazione o la
dichiarazione dello pena e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto.

Can. 912—Ogni battezzato, il quale non ne abbia la proibizione dal diritto, può e deve essere ammesso alla
sacra comunione.

70 S. C. C. decr. Cum ad aures, 12 febr. 1679, in Fontes, 2848.

71 De synodo dioecesana, 7, 12, 9, in Opera omnia, Prati, Typ. Aldina, 1839-1847, 11, p. 225.
72 Da queste parole pare che s. Alfonso condividesse tale sentenza sia all'epoca della composizione della Pratica (1751) che della versione
latina, cioè della Praxis (1756), ma nel 1757, nella Istruzione e pratica, si dichiara per la sentenza opposta. Scrive infatti (Append. 1, 29): È
sentenza di molti che il comunicarsi coll'affetto al peccato veniale sia nuova colpa per cagione dell'irriverenza al Sagramento (benché noi
abbiamo tenuto l'opposto al cap. XV, num. 7).

73 Così in italiano: Fatta la consacrazione, tutti si accostino alla comunione, se non vogliono restare fuori della Chiesa; così infatti hanno
stabilito gli apostoli e così vuole la santa Chiesa romana. Can. Peracta 10, D. II, de cons.

74 De sacramentis, 69, 3, ad 2 et 70, 2, 1, in Opera, Venetiis, Coleti, 1747, 18, pp. 719 et 722.

75 In can. cit.

76 De Eucharistiae sacramento, 61.


77 Ibid. 60.

78 Sessio 13, de reformatione, can. 9.

79 S. C. C. decr. Cum ad aures, 12 febr. 1679, in Fontes, 2848.

80 S. Carolus Borromaeus, Concilium Prov. III: De iis quae ad sacram Eucharistiam pertinent, in Acta Ecclesiae Mediolanensis, cit, p. 92.
81 Introduction à la vie dévote, 2, 20.
82 Così in italiano: Se qualcuno conoscesse che dalla comunione quotidiana aumenta il fervore dell'amore e non diminuisce la riverenza,
questo tale dovrebbe comunicarsi ogni giorno. —In IV Sent. dist. 12, qu. 3, art. 1, solutio 2.

83 L. Granada, Tr. de S. Euch. Sacram. cap. 2, v. med., et cap 8, v. med. (G. B.). Cfr. Memoriale della vita cristiana, 1, 3, 10, in Opere
spirituali, Venezia, Baglioni, 1703, 1, p. 94.

84 Traduzione: E perciò fa parte di questo sacramento tanto il comunicarsi ogni giorno, quanto l'astenersene qualche voltu. L'amore però e
la speranza, cui sempre la Scrittura ci invita, sono da preferirsi al timore. - 3, q. 80, art. 10, ad 3.

85 O. cit., cap. 5, v. med. (G. B.).

86 A. Salvini—C. Poggi, Santa Geltrude la grande, Messina, S. Paolo, 1934, pp. 272-275.
87 Raimundus Capuanus, Vita, 124 et 31 2-324, in Acta Sanctorum aprilis, 3, Antverpiae, Cnobarus, 1675, pp. 884 et 931-934.

88 F. De Ribera, Vita di Santa Teresa. Vers. it. Modena, Immacolata, s. t., 4, 12, p. 608.

89 C. A. Saccarelli, Vita, in Opere, Venezia, Occhi, 1770, 1, p. 216.

90 O. cit. cap. 3, v fin.

91 Trattati del SS. Sacramento dell'altare, tr. 27, in f. (edit. Rom. 1608). (G. B.).

92 Julianus Pomerius, De Vita contemplativa, 1, 9 (ML. 59, 426): opera attribuita erroneamente a s. Prospero.
93 Così in italiano: L'accostarsi frequentemente (alla comunione)... è da lasciare al giudizio dei confessori i quali dalla purità di coscienza e
dal frutto della frequenza e dal progresso nella pietà dovranno ai laici immersi negli affari ed alle persone coniugate prescrivere ciò che giovi
alla loro salvezza. —S. C. C. decr. Cum ad aures, 12 febr. 1679, in Fontes, 2848.

94. Traduzione: Sono da giudicarsi rei di sacrilegio coloro che pretendono di aver diritto di ricevere la comunione prima di far penitenza dei
loro delitti. —S. C. OFF. decr. 7 dec. 1690, in Fontes, 760.

95. Traduzione: Parimenti sono da allontanare dalla sacra comunione coloro che non hanno ancora l'amore purissimo di Dio e scevro di ogni
macchia. —Ibid.
96. Traduzione: Medicina con cui siamo liberati dalle colpe veniali e siamo preservati da quelle mortali. —Sess. 13, De Euchar. cap. 2.

97. 1 Cor. 1, 11-12; 5; 6, 1-8; 11, 17-22; Philipp. 3, 18-19; etc.

98. Jac. 4, 1-4; etc.

99. Così in italiano: Affinché... tutto ciò che nell'anima nostra è peccaminoso, sia curato dalla medicina del sacramento.
100. Cfr. Memoriale della vita cristiana, 1, 3, 4 e 1, 3, 10, in Opere spirituali cit. 1, p. 77 e 94.

101. Io che sempre pecco, debbo sempre prendere la medicina. De sacramentis (apocr.), 4, 28 (ML. 16, 464).

102. Tu che ogni giorno pecchi, ogni giorno comunicati. La frase non è di s. Agostino, ma il pensiero ricorre frequentemente nelle sue opere,
per es. nei Sermones 57, 58, 131 (ML. 38, 389, 395, 729).

103. 3, q. 79, art. 8.

104. F. D. Sotus, In IV Sententiarum, Venetiis, Lenus, 1575, 11, 2, 8, ad 3.

105. F. Suarez, De sacramentis, 63, 3, in Opera, cit. 18, p. 649.

106. G. Valentia, Comm. in III partem, 6, 7, 3, in Commentaria theologica, Venetiis, De Franciscis, 1608, 4, p. 1025.

107. G. Vasquez, In III partem, disp. 206, cap. 2 (edit. Lugdun. 1631). (G. B.).

108. Ae. Coninck, Commentaria ac disputationes in universam doctrinam D. Thomae de sacramentis et censuris, Rothmagi, Osmont, 1630,
79, 59, p. 218.

109. Non può mettersi in dubbio che con la comunione vengano rimessi e perdonati i peccati leggeri che si è soliti chiamare veniali. Tutto ciò
infatti che l'anima ha abbandonato per l'ardore della cupidità... tutto l'Eucaristia restituisce, togliendo i minori peccati— De Eucharistia, 52.

110. In questo sacramento viene eccitato un atto di carità per cui sono rimessi i peccati veniali 3, q. 79, art. 4, c.

111. Occorre che si accosti con grande devozione. 3, q. 80, art, 10, c. Cfr. VI Aggiunta.

112. Tractatus nonus super Magnificat, 3, in Opera cit. 4, p. 422.


114. Cfr. De Vio, Card. Caietanus, Evangelia cum commentariis, Parisiis, Petit, 1540, in 6 Jo., pp. 203, 206; ove si afferma in genere la
necessità dell'Eucaristia per la vita spirituale; affermazioni simili sono anche nel commento del Gaetano alla Somma, 3, q. 79, art. 3; ma il
pensiero com'è espresso da s. Alfonso è introvabile.

115. De disciplina et perfectione monasticae conversat., cap. 19, v. fin. (edit. Venet. 1721). (G. B.).

116. Traduzione: Anche se... senza fervore, pure si accosti confidando nella misericordia di Dio, perché colui che si giudica indegno deve
pensare che l'ammalato ha tanto maggior necessità di cercare il medico, quanto più si sente infermo... Né tu cerchi di unirti a Cristo per
santificare lui ma per essere tu santificato da lui. E non si deve omettere la sacra comunione se l'uomo talora non sente una speciale grazia di
devozione, quando procura di prepararvisi o quando nell'atto di ricevere la comunione e dopo si sente meno devoto di quanto vorrebbe. —De
profectu religiosorum, 77, in fine opera che figurò in passato tra le opere di s. Bonaventura, quando invece ne è autore il Beato Davide
d'Augsbourg (S. Bonaventura. Opera omnia, ed. cit. 8, p. XCV).

117. Camino de perfección, 34, in Obras, 3, pp. 161-163.

118. B. Suso. Cfr. Dialog. cap. 22 (edit. Colon. 1588).

119. Che desideri che faccia per te? —Camino de perfección, 34, in Obras, 3, p. 164.
120. O. cit., 34, in Obras, 3, p. 166.
121. Sess. 13, de Eucharistia, cap. 8; sess. 22, de sacrificio Missae, cap. 6. Cfr. Pius XII, ep. encycl. Mediator Dei, 20 nov. 1947, in AAS 39,
1947, p. 566.

122. O. cit., 35, in Obras, 3, p. 167. V. nota 131 al n. 136. L'atto di comunione spirituale, fatto con qualsiasi pia formula, è arricchito di
indulgenza parziale. Enchiridion, p. 50, 15.

123. Nelle Regole per il Ven. Monastero di s. Maria Regina coeli, 1, 1, 1, in Opere ascetiche, Torino, Marietti, 1847, 4, p. 680, s. Alfonso
prescrive la meditazione "per un'ora ogni giorno"; e nelle Costituzioni e regole della Congregazione dei sacerdoti del SS. Redentore, 2, 22,
ibid. p. 693, è stabilito che si faccia meditazione tre volte al giorno: "La mattina e la sera in comune, il giorno privatamente nelle proprie
stanze, impiegandovi mezz'ora per ciascheduna volta". Le Regole qui citate sono del 1764 (De Meulem. 61 e 12), quindi assai posteriori alla
Pratica. A chi fa orazione mentale è concessa indulgenza parziale. Enchiridion, p. 60, n. 38.

124. Indulgenza parziale; plenaria se protratta per almeno mezz'ora. Enchiridion, p. 44, n. 3.

125. Recita del Rosario mariano. Indulgenza plenaria se il Rosario si recita in una chiesa od oratorio (cfr. can. 1223) o in famiglia in
comunità religiosa od in una pia associazione; parziale nelle altre circostanze.

Quanto alla indulgenza plenaria è stabilito: 1. Basta la recita d'una sola terza parte ma le cinque decadi
debbono recitarsi di seguito. - 2. Alla preghiera vocale si deve aggiungere una pia meditazione dei misteri. —
3. Nella recita pubblica i misteri debbono essere enunciati secondo la consuetudine locale approvata, nella
recita privata invece basta che il fedele aggiunga all'orazione vocale la meditazione dei misteri. —4. Presso gli
Orientali, ove non vige la pratica di questa devozione, i Patriarchi potranno stabilire altre preghiere in onore
della beata V. Maria (per es. presso i Bizantini l'inno "Akathistos" o l'ufficio "Paraclisis"), che godranno delle
medesime indulgenze del Rosario. Enchiridion, pp. 62-63, n. 48.

126. Quanto alle indulgenze annesse alle giaculatorie, si applichi ciò che si è detto in nota 3 al n. 78.
127. A. Rodriguez, Esercizio di perfezione e di virtù religiose, parecchie edd.

128. G. B. Saint-Jure, Della cognizione e dell'amore di Dio; L'uomo religioso; L'uomo spirituale; Erario della vita cristiana e religiosa.
Parecchie edizioni anche delle versioni italiane.

129. (G. P. Du Sault), Avvisi e riflessioni sopra le obbligazioni dello stato religioso. Vers. it. Venezia, Bettinelli, 1763, etc.

130. Le novene di Maria ss. sono: Immacolata Concezione, Natività, Presentazione, Annunciazione, Visitazione, Purificazione ed Assunzione.
Cfr. Le glorie di Maria, 2, ossequio 2: delle novene.

131. Ai fedeli che partecipano devotamente alle novene fatte pubblicamente prima delle feste del Natale, Pentecoste ed Immacolata
Concezione è concessa indulgenza parziale; indulgenza parziale anche per la comunione spirituale fatta con qualsiasi formula. Enchiridion, pp.
59 e 50, nn. 34 e 15.

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Avvertimenti generali per perfezione

138. I.

Mettere tutta la confidenza in Dio, ed avere una total diffidenza di sé e de' suoi buoni propositi. Una

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forte risoluzione di vincersi e farsi forza nelle occasioni. Dice s. Teresa: Se 'l difetto non viene da noi, non
abbiamo paura che resti da Dio il darci aiuto per farci santi132. II. Guardarsi da ogni minimo difetto deliberato,
cioè commesso ad occhi aperti. Da peccato deliberato (dice la stessa Santa)133 per molto piccolo che sia, Dio vi
liberi. Poiché, soggiunge: Per mezzo di cose piccole il demonio va facendo buchi per dove entrano cose
grandi134. III. Non inquietarsi dopo i difetti commessi; umiliarsi subito e, ricorrendo a Dio con un breve atto di
pentimento e proposito, mettersi in pace; e così far sempre, sebbene si cadesse cento volte il giorno. E, come
avverte s. Teresa135, non comunicare le proprie tentazioni coll'anime imperfette, perché così si nuoce a sé ed a
quelle.

IV. Procurare il distacco da ogni cosa, da' parenti, dalle robe, da' piaceri; altrimenti, dice s. Teresa: Non
allontanandosi l'anima da' gusti del mondo, presto si tornerà ad allontanare dalla via del Signore136. Sfuggire
la familiarità di persone di diverso sesso, sebbene siano divote, colle quali intromette spesso il demonio certi
affettucci non puri, facendoli apparire spirituali. Vedasi ciò che si è notato al n. 85. Bisogna sopra tutto
distaccarsi dalla stima propria e principalmente dalla propria volontà e fin anche dalle cose spirituali, come
dall'orazione, dalla comunione

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e mortificazioni, quando l'ubbidienza non le permette. In somma bisogna cacciare dal cuore ogni cosa che non è
Dio o non è secondo il maggior gusto di Dio.

V. Rallegrarsi collo spirito in vedersi disprezzata, derisa e tenuta per la peggiore di tutte. O che bella orazione
fa un'anima che abbraccia i disprezzi! Specialmente nelle comunità questa è una delle virtù più necessarie. Con
ciò bisogna fomentare un affetto speciale verso i nostri nemici e persecutori, con servirli, far loro bene, onorarli,
almeno dirne bene e raccomandarli particolarmente a Dio, come han praticato i santi.

VI. Avere un gran desiderio di amare assai Dio e dagli gusto. Dice s. Teresa: Il Signore si compiace talmente
dei desideri, come fossero eseguiti137. Senza questo desiderio l'anima non camminerà avanti nella perfezione,
né Dio le farà grazie molto speciali. La stessa Santa dice: Ordinariamente Dio non fa molti segnalati favori, se
non a chi ha molto desiderato il suo amore138. E col desiderio bisogna sempre unire la risoluzione di far quanto
si può per dar gusto a Dio. S. Teresa: Il demonio ha gran paura d'anime risolute139. Ed altrove: Il Signore non
suole più da noi che una risoluzione, per fare poi Egli tutto dal canto suo140. E con ciò bisogna anche nutrire un
grande affetto all'orazione, ch'è la fornace dove s'accende l'amor divino. Tutti i santi, perché innamorati di Dio,
sono stati anche innamorati

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dell'orazione. Bisogna anche avere un ardente desiderio del paradiso, poiché nel cielo l'anime amano Dio con
tutte le forze, al che non si può giungere in terra, e perciò vuole Dio che noi abbiamo un gran desiderio di
questo gran regno che Gesù Cristo ci ha acquistato col sangue suo.

VII. Avere una grande uniformità alla volontà di Dio in tutte le cose contrarie a' nostri appetiti e perciò offerirsi
spesso tra 'l giorno a Dio. S. Teresa ciò praticava141 cinquanta volte il giorno: Non consiste il guadagno, dice la
Santa, in procurare di godere più Dio, ma in fare la sua volontà142. Ed in altro luogo: La vera unione è unire la
nostra volontà con quella di Dio143. VIII. Osservare ubbidienza perfetta alle regole, a' superiori ed al padre
spirituale. Diceva il v.p. Vincenzo Caraffa: L'ubbidienza è la regina di tutte le virtù, mentre all'ubbidienza tutte
le virtù ubbidiscono144. E s. Teresa: Dio da un'anima che sia risoluta d'amarlo, non vuole altro che
ubbidisca145. Il perfetto ubbidire sta poi nell'ubbidire subito, puntualmente, di buona voglia ed alla cieca, senza
cercar ragioni, sempreché la cosa non sia certo peccato, come dicono s. Bernardo146, s. Francesco

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di Sales147, s. Ignazio di Loiola148 e tutti i maestri di spirito. E nelle cose dubbie eleggere ciò che si presume che
ci direbbe l'ubbidienza: e quando questa presunzione non potesse aversi, eleggere quel ch'è più contrario al
nostro genio. Questo è quel: Vince teipsum149, tanto raccomandato da s. Francesco Saverio150, e da s. Ignazio151
il quale diceva che fa più profitto un'anima mortificata in un quarto d'ora d'orazione, che altre non mortificate in
più ore.

IX. Attendere continuamente alla presenza di Dio. Dice s. Teresa: Tutto il danno ci viene dal non attendere che
Dio ci sta presente152. Chi veramente ama, sempre si ricorda dell'amato. Per conservare poi la memoria di
questa divina presenza, giova in pratica il porsi qualche segno speciale sulla persona, sul tavolino o nella stanza.
E sopra tutto bisogna mantener questa presenza con fare spesso tra 'l giorno atti d'amore a Dio e domande del
suo s. amore: per esempio: Gesù mio, mio amore, mio tutto. Io t'amo con tutto il cuore. Mi dò tutto a te. Fanne
di me quel che vuoi. Io non voglio altro che te e la tua volontà. Dammi l'amore tuo e son contento. E simili.
Avvertasi però a fare questi atti senza violenza e senza andarvi trovando

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consolazione sensibile, ma con soavità e volontà pura, solo per dar gusto a Dio. Dicea s. Teresa: Non abbiam
paura, che Dio lasci senza premio un'alzata d'occhi con ricordarsi di lui153. X. Dirigere l'intenzione di piacere
a Dio in ogni azione che si fa, o sia spirituale o temporale, con dire: Signore, fo questo per darvi gusto. La
buona intenzione si chiama l'alchimia spirituale, che fa diventare oro le azioni più materiali.

XI. Fare gli esercizi spirituali154, ogni anno di dieci o almeno di otto giorni, appartandosi allora, per quanto si
può, da ogni conversazione ed impiego distrattivo, per trattare solamente con Dio. Fare un giorno di simil ritiro
una volta il mese tra l'anno.

Far con divozione speciale le novene del s. Natale, dello Spirito Santo, delle sette feste di Maria, di s. Giuseppe,
dell'Angelo custode e del santo avvocato155. In queste novene potrà usarsi la comunione ogni giorno, un'ora
d'orazione, o mezz'almeno di più; alcune altre orazioni vocali, ma poche, poiché sarà più utile un determinato
numero d'atti d'amore e simili.

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XII. Conservare una divozione speciale a s. Giuseppe, al suo Angelo custode, al suo santo avvocato particolare
ed a s. Michele, avvocato universale de' fedeli; ma sopra tutto a Maria ss. ch'è chiamata dalla Chiesa la nostra
vita e la nostra speranza, poich'è moralmente impossibile che un'anima faccia molto avanzo nella perfezione
senza una divozione particolare e tenera alla Madre di Dio.

Sia tutto ad onore di Gesù Cristo e di Maria Immacolata.

132. Camino de perfección, 16, in Obras, 3, p. 77.

133.Conceptos del amor de Dios, 2, in Obras, 4, p. 233.

134. Las fundaciones, 29, in Obras, 5, p. 283.

135. Avisos... para sus monjas, 67, in Obras, 6, p. 53.


136. Conceptos del amor de Dios, 2, in Obras, 4, pp. 233-234.
137. La Santa esprime pensiero analogo in Vida, 31, in Obras, 1, p. 257.

138. Conceptos del amor de Dios, 5, in Obras, 4, p. 254.

139. Vida, 13, in Obras, 1, pp. 93-94.

140. Las fundacioner, 28, in Obras, 5, p. 252.


141. Questo la Santa raccomandava alle sue monache: Avisos... para sus monjas, 30, in Obras, 6, p. 51.

142. Las fundaciones, 5, in Obras, 5, p. 42.

143. O. cit. 5, in Obras 5, p. 44.

144. P. Gisolfi, Vita del Ven. Carlo Carafa, cap. 31, init. (edit. Neap. 1858). (G. B.).

145. Las fundaciones, 5, in Obras, 5, p. 40.

146. Liber de praecepto et dispensatione, 21 (ML. 182, 873).


147. Introduction à la vie dévote, 1, 4.

148. Examen et Constitutiones Societatis Jesu, 3, 1, 23; 6, 1 et declarat. B, in Institutum Societatis Jesu, cit. 1, pp. 37 et 408.

149. Vinci te stesso.

150. D. Bartoli, Della vita e dell'istituto di s. Ignazio, 4, 12, in Opere, Torino, Marietti, 1825, 2, p. 47.

151. D. Bartoli, O. cit. l. cit. pp. 47-48.

152. Camino de perfección, 50, (Autografo del Escorial), in Obras, 3, P. 307.

153. Camino de perfección, 23, in Obras, 3, p. 110.

154. Ai fedeli che praticano gli esercizi spirituali per almeno tre giorni interi è concessa indulgenza plenaria; a chi partecipa al ritiro mensile,
indulgenza parziale. Enchiridion, pp. 54 e 62, nn. 25 e 45.

155. Per le indulgenze accordate per le novene cfr. la nota 131 al n. 136. Quanto ai santi è concessa indulgenza parziale a chi nella festa
d'un santo recita in onore di lui la orazione contenuta a suo onore nel Messale od altra, approvata dalla Autorità legittima. Enchiridion, p. 65,
n. 54.

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APPENDICE I*

Di alcuni avvertimenti più notabili a' confessori e parroci, colla pratica in fine dell'orazione mentale, per
insegnarla a chi non la sa fare
* Questa preziosissima appendice manca nella prima edizione della Pratica, esistente alla fine del secondo volume della seconda edizione
della Theologia moralis, pubblicata nel 1755, ma è aggiunta alla Pratica che uscì in edizione a parte nel medesimo anno, (pp. 161 - 181)
quantunque non sia notata nell'indice posto all'inizio del volumetto. È stata dunque composta non oltre i primi mesi del 1753, ché il 7 maggio
di quell'anno il libro riceveva l'imprimatur. S. Alfonso la tradusse in latino forse personalmente (Lettere 3, p. 39) apportandovi parecchie
modifiche; altre modifiche ed aggiunte vi apportò nell'Istruzione e pratica (1757). Nell'Homo apostolicus è tradotta alla lettera, com'è ovvio,
la redazione dell'Istruzione e pratica. Erra quindi evidentemente G. B. quando afferma che "in Hom. Apost. Append. 4, primigenius textus ad
verbum latine redditus fuit": non il testo primitivo, ma quello notevolmente cambiato della Istruzione e pratica è tradotto nell'Homo
apostolicus. Dato che le varianti apportate in seguito, numerose e relativamente ampie sono tali da costituire nuova opera, piuttosto che
nuova edizione, mi dispenso dal riferire le varianti esistenti tra la prima redazione (che è quella che qui si riporta) e quelle della Praxis e
dell'Istruzione e pratica; esse del resto ampliano il pensiero del s. Dottore, non lo mutano.

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§ I - Avvertimenti a' confessori

Da tutto ciò che di sovra si è detto, notansi qui alcune cose più principali che deve avvertire il confessore
nell'esercitare il suo officio.

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Prima di tutto procuri da una parte d'usare una somma carità co' peccatori in accoglierli e dar loro animo a
confidare nella divina misericordia. Ma dall'altra non tralasci per rispetto umano di ammonirli con fortezza e di
far loro conoscere lo stato infelice in cui si trovano, con assegnar loro i mezzi opportuni a liberarsi dalle
mal'abitudini contratte; e sovra tutto sia forte in differir loro l'assoluzione, quando bisogna.

A' rozzi domandi per lo più, se sanno i misteri principali della fede. Si osservi in ciò quel che si è detto al num.
22. A tali rozzi, o altri trascurati di coscienza, non tralasci di domandare quelle cose in cui soglion cadere simili
persone, quando non se le confessano.

Sia cauto nelle domande in materia turpe1, specialmente colle signorine e figliuoli, affinché questi non
imparino ciò che non sanno. E se egli in tal materia patisce tentazioni, alzi spesso la mente a Dio, volgendosi a
qualche immagine divota e, prima di porsi a confessare, rinnovi sempre la purità d'intenzione.

A' padri e madri non domandi solo in generale sull'educazione de' figli, ma anche in particolare, e specialmente
se li correggono come debbono, se procurano

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che sappiano la dottrina cristiana, che non pratichino con persone scandalose e precisamente, se son signorine,
che non conversino co' giovani e tanto meno con persone sospette, come ammogliati, religiosi ed ecclesiastici.

A' penitenti di cui può esservi sospetto che abbiano taciuto qualche peccato per rossore (come a' rozzi, donne e
figlioli) domandi se hanno qualche scrupolo della vita passata, con far loro animo a dir tutto. Con tal dimanda
soglion liberarsi molte anime da' sagrilegi.

Sebbene vi fosse concorso di penitenti, non si dia fretta più del dovere, sì che per isbrigarne molti s'abbia a
mancare nell'integrità della confessione o nel disporre a dovere il penitente o pure nel dargli i dovuti
avvertimenti.

Quando alcuno si confessa qualche peccato grave, specialmente se l'ha commesso più volte, non si contenti di
domandare solamente la specie ed il numero, ma dimandi se per lo passato è stato solito a cadervi; e di più con
qual persona ha peccato2 ed in qual luogo, per vedere se vi è abitudine o pure occasione da togliere. In questo
mancano molti confessori e di qua ne avviene la ruina di tante anime, poiché, tralasciando il confessore tali
domande, non può conoscere se 'l penitente è recidivo e non può dargli i mezzi opportuni per togliere
l'abitudine e l'occasione. Si osservi ciò che si è detto nel cap. 4 e 5, dove abbiam veduto che 'l penitente recidivo
non può essere assolto, se non dopo l'esperienza dell'emenda o

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pure se non vi è qualche segno straordinario di sua disposizione. E quando si tratta di occasione prossima, usi
fortezza il confessore, senza riguardo di persone, in differir l'assoluzione, fino che 'l penitente rimuova
l'occasione, quand'ella è in essere, come si è spiegato al n. 61. E se l'occasione è necessaria, almeno sino ch'ella
di prossima si renda rimota coll'esperienza de' mezzi assegnati.

Specialmente stia forte a non assolvere gli sposi che conversano insieme, ed i loro genitori che lo permettono;
né creda loro se dicono che non v'è male, perché ciò è moralmente impossibile, come si sa per esperienza3. Non
assolva coloro che voglion prendere qualche ordine sagro e che sono abituati in qualche vizio, se prima non
vede aver essi acquistata la bontà positiva necessaria ad un tal grado, come s'è detto al n. 70. Stia attento a non
distoglier dalla vocazione religiosa alcun giovine per qualche rispetto umano: il che non può scusarsi da
peccato mortale, come insegna s. Tommaso (Quodlib. 3, art. 14)4. Quanti confessori ignoranti non si fanno
scrupolo di distogliere i giovani dalla vocazione a stato migliore, per compiacere i loro parenti, con dire loro
che i figli son tenuti d'ubbidire a' genitori! Quando che comunemente i dottori insegnano con s. Tommaso che
nell'elezione dello stato ciascuno è libero e, più che a' genitori, deve ubbidire a Dio che lo chiama. Al contrario
avverta il confessore ch'egli non può assolvere alcun altro che senza vocazione volesse ascendere

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agli ordini sagri, per quel che sta notato nel Libro (6, 803).

In confessar sacerdoti sia rispettoso, ma forte in far le dovute correzioni ed in negar l'assoluzione quando
bisogna5. Ed a' sacerdoti di poco timorata coscienza non lasci d'interrogarli specialmente di tre cose:

1. Se ha differita la celebrazione delle Messe6 per un mese, s'erano Messe di morti, e per due s'erano di vivi;
perché ciò non si scusa da peccato grave (6, 317 Qu. 2).

Per 2. se ha celebrato con fretta, poiché sbrigando la Messa per lo spazio meno d'un quarto d'ora, sebbene fosse
Messa votiva della bb. Vergine, o Messa de' morti, neppure sarà scusato da peccato mortale (6, 400), perché in
tale spazio non potrà non mancarsi notabilmente alle cerimonie o almeno alla loro conveniente gravità,
necessaria alla venerazione d'un tanto sagrificio.

Per 3. se ha soddisfatto all'obbligo dell'officio divino, precisamente s'è beneficiato.

Non lasci poi d'insinuargli di abilitarsi secondo il suo talento per la salute delle anime, che faccia l'apparecchio
e ringraziamento alla Messa, coll'orazione mentale7, senza la quale difficilmente sarà buon sacerdote.

In materia di restituzione di roba non assolva ordinariamente il penitente, se prima quegli, potendo, non
restituisce; perché dopo l'assoluzione difficilmente lo farà. Avverta però che molti sono scusati dalla
restituzione

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per la prescrizione8 fatta con buona fede. Notando per 1. che i beni mobili, quando vi è il titolo presunto, si
prescrivono per lo spazio di tre anni, e gli stabili per dieci inter praesentes e venti inter absentes; per 2. esser
probabile che la suddetta prescrizione valga nel foro della coscienza, anche dove nel foro esterno non sta in uso
la legge della prescrizione, com'è nel nostro regno, per la difficoltà che vi è di provar la buona fede. Se
n'eccettuano però quelle prescrizioni che son espressamente proibite da qualche legge municipale, come per
esempio nel regno è riprovata la prescrizione dell'erede quando il testatore ha posseduto in mala fede. Si
osservino l'altre dottrine notate circa la prescrizione nella Morale (3, 504 - 517).

Se 'l penitente ha ricevuta qualche offesa, per cui il nemico stia già inquisito colla corte, non l'assolva
(ordinariamente parlando), se non fa la remissione. Vedasi la presente Pratica al num. 38. Quando prevede che
l'ammonizione non sarà giovevole, e 'l penitente sta in buona fede, la tralasci: specialmente quando si tratta di
nullità di matrimonio già contratto. Se n'eccettua l'obbligo di dinunciare i confessori sollecitanti in materia turpe
perché direttamente al confessore sta imposto il precetto d'imporre un tal obbligo a tutti i sollecitati. Vedasi la
Pratica, ai num. 8, 9 e 72. Faccia fare a tutti l'atto di dolore, se non presume certamente che 'l penitente l'abbia
fatto a dovere. E non lasci di darne i motivi, così d'attrizione come di contrizione, nella forma che si è notato al
num. 10. Ed avverta

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con modo speciale che, se 'l penitente viene indisposto, egli è obbligato, per quanto può, a disporlo per
l'assoluzione. Vedasi al num. 7, in fine.

Que' penitenti che portano solamente peccati veniali, ma abituati, non li assolva, se non vede che ne abbiano
vero pentimento e proposito almeno di alcuno d'essi, o pure se non mettono per materia qualche peccato più
grave della vita passata, come sta notato al num. 65. Quante confessioni invalide (le quali in sé son veri
sagrilegi) si commettono in ciò per negligenza de' confessori!

Imponga solamente quelle penitenze9 le quali può giudicare che 'l penitente facilmente adempirà, come s'è detto
dal num. 11. Ma procuri ch'elle sieno medicinali, come frequenza de' sagramenti, visite, raccomandarsi a Dio
mattina e sera, leggere qualche libro spirituale, ascriversi a qualche congregazione e simili.

Alle persone divote che frequentano i sagramenti, non lasci d'insinuare l'uso dell'orazione mentale, con
chiederne poi conto, almeno interrogandole se l'han fatta. Con usare questa poca diligenza, ogni confessore può
santificare molte anime. Né sia restio a conceder la comunione frequente, sempre che scorge, o prudentemente
stima, che 'l penitente ne ricaverà profitto.

A' scrupolosi insinui sovra tutto l'ubbidienza e sempre loro inculchi che ubbidendo van sicuri e non ubbidendo
si pongono in pericolo di perdersi. E sia forte e rigido nel farsi ubbidire, parlando sempre risolutamente, perché
se parla con timidezza li confonderà peggio di

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prima. Dia loro regole generali per deporre i loro dubbi, secondo a ciascuno conviene, per esempio a chi sempre
fa scrupolo delle confessioni passate, dia l'ubbidienza di non confessarsi, se non di que' peccati che sa
certamente essere stati a lui mortali e certamente non averli mai confessati. Ed in ciò il confessore usi fortezza
in non sentirlo, se non ubbidisce, perché, se qualche volta cede, il penitente sempre starà inquieto. Alcuni
confessori ruinano tali anime con sentirle. Ad un altro il quale tema che ogni azione sia peccaminosa,
gl'imponga che vinca lo scrupolo ed operi liberamente in tutto ciò che non vede esser certo peccato.

Circa la scelta delle opinioni, quando si tratta di allontanare il penitente dal pericolo del peccato formale, il
confessore non di rado deve avvalersi delle opinioni più benigne, per quanto permette la prudenza cristiana10.
Quando poi qualche opinione rende più vicino il pericolo del peccato formale, allora deve in ogni conto
consigliare l'opinione più rigida. Vedi ciò che s'è detto al num. 64. Dico consigliare, perché, quando l'opinione
è probabile e 'l penitente vuol seguirla, non può negargli l'assoluzione per lo jus certo che colui vi ha acquistato
colla confessione fatta de' suoi peccati, come al num. 95. Nel confessare e trattar colle donne11 usi la maggiore
austerità che conviene secondo la prudenza; e perciò ricusi i regali, sfugga la familiarità ed ogni altra cosa che
può essere causa d'attacco. Per essere in ciò trascurati, quanti confessori han ruinate l'anime proprie e delle
penitenti!

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Sia umile e non presuma della sua dottrina, onde preghi spesso Iddio per li meriti di Gesù Cristo, specialmente
ne' casi dubbi, che gli dia luce per ben risolverli. Invocavi, et venit in me spiritus sapientiae (Sap. 7, 7). E perciò
un confessore che non fa orazione difficilmente camminerà diritto; e ne' dubbi più intricati o di maggior
consequenza non lasci di consigliarsi con altri dotti e pratici. Specialmente ciò lo pratichi nella guida di qualche
anima sollevata, che sia favorita di grazie sovranaturali, quand'egli in tal materia è poco esperto. Alcuni, che
appena della scienza mistica hanno qualche infarinatura, come suol dirsi, si vergognano di consigliarsi. Non
fanno così i veri umili: questi non solo si consigliano, e con più d'uno, quando bisogna, ma non si prendon
gelosia di mandare tali sorte d'anime a dirigersi da' maestri più esperti, o almeno a sentirne il loro giudizio.
Queste anime poi il confessore non le senta in giorno di festa, ma nelle feste dia luogo alle più bisognose,
specialmente de' poveri faticatori.

1 Cfr. nn. 39-41 e le note ivi apposte.


2 Vedere n. 97 e can. 979. - (A. M.).
3 Vedere la nota 2 al n. 60 (A. M.).

4 Vedere n. 79 (A. M.).


5 Vedere III Aggiunta, B (A. M.).

6 Cfr. cann. 953-958.

7 Cfr. cann. 909 e 276. 2, 5°.


8 Cfr. Codice civile, artt. 1158-1167, 534, 535, etc.
9 Cfr. can. 981.
10 Vedere la nota 15 al n. 64. (A. M.).

11 Cfr. n. 98.

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§ II. - Avvertimenti a' parroci

È bene qui notare in breve alcuni obblighi particolari che hanno i parroci circa la cura delle loro pecorelle.

Il parroco è tenuto ad istruirle de' misteri della


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fede e delle cose necessarie alla salvezza12, come sono per 1. i quattro misteri principali, cioè che vi sia un solo
Dio, e che questo Dio sia onnipotente, sapientissimo, creatore e signore del tutto, misericordioso ed amabile più
d'ogni bene; specialmente che sia giusto rimuneratore de' buoni e de' cattivi; di più il mistero della ss. Trinità
dell'Incarnazione e morte di Gesù Cristo. Per 2. i sagramenti necessari, come il battesimo, Eucaristia e
penitenza, e gli altri, almeno quando si han da prendere. Per 3. g articoli del Credo, e fra questi specialmente la
verginità di Maria santissima; la sessione di Gesù alla destra del Padre, cioè ch'egli in cielo sta in gloria eguale
al Padre; la resurrezione de' corpi nel giudizio finale che si farà da Gesù Cristo; l'unità della Chiesa Romana, in
cui solamente si trova la salvezza12A; e finalmente l'eternità del paradiso e dell'inferno. Le quali cose ciascun
fedele per precetto grave è obbligato a sapere. Per 4. i comandamenti de Decalogo e della Chiesa. Per 5. il Pater
noster e l'Ave Maria, e gli atti di fede, speranza, amore e contrizione.

Ora, come pecca gravemente chi trascura di saper queste cose (e di saperle non solo in quanto ai nomi, ma
anche in quanto al senso), così anche gravemente pecca il parroco, come dicono comunemente i dottori, se per
sé o per altri idoneo (stando egli legittimamente impedito, come dice il concilio di Trento, Sess. 5 de reform. c.
2) tralascia d'insegnarle almeno in sostanza a' suoi sudditi, fanciulli e adulti che non le sanno. Ond'è che quando
egli

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vede che i padri o padroni non mandano i loro figli o garzoni alla dottrina, è obbligato a prendervi i dovuti
espedienti col vescovo il quale, come dicesi nel Tridentino (Sess. 24, de reform. c. 4), può costringere i padri
anche con censure ecclesiastiche. I buoni parroci tengono la nota de' figlioli per sapere chi manca. Anzi, dice La
Croix13, che se vi sono persone ignoranti che non possono venire alla chiesa, per dover custodire le case o le
greggi, stando questi in grave necessità spirituale, deve il parroco andar privatamente ad istruiRli cum
quantocumque suo incommodo14, come parla il detto Autore. Almeno, diciamo, quando ciò dovesse riuscirgli
troppo difficile per la numerosità di questi ignoranti, procuri almeno d'esaminarli ed istruirli nel tempo del
precetto pasquale, o pure quando vengono a domandar le fedi per cresimarsi o accasarsi.

È di bene ancora che 'l parroco esplori i maestri e le maestre15, affinché possano ben insegnare a' figlioli e
figliole la dottrina ed i mezzi per vivere nel timore di Dio.

Il parroco è obbligato per se stesso ad amministrare i sagramenti16, ogni volta che giustamente i figliani li
dimandano. E se mai tiene l'economo, esamini bene la di lui vita e scienza: altrimenti de' sconcerti che
n'avverranno egli dovrà darne conto a Dio.

Di più è tenuto d'assistere a' moribondi17, se non

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v'è altri idoneo. Ed i peccatori abituati moribondi dev'egli assisterli con modo speciale, poiché quelli staranno in
una grave necessità della sua assistenza. E circa l'estrema unzione, avverta quel che dice il Catechismo Romano
(part. 2. c. 6, n. 9): Gravissime peccant qui illud tempus aegroti ungendi observare solent, cum iam, omni
salutis spe amissa, vita et sensibus carere incipiat18. È tenuto anche il parroco ad informarsi se i suoi sudditi
hanno adempito il precetto pasquale19. E stia avvertito a non affidare le cartelle della comunione a qualunque
chierico.

Deve impedire che si dia l'abito clericale a quei giovani o figlioli che ne' costumi non dan segno d'indole
ecclesiastica. Deve poi con diligenza ammaestrare i suoi
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chierici20 che già portano l'abito, per lo stato ecclesiastico; altrimenti quelli, lasciati senza istruzione, trovandosi
scorretti, o per fas o per nefas si ordineranno e saranno lo scandalo del paese. Lascio poi di parlare del gran
conto che hanno da rendere a Dio que' parroci che danno le fedi agli ordinandi, ch'essi già conoscono non esser
degni dell'Ordine, o pure le danno senz'assicurarsi prima della loro bontà con diligente informazione21. È tenuto
il parroco ad informarsi di coloro che vivono in peccato per correggerli; delle inimicizie e de' scandali che vi
sono, specialmente tra' sposi, per rimediarvi quanto può. Dice s. Tommaso (2 - 2, q. 33, art. 2, ad 4): Qui habet
spiritualiter curam alicuius, debet eum quaerere ad hoc quod eum corrigat de peccato. E quando v'è qualche
scandalo di persona potente (precisamente s'è sacerdote), a cui egli non può rimediare, deve almeno darne parte
al vescovo, affinché vi provveda. E per qualunque rispetto o timore ciò non può tralasciarlo: il buon pastore è
obbligato a dar la vita per la salute delle sue pecorelle.

Procuri di non prendere le parole degli sposi molto tempo innanzi al matrimonio, perché, fatti i fidanzamenti, in
tutto quel tempo prima delle nozze staranno in peccato così gli sposi, come i di loro genitori.

Quando nel paese vi sono sconcerti notabili, a cui il parroco non può darvi rimedio, egli è obbligato adoprarsi
per farvi venire la missione22, se non trovasse

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altro mezzo per rimediarvi. E sarà sempre conveniente che da quando in quando vi faccia venire confessori
forestieri per l'anime vereconde, specialmente se nella sua terra non suole venirvi il predicatore quadragesimale
a confessarvi. Ma quel parroco che rifiuta la missione, dà gran sospetto di sua probità.

Il parroco non solo deve togliere il male, ma anche promovere il bene, come fanno tutti i buoni pastori, che non
lasciano d'esortare alla frequenza de' sagramenti e delle pie associazioni, alle visite del ss. Sagramento e della
divina Madre, alle novene, all'accompagnamento del Venerabile quando esce per viatico, e sovra tutto
all'orazione mentale, di cui nel § III. si darà il modo pratico e facile che potrà servire per metodo a parroci e
confessori per insegnarla.

Il parroco è obbligato a predicare nelle domeniche e feste principali23, onde dicono i dottori (vedi alla Morale,
3, 269 e 360), che pecca gravemente quel parroco che lascia di predicare per un mese continuo o per tre
discontinui, tolti però i due mesi in cui dichiara il Concilio esser lecita a' parroci l'assenza dalla loro residenza
per giusta causa da approvarsi dal vescovo.

E qui deve notarsi che 'l Tridentino (Sess. 5, de reform. c. 2) ha ordinato che i parrocci pascano le loro greggi
colla divina parola, secondo la di loro capacità24, facendo sermoni facili, affinché intendano quel che si predica;
poiché essendo vero che la fede, come si sparge,

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così si conserva per mezzo della predicazione, fides ex auditu, poco gioveranno a' popoli quelle prediche che
non saranno conformi al modo con cui predicò Gesù Cristo ed i santi apostoli, i quali predicarono, non in
persuasibilibus humanae sapientiae verbis, sed in ostensione spiritus et virtutis25, come dice s. Paolo (I Cor. 2,
4).

E perciò con ragione il v.p.m. Avila26 chiamava, non ministri, ma traditori di Gesù Cristo quei che predicano
con vanità; e 'l p. Gaspare Sanzio27 dicea che costoro sono i maggiori persecutori della Chiesa: mentre col
predicare così, son cagione che si perdano molte anime, le quali colle prediche all'apostolica si salverebbero. Le
parole vane, i periodi sonanti, le descrizioni inutili, dicea s. Francesco di Sales28 che sono la peste della predica,
il cui unico intento dev'essere il muovere al bene la volontà degli uditori, e non già il pascere inutilmente
l'intelletto, come già coll'esperienza si vede che con tal sorta di predicar fiorito l'anime non mutano vita, perché
Iddio colla vanità non vi concorre. E ciò valga detto per tutti i predicatori che predicano con vanità, ma
specialmente per li parroci a cui il Tridentino nel luogo citato prescrive: Archipresbyteri quoque, plebani, et
quicumque parochiales vel alias curam animarum habentes ecclesias quocumque modo obtinent, per se, vel
alios idoneos, si legitime impediti

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fuerint, diebus saltem dominicis et festis solemnibus plebes sibi commissas pro sua et earum capacitate pascant
salutaribus verbis29 (Sess. 5 de reformat. c. 2). Notisi quel pro earum capacitate, onde certamente
controvengono al Concilio que' pastori che predicano alto, oltre la capacità del popolo che sente.

Qui giova ancora avvertire alcune cose più importanti, che 'l parroco predicando deve più spesso inculcare al
suo popolo.

E per 1. che per l'emenda non basta proporre di fuggire il peccato, ma bisogna anche fuggire l'occasione del
peccato. E parlando de' sposi che praticano nelle case delle spose, dica che così essi, come i loro genitori che
ciò permettono, non potranno essere assolti, se non tolgono la suddetta occasione30. Per 2. insista cogli uomini
che non vadano alle taverne, dimostrando loro i molti peccati ch'ivi, oltre l'ubbriachezze, soglion commettersi
di bestemmie, di risse, di scandali, oscenità, discordie colla casa, defraudamenti del vitto alla famiglia, etc.

Per 3. predichi spesso e gridi contro il vizio ch'è generale (specialmente ne' villaggi) di parlar disonesto nelle
campagne e nelle botteghe: tanto più se si parla innanzi a figlioli, a signorine e persone di diverso sesso. Da tali
discorsi quanti giovani si pervertono! Ed avverta in ciò i padri, i padroni ed i maestri di bottega che stiano
attenti

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a correggere e castigare i loro figli o garzoni che parlano così, specialmente in tempo di vendemmia.

Per 4. insista a dimostrare l'enormità del sagrilegio che commettono quei che si confessano e comunicano,
lasciando qualche peccato grave per vergogna. Ed affine di mettere orrore a questo gran male, procuri spesso
di narrare qualche esempio terribile di coloro che han fatto confessioni sacrileghe per rossore e può servirsi in
ciò specialmente del librettino del p. Vega, intitolato Casi della confessione, etc.31. Per 5. insinui spesso le
necessità del dolore e proposito nelle confessioni anche de' peccati veniali, esortando che niuno vada a
prendersi l'assoluzione, se non ha vero pentimento almeno di qualche peccato veniale di quelli che si confessa,
o pure se non mette la materia certa, cioè qualche peccato della vita passata, di cui n'abbia veramente il dolore
necessario per la validità della confessione. E perché i rozzi poco intendono come dev'essere questo dolore,
dichiari spesso che ogni penitente per confessarsi validamente (o il dolore sia di contrizione o d'attrizione), deve
avere un tal dispiacere del suo peccato, che l'odi ed abborrisca sovra ogni male.

Per 6. esorti che negli adiramenti, in vece di bestemmiare o mandare imprecazioni, si avvezzino a dire:
Mannaggia il peccato mio; mannaggia il demonio; o pure: Madonna, aiutami; Signore, dammi pazienza.

Per 7. ponga orrore alle superstizioni o siano vane osservanze, che si adoprano dalla gente per guarire i morbi o
per conoscere i ladri, etc.

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Per 8. inculchi a' padri e madri che castighino i loro figli, specialmente quando son piccioli, quando
bestemmiano o rubano, etc. Di più che attendano a vedere ed informarsi con chi conversano; e loro proibiscano
di praticare con mali compagni e con persone di diverso sesso. Di più che non tengano i figli al loro letto, o
troppo piccioli per lo timore di soffocarli, o troppo grandi, come se han già passati i sei anni, per non dar loro
qualche scandalo. E tanto meno facciano dormire insieme figlioli e figliole.

Per 9. esorti continuamente i suoi figliani nelle tentazioni interne (specialmente di impurità) a discacciarle con
invocare i nomi ss. di Gesù e di Maria. Questo è un gran rimedio contro le tentazioni.

Per 10. insista continuamente ad esortare che, se alcuno cade in peccato mortale, subito faccia un atto di
contrizione per ricuperare la grazia perduta, col proposito di confessarsi quanto più presto può. E tolga loro
l'inganno del demonio, che tanto Dio perdona un peccato, quanto due, potendo essere che 'l Signore al primo
peccato li aspetti, ed al secondo li abbandoni.

Per 11. insegni gli atti che ciascuno deve far la mattina in alzarsi, di ringraziamento, offerta e preghiera con dire
tre Ave a Maria ss. e con proporre d'evitare ogni peccato e specialmente quello dove più spesso ha soluto
cadere, pregando la divina Madre che ne lo liberi; ed esorti tutte le madri che ciò lo facciano praticare ogni
mattina da' loro figli. Predichi di più che i genitori sono obbligati a far frequentare i sagramenti da' figli, poiché,
non frequentandoli, facilmente caderanno in disgrazia di Dio, ed a questo danno debbono i padri provvedere.
Dica anche ch'essi peccano se senza giusta causa impediscono i matrimoni

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a' figli, o li costringono ad accasarsi contro la loro volontà (6, 849, v. Conveniunt); come al contrario peccano i
figli che fan matrimoni contro il giusto volere de' loro genitori (6, 849).

Per 12. essendo vero, come di sopra s'è detto, che 'l parroco è tenuto non solo ad impedire il male, ma anche a
promovere il bene, esorti il popolo alla visita quotidiana del ss. Sagramento ed a qualche immagine di Maria
santissima. Questa visita potrà farla egli in comune col suo popolo nella sera, destinando l'ora al popolo più
comoda, come già si pratica in molti paesi. E dica che quelli che non possono venire alla chiesa, se la facciano
almeno dalla casa. Sopra tutto insinui la frequenza della pia associazione agli uomini e della comunione a tutti,
col dovuto apparecchio e ringraziamento, per mezzo degli atti di fede, d'amore, di offerta e petizione,
insegnando il modo pratico di fare questi atti.

Per 13. procuri spesso di affezionare la gente alla divozione di Maria ss. insinuando quanto sia grande la
potenza e la misericordia di questa divina Madre in aiutare i suoi divoti. Perciò insinui a dire il rosario in
comune ogni giorno colla famiglia, a fare il digiuno il sabato e le novene nelle festività della Madonna, ch'egli
avviserà al popolo dall'altare, ogni volta che verranno le suddette novene.

Ben sarebbe che nel sabato egli facesse un sermoncino con raccontare qualche esempio della beatissima
Vergine, ed una volta l'anno facesse una novena solenne della Madonna col sermone ed esposizione del
Venerabile; e per ciò potrebbe avvalersi tra gli altri del libro che ho stampato, intitolato Glorie di Maria, dove
troverà raccolta

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la materia e gli esempi. Beato quel parroco che tiene infervorati i suoi figliani nella divozione di Maria, poiché
quelli coll'aiuto di Maria viveranno bene ed egli avrà una grande avvocata in punto di morte.

Per ultimo insinui sovra tutto l'uso di raccomandarsi spesso a Dio, con domandargli la santa perseveranza per
amore di Gesù e di Maria; dichiarando spesso che le divine grazie, e specialmente il dono della perseveranza,
non si ottengono se non si cercano. Petite et accipietis32. E pubblichi spesso quella gran promessa di Gesù
Cristo, che quanto domanderemo al Padre in nome di lui, tutto il Padre ci donerà: Amen, amen dico vobis, si
quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis33 (Jo, 16, 23). Insinui anche molto l'uso dell'orazione mentale
e procuri di farla in chiesa col popolo ogni giorno, o almeno in tutte le feste, insegnando anche il modo di farla
in casa; e perciò qui si aggiunge la seguente istruzione, dove si parla della necessità e del modo pratico di far
l'orazione mentale.

12 Cfr. can. 528.

12A Cfr. D - S 430 e 875; Pio XI, Mortalium animos, 6 gen. 1928 (AAS 20, 13 ss.); Vat II, Ad Gentes, n. 7 (Ench. Vat., 1, 1104). (A. M.).
13 C. La-Croix, Theologia moralis, Ravennae-Venetiis, Pezzana, 1761, 2, 174; 3, 767.

14 Anche con qualsiasi suo incomodo.

15 Cfr. can. 804.

16 Cfr. cann. 829 851, 890, 914, e 528. 2.

17 Cfr. Cann. 844. 2, 867. 2, 821, 822, 890, 891.

18 Peccano in modo gravissimo coloro che sono soliti ungere l'infermo quando ormai, perduta ogni speranza di guarigione, incomincia a
mancare di vita e di sensi —Per la disciplina vigente si vedano i cann. 998-1003. Quanto al soggetto dell'unzione degli infermi stabilisce il
nuovo Codice: Can. 1004. L'unzione degli infermi può essere amministrata al fedele che, raggiunto l'uso di ragione, per malattia o vecchiaia
comincia a trovarsi in pericolo. Questo sacramento può essere ripetuto se l'infermo, dopo essersi ristabilito, sia ricaduto nuovamente in una
grave malattia o se, nel decorso della medesima, il pericolo sia divenuto più grave. —Can. 1005. Nel dubbio se l'infermo abbia già raggiunto
l'uso di ragione, se sia gravemente ammalato o se sia morto, questo sacramento sia amministrato. —Cann. 1006 - 1007. Si conferisca il
sacramento a quegli infermi che, mentre erano nel possesso delle proprie facoltà mentali, lo abbiano chiesto, almeno implicitamente; non si
conferisca invece a coloro che perseverano ostinatamente in un peccato grave manifesto.

19 A. Barbosa, De officio et potestate parochi. Venetiis. Milochus 1676, pp. 94 et 227; P. Segneri, Il parroco istruito, in Opere cit. 11, p. 86.
Questi due autori, più che affermare tale obbligo lo presuppongono.

20 Cfr. cann. 233 e 235. 1.

21 Cfr. can. 241.

22 Can. 770—I parroci in tempi determinati, secondo le disposizioni del Vescovo diocesano, organizzino quelle predicazioni, che denominano
esercizi spirituali e sacre missioni, o altre forme adattate alle necessità.

23 Cfr. cann. 775, 777, 779.

24 Cfr. Benedictus XV, ep. encycl. Humani generis, 15 iunii 1917, in AAS 9, 1917, p. 305; S. C. CONSIST. Normae pro sacra praedicatione,
29 iunii 1917, in AAS 9, 1917, p. 328.

25 Non su discorsi persuasivi di umana sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza.

26 Lettere spirituali, Brescia, Gromi, 1728, p. 18.

27 Gaspar Sanchez, Conciones in Dominicis et feriis Quadrag. fer. 4 post Dom. Pass., conc. 4, discurs. 2, in f. (edit. Venet. 1605) aliquid
simile habet (G. B.).

28 Lettre à Monseigneur l'Archeuêque de Bourges, 5 oct. 1604 in Oeuvres, 12, pp. 304-305.
29 Anche gli arcipreti, i pievani e tutti coloro che hanno chiese parrocchiali od altre con cura d'anime, nutrano di salutari insegnamenti,
secondo la propria e la loro capacità, almeno nei giorni festivi, personalmente o, se legittimamente impediti, per mezzo di altre persone
adatte. Cfr. cann. 1248, 762, 767 e 769.

30 Vedere nota 2 al n. 60.

31 C. Vega (seu alius Auctor), Casos raros de la confession, Valencia, Nogues, 1653.

32 Domandate e riceverete.

33 In verità, in verità vi dico: se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà.

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§ III - Breve pratica dell'orazione mentale34.

È certo che per mancanza di considerazione delle verità eterne il mondo è pieno di peccati e l'inferno è pieno
d'anime. Desolatione desolata est omnis terra, quia nullus est qui recogitet corde35 (Ierem. 12, 11). Al
contrario, dice lo Spirito Santo, che chi si ricorda spesso della morte, del giudizio e dell'eternità, starà libero da'
peccati: Memorare novissima tua, et in aeternum non peccabis36 (Eccli. 7, 40). Dice un autore che, se si
domandasse a' dannati: Voi perché vi ritrovate nell'inferno? risponderebbero la maggior parte di loro: Noi ci
troviamo all'inferno, perché non abbiamo pensato all'inferno. Dice s. Vincenzo de' Paoli che, se un peccatore
sentisse la missione o gli esercizi spirituali e non si convertisse, sarebbe un miracolo37; or nell'orazione mentale
è Dio stesso che parla all'anima: Ducam eam in solitudinem et loquar ad cor eius38 (Osea 2, 16). Dio
certamente parla meglio d'ogni predicatore.

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Tutti i santi si son fatti santi coll'orazione mentale; e si vede coll'esperienza che quelli che fan l'orazione
difficilmente cadono in peccato mortale; e, se mai per disgrazia vi cadono qualche volta, seguitando l'orazione,
subito si ravvedono e tornano a Dio. Non possono stare insieme orazione mentale e peccato. Diceva un servo di
Dio che molti dicono il rosario, l'officio della Madonna, fanno digiuni, e seguitano a stare in peccato; ma chi
seguita l'orazione, è impossibile che seguiti a stare in disgrazia di Dio: o lascerà l'orazione, o lascerà il peccato.
Ma se non lascerà l'orazione, non solamente lascerà il peccato, ma toglierà l'amore alle creature e lo darà a Dio.
In meditatione mea exardescet ignis39 (Ps. 38, 4). L'orazione è la fornace dove l'anime si accendono nel divino
amore.

Parlando poi del luogo per far l'orazione, il più proprio è la chiesa; ma coloro che non vi possono venire o
trattenervisi, la possono fare in ogni luogo, nelle case, nelle campagne. Anche camminando e faticando si può
far l'orazione, con tener la mente a Dio. Quante povere villanelle, non potendo altrimenti, si fanno l'orazione
faticando e viaggiando! Chi cerca Dio, ben lo trova in ogni luogo ed in ogni tempo.

In quanto al tempo, il tempo della mattina è il migliore. Poco anderanno bene l'azioni della giornata, quando la
persona nella mattina non s'avrà fatta la sua orazione. L'orazione propriamente dovrebbe farsi due volte il
giorno, la mattina e la sera; ma quando non può farsi la sera, si faccia almeno la mattina. Diceva il v. p.d. Carlo
Caraffa, fondatore de' Pii Operari, che un atto fervoroso

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d'amore fatto nell'orazione della mattina, basta a mantenere l'anima in fervore tutta la giornata40. In quanto poi
al tempo che deve durare l'orazione, il parroco o confessore si regoli colla sua prudenza. È certo che per
giungere ad un grado sublime di perfezione, non basta lo spazio di mezz'ora. Del resto basterà questo tempo per
quelle anime che cominciano; ma sovra tutto s'inculchi loro che non lascino l'orazione quando viene l'aridità. Si
veda ciò che s'è detto di sovra al num. 102. Ma veniamo al modo pratico d'insegnar l'orazione. Ella contiene tre
parti: preparazione, meditazione e conclusione.

Nella preparazione tre sono gli atti che vi si han da fare: di fede della presenza di Dio, di umiltà, e di domanda
di luce. Dicendo per 1: Dio mio, vi credo a me presente e vi adoro dall'abisso del mio niente. - Per 2: Signore,
per li peccati miei ora dovrei stare all'inferno. Mi pento d'avervi offeso. Perdonatemi per pietà! - Per 3: Eterno
Padre, per amore di Gesù e di Maria, datemi lume in questa orazione, affinché io ne cavi profitto. Indi dicasi
un'Ave a Maria ss. affinché n'ottenga questa luce, ed un Gloria Patri a s. Giuseppe, all'Angelo custode ed al
Santo avvocato. Questi atti si facciano con attenzione, ma brevemente, e subito si passi alla meditazione.

Per la meditazione poi giova, a chi sa leggere, il servirsi di qualche libro, con fermarsi dove trova più
sentimento. Dice s. Francesco di Sales41 che in ciò devesi fare come fanno le api, che si fermano su d'un fiore,
fino

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a tanto che vi trovano miele ed indi passano all'altro. Chi poi non sa leggere, mediti i novissimi, i benefici di
Dio e sovra tutto la vita e passione di Gesù Cristo: questa (dice s. Francesco di Sales)42 dev'esser la nostra
meditazione ordinaria. Oh che bel libro è la passione di Gesù per l'anime divote! Ivi meglio che in ogni altro
libro s'intende la malizia del peccato e l'amore d'un Dio verso l'uomo. Parlò una volta da un'immagine il
Redentore al v.fr. Bernardo da Corlione, il quale gli dimandò se volea che imparasse a leggere: e il Crocifisso
rispose: Che leggere? che libri? io sono il libro tuo, questo ti basta43. Bisogna poi avvertire che 'l profitto
dell'orazione mentale non solo né tanto consiste nel meditare, quanto in fare affetti, pregare e risolvere, che
sono i tre frutti della meditazione, come s'è accennato nella Pratica al num. 101. Dopo dunque che la persona
ha meditata qualche massima eterna e dopo che Dio le ha parlato al cuore, bisogna ch'ella col suo cuore parli a
Dio, con fargli affetti, o sieno atti di fede, di ringraziamento, di adorazione, di lode, di umiltà e sovra tutto
d'amore e di contrizione, ch'è anche atto d'amore.

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L'amore è quella catena d'oro che stringe l'anima con Dio. Caritas est vinculum perfectionis44 (Col. 3, 14). Ogni
atto d'amore è un tesoro che ci assicura della divin'amicizia: Infinitus enim thesaurus est hominibus, quo qui usi
sunt, participes facti sunt amicitiae Dei (Sap. 7, 14). Ego diligentes me diligo (Prov. 8, 17). Qui… diligit me,
diligetur a Patre meo (Jo. 14, 21). Caritas operit multitudinem peccatorum (I Petr. 4, 8)45. Vedasi ciò che si è
detto nella Morale in conferma di questo punto (6, 442). La ven. suor Maria Crocifissa46 vide una volta una
gran fiamma, dove gittate alcune paglie, le vide subito consumarsi: con ciò le fu dato ad intendere che con un
atto d'amore vengon tolte e distrutte nell'anima tutte le colpe commesse. Di più, insegna S. Tommaso che ogni
atto d'amore ci fa acquistare un grado di gloria eterna: Quilibet actus caritatis meretur vitam aeternam47 (2 - 2,
qu. 24, art. 6, ad 1; 1 - 2, qu. 114, art. 7, ad 3).

Atti d'amore poi sono il dire: Dio mio, vi stimo sovra ogni cosa. V'amo con tutto il mio cuore. Desidero vedervi
amato da tutti. O pure il rassegnarsi in tutto alla divina volontà, con dire: Signore, fatemi conoscere quel che vi
piace, ch'io son pronto a farlo. O pure l'offerirsi a Dio senza riserba, con dire: Eccomi, fatene di me e delle

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cose mie quel che vi piace. E specialmente queste offerte sono atti d'amore molto cari a Dio; che perciò s.
Teresa cinquanta volte il giorno si offeriva al Signore48. Quando poi l'anima si sentisse unita a Dio con
raccoglimento sovrannaturale ossia infuso, come s'è spiegato al num. 111 della Pratica, non dev'ella affaticarsi
a fare altri atti, se non quelli a cui dolcemente si sente da Dio tirata, dovendo ella solamente attendere allora con
un'attenzione amorosa a ciò che 'l Signore opera in lei, poich'altrimenti potrebbe mettere impedimento alla
divina operazione.

Si noti di più, come avverte s. Francesco di Sales49, che se mai dallo Spirito Santo ci viene ispirato qualche
buon affetto prima della considerazione, allora dobbiamo lasciar la considerazione e dar luogo agli affetti,
mentre la considerazione non si fa che per muovere gli affetti, onde, ottenuto il fine, deve tralasciarsi il mezzo.

Per 2. giova sommamente nell'orazione il replicar le preghiere, domandando con umiltà e confidenza a Dio la
sua luce, il perdono, la perseveranza, la buona morte, il paradiso e sovra tutto il dono del suo santo amore.
Esortava s. Francesco di Sales50 fra tutte le grazie a cercar con maggior fervore la grazia del divino amore,
perché (dicea) con ottener l'amore si ottengono tutte le altre grazie. Basterà insomma all'anima, s'altro non
potesse per la desolazione di spirito in cui si trovasse, basterà (dico) che replichi la preghiera di Davide: Deus,
in adiutorium meum intende: Signore, aiutatemi, aiutatemi presto. Diceva

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il ven. p. Paolo Segneri51 di aver conosciuto coll'esperienza non esservi esercizio più utile per l'anime nella
meditazione che il pregare e tornare a pregare; e pregare in nome ossia per li meriti di Gesù Cristo, il quale ci
ha fatta quella bella promessa, come di sovra s'è detto: Amen, amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in
nomine meo, dabit vobis52. Per 3. bisogna nell'orazione, almeno sul fine di essa, fare qualche risoluzione, non
solo generale, come di evitare ogni colpa deliberata, anche leggiera, e di darsi tutto a Dio, ma anche particolare,
come di fuggire con più attenzione qualche difetto dove più s'è inciampato, o di praticare meglio qualche virtù
dove vi sarà allora l'occasione di più spesso esercitarsi, come di soffrire la molestia di tal persona, d'ubbidire
più esattamente a tal superiore o alla tal regola, di mortificarsi con più attenzione nella tal cosa e simili. E non
ci alziamo dall'orazione, senza far la risoluzione particolare.

Finalmente la conclusione dell'orazione si fa con tre atti. Per 1. si ringrazia Dio de'lumi ricevuti in quella
meditazione. Per 2. si fa il proposito di osservare fedelmente le risoluzioni fatte. Per 3. si domanda all'eterno
Padre, per amore di Gesù e di Maria, l'aiuto per essergli fedeli. E si termina con raccomandargli l'anime del
purgatorio, i prelati della Chiesa, i peccatori e tutti i nostri parenti, amici e benefattori con un Pater ed Ave, che
sono le più utili preghiere insegnateci da Gesù e dalla santa Chiesa.

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Bisogna poi, in uscir dall'orazione, per 1. come dice s. Francesco di Sales53, raccoglierne il mazzolino di fiori,
per odorarli in tutto quel giorno, cioè una o due cose dove l'anima ha ritrovato maggior sentimento, affin di
ricordarsene e rinvigorirsi nel resto della giornata. Per 2. bisogna procurare di metter subito in pratica le
risoluzioni fatte, nelle occasioni così picciole, come grandi che ci si presenteranno, per esempio di vincer colla
dolcezza qualche persona che sia verso di noi adirata; o pure di mortificarci nel vedere, nel sentire, nel parlare.
E specialmente bisogna col silenzio, quanto è possibile, conservare il sentimento degli affetti avuti, altrimenti
col subito distrarsi in azioni o discorsi inutili, subito svanirà quel calore di divozione che nell'orazione s'è
conceputa.

Sovra tutto finalmente il direttore esorti con premura i suoi penitenti a non lasciar l'orazione, né diminuirla in
tempo d'aridità, ed a non turbarsi mai, benché si vedessero molto e per lungo tempo desolati. Quanti cortigiani,
dice s. Francesco di Sales54, vanno a riverire il lor principe e si contentano d'esser semplicemente da lui veduti!
Andiamo noi all'orazione per ossequiare o compiacere il nostro Dio. S'egli vuol parlarci e favorirci colle sue
consolazioni, ringraziamolo di tanta grazia; se no, contentiamoci di starcene alla sua divina presenza con pace,
adorandolo ed esponendogli i nostri bisogni; e se 'l Signore allora non ci parlerà, certamente gradirà la nostra
attenzione e la nostra fedeltà e, secondo la nostra confidenza, ben esaudirà le nostre suppliche.

34 Per le indulgenze concesse a chi pratica l'orazione mentale, vedi n. 101.

35 È devastato tutto il paese e nessuno se ne dà pensiero.

36 Ricordati della tua fine e non cadrai mai in peccato.

37 Ignoriamo dove si trovi questo detto di s. Vincenzo de' Paoli. Nella sua vita, scritta da Abelly, lib. 2, cap. 4, sez. 1, in f. (edit. ital.,
Romae, 1847) leggiamo che s. Vincenzo disse, parlando degli esercizi spirituali: "Se i peccatori non si emendano con questo mezzo, solo un
miracolo può ridurli a miglior partito". (G. B.).

38 La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore.

39 Al ripensarci è divampato il fuoco.

40 Nella sua vita, scritta da Gisolfi, cap. 32, v. med. (G. B.).

41 Introduction à la vie dévote, 2, 5.

42 O. cit. 2, 1.

43 Così di fatto si legge nella vita del B. Bernardo da Corleone pubblicata da Gabriele da Modigliana, cap. 12, in principio (ediz. Roma, 1768).
Che poi questo fatto sia autentico, è certamente da mettersi in dubbio, se si confronta la Vita del medesimo scritta da Giovanni Battista da
Milano (ediz. Milano, 1761) perché questo autore riferisce alcuni particolari che differiscono completamente. Narra infatti, lib. I, cap. I, verso
il mezzo, che il Beato, ad undici anni di età leggeva con grande ardore le vite dei santi e, lib. 2 cap. 10, all'inizio, che egli, entrato in religione,
scrisse di sua mano una rivelazione sulle pene dell'inferno a lui fatta (G. B.).

44 La carità è il vincolo della perfezione.

45 È infatti un tesoro inesauribile per gli uomini: quanti se lo procurano si attirano l'amicizia di Dio. Sap. 7, 14. —Io amo coloro che mi
amano. Pv. 8, 17. —Chi.. mi ama sarà amato dal Padre mio. Gv. 14, 21. —La carità copre una moltitudine di peccati. I Pt. 4, 8.

46 G. Turano, Vita e virtù della Ven. Suor Maria Crocifissa dell'Ord. di S. Bened., nel Monastero di Palma, lib. 1, cap. 10, in f. (edit. Venet.
1709) (G. B.).

47 Qualsiasi atto di carità merita la vita eterna.

48 V. n. 138 e nota 141 allo stesso.

49 Introduction à la vie dévote, 2, 8.

50 Traité de l'amour de Dieu, 11, 4, 8, 9, 13.

51 Sentimenti avuti nell'orazione, 14 in Opere cit. 4, p. 83.

52 In verità, in verità vi dico: se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà.

53 Introduction à la vie dévote, 2, 7-8.


54 O. cit. 2, 9.

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APPENDICE II1

Dell'assistenza a' moribondi

L'opera di aiutare i moribondi a ben morire è l'opera di carità più cara a Dio e più utile per la salute dell'anime,
mentre nel tempo della morte (da cui dipende l'eterna salvezza di ciascuno) gli assalti dell'inferno son più
terribili e gl'infermi son meno atti ad aiutarsi da per se stessi. Il Signore per comprovare quanto gradisce
l'assistenza a' moribondi, più volte fe' vedere a s. Filippo Neri gli angioli che suggerivano le parole a' religiosi
ministri degl'infermi2. Quest'opera poi non è officio solamente de' parroci, ma d'ogni sacerdote. Ma, parlando
specialmente de' parroci, dice il Rituale Romano3 che una delle principali incombenze del parroco è l'assistere
a' moribondi; onde

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vuole ch'egli, subito che saprà esservi qualche infermo de' suoi sudditi, vada da sé a trovarlo, senz'aspettar la
chiamata: e vi vada spesso, se l'infermo è infermo ancora di spirito. E che, se mai fosse impedito, vi mandi
qualche altro sacerdote; ma questi dev'esser pio e prudente, mentre alcuni sacerdoti alle volte in far tale officio
sogliono essere più di danno che d'utile così agl'infermi, come all'anime proprie e de' domestici, il cui profitto in
tale occasione anche deve procurarsi dal sacerdote che assiste. Avverte il Rituale che, quando non potesse
aversi un sacerdote, almeno procuri il parroco di fare assistere l'infermo da qualche laico di buona vita, e che sia
prudente, il quale l'aiuti co' buoni sentimenti.

1 Questa seconda appendice uscì nel 1757 in italiano come appendice seconda alla Istruzione e pratica per un confessore (Napoli, Pellecchia)
ed in latino nello stesso anno 1757 come capo decimoprimo della Praxis in fine della terza edizione della Theologia moralis (Venetiis, tipis
Remondinianis). Così De Meulem. 20-30, ma doveva esisterne una edizione italiana a parte sin dal 1756 almeno, ché s. Alfonso nella lettera
al p. d. Gasparo Caione del 24 luglio 1756 scrive: "Traducete l'Assistenza a' moribondi nel libretto" (Lettere, 3, p. 39). Nell'edizione veneziana
della Pratica, Venezia, Vitto, 1771, la Pratica per l'assistenza ai moribondi, benché non notata nell'indice posto all'inizio del volumetto, è
stampata da p. 249 a 298 con indice proprio in fine. D'allora in poi l'opuscolo figura regolarmente in tutte le edizioni della Pratica.

2 Bacci, o. cit. 1, 7, 8, vol. 1, p. 32.

3 Tit. 5, 4, 1-3.

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§ I - Avvisi al sacerdote assistente

Per 1. Procuri il sacerdote d'informarsi segretamente dal medico se l'infermità è mortale. Dico segretamente,
poiché l'uso detestabile de' medici è di lusingare gl'infermi in loro presenza, per non tirarsi l'odio di essi o de'
loro parenti: come se l'annunziare agl'infermi l'obbligo della confessione (che dovrebbero allora intimare,
dichiarando il pericolo) fosse lo stesso che annunziare loro la morte.

Per 2. Procuri d'informarsi da' parenti, amici e dallo stesso infermo delle di lui condizioni naturali e difetti: a
quali passioni è stato soggetto, e specialmente se ha roba
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o fama da restituire; se ha tenuto qualche odio o inimicizia cattiva, per rimediare a tutto; ma, se non v'è
necessità, sfugga di ricordargli le persone odiate o amate disordinatamente. A' feriti, aggiustato ciò che
s'appartiene al perdono, non dimandi all'infermo chi l'abbia offeso, o come sia succeduto il caso; e, se quegli ne
parla, procuri di allontanare il discorso. E così, anche, senza necessità, allontani i discorsi di robe, di liti, di figli
o d'altra cosa impertinente.

Per 3. Dopo dunque che avrà saputo essere il morbo pericoloso, a principio non parli di confessione all'infermo,
ma l'interroghi dell'infermità e de' suoi patimenti. Indi l'esorti a rassegnarsi nella divina Volontà, ad unire le sue
pene con quelle di Gesù infermo sulla croce e ad offerirle in soddisfazione de' suoi peccati. E quindi a poco a
poco lo disponga alla confessione, con dimandargli da quanto tempo s'è confessato. L'animi a sperare in Dio,
che voglia liberarlo da quell'infermità, ma con bel modo nello stesso tempo gli faccia intendere ch'ella è grave e
l'avverta che non dia troppo credito a' medici ad a' parenti, che forse lo lusingano per non disturbarlo. Onde gli
dica esser bene che prevenga, mentre sta colla mente più sana, a farsi una buona confessione, la quale gioverà
anche alla sanità del corpo, è conveniente per la salute dell'anima. Narra il Belluacense4 che un certo moribondo
in confessarsi si alzò da letto, e il Cantipratense che un cavaliere dopo tutti i rimedi riusciti inutili si confessò e
guarì.

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Se però l'infermo dimandasse dilazioni e non fosse imminente il pericolo di morte o di letargo o di delirio, è
bene che gliel'accordi; ma procuri che determini il tempo di farla, come la sera o la mattina seguente. Che se
poi il pericolo è imminente, gli dica con s. Agostino, che Dio ha promesso il perdono al peccatore che si pente,
ma non gli ha promesso il giorno di domani: Crastinum non promisit; fortasse dabit, fortasse non dabit5. Se poi
l'infermo si ostinasse a non volersi confessare, non deve abbandonarlo fino all'ultimo, ma ammonirlo di quando
in quando con motivi or di terrore or di confidenza; e lo faccia aiutare con orazioni private e pubbliche.

Per 4. Se 'l male è già avanzato, l'esorti anche ad aggiustare gl'interessi temporali, quando ciò6 è conveniente
per la pace della famiglia, e tanto più s'è necessario per lo disgravio della di lui coscienza; ma avverta in ciò il
sacerdote a sfuggir la nota d'interessato. Se poi l'infermo tiene fratelli o sorelle povere in grave necessità, è bene
avvertirlo esser egli tenuto con obbligo grave a lasciar loro i suoi beni, almeno per quanto basta a sollevare i
loro bisogni. Ma d'altra parte un tal obbligo grave non pare che vi sia verso gli altri congiunti più rimoti (vedasi
nella nostra Morale 3, 946). Se poi l'infermo vuol lasciar suffragi per l'anima, l'esorti a non incaricarne gli eredi,
poiché, secondo la sperienza, legati pii poco se ne soddisfano; ma

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che piuttosto assegni qualche corpo o somma per la soddisfazione di Messe o d'altra opera pia che vuol lasciare.
Avverta di più ad astenersi (ordinariamente parlando) di consigliargli cosa che ridondi in pregiudizio altrui, non
convenendo a' ministri di Gesù Cristo tirarsi sopra tali odiosità.

Per 5. Colle persone rozze, negli atti che lor propone a fare, parli sempre in lingua volgare7. Al contrario colle
persone letterate usi di quando in quando qualche passo latino, ma questo sia breve e compuntivo. Avverte il
Rituale8, che 'l sacerdote non sia molesto all'infermo, come fanno alcuni, i quali colle grida e col troppo parlare
son cagione che gli ammalati s'inquietino, stando essi aggravati colla testa e tediosi. Narra di se stesso il p.
Recupito della Compagnia di Gesù9 che, stando per morire, non intendeva ciò che gli si diceva, ma solamente
udiva un romore che lo tormentava, sicché fu costretto a dimandare un poco di quiete.
Per 6. Oltre le immagini picciole del Crocifisso e di Maria ss. che farà tenere sul letto vicino all'infermo, gli
faccia porre in vista un'immagine grande di detta b. Vergine; affinché quegli possa facilmente mirarla e
raccomandarvisi, ed anche un'immagine grande, se può aversi, di Gesù appassionato10.

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Per 7. Faccia rimuovere dalla stanza dell'infermo tutti gli oggetti pericolosi, come armi, immagini poco oneste,
e specialmente le persone che potessero essergli occasione di peccato, le quali non solo debbono allontanarsi,
ma anche cacciarsi di casa. E quando l'infermo sta all'ultimo, procuri che nella sua stanza non vi sia altra gente
se non quella ch'è assolutamente necessaria per assisterlo e proibisca l'entrarvi i congiunti più stretti che gli
potessero recar passione.

4 Non è stato possibile rintracciare questi fatti né in Vincenzo di Beauvais (Belluacense) né in Tommaso di Chantimpré.

5 Non ha promesso un domani; forse lo darà, forse non lo darà. —Ecco le parole di s. Agostino: "Cras, inquit, bene vivam. Indulgentiam tibi
Deus promisit; crastinum diem tibi nemo promisit". (Domani, dice, vivrò bene. Dio ti ha promesso il perdono: nessuno ti ha promesso il
domani). Enarratio in Ps. 101, 10 (ML. 37, 1301).

6 Praxis, 233, ha: id enim—ciò infatti.

7 Praxis, 234: "italico imo vernaculo, semper loquatur sermone" (parli in italiano, anzi in dialetto).

8 Tit. 5, 4, 14.

9 Recupitus, De signis praedestinationis, tr. 2, de numero praedestinatorum, cap. 7, num. 29, in f. (edit. Neapol. 1643). (G. B.).

10 Il fedele che con pia intenzione usa un oggetto di pietà (crocifisso o croce, corona, scapolare, medaglia) benedetto ritualmente da
qualsiasi sacerdote, acquista indulgenza parziale. Se poi l'oggetto di pietà è stato benedetto dal Sommo Pontefice o da un Vescovo, può
ottenere anche l'indulgenza plenaria nella festa dei Ss. Apostoli Pietro e Paolo, aggiungendo, con qualsiasi formula legittima, la professione di
fede.. L'indulgenza annessa all'uso di oggetti di pietà, cessa soltanto quando tale oggetto cessi del tutto o sia venduto. Enchiridion, Norme
sulle indulgenze, 19 e 10. 2; Altre concessioni, n. 35.

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§ II - Rimedi contro le tentazioni

I rimedi generali contro tutte le tentazioni sono l'invocare spesso i nomi ss. di Gesù e di Maria e 'l segnarsi
spesso col segno della santa croce11; ma per alcune particolari tentazioni giova qui notare alcuni particolari
rimedi.

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. Per la tentazione contro la fede. Da questa tentazione (la più terribile di tutte) sogliono essere specialmente
vessati quei che han fatta vita dissoluta e maggiormente se sono stati dotti ed amici del proprio parere.
A costoro deve avvertirsi che se 'l demonio propone loro qualche dubbio o sottigliezza, non vi discorrano, ma
subito rispondano in generale: Credo quel che crede la santa Chiesa, la quale crede la verità, ringraziando Dio
d'averli fatti nascere in grembo alla santa Chiesa e si protestino che in questa fede vogliono vivere e morire. Ed
il miglior modo di discacciare tale tentazione è allontanare la mente a fare altre sorte d'atti, come di contrizione,
di confidenza, d'amore di Dio e simili. Narra il Bellarmino12 che un certo dotto, per aversi voluto mettere in
morte a disputar col demonio su certo punto della fede, restò ingannato dal Nemico e si dannò.

Ma se la tentazione persiste a tormentarlo, gli dica che le prove della nostra fede (così giusta e santa per se
stessa, propagata da poveri pescatori in mezzo a tante persecuzioni e confermata da tanti miracoli e da milioni
di martiri che per lei han data la vita) son sì chiare che rendono evidente ch'ella sia la vera, benché non rendano
evidenti le cose ch'ella insegna; intanto se i misteri ch'insegna fossero a noi evidenti, dove sarebbe il merito
della fede la quale per ciò è fede, perché è oscura? Beati qui non viderunt, et crediderunt (Jo. 20, 29).

Contro la tentazione di disperazione. Questa è la tentazione con cui l'inferno più combatte i moribondi;

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onde a rado conviene lor parlare della divina giustizia, delle pene de' dannati e della gravezza delle loro colpe,
ma piuttosto debbono spesso loro insinuarsi sentimenti di confidenza nella misericordia di Dio, nella passione
di Gesù Cristo, nelle promesse divine e nell'intercessione della b. Vergine e de' santi.

Il primo motivo dunque della nostra speranza è la divina misericordia, mentre Iddio si chiama pater
misericordiarum (Padre misericordioso) (2 Cor. 1, 3). Egli si fa trovare anche da coloro che non lo cercano:
Invenerunt, qui non quaesierunt me (Mi feci trovare da chi non mi cercava) (Is. 65, 1). Ha più desiderio Iddio di
salvar noi che noi di salvarci. Egli perciò si lamenta di vedersi abbandonato da coloro ch'egli cerca
d'abbracciare, come dice s. Bernardo13: Amplecti quaerit, a quibus desertum esse se queritur (Desidera di essere
abbracciato da coloro dai quali si lamenta di essere abbandonato). Egli è tutto inclinato a perdonare: Multus est
ad ignoscendum (Largamente perdona) (Is. 55, 7). Si protesta che non vuol la morte del peccatore: Nolo mortem
impii, sed ut convertatur et vivat (Io non godo della morte dell'empio, ma che desista dalla sua condotta e viva)
(Ezech. 33, 11). Dice che quando un peccatore si pente, egli si scorda di tutti i di lui peccati: Si… impius egerit
poenitentiam…, omnium iniquitatum eius… non recordabor (Se il malvagio si allontana da tutti i peccati che ha
commesso… nessuna delle sue colpe sarà ricordata) (Ezech. 18, 21 - 22). Dopo queste attestazioni, chi mai può
diffidare della divina misericordia?

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Un solo atto di dolore basta a farci perdonare infiniti peccati. Il pubblicano con dir solo: Propitius esto mihi
peccatori (Abbi pietà di me peccatore), fu giustificato (Luc. 18, 13). Il figliuol prodigo, subito che ritornò a'
piedi del padre, fu da lui abbracciato (Luc. 15, 20). Davide, subito che disse: Peccavi, gli rispose il profeta
Nathan: Dominus quoque transtulit peccatum tuum (Ho peccato… Anche il Signore ha perdonato il tuo
peccato) (2 Reg. 12, 13).

Il secondo motivo è la passione di Gesù Cristo, il quale si protesta d'esser venuto a salvare i peccatori: Non…
veni vocare iustos, sed peccatores (Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori) (Matth. 9, 13). Si
protesta ch'egli non caccerà niuno che viene a' suoi piedi: Eum qui venit ad me non eiiciam foras (Colui che
viene a me non lo respingerò) (Jo. 6, 37). Egli dice in s. Matteo (18, 12) che va cercando le pecorelle perdute e,
quando ne ritrova alcuna, fa festa, se l'abbraccia e se la pone sulle spalle; e par che questa l'ami con più
tenerezza, come fece con s. Maria Egiziaca14, colla b. Angela da Foligno15, s. Margherita da Cortona16 e con
tante altre anime peccatrici. Chi dunque ha buona volontà, non deve temere di esser condannato da quel Signore
che, per non condannarci, ha condannato se stesso a morir su d'una croce.
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Il terzo motivo son le divine promesse. In più luoghi del Vangelo sta promessa la divina grazia a chi la cerca:
Petite et accipietis (Chiedete e otterrete) (Jo. 16, 24). Amen, amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in
nomine meo, dabit vobis (In verità, in verità vi dico: se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve
la darà) (Jo. 16, 23). E tal promessa sta fatta a tutti, sian giusti o peccatori: Omnis… qui petit accipit (Chiunque
chiede riceve) (Matth. 7, 8). Basta dunque cercare da Dio le grazie per la salute eterna, per ottenerle. Bonus est
Dominus… animae quaerenti illum (Buono è il Signore… con l'anima che lo cerca) (Thr. 3, 25).

Il quarto motivo è l'intercessione de' santi e specialmente della divina Madre, la quale vuole Dio che noi
salutiamo colla s. Chiesa nostro rifugio, nostra vita e nostra speranza con dire: Refugium peccatorum, ora pro
nobis; vita, spes nostra, salve! (Rifugio dei peccatori, prega per noi; vita, speranza nostra, salve!). Onde a
ragione ella si chiama la speranza de' disperati: Spes desperantium (Speranza dei disperati) (Blos.)17; l'aiuto
degli abbandonati: Adiutrix destitutorum (S. Efrem)18. Maria stessa rivelò a s. Brigida19 che, come una madre si
mette a difendere un figlio se lo vede in mezzo alle spade

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de' nemici, così ella s'impegna a difendere un'anima che a lei si raccomanda; disse di più che quando viene un
peccatore, ella non attende quanti peccati porta, ma solo con quale intenzione viene: Non attendo quantum
peccaverit, sed cum quali intentione venit (Non bado a quanto ha peccato, ma all'intenzione con cui torna)20. E
Dio stesso rivelò a s. Caterina da Siena21 aver concesso a Maria che quando un peccatore a lei ricorre, non
possa quegli esser rapito dal demonio.

Contro la tentazione della vanagloria. Dice s. Bernardo che la vanagloria è una saetta che leviter penetrat…
sed… non leve infligit vulnus (Penetra in modo blando, ma fa subire una ferita non lieve)22; specialmente se la
persona è di qualche merito23. Dunque il sacerdote, se mai vedesse il moribondo che stesse troppo sicuro della
sua salute eterna, fidato all'opere da lui fatte, gli dica che solamente i peccati son nostri, ma che ogni bene gli è
venuto da Dio: Quid… habes, quod non accepisti? (Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?) (I Cor. 4,
7). Ed essendo vero che niuno è infallibilmente certo della divina grazia: Nescit homo, utrum amore an odio
dignus sit (Non sa l'uomo s'è degno d'amore o d'odio) (Eccle. 9, 1); ognun deve temere e temendo e tremando
deve

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procurare di salvarsi: Cum metu et tremore vestram salutem operamini (Attendete alla vostra salvezza con
timore e tremore) (Philipp. 2, 12).

Contro la tentazione d'impazienza. A coloro che s'impazientano per li dolori dell'infermità, si rappresenti
quanto han patito i martiri: chi è stato scorticato vivo, chi trucidato a pezzi, chi bruciato a fuoco lento. E
soprattutto gli si metta avanti quanto ha patito Gesù innocente, che per nostro amore patì più di tutti i martiri.

Si dica all'infermo che i dolori dell'infermità non possono sfuggirsi, ond'è che s'egli soffre con impazienza, si
accrescerà il patire e sarà più castigato nell'altra vita; al contrario, se li accetta per Dio, si scemerà la pena in
questa vita e nell'altra sarà men punito nel purgatorio e ne sarà premiato in paradiso: Tristitia vestra vertetur in
gaudium (La vostra afflizione si cambierà in gioia) (Jo. 16, 20). I dolori dell'ultima infermità compiscono la
nostra eterna corona, poiché, come dice s. Bonaventura24, il soffrire con pazienza le pene è cosa la più perfetta
che tutte le altre opere buone: Patientia opus perfectum habet (La pazienza poi rende l'opera perfetta) (Jac. 1,
4). Dio così tratta i suoi migliori amici, giacché la croce è il segno più sicuro del paradiso. S. Chiara25 visse
afflitta da gravi dolori per 28 anni. S. Lidovina26 visse per 38 anni sempre martirizzata dalle infermità. La ss.
Vergine
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disse a s. Brigida: Sai perché tanto si prolunga la tua infermità? perché il Figlio mio ed io ti amiamo27.
Momentaneum et leve tribulationis nostrae… aeternum gloriae pondus operatur in nobis (Il momentaneo e
leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità senza fine di gloria) (2 Cor. 4, 17). Non sunt
condignae passiones huius temporis ad futuram gloriam, quae revelabitur in nobis (Le sofferenze del tempo
presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà rivelarsi in noi) (Rom. 8, 18).

E con ciò bisogna insistere all'infermo, affinché si rassegni alla divina volontà in tutto, non solo per li dolori che
soffre, ma anche per gli errori de' medici che lo curano e per le negligenze di coloro che l'assistono; e
specialmente l'avverta che s'aiuti coll'orazione ad ottenere da Dio la santa pazienza.

A coloro a cui sa duro il morire per esser giovani28, bisogna por loro avanti le miserie della presente vita,
l'infermità, i rancori e soprattutto i pericoli di peccare e di dannarsi. Perciò i santi tanto desideravano la morte.
S. Teresa diceva: Io in ogni momento che vivo posso perdere Dio29; e perciò, quando suonava l'orologio, tutta si
consolava, pensando ch'era passata un'ora di tal pericolo

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30. I santi martiri andavano giubilando alla morte per lo desiderio di liberarsi da un tal timore e di andare a
godere Dio. Beati mortui qui in Domino moriuntur… ut requiescant a laboribus suis (Beati i morti che
muoiono nel Signore… riposeranno dalle loro fatiche) (Apoc. 14, 13).

In questa terra siamo di passaggio: Non… habemus hic manentem civitatem (Non abbiamo quaggiù una città
stabile) (Hebr. 13, 14). Ciascuno, sia re, sia papa, ha da morire.

Si esorti l'infermo a ringraziare Dio, che non gli abbia mandata la morte quando stava in peccato e lo faccia
morire allora co' santi sagramenti e con tante speranze della salute eterna Almanco in questa vita sempre
offendiamo Dio con colpe leggiere, onde, almeno per liberarci da tali colpe dobbiamo accettare e anche
desiderare la morte.

Bisogna rassegnarsi alla volontà di Dio che vuole il meglio per noi. Chi sa, fratello mio, gli dica, se campando
vi dannereste?

Ma dirà: Io vorrei vivere qualche altro tempo, per far penitenza de' miei peccati e per fare qualche cosa per
Dio, mentre fin ora non ho fatto niente. Qui si risponda che non vi è più bella penitenza che accettar volontieri
la morte in isconto de' peccati, e non v'è atto più perfetto e che dà più gusto a Dio, quanto accettar la morte per
fare la sua Volontà.

Contro la tentazione d'attacco a' beni e parenti. A coloro a cui dispiace il morire per trovarsi attaccati ai

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beni di terra, dica che questi non sono veri beni, ma beni di scena, che mancano e, se non mancano, apportano
più pena che contento. I veri beni31 che appieno contentano e non mancano mai, sono i beni che Dio ci
apparecchia in cielo.

Se l'infermo s'affligge per dover lasciare la moglie, i figli o altra persona amata, gli si dica: Fratello mio, tutti
abbiamo da morire; salvatevi voi, perché in cielo pregherete per essi e poi starete insieme beati per tutta
l'eternità. Che più bella cosa che andare a star con Dio, con Gesù Cristo, colla vostra madre Maria e con tutti i
santi del paradiso?

Se poi sta afflitto perché lascia i parenti poveri, gli si dica: Se voi vi salvate, come spero, meglio potete aiutarli
di là, che di qua. Ma non dubitate che quel Dio che alimenta gli uccelli non lascerà di provvederli. Se voi li
amate, Dio li ama più di voi.

Contro la tentazione dell'odio o vendetta A coloro che son tentati d'odio per qualche offesa ricevuta, bisogna
intimar loro per 1. il precetto di Dio: Diligite inimicos vestros (Amate i vostri nemici) (Lc. 6, 27). Per 2. che chi
non perdona, non può sperare perdono da Dio, il quale dice: Foris canes! (Fuori i cani!) (Apoc. 22, 15). I cani
(simbolo de' vendicativi) son discacciati dal paradiso. Al contrario Dio promette per certo il perdono a chi
perdona: Dimittite et dimittemini (Perdonate e vi sarà perdonato) (Lc. 6, 37). Per 3. che se i nemici han fatto
loro torto, quanti maggiori torti han fatti essi a

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Dio? Onde se essi cercano d'esser perdonati da Dio, quanto più debbono perdonare i loro prossimi? Sicut
Dominus donavit vobis, ita et vos (Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi) (Col. 3, 13). Per ultimo
dica loro il gran gusto che dà a Dio chi perdona. S. Giovanni Gualberto32, dopo aver perdonato all'uccisore del
fratello, vide l'immagine del Crocifisso che gl'inchinò la testa, come ringraziandolo. S. Stefano33 pregò per
coloro che lo lapidavano. S. Giacomo34 prima di morire abbracciò colui che l'aveva accusato. S. Luigi, re di
Francia35, fé sedere a sua mensa chi gli avea tramata la morte. S. Ambrogio alimentò per lungo tempo un suo
traditore che gli avea insidiata la vita36. E soprattutto di ciò ne diede il primo esempio Gesù Cristo che sulla
croce pregò per i suoi crocifissori (Lc. 23, 34).

11 È concessa indulgenza parziale al fedele che si segna devotamente, pronunciando le parole: Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito
Santo. Amen. Enchiridion, p. 65, n. 55.

12 S. R. Bellarminus, De arte bene moriendi, 2, 9, in Opera, Coloniae Agrippinae, Gualtherus, 1617-1620, 7, col. 2090.

13 Cfr. Bernardus, De interiori domo (apocr.) 21 (ML. 184, 529-530).

14 Acta Sanctorum aprilis, 1, Antuerpiae, Cnobarus, 1675, p. 80, ss.

15 Acta Sanctorum ianuarii, 1, Antuerpiae, Meursius, 1643, p. 186, ss.

16 Acta Sanctorum februarii, 3, Antuerpiae, Meursius, 1658, p. 303, ss.

17 Cfr. L. Blosius, Pusillanimium consolatio, Venetiis, Guerrei, 1571, pp. 118-121. Le parole sono però, alla lettera, in S. Ephraem, Ad
sanctissimam Dei Genitricem oratio, in Opera omnia, Venetiis, Gerardi, 1755, 1, p. 571.

18 De sanctissimae Dei Genitricis Virginis Mariae laudibus, in Opera omnia, cit. 1, p. 569.

19 Cfr. S. Birgitta, Revelationes extravagantes, 89, in Revelationes, Romae, Grignanus, 1628, 2, p. 464.

20 S. Brigitta, Revelationes, 2, 23, in Revelationes cit. 1, p. 202.

21 Dialogo, Carpi, Stamperia Comunitativa, 1816: trattato Della divina Provvidenza, 4, p. 135.
22 In Ps. Qui habitat, sermo 6, 3 (ML. 183, 198).

23 Praxis, 245, ha, non so perché: praesertim si persona timoratae sit conscientiae (specialmente se è persona di coscienza timorata).

24 Cfr. Opusc. 23, Legenda S. Francisci 14, 2, in Opera cit. 8, p. 545

25 Acta Sanctorum augusti, 2, Antuerpiae, Vander Plassche, 1735, p. 763.

26 Acta Sanctorum aprilis, 2, Antuerpiae, Cnobarus, 1675, p. 273.

27 Revelationes extravagantes, 67, in Revelationes cit. 2, p. 452.

28 Praxis, 248: tam immature.

29 Poesia: Vivo sin vivir en mi, strofa 11, in Opere spirituali, Venezia, Baglioni, 1690, 2, p. 247. Questa strofa manca nell'edizione critica
delle Obras cit. 6, p. 77.

31 Praxis, 251, omette questo periodo.

32 Acta Sanctorum iulii, 3, Antuerpiae, Du Moulin, 1723, pp. 344 et 366.

33 Act. 7, 59.

34 Acta Sanctorum iulii, 6, Antuerpiae, Du Moulin, 1729, p. 9.

35 Acta Sanctorum augusti 5, Antuerpiae, Vander Plassche 1741, p. 683.

36 Forse si allude ad Eutimio di cui Paulinus, Vita S. Ambrosii, 12 (ML. 14, 33).

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§ III - Motivi ed affetti da suggerirsi a' moribondi

Di confidenza. I motivi di confidenza già si son descritti nel § II, n. II. A quelli si possono aggiungere i seguenti
passi della Scrittura: Nullus speravit in Domino et confusus est (Chi ha sperato nel Signore ed è rimasto
confuso?) (Eccli. 2, 11). Niuno ha posta la sua speranza in Dio ed è restato da Dio abbandonato. Ipse est
propitiatio pro peccatis nostris (Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati) (1 Jo. 2, 2). Gesù è morto per
ottenerci il perdono. Pro nobis omnibus tradidit illum, quomodo non etiam cum illo omnia nobis donavit? (Egli
che lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà con lui tutte le cose?) (Rom. 8, 32). Come quel Dio che ci ha
donato il Figlio, ci negherà il perdono?

Affetti di confidenza: Dominus illuminatio mea et salus mea, quem timebo? (Il Signore è mia luce e mia
salvezza, di chi avrò paura?) (Ps. 26, 1).

In manus tuas commendo spiritum meum; redemisti me, Domine, Deus veritatis (Alle tue mani affido l'anima
mia; tu mi hai redento, o Signore Dio fedele) (Ps. 30, 6).

Te ergo quaesumus, tuis famulis subveni, quos pretioso sanguine redemisti (Ti preghiamo dunque, aiuta i tuoi
servi che hai redenti col tuo sangue prezioso)37.
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In te, Domine, speravi non confundar in aeternum (Ho sperato in te, Signore: che non resti mai confuso)38. O
bone Jesu, intra vulnera tua absconde me (O buon Gesù nascondimi nelle tue piaghe).

Vulnera tua, merita mea (Le tue piaghe sono i miei meriti) (S. Bern.)39. Gesù mio, Voi non mi negherete il
perdono, mentre non mi avete negato il sangue e la vita.

Passione di Gesù, tu sei la speranza mia.

Meriti di Gesù, voi siete la speranza mia.

Piaghe di Gesù, voi siete la speranza mia.

Sangue di Gesù, tu sei la speranza mia.

Morte di Gesù, tu sei la speranza mia.

Misericordias Domini in aeternum cantabimus (Canteremo per sempre le misericordie del Signore).

Maria, Mamma mia, voi mi avete da salvare, abbiate pietà di me.

Salve, Regina, spes nostra salve. Sancta Maria, ora pro me peccatore. Refugium peccatorum, ora pro me. Sub
tuum praesidium confugimus, sancta Dei Genitrix. (Salve, Regina; salve, speranza nostra. Santa Maria, prega
per me peccatore. Rifugio dei peccatori, prega per me. Ci rifugiamo sotto la tua protezione, Madre santa di
Dio.)

Maria, Madre di Dio, prega Gesù per me.

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Di contrizione.Dice s. Agostino40 che ogni cristiano non deve lasciare fino all'ultimo fiato di piangere i suoi
peccati.

Non intres in iudicium cum servo tuo (Non chiamare in giudizio il tuo servo) (Ps. 142, 2).

Gesù mio e Giudice mio, perdonami, prima che m'hai da giudicare.

Cor contritum et humiliatum, Deus non despicies. (Un cuore affranto ed umiliato, tu, o Dio, non disprezzi).

Dio mio, non ti avessi mai offeso! Non te lo meritavi com'io ti ho trattato.

Perché ho offeso Voi, Bontà infinita, me ne dispiace con tutta l'anima mia, sopra ogni male.

Pater, non sum dignus vocari filius tuus (Padre, non sono degno d'essere chiamato tuo figlio). Io ti ho voltate le
spalle, ho disprezzata la tua grazia, ti ho perduto volontariamente; perdonami per amore e per lo sangue di Gesù
Cristo; io me ne pento con tutto il cuore.

Maledetti peccati miei che mi avete fatto perdere Dio, vi detesto, v'odio, vi maledico.
Dio mio, che male m'avete fatto, ch'io v'ho tanto offeso? Per amore di Gesù abbiate pietà di me.

Mai più, Signore; in questa vita che mi resta, o poca o molta che sia, Dio mio, vi voglio amare.

Vi offerisco in penitenza dell'offese che v'ho fatte la morte mia e i dolori che soffrirò fino alla morte.

Signore, hai ragione di castigarmi, ti ho troppo offeso; ma ti prego castigarmi qua, e non di là.

O Maria, ottenetemi un vero dolore de' miei peccati, il perdono e la perseveranza.

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D'amore.Dio mio, perché siete Bontà infinita degno d'infinito amore, v'amo sopra ogni cosa, v'amo più di me
stesso, vi amo con tutto il cuore mio.

Dio mio, non son degno d'amarvi, perché v'ho offeso; ma, per amor di Gesù, fate voi ch'io v'ami.

Vorrei che tutti gli uomini vi amassero.

Mi compiaccio che siete infinitamente felice.

Gesù mio, voglio patire e morire per voi che tanto avete patito e siete morto per me.

Castigatemi, Signore, come volete, ma non mi private di potervi amare.

Mio Dio, salvatemi; l'amare voi è la salvezza mia.

Desidero il paradiso per amarvi eternamente e con tutte le mie forze.

Dio mio, non mi mandate all'inferno, come merito io; là ti avrei da odiare, ma non mi sento di odiarti. E che
male m'hai fatto, Signore mio, ch'io t'avessi ad odiare? Fa' ch'io t'ami e mandami dove vuoi.

Io voglio patire quanto ti piace: voglio morire per darti gusto.

Legami, Gesù mio, con te; non permettere ch'io m'abbia a dividere da te.

Fammi, Dio mio, tutto tuo prima ch'io muoia.

Quando sarà ch'io possa dire: Mio Dio, non ti posso perdere più?

O Dio, vorrei amarti quanto ti meriti.

O Maria, tirami tutto a Dio.

Mamma mia, io t'amo assai, assai; voglio venire ad amarti per sempre in paradiso.

Di rassegnazione.Tutto il nostro bene e vita sta nell'uniformarci colla Volontà di Dio. Vita in voluntate

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eius (La sua bontà dura per tutta la vita) (Ps. 29, 6)41. Dio vuole il meglio per noi. S. Gertrude42, essendole
apparso Gesù Cristo che l'offeriva la morte o la vita, ella rispose: Voglio, Signore, quel che volete Voi.
Similmente apparendo Gesù a s. Caterina da Siena43 con una corona di gioie ed un'altra di spine, affinché ella
scegliesse, la santa rispose: Io scelgo quella che piace a Voi.

Affetti: Orsù, N. se Dio ti chiama all'altra vita, ne sei contento? Padre, sì. Dunque di' sempre: Signore, eccomi
qua, fanne di me ciò che ti piace. Sia sempre fatta la tua Volontà; voglio solo quel che volete Voi. Voglio patire
quanto volete Voi, voglio morire quando volete Voi.

Rimetto nelle tue mani l'anima e il corpo mio, la vita e la morte: Benedicam Dominum in omni tempore
(Benedirò il Signore per sempre). O mi consoli o mi affliggi, Dio mio, io t'amo e sempre ti voglio amare.

Unisco, o Padre Eterno, la morte mia colla morte di Gesù Cristo e così ve l'offerisco.

Volontà di Dio, voi siete l'amor mio.

Beneplacito del mio Dio, io mi sacrifico tutto a voi.

Di desiderio del paradiso. Blosio44 riferisce più

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rivelazioni, dove si dice che alcuni in purgatorio patiscono una pena particolare (chiamata pena di desiderio o
pure di languore) per la tepidezza in desiderare il paradiso. Questa vita è un carcere di pene dove non possiamo
vedere Dio; perciò Davide pregava: Educ de custodia animam meam (Strappa dal carcere l'anima mia) (Ps. 141,
8). E s. Agostino: Eia, Domine, moriar, ut te videam (Orsù, Signore, fa' che io muoia affinché possa vederti)45.
S. Girolamo46 chiamava la morte sorella e le dicea: Aperi mihi, soror mea (Aprimi, sorella morte!). Sì, perché la
morte è quella che ci apre il paradiso. E perciò parimente s. Carlo Borromeo47, vedendo dipinto uno scheletro di
morte con una falce in mano, ordinò al pittore che cancellasse la falce e vi ponesse una chiave d'oro come
chiave del cielo.

È bene dunque a' moribondi loro parlare spesso de' beni del paradiso, ricordando quel che dice s. Paolo: Oculus
non vidit, nec auris audivit, nec in cor hominis ascendit, quae praeparavit Deus iis qui diligunt illum (Né
occhio vide, né orecchio udì, né entrarono in cuore d'uomo quelle cose che Dio ha preparato per coloro che lo
amano) (1 Cor. 2, 9).

Affetti: Quando veniam et apparebo ante faciem Dei? (Quando verrò e vedrò il volto di Dio?) (Ps. 41, 3).

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Quando sarà, Dio mio, che vedrò la vostra bellezza infinita e v'amerò da faccia a faccia?

Io sempre vi amerò in paradiso, voi sempre mi amerete; dunque ci ameremo in eterno, o mio Dio, mio amore,
mio tutto.

Gesù mio, quando bacierò quelle piaghe sofferte per me?

O Maria, quando sarà che mi vedrò a' piedi di quella Madre che tanto mi ha amato ed aiutato?

Eia ergo, Advocata nostra, illos tuos misericordes oculos ad nos converte, et Jesum benedictum fructum ventris
tui, nobis post hoc exilium ostende. (Orsù dunque, avvocata nostra, rivolgi a noi gli occhi tuoi misericordiosi e
mostraci dopo questo esilio il frutto del seno tuo, Gesù).

Affetti da suggerirsi in dare a baciare il crocifisso:


Gesù mio, non guardate i miei peccati, ma quel che avete patito per me.

Ricordatevi ch'io sono una delle vostre pecorelle, per cui siete morto.

Accetto, Gesù mio, d'esser consumato per voi, che vi siete tutto consumato per me.

Voi vi siete dato tutto a me, io mi dò tutto a voi.

Signore, voi avete patito più per me, di quel che patisco io: Voi innocente, io peccatore.

Fratello mio, bacia questi piedi che tanto si sono affaticati in cercarti, affin di salvarti. Di': Caro mio Redentore,
mi abbraccio a' piedi tuoi, come la Maddalena; fammi sentire che m'hai perdonato.

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Mio Dio, per amore di Gesù Cristo, perdonami e concedimi una buona morte.

Padre eterno, Voi m'avete dato questo figlio, io vi dò me stesso.

Gesù mio, v'ho pagato d'ingratitudine, abbiate pietà di me. Io mi ho meritato tante volte l'inferno: castigatemi in
questa, e non nell'altra vita.

Voi non mi avete abbandonato, quando io v'ho lasciato, non mi abbandonate ora che vi cerco.

Jesu dulcissime, ne permittas me separari a te! Quis me separabit a caritate Christi? Domine Jesu Christe, per
illam amaritudinem, quam sustinuit nobilissima anima tua, quando egressa est de benedicto corpore tuo,
miserere animae meae peccatrici in egressu de corpore meo. Amen. (Gesù dolcissimo, non permettere che io
sia separato da te. Chi mi separerà dall'amore di Cristo? Signore Gesù Cristo, per quella amarezza che soffrì la
nobilissima tua anima, quando uscì dal benedetto tuo corpo, abbi misericordia dell'anima mia peccatrice quando
uscirà dal mio corpo. Amen.)

Gesù mio, voi siete morto per amor mio, io voglio morire per amor vostro.

Affetti da suggerirsi a' sacerdoti e religiosi moribondi. In pace in idipsum dormiam et requiescam. (In pace, in
lui, dormirò e riposerò).

Deus meus et omnia. (Mio Dio e mio tutto!) O beato me, se perdo tutto per far acquisto di voi, mio sommo
Bene!

In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum (Nelle tue mani, o Signore, raccomando l'anima mia).

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Ne proiicias me a facie tua. Jesu dulcissime, ne permittas me separari a te. (Non scacciarmi dalla tua faccia.
Gesù dolcissimo, non permettere che io sia separato da te).

Con s. Francesco: Amore amoris tui moriar, qui amore amoris mei dignatus es mori (Che io muoia d'amore per
te, che ti sei degnato di morire di amore per me)48. Cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies. - In te,
Domine, speravi, non confundar in aeternum. - Diligam te, Domine, fortitudo mea. - Eia moriar, Domine, ut te
videam! - Quid mihi est in coelo et a te quid volui super terram? Deus cordis mei et pars mea Deus in
aeternum. - Dominus illuminatio mea et salus mea, quem timebo? - Pater, peccavi, non sum dignus vocari filius
tuus. - Averte faciem tuam a peccatis meis! - Tuus sum ego, salvum me fac! - Quando veniam et apparebo ante
faciem Dei? - Quis nos separabit a caritate Christi? - Amorem tui solum cum gratia tua mihi dones, et dives
sum satis49. (Un cuor contrito e umiliato, o Dio, tu non disprezzi. - Ho sperato in Te, Signore: che non resti mai
confuso. - Ti amo, o Signore, mia fortezza. - Che io muoia, Signore, affinché ti veda. - Che altro avrò per me in
cielo e che altro ho desiderato da Te sulla terra? Dio del mio cuore, Dio mia sorte per sempre. - Dio è mia luce e
mia salvezza, di chi avrò paura? - Padre, ho peccato e non

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sono degno d'essere chiamato tuo figlio. - Distogli il tuo sguardo dai miei peccati. - Sono tuo, salvami. -
Quando verrò e comparirò davanti allo sguardo di Dio? - Chi mi separerà dall'amore di Cristo? - Dammi
soltanto il tuo amore con la tua grazia e sono ricco abbastanza).

Dilectus meus mihi et ego illi. - Misericordias Domini in aeternum cantabo. - Santa Maria, mater Dei, ora pro
nobis peccatoribus, etc. - Vita, dulcedo, spes nostra, salve! Refugium peccatorum, ora pro nobis. - Maria,
mater gratiae, mater misericordiae, tu nos ab hoste protege et hora mortis suscipe. - O salus te invocantium!
(s. Bonav.)50. (Il mio diletto è per me ed io sono per lui. - Canterò per sempre le misericordie del Signore. -
Santa Maria, madre di Dio, prega per noi peccatori, ecc. - Vita, dolcezza e speranza nostra, salve! Rifugio dei
peccatori, prega per noi. - Maria, Madre di grazia, Madre di misericordia, difendici dal nemico ed accoglici
nell'ora della morte. - Salvezza di chi ti invoca!).

37 È il vers. 20 del Te Deum, attribuito dai moderni a Niceta di Remesiana, a s. Vincenzo di Lerins o a Prudenzio.

38 Ibid.: vers. 29.

39 Cfr. Sermo 61 In Cantic. 4-5 (ML. 183, 1072-1073).

40 Cfr. Enarrat. in Ps. 101, 1, 10 (ML. 37, 1301).

41 Il senso del testo ebraico di questo versetto, come si ha nella versione del Salterio, ordinata da S. S. Pio XII, é: Per totam vitam (durat)
benevolentia eius. (La sua benevolenza dura per tutta la vita).

42 Cfr. A. Salvini - C. Poggi, Santa Geltrude la Grande, Messina, S. Paolo, 1944, pp. 295-296.

43 Acta Sanctorum aprilis, 3, Antuerpiae, Cnobarus, 1675, pp. 892-893

44 Conclave animae fidel., part. 2, Monile spirituale, cap. 13, n. 8 (G. B.).

45 Soliloquiorum animae ad Deum, 1 (opera apocrifa, da non confondersi con l'opera, dal titolo simile, del s. Dottore). (ML. 40, 865).

46 Ap. Surium, Vitae SS. die 30 Sept., n. 47 (edit. Taurin. 1878). (G. B.).

47 I. Mansi, Bibliotheca moralis praedicabilis, Venetiis, Balleonius, 1703, 3, p. 328.

48 In Vita eius descripta a Chalippe, lib. 5, v. med. v. Per vie più (edit. ital. Pescin. 1791). (G. B.).

49 S. Ignazio di L. nell'orazione: Suscipe, Domine, universam meam libertatem. in Preces, 39.


50 Psalterium Beatae Mariae Virginis (apocr.): canticum: Te, Matrem Dei laudamus, in Opuscula theologica, Venetiis, Scotus, 1572, 2, p.
317.

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§ IV - Avvertimenti circa gli ultimi sagramenti e modo di farli ricevere con frutto.

1. Circa la confessione

Già si è avvertito nella Pratica, n. 89 (si veda nella nostra Morale, 6, 260 e 484) che quando v'è pericolo
prossimo di morte o che forse è giunto il santissimo Viatico, e la confessione fosse lunga, non v'è obbligo per
allora di farla intera.

Ma di più, qui s'avverta:

Per I. In morte51 ogni sacerdote può assolvere tutti i casi e censure riservate, come ha dichiarato il concilio di
Trento (Sess. 14, de poenit. c. 7). E ciò non solo in articolo, ma anche nel solo pericolo di morte, come s'è
provato (6, 561). Avvertendo però che, per le censure riservate solamente (non già per li peccati riservati) deve
imporsi l'obbligo all'infermo di presentarsi al Superiore, se mai guarisce; altrimenti ricaderà nelle stesse censure
(6, 563, v. Secus).

Per II. Il sacerdote semplice non può assolvere il moribondo alla presenza dell'approvato52, se pur non avesse
cominciato a sentire la confessione (6, 562). Ma

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ciò non corre, quando l'approvato fosse complice della persona inferma in peccato turpi, come ha determinato il
pontefice Benedetto XIV (6, 563).

Per III. Il moribondo destituto de' sensi ben può essere assolto, almeno sub conditione (il che pare sempre più
sicuro), quando v'è alcuno che attesti aver quegli dimostrato desiderio dell'assoluzione, dando segno di
pentimento, o pure se avesse cercata la confessione (6, 481). E ciò quantunque il moribondo avesse perduti i
sensi nell'atto del peccato, come abbiam tenuto (6, 183), fondandolo coll'autorità di s. Agostino53 e colla
ragione, perché da una parte la condizione toglie l'irriverenza del sagramento, e dall'altra sempre si presume che
in tal punto ciascuno voglia provvedere alla sua salute eterna e che ne dia qualche segno sensibile, benché il
segno per cagione del morbo non si discerna.

Per IV. Se l'infermo dopo il terzo giorno, benché avvisato del pericolo, neppure avesse voluto confessarsi,
sarebbe bene che 'l sacerdote avvertisse il medico ch'egli, secondo la bolla di s. Pio V54, è tenuto ad astenersi di
visitarlo (6, 664). Ma se, con tutto ciò, l'infermo restasse ostinato, allora ben può ritornare il medico a curarlo
(loc. cit. v. Notant).

2. Circa la comunione

Si notino i seguenti avvertimenti:

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Per I. A ricevere il ss. Viatico non è necessario aspettare il tempo quando non v'è più speranza di vita, ma basta
che vi sia il pericolo della morte (6, 284)55. Per II. Quando v'è pericolo prossimo di vomito, non è lecito dare il
Viatico, benché si premetta l'esperienza della particola non consegrata (6, 292, v. In dubio).
Per III. Il Viatico ben può darsi a' fanciulli56 che hanno già l'uso della ragione, e così anche a' frenetici che son
vissuti bene o che si son confessati poco prima e non

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vi sia pericolo d'irriverenza al ss. Sagramento. E perciò con costoro probabilmente è lecito far l'esperienza della
particola non consegrata (loc. cit.).

Per IV. Ben può, anzi deve, darsi anche nel Venerdì Santo a' moribondi, come si ha dal decreto della S.
Congregazione de' Riti del 1622 a' 19 febr.57. Per V. È comune sentenza che, nella stessa infermità, ben possa
darsi più volte il Viatico all'infermo non digiuno, almeno tra lo spazio di sei o otto giorni. Anzi molti dd. dicono
anche più spesso (vedi 6, 284 e 285). Se poi si fosse comunicato la mattina per divozione, non si può
comunicare nello stesso giorno per viatico, se non quando sopravvenisse il pericolo della morte per qualche
morbo violento come di ferita, veleno o caduta (6, 285, dub. 3).

Per VI. Quando l'infermo si è solamente confessato e 'l male seguita ad essere pericoloso, è bene che 'l
sacerdote lo disponga a ricevere quanto più presto si può il Viatico, affinché lo riceva colla mente più sana e
con maggior frutto; e perciò procuri d'insinuargli il desiderio di riceverlo, affin di fortificarsi contro l'inferno in
tal pericolo e d'unirsi con Gesù Cristo, il quale vuol venire (gli dirà) a visitarlo per apportargli tesori di grazie e
per accompagnarlo al paradiso, s'è giunto il tempo di sua

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morte; e se no, per recargli anche la sanità, se questa gli è conveniente. Dice s. Cirillo Alessandrino che la ss.
Eucaristia etiam morbos depellit, et aegrotos sanat58. E narra s. Gregorio Nazianzeno59 che suo padre, subito
che ricevé la comunione, fu sano.

Onde il sacerdote potrà cosi dire all'infermo: Fratello mio, la tua infermità non è disperata, ma è pericolosa, e
perciò sarebbe bene che ricevessi quanto più presto la s. comunione, perché Gesù Cristo ti recherà la salute
corporale, s'è conveniente per la tua salute eterna; e s'hai da morire, verrà a darti forza contro le tentazioni e
per accompagnarti al paradiso. Che dici? hai desiderio di riceverlo? si? eh via, su, apparecchiati ad
abbracciarti col tuo Redentore ch'è morto per te. Digli con affetto: Vieni, Gesù mio, vieni, amor mio, unico mio
bene, vieni all'anima mia che ti desidera. Quid mihi est in coelo, et a te quid volui super terram? Deus cordis
mei et pars mea in aeternum. (Che altro c'è per me nel cielo e che cosa ho voluto da Te sulla terra? Dio del mio
cuore e mia parte per sempre).

Quando poi è giunto il Viatico, procuri il sacerdote che non vi siano nella stanza congiunti che possano portare
passione all'infermo, come moglie, figlie, sorelle, etc. Ed allora potrà cosi aggiungere: S. Filippo Neri, in veder
giunto nella sua camera il ss. Sagramento, disse: Ecco l'amor mio60. E così, fratello, voglio che dite anche

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voi. Ecco quel Figlio di Dio che per amor tuo è sceso dal cielo in terra ed ha voluto morire per te, ed ora è
venuto a visitarti. Allegramente, ch'egli già ti ha perdonato. Delle offese che gli hai fatte già ti sei pentito e
sempre più te ne penti; ma ora l'ami con tutto il cuore, non è cosi? eh via, digli: Si, Gesù mio, t'amo e, perché
t'amo, mi pento d'averti offeso: per amor tuo accetto la morte, eccomi qua; anzi desidero morire, se a te piace,
per venire ad amarti per sempre in paradiso.

Indi gli soggiungerà: Orsù, N… giacché voi amate Gesù Cristo, voi perdonate per amor suo a tutti coloro che
v'hanno offeso, non è così? Ed insieme voi cercate perdono a tutti dell'offese che loro avete fatte? Orsù,
rivoltatevi ora a Gesù Cristo che vuol venire ad abbracciarsi con voi. Ditegli che non siete degno: Domine, non
sum dignus. Ma esso con tutto ciò vuol venire a voi. Chiamatelo dunque: Vieni, Gesù mio, mio amore, mio
tutto, ch'io non voglio altro che te.

Comunicato che sarà l'infermo, è bene aiutarlo a fare il ringraziamento: Orsù, fratello, ringrazia Gesù Cristo
che con tanto amore è venuto ad abbracciarsi con te. Il ss. Sagramento si chiama pegno del paradiso: futurae
gloriae pignus. Allegramente: Dio ti vuol dare il paradiso e per ciò te n'ha dato in pegno se stesso. Di' con me.
Signor mio, amor mio, io t'abbraccio, io ti ringrazio, io t'amo e spero amarti in eterno; mi pento d'averti offeso
e propongo questa vita che mi resta, o poca o molta, di spenderla tutta in amarti.

Gesù mio, ti offerisco la mia vita, se a te piace di tormela. Sia sempre fatta la tua Volontà. Dammi solo, ti
prego, la santa perseveranza ed il tuo amore, sì ch'io spiri

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amandoti, per venire ad amarti per sempre in paradiso. Voi non mi lascierete, io non vi lascierò; dunque ci
ameremo in eterno, o Dio dell'anima mia.

3. Circa l'estrema unzione61

L'estrema unzione, come è l'ultimo de' sagramenti che riceviamo, così, al dir di san Tommaso62, è il
compimento di tutta la cura spirituale, per cui l'uomo si dispone ad entrare nella gloria celeste. Onde bisogna
che l'infermo lo riceva quando sta in sé, affinché ne ricavi maggior frutto; poiché, sebbene il detto sagramento
non può prendersi se non quando v'è grave pericolo (almeno probabile) di prossima morte o destituzione de'
sensi (come nella nostra Morale, 6, 714, adv. 2); però non deve aspettarsi l'ultimo fine della vita (loc. cit. adv.
1). Onde dice il Catechismo Romano63 che peccano gravissimamente quei parroci che danno l'estrema unzione
quando è perduta ogni speranza di vita e l'infermo già comincia a perdere i sensi.

Procuri dunque il sacerdote di persuadere all'infermo che l'estrema unzione per primo gli apporterà la sanità del
corpo, s'ella sarà per giovargli all'anima, come dichiara il Tridentino (Sess. 14, c. 2): Et sanitatem corporis

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interdum, ubi saluti animae expedierit, consequitur64. Ma questa sanità non si conferisce, quando l'infermo è
naturalmente impossibilitato a guarirsi. Narra Giovanni Erolto65 aver rivelato un certo defunto che, s'egli avesse
prima presa l'estrema unzione, sarebbesi guarito; ma, per averla differita, era morto ed era stato condannato per
cento anni in purgatorio.

Per secondo gli toglierà le reliquie de' peccati e per conseguenza gli stessi peccati, anche mortali, se gli sono
occulti, secondo san Tommaso66 (vedi al L. 6, 731, v. Commune); e perciò s'istruisca l'infermo che, mentre il
parroco unge ciascuno de' cinque sensi, egli abbia dolore de' peccati commessi in quel senso, rispondendo cogli
altri: Amen.

Per terzo gli conferirà aiuti particolari contro le tentazioni nell'ultima lotta coll'inferno; ond'è molto probabile
che chi ricusasse di prender questo sagramento non potrebbe essere scusato da colpa grave. Vedasi ciò che si è
detto nella Pratica al n. 90. È bene qui notare alcuni avvertimenti circa l'amministrazione di questo sagramento.

I. Praticamente non è probabile l'opinione che possa ungersi l'infermo con una sola goccia dell'olio santo senza
diffonderlo per le parti, perché non sarebbe ella vera unzione (Si veda al L. 6, 709, dub. 4 della Morale).

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II. L'unzione de' cinque sensi67, secondo la più comune, è di necessità di sagramento, onde solamente in tempo
di peste o d'imminente pericolo di morte può adoprarsi una sola unzione, ed in un solo senso (e meglio sarebbe
allora farla solamente nel capo), ma sotto condizione, se mai vale, e con una sola forma, dicendo: Per istam
sanctam unctionem et suam piissimam misericordiam indulgeat tibi Dominus quidquid deliquisti per sensus,
nempe per visum, auditum, gustum, odoratum et tactum. E se 'l moribondo sopravvive, debbon ripetersi (anche
sotto condizione) le unzioni in tutti cinque i sensi, colle solite orazioni (6, 710, v. Quaeritur).

III. Non è di necessità di sagramento l'ungere l'uno o l'altro organo; anzi può anche lecitamente ungersi un solo
occhio o mano, etc. quando v'è urgenza o pericolo d'infezione o se l'infermo non può volgersi all'altro lato.
L'unzione de' reni si tralascia nelle donne, ed anche negli uomini quando infirmus commode moveri non potest,
come

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prescrive il Rituale Romano. L'unzione poi de' piedi è comune sentenza non esser di necessità di sagramento; e
circa l'usarla, devesi osservar la consuetudine delle chiese (L. 6, n. 710, v. Certum). Così neppure è essenziale
l'ordine delle unzioni, ma deve per altro questo osservarsi sotto precetto grave (loco cit. v. Nec etiam).

Per IV. Ben può darsi l'estrema unzione a' fanciulli che hanno già l'uso di ragione, benché non abbiano ancora
ricevuta la comunione, ed in dubbio del suddetto uso può darsi condizionatamente; ma non già a' fanciulli
affatto di ragione incapaci (6, 719 e 720).

Per V. A' pazzi, deliranti e frenetici i quali prima, quando stavan colla mente sana, l'han domandata o
l'avrebbero richiesta, o pure che han dato segno di contrizione, ben anche può darsi, purché non vi sia pericolo
d'irriverenza. E tanto più se hanno qualche luce d'intervallo. E ad alcuno di cui si dubitasse se mai abbia avuto
l'uso di ragione, può darsi sotto condizione. Può darsi anche agli ubbriachi che stanno in pericolo di morte,
purché non costasse che abbiano perduti i sensi in istato di peccato mortale: poiché agl'impenitenti ed a coloro
che muoiono con manifesto peccato mortale, come anche agli scomunicati, affatto deve negarsi, come dice il
Rituale Romano (Vedi al L. 6, 732). Alle parturienti ben anche può darsi, se per li dolori del parto fosse qualche
donna già in pericolo di morte.

Per VI. In caso di necessità si tralasciano le orazioni prescritte fuori della forma (6, 727), le quali si diranno
appresso, se vi è tempo. Ed in tal caso può darsi il sagramento senza lumi e senza ministro (6, 728); ed anche,
probabilmente, senza cotta e stola (6, 726).

- 303 -

Per VII. L'estrema unzione non può replicarsi nella stessa infermità68, se non quando l'infermo fosse già guarito
(almeno probabilmente) da quella e ricadesse in altro simil pericolo di vita, come dice il Tridentino (Sess. 14, c.
3. Vedi 6, 715).

Per VIII. Stia cauto il confessore in non far rivolgere l'infermo, affin di ungerlo sulle parti vicine; ma quando
con cautela lo rivolgesse e casualmente ne seguisse la morte, non tema d'irregolarità, la quale richiede delitto, di
cui non è reo chi ciò ha fatto per ufficio di carità (6, 725).

Per ultimo ben può il parroco tener in casa la notte l'olio santo69, se teme probabilmente che altrimenti non
sarebbe a tempo di dare il sagramento all'infermo (6, 730).
51 Le facoltà speciali concesse ai sacerdoti per i fedeli che sono in pericolo di morte, sono già state esposte al n. 18, nota 42 (Cfr. can. 976).

52 Questo è contrario al can. 976.

53 De coniugiis adalterinis, 1, 28, 35 (ML. 40, 470).

54 Const. Supra gregem dominicum, cit. al n. 53, nota 33.

55 Quanto al Viatico, ecco le prescrizioni ora vigenti: Can. 921. 1. I fedeli che si trovano in pericolo di morte derivante da una causa
qualsiasi, ricevano il conforto della sacra comunione come Viatico. - 2. Anche se avessero ricevuto nello stesso giorno la sacra comunione,
tuttavia si suggerisce vivamente che quanti si trovano in pericolo di morte, si comunichino nuovamente. - 3. Perdurando il pericolo di morte,
si raccomanda che la sacra comunione venga amministrata più volte, in giorni distinti. —Can. 922. Il santo Viatico per gli infermi non venga
differito troppo; coloro che hanno la cura d'anime vigilino diligentemente affinché gli infermi ne ricevano il conforto nel pieno possesso delle
loro facoltà. —Can. 911. 1. Hanno il dovere e il diritto di portare l'Eucaristia sotto forma di Viatico agli infermi, il parroco e i vicari parrocchiali,
i cappellani, come pure il Superiore della comunità negli istituti religiosi clericali o nelle società di vita apostolica, nei riguardi di tutti coloro
che si trovano nella casa. — In caso di necessità o per licenza almeno presunta del ministro competente, qualunque sacerdote o diacono
amministri il Viatico; in mancanza poi di ministro sacro, qualsiasi fedele debitamente deputato. Il diacono usi il medesimo rito che è descritto
nel Rituale (nn. 101-114) per il sacerdote; gli altri si attengano al rito che è descritto nel Rituale per la sacra comunione ed il culto del
mistero eucaristico fuori della messa. (S. C. pro Sacramentis et Cultu Divino, Variationes, 12 septembris 1983, IX, n. 29: Notitiae, 206,
(1983), pp. 552-553.

56 Ai fanciulli che si trovino in pericolo di morte la santissima Eucaristia può essere amministrata se possono distinguere il Corpo di Cristo dal
cibo comune e ricevere con riverenza la comunione. Can. 913. 2.

57 Anche nei giorni di giovedì, venerdì e sabato santo il Viatico può portarsi agli infermi a qualunque ora. Così la S. C. per il Culto divino,
decr. 21 giugno 1973, 18, a, b, c. —Quando, com'è desiderabile, il Viatico viene amministrato durante la celebrazione della messa l'infermo
può ricevere la comunione sotto ambe le specie ed in questa forma possono riceverla anche i familiari ed amici presenti. S. C. per il Culto
divino, Istr. 29 gennaio 1973, 1, 7.

58 Traduzione: Scaccia anche la malattia e sana gli ammalati In Jo., 6, 57, lib. 4, cap. 2 (al 17) (MGL. 73, col. 586) (G. B.).

59 Oratio 18, funebris in patrem, 28, ss. (MGL. 35, col. 1018, ss.) Non è certo se ivi il Santo parli del Viatico o della Messa celebrata
dall'infermo nella sua camera.

60 Bacci, o. cit. 4, 1, 4, vol. 2, p. 154.

61 Sulla Unzione degli infermi, come deve dirsi ora, cfr. cann. 998-1007.

62 1-2 qu. 102, art. 5, ad 3.

63 Pars II, 6, 9.

64 E produce talora sanità del corpo, quando è giovevole alla salvezza dell'anima.

65 Joan. Herold, dictus Discipulus, sermones Discipuli, cum Promptuario exemplorum, prompt., lit. V., exempl. 29 (edit Venet. 1589) (G. B.).

66 Suppl. q. 30, art. 1, c.

67 L'unzione degli infermi può essere amministrata al fedele che, raggiunto l'uso di ragione, per malattia o vecchiaia comincia a trovarsi in
pericolo (Can. 1004. 1), ungendolo sulla fronte e sulle mani con olio di oliva, o, secondo l'opportunità con altro olio vegetale, debitamente
benedetto e pronunciando, per una volta soltanto, queste parole: "Per questa Santa Unzione e la sua piissima misericordia ti aiuti il Signore
con la grazia dello Spirito Santo. R. Amen. E, liberandoti dai peccati, ti salvi e nella sua bontà ti sollevi R. Amen". (Paolo VI, Costituz. Apost.
Sacram Unctionem infirmorum, 30 nov. bris 1972.)—In caso di necessità basta che si faccia una unica unzione in fronte oppure, per le
particolari condizioni del malato, in altra parte del corpo più adatta, pronunciando l'intera formula. (Ibid.)— Quanto agli olii, cfr. can. 847.

68 Questo sacramento può essere ripetuto se l'infermo, dopo essersi ristabilito, sia ricaduto nuovamente in una grave malattia o se, nel
decorso della medesima, il pericolo sia divenuto più grave. (Can. 1004. 2).
69 A qualunque sacerdote è lecito portare con se l'olio benedetto, perché sia in grado di amministrare, in caso di necessità, il sacramento
dell'unzione degli infermi (Can. 1003. 3).

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§ V. - Avvisi per l'agonia e morte

Entrato che sarà l'infermo in agonia, s'avvalga il sacerdote dell'armi della Chiesa per aiutarlo quanto può.

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Per 1. l'asperga spesso coll'acqua benedetta, specialmente s'egli fosse infestato da apparizioni70 diaboliche, con
dire: Exsurgat Deus, et dissipentur inimici eius (cioè: Sorga Iddio e i suoi nemici si disperdano).

Per 2. lo segni spesso col segno della croce, ed anche lo benedica, dicendo: Benedicat te Deus Pater qui te
creavit; benedicat te Filius qui te redemit; benedicat te Spiritus Sanctus qui te sanctificavit (cioè: Ti benedica
Dio che ti ha creato; ti benedica il Figlio che ti ha redento; ti benedica lo Spirito Santo che ti ha santificato).

Per 3. gli dia spesso a baciare il crocifisso e qualche immagine di Maria ss.

Per 4. procuri di fargli prendere tutte le indulgenze che può, di medaglie, abitini, cordone, etc.e specialmente la
benedizione in articulo mortis di Benedetto XIV71, coll'indulgenza plenaria, che sta notata nel cap. ultimo72. Per
5. di tanto in tanto gli suggerisca qualche sentimento di pentimento, di rassegnazione, di offerta de' suoi dolori,
di confidenza nella passione di Gesù Cristo e nell'intercessione di Maria, di desiderio di veder Dio; ma sempre
con pausa, affinché gli dia tempo di pensare e di riposare.

Per 6. gli faccia spesso invocare (almeno col cuore, se non può parlare) i nomi ss. di Gesù e di Maria, e più
volte gli faccia replicare l'orazione: Maria, mater gratiae, etc.(Maria, Madre di grazia…).

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Per 7. durante l'agonia faccia dire più volte da' circostanti le litanie della b. Vergine per il moribondo. E ben
sarebbe anche far dare il segno colla campana dell'agonia, affinché tutti preghino per il di lui buon passaggio; il
che può giovare al bene anche de' sani. E qui notisi, per regola generale, che quando il moribondo è destituto,
gioverà più l'aiutarlo colle orazioni, che colle parole.

Per 8. accostandosi l'infermo alla morte, il sacerdote gli reciti con voce fievole, inginocchiato a piedi del letto,
le orazioni della Chiesa: Proficiscere, etc. Suscipe, etc. che stanno nel fine del Rituale e del Breviario.

Per 9. stia cauto nel toccare il naso, le mani o piedi dell'infermo, per vedere se sono freddi, perché ciò (almeno
s'è spesso) potrebbe disturbarlo. E si guardi di farlo muovere in quello stato di agonia, perché ciò potrebbe
cagionargli la morte.

Per 10. quando è vicino l'infermo a passare, gli faccia tenere (almeno per qualche tempo) la candela benedetta
accesa, in segno di voler morire nella s. fede.

Per 11. quando l'infermo sta ancora ne' suoi sentimenti, è bene dargli più volte l'assoluzione dopo una breve
riconciliazione, per assicurargli meglio lo stato di grazia, se mai le confessioni passate non fossero state buone,
o almeno per fargli acquistare maggiore aumento di grazia e scemargli le pene del purgatorio. E, se mai per
disgrazia l'infermo cadesse allora in colpa grave, non l'atterrisca, ma, esortandolo a chiamar Gesù e Maria, se di
nuovo è tentato, gli dia confidenza, gli faccia fare l'atto di dolore e subito l'assolva.
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Se poi l'infermo ha già perduti i sentimenti, e non dà alcun segno di pentimento o di cercare l'assoluzione, non è
bene di replicargliela molto spesso, perché quantunque allora gli si dia l'assoluzione condizionatamente,
tuttavia, per conferire il sagramento sotto condizione, sempre si richiede grave causa; onde deve aspettarsi
almeno che passi qualche spazio notabile di tempo fra l'una assoluzione e l'altra. Devesi in ciò regolare il
sacerdote dalla coscienza che sa dell'infermo, per esempio se quegli è stato abituato ne' mali pensieri, se muore
per qualche ferita e con qualche gran passione d'odio o di amor disonesto, se l'infermità è molto dolorosa e 'l
paziente ha poca sofferenza, allora gli si può dare più spesso l'assoluzione; altrimenti basterà dargliela ogni tre
o quattro ore; ma più spesso, se sta vicino a spirare. Sarà bene poi avvertire l'infermo, quando sta in sé, che
quando non potrà parlare, dia qualche segno determinato, sempreché vuole l'assoluzione o quando il sacerdote
ce la vuol dare, per esempio che chiuda o apra gli occhi, chini la testa, alzi la mano e simili.

Per ultimo, quando l'infermo sembra già spirato, avverta il sacerdote a non dir subito che sia morto, e tanto
meno a non chiudergli subito gli occhi e la bocca o a coprirgli con panni il viso, perché potrebbe essere che non
fosse ancora spirato e così gli accelererebbe la morte. Del resto, accertatosi che sarà dopo qualche tempo, che
l'anima sia già trapassata, dirà a' circostanti che la raccomandino a Dio, ed egli in ginocchio dirà l'orazione:
Subvenite, etc. che sta nel Rituale e nel Breviario.

70 Praxis, 276, ha: tentationibus.

71 Const. Pia mater, 5 apr. 1747; in Fontes, 380.

72 Cioè in fine.

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§ VI - Affetti da suggerirsi in tempo dell'agonia e spirazione

Credo in Voi, mio Dio, infallibile verità; spero in Voi, immensa misericordia; amo Voi, infinita bontà.

In te, Domine, speravi, non confundar in aeternum. - Quid mihi est in coelo et a te quid volui super terram?
Deus cordis mei et pars mea in aeternum. - Amore amoris tui moriar, qui amore amoris mei dignatus es mori. -
In pace in idipsum dormiam et requiescam. (In Te, o Signore, ho sperato; che non resti confuso in eterno. - Che
altro c'è per me nel cielo e che cosa ho voluto da Te sulla terra? Dio del mio cuore e mia parte per sempre. -
Che io muoia, Signore, d'amore per Te che Ti sei degnato di morire per me. - Dormirò e riposerò nella pace con
Lui.)

Dio mio, non permettere ch'io Ti perda.

Io non voglio altro che Te, bontà infinita; io t'amo, io t'amo.

(E qui si noti che gli atti più frequenti da insinuarsi agli agonizzanti sono d'amore e di pentimento).

Gesù mio, che tra pochi momenti m'hai da essere giudice, perdonami. Io t'amo, mi pento di averTi offeso.

Jesu mi dulcissime, ne permittas me separari a te. (Mio dolcissimo Gesù, non permettere che mi separi da Te.)

Sangue di Gesù, lavami; passione di Gesù, salvami.


In manus tuas, Domine, commendo spiritum meam.

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Moriar, Domine, ut te videam. (Nelle tue mani, Signore, raccomando l'anima mia. - Che io muoia, Signore,
onde possa vederTi).

Maria, Madre di Dio, prega Gesù per me.

Illos tuos misericordes oculos ad nos converte, et Jesum benedictum fructum ventris tui, nobis post hoc exsilium
ostende. (Rivolgi a noi quegli occhi tuoi misericordiosi e mostraci dopo questo esilio Gesù, il frutto benedetto
del tuo seno.)

O Maria, or è tempo d'aiutare il tuo schiavo.

Mamma mia, non m'abbandonare.

Patria bella, patria d'amore, quando ti vedrò?

Dio mio, quando Ti amerò da faccia a faccia?

Quando, Gesù mio, mi vedrò sicuro di non poterTi più perdere?

Deus meus et omnia. (Mio Dio e mio tutto!).

Mi contento di perdere tutto, per far acquisto di voi, mio Dio.

Mio Dio, per amore di Gesù, abbi pietà di me.

Mandatemi, Signore, al purgatorio per quanto volete, ma non mi condannate a non potervi amare.

Te ergo quaesumus, tuis famulis subveni, quos pretioso sanguine redemisti. (Ti preghiamo dunque, soccorri i
tuoi servi che hai redenti col tuo Sangue prezioso).

O Dio eterno, voglio e spero amarTi in eterno.

Amor meus crucifixus est. (L'amor mio è crocifisso!) Gesù mio, l'amore mio, è morto per me.

Deus, in adiutorium meum intende; Domine, ad adiuvandum, etc. (Dio, vieni a salvarmi; Signore, vieni presto
in mio aiuto).

Padre eterno, per amore di Gesù Cristo, dammi la tua grazia. Io t'amo, mi pento, etc.

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Come posso, Dio mio, ringraziarvi di quante grazie mi avete fatte? Spero venire in cielo a ringraziarVi in
eterno.

Maria, mater gratiae, mater misericordiae, etc. (Maria, Madre di grazia, Madre di misericordia, ecc.)

Miserere mei, Deus, secundum magnam, etc. (Abbi pietà di me, Dio, secondo la tua grande misericordia…
Salmo 50).
Misericordias Domini in aeternum cantabo. (Canterò per sempre le misericordie del Signore).

Nel tempo che l'infermo sta spirando.

In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum. (Nelle tue mani, Signore, raccomando l'anima mia). Gesù
mio, ti raccomando quest'anima comprata col tuo Sangue.

(Notisi che nel tempo che l'infermo sta vicino a spirare, gli atti debbono suggerirsi senza pausa e colla voce più
forte).

Domine, Jesu Christe, suscipe spiritum meum. (Signore Gesù Cristo, accogli l'anima mia).

Dio mio, aiutami; lasciami venire ad amarTi in eterno.

Gesù mio, amore mio, io t'amo e mi pento, etc. Non t'avessi mai offeso.

Maria, speranza mia, soccorrimi, prega Gesù per me.

Gesù mio, salvami per la tua passione; io t'amo.

Maria, mamma mia, aiutami in questo punto. S. Giuseppe mio, soccorrimi. S. Michele arcangelo, difendimi.
Angelo mio custode, assistimi S. N. mio (qui si nomini il

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santo avvocato principale dell'infermo), raccomandami a Gesù Cristo. Santi tutti del cielo, pregate Dio per me.

Gesù, Gesù, Gesù.

Gesù e Maria, vi dono il cuore e l'anima mia.

- 310 -

§ VII - Segni della prossima morte

È bene che il sacerdote assistente sappia i segni della prossima morte, affinché possa meglio aiutare l'infermo,
quando sta all'ultimo. I segni principali e più universali sono tre: 1. la respirazione affannosa; 2. il polso
mancante o intermittente o formicante; 3. gli occhi incavati ed invetrati, o più aperti del solito, o troppo lucidi, o
che vedono gli oggetti diversamente da quelli che sono; ovvero quando la palpebra superiore si rilascia ed
oltrepassa l'inferiore.

Di più son segni della morte vicina il naso affilato e colla punta bianca e 'l manteggiar delle narici, le tempia
contratte, le mani tremanti, l'unghie livide, la faccia illividita, gialliccia o pure mutata; il fiato puzzolente o
freddo, il corpo fatto immobile, il sudor freddo o sudor della fronte, il gran calor del petto sulla regione del
cuore; il cogliere le festuche o peli de' panni, il raffreddamento dell'estremità della vita.

I segni poi della prossima spirazione sono la respirazione intermittente e meno strepitosa, la perdita del polso,

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il restringimento e stridore de' denti, il catarro nella gola, un certo fievole sospiro o lamento, la lagrima che
scaturisce, lo storcimento di bocca o d'occhi o di tutto il corpo.

S'avverta per 1. che gl'infermi d'idropisia, etisia, ferita, asma, puntura73, flusso, vomito, schiranzia74, catarro alla
gola, incisione di spasimo, questi con pochi segni de' nominati alle volte, e con polso gagliardo, e parlando, se
ne muoiono.

Per 2. che saran prossimi a spirare quelli che hanno mal di puntura, quando vien loro impedita la respirazione e,
crescendo l'affanno, compariscono le labbra livide. Quei che son feriti in testa alle volte muoiono di sincope
all'improvviso. Gl'infermi d'idropisia, quando manca il polso e s'avanza l'affanno e si vede spuma nella bocca.
Quei che han febbre intermittente soglion morire nel principio dell'accessione, quando son forti le convulsioni.

Per 3. che in alcuni infermi è così debole il fiato e l'agitazione del cuore, che sembrano morti e pur non sono. I
segni più certi della morte sono il raffreddare di tutte le parti, anche nella regione del cuore, la gravità del
corpo, il non sentire qualche spirito forte posto nelle narici, il non comparire macchia alcuna sullo specchio
accostato alla bocca, e simili. D'altra parte avvertasi che alle volte i segni di sopra in primo luogo descritti
falliscono, e senza quelli all'improvviso se ne muore l'infermo; e perciò quando quegli sta in agonia, il sacerdote
non deve mai abbandonarlo.

73 Puntura = pleurite.

74 Schiranzia = angina.

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§ VIII - Preci, atti cristiani e benedizioni

Entrando nella stanza dell'infermo il ministro dica:

V. Pax huic domui (Pace a questa casa).

R. Et omnibus habitantibus in ea. (E a quanti vi abitano).

Asperga la stanza coll'acqua benedetta(...) Indi può dire le orazioni che sono nel Rituale per l'apparecchio
all'estrema unzione.

Indi prenda il crocifisso, dicendo: Ecce Crucem Domini, fugite partes adversae. (Ecco la croce del Signore;
fuggite, o nemici). E dopo lo dia a baciare all'infermo, con dirgli: Bacia i piedi di Gesù Cristo ch'è morto su
questa croce per salvarti.

Quindi potrà dirgli: Orsù, N. mettiti in mano di Dio. Speriamo che Maria ss. ti voglia ottenere la sanità, ma
l'infermità è grave; unisci la volontà tua alla volontà di Dio, affinché faccia di te quel che vuole. Orsù,
facciamo gli atti cristiani per apparecchio alla morte, se il Signore così ha determinato per bene tuo. Eh via, di'
con me:

Atto di fede. Dio mio, Verità infallibile, perché Voi l'avete rivelato alla s. Chiesa, io credo tutto quello che la s.
Chiesa mi propone a credere. Credo che Voi siete il mio Dio, Creatore del tutto, che in eterno premiate i giusti
col paradiso e castigate i peccatori coll'inferno. Credo il mistero della ss. Trinità, cioè Padre, Figliuolo e
Spirito Santo: tre Persone ed un solo Dio. Credo che la seconda Persona, cioè il Figliuolo di Dio, s'è fatt'uomo
nell'utero
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di Maria sempre vergine, ed è morto per noi peccatori. Indi risuscitò ed ora siede in cielo in gloria eguale al
Padre; e di là ha da venire a giudicare tutti gli uomini. Credo i sette santi sacramenti e specialmente il
battesimo, la penitenza, l'Eucaristia e l'estrema unzione. Credo che tutti abbiamo da risorgere in anima e
corpo. E finalmente credo tutto l'altro che crede la s. Chiesa cattolica romana, in cui credo essere solamente la
vera fede.

Atto di speranza. Dio mio, fidato nelle vostre promesse, perché Voi siete fedele, onnipotente e misericordioso,
spero per li meriti di Gesù Cristo il perdono de' miei peccati, la perseveranza finale e la gloria del paradiso.

Atto di amore e di dolore. Dio mio, perché Voi siete bontà infinita, degno d'infinito amore, v'amo con tutto il
cuore mio sopra ogni cosa. E di tutti i peccati miei, perché ho offeso Voi, bontà infinita, me ne pento e mi
dispiace con tutta l'anima mia. Propongo prima morire che mai più peccare, colla grazia vostra, che vi cerco
per ora e per sempre. E propongo di ricevere i santi sagramenti.(...)

Il modo di darla (l'Apostolica Benedizione con l'indulgenza plenaria) è il seguente75:

In entrare nella stanza dell'infermo dica: Pax huic domui. (ecc., benedicendo la stanza secondo il Rituale).(...).

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Se l'infermo cerca la confessione, il sacerdote lo senta; altrimenti l'ecciti alla contrizione, ed animandolo alla
speranza del paradiso l'esorti ad offerirsi a Dio e ad accettare ciò che vuole il Signore e la morte in
soddisfazione de' suoi peccati.*

75 Vedere l'istruzione Inter oecumenici, S. C. Rit., 26 set. 1964, n. 68 (Ench. Vat., 2, 278); Enchiridion indulgentiarum, normae, n. 24. 2
(Enchir. Vat., 2, 524); Manuale delle Indulgenze. Altre concessioni, n. 28 (Libreria Editrice Vaticana, 1968).

* Il resto del testo originale consiste in formule latine, che includono anche l'Ordo Commendationis Animae e il modo di benedire e di imporre
gli scapolari della Madonna del Carmine, dell'Addolorata e dell'immacolata, con l'istruzione al sacerdote "di recitare le preghiere con quanta
maggior devozione possibile e di ammonire familiari e circostanti di pregare insieme per il morente", come diceva il Rituale precedente.
Pensiamo di poter omettere tutte queste cose poiché si può ricorrere al Rituale attuale.

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