Storia Dei Gesuiti e Chiesa Del Gesù Nuovo
Storia Dei Gesuiti e Chiesa Del Gesù Nuovo
Storia Dei Gesuiti e Chiesa Del Gesù Nuovo
La compagnia di Gesù ha fatto della cultura uno strumento di evangelizzazione. Dal momento in cui
nacque , seguì un programma di propaganda religiosa, più penetrante e capillare possibile, che non
poteva trascurare l’arte e la rappresentazione artistica della fede. La compagnia cercava un
linguaggio semplice immediato funzionale per trasmettere i propri messaggi di fede, ma anche che
toccasse il cuore colpisse l’emotività con gesti teatrali e mimica carica di pathos. A questo criterio
di funzionalità, furono orientate le scelte artistiche adottate dall’Ordine per la decorazione dei
propri edifici di culto
Alla base delle scelte artistiche dei gesuiti vi è il concetto della “regolata mescolanza” ( A. Gilio,
Due dialoghi…Degli errori de’ pittori). Se pensiamo alla chiesa del Gesù di Roma, costruita nel 1568
su progetto del Vignola e modello poi per molte altre chiese gesuitiche, ritroviamo una fusione
linguistica di elementi architettonici provenienti sia dalla tradizione dell’ antichità sia dalle
esperienze dell’ architettura quattro e cinquecentesca utilizzati con uno scopo funzionale, quello di
concretizzare i canoni espressi nel Concilio di trento; primo fra tutti, l’ attenzione all’ azione
liturgica, specialmente alla predicazione, favorita dall’ adozione della pianta longitudinale, con
navata unica e cappelle laterali. L’ ampia cupola nella zona presbiteriale riportava l’ attenzione dei
fedeli sull’ altare maggiore, luogo privilegiato del rinnovato dogma dell’ eucarestia, mentre la
copertura con volte a botte offriva la possibilità di realizzare ampi cicli di affreschi, i quali
fungevano da sostegno visivo alla predicazione, con un intento didascalico e didattico e un
linguaggio molto semplice1.
Tra i temi iconografici prescelti , accanto a quelli tratti dalla tradizione cristiana, come l’ iconografia
della passione di Cristo o quella mariana emergono le vite dei propri santi, come Ignazio o
Francesco Saverio, i loro miracoli e le loro missioni terrene e spirituali, e soprattutto il loro martirio,
estremo sacrificio compiuto per la conversione dei popoli.
L’esaltazione del sacrificio dei santi la narrazione delle loro vite e la loro meritevole ascesa al
paradiso sono tematiche al centro dei programmi decorativi, con un intento prettamente
pedagogico.
Il teatro, inteso più in generale come “visione teatrale”, fu adoperato per rispondere alle esigenze
didattiche promosse dalla Compagnia, e rappresentò una formula applicata all’ intera concezione
gesuitica dell’ arte.
Negli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, approvati da Papa Paolo III nel 1548, troviamo infatti
l’invito a una rappresentazione visiva della fede, ricorrendo con decisione alle immagini e all’
impiego dei sensi. Il fedele è spinto a una meditazione basata sulla “Compositio loci”, ovvero la
composizione visiva del luogo del martirio dei santi. Gli affreschi e i dipinti presenti sulle pareti
delle chiese gesuitiche, le sculture monumentali che paiono animarsi ed esprimere il proprio
spirito di fede e sacrificio, traducono in arte il metodo ignaziano della “vista dell’ immaginazione”,
1
E. Bairati- A. Finocchi, Arte in Italia, II, Torino 2001 , p. 481.
uno strumento offerto al popolo cristiano per aiutarlo a costruire davanti ai suoi occhi l’ immagine
vera e concreta della storia e delle tradizioni della chiesa.
Come ha sostenuto Federico Zeri ( Pittura e Controriforma, Torino 1957) non esiste uno stile
gesuitico ma una molteplicità di stili, la cosiddetta “regolata mescolanza”, espressi da artisti anche
appartenenti a culture figurative molto diverse, ma che avevano come filo conduttore la volontà di
comunicare le verità teologiche attraverso esempi eloquenti, chiari e decorosi e che fossero in
grado di fornire un fondamento teorico fecondo all’ arte sacra minacciata dagli eretici.così anche a
Napoli ritroviamo questa mescolanza, espressa attraverso la corrente tardo-manierista che si rifà a
modelli tradizionali, rispettosa dei precetti della Controriforma, Fabrizio Santafede e Giovan
Bernardino Azzolino, realizzata da una pittura di devozione, tono narrativo e dai piacevoli effetti
decorativi e cromatici, portata a Napoli da Roma dal Cavalier d’ Arpino, aderì invece Belisario
Corenzio. Il nuovo drammatico linguaggio caravaggesco fu portato nelle chiesa gesuitiche da
Battistello Caracciolo e Jusepe Ribera . A questi si aggiunge il linguaggio barocco di Giovanni
Lanfranco, che affrescò la cupola del Gesù nel 1634, e il celebre architetto e scultore di origini
bergamasche Cosimo Fanzago.
I Gesuiti a Napoli
I Gesuiti arrivarono a Napoli in 12, guidati da Padre Alfonso Salmeron, e si insediarono nel seggio di
Nido, prima in un palazzo già esistente poi nel complesso del Gesù Vecchio, eretto a partire dal
1554 e in cui presero successivamente corpo il Collegio, l’università e la chiesa, abbattuta e
riedificata nel 1624 ad opera di Pietro Provedi (dunque più “nuovo” del Gesù Nuovo, ma
riconosciuto da tutta la città come “vecchio”).
Nel 1579 venne avviata la costruzione della Casa Professa in via San Biagio dei Librai, fino a che nel
1584 i Gesuiti acquistarono il palazzo Sanseverino dando vita al complesso del Gesù Nuovo, con la
chiesa consacrata nel 1601 e l’ annessa Casa Professa sulla destra e il palazzo delle Congregazioni a
sinistra.
Il complesso del Noviziato per la formazione dei giovani fu eretto a Pizzofalcone dal 1587 divenuto
poi scuola militare con la costruzione , nel Settecento, della Chiesa della Nunziatella.
Numerosi furono i collegi istituiti dai gesuiti napoletani: quello di San Giuseppe a Chiaia (1622) per
i figli dei pescatori, quello di San Francesco Saverio (1623) con l’ annessa chiesa, che dal 1767 fu
rinominata San Ferdinando per i figli degli impiegati del governo vicereale, il collegio di
Sant’Ignazio al mercato per i figli dei bottegai del 1612 (oggi Istituto Isabella d’Este) e il collegio dei
Nobili eretto nel 1646 in via Nilo. Questa capillare distribuzione delle istituzioni gesuitiche sul
territorio ci permette di comprendere lo spirito apostolico e pedagogico che i Gesuiti hanno da
sempre coltivato, nonostante le varie “cacciate” che hanno subito dal ‘700 in poi. Ma il fervore non
ha mai smesso di manifestarsi e anche nell’Ottocento e nel Novecento troviamo nuove sedi come
la facoltà teologica S.Luigi a Posillipo e nel 1962 il complesso dei Camaldoli dedicato ai convegni e
ai ritiri spirituali, posto sulla via dedicata proprio a Ignazio di Loyola.
Accenni all’ oratorio dei Nobili e alll'oratorio delle Dame
L'attuale liceo Genovesi custodisce al suo interno un prezioso scrigno d'arte antica: l’oratorio dei
Nobili e l'adiacente oratorio delle Dame, due ampie e raffinate sale affrescate, inopportunamente
adibite ad aula magna e a palestra dell'istituto scolastico L’edificio, costruito dal 1592 di fianco alla
chiesa del Gesù Nuovo aveva un intento assistenziale. L'antico palazzo infatti, ospitava numerose
congregazioni laiche che operavano sotto il patrocinio dei padri gesuiti tra cui quelle dei cavalieri,
officiali e dottori che operava sotto il titolo della Nascita della Vergine e si dedicava alla cura dei
poveri e bisognosi e la congregazione degli artigiani sotto il titolo dell'Assunta a cui solo
nell'Ottocento di sostituirà quella delle Dame.
Anche se non del tutto completata, nel 1601, quando venne solennemente consacrata e dedicata
all’Immacolata, l’interno della chiesa si presentava molto semplice e austero, rispondendo alle
norme imposte dal Concilio di Trento e ad una tradizione decorativa ancora cinquecentesca: pareti
bianche elevate su un’alta zoccolatura di piperno grigio e un semplice pavimento in cotto. Ma
questo iniziale rigore fu presto sostituito da una decorazione sempre più ricca; il commesso
marmoreo ne divenne un protagonista principale lasciandoci in eredità una preziosa testimonianza
della sua evoluzione stilistica dai primi anni del Seicento fino all’Ottocento e oltre. Altrettanto
imponente per l’ampiezza e l’importanza è la decorazione ad affresco realizzata dai maggiori artisti
operanti a Napoli quali ad esempio Belisario Corenzio, Giovan Bernardino Azzolino, Girolamo
Imparato, Giovanni Lanfranco, Paolo De Matteis, Massimo Stanzione e Francesco Solimena. La
chiesa del Gesù Nuovo in soli quattro secoli ha accumulato storie e vicissitudini, religiose ed
artistiche, tra le più rilevanti della città. I gesuiti furono allontanati durante le ben note
soppressioni, quella borbonica (1767), quella francese (1806) e infine quella garibaldina (1860), e
la loro chiesa ha superato momenti di eccezionale difficoltà come l’incendio del 1639 che distrusse
l’altare maggiore e gli affreschi della volta, e il terremoto del 1688 che fece crollare la cupola
causando serissimi danni a catena in tutto l’edificio. Trasformata in deposito di grano durante la
Prima guerra Mondiale, tutte le opere d’arte si ricoprirono di un dannoso strato di polvere, e il
pavimento fu molto compromesso per il passaggio di carri e bestiame; nella Seconda guerra
Mondiale, il bombardamento del 4 agosto 1943 danneggiò gravemente la sagrestia, i locali
adiacenti e il cappellone di Sant’Ignazio.
Entrati ci accoglie lo stemma pavimentale in marmo che ci ricorda la fondatrice e finanziatrice della
chiesa Isabella Feltria della Rovere principessa di Bisignano. Isabella sposa a 13 anni del principe di
Bisignano Bernardino Sanseverino, trascorse una vita matrimoniale assai infelice, ma la sua
generosità e il suo amore furono riversati sui poveri e i malati che andava ad accudire all’ospedale
degli Incurabili. Molto devota si dedicherà completamente all’edificazione della nuova chiesa del
Gesù, che designerà erede di tutti i suoi beni. La nostra chiesa la ricorda in varie lapidi e conserva le
sue spoglie sotto l’altare maggiore. Lo stemma matrimoniale è diviso in due parti, a sinistra riporta
i colori Sanseverino a destra quelli dei duchi di Urbino.
La chiesa è dedicata all’Immacolata sebbene sia da sempre conosciuta come Il Gesù Nuovo, così
chiamata dal popolo per distinguerla dal Collegio del Gesù Vecchio. Per evitare che il vicerè
spagnolo duca di Osunna imponesse il proprio stemma sul portale d’ingresso, i Gesuiti pensarono
di intitolare la chiesa all’Immacolata, protrettrice della casata vicereale, così da evitare problemi
politici.
Il programma di affreschi che percorre le volte della navata con le storie del nome di Gesù, passa ai
bracci del transetto con l’esaltazione dei due santi più importanti dell’ordine Ignazio e Francesco
Saverio, per giungere finalmente verso l’altare maggiore con le storie di Maria, ha un preciso
intento di catechesi, basato sul Nuovo e Vecchio Testamento ma anche sui Vangeli apocrifi e testi
agiografici. Essi intendono comunicare con la rappresentazione visiva, gli insegnamenti religiosi che
i gesuiti conducevano nel mondo per evangelizzare i popoli.
Il primo artista che incontriamo è Belisario Corenzio che fu attivo nella chiesa per quasi
quarant’anni e fedele portavoce di un linguaggio ancora sostanzialmente Manierista. L’artista
eseguì sulla volta del primo tratto della navata centrale le scene con i Miracoli compiuti nel nome
di Gesù, realizzati tra il 1636 e il 1638. Dopo i danni causati dal terremoto del 1688, Paolo de
Matteis, fautore di un linguaggio classicista pacato e devoto, rifece i due riquadri centrali che
rappresentano Il Trionfo dell’Immacolata e di San Michele Arcangelo sui demoni e La Circoncisione
di Gesù. Nel primo riquadro centrale troviamo la trasposizione pittorica dell’episodio narrato
nell’Apocalisse: “nel cielo apparve un segno grandioso una donna vestita di sole con la luna ai suoi
piedi , comparve poi un drago rosso. Scoppiò una guerra in cielo : Michele sul cui scudo spicca il
monogramma IHS e i suoi angeli combattono il Drago che viene sconfitto”. Nel secondo riquadro
invece è rappresentata la circoncisione e l’imposizione del nome di Gesù e ritroviamo la presenza
del monogramma greco IHS. Gli otto riquadri laterali rappresentano miracoli nel nome di Gesù
come ad esempio la guarigione dell’Ossessa ad opera di San Paolo o la vittoria del popolo di Israele
condotto da Giosuè grazie all’oscurarsi del cielo e a una grandinata che uccise più uomini che le
spade degli israeliani o ancora la vittoria di David sul gigante Golia tema che ritroveremo anche più
avanti.( vedi Societas1988 n.4-5, pp.105-111).
La cappella è dedicata al fondatore della Compagnia di Gesù, canonizzato nel 1622 da Gregorio XV.
Fu decorata a spese di Carlo Gesualdo principe di Venosa (1566-1613), celebre compositore di
madrigali, la cui fama è legata anche all’uccisione della moglie fedigrafa, Maria d’Avalos, e del suo
amante, Fabrizio Carafa duca d’Andria.
Guardiamo prima gli affreschi della volta, realizzati nel 1698 da Paolo De Matteis con le Storie di
Sant’Ignazio, in sostituzione di quelle realizzate da Belisario Corenzio nel 1637 e distrutte dal
terremoto del 1688, che fece crollare la cupola e buona parte della volta del cappellone. Nelle
lunette l’apparizione di San Pietro a Sant’Ignazio e Ignazio che celebra messa. Nella volta il
riquadro centrale è dedicato all’apparizione della Vergine a Sant’Ignazio a cui si affiancano quattro
episodi della vita del santo. Lo spazio architettonico del cappellone,che occupa il transetto sinistro,
fu progettato da Cosimo Fanzago che vi lavorò a fasi alterne dal 1637 al 1655 insieme ai marmorari
Costantino Marasi e Andrea Lazzari. L’artista, gioca con volumi contrapposti e giochi di luci ed
ombre creando un contenitore sacro di pittura e scultura. Le statue dei profeti David, a sinistra, e
Geremia, a destra, eseguite tra il 1643 e il 1654, stanno a testimoniare l’importanza della fiducia in
Dio: David, che confidando nell’aiuto del Signore sconfigge il gigante Golia con una semplice
fionda, e Geremia che medita profondamente sulla distruzione di Gerusalemme, ovvero sulla
sconfitta di chi, nella guerra contro i Babilonesi, aveva preferito impegnarsi con le armi piuttosto
che affidarsi a Dio. Le statue mostrano insofferenza alle nicchie, si torcono in un movimento
scenografico che testimonia la presenza forte del linguaggio barocco portato a Napoli dal Fanzago.
Sull’altare, prima era presente la tela di Girolamo Imparato con la Visione di Sant’Ignazio a la Storta
( che vediamo spostata sulla parete destra), oggi spicca il dipinto con il Bambino Gesù che
consegna il monogramma greco del suo nome IHS a Sant’Ignazio di Loyola e la Madonna che
consegna il monogramma del proprio nome MP a San Francesco Saverio, opera di Paolo De
Matteis, realizzato nel 1715 per la chiesa dei gesuiti di Taranto (in seguito passata agli Olivetani).
In alto vi sono le tele di Jusepe Ribera (grande pittore spagnolo che colse tra i primi il messaggio
drammatico della pittura di Caravaggio a Napoli) dipinte tra il 1643 e il 1644: al centro la Gloria di
Sant’Ignazio e, a destra, Paolo III approva la Regola di Sant’Ignazio dove ritroviamo i ritratti dei
compagni di Ignazio Nicolò Bobadilla e Alfonso Salmeron. La terza opera dell’artista spagnolo fu
distrutta dal bombardamento del 1943, e venne sostituita dalla Madonna col Bambino e
Sant’Anna, di autore ignoto del XVI secolo, proveniente dalla chiesa di S. Aniello a Caponapoli. Sulla
parete sinistra è collocata la Santissima Trinità e Santi di Giovan Bernardo Azzolino del 1617, che un
tempo decorava l’altare della cappella del Sacro Cuore di Gesù.
Primo compagno del fondatore della Compagnia di Gesù, San Francesco Saverio fu l’iniziatore delle
missioni dei gesuiti fra i pagani delle Indie e del Giappone. Gli affreschi della volta narrano episodi
della vita e dei miracoli di questo santo, originariamente tutti affrescati da Belisario Corenzio nel
1637, ma dopo il terremoto del 1688 il riquadro centrale con la Predicazione del Santo fu rifatto da
Paolo de Matteis alla fine Settecento.
Perfettamente identico è anche l’impianto decorativo dei cappelloni, quello dedicato a Sant’Ignazio
ideato dal Fanzago servì da guida ed esempio al nostro, la cui esecuzione materiale fu affidata per
le parti marmoree a Giuliano Finelli, Donato Vannelli e Antonio Solaro a partire dal 1639. Le due
lapidi commemorative poste sul pavimento e gli stemmi collocati ai lati dell’altare ricordano la
duchessa Beatrice Orsini, finanziatrice dei lavori. L’invenzione del motivo decorativo ad ali di
pipistrello posto a sorreggere gli stemmi è da attribuire a Cosimo Fanzago mentre la grande Testa
di Cherubino in marmo sull’altare è attribuita a Giuliano Finelli. La pala raffigurante l’Estasi di San
Francesco Saverio databile al quarto decennio del Seicento è opera di Giovan Bernardino Azzolino,
di Luca Giordano e datate 1676-1677 sono invece le tre tele superiori con San Francesco Saverio
che trova il crocifisso tra le chele di un granchio, il Santo caricato delle Croci e quando Battezza gli
Indiani. Sotto l’altare è collocata una moderna statua in legno, del 1934, raffigurante la morte
solitaria di Francesco Saverio sulle coste cinesi. Le nicchie ai lati dell’altare ospitano già dal
Settecento le due sculture realizzate nel 1621 da Cosimo Fanzago per la cappella di San Carlo
Borromeo. Di dimensioni più piccole, sia il Sant’Ambrogio (a sinistra) che il Sant’Agostino (a destra)
vennero posti su una base per adeguarli agli spazi delle nicchie. La decorazione dell’intera cappella
terminò poco prima del 1688 con la realizzazione della balaustra e del pavimento. Ai lati del
cappellone sono visibili due dipinti, a destra La Madonna del Rosario e i quindici misteri realizzata
da Fabrizio Santafede alla fine del Cinquecento, e a sinistra La Vergine bambina e santi di Ludovico
Mazzante databile tra il 1735e il 1737, dipinto già venerato nella cappella di Sant’Anna, oggi di San
Francesco de Geronimo.
Cappella Maggiore
Il tema iconografico scelto per la decorazione della cappella maggiore, serviva ai gesuiti per
qualificare la chiesa come dedicata all’ Immacolata. Prima Belisario Corenzio (i suoi affreschi
furono distrutti dall’incendio del 1639) poi Massimo Stanzione raccontarono in affresco, le Storie
di Maria. Anche qui troviamo due riquadri centrali e otto laterali, due scene ai lati del finestrone e
otto profeti mariani accanto alle finestre laterali. Dalle lunette si dipana la storia di Maria da destra
a sinistra: Nascita e presentazione al tempio, sposalizio e Annunciazione, Visitazione e sogno di
Giuseppe, morte ed esequie, mentre al centro troviamo l’Assunzione e l’Incoronazione della
Vergine. In questi affreschi Massimo Stanzione si dimostra abile decoratore con un linguaggio
fresco e narrativo.
Fulcro spirituale ed artistico della chiesa, che reclama subito la massima attenzione dello sguardo è
anche il monumentale altare maggiore, risultato di ben due secoli di progetti e ripensamenti che
mirarono ad esaltare il luogo più importante della chiesa e l’immagine della Madonna Immacolata
cui essa è dedicata.Al 1674 risale il progetto realizzato da Cosimo Fanzago che fu approvato a Roma
dalla Casa Madre e dal celebre Gian Lorenzo Bernini. Ma alla morte del grande Fanzago furono
operate modifiche al progetto che non convinsero gli stessi gesuiti. Il terremoto del 1688 causò
ingenti danni alla chiesa e bloccò i lavori dell’altare. A metà del Settecento Domenico Antonio
Vaccaro realizzò due sculture in argento raffiguranti una l’eterno Padre e il Figlio e l’altra
l’Immacolata che andarono ad arricchire la parete di fondo. Purtroppo queste magnifiche opere
furono strappate ai Gesuiti dalla soppressione borbonica del 1767, che fuse il “bottino” per
finanziare la guerra contro i francesi. Solo a metà dell’Ottocento venne finalmente realizzato
l’altare maggiore in marmi pietre dure e rilievi bronzei a cui seguirono le sculture marmoree
dell’Immacolata e dei Santi Pietro e Paolo che sostituirono quelle argentee perdute.
Il pulpito
La chiesa aveva due pulpiti uno in legno più piccolo e trasportabile (ancora esistente) e un altro più
imponente collocato inizialmente al centro della chiesa tra i due pilastri di destra, in una zona,
sotto la cupola, che poteva raccogliere il maggior numero di fedeli. Ma questa collocazione risultò
inopportuna quando presero vita i due grandi cappelloni alle estremità del transetto, dunque il
pulpito fu addossato al pilastro anteriore. Il terremoto del 1688 con il crollo della cupola danneggiò
anche il pulpito, che fu costruito in legno in forme provvisorie per riprendere subito le predicazioni.
Solo nel 1858 si sostituì con quello che vediamo in marmo, di qualità artistica mediocre.
La cupola
Quella del Gesù Nuovo era la più alta cupola che i Napoletani avessero mai visto,
meravigliosamente affrescata dall’artista che portò a Napoli il linguaggio barocco , Giovanni
Lanfranco. Ma di quel pregevole lavoro oggi restano i quattro evangelisti Luca, Marco, Giovanni e
Matteo, presenti nei pennacchi (il San Matteo reca la firma dell’autore), sopravvissuti al crollo della
cupola dovuto al terremoto del 1688. La cupola fu ricostruita altre tre volte, l’ultima è la scodella in
cemento armato realizzata nel 1972.
I due grandi organi sono una “strana presenza” all’interno della chiesa. Infatti il canto della messa
non era contemplato dalla regola ignaziana perché sottraeva tempo alla cura delle anime. La
presenza degli organi è da ricondurre alla volontà della finanziatrice Isabella Feltria, che fu
accontentata con la creazione dei due archi ribassati sui quali furono alloggiati gli organi. Di quelli
attuali (i primi arsero nell’incendio del 1639) quello di destra è ancora funzionante.
Controfacciata
L’affresco della controfacciata, dipinto da Francesco Solimena nel 1725, è stato considerato dal
momento in cui fu offerto allo sguardo dei fedeli, un grande gioiello d’arte, orgoglio dei Gesuiti
napoletani che vollero a tutti i costi (nel vero senso della parola) la presenza del grande artista
nella loro chiesa, il quale si fece attendere per un decennio (la data scelta per inaugurare l’affresco
doveva essere il 1713 data della canonizzazione di Stanislao Kostka ). Gli affreschi monocromi ai lati
della porta maggiore ricordano i due santi giovani della Compagnia , a destra S. Stanislao in estasi
che riceve il bambin Gesù e a sinistra S. Maria Maddalena de’ Pazzi in estasi contempla la gloria di
San Luigi. Il soggetto scelto per il grande affresco di controfacciata è un monito per chi entra, la
cacciata di Eliodoro dal Tempio (II Maccabei,3). Eliodoro ministro del re siriano Seleuco IV viene
mandato a confiscare i tesori del tempio di Gerusalemme. Ma mentre stava ormai per compiere la
sua impresa arrivò un cavaliere in armatura d’oro su un cavallo accompagnato da altri due
splendidi uomini che bloccarono Eliodoro e lo ferirono mortalmente. Guarito per intercessione del
sacerdote del tempio Eliodoro tornato dal suo re gli raccontò l’episodio dicendo che “intorno a
quel luogo vi è una forza divina colui che ha abitazione nei cieli è vigile custode di quel luogo e
annienta coloro che vi si avvicinano per operarvi il male”.
Cappelle laterali
Gli stemmi posti lati dell’altare e l’epigrafe pavimentale ci informano che la cappella fu decorata a
spese di Giovan Tommaso Borrello e che i lavori terminarono nel 1621. L’organizzazione di questo
spazio architettonico da attribuire all’architetto gesuita Pietro Provedi, è concepito con perfetta
simmetria su cui ben si armonizza un organico complesso decorativo: Il rivestimento marmoreo del
pavimento, della balaustra e dell’altare si caratterizza per la vivace cromia e i disegni
geometrizzanti, realizzato dai marmorari Costantino Marasi e Vitale Finelli tra il 1615 e il 1621.
Sull’altare il quadro con San Carlo Borromeo in estasi è di Giovan Bernardino Azzolino, che eseguì
tra il 1618 e il 1620 anche il piccolo dipinto posto a coronamento della parete d’altare raffigurante
La Trinità, gli affreschi con San Carlo Borromeo che assiste gli appestati nell’arco superiore e ai lati
del finestrone San Francesco d’Assisi e Francesco di Paola. Sulle pareti laterali si aprono gli originali
e raffinatissimi battenti in legno intagliato di primo Seicento, sovrastati da un timpano sul quale si
adagiano due angeli marmorei di pregevole fattura. Le due nicchie che oggi sono vuote, ospitavano
le sculture raffiguranti Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, opera di Cosimo Fanzago. Queste opere
giovanili dell’artista bergamasco, dalla fine del Settecento furono utilizzate per decorare il
cappellone di San Francesco Saverio. A Fanzago vengono attribuiti anche i due altorilievi con
Sant’Aspreno e Sant’Aniello, che sporgono dalle edicole poste a coronamento del secondo registro
della parete.
La campata che precede la cappella è completamente affrescata, nel sottarco con Figure
Allegoriche, attribuite a Francesco Solimena ma molto alterate da restauri, nella volta con Simboli
della Passione realizzati da Giuseppe Simonelli verso la fine XVII secolo e infine, nei pennacchi, le
raffigurazioni dei quattro Dottori della Chiesa di Giovan Bernardino Azzolino datati 1618-1620.
Sul primo pilone destro della navata è collocato il grande Crocifisso in legno intagliato attribuito a
Giuseppe Picano e databile attorno al 1760, mentre le due statuette marmoree raffiguranti la
Madonna Addolorata e San Giovanni Evangelista furono realizzate per la decorazione dell’altare
maggiore da Antonio Busciolano nel 1859.
La cappella fu decorata nella seconda metà del XVII secolo grazie al finanziamento della famiglia
Merlino, ricordata nella lapide posta ai piedi dell’altare.
Questa cappella è meta di continui pellegrinaggi poiché accoglie il culto per un santo del nostro
tempo: Giuseppe Moscati. Medico, scienziato e taumaturgo, nato a Benevento il 25 luglio del 1880
e morto a Napoli il 12 aprile 1927, Moscati è stato canonizzato nel 1987 da Papa Giovanni Paolo II.
Il suo corpo, già nel cimitero napoletano di Poggioreale, è stato trasferito in chiesa nel 1930 ed oggi
è venerato nell’urna sepolcrale posta sotto l’altare, i rilievi che adornano l’urna sono stati realizzati
da Amedeo Garufi nel 1977 e illustrano episodi della vita del santo, raffigurato anche nella grande
statua in bronzo realizzata da Luigi Sopelsa nel 1990. Nelle sale Moscati, con ingresso a sinistra
della cappella di San Francesco Saverio, sono esposti ricordi, fotografie e i numerosi ex voto che
attestano le grazie ricevute dai fedeli.
Questa è l’unica cappella che non reca alcuna lapide a ricordo della famiglia fondatrice. La
cappella, insieme alla successiva, del Sacro Cuore, e a quella della Natività, fu consacrata insieme
alla chiesa nel 1601 e dedicata all’Annunciazione di Maria, ma del suo primitivo impianto
decorativo non rimane più nulla, forse a causa dei danni subiti dal terremoto del 1688. Nel 1624
venne intitolata a San Francesco Borgia, terzo Generale dell’Ordine dei gesuiti, beatificato in quella
data e canonizzato nel 1671. Il religioso prima di entrare nella Compagnia di Gesù, apparteneva
all’aristocrazia spagnola, essendo duca di Gandìa e ricoprì la carica di viceré di Catalogna, era
sposato e padre di ben otto figli. L’attuale decorazione della cappella risale alla seconda metà del
Settecento e reca sull’altare la tela con San Francesco Borgia in estasi davanti al Santissimo
Sacramento, firmata e datata da Sebastiano Conca, allievo e collaboratore del Solimena, che la
realizzò nel 1754. Sovrapposta alla decorazione marmorea della parete di fondo spicca la fastosa
cona in legno che si conclude con un altorilievo raffigurante il Padre Eterno benedicente.
Conforme ai tempi e ai nuovi gusti è l’altare in marmo realizzato nel 1754 da Aniello, Gaspare e
Romualdo Cimafonte differente da tutti gli altri altari delle cappelle che risultano rispondere alla
rigida forma parallelepipeda. Questa originale sigla formale si ritrova solo nella decorazione dei
coretti absidali realizzati tra il 1758 e il 1761 dallo stesso Cimafonte insieme ad Antonio di Lucca.. Ai
lati dell’altare sono state collocate coppie di Angeli portacandelabro, quella posta più in alto risale
alla seconda metà del Settecento ed è realizzata in legno e ottone dorato, gli altri due Angeli,
databili alla fine dell’Ottocento, sono invece in legno e cartapesta. San Francesco Borgia è ricordato
anche nella decorazione della balaustra che cinge lo spazio della cappella, realizzata da Agostino
Chirola nel 1754 in tarsia marmorea in cui sono rappresentati alcuni simboli iconografici del santo,
come il galero o cappello cardinalizio, in ricordo del suo rifiuto al cardinalato e il calice, simbolo
della sua devozione all’Eucarestia.
Gli stessi simboli sono portati in trionfo dagli Angeli affrescati sulla volta da Angelo Mozzillo alla
fine del Settecento, mentre nelle semilunette del finestrone vi sono due raffigurazioni di Virtù
firmate da Antonio della Gamba.
Eretta a spese del principe di Satriano Ettore Ravaschieri nel 1597 e ultimata nel 1712 dal
pronipote Francesco, così come si legge sulla lapide pavimentale, la cappella era originariamente
dedicata alla Madonna, ed in seguito intitolata a Sant’ Anna, in ricordo della prima chiesa officiata
dai gesuiti a Napoli. Ad arricchire la storia della cappella si aggiunse, nel corso del Settecento, la
vicenda spirituale di San Francesco de Geronimo, padre gesuita che vi celebrava le funzioni
liturgiche e operava miracolose guarigioni grazie alle reliquie di San Ciro. Alla morte di San
Francesco de Geronimo, nel 1716, la cappella gli fu dedicata e oggi ne conserva un braccio riposto
in un’urna in bronzo dorato e cristallo eseguito da Eugenio Catello, posta sotto l’altare. Giuseppe
Bastelli nel 1737 organizzò la parete di fondo con due scenografiche coppie di colonnine tortili (le
finiture in rame sovrapposte sono del 1742), che inizialmente incorniciavano la tela con la
Madonna bambina e santi di Ludovico Mazzante, oggi spostata nel cappellone di San Francesco
Saverio. Al suo posto spicca il gruppo scultoreo in marmo raffigurante la Predicazione del santo di
Francesco Jerace eseguito nel 1932. L’edicola superiore ospita il piccolo dipinto raffigurante la
Madonna di San Luca, copia antica dell’ immagine molto venerata nella basilica di Santa Maria
Maggiore a Roma. Anche questa cappella, come quella de Sacro Cuore, è cinta da una doppia
balaustra per ospitare la congregazione dei Mercanti, che vi celebrava le proprie funzioni liturgiche.
Gran parte del complesso di affreschi e di stucchi di Arcangelo Guglielmelli, risalenti al 1677 ed
entro cui il giovane Francesco Solimena aveva affrescato la scena dell’ Assunzione, fu quasi del
tutto distrutto da un restauro ottocentesco. Anche gli affreschi del Solimena con Serafini e, negli
angoli Angeli tubicini, furono molto ritoccati nel 1842 quando la volta fu ridipinta da Giuseppe
Petronsio con la Madonna e San Francesco de Geronimo. Le due figure di Giuditta e Giaele ai lati
del finestrone furono affrescate da Ludovico Mazzante nella prima metà del Settecento. Due
imponenti lipsanoteche occupano le pareti laterali di questa cappella, ognuna delle quali contiene
trentaquattro busti-reliquiario in legno intagliato e dipinto e una statua a figura intera, quella di
Sant’ Ignazio a sinistra e quella di San Francesco Saverio a destra, opera realizzata in tutto l’arco del
Seicento da importanti maestranze napoletane. La presenza di questa moltitudine di reliquie si
deve alla principessa di Bisignano, Isabella Feltria della Rovere, che donò il suo tesoro di reliquie,
provenienti dalle catacombe romane, alla nuova chiesa del Gesù per conferirle maggiore prestigio.
Le reliquie arrivate in chiesa erano così numerose che una parte fu portata nel collegio di massa
lubrense. A queste si aggiunsero nel 600 le reliquie appartenenti a San Ciro Martire e ad altri santi,
donate da un’ altra nobildonna napoletana, Porzia Cigala duchessa di Cardinale e principessa di
Satriano, al fratello Antonio, padre gesuita entrato nell’ Ordine nel 1580. L’accumulo e l’esposizione
delle reliquie, non solo testimoniava l’importanza e la ricchezza degli ordini religiosi, ma era alla
base di un culto fortemente promosso dalla Compagnia di Gesù. Ignazio di Loyola incluse infatti nei
suoi Esercizi Spirituali una norma a tal riguardo. La sesta regola infatti prescriveva che: “ Si lodino
le reliquie dei Santi, venerando quelle e pregando questi” 2. Il cardinale Roberto Bellarmino, dottore
della Chiesa, nel De Ecclesia triumphante, la cui edizione definitiva comparve nel 1596 egli
fornisce prescrizioni pratiche di riconoscimento conservazione e difesa dell’ortodossia delle
reliquie. Le reliquie, per Bellarmino, non dovevano essere considerate come oggetti inanimati; al
contrario furono definite “ organa animarum”, parti vive e rappresentative dei santi, strumenti di
Dio per operare miracoli e trofei insigni della chiesa trionfante.
Oratorio della congregazione della Missione, retto da San Francesco de Geronimo, occupa una sala
coperta con volta a botte, che si trova al di sotto della Sagrestia. Nell’Ottocento, la congregazione
degli operai prese nuova vita e si denominò con il nome delle reti a strascico da pesca, usate per
pescare pesci piccoli, metafora dell’azione apostolica dei Gesuiti che “pescano” i fedeli da condurre
alla confessione. (bibl. Societas 1988, nn. 3-4, pp. 98-99)
La cappella, dedicata al Crocifisso, fu eretta dai gesuiti in ricordo della loro prima benefattrice,
Roberta Carafa duchessa di Maddaloni, come ricorda la lapide pavimentale posta nel 1685 e come
2
Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, ed.originale Sancti Ignatii de Loyola, Exercitia Spiritualia, ms. sec. XVI, Roma,
Institutum Historicum Societatis Iesu, ed.cons. a cura di G. Giudici, Milano 2001, quarta regola, n. 358,p. 120.
ribadito dagli stemmi del casato sui piedistalli delle colonne. Sull’altare, le tre sculture lignee
raffiguranti Gesù sulla Croce, la Madonna Addolorata e San Giovanni Evangelista, sono
caratterizzate da un accentuato espressionismo, sottolineato da un’intensa cromia. Il gruppo,
attribuito al napoletano Francesco Mollica, artista del secondo Cinquecento, è delimitato da
colonne marmoree che sostengono un timpano spezzato entro cui è racchiuso un piccolo dipinto
della scuola napoletana del primo Seicento raffigurante un Angelo che mostra il Volto di Cristo:
tuttavia, le procaci fattezze e la generosa scollatura della creatura celeste suggeriscono che
originariamente la tela potesse riprodurre l’immagine della Veronica o della Maddalena. Ai lati
dell’altare vi sono due nicchie marmoree che ospitano altrettante statue lignee, raffiguranti due
Santi martirizzati all’inizio del IV secolo durante le persecuzioni di Diocleziano: a destra quella di
San Giovanni Edesseno, risalente al XIX sec., le cui reliquie si conservano nell’urna cineraria romana
del IV secolo d.C. proveniente dall’area della Villa Melecrinis di Napoli; a sinistra quella
settecentesca di San Ciro, medico ed eremita egiziano, le cui reliquie, riposte nell’urna sotto
l’altare, richiamano tuttora centinaia di fedeli. L’organizzazione degli spazi architettonici, simile a
quella della successiva cappella intitolata alla Natività del Signore (1600-1603), risale a molti anni
prima della sua decorazione marmorea. Quest’ultima, compresa la balaustra finemente intarsiata
con simboli della Passione, denuncia una più avanzata cronologia confermata dagli interventi di
Dioniso Lazzari, nel 1659, e di Giuseppe Bastelli che tra il 1734 e il 1735 eseguì il pavimento. Nella
parete sinistra si apre una porta lignea a due battenti intagliata alla fine del XVII secolo da Marco
Tipaldi, inquadrata da una cornice marmorea con al centro la testa di un cherubino. Gli affreschi,
sia all’interno della cappella con, nella volta, Storie della Passione di Cristo e, nelle semilunette ai
lati del finestrone centrale, Angeli con Simboli della Passione, sia all’esterno con il Passaggio del
Mar Rosso nella cupoletta e i profeti Daniele, Geremia, Ezechiele e Isaia nei pennacchi, sono stati
eseguiti da Giovan Battista Beinaschi nel 1685, ma risultano pesantemente compromessi da antichi
restauri.
La lapide commemorativa, posta sul pavimento ai piedi dell’altare, ricorda che la cappella,
consacrata nel 1601 e terminata nel 1603, fu decorata a spese di Ferdinando Fornari amico e
benefattore dei gesuiti. . La cappella conserva un gusto tardo manierista con la pala d’altare di
Girolamo Imparato con la Natività del Signore del 1602, il personaggio in primo piano a sinistra
staccato dal gruppo dei pastori dovrebbe ritrarre proprio Ferrante Fornari , mentre la natività è
inserita in un’abside diroccata con l’arredo scultoreo di inizio Seicento, che vide impegnati nella sua
realizzazione alcuni dei più illustri esponenti del tardo manierismo toscano come Pietro Bernini, cui
si deve, a destra dell’altare, il San Matteo e l’Angelo, eseguito nel 1601, e Michelangelo Naccherino,
allievo del Giambologna, autore nello stesso anno del Sant’Andrea. Sei statue di santi adornano la
cappella , tra il 1601 e il 1603 Tommaso Montani realizzava a sinistra il San Nicola e, a destra, il San
Gennaro. In alto, i cinque Angeli reggicartiglio sono invece di Giovanni Maria Valentini e di
Francesco Cassano. Sulla parete destra, nel 1600 Girolamo D’Auria scolpiva il San Giovanni
Evangelista, con l’aquila suo simbolo iconografico , cui si contrappone il San Giovanni Battista che
indicò Gesù come agnello di Dio (e un agnello è ai suoi piedi), della parete sinistra, eseguito dalla
bottega del Naccherino entro il 1603. Il rivestimento marmoreo delle pareti, il pavimento e la
balaustra, sono realizzati da Costantino Marasi tra il 1600 e il 1602 con sobrietà cromatiche e rigore
disegnativo. Da ammirare sono anche le due porte lignee intagliate nel primo decennio del
Seicento dal napoletano Giovan Antonio Guerra, ed il gruppo in legno dorato dell’Angelo Custode,
della seconda metà del XVI secolo, restaurato dopo l’incendio che nel 1962 divampò nella
Sacrestia, dove originariamente era collocato. Belisario Corenzio entro il 1601realizza gli affreschi,
sia nella volta della cappella con l’Annuncio ai Pastori, l’Adorazione dei Magi, l’Adorazione dei
Pastori, David e Isaia (scritta un bambino è nato per noi) ai lati del finestrone , sia nella cupoletta
esterna con Storie di Gesù e Maria e nei pennacchi con le Virtù. Gli affreschi dell’arcone di accesso
alla navata centrale, con Mosè che riceve le Tavole della Legge e Figure Allegoriche, recano la firma
di Vincenzo De Mita che nel 1789 sostituiva quelli di Giacomo Farelli distrutti dal terremoto del
1688.
L’epigrafe pavimentale posta dinanzi all’altare attesta che la cappella fu decorata a spese di Ascanio
Muscettola, principe di Leporano, e terminata per cura del figlio Sergio nel 1613. Il patronato della
famiglia è riaffermato dagli stemmi nobiliari sui piedistalli delle colonne. Il tema martirologico
informa l’intero ambiente, come sottolineato sia dall’arredo scultoreo che da quello pittorico.
Giovan Bernardo Azzolino dopo il 1614 realizzava la pala d’altare con la Madonna, il Bambino e
Santi Martiri, racchiusa da colonne sostenenti un timpano. Al di sotto dell’altare, all’interno di una
teca, la scultura lignea del Cristo morto è di autore ignoto. Sulle pareti laterali, entro nicchie
marmoree, vi sono due statue scolpite nel 1613 da Girolamo D’Auria in collaborazione con
Tommaso Montani. Si tratta di due santi martiri facilmente riconoscibili dai rispettivi attributi
iconografici: a sinistra, Santo Stefano, primo martire della chiesa, rappresentato con le pietre con
cui fu lapidato e, a destra, San Lorenzo, diacono spagnolo, raffigurato con la graticola sulla quale fu
arso nel 258 durante le persecuzioni di Valeriano. Coevi sono i due Angeli marmorei di Francesco
Cassano, adagiati sul timpano che racchiude la testa di un cherubino. Il rivestimento marmoreo
della cappella, policromo e a motivi geometrici, si deve a Costantino Marasi che vi lavorò dal 1610
al 1618. Completano la decorazione gli affreschi, sempre di soggetto martirologico, che nel 1613
Belisario Corenzio eseguì sia all’interno della cappella sia nella campata esterna. Il restauro
effettuato nel 1995 ha reso più agevole la lettura di quattro Santi Crocifissi, raffigurati nei
pennacchi, e, nella cupoletta, della Trinità con Angeli e Schiere di Santi Martiri. Ben riconoscibili per
il loro tradizionale abito sono i cinque gesuiti noti come i “martiri de la Salsette”, dal nome della
omonima penisola indiana dove furono martirizzati nel 1583. Tra i cinque missionari, beatificati nel
1893 da Leone XIII, si distingue, con il collo segnato da fendenti, il Beato Rodolfo Acquaviva, la cui
nobile famiglia dei duchi d’Atri finanziò la realizzazione degli affreschi all’inizio del XVII secolo. Il
ritratto del Beato compare anche nella pala d’altare accanto alla Vergine. Gli affreschi dell’arcone di
accesso alla navata centrale raffiguranti le Virtù sono di Giacomo Farelli, che li eseguì nel 1688.
All’uscita della cappella vi è il monumento funebre parietale, peraltro l’unico della chiesa, del
cardinale Francesco Fini, morto nel 1743, attribuito a Francesco Pagano.