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SAPIENZA UNIVERSITÀ DI ROMA

FACOLTÀ DI FILOSOFIA, LETTERE,


SCIENZE UMANISTICHE E STUDI
ORIENTALI

TESI DI DOTTORATO IN
STORIA RELIGIOSA
XXII CICLO

Il problema della tragedia greca di


argomento storico.
La dimensione storica nella tragedia.

Dottoranda: Dott.ssa Alessandra Cocozza

Anno Accademico 2010-2011


SOMMARIO:

INTRODUZIONE....................................................... I

I - UNA STORIA DEGLI STUDI.............................. 1

II - SUL CONCETTO DI BARBARO ..................... 50

III - I PERSIANI DI ESCHILO ............................. 136

IV - I PERSIANI COME METATRAGEDIA ....... 205

V - CONCLUSIONI .............................................. 277

ABBREVIAZIONI ................................................ 287

BIBLIOGRAFIA ................................................... 290


INTRODUZIONE

La tragedia greca di argomento storico non ha mai costituito un


vero problema per la critica letteraria, storica e filologica, nel senso
che, da un punto di vista puramente letterario, la possibilità di
esistenza di tragedie di argomento storico ai primordi del genere è
confortata dalla loro stessa presenza anche in periodi posteriori. Vale a
dire che non ci si stupisce troppo, dato che essa è una delle possibilità
del genere drammatico.
Per esempio, per quanto riguarda i Persiani di Eschilo, l’unica
tragedia greca superstite di argomento storico, la critica sottolinea
spesso la particolarità della sua ambientazione “persiana” e la
“contemporaneità” dell’argomento trattato – la battaglia di Salamina
del 480 a.C. – e, tutt’al più, arriva a considerare “singolare” la
presenza di argomenti storici in un orizzonte di produzione
massicciamente orientato dalla tradizione mitologica; questo
atteggiamento, questa mancanza di problematicizzazione e di dibattito
sono, da un punto di vista letterario, comprensibili. Da una prospettiva
storico – religiosa, invece, la questione si complica e alcune
problematiche si possono affrontare.
L’oggetto specifico della presente ricerca è, dunque, il “problema”
della tragedia greca di argomento storico nell’orizzonte teatrale del V
secolo a.C. e rientra nella problematica più generale di un’ermeneutica
della tragedia classica. La scelta di affrontare sistematicamente una
tale indagine è sorta, in parte, in relazione alle sollecitazioni
scientifiche generate da una mia precedente ricerca sulla regalità
persiana in Erodoto; sollecitazioni legate al tema della
concettualizzazione greca dell’alterità – quella persiana in particolare
– e che portavano fatalmente al paragone con i Persiani di Eschilo.
Inoltre, essa nasce anche dallo spazio lasciato aperto dalla storia degli
studi su questo argomento. Infatti, le letture analitiche di stampo
storico – religioso relative alla tragedia greca, elaborate dai più
importanti storici delle religioni1 – ma la medesima situazione,
tuttavia, si può documentare anche per i principali esponenti della
cosiddetta Antropologia Storica francese2 – si sono confrontate quasi
esclusivamente con drammi di contenuto mitico3. Nonostante la

1
Si sono occupati della tragedia in Grecia A. Brelich, Aspetti religiosi del
dramma greco, «Dioniso» 39, 1965, pgg. 82 – 94; Idem, Aristofane: commedia e
religione, ACD 5 1969, 21 – 30 (riedito in M. Detienne (a cura di), Il mito. Guida
storica e critica, Bari 1975, pgg. 104 – 118); D. Sabbatucci, Il mito, il rito e la
storia, Roma 1978; M. Massenzio, Dioniso e il teatro di Atene. Interpretazioni e
prospettive critiche, Roma 1995; A. M. G. Capomacchia, L' eroica nutrice. Sui
personaggi «minori» della scena tragica greca, Roma 1999.
2
J. – P. Vernant, P. Vidal – Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia, tr. it.,
Torino 1976 (orig. Mythe et tragédie en Grèce ancienne, Paris 1972); Idem, Mito
e tragedia due, tr. it., Torino 1991 (orig. Mythe et tragédie deux, Paris 1986); F.
Frontisi-Ducroux, Le dieu-masque. Una figure du Dionysos d’Athènes, Paris
1991; per una discussione critica delle differenze, ma anche delle affinità, in
relazione a un’ermeneutica della tragedia greca, tra la prospettiva storico religiosa
proposta da Brelich e quella storico-antropologica di Vernant, cfr. M. Massenzio,
Dioniso e il teatro di Atene, passim; nella stessa prospettiva cfr. anche A.
Cocozza, La tragedia greca: Vernant e Sabbatucci, in I. Baglioni, A. Cocozza (a
cura di), La prospettiva storico-religiosa. Omaggio a Dario Sabbatucci, Roma
2006; fu, in parte influenzato, ma a sua volta farà sentire la sua influenza sulla
scuola di Detienne e Vernant anche C. Segal, Dionysiac Poetics and Euripides’
Bacchae, Princeton 1982.
3
Alcune eccezioni sono rappresentate dai lavori di: U. Bianchi, Eschilo e il
sentire etico – religioso dei re persiani, in E. Livrea, G. A. Privitera, Studi in
onore di Anthos Ardizzoni, 2, Roma 1978, pgg. 63 – 72, che, tuttavia, si sofferma
proficuamente solo su determinati aspetti del dramma. In particolare, egli ricerca
una dimensione etico-religiosa genuinamente persiana nella rappresentazione
drammatica dei re achemenidi, in relazione, soprattutto ai suoi interessi scientifici
verso il Mazdeismo; L. Marchetta, Lettura storico – religiosa dei Persiani di
Eschilo per gli studenti di una scuola secondaria, «Aufidus» 17, 1992, pgg. 131 –

II
notevole mole bibliografica, ma di carattere principalmente filologico-
letterario e incentrata quasi esclusivamente sulla tragedia eschilea,
manca, a tutt’oggi, una sistematica e puntuale analisi storico –
religiosa del fenomeno della tragedia greca di argomento storico.
Quanto detto è, in parte, dovuto a questioni di carattere meramente
qualitativo e quantitativo: comparata al solido rapporto che intercorre
tra il mito e il teatro tragico nel V secolo a.C., la dimensione storica e,
dunque, le tragedie di argomento storico parvero statisticamente
irrilevanti4 al fine di una interpretazione generale dell’evento
“tragedia”. La preoccupazione principale della critica di stampo
storico-religioso e storico-antropologico è stata, in primo luogo, quella
di comprendere la funzione che assume il mito eroico una volta
inserito nella dimensione rituale della tragedia. Infatti, al di là dei
Persiani, nella produzione dei tre grandi tragici, Eschilo, Sofocle ed
Euripide, non sembra possibile rintracciare opere di argomento
storico, anche passando al vaglio i frammenti delle tragedie cosiddette
“perdute”, delle quali conosciamo talora soltanto l’argomento o il solo
titolo.
Tuttavia, sebbene i Persiani sia la sola tragedia nota che possa
essere definita “storica”, nel senso che vi si affrontano eventi reali di
carattere veramente recente, sappiamo con certezza che egli fu
anticipato dal poeta Frinico che rappresentò due tragedie la cui
materia è ugualmente storica, La Presa di Mileto e Le Fenicie. In base

141, in cui è ripresa e ampliata la lettura dei Persiani proposta da Brelich (vedi
sotto) nell’ambito di un progetto volto all’inserimento della Storia delle Religioni
nelle scuole secondarie superiori; cfr. anche N. Spineto, Dionysos a teatro. Il
contesto festivo del dramma greco, Roma 2005, pgg. 316 - 318.
4
Cfr., ad esempio, D. Sabbatucci, Il mito, il rito e la storia, pg. 190.

III
a quanto apprendiamo dall’hypothesis5 dei Persiani, quest’ultima,
presumibilmente databile a 476 a.C., doveva trattare il medesimo
argomento di quella eschilea. Il sommario alessandrino, sulla scorta di
Glauco di Reggio, uno scrittore del tardo V secolo a.C., cita il primo
verso dell’opera di Frinico (tád’æstì PersÏn tÏn pálai
bebhkótwn) e ci informa che ad annunciare la sconfitta di Serse era
un eunuco che entrava in scena per disporre i seggi dei consiglieri
dell’impero. L’esiguità dei frammenti, tuttavia, non ci permette di
capire quale fosse lo sviluppo del dramma perduto, né di valutare
quanto di esso sia poi effettivamente stato ripreso da Eschilo 6.
Dell’altra tragedia, La Presa di Mileto, che trattava di un avvenimento
ascrivibile alla rivolta ionica del 494 a.C., apprendiamo da Erodoto7
che quando fu messa in scena il teatro scoppiò in lacrime. Frinico, per
aver ricordato agli ateniesi “le proprie sciagure” (oêkÔia kakà), fu
multato per 1000 dracme e gli fu fatto divieto di utilizzare quel
dramma in futuro.
Alcune congetture sono state avanzate dagli studiosi riguardo alla
possibile esistenza di ulteriori tragedie di argomento storico nel V
secolo a.C., in particolare per quanto riguarda la figura di Gige 8 e di
Creso di Lidia. Ma la datazione dei frammenti della tragedia relativa a
Gige (Pap. Oxy. 2382) è, a tutt’oggi, altamente incerta. Benché il

5
Cfr. fr. I 8-12 TrGF.
6
Cfr. L. Belloni, Eschilo. I Persiani, Milano 1994, pgg. 74 – 76; A. F. Garvie,
Aeschylus. Persae, Oxford 2009, pg. X; Cfr. G. Nenci, Per una interpretazione
storiografica del proemio dei «Persiani», PP 5, 1950, pgg. 215 – 223; G.
Salanitro, Il pensiero politico di Eschilo nei Persiani, GIF 18, 1965, pgg. 193 –
235, in particolare pgg. 217 – 226; F. Stoessl, Die Phoinissen des Phrynichos und
die Perser des Aischylos, MH 2, 1945, pgg. 148 – 165.
7
Cfr. Hdt. VI 21,2.
8
Cfr., ad esempio, E. Lobel, A Greek historical drama, PBA 35, 1949, pgg. 207 –
216; D. L. Page, A new chapter in the history of Greek tragedy, Cambridge 1951.

IV
dibattito sia molto vivace, buona parte degli studiosi propongono di
datarla al IV secolo a.C.9, un periodo in cui ci sono alcune prove
dell’esistenza di tragedie storiche: esempio ne è la notizia sul Mausolo
di Teodette, portataci da Aulo Gellio10, nulla più di un titolo per noi.
L’ipotesi dell’esistenza di una tragedia che abbia per protagonista
Creso, invece, è basata sull’interpretazione di alcuni frammenti di
un’idra proveniente da Corinto in cui si vedono dipinti,
contemporaneamente, un greco suonatore di flauto e una figura
orientale, che sembra essere Creso11, nell’atto di immolarsi su una pira
infuocata, assistito da alcuni Barbari. Ma come ha ben messo in
evidenza Hall12, anche accettando una tale possibilità, bisogna
sottolineare che le vicende legate alla figura di Creso sono considerate
dagli Ateniesi del V secolo sostanzialmente mitiche13; e la medesima
considerazione si può avanzare per la figura di Gige. La materia di
queste tragedie sarebbe, comunque, profondamente differente da
quella trattata da Frinico e da Eschilo, i quali portarono in scena
argomenti di storia contemporanea. Tuttavia, considerato l’elevato
numero di tragedie rappresentate nel periodo classico, delle quali ci

9
Cfr. la buona sintesi della discussione contenuta in E. Hall, Inventing the
Barbarian, Oxford 1989, pgg. 64 – 65; cfr. anche N. Holzberg, Zur Datierung der
Gygestragödie P. Oxy. 2382, «Živa Antika» 23, 1973, pgg. 273 – 286; E. Lobel,
op. cit., nella prima edizione del papiro, considerò l’opera antica; D. L. Page, op.
cit., pgg. 27 – 28 considerò il frammento come parte di una trilogia del V secolo
sulla famiglia reale della Lidia o sulla caduta di Sardi; contra: K. Latte, Ein
antikes Gygesdrama, «Eranos» 48, 1950, pgg. 136 – 141.
10
Cfr. fr. I 72 T 6 TrGF.
11
Ma secondo N. G. L. Hammond e W. G. Moon, Illustration of early tragedy at
Athens, AJA 82, 1978, pgg. 371 – 383, in particolare pgg. 372 – 374, quello
ritratto sull’idra sarebbe Dario che emerge dalla tomba e non Creso di Lidia.
12
Cfr. E. Hall, op. cit., pg. 65.
13
Secondo E. Hall (Ibidem), inoltre, se questa tragedia esistesse veramente
potrebbe essere la prima opera a descrivere Creso di Lidia come un Barbaro.

V
rimane una collezione fin troppo limitata, non si può escludere del
tutto l’esistenza di tragedie storiche.
Proprio questo stato di incertezza rispetto alla possibile esistenza di
tragedie di argomento storico, con la conseguente impossibilità di
puntuali valutazioni del fenomeno, ha portato gli specialisti a prendere
in considerazione tali opere solamente a latere della propria e
particolare ermeneutica della tragedia greca.
Non è questo il luogo per poter esaminare criticamente e nel
dettaglio la storia di tutte le interpretazioni avanzate sulla tragedia,
senza rischiare di imprimere a questo lavoro una direzione
completamente differente da quella proposta. Tuttavia, senza la
presunzione di poter essere esaustivi, si può fare qualche
considerazione che miri a mettere in evidenza la valutazione data dagli
interpreti alla tragedia di argomento storico e, soprattutto, ai Persiani.
A Brelich va riconosciuto senza dubbio l’enorme merito di aver
stabilito le premesse fondamentali per un approccio storico – religioso
alla tragedia greca, nel suo articolo Aspetti religiosi del Dramma
greco. In questo saggio, lo studioso pone in evidenza, in primo luogo,
come la tragedia fosse messa in scena in un contesto rituale e, in
particolare, durante le feste dedicate a Dioniso: essa è, in primo luogo,
«il documento di una religione»14. Non si tratta, comunque – mette in
evidenza lo storico delle religioni – di un semplice inserimento in un
qualsiasi culto pubblico, ma «di un legame specifico con il culto di
Dionysos»15. Sottolinea, inoltre, Brelich che la tragedia rappresenta

14
Cfr. A. Brelich. Aspetti religiosi del dramma greco, pg. 83; cfr. A. M. G.
Capomacchia, La dimensione religiosa del teatro greco negli scritti di Angelo
Brelich, in M. G. Lancellotti, P. Xella (a cura di), Angelo Brelich e la storia delle
religioni. Temi, problemi e prospettive, Verona 2005, pgg. 107 – 114.
15
Cfr. A. Brelich, Aspetti religiosi del dramma greco, pg. 30.

VI
usualmente vicende di contenuto mitico le quali, inserite nel contesto
tragico, conservano nondimeno la loro precipua funzione, quella di
fondare una data realtà sociale, politica, religiosa ecc. Il mito “fonda”
una determinata istituzione, «riproiettandone l’origine in un tempo
non soltanto, o non tanto, cronologicamente remoto, quanto
qualitativamente differente dal tempo in cui viviamo; in un tempo in
cui ciò che esiste non esisteva ancora o era diverso, ma in cui per
opera di esseri diversi da quelli della nostra realtà quotidiana ogni
cosa assume una volta per sempre e irrevocabilmente […] i tratti
essenziali che nella realtà la contraddistinguono». Per Brelich,
dunque, il richiamo alla dimensione mitica nella tragedia – e in
particolare alla dialettica caos / cosmo propria del mito – serve a
prospettare una situazione in cui l’ordine “attuale” è inesistente e in
cui si pongono le premesse per cui esso si costituisca. Protagonisti di
queste vicende, inserite nell’orbita tragica, sono gli eroi16, esseri
sovrumani che agiscono in un tempo straordinario (quello mitico), la
cui caratteristica principale è la hybris, la tracotanza, la dismisura,
l’eccesso che si manifesta, tra le altre cose, nella unilateralità, nel loro
aderire in maniera eccessiva a un ideale: qui è per lo studioso il
motore del “conflitto tragico”; la tragedia esprimerebbe una situazione
di disordine dovuta all’eccessiva, unilaterale adesione a un singolo
valore da parte dei “contendenti”, che non permetterebbe il
riconoscimento di una pluralità di valori, cioè di un’«armonia
superiore in cui entrambe le parti hanno il loro giusto posto»17. La
tragedia, dunque, «attraverso la commossa partecipazione a destini più

16
Cfr. A. Brelich, Gli eroi greci. Un problema storico-religioso, Roma 1958,
passim.
17
Cfr. A. Brelich, Gli eroi greci, pg. 12.

VII
grandi di lui, ammonisce, con gravità, lo spettatore a non trascendere
la giusta misura»18. Brelich ha accennato ai Persiani, dunque, a
margine di una più estesa e complessa proposta ermeneutica della
tragedia che si qualifica soprattutto per l’ampiezza della competenza
sul mondo ellenico e per la ferrea coscienza metodologica. Dice
Brelich: «ma potrei citare in questa stessa connessione (in relazione
alla funzione fondante del mito nell’orbita tragica) perfino l’unica
tragedia non mitica che ci sia rimasta e che proprio attraverso la
funzione mitica della fondazione si giustifica quale tragedia tra le
tante tragedie mitiche: nei Persiani la vicenda scenica garantisce sia
attraverso quanto è accaduto sia con le esplicite parole di un essere
sovrumano, l’ombra di Dario, che i Persiani mai più attaccheranno i
Greci cui la loro terra stessa è – cioè sarà sempre – alleata». Il
presupposto è che l’alterità persiana, come delineata dal poeta, sia
caratterizzata da uno stato caotico paragonabile al tempo delle origini,
al tempo del mito, un tempo qualitativamente diverso, in cui tutto
doveva essere ancora fondato; l’irrompere dell’alterità persiana riapre
quelle possibilità che solo le parole di Dario chiudono
definitivamente19.
Anche Sabbatucci si è occupato dei Persiani e della tragedia greca
nel suo saggio, Il mito, il rito e la storia, a margine, tuttavia, della più
ampia problematica sulla regalità. In una prospettiva che mira a
riconoscere una solidarietà tra storiografia, filosofia e tragediografia in
funzione antigentilizia, egli collega strettamente il teatro tragico alla
cosiddetta “rivoluzione antigenetica” portata dalla democrazia nel V

18
Cfr. A. Brelich, I Greci e gli dei, pg. 111.
19
Cfr. A. Brelich, Aspetti religiosi del dramma greco, pg. 86; cfr. anche L.
Marchetta, op. cit., pgg. 131 – 136.

VIII
secolo ateniese. Sabbatucci precisa che una delle particolarità
strutturali della tragedia consiste nella rielaborazione della tradizione
mitologica che comporta la problematicizzazione dei protagonisti
eroici e del mito stesso. Egli sottolinea più volte, come già prima di lui
aveva fatto Brelich20, che la tragedia ateniese non è solo una messa in
scena teatrale, essa è, per prima cosa, un rito in onore di Dioniso.
Per Sabbatucci la tragedia è “un rito di narrazione di miti”, ma di
miti snaturati e disfunzionali: se «la funzione del mito tradizionale -
sostiene lo studioso italiano - è quella di fondare una realtà che si
presenta, o si vuole, come “data”, […] la funzione della tragedia è di
fondare la realtà politico-sociale ateniese, che […] viene colta e
raffigurata come “voluta”: la conquista culturale che gli Ateniesi son
chiamati a difendere, o a riconquistare alla coscienza ogni volta che
viene problematicizzata. E la tragedia è appunto la
problematicizzazione rituale della conquista democratica, che, per
essere rituale, contiene in sé i termini della “riconquista”; donde la
problematicizzazione risulta una pura finzione scenica, e comunque
non un mito in senso tecnico»21. Il mito tragico, nell’ottica di
Sabbatucci, perde il suo valore fondante, non trasmette più valori al
cosmo politico-sociale e la tragedia risulta essere la messa in
discussione rituale del mito eroico tradizionale. Più precisamente, la
tragedia è «un rito di vanificazione di miti»22, essa rompe ogni
rapporto di interdipendenza tra mito e attualità, rompe la dialettica
“pre-cosmico / cosmico”. Il mito tragico messo in scena, rappresenta
solo un cosmo “altro”, viene preso in esame come realtà da rifiutare,

20
Cfr. A. Brelich, Aspetti religiosi del dramma greco, pgg. 4 – 5.
21
Cfr. D. Sabbatucci, Il mito, il rito e la storia, pgg. 156 – 157.
22
Ivi, pg. 167.

IX
come «problema senza soluzioni, come evento incapace di fornire
valori»23. Il mito eroico perde, secondo Sabbatucci, la sua peculiare
funzione, esso non orienta più la realtà attuale ateniese, ma anzi, in
molti casi, è orientato dall’attualità stessa: il caso più significativo da
questo punto di vista, è quello dell’Orestea di Eschilo. L’assunto di
Sabbatucci scaturisce, comunque, da un particolare punto di
osservazione, dal momento che la sua analisi si concentra su un caso
specifico, quello del cosiddetto ciclo tebano: Sabbatucci, infatti, parla
di «funzione ateniese del ciclo tebano». Nell’ottica dello studioso
italiano, il mito eroico è un mito che ha come problema la
trasmissione del potere tramite il genos; tutto il ciclo tebano ruota
intorno al problema della successione ereditaria al trono di Tebe,
problema, questo, di ordine dinastico e che non deve avere soluzione.
Il ciclo tebano subito dopo Cadmo, - dice Sabbatucci - è
significativamente una raccolta di contrasti per il potere, dove ogni
valenza politica del genos non può che finire “in tragedia”: Penteo
contro Polidoro; Penteo contro Dioniso; Labdaco, Laio ed Edipo;
Eteocle contro Polinice; contrasti questi, tutti accomunati dal fatto che
non hanno una soluzione24. Questa riduzione del mito eroico, una
volta inserito nell’ottica tragica, al problema della rivoluzione
antigenetica e dell’ereditarietà del potere, è estesa da Sabbatucci anche
alle tragedia che non appartengono al ciclo tebano. L’interesse di
Sabbatucci si appunta soprattutto sull’uso politico ateniese del rifiuto
del legame tra potere e genos e, tuttavia, non intende sostenere che
tutte le tragedie debbano essere interpretate, solo e sempre, in base a
tale criterio di lettura. Sabbatucci non sta scrivendo un saggio sulla

23
Ibidem.
24
Cfr. D. Sabbatucci, Il mito, il rito e la storia, pgg. 117 – 141.

X
tragedia; tale criterio particolare di analisi è assunto nella prospettiva
di un lavoro che intende principalmente ricercare i presupposti della
demitizzazione attuata dalla Res Publica romana, demitizzazione
analizzata in un altro saggio: Lo stato come conquista culturale25.
Per quanto riguarda le tragedie di argomento storico, considerate
globalmente, Sabbatucci non equipara tout court la loro materia al
mito, ma, a livello della nuova “funzione tragica” individuata,
l’equiparazione avviene attraverso il concetto di “alterità”. In altre
parole e in estrema sintesi, se il mito tragico “messo in scena”,
rappresenta solo un cosmo “altro” da cui lo spettatore, guidato
accortamente dal poeta, deve prendere le distanze, allora, nel contesto
di quella finzione che è la tragedia vista quale problematicizzazione
rituale della conquista democratica26, la dimensione storica persiana27,
l’alterità per eccellenza, può trovare asilo. In un’ottica che privilegia
sempre quale polo di riferimento la rivoluzione democratica ateniese,
Sabbatucci sottolinea che Tebani e Persiani si equivalgono come
antitesi al cosmo ateniese e anche che Atene si realizza
(culturalmente) proprio contro la Persia. Sottinteso a tutto il discorso
sabbatucciano è il concetto per cui la distanza spaziale e culturale
supplisce alla distanza temporale – quel distanziarsi dalle vicende
messe in scena reso possibile dall’alterità mitica e necessario per
l’attuarsi della “funzione tragica” – anche se, per lo studioso, il mito
non conserva il suo valore fondante e, nella tragedia greca, viene
scisso ogni rapporto pre-cosimo / cosmico.

25
D. Sabbatucci, Lo Stato come conquista culturale, Roma 1975.
26
Cfr. Ivi, pgg. 157 e 159 – 163.
27
Perché nel V secolo le uniche tragedie storiche a noi note, sottolinea
Sabbatucci, hanno sempre quale polo di orientamento la Persia.

XI
Per quanto riguarda, più nel dettaglio, la tragedia di Eschilo i
Persiani, nella dimensione più specifica di una sua riduzione al
problema genetico, Sabbatucci sottolinea come Dario, il “re
precedente”, non faccia altro che predire sciagure ai Persiani e al re
attuale, Serse, rendendo totalmente disfunzionale la regalità nel
contesto della tragedia e impossibile ogni soluzione positiva al
dramma; la soluzione è nella contemporaneità della Atene
democratica; da un punto di vista più ampio, Eschilo (ma finanche
Frinico, seppure non sappiamo in quale modo), portando in scena la
sconfitta dell’alterità (il non-logos), conduce sapientemente gli
ateniesi spettatori a ridurre a logos28, vale a dire alla dimensione dei
valori del cosmo democratico, le cause della sconfitta persiana,
attraverso l’azione dell’ombra di Dario. Il Persiano sconfitto, reso
inattuale al pari dell’inattualità mitica, poteva, dunque, essere portato
in teatro.
Anche l’Antropologia Storica accenna ai Persiani a margine della
propria ermeneutica della tragedia greca. Come è noto, Vernant si
preoccupa, di analizzare il legame di Dioniso con il teatro tragico,
come pure la funzione della dimensione mitica nel contesto del rito
tragico – tematiche queste che sono anche al centro degli interessi di
Sabbatucci e di Brelich. Per lo studioso francese il mito, attratto
nell’orbita del cosmo tragico, da “enunciato indiscutibile” diviene

28
Sul termine di Logos quale concetto atto a definire, attraverso il lessico greco, la
novità della rivoluzione democratica e, dunque, il nuovo cosmo ateniese quale
emerge dalla storicizzazione della dialettica mythos/logos, cfr. in particolare Il
mito, il rito e la storia, pgg. 143 – 220. Sabbatucci dimostra come si arrivi dalla
critica del mito alla distinzione tra mythos e logos (e al logos tipico poi della
filosofia), rifiutando la prospettiva evoluzionistica del passaggio da un pensiero
mitico ad un pensiero razionale. Questo movimento è inteso non come
un’evoluzione, ma come un modo differente di interpretare la realtà e di leggere il
mondo da parte dei Greci, altrettanto valido di quello mito – poietico.

XII
elemento di dibattito. In questa ottica, nel quadro nuovo dell’azione
tragica, l’eroe ha cessato di essere un modello, è divenuto per se stesso
e per gli altri un “problema”29. La tragedia presenta un rapporto tra
eroe e spettatore, dunque, fondato sulla presa di distanza e non
sull’identificazione. Pertanto il dramma attico, che compare alla fine
del VI sec. a.C., quando il “linguaggio del mito” comincia a non
essere più in grado di fare presa sulle nuove realtà politiche della
polis, trova la propria originalità e possibilità di azione proprio nel
confronto, dinamico e incessante, tra un riferimento costante al mito,
concepito ormai come appartenente ad un altrove e a un altro tempo,
ma ancora presente nelle coscienze del pubblico, e i nuovi valori
sviluppati dalla città democratica. Nel conflitto tragico - dice Vernant
- «l’eroe, il re ed il tiranno appaiono ancora ben inseriti nella
tradizione eroica e mitica, ma la soluzione del dramma sfugge loro:
essa non è mai data dall’eroe solitario, essa riflette sempre il trionfo
dei valori collettivi imposti dalla nuova città democratica»30, la quale,
nell’ottica dello studioso francese, rappresenta il fondo comune che
informa il rapporto pubblico-poeta e rappresenta anche l’unico
criterio che può rendere intelligibile la produzione dei grandi tragici.
La contrapposizione tra mondo mitico e attualità storica si esplicita
nella tragedia attraverso il confronto dialettico tra l’attore tragico,
personaggio singolo che rappresenta l’eroe del mito, più o meno
lontano dalla condizione comune del cittadino, personaggio che è
individualizzato dalla maschera tragica, ed il coro, collettività
anonima, non mascherata, ma travestita e impersonata da un collegio

29
Cfr. J. – P. Vernant, P. Vidal – Naquet, Mito e tragedia, pg. 4.
30
Ivi, pg. 7.

XIII
di cittadini ateniesi31. L’eroe, impersonato da un attore professionista,
riportato in vita dalla finzione del teatro, incarna un’alterità di segno
negativo, rispetto a valori attivi nella città, ed è quindi, in rapporto ad
essa, “inattuale”. Secondo lo studioso, dunque, la tragedia non ha
come fine il “rigenerare” la memoria degli eventi mitici, per rinnovare
la permanente validità di un sistema di valori politico-culturali, non
tende, quindi, a riattualizzare in modo inerte i miti eroici. Tra la
dimensione mitico-eroica e la realtà quotidiana del cittadino - nota
Vernant - si è creata una frattura e la funzione della tragedia, anno
dopo anno, è quella di rendere tale frattura esplicita al pubblico-
cittadino32. L’alterità spaziale e temporale dei protagonisti del mito
eroico induce una riflessione critica del pubblico, mette in causa
passato e presente, altrove e città, alterità ed identità. “L’eroe
problema”, dunque, corrisponde a un cosmo politico-sociale in cui il
modello eroico-aristocratico rappresenta ormai un passato “irrelato”
con il presente33.
Inoltre, Vernant insiste anche sulla dimensione estetica della
tragedia, estetica intesa non come “bello”, ma come creazione poetica.
La tragedia svolge un ruolo decisivo, infatti, nella “presa di coscienza
del fittizio”. È proprio questa istituzione che permette ai Greci,
«all’uomo greco, fra V e IV secolo, di comprendere se stesso, nella
sua attività di poeta, come un semplice imitatore, come il creatore di
un mondo di riflessi, di parvenze illusorie, di simulacri e di favole, che
costituiscono, accanto al mondo reale, quello della finzione». Per dirlo

31
Ivi, pgg. 3 – 5.
32
Ivi, pg. 6. Cfr. anche J.-P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, Religione
greca, religioni antiche, tr. it., Torino 1981 (orig. Mythe et société en Grèce
ancienne, Religion grecque, religions antiques, Paris 1976), pg. 203.
33
Cfr. J. – P. Vernant, P. Vidal – Naquet, Mito e tragedia, pg. 6.

XIV
con altre parole, dall’epica alla tragedia, così come – sul piano della
categoria della rappresentazione figurata – dalla statua arcaica alla
grande statua di culto del V secolo, si passerebbe dalla
“presentificazione dell’invisibile” alla “imitazione dell’apparenza”34.
La tragedia, per Vernant, rientra in questo registro. Mentre nell’epos,
il poeta non imita la realtà, ma la svela e la rende presente, nella
tragedia, egli scompare dietro i suoi personaggi che agiscono in scena
come fossero una “realtà”, ma essi, dietro la maschera tragica, non
fanno altro che simulare la “presenza effettiva di un assente”. La
tragedia, in altre parole, mette in scena sotto gli occhi del pubblico le
figure mitiche dell’epoca eroica, proprio quelle alle quali si rende
onore nel culto: figure che per i Greci sono tutt’altro che fittizie. Gli
eroi «sono effettivamente esistiti, ma in un altro tempo, in un’epoca
interamente trascorsa. […] La loro messa in scena implica un essere-
là, una presenza reale di personaggi situati sulla scena e al tempo
stesso come impossibilitati ad esservi, poiché appartengono
all’altrove, a un invisibile aldilà». Proprio questo aspetto del discorso
e dell’azione, compiuti dai personaggi che agiscono e parlano sulla
scena come se fossero vivi, nota lo studioso, costituisce nell’analisi di
Platone lo specifico della mímisis: «l’autore, invece di esprimersi in
nome proprio riportando gli eventi in stile indiretto, si dissimula
all’interno dei protagonisti, indossa la loro sembianza, i loro modi di
essere, i loro sentimenti e le loro parole, per imitarli»35. Date queste
premesse, Vernant non può esimersi dall’affrontare l’anomalia dei

34
Sostiene Vernant che della finzione, di ciò che noi oggi chiamiamo arte,
tenteranno di fissarne lo statuto Platone e Aristotele, elaborando la teoria della
mímēsis, dell’imitazione, proprio in stretta relazione alla tragedia; cfr. Mito e
tragedia due, pg. 71
35
Cfr. J. – P. Vernant, P. Vidal – Naquet, Mito e tragedia due, pg. 72.

XV
Persiani e risolve il problema sostenendo che le vicende e i patimenti
che costituiscono il nucleo della tragedia «non sono, per il pubblico
ateniese, le sue proprie ma quelle di altri». Collocandosi tra i Persiani
e nella loro prospettiva, il poeta sostituisce la distanza temporale
dell’epoca mitica, con la distanza spaziale che rappresenta quello
scarto culturale che permette di assimilare i monarchi persiani e la
loro corte al mondo degli eroi di un tempo. A questo lo studioso
aggiunge la considerazione per cui gli avvenimenti storici della
tragedia Persiani sono presentati sulla scena in un “clima di legenda”.
Dunque, in questa ottica, il Serse dei Persiani è “problematico”, tanto
quanto lo è un qualsiasi altro eroe della tragedia greca 36.
Questa breve disamina delle più importanti voci del mondo
scientifico sulla tragedia greca, nella prospettiva storico-religiosa e
storico-antropologica, lungi dall’avere carattere di completezza, è
necessaria al fine di rendere esplicite le nostre intenzioni. Qui
tenteremo di portare alla luce, attraverso l’analisi storico-religiosa, le
strutture normative della tragedia di argomento storico, soprattutto in
relazione ai guadagni conseguiti dalla Storia delle religioni e
dall’Antropologia storica intorno al teatro tragico. Alla luce di quanto
detto, dunque, un confronto più specifico e puntuale con le tragedie di
argomento storico sembra essere necessario, soprattutto in relazione a
una serie di questioni ancora aperte e particolarmente significative ai
fini di una comprensione totale della tragedia.
La prima cosa che bisogna mettere in evidenza e problematicizzare
è che, quando parliamo di “dramma di argomento storico”, stiamo
trattando delle origini della tragedia (Frinico ed Eschilo), vale a dire
della sua fase più arcaica. Dunque, non possiamo pensare a un
36
J. – P. Vernant, P. Vidal – Naquet, Mito e tragedia due, pgg. 73 – 74.

XVI
progressivo allontanamento da un modello che prima prevedeva
esclusivamente una materia mitica. Soprattutto in relazione ai
Persiani, Vernant spiega questa anomala presenza, sostenendo che la
prospettiva nella quale la tragedia eschilea getta luce sulle vicende
storiche messe in scena non è, comunque, quella che si confà a delle
realtà politiche (la dimensione quotidiana dell’esistenza): «ciò che i
Greci chiamano storia, e cioè l’indagine sui conflitti tra città,
all’interno delle singole città, tra Elleni e Barbari è affare di Erodoto e
Tucidide. La tragedia prende la sua materia altrove: nelle antiche
leggende. Rifiutando di porsi sul terreno degli avvenimenti
contemporanei, della vita politica effettiva, essa acquisisce agli occhi
di Aristotele non minore ma maggiore valore, maggiore verità della
storia»37. In definitiva, Vernant sembra legare la presenza di tali
tragedie a una fase iniziale di sperimentazione, a un periodo in cui la
tragedia fa i suoi “primi passi”, e con qualche difficoltà, come nel caso
della Presa di Mileto di Frinico. La tragedia troverà nel mito la sua
materia d’elezione, anche se, nota lo studioso, le cose sarebbero potute
andare diversamente. Sabbatucci, come abbiamo visto, pur legando
strettamente la possibilità di esistenza di questa anomalia a un
momento storico preciso, caratterizzato dalla vittoria sul barbaro
invasore persiano, considera tali opere statisticamente irrilevanti.
Tuttavia, lo stato della documentazione non ci permette di essere
totalmente sicuri di questo “movimento” di allontanamento della
tragedia dalla materia storica; inoltre, il trattare un argomento storico
apparteneva evidentemente alle possibilità “strutturali” della tragedia,
e fin dall’inizio. Dunque, ancor di più è necessario tentare di
comprenderne il funzionamento, in relazione all’organismo normativo
37
Cfr. Ivi, pg. 74; Arist. Poet. 9, 1451 a 36 – b 32.

XVII
delle tragedie di argomento mitico e in relazione ai problemi che la
materia storica pone rispetto a questo organismo normativo, vale a
dire, rispetto a un’ermeneutica generale della tragedia che lega a filo
doppio la rappresentazione teatrale all’ordito del mito.
In particolare, alcune questioni ci sembrano di rilievo, questioni a
tutt’oggi ancora aperte.
In primis, considerando, come ha fatto Brelich, che la
rappresentazione tragica è parte costitutiva di una festa pubblica in
onore di Dioniso, considerando il suo legame con la dimensione del
mito e considerando che protagonisti non erano mai personaggi
“umani”, ma eroi del mito stesso, bisognerà chiedersi: chi pone sulla
scena la tragedia storica? Qual è lo statuto dei suoi protagonisti?
Vernant sottolinea, a più riprese, che «la maschera integra il
personaggio tragico in una categoria sociale e religiosa ben definita:
quella degli eroi. Ne fa l’incarnazione di uno di questi esseri
eccezionali la cui leggenda, fissata dalla tradizione eroica cantata dai
poeti, costituisce per i Greci del V secolo una delle dimensioni del
loro passato – passato lontano e trascorso, che fa contrasto con
l’ordine della città, ma che, tuttavia, resta ancora vivo nella religione
civica. […] Polarità, dunque, tra due elementi: il coro […] e il
personaggio individualizzato, la cui azione forma il centro del dramma
e che ha la figura di eroe d’altra età, sempre più o meno estraneo alla
condizione ordinaria del cittadino»38. In altre parole, posto il carattere
religioso dell’evento teatrale, posto il carattere fittizio della
rappresentazione e nonostante la problematicizzazione del mito nel
contesto rituale della tragedia, resta sempre presente una
“sovrumanità” dell’eroe intesa in senso religioso. Quelli posti sulla
38
Cfr. J. – P. Vernant, P. Vidal – Naquet, Mito e tragedia, pg. 4.

XVIII
scena, solitamente, sono proprio gli eroi del culto pubblico, che hanno
una grande importanza per la città: nella tragedia, nell’ottica di
Vernant, si confrontano i valori del mondo eroico con i modi nuovi di
pensiero della città, «le leggende eroiche si riallacciano infatti a stirpi
regali, a gene nobili che, sul piano dei valori, delle pratiche sociali,
delle forme di religiosità, dei comportamenti umani, rappresentano per
la città proprio ciò che essa ha dovuto condannare e rigettare, ciò
contro cui ha dovuto lottare per sorgere, ma anche ciò da cui è partita
per costituirsi e con cui resta profondamente solidale»39. Poste queste
premesse, che dire di Dario, Serse e Atossa, personaggi che appaiono
completamente irrelati rispetto alla dimensione religiosa della città?
Proprio per il medesimo motivo, la tragedia Persiani sembrerebbe
anche mettere in crisi l’idea di una coscienza del fittizio, della finzione
poetica, almeno così come è intesa da Vernant. In essa, una tragedia
considerata solitamente statica, povera di azione, sono portate sulla
scena vicende tratte dalla storia veramente contemporanea, la sua
materia è quasi cronachistica, le problematiche che affronta sono ben
radicate nelle vicende che riguardano l’incontro con l’impero
persiano, quel mondo “altro” che ancora per anni influenzerà la vita
politica greca. Dunque, elemento costitutivo della finzione poetica è,
per Vernant, il gioco di presenza / assenza a cui lo spettatore prende
parte, perché, lo abbiamo visto, l’agire sulla scena dei personaggi
eroici implica un essere lì e, allo stesso tempo, l’impossibilità di
esservi. Ora, per Vernant, mettere in scena una tragedia è qualcosa di
diverso dal rappresentare il corso reale degli avvenimenti, che
significherebbe solo un semplice racconto di accadimenti. Montare
una tragedia, creare quell’illusione, non è inventare dei personaggi
39
Cfr. Ivi, pg. 6.

XIX
immaginari, né inventare un intreccio secondo il proprio piacere, ma è
usare i nomi e il destino di figure ben note che sono in rapporto, anche
sacrale, con il pubblico ateniese. Nell’ottica di Vernant, infatti, la
coscienza del fittizio sorge proprio quando, nella rappresentazione del
divino, si passa dall’idea di poter presentificare una potenza invisibile
– vale a dire la sua essenza, il reale, o, meglio, dall’idea di poter
mostrare un riflesso del reale (tanto nelle vicende narrate dell’aedo,
quanto nel forgiare l’idolo arcaico) che appartiene nella sua totalità
solo al mondo divino – alla coscienza che ciò che si può rappresentare
è soltanto un simulacro, un’illusione che non appartiene al piano della
realtà divina, ma al mondo dell’apparenza che è quello della
quotidianità umana; è per questo motivo che Platone condannerà il
teatro, perché mimesi, ingannevole menzogna, pura apparenza.
Cionondimeno, la dimensione fittizia è per sua stessa genesi, nel V
secolo, legata al mito e al culto tradizionale: è con i valori espressi dal
mito che ci si confronta ed è proprio la necessità di confronto con essi
che permette la nascita di quello che Vernant chiama l’uomo tragico.
Nell’ottica di Vernant, proprio la libertà plastica che la finzione del
mito le assicura, rende la tragedia capace di mettere in scena un
universo del fittizio: gli eventi dolorosi, terrificanti, che fa vedere sulla
scena producono un effetto del tutto diverso che se fossero reali. Ci
toccano, ci riguardano ma da lontano, da altrove, si collocano in una
dimensione diversa da quella della realtà quotidiana, della vita e,
dunque, della storia. Ora questo gioco, come si sviluppa nei Persiani?
Che dire della dimensione contemporanea di questa tragedia, la quale
sembrerebbe ancorata alla storia, non solo perché talvolta rasenta la
cronaca, ma anche perché, sotto taluni aspetti, sembrerebbe attenta ai
valori propri del cosmo culturale persiano e a una rappresentazione

XX
reale del Persiano40 (il che implicherebbe la mancanza di una vera e
propria destorificazione)? È necessario, dunque, domandarsi, perché
quei Barbari posti sulla scena sembrano essere così ben radicati nella
dimensione storica. Bisogna anche domandarsi perchè, a differenza
degli eroi mitici, i protagonisti della tragedia Persiani sono tutti vivi,
tranne Dario, al momento della rappresentazione del dramma ad
Atene. Vernant, lo abbiamo notato sopra, risolve questo duplice
problema – quello della dimensione sacrale dei personaggi messi in
scena e quello della materia storica – postulando, da un lato, che le
azioni rappresentate sono trattate come in un clima di legenda;
dall’altro lato, che la distanza spazio-culturale dell’alterità barbara,
rappresenta un equivalente simbolico del mito. Ma è sufficiente
interpretare la tragedia storica con i parametri dell’alterità? L’alterità
culturale/spaziale è veramente un equivalente simbolico del mito? E
se è così, in quale modo questo distanziamento è messo in atto dal
tragediografo, per esempio nei Persiani? Poste queste premesse e
questi interrogativi, l’equivalenza simbolica tra distanza
culturale/spaziale dell’alterità persiana e distanza temporale del mito
non può essere negata o confermata a priori. Essa va, eventualmente,
verificata “sul campo”. Tanto, più che la distanza culturale, che
significa presa di coscienza della propria identità, nel caso di Greci e
dei Persiani non nasce da una lontananza, ma da una grande vicinanza,
anzi da un incontro/scontro di spazi vitali. Infatti, come mette ben in
evidenza Belloni, «nel quinto secolo il rapporto tra Grecia ed Asia
appare in primo luogo un fattore di costume, succedaneo a tormentati
rapporti politici. Nonostante la rivolta Ionica e le guerre persiane

40
Cfr., ad esempio, U. Bianchi, Eschilo e il sentire etico – religioso dei re
persiani, passim.

XXI
abbiano contribuito a diffondere, in buona parte, l’immagine dei
Barbari sudditi di un monarca assoluto, i due ethne non hanno
mancato di istituire un contatto fra la cultura delle poleis e il mondo
microasiatico, come attestano dati emergenti dalla documentazione
storico-letteraria e archeologica»41.
Date queste premesse, inoltre, lo stesso schema della vanificazione
del mito, attratto nell’orbita tragica, sembrerebbe non poter essere
applicato ai drammi storici. Se la tragedia rappresenta una
problematicizzazione rituale e periodica delle realtà culturali ateniesi
che opera nella contingenza storica – sottolinea Sabbatucci42 – la
vicenda che è messa in scena, come una finzione, deve essere sottratta
il più possibile alla attualità storica, affinché i valori veicolati dalla
vicenda tragica siano sottratti il più possibile ai valori veicolati dal
cosmo democratico ateniese. Infatti, il problema, nella finzione
tragica, è impostato come se non esistesse una “soluzione ateniese in
atto”. Sabbatucci, nella sua individuazione di un “funzione tragica”
come opposta alla “funzione mitica”, parte dalla considerazione della
tragedia attraverso l’alternativa mitico-logica quale dialettica
storicamente ateniese: in questa prospettiva, il “rito tragedia” è in
rapporto tale con il mito tradizionale che la tragedia deve
“necessariamente” attingere alla mitologia. Abbiamo visto sopra come
lo studiose risolve l’anomalia delle tragedie storiche: esse possono
essere ridotte a tragedie mitiche (la lontananza spaziale/culturale
equivale a quella temporale) e, comunque, sono irrilevanti, perché non
hanno avuto seguito. Anche in questo caso, valgono le domande che ci
siamo già posti: se alla base della funzione tragica vi è una messa in

41
Cfr. L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. XVIII.
42
Cfr. D. Sabbatucci, Il mito, il rito e la storia, pg. 159.

XXII
scena di vicende che devono essere sottratte il più possibile alla
attualità, non devono, cioè, veicolare valori, come si spiega l’esistenza
di una tragedia che mette in scena avvenimenti contemporanei? Se
sulla scena viene a mancare il mito, finanche un mito disfunzionale
qual è quello tragico, la tragedia storica può rientrare realmente nel
medesimo costrutto teorico? Può essere analizzata con i medesimi
parametri ermeneutici?
Evidentemente, tutto questo non può essere un “dato a priori”. Deve
essere verificato con una attenta analisi dei drammi che mettono in
scena, nel teatro di Atene, accadimenti storici, nel tentativo di
comprendere se tali rappresentazioni devono / possono essere
interpretate o meno con canoni di analisi completamente differenti.
A questo punto, considerata la condizione della documentazione,
non possiamo fare altro che volgerci all’analisi dell’unica tragedia di
argomento storico ancora esistente, i Persiani di Eschilo.

XXIII
I - UNA STORIA DEGLI STUDI

Per affrontare le problematiche legate alla tragedia greca di


argomento storico, è necessario, in base a quanto discusso sopra,
soffermarsi sull’unica di esse che ha varcato i confini del tempo antico
ed è stata inserita nella selezione eschilea, giungendo integra fino a
noi. Mi riferisco alla tragedia di Eschilo i Persiani.
Le problematiche poste dallo studio di quest’opera, spesso
considerata “anomala” sotto diversi punti di vista – diagnosi storica
delle forme culturali greche, legata all’identificazione delle costanti
strutturali dei generi letterari – sono molteplici, di grande interesse e
sono state variamente affrontate dalla critica storico-letteraria e
filologica. La tragedia Persiani sembrò essere, a una gran parte degli
ellenisti, diversa da tutte le altre tragedie greche superstiti: il suo
argomento riguarda un evento non tratto dalla mitologia, ma dalla
storia molto recente – solo otto anni la separano dalla battaglia di
Salamina – e, a differenza delle altre tragedie esistenti di Eschilo, essa
non sembra far parte di una trilogia interconnessa 1. I Persiani, tra le
tragedie greche superstiti, è quasi sicuramente la più antica ed è stata

1
Secondo l’hypothesis preposta alla tragedia, Eschilo vinse l’agone tragico con il
Fineo, con i Persiani, con il Glauco (probabilmente Glauco Potnieo) e con il
Prometeo (probabilmente Prometeo Incendiario), un dramma satiresco. I Persiani
è l’unica tra le tragedie di Eschilo a noi pervenute a non far parte di una trilogia
interconnessa. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, gli studiosi hanno
individuato, tra i titoli e i frammenti di Eschilo, circa sedici possibili trilogie, con
una certa dose di approssimazione (cfr. III 111 – 119 TrGF / Radt). Ci sono
tuttavia titoli che rimangono esclusi da questa suddivisione, quindi i Persiani,
potrebbe non rappresentare l’unica eccezione. Le due altre tragedie sono di
argomento mitico e ne rimangono pochissimi frammenti.
trattata dagli studiosi, in primo luogo, quale preziosa fonte per lo
studio delle origini del genere. Ma, come spesso accadeva, “più
antico” fu equiparato a “primitivo” e quindi a inferiore, a immaturo, a
imperfetto2.
In virtù di queste presunte “anomalie”, parte dell’opinione
scientifica, in passato, è stata portata perfino a negare il “carattere
drammatico” dell’opera, reputando impresa ardua identificare
un’“etichetta teatrale” per i Persiani. Se nella forma essa era
considerata sicuramente una tragedia, il suo argomento – di carattere
storico e non mitico –, lo spirito con cui era stato affrontato dal
tragediografo, unitamente a considerazioni di carattere strutturale e
stilistico, avrebbero rimosso l’opera dalla categoria dell’autentico
teatro tragico. Come ci ricorda Broadhead3, Blomfield nel 1818
scriveva:

«It must be confessed that in the #exodoj of the Persae


Aeschylus has departed somewhat from the dignity of
tragedy. Xerxes presents an utterly ridiculous figure with
his laments, his rags and his empty quiver. […] I believe

2
Cfr. sull’argomento, A. F. Garvie, Aeschylus. Persae, pg. IX. Nella sua analisi
dei Persiani, U. Von Wilamowitz-Moellendorff (Die Perser des Aischylos,
«Hermes» 32, 1897, pgg. 382 – 398; Idem. Aischylos: Interpretationen, Berlin
1914, pg. 42) fu particolarmente caustico, e da allora le qualità della tragedia sono
state ingiustamente sottostimate dagli studiosi, fino ai nostri giorni. Come
sottolinea R. Di Virgilio, Il vero volto dei Persiani di Eschilo, Roma 1973, pg. 14,
Wilamowitz, non comprendendo il vero significato della tragedia, la liquida
semplicisticamente all’insegna del “noch nicht”; cfr. U. Von Wilamowitz-
Moellendorff, Aischylos, pg. 48.
3
Cfr. H.D. Broadhead, The Persae of Aeschylus, Cambridge 1960, pgg. XV sgg.

2
all this was designed by the poet to rise a laugh among the
Athenians»4

L’Esodo dei Persiani è stato ripetutamente frainteso dalla critica


che vi ha visto «una riposta struttura ironica, che convoglierebbe un
messaggio nazionalistico e razzistico di questo tipo: vi faccio vedere
sulla scena quanto smodato e volgare sia il dolore dei barbari;
guardate, anche in ciò, la superiorità della nostra cultura»5. Ma
l’Esodo non è stato l’unico passo affrontato con preconcetti e, dunque,
frainteso.
In generale, si è voluto vedere nei Persiani il prevalere di una
sensibilità lirica, rispetto a una sensibilità drammatica; Gravenhorst,

4
C. J. Blomfield (ed.), Aischylou Persai, Praefatio, London 1826, pg. XIV: «
Persarum éxodo aliquant uma dignitate tragœdiœ descivisse. Valde enim ridicula
est Xerxis persona cum lamentis suis, et laceris pannis, et vacua pharetra: sed
longe magis ridiculum Chori obsequium, dum varios doloris exprimendi modos, a
Xerxe edoctus, adhibet, v. 1039. et seqq. Verum hoc a poeta consilio factum
fuisse arbitrar, ut Atheniensibus risum moveret; et nescio an eodem fine totidem
finxerit Persarum nomina, quae aures Atticas ludiera quadam scabritie titillarent.».
5
G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo: problemi di focalizzazione drammatica,
Roma 1978, pg. 82; Esprimono ampiamente il preconcetto sull’#exodoj: B.
Lavagnini, L’azione drammatica nei Persiani di Eschilo, «Athenaeum» 15/4,
1927, pgg. 295 – 301, in particolare pg. 298; G. Clifton, The Mood of the Persai
of Aeschylus, G&R 10, 1963, pgg. 111 – 117, in particolare pgg. 112 sgg. che
estende il ridicolo sin dalle prime lamentazioni del coro; G. Thomson, Eschilo e
Atene, Torino 1949, pg. 425; W. Schmid, Geschichte der Griechischen Literatur,
2, München 1934, pg. 206; J. D. Craig, The Interpretation of Aeschylus’ Persae,
CR 38, 1924, pgg. 98 – 100. Correttamente negano ogni elemento non tragico: G.
Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pgg. 12 – 13; Q. Cataudella, I «Persiani» di
Eschilo, «Athenaeum» N.S. 4, 1926, pgg. 40 – 48, in particolare pg. 46; G.
Morani, M. Morani (a cura di), Eschilo. Tragedie e Frammenti, Torino 1998, pgg.
11 – 12; F. Sartori, Echi politici ne «I Persiani» di Eschilo, AIV 128, 1969 –
1970, pgg. 771 – 797, in particolare pg. 779; U. Albini, Lettura dei Persiani di
Eschilo, PP 22, 1967, pgg. 252 – 263, in particolare pg. 253; H.D. Broadhead, op.
cit., pg. XXIII; B. Alexanderson, Darius in the Persians, «Eranos» 65, 1967, pgg.
1 – 11, in particolare pg. 7 sgg.

3
infatti, ritiene che quella eschilea non sia una tragedia nel vero senso
della parola, ma «a dramatised dirge of epico-lyrical character»6.
Ancora negli anni quaranta del secolo passato, Murray,
esemplificando alcune di quelle “anomalie”, poteva chiedersi:

«Why is the Persae a great tragedy? It has little plot and


not much study of character; it was apparently a
performance written to order for a public celebration; it
was not original – in the ordinary sense at least – but
modelled on a previous play of the same title and subject
by another author; and lastly, it is a celebration of national
victory, one of the very worst fields for good poetry. How
can it be a great tragedy?»7

Per poi concludere che la grandezza di Eschilo risiedeva nel suo


potere di “creare tragedia” – tanto dal mito, quanto dalla storia – e che
noi moderni non possiamo pienamente comprendere la ricchezza dei
Persiani, poiché possediamo capacità ermeneutiche nei confronti del
reale differenti da quelle degli antichi, oltre a una diversa visione
dell’arte8. Vero è che il nostro bagaglio “culturale” sembra essere
stato inadeguato a definire il senso greco del tragico – e di Eschilo in
particolare – senza lasciare in ombra ora l’uno, ora l’altro dramma,
come è accaduto appunto per i Persiani e per il Prometeo9. Oggi

6
H. Gravenhorst, Über die Perser des Aischylos, Leipzig 1891.
7
G. Murray, Aeschylus. The Creator of Tragedy, Oxford 1962, pg. 121.
8
Ivi, pgg. 122 – 125.
9
Quello del Prometeo Incatenato è un caso evidente di sovrapposizione di una
mentalità critica e di un gusto moderno estranei al mondo antico, che ha prodotto
guasti interpretativi ancora più grandi. L’attribuzione a Eschilo del dramma è
contestata da una parte della filologia moderna, che porta a sostegno di questa tesi

4
nessuno può più dubitare che per noi, ma soprattutto per i Greci del
tempo di Eschilo, queste siano tragedie, anche se per tanto tempo è
sembrato sfuggirci lo specifico del tragico10.
Questi brevi cenni ben esemplificano le difficoltà e i dubbi della
critica di fronte a un’opera tragica che si distacca per molti versi dalle
altre. La critica moderna ha sempre oscillato tra gli estremi opposti di
chi rifiutava di partecipare alla ricostruzione dello sfondo culturale del
tragediografo di Eleusi in nome di un ideale estetico, e di chi, al

argomenti di natura strutturale, stilistica e concettuale. I critici che negano


l’autenticità del Prometeo osservano che il linguaggio utilizzato nel testo è ben
lontano dalla sublimità che distingue lo stile del drammaturgo di Eleusi e mettono
in evidenza che la drammaturgia è fragile, poiché si volge a facile effetti patetici
(Cfr. D. Del Corno (a cura di), Eschilo. Supplici, Prometeo Incatenato, Milano
1994, pgg. XI – XII). Ma rilievo più importante, e ritenuto decisivo
nell’avvalorare l’idea di una diversa genesi dell’Opera, è che l’immagine
ingiuriosa di Zeus non è coerente con quella di suprema divinità della giustizia,
quale appare in altre tragedie eschilee. Inoltre, l’interpretazione goethiana e
shelleyana di Prometeo, orientate in senso romanticamente “titanico”, hanno
influenzato la lettura critica dell’Opera. Il rovesciamento dei piani di lettura,
proprio di una mentalità che si nutriva più del titanismo romantico che degli ideali
religiosi di Eschilo, aveva portato alla falsa conclusione che il Prometeo dovesse
essere stato scritto da altri (Cfr. G. Morani, M. Morani, op. cit., pgg. 11 – 13). Al
contrario, chi sostiene l’attribuzione tradizionale ha messo in evidenza, non a
torto, che già l’assegnazione del dramma alla selezione eschilea conserva un
valore documentario che non può essere trascurato. Inoltre, «per quanto riguarda
la religiosità del Prometeo Incatenato […] non si dovrebbe mai dimenticare che la
tragedia in questione era inserita in una trilogia, le cui due altre componenti sono
andate perdute. Le vicende drammatiche prendevano certo nell’ultima tragedia
un’altra piega, e Zeus appariva certo in una nuova luce. […] Anche ammettendo
che Prometeo, per quanto non sia un uomo, si trovi in particolare connessione con
l’umanità e con la sua storia primitiva, non si deve perdere di vista il fatto
fondamentale che lo Zeus del Prometeo Incatenato è necessariamente e anzitutto
lo Zeus teogonico il cui regime – per quanto apportatore di ordine – si fa strada
attraverso un seguito di lotte a livello cosmico e divino; la figura del dio è
condizionata dalla sua ambientazione teogonica, fatta necessariamente propria
dalla tragedia in questione». Cfr. U. Bianchi, La religione greca, Torino 1975,
pgg. 109 – 110.
10
Cfr. M. Pohlenz, La tragedia greca, 1, tr. it., Brescia 1961, (orig. Die
griechische Tragödie, Lipsia 1930), pg. 70: lo studioso valuta i Persiani «la
tragedia che l’estetica moderna è più impotente a decifrare»; G. Morani, M.
Morani, op. cit., pg. 12.

5
contrario, trascurando le peculiarità della tragedia, tentava, con
risultati angusti, di rintracciare le premesse filosofiche dei suoi
drammi e di indovinarne le simpatie politiche11.

***

Prime e più importanti singolarità imputate ai Persiani sono state di


carattere tecnico e hanno riguardato la struttura drammaturgica:

 la conservazione di alcune delle arcaiche


caratteristiche della più antica tragedia, come l’assenza
del prologo e l’inizio della tragedia con la Parodo,
l’entrata del coro12 e, a livello metrico, l’alternanza
costante nelle parti parlate del trimetro giambico e del
tetrametro trocaico, in violazione della norma
statisticamente individuata (e codificata anche da
Aristotele nella Poetica) che prevede un uso pressoché
totale del primo metro13.

 l’utilizzo “goffo” del secondo attore;

 la mancanza di unità tra le principali scene


della tragedia – legate tra loro da connessioni organiche
11
Cfr. anche G. Morani, M. Morani, op. cit., pg. 11.
12
Cfr. AA. VV., La letteratura greca della Cambridge University, Milano 2007,
pgg. 508 – 509; H.D. Broadhead, op. cit., pgg. XXXII e XL – XLIII.
13
Cfr. sull’argomento la discussione di M. Centanni (a cura di), Eschilo. I
Persiani, Milano 1991, pgg. 19 – 21, la quale, però, non ritiene che questa
costante alternanza sia interpretabile come un residuo arcaico, ma piuttosto che sia
leggibile come funzione della complessiva ricerca formale di un movimento
drammatico.

6
insufficienti – che si realizzerebbe nella creazione di
atti separati e indipendenti, i quali avrebbero piuttosto
potuto formare una trilogia: i tre episodi principali
avrebbero, infatti, nessi strutturali troppo tenui, tanto da
far risultare imperfetta la costruzione della tragedia 14.

Una valutazione critica – sostenitore ne è stato il Wilamowitz –


che è sopravvissuta fino ai nostri giorni:
Snell ritiene che i Persiani abbiano «un aspetto arcaico perché non
sono costruiti su un’azione conseguente, ma fanno passare davanti a
noi una serie di grandi quadri. Non esiste un piano dell’azione in cui si
incorpori anche il dettaglio. Questo modo di legare le singole parti è
tipico della mentalità arcaica»15.
Pohlenz, altresì, sostiene che i tre atti siano collegati in maniera
estrinseca, esteriore e con nessi tenui, pur tuttavia per lo studioso, la
14
Cfr. U. Von Wilamowitz-Moellendorff, Die Perser, pgg. 382 – 398; op. cit.,
1914, pg. 42; Cfr. B. Snell, Eschilo e l’azione drammatica, tr. it., Milano 1969
(orig. Aischylos unddas Handeln im Drama, «Philologus» Suppl. 20, 1928), pg.
83; M. Pohlenz, La tragedia greca, pgg. 70 – 71; G. Murray, op. cit., pg. 115; Cfr.
B. Lavagnini, op. cit., pg. 296. Bisogna sottolineare che il giudizio di Wilamowitz
ha influenzato in parte anche H. D. Broadhead (Cfr. op. cit., pg. XXXV – XL):
nella seconda parte dell’opera, infatti, egli rintraccia la medesima mancanza di
connessioni rinvenuta da Wilamowitz. Diversamente, A. F. Garvie, (op. cit.)
ritiene che: «the view that the play consists of three badly connected scenes has
little to recommend it» (pg. XXXIII). E ancora: «Wilamowitz’s division of the
play into three scenes is not in itself unhelpful, if we think of it as corresponding
roughly with the three stage of foreboding, fulfilment, and reaction. But it is not
entirely satisfactory, in that the foreboding is not brought to an end with the
arrival of the Messenger, but is further developed with the ghost’s prediction of
the battle of Plataea, and indeed continues beyond the end of the play. Other ways
of dividing up the play have been favoured by other scholars and the difficulty
that they have found in reaching agreement suggests strongly that all such
divisions are artificial, and that the play is best regarded as a single continuous
unity». Vedi anche B. Court, Die Dramatische Technik Des Aischylos, Stuttgart
1994, pgg. 19 – 81, dove, anche se è accettata la divisione in tre atti, viene
mostrato quanto essi siano strettamente interconnessi.
15
Cfr. B. Snell, op. cit., pg. 82.

7
struttura della tragedia è comunque unitaria perché quei tre atti
scaturirebbero da un “medesimo clima spirituale” 16.
Perrotta stesso, sostenendo che «gli atti dei persiani costituiscono
una meravigliosa unità […], nel senso che si ispirano ad un solo
motivo estetico che muove tutta la tragedia»17, in definitiva, resta in
parte legato all’opinione del filologo tedesco.
Voce fuori dal coro è quella di Paduano, per il quale «non la stasi,
né la disintegrazione ineriscono alla struttura della tragedia, bensì un
semplice e armonico sviluppo di linee tematiche18».
Un’opinione simile era stata espressa in precedenza da Albini, il
quale si rifiuta di dubitare della natura teatrale dei Persiani, mettendo
in evidenza «di quante idee drammatiche sia ricco un pezzo in
apparenza solo lirico e cerimonialistico». Tuttavia, lo studioso non
riesce a rintracciare, in modo strutturale, la dimensione del tragico; le
sue osservazioni dipingono quadretti drammatici che restano
sostanzialmente slegati e che, in sede conclusiva, lo costringono ad
“uscire dalla scena” per dare coerenza lineare alla compagine tragica e
a tutti gli accadimenti “scenici” su cui si era soffermato in precedenza.
Sostiene, infatti, lo studioso:

«la costruzione lineare dei Persiani, per fatti che si


susseguono, ha un suo preciso nucleo unitario: il rapporto
sottinteso col pubblico presente, che rende il discorso
dialettico e conclusivo. Si è accennato a un momento in cui
questa complicità col pubblico è più vistosa (lo

16
M. Pohlenz, La tragedia greca, pgg. 70 – 71.
17
Cfr. G. Perrotta, I tragici greci, Messina-Firenze 1966, pgg. 62 – 66.
18
G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pgg. Contro la sentenza di Wilamowitz,
vedi A. F. Garvie, op. cit., pgg. XXXII – XXXVII.

8
strizzamento d’occhi del dov’è quest’Atene […]): in realtà
essa è continua, massiccia. Il vincitore presente è
indispensabile, perché la scena non si risolve tra i
personaggi che la calcano, non è autosufficiente».

Quanto affermato è in parte vero; oggi sappiamo che la


rappresentazione tragica è inscindibile dal rapporto con il pubblico
della polis, ma detta idea, per quanto importante, perde la sua efficacia
nel momento in cui, passando da un piano puramente scenico e
narrativo a uno metateatrale, cerca quell’unità organica e quella
dimensione del tragico che altrimenti non riesce a trovare.
Identico espediente è utilizzato quando Albini riconosce la
grandezza dei Persiani – cioè, la loro capacità di profilarsi sub specie
aeternitatis – solo attraverso il passaggio da problematiche di ordine
critico a questioni di ordine estetico: nella tragedia di Eschilo «c’è
l’epicità delle leggende di gesta, eccezionale ne è la carica umana»19;
espediente critico che elude il problema, ma non lo risolve.

***

Dal punto di vista della costruzione drammatica, dunque, i Persiani


non sono sfuggiti a serie critiche strutturali e filologiche. Tuttavia in
passato, molti dei supposti difetti nella costruzione sono stati attribuiti
all’alta datazione della tragedia. In altre parole, essa sarebbe
imperfetta perché arcaica (arcaico = primitivo = imperfetto), sarebbe
imperfetta perché rappresenterebbe una forma di sperimentazione di

19
U. Albini, op. cit., pgg. 252 – 253 e 262 – 263.

9
quello che poi sarà il maturo genere tragico. Questo pregiudizio ha
influenzato l’analisi scientifica dell’intera tragedia.
Ulteriori interpretazioni, infatti, hanno sollevato dubbi di carattere
tecnico che insistono soprattutto sulla mancanza di azione – intesa,
probabilmente in senso restrittivo, come svolgimento consecutivo e
gestuale di fatti sulla scena – che ridurrebbe la tragedia a una sorta di
lamentazione fondamentalmente statica20.

20
Cfr. B. Lavagnini, op. cit., pg. 298: «non azione, ma passione»; G. Murray, op.
cit., pg. 121; R. Lattimore, The Poetry of Greek Tragedy, Baltimore 1958, pg. 31;
P. Groeneboom (hrsg.), Aischylos' Perser, 1, Göttingen 1960, pg. 13 sgg.; E.
Cahen, Sur quelques traits du récit de Salamine dans les Perses d'Eschyle, REA
26/4, 1924, pgg. 297 – 313, in particolare pg. 312: «Échanges successives
d'impressions lyriques»; M. H. Finley, Pindar and Aeschylus, Cambridge 1955,
pg. 217; Ph. W. Harsh, A Handbook of Classical Drama, Stanford 1967, pg. 47; J.
Ferguson, A Companion to Greek Tragedy, Austin London 1972, pg. 39; (a play
of situation). Più cauto, ma sostanzialmente della medesima opinione H.D.
Broadhead, op. cit., pgg. XVII e XXXIII: «In short, the Persae is virtually devoid
of the “action” characteristic of a gradually developing “plot”; but, inasmuch as
the nature of the subject and the limitations it imposed made such a plot
aesthetically undesirable, it was practically inevitable that a tragedy dealing with
the Persian defeat should consist largely of scenes that depicted effects instead of
actions that led to a reversal of fortune».
Per quanto qui detto, è importante ricordare i commenti di G. Paduano (Sui
Persiani di Eschilo, pgg. 12), il quale ci fa notare, seguendo Perrotta (op. cit., pg.
54) nel rilevare la contraddittorietà del procedimento, che accanto alla monotonia
e alla staticità dell’azione, è stato rimproverato ai Persiani un difetto per certi
versi opposto, vale a dire una mancanza di unità che si concreterebbe nella
formazione di tre atti staccati e indipendenti. Nota, inoltre, Paduano che «la
presunta mancanza di azione deriva da una grossolana confusione critica tra
azione come modificazione storica del reale e azione come svolgimento gestuale
di fatti sulla scena»; Cfr. sull’argomento anche G. Paduano, La nascita del mito
tragico nei Persiani di Eschilo, «Angelus Novus» 1, 1964, pg. 69; E. T. Owen,
The Harmony of Aeschylus, Toronto 1952, pg. 38; H. Weir Smyth, Aeschylean
Tragedy, New York 1969, pg. 74; A. Mundhenk, Wege zu Aischylus’ «Persern»,
NJAB 2, 1939, pgg. 65 – 74, in particolare pg. 68; T. D. Goodell, Athenian
Tragedy, Yale 1920, pg. 145: «Those who object that this tragedy contains no
action forget what dramatic action is. It is not bodily movement, as we have seen.
It is to be found rather in just what constitutes the substance of the “Persians”, the
emotions and mental attitudes out of which the expedition grew and the changes
of emotion and mental attitude produced by events»; A. F. Garvie, op. cit., pg.
XXXIII: «That it is devoid of action is true only if we define ‘action’ narrowly as
what people do on the stage, excluding what they say. But in Greek tragedy the

10
latter is just as, and often more, important. What is different about Persae is that
the tragic páqoj, the battle of Salamis, has taken place before the beginning of the
play, so that the onstage drama itself deals entirely with the revelation of the
disaster and the reaction to it of those at home. But these things themselves
constitute the ‘action’ of the play, and it would be a mistake to declare that the
speeches of the messenger are dramatically less effective than the battle – scene
which Shakespeare presented on the stage, or that the immensely impressive
appearance of the Ghost of Darius is not to be described as action».
Broadhead giustifica, dunque, la mancanza di trama e di azione, presupponendo
una costrizione della materia nel contenuto. Paduano (Sui Persiani di Eschilo,
pgg. 32 – 33 e 85 – 86), al contrario, vi vede una preferenza del tragediografo che
interviene lucidamente sulla materia, anche attraverso consapevoli scelte di
difformità dalla storia (ad esempio, sappiamo da Hdt. VIII, 99 che al momento
della sconvolgente e tremenda notizia della disfatta di Salamina, Susa era
giustamente in festa per la presa e il saccheggio di Atene; ma si potrebbero
addurre anche altri casi in cui Eschilo scientemente deroga alle verità storiche per
intessere la trama e l’ordito della sua tragedia, soprattutto modellando la figura
dell’ombra di Dario – Pers. 681 sgg. Cfr., al riguardo M. Croiset, Eschyle. Études
sur l'invention dramatique dans son théâtre, Paris 1965, pg. 28; B. Lavagnini, op.
cit., pg. 229; M. V. Ghezzo, I Persiani di Eschilo, AIV 98, 1938 – 1939, pgg. 427
– 448, in particolare pg. 430 sgg.; W. Schmid, op. cit., pg. 204; L. Roussel,
Eschyle: Les Perses, Montpellier 1960, pgg. 256 – 365; M. H. Finley, op. cit., pg.
215; H. D. Broadhead, op. cit., pgg. XVII – XXX; B. Alexanderson, op. cit., pgg.
1 – 11; J. De Romilly, Eschyle, Les Perses. Edition, introduction et commentaire
par un groupe de Normaliens sous la direction de J.D.R., Paris 1974; D. J.
Conacher, Aeschylus’ Persae. A Literary Commentary, in J. L. Heller, J. K.
Newman (eds.), Serta Turyniana: Studies in Greek Literature and Palaeography
in honor of Alexander Turyn, Urbana, Chicago, London 1974, pgg. 143 – 168).
Eschilo, in questo modo, sceglierebbe un’opzione drammaturgica precisa,
rifiutando il modello della katastrofÔ, a favore di una costruzione del tragico
come “elaborazione crescente del conoscere” (Cfr. anche Ph. W. Harsh, op. cit.,
pg. 47). A questo punto è inevitabile, per Paduano, instaurare un paragone tra i
Persiani e l’Edipo Re di Sofocle: nei Persiani, come nell’Edipo, la compagine
strutturale si esprime attraverso un iter gnoseologico che recupera una dimensione
sconosciuta del vivere e ne fa la dimensione dell’esistenza attuale, un iter che da
sospetti e paure conduce alla marmorea certezza. Essa, però, nella tragedia
eschilea, non conclude il dipanarsi del tragico, che invece persevera nella ricerca
delle cause della condizione attuale, attraverso riflessioni di carattere religioso; in
altre parole, il momento più delicato è quello che dall’insoddisfazione della
notizia porta al suo approfondimento morale e teologico. Nell’Edipo, al contrario,
la ricerca e la scoperta della verità, anch’esse scandite da presagi e paure,
esaurisce ipso facto l’azione, per l’immediata significatività tragica del contenuto
delle scoperte. Differentemente, U. Albini, op. cit., pgg. 252 – 253, rifiuta in
modo persuasivo la definizione dei Persiani come dramma dell’informazione,
almeno secondo quello che ne è il modello abituale. Secondo lo studioso: «Nel
dramma d’informazione qualcosa che viene alla luce provoca traumi,
sconvolgimenti e rovine. Edipo prende in esame la sua esistenza trascorsa, e a

11
L’insufficienza nell’azione scenica si risolverebbe nella
constatazione della carenza – o addirittura dell’assenza – di una trama,
tanto da rendere problematica sia l’individuazione della dimensione
protagonistica, sia la ricerca del punto focale del dramma eschileo.
Verrebbe da pensare che, a dispetto della semplicità della trama e
della estrema antichità del testo, il modello drammaturgico dei
Persiani risulti essere più complesso, sfuggente e difficilmente
circoscrivibile entro schemi di genere, rispetto a quello di altre
tragedie.
Chi è il protagonista dei Persiani? Questo si sono chiesti a più
riprese gli specialisti, e la risposta è stata tutt’altro che univoca. A
seconda della definizione che si è data del protagonista, sono state
indicate differenti proposte.
L’interpretazione più frequente ha insistito soprattutto sulla
funzione protagonistica del coro dei vecchi Fedeli, quale collettività
soggettiva sofferente nel dramma. A tal proposito, Perrotta ritiene che
la tragedia non possa essere intesa se non dal punto di vista del coro
che sarebbe il vero protagonista, infatti, la poesia dei Persiani, per lo

mano a mano che l’ordito si ricompone, si fa più fosco e minaccioso il presente.


Negli Spettri di Ibsen, via via che cadono i veli e procede l’acquisizione del
passato, la catastrofe diviene ineluttabile. Nei Persiani non succede a nessuno dei
personaggi niente di grave che non fosse successo già prima. Atossa e Dario
vengono semplicemente messi al corrente della sconfitta del figlio. Non c’è
nessuna indagine per giungere alla verità, non ci sono risultati di questa verità. Si
arriva a scoprire qualcosa di inimmaginabile, l’esercito e la flotta persiana sono
perduti; ma non c’è uno sforzo per conoscere come stanno le cose, niente cambia
per chi è in scena. Manca la ricerca assillante e macerante, l’orrore della
rivelazione per le conseguenze che comporta. Certo la tristezza grava su Atossa e
Dario, il dolore sommerge Serse e i suoi fedeli: ma il fatto tragico ha già esaurito
le sue possibilità, non è suscettibile, una volta appreso, di ulteriori sviluppi».

12
studioso, sarebbe essenzialmente «nelle ansie, nelle lagrime, nella
disperazione del popolo persiano»21.
È necessario, tuttavia, ricordare che alla funzione protagonistica dei
Fedeli del Gran Re si arriva spesso semplicemente per esclusione. È
stato più volte sottolineato, in effetti, come la centralità del coro sia
legata al fatto che esso è l’unica entità scenica che suscita “simpatia”,
essendo presente in tutte le fasi della tragedia22. Ma questo non è
sufficiente a farne il protagonista; il coro, infatti, subisce
passivamente in modo dolente gli eventi, non compie mai alcuna
azione o scelta che abbia il carattere di conflittualità drammatica, non
vi sono mai al suo interno – anche preso come pluralità soggettiva – la
scissione e la tensione dinamica necessarie allo sviluppo di un
conflitto tragico.
Non è mancato chi ha voluto vedere in Atossa – la Regina madre –
il personaggio principale della tragedia. Di Virgilio, per esempio, l’ha
sproporzionalmente elevata a protagonista assoluta, sostenendo che la
tragicità dell’opera sta nello scontro fra una volontà umana e

21
Cfr. G. Perrotta, op. cit., pgg. 55 e 64 – 66. Sulla dimensione protagonistica del
coro: Cfr. B. Snell, op. cit., pg. 81; J. E. Harry, Greek Tragedy, 1, New York
1933, pg. 114; M. V. Ghezzo, op. cit., pgg. 432; E. Howald, Die griechische
Tragödie, München 1930, pg. 60; P. Groeneboom, op. cit., pg. 18; G. Morani, M.
Morani, op. cit., pg. 12; G. Paduano, La nascita del mito tragico nei Persiani di
Eschilo, pg. 67, il quale, però, in op. cit.,1978, modificherà il proprio punto di
vista in modo interessante; ci torneremo in seguito.
22
Cfr. G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pgg. 86 – 87 il quale evidenzia che
«La posizione centrale del coro è sottolineata dal fatto che l’azione tragica sta […]
in un processo gnoseologico e chi attraversa tutte le fasi di questo processo è
precisamente e soltanto il coro». Prendendo per vero, per il momento, che questo
iter gnoseologico sia alla base dell’azione tragica (ma starà all’analisi darne
ragione), tuttavia, bisogna sottolineare che il coro “subisce” dolentemente questa
conoscenza che non deriva mai da lui; è sostanzialmente incapace da solo di
comprendere e dare risposte assolute, ruolo che infatti spetterà al defunto Dario.
Sulla cecità del coro cfr. R. Di Virgilio, op. cit., pgg. 18 – 19, del quale va
rifiutata, tuttavia, la definizione del coro come “intellettualmente inferiore” (pg.
18 – 19), o come “umanità inferiore” (pg. 70).

13
inesorabili volontà sovrumane da cui essa si difende. La volontà
umana sarebbe precisamente quella di Atossa; solo lei sarebbe capace
di scontrarsi con il fato che ha già decretato il triste destino di suo
figlio e del suo popolo, cercando di comprendere gli avvenimenti:

«la sua tragedia è quella di una intelligenza superiore


che però, in quanto umana, può comprendere solo in parte
il senso dei messaggi divini, e cerca aiuto nell’intelligenza
di altri, i quali invece non possono aiutarla perché
intellettualmente inferiori, e la illuminano solo di riflesso,
come cechi interpreti della parola divina, che scava ed apre
brecce nell’animo di Atossa, accrescendone
progressivamente l’inquietudine, fino al momento
culminante della catastrofe, in cui ella interpreta a ritroso i
segni divini che l’hanno visitata e grida la sua
disperazione, che si risolve in una nuova decisione, cioè in
un nuovo e tragicissimo atto di speranza disperata
(l’evocazione di Dario)»23.

Una lettura della tragedia eschilea e della sua dimensione


protagonistica che a noi è parsa stridente, quasi una petizione di
principio. Nonostante Atossa sia figura di spicco nella struttura della
tragedia – è l’unica, infatti, che letteralmente “agisce” sulla scena,
compiendo il rito necessario all’evocazione dell’Ombra – anche la sua
azione, come quella del coro, non ha carattere di conflittualità, non ha
la funzione di generare il “conflitto drammatico” su cui dovrebbe
posare l’opera. La Regina, inoltre, è incapace di comprendere tanto
23
R. Di Virgilio, op. cit., passim, soprattutto pgg. 17 – 19 e 70.

14
quanto lo è il Coro, ed entrambi saranno illuminati prima dalle notizie
portate dal Messaggero e dopo, in senso più profondo, dalle parole
chiarificatrici di Dario a cui spetta mostrare il significato profondo
degli eventi occorsi24.
Altri hanno visto, invece, in Serse il protagonista25. Secondo
Broadhead:
«if external action is largely wanting, and necessarily
so, we are conscious, nevertheless, right from the
beginning of the drama, that Xerxes is the actor behind the
scenes. His responsibility for the great expedition lies
behind the impressive descriptions of the párodoj».

Serse, inoltre, è la figura principale nel sogno di Atossa, nel quale


gli eventi futuri sembrano proiettare in avanti la loro ombra. La sua
determinazione ad avere vendetta su Atene è posta già ai versi 233
sgg. e poi in 474 – 476. La sua disastrosa scelta di accettare come vera
la comunicazione del messaggero greco (vv. 361 sgg.), unita alla sua
ignoranza circa ciò che gli dèi hanno in serbo per lui (v. 373), risulta
essere la causa contingente del disastro (Cfr. vv. 473 – 474). Nei versi
550 sgg., il coro incolpa Serse della desolazione di un intero
continente. Il dialogo della scena dell’ombra è imperniato sul Gran Re
e sulla sua follia.

24
Cfr. AA. VV., La letteratura greca della Cambridge University, Milano 2007,
pg. 509.
25
Cfr. F. Sartori, op. cit., pg. 779; A. J. Podlecki, The Political Background of
Aeschylean Tragedy, Ann Arbor 1966, pg. 8; M. Centanni, Eschilo. I Persiani, pg.
21 – 24; U. Albini, op. cit., pg. 260.

15
«When Xerxes at length appears in person we are
simply seeing with the physical a figure that all along has
been present to the mental vision. By the Greek audience
at least his appearance must have been felt as a real climax
to which each scene had contributed its particular
momentum»26

Secondo Paduano, al contrario, «vedere in Serse il protagonista


costituisce palese violenza, oltre che alla semantica globale del
dramma, alla concreta esperienza che riserva al monarca un ruolo
limitato al finale, luogo di ripiegamento e di risoluzione del conflitto,
e lo esilia, condannandolo al silenzio, nei punti veramente cruciali. Il
concetto di protagonista in absentia non rientra nella tradizione
teatrale greca»27. Per Paduano, la funzione generativa del vero
conflitto drammatico risiede in una dinamica collettiva che comprende
il coro, Atossa, Dario e Serse. I Persiani, tutti, sono i veri protagonisti
della tragedia, «protagonista è la nazione sconfitta attraverso tutti i
suoi rappresentanti che volta a volta si avvicendano sulla scena»28.
Tuttavia, vedere nei Persiani – intesi come unità organica
all’interno della quale si dipanano le scissioni e le tensioni necessarie
allo sviluppo del conflitto – la dimensione protagonistica non è tanto
meno antitradizionale nei confronti della tragedia greca, di quanto non
lo sia l’idea di un protagonista in absentia. Questa non è critica valida
per esiliare la figura di Serse.

26
Cfr. H.D. Broadhead, op. cit., pg. XXXIV.
27
Cfr. G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pg. 87
28
Ivi, pg. 88.

16
Inoltre, bisogna sottolineare che Serse, nonostante la sua lunga
assenza dalla scena, difficilmente può essere considerato semplice
comparsa; se il conflitto drammatico (più avanti cercheremo di
individuare i suoi termini) si genera da una scelta, da un errore o da
una colpa del protagonista (unitamente a una volontà ultraterrena),
non vi è dubbio che nella tragedia Persiani questa scelta sia la
spedizione contro la Grecia, con tutte le azioni colpevoli che essa
genera, e non vi è dubbio che questa sia compiuta unicamente da
Serse. Certo la sua colpa (che nella tragedia non è mai volontà
individuale) ha delle attenuanti (l’inganno di un dio, che gli ha
offuscato la mente29, la giovane età che lo rende troppo audace e
irriflessivo30), alcune delle quali da ricercare in dinamiche imperiali e
persiane31. Tale constatazione non diminuisce in nulla il fatto che la

29
Pers. vv. 724 – 725.
30
Pers. vv. 739 – 752.
31
Si mette in evidenza, ad esempio, l’idea che Serse sia stato mal consigliato da
compagnie inette che con le loro parole generavano frustrazione; «il riferimento si
appunta non solo sui parassiti del re in generale, ma certo anche su Mardonio
(Hdt. VII 5; VIII 99), e probabilmente pure sugli Aleuadi, sui Pisistratidi e su
Onomacrito (Hdt. VII 6); come un’eco di questo passo suonano le parole
ammonitrici di Artabano a Serse in Erodoto VII 16, 1: «le frequentazioni di
uomini malvagi ti rovinano» (P. Groeneboom, op. cit., 2, pg. 159). Serse – che per
mancanza di coraggio faceva le sue guerre in camera senza accrescere di un’inezia
la grandezza del padre – non avrebbe incrementato l’eccellenza e la gloria
dell’Impero rispetto ai suoi predecessori (vv. 753 – 758); la concezione della
frustrazione per la mancata conquista sarà un topos della storiografia erodotea, e
non solo per quanto riguarda la caratterizzazione di Serse.
È, infatti, interessante notare che essa appare anche nella definizione erodotea
della figura di Dario. L’ansia di conquista è espressa dalle parole di Atossa verso
il suo sposo: “O re, tu che hai una potenza così grande, rimani inoperoso: non
acquisti ai Persiani nessun popolo e nessun potere. È bene invece che un uomo
giovane e padrone di grandi ricchezze si segnali mostrando qualche impresa,
affinché anche i Persiani sappiano che sono governati da un uomo. Ti conviene
agire così per due motivi: sia perché i Persiani sappiano che è un uomo a
governarli, sia perché la guerra li logori ed essi, rimanendo oziosi, non comincino
a complottare contro di te” (III 134). Per bocca di Atossa viene esposta la
concezione secondo la quale la virilità di un re si manifesta con le sue imprese

17
hybris di Serse sia la funzione generativa del conflitto drammatico,
che si articola ed è leggibile da diverse angolature, in un sovrapporsi,
sempre coerente e ben delineato, di stratificazioni di senso.
Per altri versi, come dicevamo, altrettanto problematica è stata per
la critica la ricerca dello specifico del tragico nel dramma eschileo;
ricerca che si è delineata come una delle più importanti tematiche che
hanno riguardato le letture scientifiche e i dibattiti sulla tragedia
Persiani. Difficile e controverso è stato, dunque, il tentativo fatto
dagli specialisti per riconoscere il centro entro il quale si focalizza la
tragedia, per identificare ciò che solitamente si usa connotare come
“Conflitto Tragico” 32 o semplicemente il “Tragico”. Numerose e per

belliche, che ogni re persiano ha il dovere di estendere i confini dell’impero e che


l’inattività del popolo costituisce un pericolo per il sovrano. È implicito nelle sue
parole il confronto con Ciro e Cambise.
Non dobbiamo, a questo proposito, dimenticare che l’idea della guerra di
conquista per l’edificazione di un impero universale è storicamente appartenuta
alla regalità persiana. (Cfr. M. Liverani, Dal villaggio all’impero, Torino 1995,
pg. 283). Essa sarà ancora più esplicita nel Serse erodoteo, che aspirerà a che la
Persia abbia come solo confine l’etere di Zeus.
32
Una frase di Goethe delinea il quadro entro il quale va ricercata l’essenza del
tragico: «Ogni tragicità è fondata su un conflitto inconciliabile. Se interviene o
diventa possibile una conciliazione, il tragico scompare». Come è ben noto, la
Tragedia si fonda sempre su un’antinomia che non trova soluzione, uno scontro di
opposte ragioni, diritti e valori che si pongono come assoluti e inconciliabili
presupposti di una scelta che non consce compromessi: la tragedia contrappone
díke contro díke, nómos contro nómos; ogni personaggio può avere ragione
rispetto al proprio univoco punto di vista, o può avere torto rispetto all’univoco
punto di vista dell’antagonista: Antigone e Creonte, tanto per fare un esempio dai
testi, possono ben appellarsi entrambi al nómos, esso nell’un caso e nell’altro non
coincide con le leggi della polis democratica; è nómos la legge a cui si appella
Antigone, la legge “non scritta” che impone di seppellire il fratello morto, è
nómos anche la legge di Creonte, ma una legge “tirannica”. Lo spettatore ateniese
non può che apprezzare, per contrasto, il codice democratico capace di creare un
perfetto equilibrio tra ambito politico e sfera dei bisogni e dei diritti privati. La
ragione non è di nessuna delle parti e, dunque, questo determina il conflitto
tragico. Cfr. L. Todarello Nazzareno, Le arti della scena. Lo spettacolo in
Occidente da Eschilo al trionfo dell'opera, Novi Ligure 2006, pg. 35. Cfr.
sull’argomento le precisazioni di G. Paduano(Sui Persiani di Eschilo, pgg. 10 –
12): “Essendo fuori di dubbio che il dramma si fonda comunque su un conflitto,

18
nulla univoche sono state le proposte avanzate per interpretare il
dramma: alcune hanno messo in risalto il “patriottismo” della
tragedia, riconoscendo come punto nodale il conflitto tra i Greci e i
loro nemici per antonomasia, i barbari Persiani, ravvisando
sostanzialmente nell’opera una sorta di elogio, di lode e di esaltazione
per la vittoria ottenuta33.

altrettanto indubitabile è che si tratta di un conflitto interno al codice teatrale,


disposto e compiuto tra i fattori dell’organismo scenico: la sintassi drammaturgica
lo legge e lo scopre tra le pieghe della realtà rappresentata, che viene così assunta
nel suo aspetto idiosincratico (è questa l’esperienza, per definizione eccezionale,
dell’eroe tragico). Se invece l’azione ricalca un conflitto presente in re (diciamo
meglio, con formula hjemsleviana, nella materia del contenuto), viene a mancare
l’aspetto precipuo della dimensione teatrale in quanto essa ha di creativo”, il che
porta Paduano a escludere che la guerra greco – persiana possa essere il “conflitto
tragico” alla base dei Persiani e, di conseguenza, a rifiutare che l’intento
encomiastico, propagandistico e patriottico possa essere il centro focale del
dramma. Per lo studioso, il vero conflitto non si svolge tra Greci e Barbari, ma
impegna uno spostamento di localizzazione, per cui i dati dell’antitesi sono tutti
da una sola parte, che è quella persiana, implicando la svalutazione del fatto
militare in quanto tale.
33
Cfr. sull’argomento la discussione portata da G. Paduano (Sui Persiani di
Eschilo, pgg. 9 – 29), il quale delinea lucidamente il quadro drammatico entro il
quale si dipana la tragedia; il punto focale dei Persiani, come detto, non è
rintracciabile nel “conflitto” – nel senso di “conflitto tragico” – che oppone Greci
e Barbari, il conflitto è piuttosto tutto interno alle dinamiche persiane, come
rappresentate sulla scena da Eschilo: in tal senso, il patriottismo, ove
rintracciabile, risulterebbe del tutto accessorio. Cfr. anche AA. VV., La
letteratura greca della Cambridge University, Milano 2007, pg. 508. Che
l’orizzonte nazionalistico e l’intento celebrativo siano i propulsori della tragedia è
chiaramente espresso, invece, da: J. Geffcken, Die griechische Tragödie, Leipzig
1911, pg. 29; D. Craig, op. cit., pg. 98 sgg.; M. Croiset, op. cit., pg. 99; M. Patin,
Études sur les Tragiques Grecs, 1, Eschyle, Amsterdam 1969, pg. 210; M.
Pohlenz, La tragedia greca, pg. 75 sgg.; G. Murray, op. cit., pg. 115 – 121; Ph.
W. Harsh, op. cit., pg. 46 – 47; M. H. Finley, op. cit., pg. 217; P. Groeneboom,
op. cit., 1, pg. 16; R. Lattimore, Aeschylus and the Defeat of Xerxes, in Classical
Studies in Honor of William A. Oldfather, Urbana 1943, pgg. 82 – 93; Idem, The
Poetry of Greek Tragedy, pgg. 30 – 39; L. Roussel, op. cit., passim; H. C. Avery,
Dramatic Devices in Aeschylus’ Persians, AJPh 85, 1964, pgg. 173 – 184, in
particolare pg. 173; A. J. Podlecki, op. cit., pg. 9 sgg.
Altri, pur non abbandonando del tutto il modello che vede nei Persiani un intento
encomiastico e patriottico, manifestano l’idea che l’intenzione celebrativa non sia
il centro focale del dramma: Cfr. M. V. Ghezzo, op. cit., pg. 428; Q. Cataudella,
op. cit., pg. 43; U. Albini, op. cit., pg. 252; H. Weir Smyth, op. cit., pg. 67 sgg.; J.

19
Che sia considerata in tutto o in parte, poco o molto patriottica,
l’intento encomiastico dell’autore è communis opinio interpretativa
che percorre trasversalmente tutta la storia degli studi sui Persiani,
anche dove detta idea non è altro che una nota a margine. Questa
visione nasce dal privilegiare il rapporto tra la dimensione storica
della tragedia e l’esperienza di Eschilo che, poeta-combattente, non
può aver dimenticato la propria grecità34. Alcuni specialisti, infatti,
hanno posto l’attenzione sul tragediografo di Eleusi come testimone
della battaglia di Salamina; Eschilo – poeta, cittadino, soldato – nei
Persiani riprenderebbe o “correggerebbe” il tema trattato già da
Frinico35.

De Romilly, Eschyle, pg. 12; D. J. Conacher, op. cit., pg. 145 sgg; M. Centanni,
Eschilo. I Persiani, pgg. 15 – 16: «Certo c’è, nel discorso del Messaggero
soprattutto, ma anche prima nelle risposte del coro agli interrogativi della Regina
sulla Grecia (“Chi è il loro signore?”, “Si gloriano di non essere schiavi di nessun
uomo, a nessun uomo sono sudditi” vv. 241 - 242) un innegabile compiacimento
per il modello di statuto politico che gli Elleni – gli Ateniesi – incarnano: ma resta
un elemento di arricchimento del quadro, un rapido sguardo sul risvolto della
rappresentazione, sul compresente rovescio della medaglia: un dirsi, sommesso
quasi e pudico, “se i Persiani hanno perso, i Greci hanno vinto: e i Greci siamo noi
liberi e valorosi”. Ma non è certo questo il dato che viene posto al centro del
problema del dramma: la tragedia resta tutta giocata all’interno del campo
persiano, lontano, in uno sconosciuto altrove e a incolmabile distanza da “questa
nostra polis”»; vedi anche pg. 17 – 18.
34
Buone riflessioni in proposito sono espresse da G. Paduano, Sui Persiani di
Eschilo, pgg. 15-17: «Ma quanto questa osservazione è ovvia se vuol dire che
naturalmente Eschilo conserva l’ideologia ionico-attica maturata attraverso le
grandi stagioni del pensiero esiodeo e solonico, nonché quel tipo di
condizionamento storico che è necessario presupporre per la formazione di
qualsiasi opera d’arte, altrettanto è falsa se vuol dire che la grecità presente sia
assunta come determinazione oppositiva in senso forte, che organizza nell’opera
una sorta di riflesso e di proseguimento dello scontro militare, se insomma
l’essere greco viene visto come equivalente di nemico vincitore. La presenza
tematica di questo concetto viene individuata nell’opera solo a prezzo di arbitri
esegetici stridenti, tra la tautologia e la petizione di principio».
35
Cfr. G. Nenci, Per una interpretazione storiografica del proemio dei
«Persiani», PP 5, 1950, pgg. 215 – 223; G. Salanitro, Il pensiero politico di
Eschilo nei Persiani, GIF 18, 1965, pgg. 193 – 235, in particolare pgg. 217 – 226;

20
Per G. Murray36, i Persiani fu solo una di una serie di celebrazioni
patriottiche che si svolsero negli anni settanta del V secolo a.C., allo
stesso tempo tuttavia, egli riconobbe ad essa, come abbiamo già
accennato, la dignità della tragedia, di una buona tragedia. Egli si
sforzò di conciliare queste due opinioni – lo scopo di celebrare la
vittoria nazionale, «one of the very worst fields for good poetry», con
l’alta valutazione della poesia espressa dalla tragedia in questione –
con risultati non convincenti. Negli anni sessanta del novecento,
l’introduzione all’edizione dei Persiani curata da Broadhead presentò
argomenti efficaci contro la teoria della celebrazione patriottica e, più
in generale, contro la tesi dell’intento puramente encomiastico del
tragediografo. E questo sembrò aver liquidato il problema. Invece,
negli anni ottanta e novanta, in concomitanza con l’emergere di più
complessi e sofisticati approcci al problema della relazione tra
tragedia e polis democratica ateniese del V secolo, la discussione fu
riaperta e assunse una diversa qualità. A tal proposito, particolarmente
interessante e ricca di sviluppi fu l’opera di Hall, Inventing the
Barbarian37, nella quale l’autrice tenta di dimostrare che la tragedia i
Persiani «which celebrates the victories over Persia, is the earliest
testimony to the absolute polarization in Greek thought of Hellene and
barbarian, which had emerged at some point in response to the
increasing threat posed to the Greek-speaking world by the immense
Persian empire»38. In altre parole, la tragedia di Eschilo rappresenta il
principio di quel processo attraverso il quale gli Ateniesi impararono a

F. Stoessl, Die Phoinissen des Phrynichos und die Perser des Aischylos, MH 2,
1945, pgg. 148 – 165.
36
Cfr. G. Murray, op. cit., pgg. 115 sgg.
37
E. Hall, Inventing the Barbarian, Oxford 1989, passim.
38
Ivi, pg. 57.

21
definire se stessi in contrapposizione alla collettività barbarica,
all’“altro”: la democrazia ateniese in contrasto con il dispotismo
persiano, la libertà dell’uomo greco in contrasto con la condizione di
suddito del Persiano, il lusso e la rilassatezza dei costumi persiani
paragonati a quelli greci, ecc39. Non vi è dubbio che l’approccio della
Hall al concetto di “barbaro” sia costruito su solide basi e che ella
abbia dato un resoconto accurato delle differenze tra Persiani e Greci
così come Eschilo le ha presentate sulla scena, ma ci sia permesso di
dubitare che tutto questo rappresenti il senso profondo della tragedia,
ovvero l’intento precipuo del tragediografo. Né giustifica che la
tragedia avesse un solo intento, quello celebrativo. Che vi siano delle
“pennellate di patriottismo” è sicuramente vero, ma la questione da
verificare è se sia quel patriottismo ad orientare l’intero dramma;
questi elementi dovrebbero essere valutati all’interno dell’economia
del dramma e non soltanto in riferimento ad eventi politici esterni.
A tutto questo, inoltre, si collega il motivo della propaganda
filoellenica e, in particolare, ateniese; non è mancato chi, tra gli
studiosi, abbia tentato di riconoscere nel dramma eschileo un preciso
impegno politico, nel senso più moderno del termine: la tragedia
greca, piuttosto, è “politica” poiché rappresenta una parte importante
della vita della polis e in essa, nelle sue istituzioni, nella sua
tradizione, trova i propri peculiari referenti. Che la tragedia miri a, e
abbia come scopo ultimo quello di influenzare le valutazioni e i
giudizi del pubblico dei cittadini su specifici eventi politici

39
Già prima di E. Hall, S. Goldhill (Reading Greek Tragedy, Cambridge 1986,
pg. 60) aveva scritto: «Within the polarization common to Greek cultural thinking
many customs and habits which are the reverse of the male Athenian norm are
widely predicated of barbarian behaviour, including rule by women, general
effeminacy, and all manner of degenerate attitudes».

22
contemporanei, sia pure attraverso messaggi indiretti, risulta
difficilmente comprovabile40. Comunque, secondo l’interpretazione
tradizionale più diffusa, Eschilo nei Persiani avrebbe voluto esaltare
la linea politica filotemistoclea, attraverso il racconto della battaglia di
Salamina, gloria di Temistocle41.
Al contrario, G. Salanitro ha sostenuto che il tragediografo,
opponendosi nei Persiani al programma democratico di Temistocle,
esprimerebbe, da una parte, la sua simpatia per gli Spartani e,
dall’altra, per Aristide, al quale testimonierebbe una fiducia granitica.
Questo atteggiamento, a detta dello studioso, sarebbe reso evidente
dalla grande importanza attribuita alla famosa vicenda dell’isola di
Psittalea42 in cui Aristide, con un manipolo di opliti ateniesi, massacrò
i Persiani che lì si erano accampati ancor prima, per uccidere i reduci
greci, se fosse avvenuta la “sperata” vittoria del Gran Re43.

40
Cfr. A. F. Garvie, op. cit., pg. XVII.
41
Gli studiosi hanno messo in evidenza come ai vv. 353 – 360 ci sia un chiaro
riferimento al tranello di Temistocle, il quale ingannò Serse, ingaggiando battaglia
nello stretto tra Salamina e la terraferma. Questa enfasi posta sul ruolo di
Temistocle nella vittoria è sembrata essere una prova del consenso di Eschilo alla
politica dello statista e, in particolare, alla sua volontà di creare una flotta
Ateniese. Cfr. sull’argomento, E. Degani, Democrazia ateniese e sviluppo del
dramma attico, in Storia e civiltà dei Greci, 2, 3, La Grecia nell’età di Pericle.
Storia, letteratura, filosofia, Milano 1979, pgg. 258 – 280, in particolare pgg. 259
– 264; A. J. Podlecki, op. cit., pgg. 8 – 26; F. Stoessl, Aeschylus as a Political
Thinker, AJPh 73, 1952, pgg. 113 – 139; M. Gagarin, Aeschylean Drama,
Berkeley – Los Angeles – London 1976, pgg. 34 – 35; G. Burzacchini, Note sui
Persiani di Eschilo, «Dioniso» 51, 1980, pgg. 133 – 155, in particolare pgg. 139 –
140; A. H. Sommerstein, Aeschylean Tragedy, Bari 1996, pgg. 410 – 413.
42
Cfr. Hdt. VIII 95. Sulla collocazione delle truppe persiane, cfr. Hdt. VIII, 76.
Sull’identificazione dell’isola (Lipsokontàli o St. George), cfr. H. D. Broadhead,
op. cit., pgg. 331 – 333.
43
G. Salanitro, op. cit., pgg. 193 – 235. Per lo Studioso, inoltre, Eschilo avrebbe
opposto la sua opera a quella di Frinico, le Fenicie, che invece possiederebbe un
carattere filotemistocleo. Cfr., inoltre, G. Pompella, L’impegno di Eschilo nei
Persiani, «Vichiana» 3, 1974, pgg. 3 – 23. Secondo Pompella, Eschilo, con la
menzione dei Dori ai vv. 183 e 817, farebbe un chiaro elogio di Sparta. Il Poeta
non approverebbe, dunque, il programma antispartano di Temistocle.

23
C’è chi ha ritenuto di escludere un impegno politico verso alcuno
dei personaggi citati44. Ad esempio Martelli, nell’indagare il legame
tra teatro e politica nell’Atene classica, propone una rilettura dei
Persiani, con l’intento di analizzare, in particolare, il rapporto tra
Eschilo, Aristide e Temistocle sulla base di altre testimonianze
storiche e letterarie. Come ci ricorda la studiosa, secondo
l’interpretazione tradizionale, la descrizione della vittoria di Salamina
rifletterebbe una presa di posizione da parte di Eschilo verso
Temistocle, tuttavia nota ancora la studiosa, nei Persiani all’episodio
di Salamina si affianca anche quello di Psittalea: così, un episodio
apparentemente secondario delle guerre persiane sembrerebbe
assumere un rilievo particolare. Martelli si chiede, allora, se Eschilo
volesse esaltare Aristide, diminuendo la gloria di Temistocle. Con tale
metodo di ragionamento, a detta della studiosa, si corre il rischio di
ridurre la storia a binomi, con la tradizionale opposizione di Aristide a
Temistocle, di Cimone a Pericle ecc. Piuttosto, Salamina e Psittalea,
per mare e per terra, si potrebbero inserire in un’altra prospettiva. Al
di là della simpatia di Eschilo per Temistocle o per Aristide, nei
Persiani si celebrerebbe la concordia dell’Atene democratica:
Salamina e Psittalea consacrerebbero la libertà della Grecia 45.
Secondo altre proposte, invece, nelle intenzioni di Eschilo è letta la
celebrazione del dolore, delle sofferenze dei vinti, dunque la volontà
di porre al centro del dramma il motivo della sconfitta persiana –
considerata talvolta parallelamente e simultaneamente al tema della
vittoria ateniese e dell’auto-glorificazione patriottica. La

44
Cfr., ad esempio, F. Sartori, op. cit., pgg. 771 – 797.
45
M. F. A. Martelli, Salamina e Psittalea: teatro e storia a confronto, in
«Stratagemmi: prospettive teatrali» 7, 2008, pgg. 1-24.

24
considerazione per cui tutti i personaggi sono Persiani e
l’ambientazione è in terra persiana, precisamente presso la reggia di
Susa, ha fatto notare ad alcuni studiosi che il dolore è tutto barbaro 46.
Molti hanno voluto vedere nei Persiani un’affermazione di
fratellanza che unisce vinti e vincitori nel medesimo assoggettamento
al dolore, sostenendo che il punto di unione di tutta la tragedia sia
nella morale presente nelle parole di Dario – latore della filosofia del
poeta stesso – vale a dire che il vivere secondo giustizia è norma
universale valida per tutti i popoli47: un tentativo di comprendere la
mentalità degli altri, dei vinti – i Bárbaroi senza alcuna sfumatura
negativa48. Altri ancora ritengono che fosse volontà di Eschilo
mostrare alla propria città, attraverso il dolore degli sconfitti, dove
potessero condurre ambizioni inappagabili – l’appunto riguarda
principalmente l’imperialismo basato sul potere marittimo – foriere di
decisioni prive di “saggezza” e “misura”, in violazione di ben
determinate norme religiose49.

46
Più di un interprete ha sostenuto che i Persiani è tragedia del dolore degli
sconfitti: Cfr. G. Perrotta, op. cit., pgg. 55 e 64 – 66; Cfr. B. Snell, op. cit., pg. 82;
J. De Romilly, L’évolution du pathétique d’Eschyle a Euripide, Paris 1961, pgg.
73 sgg.; J. Geffcken, op. cit., pg 30; U. Albini, op. cit., pg. 257 e in particolare pg.
259: «La grande abilità di Eschilo consiste nell’aver presentato lo
sconvolgimento, la pena, il dolore degli avversari, con diversità di sfumature, a
tutti i livelli, sotto tutti i punti di vista».
47
Cfr. ad esempio M. V. Ghezzo, op. cit., pgg. 427 – 448; H. D. Broadhead, op.
cit., pgg. XVI e XXIX; M. Centanni, Eschilo. I Persiani: «Non c’è “nemico” e il
pólemos è radicale perché è in componibile scontro con il nostro stesso errore.
[…] Eschilo chiama il suo pubblico – i combattenti di Maratona, di Salamina, di
Platea – a riconoscersi nel caso del nemico. […] “Greci contro Barbari” non può
essere materia di tragica antinomia: in scena i Persiani contro se stessi e il loro
destino dicono la tragedia di tutti. […] (La tragedia) mette in scena il dolore di
Serse e riconosce in quel pianto l’accento di una sofferenza universale, il timbro
dell’umano» (pgg. 6 – 8).
48
Cfr. G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pg. 21 – 23.
49
Cfr. ad esempio M. Gagarin, op. cit., pgg. 29 – 56: nonostante giudichi la
tragedia in parte una celebrazione patriottica, trova in essa un avvertimento

25
Una tale pluralità di opinioni porta a pensare, alla fin fine, che il
proposito precipuo della tragedia in questione non sia quello di
veicolare un così evidente messaggio politico.

***

Solitamente, chi ha rifiutato l’idea che i Persiani sia una


celebrazione patriottica e chi ha ridimensionato l’intento politico o
encomiastico del tragediografo, ha dato molto risalto, invece, alla
tematica etico – religiosa, talvolta anche come centro focale
dell’intero dramma. Proprio la centralità indiscussa della problematica
etico – religiosa è luogo comune della critica sui Persiani50: il motivo

implicito contro il proposito di estendere troppo il potere della Lega Delio-Attica.


Al contrario, per V. Di Benedetto (L’ideologia del potere e la tragedia greca,
Torino 1978, pgg. 31 – 37), il fatto che la lezione proposta da Dario rimanga
inascoltata (l’ombra di Dario metterebbe maggiormente in evidenza la
responsabilità personale di fronte agli eventi e la necessità di contentarsi
consapevolmente di ciò che si ha, mentre nel resto della tragedia sembrerebbe
prevalere l’idea della totale dipendenza dell’uomo dalla divinità), è prova evidente
del sostegno ideologico del Poeta alla politica imperialistica, vale a dire: se sono
stati gli dèi a volere il crollo della potenza persiana, sono gli stessi dèi a volere il
grande successo degli ateniesi. Per F. Stoessl (Aeschylus as a Political Thinker,
pg. 120) il messaggio che la tragedia vuole veicolare è che la politica estera
ateniese dovrebbe essere limitata all’Europa.
50
Cfr. D. J. Conacher, op. cit., pgg. 143 – 168; U. Bianchi, La religione greca,
pgg. 112 – 114; Q. Cataudella, op. cit., pgg. 43 sgg.; B. Lavagnini, op. cit., pg.
296; R. Cantarella, Eschilo, «Dioniso» 21, 1958, pgg. 6 – 16, in particolare pg. 8;
G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pgg. 33 – 34; G. Paduano, La nascita del
mito tragico nei Persiani di Eschilo, pgg. 52 – 54; M. V. Ghezzo, op. cit., pg. 426;
H. D. Broadhead, op. cit., pgg. XXIII - XLVIII; G. Murray, op. cit., pgg. 120 e
125 sgg.; J. De Romilly, Eschyle, pg. 17 ; M. Croiset, op. cit., pg. 96; F. Stoessl,
Die Phoinissen des Phrynichos und die Perser des Aischylos, MH 2, 1945, pgg.
148 – 165, in particolare pgg. 162 sgg.; E. T. Owen, op. cit., pg. 21; H. Weir
Smyth, op. cit., pg. 67; F. Ferrari (a cura di), Eschilo. Persiani, Sette contro Tebe,
Supplici, Milano 1997, pg. 32 – 34; M. Centanni, Eschilo. I Persiani, pg. 16;
anche M. Centanni (a cura di), Eschilo. Le tragedie, Milano 2007, pg. 8; L.
Belloni, L’ombra di Dario nei Persiani di Eschilo. La regalità degli Achemenidi e
il pubblico di Atene, «Orpheus» 3, 1982, pgg. 185 – 199, in particolare pgg. 192 –

26
centrale dibattuto dagli specialisti è rappresentato dalla violazione di
una norma divina e dalla conseguente punizione della hybris – la
tracotanza, la trasgressione dei limiti che la divinità ha imposto agli
uomini51. L’idea che ha orientato molti studiosi è che il proposito del
tragediografo sarebbe stato quello di insegnare al proprio pubblico,
attraverso un precetto etico, ad essere persone moralmente migliori.
Questo assioma è dato per scontato, per esempio, da Broadhead, il
quale spiega le supposte anomalie nella costruzione della tragedia
come il risultato della volontà di Eschilo «of illustrating the moral
lesson that forms the spiritual core of the drama»52.
Nel caso dei Persiani, dunque, la hybris è quella di Serse, il sovrano
che ha ordinato la spedizione contro la Grecia53, che ha creduto di

193; F. Sartori op. cit., pgg. 771 – 797; V. Di Benedetto, op. cit., passim; L.
Marchetta, Lettura storico – religiosa dei Persiani di Eschilo per gli studenti di
una scuola secondaria, «Aufidus» 17, 1992, pgg. 131 – 141; G. Morani, M.
Morani, op. cit., pgg. 13 sgg.
51
Cfr. A. Jellamo, Il cammino di Dike. L'idea di giustizia da Omero a Eschilo,
Roma 2005, pg. XII: l’autrice sottolinea che l’etimologia di hybris rimanda a un
“eccesso di forza”, possiede, infatti, la stessa radice bri- di briaros (forte, solido),
mentre il prefisso hy equivale a epi (di sopra, su). Hybris conserva dunque un
senso dell’“eccesso”, riguarda sempre un atteggiamento di dismisura, essa è la
violazione del limite che circoscrive le possibilità umane. Limite che segna
l’inesorabile distanza tra umano e divino: hybris è la tracotanza nei confronti degli
dèi, ne è colpevole chi dimentica i limiti della natura umana e la precarietà della
propria condizione. Sul concetto di hybris confronta in generale C. Del Grande,
Hybris, Napoli 1947; L. Gernet, Recherches sur le développement de la pensée
juridique et morale en Grèce, Paris 1917; per la hybris quale carattere essenziale
dell’eroe greco, cfr. A. Brelich, Gli eroi greci. Un problema storico-religioso,
Roma 1958, passim.
52
Cfr. H. D. Broadhead, op. cit., pg. XL. Per Broadhead la tragedia sarebbe potuta
finire già al verso 597; la prima metà dell’opera, infatti, sarebbe una unità
compatta e, dal punto di vista strutturale, senza sbavature. Ma, sebbene superiore
per quanto riguarda la struttura, continua lo studioso, un tale dramma sarebbe
stato deficitario di contenuti morali e sarebbe potuto apparire al proprio pubblico
più una mera celebrazione della vittoria nazionale, che non una presentazione
della tragedia dei Persiani. Da qui la necessità di una tela più ampia che
comprendesse la scena dell’Ombra di Dario (Ivi, pg. XXXVI).
53
Cfr. vv. 757 – 758.

27
poter far schiavo il sacro Ellesponto54, che, con il suo esercito, ha
devastato i templi di Atene55 e che ha osato andar contro la Moira che
fin dai tempi più antichi imponeva al Persiano di essere impero
continentale56.
L’interpretazione tradizionale vede, solitamente, in tutto questo un
messaggio di stampo etico – didattico (la hybris è una azione negativa
ed è sempre punita57) che ha i connotati dell’universale. Scrive
Cantarella: «In questa tragedia, in cui la vittoria è celebrata senza
orgoglio ma come la ricompensa degli dèi per la religiosità degli
Elleni, e la sconfitta dei Persiani è la punizione, anch’essa divina,
della «hybris» nemica che ha violato pur anche il divino ordine della
natura: in questa tragedia in cui il destino del nemico vinto è guardato
con una profonda comprensione delle alterne vicende umane,
l’interpretazione del fatto contingente si amplia nella scoperta58 di una
eterna legge morale»59.
Tuttavia, bisogna sottolineare che, se la questione è posta in termini
così generici, Eschilo resta sicuramente aderente alla cultura greca
tradizionale, la quale conosce sin dai tempi più antichi la concezione
della punizione divina per la tracotanza e non vi è, rispetto alla
tradizione, nessuna “scoperta”: per altri studiosi l’innovazione,
piuttosto, è rintracciabile nel modo in cui Eschilo problematizza, nei
Persiani ma non solo, la relazione tra la qualità dell’intervento divino
nelle faccende umane e l’agire dell’uomo stesso. In altre parole,
54
Cfr. v. 745.
55
Cfr. vv. 809 – 812.
56
Cfr. vv. 101 – 114.
57
Cfr. E. Hall, op. cit., pg. 70: «This moral lesson – destruction attends upon
hubris – informs the whole play. […] the illustration of the moral truth described
above is an essential element in Persae».
58
Corsivo nostro.
59
R. Cantarella, op. cit., pg. 8.

28
l’intenzione di Eschilo andrebbe oltre la semplice constatazione
dell’esistenza di una legge divina universalmente valida e che si
palesa attraverso l’identificazione di eventi legati da causa ed effetto,
nella serie: inganno divino / hybris di Serse / annientamento
dell’esercito / rovina di Serse e dell’Impero / apprendimento di una
norma di saggezza e di moderazione universale.

Sulla stessa linea, Paduano sostiene che una lettura


razionale delle vicende, che riconosca le cause della rovina
nella 0brij conseguente ad una \th, sia rintracciabile
senza dubbio «nell’episodio illuminante di Dario, dove
viene raggiunta una certezza etico – religiosa»60.

Rispetto a quanto detto da Paduano e, ancor prima, da Broadhead,


bisogna sottolineare, però, quanto sia pericoloso accettare la
prospettiva che il messaggio di una tragedia possa essere incapsulato
in un singolo discorso di un unico personaggio; la valutazione deve
essere effettuata sull’intera opera e l’impressione è che Eschilo non
voglia raggiungere alcuna certezza, ma piuttosto sollevare problemi.
In tempi più recenti, è sorta una prospettiva più sofisticata, che
individua nel rapporto tra l’ineluttabilità del destino che emana dal
divino e la responsabilità umana, una delle principali problematiche
che dominano l’intera tragedia dei Persiani (ma anche l’intera opera
drammatica di Eschilo).
Nella definizione del cosmo religioso eschileo, gli studiosi hanno
sempre oscillato tra chi vedeva alla base dell’intervento divino nella
sfera umana il ben noto fqónoj qeÏn, il concetto per cui la divinità
60
G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pg. 34.

29
“invidiosa” abbatterebbe le eccessive fortune degli esseri umani,
anche senza una motivazione in proposito, e chi, al contrario, metteva
in evidenza nella tragedia eschilea una considerazione più elevata
della divinità che punisce la dismisura, secondo giustizia e non
arbitrariamente – alla hybris umana corrisponderebbe sempre il saggio
ammaestramento divino attraverso la punizione61. Altri ancora hanno
ipotizzato la stratificazione di queste due differenti concezioni della
divinità62, una più arcaica, che attribuisce alla divinità egoismo,
invidia e azioni arbitrarie – gli dèi agirebbero in modo capriccioso,
impedendo all’uomo, sia eccessiva fortuna, sia eccessiva felicità;

61
Cfr. sull’argomento U. Bianchi, La religione greca, pg. 111 – 112, che rifiuta,
giustamente, l’idea che vi sia a fondamento della religiosità eschilea il concetto di
fqónoj qeÏn, e che vede piuttosto nei Persiani l’espressione eschilea di uno
Zeus «incommensurabile e giusto, che indirizza gli uomini, anche punendoli, al
bene (páqei máqoj: «nella sofferenza l’insegnamento» in Aesch. Agam. 177);
che – con ciò – mette gli uomini sulla strada della saggezza» (pgg. 114 – 115).
Cfr. D. Del Corno (a cura di), Eschilo. Agamennone, Coefore, Eumenidi, Milano
1981, pgg. XXII – XXIII; Cfr. anche V. Di Benedetto op. cit., pg. 43: «nel
processo per cui dalla hybris si passa all’atē, processo enunciato in termini molto
generali nei vv. 824 sgg. dei Persiani, un posto di primo piano è attribuito
all’intervento punitore di Zeus […] Ma ciò che è singolare in questo passo dei
Persiani è che l’intervento di Zeus che punisce la superbia degli uomini sia
inserito nel contesto di una linea di eventi per cui dalla prosperità si passa alla
sciagura e quindi anche all’apprendimento di una lezione di saggezza e di
moderazione. Zeus quindi viene associato in questo passo dei Persiani a un
processo di educazione dell’uomo verso il riconoscimento dei limiti che la propria
condizione umana comporta. Questa associazione, si badi bene, nei Persiani non
viene enunciata esplicitamente, ma risulta dalla particolare collocazione dei vv.
827 – 828, nei quali si presenta Zeus come punitore della superbia degli uomini,
in un contesto in cui l’apprendimento di una lezione di moderazione e di saggezza
costituisce lo sbocco finale».
62
Cfr. ad esempio V. Di Benedetto op. cit., pgg. 3 – 43. Cfr. anche G. Paduano,
Sui Persiani di Eschilo, pg. 34, il quale, tuttavia, non parla di “stratificazione”, ma
di “passaggio” dall’una all’altra concezione: «per un certo tempo sembrano
restare aperte due possibilità alternative: che il disastro sia un colpo gratuito e
maligno della divinità, un’applicazione dell’erodoteo fqónoj qeÏn, oppure che
ci sia una precisa concatenazione tra la negatività dell’azione umana e la
negatività della volontà degli dèi. Non c’è opposizione tra queste due possibilità
ma passaggio dall’una all’altra, anch’esso scandito dai progressi della conoscenza
umana».

30
un’altra, più recente, che vede gli dèi come garanti della giustizia e
dell’ordine cosmico – la divinità sarebbe allora severa e inflessibile,
ma non opererebbe in modo arbitrario, bensì secondo leggi
eternamente inalterabili e di difficile comprensione per la sensibilità
moderna63.
Ma vediamo come si esprime Eschilo nei Persiani, dove la tematica
religiosa entra in gioco fin dalla Parodo:

dolómhtin d’Þpátan qeoû tíj ÞnÕr qnatòj Þlúxei>


tíj ñ kraipnÏi podì phdÔmatoj e÷petéoj Þnásswn>
filófrwn gàr potisaínousa tò prÏton parágei
brotòn eêj \rkuaj A
# ta,
tóqen o÷k 1stin øpèr qnatòn Þlúxanta fugeîn.

Qeóqen gàr katà Moîr’ ækráthsen


tò palaión, æpéskhye dè Pérsaij
polémouj purgodaÈktouj
diépein ëppiocármaj te klónouj póleÍn t’Þnastáseij<

1maqon d’e÷rupóroio qalássaj


poliainoménaj pneúmati lábrwi
æsorân póntion \lsoj,
písunoi leptotónoij peísmasi laopóroij te mhcanaîj 64

63
Su queste alternative, cfr. B. Snell, op. cit., pg. 86; A. Maddalena,
Interpretazioni eschilee, Torino 1951, pg. 106; F. Sartori, op. cit., pgg. 777 – 778;
M. V. Ghezzo, op. cit., 428 – 439; V. Di Benedetto op. cit., pgg. 3 – 43.
64
Ma l’inganno astuto di un dio quale mortale fuggire potrà? Chi un balzo veloce
balzare saprà con agile piede? Da principio Ate seduce l’uomo con amiche
sembianze ma poi lo trascina in reti donde speranza non c’è che mortale fugga e
si salvi. Per decreto degli dèi Moira imperò nel tempo antico e ingiunse ai
Persiani di menar guerre devastatrici di rocche e zuffe equestri e distruzioni di
città. Poi appresero a contemplare l’umido recinto del vasto mare che incanutisce

31
In questi versi si fa riferimento alla rete di Ate (personificazione
dell’inganno, il termine indica “accecamento”, “illusione”,
“infatuazione”) dalla quale l’uomo non ha capacità di fuggire65.
L’idea è quella di un accecamento e di una follia che invade la
mente dell’uomo, tali da provocare un mutamento di pensiero che si
sostanzia di hybris e attraverso i quali si realizza l’inganno del dio66. In

al soffio aspro dei venti e confidarono in funi sottili e in macchine che trasportano
genti. (Pers. 94 – 114). Cfr. anche vv. 293 – 294; 345 – 347; 353 – 362; 454 –
455; 472 – 473; 495 – 501; 513 – 516; 532 – 536; 569; 579 – 583; 598 – 605; 724
– 725; 739 – 758; 800 – 842; 904 – 905; 911 – 912; 918- 921; 941 – 943; 1005 –
1007.
65
L’immagine, anche se non in riferimento ad Ate, ritorna nei vv. 1375 sgg.
dell’Agamennone dove è usata per rendere l’idea dell’ingannevole comportamento
di Clitemnestra nei confronti del suo sposo: se ella non avesse mentito, non
avrebbe potuto chiudere Agamennone in una “rete di sventura”, troppo alta per
poterne uscire con un balzo. Cfr. anche Choeph. 492 e 999 – 1000; Eum. 147,
dove la rete, in riferimento alle Erinni, è utilizzata all’interno di una metafora
venatoria; Agam. 355 – 361, dove, tuttavia, l’immagine della fitta rete gettata dalla
Notte sulla rocca di Troia, seguendo il volere di Zeus, assume una connotazione
positiva. Cfr. sull’argomento V. Di Benedetto, op. cit., pg. 3 – 4: «Del resto,
l’immagine della rete era particolarmente adatta a rendere a un livello quasi
immediato di percezione visiva l’impotenza dell’uomo che si trova avvolto in una
situazione inestricabile». Cfr. già Il. V, 487.
66
Cfr. Pers. 724 – 725. Cfr. anche il passo di Agam. 218 – 223: æpeì d’ Þnágkaj
1du lépadnon / frenòj pnéwn dussebÖ tropaían / \nagnon Þníeron,
tóqen / tò pantótolmon froneîn metégnw< / brotoùj qrasúnei gàr
aêscrómhtij / tálaina parakopà prwtopÔmwn (e poiché – Agamennone –
si sottomise al giogo della necessità spirando nell’animo un mutamento empio,
sacrilego, impuro, da allora cambiò la sua mente e fu pronto a osare tutto: poiché
i mortali rende arditi la follia sciagurata, che escogita turpi cose ed è all’origine
delle sofferenze), in cui il vi è un richiamo preciso al passo dei Persiani, oltre che
nel contenuto simile, anche nell’utilizzo dell’aggettivo aêscrómhtij (che
escogita turpi cose) che rinvia all’aggettivo dolómhtij (che escogita cose
subdole) presente nella parodo dei Persiani. Inoltre, il verbo usato per indicare il
mutamento di atteggiamento è metegnō che richiama a sua volta il passo delle
Supplici (v. 110). Qui, “il senno è piegato all’inganno di Ate”, la follia, il cambio
di atteggiamento sono connessi con l’inganno e con Ate, e il rimando al passo
della parodo dei Persiani è diretto. Cfr. ancora Agam. 385 - 386: biâtai d’ ß
tálaina PeiqÍ, / proboúlou paîs \fertoj # Ataj (Fa violenza su di lui la
sciagurata Persuasione, irresistibile prole di Ate che prende la decisione
preliminare). Cfr. sull’argomento V. Di Benedetto, op. cit., pg. 6: «Dai Persiani

32
questo passo, in cui è centrale l’inganno della divinità, affiorerebbe in
particolare una eco del più antico fqónoj qeÏn di cui dicevamo
sopra67; questa concezione dell’“invidia” divina – a detta di alcuni
studiosi – comparirebbe già nei Poemi Omerici68 e nella VII Istmica di
Pindaro69. Celebre è, inoltre, la definizione che ne dà Erodoto,
attraverso le parole di Solone: «O Creso, tu fai domande sulle vicende
umane a me che so che la divinità è invidiosa e perturbatrice»70.
Eschilo fa esplicito riferimento allo fqónoj qeÏn, invece, al v. 362
dei Persiani, quando il messaggero, parlando della strategia della
battaglia di Salamina, dice di Serse: «o÷ xuneìj dólon “Ellhnoj
Þndròj o÷dè tòn qeÏn fqónon»71.
Negli ultimi decenni, in effetti, l’idea dello fqónoj qeÏn come
invidia divina – la divinità invidiosa e capricciosa sarebbe capace di
fare il male dei mortali anche senza una motivazione in proposito – è
stata messa in discussione ed è sempre meno accreditata tra gli
ellenisti72, in virtù di una serie di considerazioni.

sino all’Orestea, dunque, Eschilo per spiegare l’atto delittuoso continua a


utilizzare un modello di meccanismo “psicologico” nell’ambito del quale un tratto
essenziale era un inganno esercitato sulla mente dell’uomo, e in modo tale che a
esso l’uomo non è in grado di sfuggire. Tutto questo presuppone, certamente, la
concezione omerica di Atē, in quanto “accecamento”, “infatuazione” della mente
umana. Cfr. Il. XIX 86 – 138; ma anche IX 505 – 507».
67
Cfr. ad esempio V. Di Benedetto, op. cit., pg. 13.
68
Cfr. Il. XVII 71; Od. IV 169 sgg.; XXIII 209 sgg. dove, tuttavia, non compare il
verbo fqonéw, ma \gamai; la traduzione “invidiare” è comunque opinabile;
69
Cfr. Pind. Isthm. VII 39, dove si legge: Þqanáqwn fqónoj
70
La traduzione dei passi Erodotei è di A. Izzo D’Accinni, in F. Cassola (a cura
di), Erodoto. Storie, Milano 2000. Cfr. Hdt. I 32, 1: fqonerón te kaì
taracÏdej. Cfr. anche Hdt. VII 46, 4;
71
… poiché non comprese l’inganno dell’uomo ellenico né l’“invidia” degli dèi.
72
Non solo per quel che concerne l’opera eschilea, ma anche in riferimento alle
Storie di Erodoto. Cfr. F. Cassola (a cura di), Erodoto. Storie, Milano 2000, pgg.
37 – 49.

33
In primo luogo, nuove valutazioni di carattere linguistico 73. Sembra
che in passato si sia dato troppo rilievo a un significato secondario del
verbo fqonéw74 e del sostantivo fqónoj75 il significato primitivo del
verbo è “negare, vietare, opporsi”, mentre quello del sostantivo è
“divieto, sfavore”76. Il valore di “invidiare” e di “invidia” diventano
comuni da Pindaro e Bacchilide in poi77. Dunque, lo fqónoj qeÏn
che solitamente è interpretato come “invidia degli dèi”, deve essere
piuttosto considerato “sfavore, risentimento”. Allora, nello fqónoj
qeÏn non si manifesterebbe un’azione divina arbitraria dettata
dall’invidia, ma un generico opporsi, comunque legato a una qualche
motivazione spesso negata alla comprensione dei mortali.

73
In generale, sull’interpretazione e sulla traduzione del termine fqónoj, cfr.
Erodoto. Storie, pgg. 40 – 41.
74
Attestato da Omero in poi.
75
Attestato, per la prima volta, in Pindaro e Bacchilide.
76
Cfr. Il. IV, 55 – 56; Od. I 346 – 347; VI 68; XI 149; 381; XVII 400; XIX 348 e
in ultimo XVIII 16 – 18 dove, tuttavia, è accreditabile sia la traduzione
“invidiare”, sia “opporsi”. Cassola (Erodoto. Storie, pg. 42 n. 50) sottolinea che
secondo H. Fränkel (Aeschylus, Agamemnon, 2, Oxford 1950, pg. 350 n.1),
l’invidia degli dèi era un concetto ormai superato al tempo di Eschilo, ma vivo in
epoche più arcaiche: lo proverebbe il termine fqónoj stesso. «Ma se è vero che» -
sostiene Cassola - «nell’epopea phthonèo non significa invidiare, nessun Greco ha
mai creduto nella invidia degli dèi verso i mortali. Gli dèi sono bensì invidiosi o
gelosi l’uno dell’altro, ma questo sentimento è espresso con termini diversi da
phthonèo (v. ad esempio Odissea V 118 - 120)».
77
In Esiodo, (Op. vv. 25 – 26) il verbo è usato per esprimere il valore più tenue di
“gelosia”, in riferimento alla buona Eris che sprona alla giusta emulazione: ÞgaqÕ
d’ ‡Erij 7de brotoîsin. kaì kerameùj kerameî kotéei kaì téktoni
téktwn, kaì ptwcòj ptwcÐ fqonéei kaì Þoidòj ÞoidÐ (Buona Contesa è
questa per i mortali: il vasaio gareggia col vasaio, l’artigiano con l’artigiano, il
povero è geloso del povero, l’aedo dell’aedo). Dunque, in questo caso, non si
tratta della condotta di chi manca di qualcosa che altri hanno, ma di quella di chi,
per giusta competizione, è geloso di capacità altrui.
Inoltre, il più recente significato di invidia / invidiare non estingue quello
originario. Vedi Pind. Isthm. V 24 – 25; cfr. Erodoto. Storie, pg. 41.

34
Anche in Erodoto, considerato da molti il massimo teorizzatore
dell’invidia degli dèi, in realtà si celerebbe una valutazione più etica
della divinità, di quanto in passato gli si è voluto concedere.
Da alcuni passi erodotei, sembrerebbe che la divinità punisca anche
l’essere incolpevole solo perché gode di eccessiva prosperità e fortuna,
e questo – secondo gli studiosi erodotei – rivelerebbe l’invidia: dice
Artabano a Serse: «dopo avergli (all’uomo) fatto assaggiare la dolcezza
della vita, si rivela “invidioso” di lui» (VII 46, 4); Amasi scrive a
Policrate di Samo, sostenendo che: «a me le tue grandi fortune non
piacciono perché so che la divinità è invidiosa[…]. Di nessuno infatti
ho ancora sentito parlare che, essendo in tutto fortunato, da ultimo non
sia finito abbattuto fin dalle fondamenta» (III 40, 2-3); e ancora: «Tu
vedi» – dice Artabano a Serse – «gli animali che si distinguono fra gli
altri come il dio li colpisce con il fulminee non permette loro di far
pomposamente mostra di sé, mentre quelli piccoli non lo infastidiscono
affatto. E vedi come sugli edifici più grandi e sugli alberi più alti egli
avventa sempre il fulmine. Perché il dio suole stroncare tutto ciò che si
innalza. E così anche un esercito grande viene distrutto da uno piccolo
nella stessa maniera: quando il dio, preso da “invidia”, scateni loro
contro il terrore o un tuono, periscono allora in modo indegno di loro.
Perché il dio a nessun altro permette di nutrir pensieri di grandezza
fuor che a se stesso» (VII 10, ε).
L’opinione che gli dèi siano in qualche modo invidiosi del genere
umano è difficilmente sostenibile anche dal solo punto di vista logico.
Come può una potenza tanto più grande e soverchiante invidiare per un
qualsiasi motivo il genere umano78? Molti hanno spiegato questo

78
E. R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, tr. it., Milano 2003 (orig. The Greeks and
the Irrational, Berkeley e Los Angeles 1951), pg. 72: «come potrebbe, quella

35
atteggiamento sostenendo che la divinità agisce in modo capriccioso,
immorale ed ingiusto79. Ma è poi vero che gli dèi in Erodoto agiscono
in modo totalmente arbitrario? Nel mondo dello storico, piuttosto,
l’operato degli dèi ha sempre come fine la tutela della giustizia e
dell’ordine cosmico voluto dalla Necessità 80. Lo fqónoj qeÏn
esprime, dunque, «un divieto dettato da una legge non scritta che
impone di non eccedere o anche l’ira suscitata dalla violazione del
divieto»81. In questo ordine divino, l’ambito umano è ben separato e
nettamente assoggettato a quello divino82.
Nei personaggi dei nostri esempi – Serse e Policrate – si evidenzia
non solamente l’enormità della ricchezza e della potenza, ma
soprattutto un eccesso di tracotanza, di ambizione, di hybris. Serse è
punito per la sua ambizione, perché voleva essere emulo degli dèi 83 o,
come dirà Temistocle, perché gli dei “non permisero che un uomo solo,
che per di più è empio e temerario, imperasse sull’Asia e sull’Europa
[…] egli che fustigò e mise in catene anche il mare”(VIII 109, 3). Ma

Potenza soverchiante, sentir gelosia di una povera cosa qual è l’uomo? L’idea è
piuttosto questa: gli dèi vedono di mal occhio ogni successo, ogni gioia che per un
istante sollevi gli uomini al di sopra della loro mortalità, usurpando le prerogative
degli immortali».
79
Cfr. D. Asheri, Le Storie. Libro I. La Lidia e la Persia, Milano 1999, pg.
XLVII: «Gli dèi dunque non sono mossi da principi morali: al contrario, sono
mossi dall’invidia, dall’amor proprio, dal desiderio di vendetta e di persecuzione.
Sono i nemici dell’uomo: bisogna guardarsene, placarli, è impossibile amarli».
80
Cfr. M. Pohlenz, Herodot, Leipzig 1937, pgg. 110 – 125; C. Del Grande, op.
cit., pgg. 218 – 238; H. Fränkel, op. cit., pgg. 349 – 350; J. L. Myres, Herodotus,
Father of History, Oxford 1953, pg. 50; W. Pötscher, Götter und Gottheit bei
Herodot, WS 71, 1958, pgg. 5 – 29, in particolare pgg. 23 – 26; H. R. Immerwahr,
Form and Thought in Herodotus, Cleveland, Ohio 1966, pg. 313.
81
Erodoto. Storie, pgg. 41 – 42. Cfr. M. Pohlenz, Herodot, pgg. 110 – 125; C. Del
Grande, op. cit., pgg. 218 – 238; H. Fränkel, op. cit., pgg. 349 – 350; J. L. Myres,
op. cit., pg. 50; W. Pötscher, op. cit., pgg. 23 – 26; H. R. Immerwahr, op. cit., pg.
313.
82
Idee presenti alla cultura greca fin dai Poemi Omerici: Cfr. Il. XXIV 525 - 533
83
Serse desiderava che il suo impero non avesse altro confine se non l’etere di
Zeus, che il sole non vedesse nessuna terra confinante con la Persia (VII 8).

36
forse la stessa “eccessiva prosperità” e l’“enorme potenza”
rappresentano, nell’ottica greca, un atto di hybris; il superamento dei
limiti da parte di un mortale è sempre punito e questo è il senso dello
fqónoj qeÏn.
L’idea che Erodoto ha delle divinità non è guidata, dunque, dalla
superstizione, ma da una considerazione comunque etica delle loro
azioni; considerazione che si radica nell’idea greca della
moderazione84. La divinità si rende garante dell’equilibrio cosmico e
naturale: “la provvidenza divina […] ha fatto prolifici tutti gli animali
che sono timidi d’animo e atti ad essere mangiati, per impedire che
divorati si estinguessero; quelli invece che sono feroci e nocivi li ha
fatti poco prolifici” (III 108, 2). Questa divinità è quella che distrugge
un grande esercito per evitare che uno solo regni in Asia e in Europa.
Gli dèi, in Erodoto, sono severi nei confronti dell’umanità e non si
curano certo della felicità dell’individuo, ma non agiscono in modo
irrazionale. Gli dèi agiscono secondo metri di valutazione che sono
diversi da quelli dei mortali, non senza moralità, con invidia e gelosia,
ma seguendo leggi immutabili e assecondando il fato.
Ritornando ad Eschilo, bisogna dire che il modello dell’inganno
divino non è a sé stante, ma è legato comunque all’idea della
violazione di una norma. Nel passo preso in esame (vv. 94 – 114),
infatti, subito dopo le considerazioni generali sull’inganno della
divinità e sull’intervento di Ate, Eschilo pone l’attenzione sullo
specifico caso persiano: “1maqon d’e÷rupóroio qalássaj /
poliainoménaj pneúmati lábrwi / æsorân póntion \lsoj, /
písunoi leptotónoij peísmasi laopóroij te mhcanaîj (Poi
appresero a contemplare l’umido recinto del vasto mare che
84
Cfr. U. Bianchi, La religione greca, pg. 124.

37
incanutisce al soffio aspro dei venti e confidarono in funi sottili e in
macchine che traghettano genti)” (vv. 109 – 114); la colpa (di Serse),
la violazione della norma è in questo nuovo apprendimento (1maqon
dé)85; la trasgressione della Moira (la parte assegnata, il destino
assegnato dagli dèi) è il tentativo di estendere il governo,
appropriandosi di una parte ulteriore rispetto a quanto gli dèi avevano
assegnato: un impero colossale, ma limitato entro confini terrestri.
Ma c’è di più, una serie di rimandi interni al testo in esame
richiamano, ancor più nello specifico, l’atto sacrilego della costruzione
del ponte di navi compiuto del Gran Re. Infatti, l’espressione
“laopóroij te mhcanaîj” (v. 114) non implica solamente il concetto
generico di “navi”, ma richiama anche, sia mhcanaîj del v. 722
(mhcanaîj 1zeuxen ! Ellhj porqmòn 9st’ 1cein póron: con
macchine creò un passaggio, aggiogando lo stretto di Elle), sia le
espressioni con por- nella parte precedente della parodo (vv. 65 – 71
pepéraken mèn ñ perséptolij 2dh / basíleioj stratòj eêj
Þntíporon geítona cÍran, / linodésmwi scedíai porqmòn
Þmeíyaj ƒAqamantídoj …Ellaj, / polúgomfon 8disma zugòn
ÞmfibalÎn a÷céni póntou (La traversata è compiuta: l’esercito
del re, distruttore di città, è passato di là, sulla vicina sponda di terra.
Su un ponte di zattere legato con funi di corda, ha traversato lo stretto
di Elle Atamantide: quel passaggio chiodato è un giogo gettato sul
collo del mare)86.

85
Cfr. M. Centanni, Eschilo. I Persiani, pg. 102.
86
Cfr. V. Di Benedetto, op. cit., pg. 7.

38
E ancora: questa ultima parte (vv. 109 – 114) è preceduta87 da un
sintetico accenno alla sorte continentale dell’impero, al destino di
«menar guerre devastatrici di rocche e zuffe equestri e distruzioni di
città». Eschilo sa che già Dario, nella spedizione contro gli Sciti e a
Maratona, aveva violato questi limiti imposti dalla divinità, ma glissa
volutamente su tutto questo, per mettere maggiormente in evidenza
l’atto singolo di Serse88 – a questo livello, solo attraverso allusioni e
rimandi – che avrà grande risalto nella tragedia e che sarà presentato
come violazione di una norma religiosa; violazione connessa con la
disgrazia che colpisce i Persiani a Salamina e Platea. «In tal modo,» –
sottolinea Di Benedetto – «il Coro è in grado di mostrare che l’inganno
del dio non è qualcosa di assolutamente capriccioso, non è pura
malignità, ma coincide con un’azione umana, quella di Serse,

87
Cfr. V. Di Benedetto, op. cit., pg. 8. Alcuni specialisti hanno voluto spostare il
mesodo (vv. 93 – 100) dopo l’antistrofe (vv. 109 – 114) – la trasposizione,
proposta da O. Müller, è stata accettata da Wilamowitz, da Murray, da Broadhead
– sostenendo che l’aggancio tra l’idea dell’inganno del dio e il riferimento a quel
periodo in cui l’impero fioriva senza servirsi del mare non è giustificato, poiché in
quella fase della storia persiana (vv. 101 – 105) non è ravvisabile un inganno del
dio. Tuttavia, non c’è alcun motivo valido per il quale Eschilo non avrebbe potuto
inserire un riferimento a quella fase più antica, nell’ambito di un discorso che
vuole collegare l’inganno del dio alla hybris persiana – e di rimando, come
abbiamo visto, all’atto empio della costruzione del ponte di navi da parte di Sere –
tanto più che un collegamento tra distruzione di città e attraversamento del mare
per mezzo di “un ponte di zattere legato con funi di corda” è presente poco prima
ai versi 65 – 70.
88
Azione che, paragonata alla storia persiana così come presentata dal
tragediografo, appariva ancora più eccessiva e condannabile. È accentuata,
dunque, la responsabilità di Serse, il quale aveva ereditato un impero costruito
dalle generazioni precedenti in concomitanza con la volontà divina. Cfr. V. Di
Benedetto, op. cit., pg. 9. Il paragone è istituito in modo più chiaro nelle parole
dell’Ombra (vv. 739 – 786): la hybris appare ancora più abnorme e ricade
interamente su Serse, il quale non doveva scontare alcuna colpa commessa dai
suoi ascendenti. Cfr. L. Belloni, L’ombra di Dario nei Persiani di Eschilo, pg.
192; Cfr. M. V. Ghezzo, op. cit., pgg. 430 – 431.

39
riprovevole da un punto di vista morale e religioso»89; giudizio che
sarà, in seguito, reso esplicito dal discorso di Dario.
Eschilo vive sul discrimine di uno scontro storico. Da una parte
l’antica concezione della colpa, tipica di una società pre-giuridica qual
era quella greca arcaica prima dell’avvento della polis democratica: la
colpa era una ignoranza, l’uomo nei confronti degli dèi è nÔpioj
“stolto come un fanciullo”; la colpa è uno smarrimento della mente,
un accecamento, è una macchia religiosa contagiosa, che si trasmette
ai propri discendenti, di generazione in generazione finanche a
un’intera città. È un tragico errore, un'azione sbagliata commessa per
ignoranza della sua natura e del suo effetto. In questo contesto non ha
senso parlare di responsabilità personale, né tantomeno di volontà
personale. La “responsabilità” è insita nell’azione stessa, un agire che
sovrasta il soggetto che lo compie, che non promana mai dalla sua
volontà: la ßmartía, dal momento che è stata commessa porta in sé,
indipendentemente dalle intenzioni, la propria punizione 90. Dall’altra
parte, con l’avvento dei tribunali nella polis, comincia ad affermarsi
una nuova concezione della responsabilità dell’uomo verso le proprie
azioni; e l’intenzionalità del soggetto comincia ad avere un maggiore
peso nella valutazione della colpa.
Come ha ben messo in evidenza Vernant «il senso tragico della
responsabilità sorge allorché l’azione umana» forma oggetto di una
riflessione, di un dibattito, ma non ha acquisito uno statuto
sufficientemente autonomo per bastare compiutamente a se stessa 91. Il

89
Cfr. V. Di Benedetto, op. cit., pg. 8.
90
Cfr. J – P. Vernant, P. Vidal – Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia, tr.
it., Torino 1976 (orig. Mythe et tragédie en Grèce ancienne, Paris 1972), pgg. 42
– 43.
91
Cfr. Ivi, pg. 27.

40
momento storico in cui si afferma la tragedia, infatti, è un momento di
crisi, di cambiamenti e di conflitti di valore in seno alla società, dove
fratture e continuità generano un confronto costante tra il vecchio e il
nuovo, dove, con l’avvento del “Diritto” e di nuove istituzioni
politiche, si mettono in discussione sul piano religioso e morale gli
antichi valori tradizionali. Nello stesso “Diritto” e nelle nuove prassi
politiche, però, si avvertono ancora tensioni e incertezze che
traducono il conflitto in essere con i valori della tradizione, ma anche
quanto essi siano ancora radicati nella coscienza comune. «Questo
dibattito tra il passato del mito e il presente della città si esprime in
modo del tutto particolare nella tragedia, mettendo in causa l’uomo in
quanto agente, un interrogativo inquieto sui rapporti che esistono tra
lui e i suoi atti»92, tra l’agito e il subito.
In Eschilo, ma secondo Vernant anche negli altri due grandi tragici,
l’antinomia tra l’agito e il subito93, si esprime in una tensione costante
tra il piano divino e quello umano. Il soggetto agente non è più
immerso nell’azione che lo sovrasta, ma non ne è ancora pienamente
la causa produttrice. Nella decisione tragica, infatti, cooperano i
progetti divini e quelli umani: «8tan speúdhi tij a÷tój, cË qeòj
sunáptetai»94. Dunque, la natura dell’azione in Eschilo si manifesta
in questa tensione costante tra due poli, in questo concomitante
intervento, nella decisione del soggetto, di un se stesso e di un oltre
divino. Nei Persiani, Eschilo tende a problematizzare il più possibile
le cause della hybris di Serse; il discorso della tragedia tende a

92
Ivi, pg. 59.
93
Come ben mostra Vernant, l’antinomia in questione non è tra un “costretto” e
un “liberamente voluto”, ma tra una costrizione subita dall’esterno e una
determinazione che opera dall’interno. Cfr. Ivi, pg. 50.
94
Quando un mortale si adopera lui stesso, un dio giunge ad aiutarlo.

41
mantenere vive le contraddizioni, le opposizioni, le antinomie e le
inconciliabilità, a non darne soluzione95.
Per altri versi, anche Di Benedetto individua nei Persiani una
dicotomia tra l’agito e il subito. Dal suo punto di vista, infatti, sia
l’intervento esterno della divinità, sia la responsabilità del gran Re,
concorrono alla definizione della hybris di Serse e delle sue azioni
colpevoli96; e questo doppio ordine di motivazioni sarebbe ben
rinvenibile sia nelle parole del Coro, sia nel discorso dell’Ombra. Ma
nella sua analisi, lo studioso radicalizza le due tesi, ascrivendo al
personaggio di Dario il compito di mettere in rilievo maggiormente la
responsabilità personale di Serse97 e di veicolare un messaggio etico –
religioso di moderazione (non superate i limiti, perché la hybris è
sempre punita da Zeus, ma accontentatevi di ciò che il dio vi accorda),

95
Cfr. J. – P. Vernant, P. Vidal – Naquet, Mito e tragedia, pg. 7: «l’eroe, il re ed il
tiranno appaiono ancora ben inseriti nella tradizione eroica e mitica, ma la
soluzione del dramma sfugge loro: essa non è mai data dall’eroe solitario, essa
riflette sempre il trionfo dei valori collettivi imposti dalla nuova città democratica.
Cfr. anche D. Sabbatucci, Il mito, il rito e la storia, Roma 1978, pg. 167: «i valori
scaturiranno dalla differenza tra quell’ipotesi irreale e la realtà democratica
ateniese, quasi come in un’argomentazione per absurdum».
96
Cfr. V. Di Benedetto, op. cit., pgg. 15 – 16: «il modo quindi come nella Parodo
si accenna all’atto di Serse di costruire il ponte di navi presenta al suo interno
molte articolazioni: si lascia intravedere la consapevolezza che Serse ha infranto
una norma etico – religiosa (e questo naturalmente comporta, anche se non è detto
esplicitamente, una sua responsabilità), c’è una chiara risonanza della concezione
secondo cui il dio fa il male agli uomini (concezione che nel suo modello
originario non prevede un problema di responsabilità da parte dell’uomo), c’è
infine l’utilizzazione del modello arcaico secondo cui l’intervento del dio e
l’azione dell’uomo sono concomitanti».
97
Per V. Di Benedetto (op. cit., pgg. 18 – 19), nella definizione della
responsabilità di Serse da parte di Dario concorrono principalmente due ordini di
motivazioni: l’accusa di non aver, in definitiva, rispettato i limiti propri della
condizione umana (vv. 739 – 752) e il rimprovero per non aver fatto proprio il
patrimonio culturale dei suoi ascendenti, e di Dario stesso in particolare.

42
al Coro, ad Atossa e al Messo di rilevare, quasi esclusivamente, le
motivazioni di ordine divino98.
L’estremizzazione dei due ordini di motivazioni, unitamente alla
considerazione che, in definitiva, il giudizio e il messaggio di Dario
restino sostanzialmente inascoltati nell’ultima parte della tragedia,
portano Di Benedetto a sostenere che la linea Atossa / Coro, dopo
tutto, sia quella vincente. Lo scopo di Eschilo sarebbe, dunque, quello
di parlare all’Atene contemporanea, anche politicamente: un’Atene
che, negli anni 70 del V secolo, era in pieno processo emergente ed
espansivo, caratterizzato, riguardo ai rapporti interstatali, da «un
intenso ritmo di rinnovamento e di ‘accrescimento’»99. La linea più
antica e più tradizionale (le azioni umane dipendono dalla volontà
divina; la rovina di Serse è causata dal dio, come anche volontà divina
è la vittoria greca), insomma, sarebbe apparsa al tragediografo
maggiormente adeguata ai tempi, mentre «la linea culturale espressa
da Dario, e incentrata sul concetto di responsabilità e sul contentarsi
consapevole di ciò che si ha, doveva apparire come qualcosa di non
urgente e inattuale»100.
Come abbiamo già avuto modo di osservare, un messaggio politico
così diretto e così univoco è difficilmente rintracciabile. La tragedia è
si in rapporto con la realtà contemporanea, ma questa relazione non va

98
La duplicità di punti di vista presente nei Persiani rispecchia, per lo studioso, la
complessità effettiva della realtà della polis ateniese. Nella cultura Greca del V
secolo, relativamente alla valutazione dell’agire dell’uomo, coesistevano, sostiene
l’autore, una concezione più antica (fqónoj qeÏn) e una prospettiva appartenente
ad una stratificazione più recente che è da mettere in relazione con il costituirsi
degli istituti giuridici, nel cui contesto l’uomo viene reputato responsabile e
punibile. In altre parole, Dario sarebbe latore della prospettiva recenziore, che non
è colta dagli altri personaggi del dramma. Cfr. V. Di Benedetto, op. cit., pg. 32.
99
Cfr. V. Di Benedetto, op. cit., pg. 35.
100
Ivi, pgg. 34 – 35.

43
ricercata in allusioni, più o meno trasparenti, ad eventi della
contemporaneità della polis, che pure ci possono essere state. Quella
messa in scena dalla tragedia (tanto di argomento mitico, quanto
storico) è una realtà percorsa da conflitti, lacerata, che pone problemi,
senza imporre soluzioni101.

***

Non pochi interpreti hanno indicato nel ritorno dell’ombra di Dario


dagli inferi il centro vitale della tragedia. Già per Pohlenz il vero
culmine del dramma era in questa scena; essa rappresenterebbe il nodo
nevralgico in cui, attraverso il discorso del Re defunto, le diverse linee
della tragedia trovano il proprio centro chiarificatore102.
Anche per Broadhead, per il quale la tragedia è costruita intorno
all’idea fondamentale della punizione della hybris da parte delle
potenze divine103, la figura di Dario è, senza dubbio, centrale: le sue
sentenze esprimerebbero la filosofia del poeta stesso e, ponendosi in
netto contrasto con le azioni di Serse, sancirebbero quella “verità” che
già il coro ed Atossa avevano riconosciuto, vale a dire che la giovanile
follia del Re ha portato i Persiani alla rovina 104.
Albini, altresì, ha marcato le potenzialità drammatiche
dell’apparizione, mettendo in evidenza, in particolare, quale potenza
visiva scaturisca da una tale trovata: «La terra si apre, si leva

101
Cfr. sull’argomento J. – P. Vernant, P. Vidal – Naquet, Mito e tragedia, pg. 12:
«la tragedia appare radicata […] nella realtà sociale, ciò non significa che ne sia il
riflesso. Essa non riflette questa realtà, la mette in causa. Presentandola lacerata,
in urto con se stessa, la rende tutta quanta problematica».
102
Cfr. M. Pohlenz, La tragedia greca, pg. 73.
103
H.D. Broadhead, op. cit., pg. XL.
104
Ivi, pg. XXVIII.

44
un’ombra in forma umana: è un brivido, un sobbalzo per chi guarda».
Lo studioso ha sottolineato, inoltre, come Dario sia un personaggio
chiave; a lui, infatti, spetterebbe di spiegare l’entità della disfatta e di
essere latore della «grande verità» morale (per l’autore, una sorta di
carpe diem, di invito all’epicureismo ante litteram), un messaggio che
avrebbe anche lo scopo di mettere in risalto il contrasto tra la condotta
del re defunto e quella di Serse105.
Anche Paduano, con maggiore ampiezza analitica, si è soffermato
sul contrasto tra la figura di Dario e quella di Serse. Per lo studioso,
come avevamo visto in precedenza, la funzione generativa del
conflitto drammatico sarebbe in una dinamica collettiva che
comprenderebbe il coro, Atossa, Dario e Serse: i Persiani, tutti,
sarebbero i protagonisti della tragedia. In termini concreti, il conflitto
drammatico dovrebbe essere individuato nella «lacerazione
circostanziale di una unità originaria», quale è la compagine politica
persiana, e i suoi poli sarebbero da rintracciare in Dario e Serse, padre
e figlio, una dicotomia che non parla il linguaggio emotivo – affettivo,
ma quello politico – autoritario. Dario opporrebbe a Serse una serie di
comportamenti contrari e le modalità in cui si esprimerebbe questa
opposizione sarebbero essenzialmente due: in primo luogo,
significative determinazioni ingigantirebbero la distanza tra padre e
figlio, in questo senso l’autorevolezza di Dario (che non ha mai
perduto il “potere” – né in terra quando era vivo, né nell’oltre tomba
da morto – che si fa interprete degli oracoli divini) raggiungerebbe
limiti inattingibili per Serse. Da questo piedistallo Dario, padre –
autocrate – divinità, sarebbe l’unico giudice dell’impresa di Serse,

105
Cfr. U. Albini, op. cit., pgg. 258 – 260.

45
condannata eticamente attraverso la dialettica di Ûbrij e \th. In
secondo luogo, Dario rappresenterebbe la proposta di un modello di
potere che è puntualmente tradito da Serse, in modo ancora più grave
perché il tradimento sarebbe diretto verso tutti i suoi predecessori. La
dinamica del potere, in Serse, sarebbe rappresentata
emblematicamente dall’idea del “giogo”, che ritorna a più riprese
nella tragedia. L’aggiogamento del mare, vale a dire l’esercizio di
autorità sulla divinità, rappresenterebbe, in definitiva, il tentativo da
parete del Gran Re di sovvertire l’ordine del cosmo: sarebbe allora
evidente il contrasto con Dario, garante dell’ordine divino; un Dario
volutamente idealizzato dal tragediografo con caratterizzazioni
antistoriche, al fine di ridurre a “opposizione” il rapporto con Serse106.
Ugualmente Belloni, per il quale «l’evento tragico scaturisce dal
contrasto fra un passato felice, il doloroso presente e il timore di
nuove sciagure»107, ha visto nel ritorno dell’Ombra dagli inferi il
punto focale del dramma. La scena, in primis, istituirebbe un
confronto tra Dario e Serse, che nel loro contrapporsi, avrebbero un
ruolo determinante e di pari importanza per lo sviluppo del tragico nei
Persiani. Ma soprattutto, attraverso la figura del vecchio re defunto, si
rivelerebbe l’intento di Eschilo di volersi avvicinare all’ottica e al
mondo persiano: tuttavia, per ricavare da quel mondo altro un
insegnamento fruibile dai suoi concittadini, la “visuale persiana”, il
cui culmine è nella rappresentazione idealizzata e antistorica di Dario,
viene calata attraverso le parole di Dario stesso nella realtà
contemporanea ateniese. Il “motivo persiano” verrebbe così a
coincidere con un impegno etico più vasto, divenendo causa di

106
Cfr. G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pgg. 85 – 103.
107
L. Belloni, L’ombra di Dario nei Persiani di Eschilo, pg. 185.

46
riflessione anche per il pubblico della polis. Un tale scopo è, dunque,
raggiunto seguendo un schema che sembra dipendere in modo
esclusivo dal costume persiano, attraverso uno studio accurato di
immagini e simboli della regalità achemenide. Belloni sottolinea,
infatti, come il ritratto di Dario, così idealizzato, sia prossimo a quello
fornito dalle Iscrizioni Achemenidi.
A questo punto, non si può non ricordare il contributo, a cui lo
stesso Belloni si richiama, che è stato offerto da Ugo Bianchi
sull’argomento. Lo studioso, infatti, si è occupato della tragedia i
Persiani soprattutto in relazione alla ricerca di una dimensione etico –
religiosa genuinamente persiana nella rappresentazione “drammatica”
dei re Achemenidi. Bianchi, infatti, nel suo articolo Eschilo e il sentire
etico – religioso dei re persiani, opera una comparazione storico –
religiosa tra le dichiarazioni etico – politiche – religiose incise dai re
Achemenidi e le parole che Eschilo fa pronunciare all’ombra di Dario
evocato dalla tomba. Ben conscio delle differenze di contesto e di
genere, lo studioso nota che la tematica eschilea su Zeus, giustizia e
hybris, si tinge nei Persiani di riferimenti alla regalità iranica e che
alcune corrispondenze sembrano essere particolarmente precise108.
Note avallate anche da Belloni, il quale ritiene che, in ogni caso, si
debba «convenire che tali schemi esistono nei Persiani, nonostante
essi creino ardui problemi circa il modo con cui Eschilo ne venne a
conoscenza»109.
A tutto questo si collega la più ampia problematica
dell’ambientazione della tragedia che è stato uno dei punti

108
Cfr. U. Bianchi, Eschilo e il sentire etico – religioso dei re persiani, in E.
Livrea, G. A. Privitera, Studi in onore di Anthos Ardizzoni, 2, Roma 1978, pgg. 63
– 72.
109
L. Belloni, L’ombra di Dario nei Persiani di Eschilo, pg. 194.

47
maggiormente discussi dalla critica, soprattutto in relazione alla
rappresentazione religiosa degli asiatici. Ma quello che ci preme
maggiormente sottolineare in questa sede è che tale tematica si
ricollega direttamente alla constatazione che l’argomento della nostra
tragedia non è un argomento mitico, infatti, non solo è importante
osservare che i Persiani sono ambientati in terra persiana e che tutti i
suoi personaggi sono persiani – ovvietà non sempre tenuta in debita
considerazione dagli specialisti –, bensì è fondamentale rilevare che in
scena non è posta solo la Persia di altri tempi, ma quella
contemporanea. Discutere in questa sede tutti i cavilli interpretativi
che hanno riguardato la problematica dell’ambientazione sarebbe
superfluo, qui è sufficiente ricordare che presto la critica è giunta a
considerare un punto per noi essenziale. Infatti, con esplicito richiamo
ai Persiani, Racine scriverà, a proposito del proprio dramma Bajazet
«qualche lettore si stupirà che abbiano osato mettere in scena una
storia così recente […] La lontananza dei paesi rimedia in qualche
modo alla eccessiva prossimità dei tempi». Questa considerazione è
stato l’elemento che ha portato la critica ad elaborare l’idea, oggi
ormai luogo comune, che la distanzia spaziale prenda il posto della
distanza temporale nel creare lo spazio mitico110. Considerazione fatta
propria anche dalla Storia delle Religioni e dall’Antropologia Storica
che, a latere della rispettiva ermeneutica della Tragedia Greca, hanno
utilizzato detta idea per risolvere l’anomala presenza di una tragedia
storica tra le innumerevoli tragedie di argomento mitico. Ma su questo
si è discusso già nell’introduzione del presente lavoro. È necessario

110
Cfr. J. E. Harry, op. cit., pg. 15; G. Norwood, Greek Tragedy, London 1953,
pgg. 88; U. Albini, op. cit., pg. 259; E. T. Owen, op. cit., pg. 20; V. Ghezzo, op.
cit., pg. 428; M. H. Finley, op. cit., 209; G. Paduano, La nascita del mito tragico
nei Persiani di Eschilo, pg. 64; F. Sartori, op. cit., pg. 775 sgg.

48
ora volgersi a un considerazione puntuale della dimensione
dell’alterità barbara nei Persiani: questo è l’argomento del prossimo
capitolo.

49
II - SUL CONCETTO DI BARBARO

La trama dei Persiani è considerata universalmente molto semplice,


talvolta carente di azione e talvolta cronachistica. Mancando il
prologo, la tragedia si apre con la Parodo, il canto di entrata del Coro,
che rappresenta un preludio alle principali tematiche trattate nella
tragedia. I fedeli del Re dei Re, i vecchi Persiani scelti da Serse per
vegliare sull’impero durante la sua assenza1, notando la mancanza di
notizie, esprimono i loro timori sull’andamento della guerra e,
presaghi di quanto sta accadendo, temono la sconfitta, dividendo con
genitori e spose l’ansia per il numero dei giorni che si allunga dal
momento della partenza dell’esercito. Parallelamente, elencando le
schiere di prodi che compongono l’armata partita per l’Ellade, con
trepidazione si chiedono se ha prevalso chi tira con l’arco o chi
utilizza la lancia aguzza. Mentre si pongono questo angoscioso
quesito, entra in scena la Regina in affanno, cercando conforto nei
sudditi riguardo a un inquietante sogno occorso durante la notte. Nella
visione notturna due bellissime donne, sorelle nate dagli stessi
genitori, assai più insigni di ogni donna vivente e vestite l’una con il
chitone dorico2 e l’altra con il peplo persiano, entravano in contesa tra

1
Secondo Erodoto, Serse affidò il regno durante la guerra ad Artabano (Cfr. Hdt.
VII 52).
2
Sulla scelta del chitone dorico a scapito di quello ionico cfr. la spiegazione di
H.D. Broadhead, The Persae of Aeschylus, Cambridge 1960, pg. 77: lo studioso fa
riferimento a Erodoto (V 88), il quale ci testimonia che il chitone dorico (senza
maniche e corto) era la veste universalmente utilizzata dalle donne greche nei
tempi antichi. Peraltro, ci ricorda lo studioso, ad Atene il chitone ionico (con
maniche e lungo) diventò, dal sesto secolo in poi, sempre più comune e, al tempo
loro. Serse allora, intervenendo per cercare di placarle, le aggiogava al
suo carro. Una delle due donne si lasciava domare offrendo docile la
bocca al morso, orgogliosa per quella bardatura, mentre l’altra,
rompendo il giogo, buttava a terra Serse. Apparve allora, al fianco di
questo, il padre Dario che lo commiserava e, alla sua vista, Serse si
lacerava le vesti. Ma gli affanni della Regina erano legati anche al
manifestarsi di un prodigio che si era svolto sotto i suoi occhi: una
volta levatasi, mentre eseguiva riti apotropaici per stornare le
preoccupazioni portate dalla notte, vedeva un’aquila, rifugiata
sull’altare di Apollo, arrendersi agli attacchi di un falco che gli
spiumava con gli artigli il capo.
Il coro dei Fedeli consiglia allora alla Regina di supplicare gli dèi
affinché volessero allontanare i mali e la esorta a offrire libagioni alla
terra e ai morti per chiedere a Dario, defunto sovrano e sposo,
protezione dall’aldilà. Prima di disporre i riti necessari per portare a
compimento quanto suggerito dal Coro, però, Atossa 3 vuole avere
maggiori dettagli su Atene e sulla gente che la abita. Domanda ansiosa
ai Vecchi Fedeli in quale parte del mondo sorga “questa Atene”,
quanto numeroso sia il suo esercito, se abbia valorosi arcieri, da dove
derivi la sua ricchezza e chi sia il signore che domina la sua armata.
Mentre la Regina comincia a manifestare preoccupazione per
quanto appreso dalle repliche dei Fedeli, sopraggiunge finalmente un
messaggero dal campo di battaglia che annuncia l’avverarsi di tutti i

della rappresentazione della tragedia in questione, le donne di Atene indossavano


entrambi. Ma il chitone ionico era indossato anche dalle donne Greche d’Asia e da
quelle Persiane, dunque era inadatto a differenziare nettamente le fogge greche e
persiane.
3
Anonima nella tragedia.

51
presagi di sventura che opprimevano quanti rimasti a Susa: la caduta
del fiore dei Persiani, la sconfitta sul mare e la disfatta dell’armata.
La notizia provoca il luttuoso sgomento del Coro, la Regina a
malapena riesce a chiedere chi sia caduto sul campo di battaglia. Il
messaggero, dopo aver chiarito che Serse non è morto, specifica quali
condottieri Persiani hanno perso la vita, ricorda l’ampiezza delle
milizie navali schierate dal Gran Re e racconta lo svolgimento della
battaglia di Salamina, mettendo in evidenza in particolare l’inganno, a
cui non era estranea la volontà divina, architettato da un falso traditore
ateniese che spinse Serse alla sventurata manovra che portò le navi
persiane a stringersi nello stretto tra l’isola e la terra ferma. Poi, la
distruzione della flotta persiana e il mare coperto di rottami e di
cadaveri. Il racconto del messo prosegue poi con la rievocazione del
disastroso episodio di Psittalea, con lo spasimo di Serse che si lacera
le vesti e fugge, ordinando la ritirata della fanteria, e con il resoconto
dell’odissea dell’esercito, straziato dalla fame, dalla sete, dal freddo,
dall’avversità dei numi. Atossa, accertata la veridicità dei presagi
notturni, rientra nel palazzo per preparare i sacrifici alla Terra e ai
defunti.
Il Coro piange smarrito il dolore e il rimpianto dell’Asia desolata,
dei talami colmi di lacrime per l’assenza del marito, delle spose
persiane che rimangono sole nel giogo recente delle nozze, dei
genitori abbandonati dai figli per volere divino, delle case private di
signoria; e teme il vacillare dell’impero, la ribellione delle terre
assoggettate, il rifiuto di versare il tributo, di prosternarsi al suolo e di
obbedire al comando del sovrano.
Poco dopo la Regina, abbandonata la pompa regale, torna in scena
abbigliata a lutto, recando le offerte necessarie alla libagione per i

52
defunti: latte, miele, acqua di sorgente, vino, olio, fiori. Mentre la
regina compie siffatti riti, il Coro supplica la Terra, Ermes, Ade
affinché permettano all’anima di Dario di salire alla luce. Appare
allora il vecchio re su dalla tomba, in tutta la sua maestà, con la tiara
regale e i calzari tinti di croco. Atossa narra a Dario l’infelice e tragico
avvenimento e risponde alle sue domande. L’Ombra comprende che
quanto accaduto non è altro che il compiersi di annosi oracoli.
Biasima l’azione del figlio e ne chiarisce i contorni: la giovanile
audacia, la pazzia e l’ambizione di essere pari agli dèi – tanto da poter
pensare di incatenare il sacro Ellesponto e dominare Poseidone –
hanno fatto avverare i vaticini prima del tempo prefissato. Atossa
aggiunge a tutto questo anche l’importanza della frequentazione di
meschini consiglieri, i quali lo rimproveravano di farsi le guerre in
camera e lo incolpavano di non riuscire ad accrescere in nulla la
potenza del padre. A questo punto, Dario rievoca la storia dei re suoi
predecessori, concludendo con la costatazione che mai nessuno, di
quanti detenevano un tempo il potere assoluto, ha portato tanti mali e
tanti danni alle terre asiatiche. Raccomanda al Coro di non
intraprendere più spedizioni contro la Grecia, poiché la terra stessa è
alleata degli Elleni, e predice l’ulteriore dolorosa sconfitta di Platea.
Nell’accomiatarsi, esorta Atossa ad accogliere Serse al suo ritorno con
un manto adorno, poiché per lo sgomento egli si è lacerato le vesti
regali, e saluta il Coro con un invito a ricercare la felicità anche nella
sciagura, poiché la ricchezza non giova ai morti.
Mentre la Regina entra nel palazzo per adempiere alle richieste del
defunto, il Coro ricorda la fortuna, la grandezza, la felicità del governo
di Dario. Poco dopo, entra in scena Serse con le vesti a brandelli.
Inizia ora il luttuoso pianto alternato tra il sovrano e i suoi fedeli, un

53
pungente lamento che rievoca nuovamente quanti sono caduti e cede
allo strazio della sciagura e del disastro.

***

Dopo questo breve, ma necessario resoconto dei momenti più


importanti della tragedia, cercheremo di individuare le tematiche
cardine attorno alle quali si sviluppa il dramma; lo scopo è un’analisi
storico-religiosa della tragedia in questione, il fine ultimo è il tentativo
di rintracciare la struttura normativa soggiacente ai Persiani per
compararla alle conoscenze in nostro possesso, relativamente alle
tragedie di argomento storico e mitico.
Punto di avvio della nostra analisi è lo studio della caratterizzazione
dei Barbari – dei Persiani – portati a teatro da Eschilo.
La tragedia Persiani è stata messa in scena per la prima volta nel
472 a.C. ad Atene, a pochi anni di distanza dalle battaglie di Salamina
e di Platea (480-79 a.C.) che ne rappresentano lo sfondo storico.
Dunque, il suo argomento non è solamente storico, ma è decisamente
contemporaneo. Abbiamo visto nel capitolo precedente quanto la
storicità della materia abbia inficiato una corretta analisi della
tragedia, soprattutto in quella parte della critica che ha riconosciuto
nei Persiani una presunta “grecità aggressiva” da parte di Eschilo,
facendo di essa il centro focale dell’intero dramma.
Come abbiamo già avuto modo di notare, l’ampio disaccordo
dell’opinione scientifica, in relazione alle reali intenzioni di Eschilo
nella composizione e nella rappresentazione del dramma persiano, si
tratteggia attraverso due filoni interpretativi principali. La prospettiva

54
più recente4 vede nella struttura morale e religiosa greca la chiave di
interpretazione della tragedia in questione. Considera il motivo della
hybris quale centro focale del dramma, soprattutto attraverso
l’enfatizzazione del contrasto tra il felice e giusto regno di Dario e la
condotta del tracotante Serse. Talvolta, guarda al Coro 5, o ai Persiani
tutti6, quali protagonisti collettivi della tragedia. Sempre, considera la
lezione etico – religiosa, portata dal discorso di Dario, come
universale e rivolta a tutti i popoli e tutta l’umanità.
La prospettiva cronologicamente meno recente7, al contrario, ritiene
che l’intento primario del tragediografo nell’ideare l’opera fu quello
encomiastico e auto – celebrativo. Nei suoi primi sostenitori
soprattutto, l’idea dell’impegno patriottico del poeta si lega alla
considerazione che l’opera Persiani non poteva essere una tragedia
genuina e, per altri ancora, che pur restituiscono ai Persiani la dignità
di un buon dramma, essa non rappresentava il giusto “luogo” in cui
celebrare un tale sentimento patriottico8. Questa parte della critica,
come abbiamo visto, si divide ulteriormente quanto alla definizione

4
Cfr. G. Perrotta, I tragici greci, Messina-Firenze 1966, pgg. 55 – 66; H. D.
Broadhead, op. cit., pgg. XXVIII – XXIX; S. Saïd, Darius et Xerxes dans les
Perses d’Eschyle, «Ktema» 6, 1981, pgg. 17 – 38, in particolare pgg. 31 – 36; G.
Paduano, Sui Persiani di Eschilo: problemi di focalizzazione drammatica, Roma
1978, passim; J. De Romilly, Eschyle, Les Perses. Edition, introduction et
commentaire par un groupe de Normaliens sous la direction de J.D.R., Paris
1974, pg. 16; M. V. Ghezzo, I Persiani di Eschilo, AIV 98, 1938 – 1939, pgg. 427
– 448; U. Bianchi, La religione greca, Torino 1975, pgg. 112 – 114.
5
Cfr. G. Perrotta, op. cit., pgg. 64 – 66.
6
G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pg. 88; L. Belloni, Eschilo. I Persiani,
Milano 1994, pg. XIII sgg.
7
Molto comune nel diciannovesimo secolo, è presente nella critica fino alla metà
del novecento. Cfr. C. J. Blomfield, op. cit. passim; A. O. Prickard, The Persae of
Aeschylus, London 1879, pgg. XXVIII – XXIX; A. Sidgwick, Aeschylus, Persae,
Oxford 1903; G. Murray, Aeschylus. The Creator of Tragedy, Oxford 1962,
passim; G. Clifton, The Mood of the Persai of Aeschylus, G&R 10, 1963, pgg. 111
– 117.
8
G. Murray, op. cit., pg. 121.

55
del soggetto dell’elogio: tutta la Grecia; la sola Atene; la Grecia e
Atene in particolare; Temistocle o Aristide ecc.
Tuttavia, il mondo scientifico appare in ampio disaccordo anche
riguardo ad un altro punto che si rivela essere, invece, molto
importante per una reale comprensione dei Persiani: l’antitesi Greco /
Barbaro.
Il dibattito si è articolato su diverse problematiche: in primo luogo,
quanto vi sia di orientale sotto l’affresco che viene dipinto dei Persiani
e quanto, invece, sia frutto di un pregiudizio greco; quanto siano
marcate da parte del tragediografo le differenze tra il mondo barbaro e
quello greco; infine, quanto queste eventuali diversità influenzino lo
specifico del tragico.
Nella critica scientifica, l’antitesi Greco / Barbaro è enfatizzata o
minimizzata in base all’ottica assunta per interpretare la tragedia 9. Gli
studiosi che sostengono la prospettiva patriottica del tragediografo,
accentuano solitamente la distinzione tracciata da Eschilo tra mondo
barbaro – persiano e mondo greco. Da questo punto di vista, l’idea
della hybris sarebbe inestricabilmente legata alla considerazione
negativa del Barbaro, poiché alla base del pensiero di Eschilo ci
sarebbe la constatazione che i Barbari, proprio per le loro
caratteristiche – nettamente opposte, ovviamente, a quelle dei Greci –,
sarebbero maggiormente suscettibili all’eccesso, alla hybris e alla sua
punizione. Al contrario, quella parte della critica che considera la
problematica della hybris come universale, che vede inerente al testo
l’idea che tutti i popoli siano soggetti alle medesime leggi divine,

9
Cfr. sull’argomento E. Hall, Inventing the Barbarian, Oxford 1989, pgg. 71 –
72.

56
tende a ridimensionare l’antitesi stessa10. Vede, solitamente, nelle
differenze delineate dalla tragedia, motivi fortuiti che non
costituirebbero il vero nerbo del dramma 11 e, talvolta, legge sotto i
costumi persiani idee, usanze e valori unicamente greci. Tuttavia per
questi ultimi, i Persiani non sono presentati in modo totalmente
negativo, poiché lo sfondo barbaro rappresenterebbe esclusivamente il
pretesto per mostrare ai propri connazionali, attraverso l’alterità, dove
possono condurre desideri tracotanti. Questa prospettiva percepisce
una notevole riduzione dell’esotico, con l’utilizzo del termine Barbaro
in un’accezione ancora neutra e concede al massimo tocchi di colore
orientale12.
Per il momento, ci sembra corretto dire – come ha mostrato il
saggio di Hall, Inventing the Barbarian – che i Persiani rappresentano
la prima testimonianza ancora esistente di una polarizzazione, in seno
al pensiero greco, di Elleni e Barbari. Una polarizzazione sorta in
risposta alla minaccia portata al mondo greco dall’impero Persiano e
enfatizzata dalla retorica panellenica della lega Delio – Attica13.
Tuttavia, valutare quanto intesi siano lo sciovinismo e la presunta
“grecità aggressiva”, mostrati da Eschilo nel dramma, è per noi cosa
secondaria rispetto a un’analisi della caratterizzazione dei Persiani e
dello sfondo persiano ricreato nella tragedia. Infatti, la verifica degli
assunti secondo i quali sarebbe il patriottismo a orientare la tragedia e
sarebbe lo scontro di civiltà il vero centro del dramma, può essere
effettuata soltanto all’interno dell’economia della tragedia stessa, dopo
10
G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pg. 21; L. Belloni, Eschilo. I Persiani,
pgg. XIII – XX.
11
G. Perrotta, op. cit., pg. 54.
12
Cfr. G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pgg. 22 – 24. L. Belloni, Eschilo. I
Persiani, pg. IX.
13
E. Hall, op. cit., pgg. 1 – 17 e 56 – 62.

57
aver tentato una ricognizione degli elementi che costituiscono il
tessuto tragico dell’opera.
Bisognerà chiedersi, a questo punto, quale sia la rappresentazione
eschilea dei Persiani; sarà necessario domandarsi se Eschilo
intendesse caratterizzare i Persiani come “Greci in terra di Persia”,
oppure attraverso una percezione dettata esclusivamente dal
pregiudizio e dagli stereotipi del suo tempo, o ancora se ci fosse
nell’intenzione del poeta un tentativo di rappresentazione reale. In
altre parole, se quelli posti sulla scena fossero, etnograficamente
parlando, una rappresentazione il più possibile realistica dei Persiani
storici, quelli che anch’egli aveva veduto combattere. Quale visione,
insomma, ci restituisce Eschilo del Barbaro?
In primo luogo, possiamo partire dalla considerazione del tanto
discusso termine bárbaroj. È ormai noto che prima delle Guerre
Persiane il termine possedeva un’accezione neutra, legata al
linguaggio. Il termine deriva, infatti, da un aggettivo di probabile
origine orientale14, nato dal raddoppiamento di una onomatopea (bar-
bar) che rappresentava il suono di una lingua incomprensibile ai Greci
e, come tale, non aveva implicazioni negative, se non nell’impossibile
comunicazione15. La connotazione semantica del termine è, dunque,
primariamente linguistica, indicando l’incomprensibile balbettio dei
non – greci16.
Usato nel V secolo a.C. sia nella sua forma aggettivale, sia come
sostantivo, nelle epoche precedenti non è mai utilizzato al plurale per
14
Il termine ricorda parole simili esistenti in antiche lingue orientali, specialmente
il barbaru, “straniero”, sumerico – babilonese. Cfr. sull’argomento E. Hall, op.
cit., pg. 4 n. 5.
15
E. Hall, op. cit., pg. 4.
16
Cfr. M. Centanni (a cura di), Eschilo. Le tragedie, Milano 2007, pgg. 744 –
745.

58
indicare collettivamente l’intero mondo non greco17. I Persiani di
Eschilo è tra le prime attestazioni in cui la parola è utilizzata per
indicare l’intera totalità delle genti non parlanti greco18, in particolare,
nell’abito della tragedia in oggetto, indica i Persiani e tutti i popoli
loro sudditi. Sicuramente Eschilo, nel dramma, gioca ancora con lo
scarto linguistico del termine, facendo risaltare in più di un’occasione
il suono differente della lingua dei Barbari e di quella dei Greci. Nel
racconto del Messo, ad esempio, al peana intonato dagli Elleni (v.
393) e al loro grido di battaglia (vv. 402 – 405) si contrappone il
frastuono, il confuso clamore (×óqoj) della lingua persiana (v. 406)19.
Ancor di più, il gioco linguistico si manifesta nella “barbara
chiarezza”, ai versi 633 – 636, quando il Coro, invocando la salita
dell’ombra di Dario dall’Ade, chiede: ˜ ×’Þíei mou makarítaj
êsodaímwn basileùj / bárbara safhnÖ / ëéntoj tà panaíol’
aêanÖ dúsqroa bágmata; (il beato sovrano pari agli dèi ode le mie
chiare parole in lingua barbara, le varie voci del mio dolore?).
Considerato che il termine Barbaro etimologicamente indica una
comunicazione non chiara, perché straniera, bárbara safhnÖ
dovrebbe essere in lingua greca un ossimoro20. Quanto detto, ci

17
In epoca arcaica, fino al V secolo, il termine ha come riferimento unico il
linguaggio. Ne ritroviamo traccia nell’aggettivo barbarophōnos, dalla parola
incomprensibile (quindi straniera), utilizzato un’unica volta nel catalogo troiano
dell’Iliade, per definire il popolo dei Cari (Il. II 867). Nel VI secolo, il termine è
attestato in due greci dell’est: Anacreonte di Teo (fr. 313b SLG) in cui la parola è
usata in modo peggiorativo, ma è ancora confinata al linguaggio; Eraclito di Efeso
(22B 107 DK), in cui l’utilizzo del termine è da ricondurre a un conteso
metaforico (Cfr. C. H. Kahn, The Art and Thought of Heraclitus, Cambridge
1979, pgg. 35, 107). A Sparta, secondo quanto racconta Erodoto (XI 11, 2; XI
55,2), i Barbari sono chiamati xeinoi. Pindaro lo usò solo in modo aggettivale, in
un’ode scritta dopo Maratona (Isthm. VI 24). Cfr. E. Hall, op. cit., pgg. 9 – 10.
18
Cfr. vv. 187; 255; 391; 423; 434; 475; 635; 798; 844.
19
Cfr. E. Hall, op. cit., pg. 77.
20
Cfr. G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pg. 23.

59
permette di sottolineare una cosa ancor più importante, vale a dire che,
nel gioco della rappresentazione, i Persiani si “autodefiniscono” – o
meglio, Eschilo fa si che i Persiani si “autodefiniscano”– Barbari, con
quella che sarebbe la valutazione della grecità. Però, poiché l’antitesi
Greco – Barbaro non è biunivoca, ma una parte definisce l’altra in
senso oppositivo, le spiegazioni della presenza di questa auto-
definizione possono essere soltanto due: o in essa si tradirebbe la
grecità aggressiva di Eschilo (il termine Barbaro sarebbe attestato
principalmente nel racconto del messaggero che, solitamente, è letto
dalla critica come la sede principale dell’encomio patriottico 21),
oppure l’uso che il tragediografo vuole fare della parola, la
purificherebbe da «qualsiasi connotazione, riducendola a designazione
denotativa neutra»22. Nel contesto persiano in cui sono calati,
bárbaroj e safhnÔj, per alcuni studiosi non sembrano
rappresentare un mero artificio retorico, entrambi, infatti,
esprimerebbero chiaramente una condizione di idonea
comunicazione23: identità e chiarezza del linguaggio. In effetti, nel
contesto della tragedia, il termine “Barbaro” sembrerebbe essere
sottoposto ad uno spostamento semantico: per tutti i personaggi del
dramma “Barbaro” equivale a “noi Barbari”. In questo senso, nella
focalizzazione decisamente persiana della tragedia, alcuni hanno
ipotizzato un utilizzo ancora neutro del termine24. Altrimenti,
bisognerebbe pensare al “chiare parole in lingua barbara (=
21
Cfr. G. Nenci, Per una interpretazione storiografica del proemio dei
«Persiani», PP 5, 1950, pgg. 215 – 223, in particolare pg. 219.
22
Cfr. G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pg. 22; M. Centanni, Eschilo. Le
tragedie, pgg. 744.
23
Cfr. G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pg. 22; H. D. Broadhead, op. cit., pg.
166.
24
Cfr. H. D. Broadhead, op. cit., pg. 79. L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pgg. 214 –
215.

60
incomprensibile)” come a un poco celato sarcasmo di derivazione
nazionalistica, decisamente impertinente rispetto alla gravità del
contesto tragico25.
Le interpretazioni poliedriche della critica in relazione all’utilizzo,
nei Persiani, del termine in questione – l’enfasi sulla polarità di
“Barbaro”, infatti, si sposta in base all’esegesi della tragedia proposta
da ogni studioso – dimostrano le difficoltà presenti nel tentare di
definire, attraverso un termine, quanto sia centrale il tema
dell’orgoglio patriottico e, soprattutto, comprovano le problematiche
affrontate dagli specialisti nel provare a delineare l’atteggiamento del
poeta verso l’alterità. A nostro avviso, è possibile valutare l’intensità
della polarizzazione insita nell’utilizzo eschileo di “Barbaro”, solo
comparativamente, vale a dire in riferimento al contesto storico-
culturale del poeta ateniese.
Per il momento, limitiamoci a dire che, quali che fossero le reali
intenzioni del poeta, sta di fatto che il termine Barbaro nella tragedia
Persiani, subisce una ridefinizione semantica del tutto nuova rispetto
al passato. La tragedia eschilea rappresenta, infatti, la prima fonte, in
seno alla produzione letteraria greca, di una concettualizzazione dei
Barbari come collettivamente opposti ai Greci, di una definizione
greca di un mondo non greco, di una polarizzazione dell’Elleno e del
Barbaro. Tra le opere che ci sono rimaste, inoltre, quella di Eschilo è
la prima a presentarci quelle antinomie attraverso le quali i Greci
codificano il loro mondo, demarcandolo dal barbarismo, e che saranno
produttive per tutto il V secolo e oltre.

25
W. Headlam, Notes on Aeschylus, CR 18, 1904, pg. 241 - 243, intende
bárbara safhnÖ come un ossimoro e, rifiutando la paradossalità della frase,
propone bárbara ÞsafhnÖ, riferendosi a Lucian. Necyom. 9.

61
La più importante dimensione in cui è attiva la polarizzazione tra
Greco e Barbaro, nella retorica greca del secolo, è quella politica.
L’antinomia autocrazia persiana / libertà greca è presente e ben
delineata già nei Persiani, in particolare nella scena dell’inchiesta di
Atossa su Atene in cui, il secondo polo dell’opposizione si identifica
chiaramente nella democrazia ateniese: «tíj dè poimánwr 1pesti
kÞpidespózei stratÐ;»26 – chiede la Regina al Coro, che risponde
con una diretta professione di democrazia – «o5tinoj doûloi
kéklhntai fwtòj o÷d’øpÔkooi»27. I capi dei popoli sottoposti al
Gran Re sono chiamati anch’essi schiavi, “doúloi”28, in un voluto
rapporto oppositivo che richiama anche il giogo servile (zugón
doúlion)29 che si vuole imporre all’Ellade. Quando si sottolinea che,
una volta conquistata la città di Pallade, «pâsa gàr génoit’$an
„Ellàj basiléwj øpÔkooj»30, si afferma il ruolo di Atene quale
baluardo dell’Ellade. Nelle parole del Messo, in cui si passa dal
sospetto, al contatto con la realtà non più modificabile della sconfitta,
non è portato un semplice annuncio della rovina, ma è effettuata una
dettagliata descrizione della disfatta persiana ad opera degli Ateniesi,
la cui abilità strategica risulta superiore alla immane moltitudine delle
forze messe in campo dal Gran Re. E proprio Atene trova l’esaltazione
dei suoi valori nelle parole di questo personaggio persiano, il quale,
alla domanda se la polis greca sia stata devastata, risponde così:

26
Cfr. v. 241: «E quale signore è preposto al commando dell’esercito?».
27
Cfr. v. 242: «Di nessuno si dicono schiavi, né sudditi di un uomo».
28
Che probabilmente traduce il termine bandaka attestato nell’iscrizione di
Behistun. Cfr. J. M. Cook, The rise of the Achaemenids and establishment of their
empire, in I. Gershevitch (ed.), The Cambridge History of Iran, 2, Cambridge
1985, pgg. 200 – 291.
29
Cfr. v. 50.
30
Cfr. v. 234: «Tutta l’Ellade allora sarebbe suddita del Re».

62
«Quando invero ci sono uomini, il muro è saldo»31. Ancora, nelle
parole di Atossa, l’asserto che Serse, anche sconfitto, resterà
comunque re poiché non ha da rendere conto alla città 32, sottolinea
l’attitudine dispotica della regalità persiana, in contrasto alle leggi
della democrazia ateniese33. Nell’immaginare la stasi dell’impero
dopo l’annuncio del Messo, il Coro cita tre elementi basilari della
tradizione politica persiana che, se ben attestati nelle fonti
achemenidi34, individuano anche altrettanti opposti costumi greci: il
pagamento del tributo al re, in opposizione alle tasse devolute dagli
Ateniesi allo stato, la proschinesi in opposizione all’uguaglianza
politica dei cittadini, l’idea che la monarchia sopprima i dissensi, in
contrasto con il concetto di parrhēsia, la libertà di parola implicita nei
valori della democrazia35.
Se è ben presente, nel testo, l’antinomia autocrazia persiana / libertà
greca con tutti i suoi corollari, tuttavia, il crudo contrasto tra il sistema
politico persiano e la democrazia greca è, come vedremo, mediato,
nell’economia della tragedia, dalla contrapposizione tra il dispotismo
irresponsabile di Serse e il buon governo di Dario, il vecchio re
persiano. Il fatto che l’intento encomiastico del tragediografo appaia
in alcuni passaggi, attraverso commenti politici espliciti, ma in
maniera piuttosto frammentaria, rende evidente che esso risulta essere
secondario rispetto a quelle che sono le tematiche portanti del
dramma. Già questo rilievo ci rende dubbiosi, rispetto alla prospettiva

31
Cfr. A. M. G. Capomacchia, L' eroica nutrice. Sui personaggi «minori» della
scena tragica greca, Roma 1999, pgg. 17 – 18.
32
Cfr vv. 213 – 214.
33
Si pensi alla responsabilità dei magistrati ateniesi che ogni anno dovevano
sottoporsi a un controllo sul proprio operato. Cfr. Hdt. III 80.
34
Cfr. L. Belloni, Eschilo. Persiani, pg. XXXI.
35
Cfr. vv. 584 – 594.

63
critica del XIX secolo che vedeva quale linea portante della tragedia la
mera, xenofobica autocelebrazione della patria. Il discorso di Eschilo
è, come vedremo, molto più articolato.
Nella descrizione che il tragediografo fa del Barbaro, è certamente
attivo il paragone con il “modello greco”, non sempre esplicito. Certe
consuetudini e certi atteggiamenti dei Persiani sono ricondotti dal
poeta ad altrettante opposte istanze della cultura greca. Nel discorso
del Messaggero, ad esempio, è messa in evidenza la crudeltà di Serse
quando minaccia di decapitare i capitani delle sue navi 36, un
comportamento troppo eccessivo per un greco, un tratto, quello della
crudeltà del Barbaro, che si ricollega al concetto ellenico di
dikaiosúnh e al suo contrario: Þdikía. In particolare, altri tre difetti
del Barbaro sono sottolineati dal tragediografo: la gerarchizzazione
della compagine statale, l’eccesso di lusso e di ricchezza, con tutte le
sue appendici, e l’eccessivo abbandono a particolari stati emotivi. Per
quanto riguarda l’attitudine servile dei Persiani, si può fare riferimento
all’accoglienza che i Fedeli riservano alla Regina, con il simbolico
atto della prosternazione37, più consono al divino, per i Greci38, ma
parte integrante del cerimoniale regale persiano39. E Ancora, si può
ricordare il momento dell’apparizione dell’ombra di Dario, quando il
Coro ha timore a parlare con l’antico sovrano che conserva,
nondimeno, agli occhi dei vecchi Fedeli, tutta la sua auctoritas40.
Tutto questo contrasta con l’uguaglianza politica e con la libertà di
parola dei cittadini della polis democratica. Il lusso e la ricchezza

36
Cfr. v. 371.
37
Cfr. v. 152.
38
Cfr. ad esempio, Isocr. Paneg. 151.
39
Cfr. L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. 115.
40
Cfr. vv. 694 – 696.

64
mostrati dai Persiani41, il mégaj ploûtoj del regno di Serse, si
oppongono all’idea greca di austerità: il filone di argento del Laurio42
– i cui proventi, oltretutto, furono utilizzati dagli ateniesi per
potenziare la flotta, grazie alla lungimiranza di Temistocle – appare
ben poca cosa, rispetto alla fortuna, all’oro e alla grande ricchezza
messi in campo dal Gran Re. Alcuni termini presenti nei Persiani
rinviano alla idea di lusso e di mollezza che diverranno archetipo
d’eccellenza dell’Oriente: nello specifico, il concetto di ßbrosúnh43,
che lega insieme l’idea di morbidezza, di delicatezza e di mancanza di
ritegno, ma che è connesso anche all’idea di lusso, di fasto,
richiamando la preziosità e lo splendore. Nella tragedia, attraverso
l’utilizzo di tanti aggettivi composti con ßbro-44, anche in relazione a
personaggi maschili, si evidenzia, da una parte, la raffinatezza e la
mollezza dei costumi orientali45, dall’altra, la mancanza di
moderazione nell’esternazione del dolore, soprattutto maschile, che
crea un atmosfera decisamente non – greca46.
La questione si fa più complessa, invece, se ci volgiamo a
considerare la descrizione del sistema religioso persiano. Dal punto di
vista religioso, la differenziazione tra un orizzonte persiano e uno
greco, nella tragedia, sembra essere tenue e ambigua. In primo luogo, i
41
Per la discussione sulla funzione, nell’economia della tragedia, delle tematiche
della moltitudine e della ricchezza, quali caratteristiche precipue dei Persiani, vedi
capitolo successivo.
42
Cfr. v. 238.
43
L’aggettivo ßbrój non è parola omerica, si torva invece in un frammento
esiodeo (fr. 339), in relazione alla delicatezza e alla tenerezza di una giovane
donna. Nel periodo arcaico, è utilizzato dai poeti di Lesbo (Sapph. frr. 44, 7; 128;
140, 1). In riferimento a una donna o a una dea l’aggettivo conserva un valore
neutro o positivo, ma connesso agli uomini o alle città assume un valore
spregiativo (Cfr. Hdt. I 71,4). Cfr. E. Hall, op. cit., pg. 81.
44
Cfr. vv. 41; 135; 541; 543; 1073.
45
Cfr. l’immagine del popolo dei Lidi, dai raffinati costumi dei vv. 41 – 45.
46
Per tutti questi rilievi cfr. E. Hall, op. cit., pgg. 79 – 86.

65
personaggi del dramma si riferiscono tanto naturalmente, quanto
farebbe un Greco, a Zeus, ad Apollo ad Ermes, ad Ade a Poseidone e
ad Ares. Questo rilievo ci spinge subito a due distinte considerazioni.
La prima è che i Persiani sono descritti decisamente come politeisti,
mentre la religione dell’epoca achemenide è ormai ritenuta essere, da
larga parte degli specialisti, quella Zoroastriana47. La seconda
considerazione riguarda, invece, l’intento precipuo del poeta: Eschilo
mette in scena, dietro la maschera persiana, unicamente rituali e
credenze greche, oppure tenta una “traduzione”, in termini consoni
alla propria cultura, di cognizioni genuinamente persiane e,
specificamente, zoroastriane? In altre parole, sotto il velo
dell’omologia, si posso trovare precisi riferimenti alla sfera religiosa
aliena? Alcuni studiosi, in passato, hanno visto in taluni brani della
tragedia, sotto un’immagine significativamente greca, aspetti del
sistema religioso zoroastriano o, anche, del politeismo pre-
zoroastriano48. Tuttavia, nelle sue ricerche sull’argomento, Hall 49 ha

47
Cfr., in generale, sul problema della religione achemenide: U. Bianchi, Zamān i
Ōhrmazd, Torino 1958; Idem, L’inscription «des daivas» et lo zoroastrisme des
Achéménides, RHR 192, 1977, pgg. 3 – 30; G. Gnoli, Le Religioni dell’Iran
antico e Zoroastro, in G. Filoramo (a cura di), Storia delle Religioni, 1, Le
Religioni antiche, Roma – Bari 1994, pgg. 455 – 498; Idem, Problems and
Prospects of the Studies on Persian Religion, in U. Bianchi, C. J. Bleeker, A.
Bausani (eds.), Problems and Methods of the History of Religion, Leiden 1972,
pgg. 67 – 101; J. Duchesne-Guillemin, La religion de l’Iran ancien, Paris 1962,
pgg. 134 – 223; G. Widengren, Die Religionen Irans, Stuttgart 1965, pgg. 117 –
155; M. Boyce, A History of Zoroastrianism, 2, Under the Achaemenians, Leiden
– Köln 1982; J. M. Cook, The Persian Empire, London, Melbourne, Toronto
1983; R. N. Frye, The History of Ancient Iran, München 1984, pgg. 120 – 124;
cfr. Idem, Religion in Fars under the Achaemenids, in Orientalia J. Duchesne-
Guillemin Emerito Oblata, «Acta Iranica» 23, 1984, pgg. 171 – 178; M. Schwartz,
The Religion of Achaemenian Iran, in I. Gershevitch (eds.), The Cambridge
History of Iran, 2, Cambridge 1985, pgg. 664 – 697.
48
Cfr. ad esempio P. Keiper, Die Perser des Aeschylos als Quelle für altpersische
Altertumskunde, Diss. Erlangen 1877; W. Headlam, Ghost-rising, magic, and the
underworld, CR 16, 1902, pgg. 52 – 61; A. S. F. Gow, Notes on the Persae of

66
efficacemente messo in evidenza come la presenza di differenze
religiose sia, nella tragedia attica, una rarità 50. Ma cosa dobbiamo
intendere per “differenze religiose”? Per il momento, atteniamoci allo
specifico contesto della tragedia di Eschilo. In riferimento ai Persiani,
dunque, è stata messa in rilievo dagli studiosi la presunta enfasi
mostrata nella dottrina zoroastriana per la sacralità e la purezza degli
elementi naturali, che trasparirebbe anche nel testo eschileo 51. Nella
definizione del fiume Strimone come “sacro” (ßgnoû Strumónoj)52 e
del mare come “incorruttibile”53 è stato visto un riferimento alla
venerazione persiana per gli elementi, quale traspare, ad esempio,
nella sedicesima Yasna che conserva una lista di dediche giornaliere
alle entità venerabili: dopo Ahuramazda e gli Amasha Spanta
(Benefici Immortali) compaiono anche le divinità del fuoco, delle
acque, del sole, della luna e del vento54. Tale interpretazione sarebbe
avvalorata dalle parole erodotee che ci riportano la venerazione
persiana per il sole, la luna, la terra, il fuoco, l’acqua e il vento 55. Sulla
medesima strada, anche la reverenza mostrata per Urano e Gaia,
quando in Tracia l’intero esercito persiano cade in ginocchio

Aeschylus, JHS 48, 1928, pgg. 133 – 158; W. Kranz, Stasimon: Untersuchungen
zu Form und Gehalt der griechischen Tragödie, Berlin 1933; G. Fiori Sole, Il
daimon ne «I Persiani» di Eschilo, AFLC 15, 1946, pgg. 23 – 49; A. T. Olmstead,
L’Impero Persiano, tr. it., Roma 1982, (orig. History of the Persian Empire,
Chicago 1948), pgg. 20 – 24 e n. 64, pgg. 135 – 144 e n. 9.
49
Cfr. E. Hall, op. cit., pgg. 86 – 93.
50
Cfr. E. Hall, op. cit., pgg. 143 – 154.
51
A. F. Garvie, Aeschylus. Persae, Oxford 2009, pg. XIV.
52
Cfr. v. 497. Per quanto riguarda la venerazione persiana dei fiumi cfr. Hdt. I
138, 2: «Nel fiume non orinano, non sputano e non si lavano le mani, né
permettono che alcun altro lo faccia, ma venerano moltissimo i fiumi».
53
Cfr. v. 578. Cfr., per entrambi i rilievi, W. Kranz, op. cit., pg. 86; W. Headlam,
Ghost-rising, magic, and the underworld, pgg. 55 – 56; H. D. Broadhead, op. cit.,
pg. XXXI; E. Hall, op. cit., pg. 88; L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. 189.
54
Cfr. E. Hall, op. cit., pg. 87; M. Boyce, op. cit., pgg. 245 – 246.
55
Hdt. I 131, 2.

67
pregando56, è stata interpretata come eminente riferimento alla
religiosità persiana. Tuttavia, ßgnój anche per i greci è epiteto
ricorrente dei fiumi, lo ritroviamo sia nei tragici, sia in Pindaro e nello
stesso Eschilo57. Ugualmente, non possono dirsi esclusivamente
persiane la proschinesi e la invocazione a Urano e Gaia 58.
Altri hanno voluto vedere nell’omen di Atossa, occorso mentre
eseguiva riti apotropaici per stornare le preoccupazioni portate dalla
notte, riferimenti a elementi religiosi Persiani 59. La Regina vedeva
un’aquila60, rifugiata sull’altare di Febo, arrendersi agli attacchi di un
falco che gli spiumava con gli artigli il capo. Ora, quando Atossa
racconta al Coro gli atti da lei compiuti per prepararsi al sacrificio per
i numi tutelari dopo l’incubo notturno, descrive un rito, a detta degli
studiosi61, integralmente greco: si purifica le mani con acqua lustrale 62
e si avvicina al bwmój63 per offrire una libagione64. Al contrario,
quando, raccontando il presagio, parla dell’altare di Febo dove si
56
Cfr. v. 499.
57
Aesch. Suppl. 254 – 255; Prom. 434; TrGF III 300, 6; Pind. Isthm. VI 74; cfr.
anche Eur. Med. 410.
58
Cfr. Eur. Med. 148; Soph. OC 1654 – 1655.
59
Cfr. vv. 201 – 206. Cfr. H. J. Rose, A Commentary on the Surviving Plays of
Aeschylus, Amsterdam 1957, pg. 106.
60
Generalmente, nell’immaginario greco, emblema della regalità persiana. Cfr. A.
S. F. Gow, op. cit., pg. 138 che cita Xen. Cyr. VII 1,4.
61
L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. 129; A. Sideras, Aeschylus Homericus,
Göttingen 1971, pg. 124.
62
Cfr. Hom. Il. II 752, XII 33; Od. V. 441, XVII 205 – 206; h. Apoll. 241, 300,
376, 380, 385.
63
Si ricordi Hdt. I 132, 1: «il modo seguito dai Persiani per il sacrificio ai suddetti
dei è il seguente: non erigono altari (bwmoùj), né accendono fuochi quando
vogliono sacrificare, non usano libagioni, né flauto, né bende, né grani d’orzo
[…]». Per la discussione sulla visione erodotea dei Persiani, si veda sotto, in
questo capitolo; per la lettura erodotea della regalità persiana si veda il capitolo
successivo.
64
Forse proprio allo stesso Apollo, citato poco dopo, come giustamente fa notare
H. D. Broadhead, op. cit., comm. ad loc.: era, infatti, usanza, ricorda lo studioso,
raccontare un sogno al dio a fini di protezione (Cfr. Soph. El. 424 – 425, schol. in
Eur. IT 42 e Aristoph. Av. 61).

68
rifugia l’aquila, non cita il bwmój, ma l’æscára. Sebbene entrambi i
termini siano tradotti generalmente come “altare” e sebbene Strabone
(XV 3, 15) li accomuni in un generico bwmój, il termine tecnico
æscára, un altare solitamente radente al suolo, si collega in qualche
modo all’idea del fuoco, significando spesso, più precisamente,
bracere, focolare (su cui ardono le offerte sacrificali) e anche altare
domestico. Questa comparazione ha indotto gli studiosi a vedere
nell’æscára un richiamo al recinto sacro entro cui i Magi
custodivano il fuoco sacro o un richiamo ai ben noti templi del fuoco,
torri quadrate con una camera sopraelevata dove ardeva un fuoco
perenne65. Accostare l’æscára di Apollo all’altare del fuoco persiano
dedicato a Mithra o ad Ahuramazda e identificare sotto il nome di
Febo il dio Mithra è stato il passo successivo66. Ma, come fa notare
Hall67, Apollo fu identificato con Helios probabilmente solo
dall’epoca del Fetonte di Euripide68 e il nome di Mithra solo più tardi
fu tradotto come Apollo o Helios. Lo stesso Erodoto69, vissuto più
tardi di Eschilo e suddito dell’impero, erroneamente scambia Mithra
per la divinità femminile Anahita, associata al dio nel culto. D’altra
parte, nell’orizzonte greco, Apollo non è certo una figura divina

65
Cfr. A. S. F. Gow, op. cit., pg. 138; H. D. Broadhead, op. cit., pg. 83; A. T.
Olmstead, op. cit., pg. 23; L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. 130.
66
Cfr. H. D. Broadhead, op. cit., pgg. 82 – 83, che, richiamandosi alle
identificazioni tra Febo e Mithra di G. Stanley Faber (The Origin of Pagan
Idolatry ascertained from Historical Testimony and Circumstantial Evidence,
London 1816, pgg. 211 e 214), ritiene non casuale la citazione di Febo, che nelle
intenzioni del poeta, rappresenterebbe il Sole, venerato dai Persiani col nome di
Mithra. Cfr. anche H. J. Rose, A Commentary on the Surviving Plays of
Aeschylus, pg. 106.
67
Cfr. E. Hall, op. cit., pg. 87.
68
Dell’opera rimangono alcune centinaia di versi. Cfr. Eur. TrGF frr. 771 – 786
Kannicht.
69
Cfr. Hdt. I 131, 3.

69
estranea al contesto profetico del brano70. Nella tradizione greca,
inoltre, l’aquila era strettamente connessa a Zeus, era il suo volatile
prediletto, il suo alacre nunzio71. Il suo rapido apparire in risposta ad
una preghiera rappresentava un ottimo presagio. Dunque, la vista di
un’aquila spennata da un falco, che genera la paura di Atossa, è
presagio di sventura; e il tipo di disgrazia è definita in modo ancor più
specifico, se pensiamo che l’aquila è vista dai Greci (erroneamente)
quale simbolo della regalità persiana e se riteniamo che anche Eschilo
ne potesse essere a conoscenza. Broadhead72 sostiene che il significato
del passo giace nel riconoscimento del fatto che l’aquila, più grande e
più potente del falco, è alla mercé del volatile più piccolo, come la
grande e potente armata di Serse sarà sconfitta dalla ben più piccola
armata greca.
Altri73 hanno visto nelle ricorrenti citazioni di un daímwn che
perseguita i Persiani un riferimento ad Ahriman – il principio del male
nella religione di Zoroastro. Ma l’interscambiabilità del termine con
qeój – nella tragedia, infatti, la sconfitta di Serse e la distruzione
dell’armata persiana sono attribuite tanto all’azione di un daímwn,
quanto a quella di un qeój, anche direttamente ad Ate o a Zeus e lo
steso Dario è appellato contemporaneamente êsodaímwn al v. 633 e
êsóqeoj al v. 856 – ci induce piuttosto a considerare i valori espressi
da quel termine in un contesto totalmente greco. Per quanto riguarda il
rito necromantico effettuato dai Persiani per invocare l’ombra di
Dario, ci riserviamo di trattarne in maniera più estesa nell’ultima
70
Cfr. ad esempio Hom. Od. XV 525 – 528 da cui il presagio di Atossa sembra
dipendere parzialmente.
71
Cfr. Hom. Il. XXIV 308 – 321. L’aquila compare anche sullo scettro della
statua di Zeus Olimpio, scolpita da Fidia. Cfr. H.D. Broadhead, op. cit., pg. 82.
72
Cfr. H.D. Broadhead, op. cit., pg. 83.
73
Cfr. G. Fiori Sole, op. cit., pgg. 23 – 49; A. S. F. Gow, op. cit., pg. 138.

70
sezione di questo lavoro. Per il momento, basta sottolineare che esso
non è un rituale attribuibile ai Persiani storici74.
Da quanto detto, risultano essere pochi, se non nessuno, gli
elementi che possono essere considerati esclusivamente persiani e non
greci75. Emerge, dunque, un quadro di sostanziale ambiguità che
sembrerebbe tendere verso l’omologazione delle istanze religiose
greche e persiane – naturalmente le coordinate sarebbero quelle del
mondo ellenico. E proprio questa ambiguità della sfera religiosa viene
invocata quando si parla di “notevole riduzione dell’esotico”76 nella
tragedia eschilea. Sopra ci siamo chiesti che cosa si debba intendere
per “differenze religiose” e abbiamo rimandato la risposta. Più
correttamente, ora ci chiediamo: cosa dobbiamo intendere per
“differenze religiose” in riferimento a Eschilo e al cosmo culturale a
cui egli appartiene? Come è noto, il nostro moderno concetto di
“Religione” non è pienamente applicabile alla cultura dell’antica
Grecia, in cui non vi era una distinzione netta tra ciò che noi

74
Cfr. L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. 208. A. F. Garvie, op. cit., pgg. 258 –
261; E. Hall, op. cit. pgg. 89 – 91; H.D. Broadhead, op. cit., pgg. 302 – 309; A.
Sideras, op. cit., pg. 214; S Eitrem, The Necromancy in the Persae of Aeschylos,
in SO 6, 1928, pgg. 1 – 16; H. J. Rose, Ghost Ritual in Aeschylus, HThR 43, 1950,
pgg. 257 – 280; F. Jouan, L’évocation des morts dans la tragédie grecque, RHR
198, 1981, pgg. 403 – 421. Per la ricognizione di un inno cletico nel passo, cfr. V.
Citti, Il linguaggio religioso e liturgico nelle tragedie di Eschilo, Bologna 1962,
pgg. 41 – 43; O. Taplin, The Stagecraft of Aeschylus. The Dramatic Use of Exists
and Entrances in Greek Tragedy, Oxford 1977, pgg. 114 – 115.
75
Cfr. A. F. Garvie, op. cit., pg. XIV; E. Hall, op. cit., pg. 93; per l’ellenizzazione
dei Persiani nella Tragedia cfr. J. Vogt, Die Hellenisierung der Perser in der
Tragödie des Aischylos: Religiöse Dichtung und historisches Zeugnis, in R.
Stiehl, G. A. Lehmann (a cura di), Antike und Universalgeschichte, Festscrift
Hans Eric Stier zum 70. Geburtstang am 25. Mai 1972, Münster 1972, pgg. 131 –
145; R. Rehm, The play of space: spatial transformation in Greek tragedy,
Princeton 2002, pgg. 243 – 244.
76
Cfr. per esempio G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pg. 21.

71
definiamo “civico” e ciò che consideriamo “religioso”77. Quella che
noi chiamiamo “sfera religiosa” era intimamente connessa al campo
del politico, del quotidiano, della guerra, del matrimonio, del
pubblico, del privato78, ecc. Nella Grecia antica, non è possibile
individuare un “religioso” definibile in una totalità a se stante. Questo
scarto culturale ha impedito a molti esegeti del testo eschileo, una
valutazione chiara dell’antinomia Greco / Barbaro. Per dare una
risposta alla nostra domanda, forse può venirci in aiuto Erodoto.
Lo storico di Alicarnasso, nella sua opera, fa enunciare ai cittadini
ateniesi una definizione di “Grecità” (tò „Ellhnikón) che può essere
considerata un ottimo polo di orientamento: « […] non c’è in alcun
punto della terra tanto oro, né paese che tanto si distingua per bellezza
e fertilità che noi accetteremmo per consentire ad asservire la Grecia,
parteggiando per i Medi. Molte e gravi sono le ragioni che ci
impediscono di fare questo, anche se lo volessimo. Prima di tutte e più
di tutte importanti, le immagini e le dimore degli dei (tÏn qeÏn tà
Þgálmata kaì tà oêkÔmata) incendiate e abbattute, che noi
dobbiamo di necessità vendicare duramente, invece che venire ad
accordi con chi ha compiuto tali misfatti, e poi la Grecità (tò
„Ellhnikón), lo stesso sangue e la stessa lingua (æòn 8maimón te
kaì ñmóglwsson), e i comuni templi degli dei e i riti sacri (kaì
qeÏn ëdrúmatá te koinà kaì qusíai) e gli analoghi costumi
(2qeá te ñmótropa), dei quali non sarebbe bene che gli ateniesi

77
Cfr. D. Sabbatucci, Politeismo, 1, Roma 1998, pg. 211.
78
Cfr. A. Brelich, I Greci e gli dei, Napoli 1985, pg. 42: «se fino all’epoca
ellenistica non troviamo un solo storiografo, un solo filosofo, un solo oratore, un
solo erudito che almeno incidentalmente (ma perlopiù assai frequentemente) non
ci serva da “fonte” per la religione greca, ciò dimostra soltanto che la religione
greca è inestricabilmente legata a ogni settore dell’esistenza, alla vita quotidiana
di ognuno».

72
divenissero traditori» (VIII 144, 1 – 2). Dunque, Erodoto definisce
quattro criteri cardine che possono individuare l’appartenenza alla
Grecità: lo stesso sangue (genealogia condivisa), il linguaggio, il
medesimo éthos, la “religione”. Ma quando Erodoto parla di qeÏn
ëdrúmatá te koinà kaì qusíai egli non fa riferimento a una
“religione greca”, contrapposta ad una “non-greca”. Lo storico, anzi,
in tutta la sua opera sembrerebbe postulare una sostanziale unità della
dimensione divina79: egli quasi sempre identifica un dio straniero con
uno greco80 e riconosce nelle divinità barbare, divinità greche venerate
con nomi diversi. Cinquantasette volte cita divinità barbare come
identiche ad altrettante greche e in tutti i casi ne dà il nome greco,
mentre l’appellativo barbaro di questi dei è dato solo in diciassette
occasioni; finanche quando egli constata impressionanti differenze
nelle pratiche di culto tra Greci e Barbari, utilizza nomi divini greci 81:
a Babilonia, per esempio, la “turpe” prostituzione sacra avviene nel
tempio di Afrodite82. Nella sua opera di traduzione dell’altro, Erodoto
procede in base ad analogie e differenze tra l’orizzonte Greco e
l’orizzonte Barbaro; il modello ellenico è sempre pietra di paragone: il
pantheon greco è la griglia attraverso cui lo storico può decifrare lo
spazio divino altrui83. In altre parole, il sistema politeistico greco,
almeno nel V secolo, permette un’equiparazione, attraverso
l’interpretatio, delle entità divine e, nello stesso tempo, una
differenziazione delle consuetudini e dei riti con cui esse erano
79
F. Hartog, Lo specchio di Erodoto, tr. it., Milano 1992, (orig. Le miroir
d’Hérodote, Paris 1980).
80
Per le tre eccezioni, Cibebe, Plistoro e Salmoside, vedi F. Hartog, op. cit., pgg.
209 – 210.
81
Cfr. E. Hall, op. cit., pg. 183, che si rifà a I. M. Linforth, Greek Gods and
Foreign Gods in Herodotus, UCP 9, 1926, pgg. 1 – 25.
82
Cfr. Hdt. I 199, 1.
83
F. Hartog, op. cit., pg. 211.

73
venerate dai Greci e dai Barbari. Nei Persiani, il richiamo all’origine
della stirpe da Perseo84, eroe nazionale greco, ne è eminente esempio.
Nella tragedia attica, il secondo tipo di differenziazione, quello che
potremmo definire etnografico, è raro: da cosa può dipendere la
difformità tra Erodoto e i Tragici che, in altri ambiti, si mostrano
debitori dello storico85? Dobbiamo sottolineare che il contesto
drammatico, nel quale Eschilo descrive l’alterità, è scevro – a
differenza, per esempio, di quello erodoteo – di ogni intento
puramente “etnografico” o “storico” inteso in senso “scientifico”, in
altre parole, lo scopo del poeta non è l’etnografia. La tragedia è altra
cosa, sviluppa tecniche e metodologie di comunicazione differenti,
manifesta altri propositi: la ricostruzione di un mondo “altro” nei
Persiani è mediatrice di senso e, come vedremo, è necessaria alla
semantica del dramma. Eschilo reinterpreta una materia rigida come la
storia, anche con consapevoli scelte di difformità, e analizza i suoi
personaggi, ricostruendo loro un ambiente. Questo non vuol
significare che non vi sia un’attenzione a una caratterizzazione
realmente orientale dei Persiani, anche oltre i tratti esteriori; Eschilo,
nella sua poesia, fa risaltare una diversità, un’alterità, senza impedirsi
un’analisi dell’Oriente, un interesse che riveli ai suoi connazionali i
tratti caratterizzanti dei Barbari e del loro impero86. Come sottolinea
Hall87, tuttavia, se nella tragedia attica sembra esserci poca attenzione
all’etnografia religiosa, è evidente, al contrario, una forte attenzione a

84
Cfr. v. 80.
85
Cfr. E. Hall, op. cit., pg. 182.
86
Cfr. A. S. F. Gow, op. cit., passim; P. Keiper, op. cit., passim; M. Delcourt,
Orient et Occident chez Eschyle, in Mélanges Bidez, 1, Bruxelles 1934, pgg. 233 –
254, in particolare pgg. 244 – 252; L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. XVIII e n.
14.
87
Cfr. E. Hall, op. cit., pgg. 182 – 190.

74
caratterizzare il Barbaro come diverso dal Greco, su un piano socio –
religioso, in particolare per quanto riguarda il rispetto delle famose
“leggi non scritte” di origine divina. Nella Grecia del V secolo esiste,
infatti, quello che potremmo definire con termini moderni un “diritto
positivo”, il diritto della città nuova, democratica, e un diritto generato
dalle leggi perenni «procreate nell’etere celeste, e l’Olimpo solo è loro
padre; non natura mortale di uomini le generò, né mai l’oblio le
sopirà: un dio potente è in esse, e non invecchia»88. La disobbedienza
a queste leggi informate dalla divinità, la violazione dell’ordine
cosmico creato da Zeus, è definibile con il termine hybris. Nei
Persiani, la tematica della hybris è centrale per la definizione del
Barbaro, tutta l’azione di Serse, come vedremo, è letta come hybris,
ma è rilevante, e non senza significato, che proprio la tematica Zeus –
giustizia – hybris, sia presentata, nella tragedia, dalle parole di un
Persiano, il vecchio re Dario, e sia condivisa, pertanto, dai Persiani
stessi: una legge, dunque, universale. Ci torneremo in modo più
approfondito.
In tutta la tragedia, dunque, il poeta ci rammenta le differenze che
separano il mondo Greco da quello Persiano-orientale, con la sua
abbondanza di ricchezze, con il lusso, il suo dorato splendore, con
l’assolutismo dispotico del re, con il tributo pagato dagli innumerevoli
e vari popoli assoggettati, con il vassallaggio dei re sottoposti al Gran
Re, con la magnificenza della corte regale, con la pompa sfarzosa che
accompagna l’apparire della regalità, con il singolare uso della
proschinesi, con la mancanza di libertà di parola, con l’arco quale
arma d’elezione persiana, contrapposto alla lancia degli opliti Greci.

88
Cfr. Soph. OT, vv. 863 – 872. Traduzione italiana di R. Cantarella, in D. Del
Corno (a cura di) Sofocle. Le tragedie, Milano 2007.

75
Tuttavia, è innegabile che il poeta abbia codificato queste differenze
con grande attenzione alla ricostruzione di un ambiente che, pur tra
inesattezze e difformità, riesce a rivelare i tratti caratterizzanti
dell’impero; in altre parole, il dipinto orientale messo in scena dal
drammaturgo, come vedremo, è ben più che una “pennellata di colore
esotico”.
Eschilo, in primo luogo, utilizza il linguaggio per caratterizzare in
senso orientale il contesto della tragedia, per creare attraverso la
lingua greca l’impressione della parlata barbara 89. Diversi sono gli
esempi che si possono addurre: l’utilizzo di termini come Darián
(vv. 651; 663), forma iranica usata al posto del più greco Dareîoj;
balÔn90 (vv. 657 – 658) al posto del déspota del verso 666; per due
volte, inoltre, chiama le imbarcazioni persiane báridej91 (vv. 553;
1075). Se i Persiani nella tragedia parlano greco, questo greco
richiama spesso forme ioniche parlate nelle poleis dell’Asia Minore e i
Greci sono denominati nella loro interezza ƒIáonej o ƒIânej, come
erano generalmente noti ai Persiani92. Nei lunghi cataloghi presenti
nella Parodo (vv. 16 sgg.), dove sono nominati i comandanti barbari
partiti per l’Ellade, nel discorso del Messaggero (vv. 302 - 330), dove
sono citati i nomi dei capi caduti a Salamina, e nel kommój (vv. 955 –
1001), che insiste sulla moltitudine perduta, ritroviamo una serie di
nomi propri che hanno fatto largamente discutere gli studiosi,

89
H.D. Broadhead, op. cit., pgg. XXX – XXXI; L. Belloni, L’ombra di Dario nei
Persiani di Eschilo. La regalità degli Achemenidi e il pubblico di Atene,
«Orpheus» 3, 1982, pgg. 185 – 199, in particolare pg. 187; E. Hall, op. cit., pg. 78.
90
Probabilmente una parola frigia equivalente di basileus. Cfr. Hesych. s.v.
balÔn.
91
Barídessi nel testo. Un termine di origine egizia. Eschilo lo fa utilizzare dal
messo egiziano in Suppl. 836; 873. Cfr. Hdt. II 41.
92
H.D. Broadhead, op. cit., pg. XXX.

76
soprattutto riguardo alla loro autenticità. Fra gli elenchi di Eschilo e
quello di Erodoto (Hdt. VII 61 – 99) si è notata l’esistenza di notevoli
difformità, ma anche di qualche riscontro positivo93. Secondo alcuni
studiosi, questi elenchi di nomi sembrerebbero rivelare una
conoscenza almeno parziale dell’onomastica iranica 94. Alcuni, anche
se pochi, si ritrovano in Erodoto: ŒAriómardoj (vv. 38, 321, 967;
Hdt. VII 67, 1 e 78), ŒArsámhj (vv. 37, 308; Hdt. VII 68, 69,2),
ŒArtafrénhj (v. 21; Hdt. VII 74,2), Masístrhj (vv. 30, 971 [ -
aj] ; Hdt. VII 82 nella variante Masísthj), Megabáthj (vv. 22,
983; Hdt. V 32, VII 97), Suénnesij (v. 326; Hdt. I 74,3; V 118, 2;
VII 98). Inoltre, per diversi altri appellativi è possibile ricostruire una
base iranica, sebbene non siano attestati o abbiano subito diverse
alterazioni95; alcuni di essi, qualora inventati, mostrano comunque una
notevole sensibilità alla lingua persiana: -aspes in Astaspes (v. 22)
deriva dalla parola iraniana cavallo; Art- in Artabes (v. 317) deriva

93
Cfr. P. Keiper, op. cit., pgg. 55 sgg.; A. Sidgwick, op. cit., pgg. 66 – 68; R.
Lattimore, Aeschylus and the Defeat of Xerxes, in Classical Studies in Honor of
William A. Oldfather, Urbana 1943, pgg. 82 – 93, in particolare pgg. 86 – 87; R.
Schmitt, Die Iranier – Namen bei Aischylos, Vienna 1978, pgg. 70 – 71.
94
Cfr. P. Keiper, op. cit., pgg. 53 – 114; W. Kranz, Stasimon: Untersuchungen zu
Form und Gehalt der griechischen Tragödie, Berlin 1933, pgg. 90 – 93; R.
Lattimore, Aeschylus and the Defeat of Xerxes, pgg. 86 – 87. R. Schmitt, op. cit.,
passim. Quest’ultimo è senza dubbio lo studio più completo sull’argomento.
Schmitt classifica ogni nome in base alla sua sicura, probabile, possibile o dubbia
provenienza iraniana, secondo la sua origine orientale, ma non persiana e, infine,
quei nomi che non risultano né iranici, né orientali, li classifica come una
possibile invenzione greca. Al contrario, alcuni studiosi concedono ai nomi dei
cataloghi solo il tentativo poetico di ricreare un “suono persiano”, una sorta di
riferimento confuso di Eschilo al mondo orientale: cfr. H. J. Rose, A Commentary
on the Surviving Plays of Aeschylus, pgg. 89 – 90; J. Vogt, op. cit., pgg. 133 –
134. Cfr., in generale, sull’argomento: L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pgg. 82 –
85; E. Hall, op. cit., pg. 77; H.D. Broadhead, op. cit., pgg. XXX – XXXI e 318 –
321; A. F. Garvie, op. cit., pgg. XIV – XV.
95
Per un elenco esaustivo, Cfr. R. Schmitt, op. cit., passim; L. Belloni, Eschilo. I
Persiani, pg. 84.

77
dalla nota radice, attestata anche in molti altri nomi iraniani 96. In più,
alcuni termini, non tutti appartenenti ai cataloghi, trovano un preciso
riscontro nelle fonti persiane: Darián (Dārayavauš), Xérxhj
(Xšayāršā), MÖdoi (v. 236; Māda), Pérsai (Pārsa), ŒAgbátana
(vv. 16, 535, 961; Hagmatāna), Soûsa (vv. 16, 535, 761; Çūšā),
ŒArsákhj (v. 995; Rša a), ŒArsámhj (vv. 37, 308; Ršāma),
Márdoj (v. 774; rdiya), Kûroj (v. 768; Kuruš)97.
La presenza dei cataloghi nell’opera di Eschilo, non rappresenta
solamente una coloritura superficiale con cui il poeta tenta di
provocare un’impressione linguistica esotica, ma «dimostra la volontà
eschilea di una ricostruzione»98, il tentativo di penetrare un cosmo
barbaro. E se, probabilmente, Erodoto merita di essere considerato più
preciso del drammaturgo, ciò è connesso soprattutto alla diversa
natura e alla differente finalità delle sue Storie, nonché alla particolare
condizione di nascita che ne ha fatto suddito dell’impero e su di esso
maggiormente informato99. Eschilo non è un filologo, né uno storico, e
la sua ricostruzione può apparirci frammentaria e imprecisa, tuttavia
mirabile nel suo esito e nella sua funzione, soprattutto se consideriamo
le difficoltà sempre presenti nella trascrizione di lingue altre e nella
trasmissione degli stessi codici manoscritti della tragedia100.
Per quanto riguarda la funzione dei cataloghi, bisogna dire che essi
sono strettamente connessi alla tematica della moltitudine (Plethos)
che, come vedremo, è di grande importanza nell’economia della
tragedia, e lo è anche in relazione alla antitesi Greco / Barbaro. In

96
Cfr. E. Hall, op. cit., pg 77.
97
Cfr. R. Schmitt, op. cit., passim; L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pgg. 83 – 84.
98
Cfr. L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. 84.
99
Cfr. Ivi, pg. 83.
100
Cfr. A. F. Garvie, op. cit., pg. 56.

78
questo contesto, nel descrivere l’ampiezza e la varietà di uomini e
strumenti schierati da Serse, il primo catalogo diventa mezzo
aggiuntivo di amplificazione della tematica del Plethos presente nella
Parodo e funzionale ai presagi di sventura, mentre i successivi elenchi
saranno strumenti di amplificazione nella rappresentazione dell’entità
della sconfitta, insieme al plÖqoj di relitti e di cadaveri Persiani (vv.
419 – 421).
Riassumendo, il quadro che abbiamo descritto fino ad ora presenta
una chiara contrapposizione dei Greci e dei Barbari sul piano politico:
i Persiani vivono un’esperienza dello stato radicalmente antinomica
rispetto a quella degli Elleni e ne rappresentano l’immagine in
negativo101. Ugualmente, sul piano culturale, si nota una netta
opposizione tra i modi di vita e gli atteggiamenti dei Barbari e i
corrispondenti valori della cultura greca. Sul piano religioso, abbiamo
constatato una rappresentazione quantomeno ambigua del Persiano.
Dunque, in linea generale il contrasto dei caratteri ellenici e di
quelli barbari sembra già certo nei Persiani e da quanto detto,
possiamo concordare con Hall quando sostiene che fu il V secolo a
inventare la nozione di Barbaro come universalmente anti-greco a
risultato di un aumento di autocoscienza greca causata dall’insorgere
delle Guerre Persiane. Ma i Persiani, nella tragedia sono rappresentati
soltanto come anti-greci, secondo gli stereotipi del tempo? o vi è
anche un tentativo di definizione storica? E quale funzione può avere
nella tragedia? Nel capitolo precedente, parlando della focalizzazione
e dell’ambientazione persiana della tragedia, abbiamo accennato al

101
Cfr. C. Bearzot, Rivendicazione di identità e rifiuto dell’integrazione nella
Grecia antica, in G. Amiotti, A. Rosina (a cura di), Identità e in integrazione.
Passato e presente delle minoranze nell’Europa mediterranea (Atti del Seminario,
Milano, 29 aprile 2004), Milano 2007, pgg. 15 – 37, in particolare pg. 16.

79
contributo offerto da Bianchi sull’argomento. Abbiamo detto che lo
studioso ha effettuato una comparazione storico – religiosa tra le
dichiarazioni etico – politiche – religiose incise dai re Achemenidi e le
parole che Eschilo fa pronunciare all’ombra di Dario evocato dalla
tomba, fatte salve le rispettive differenze di contesto e di genere. Lo
studioso nota che la tematica eschilea su Zeus, giustizia e hybris, si
tinge nei Persiani di richiami alla regalità achemenide e che alcune
corrispondenze sembrano essere particolarmente precise102.
Comparando le iscrizioni poste da Dario a Behistun (DB V 18 –
20), a Persepoli (DPd 5 – 20) e sulla sua stessa tomba (DNa 1 – 8),
con il discorso dell’Ombra nella tragedia di Eschilo, egli nota alcuni
particolari interessanti.
In primo luogo, sottolinea che il catalogo dei re Persiani, in cui
Dario elenca una serie dinastica che dai fondatori del potere medo
giunge al Gran Re, è in linea con lo stile epigrafico achemenide, «che
prevede la menzione dei componenti la serie dinastica, fino
all’eponimo della casata»103. In più, secondo Bianchi, l’introduzione
dell’elencazione eschilea104, richiama il “dispositivo” storico in terza
persona che ritroviamo nelle iscrizioni achemenidi 105 e nell’iscrizione

102
Cfr. U. Bianchi, Eschilo e il sentire etico – religioso dei re persiani, in E.
Livrea, G. A. Privitera, Studi in onore di Anthos Ardizzoni, 2, Roma 1978, pgg. 63
– 72.
103
Cfr. Ivi, pg. 68.
104
Cfr. vv. 762 – 764: «dal tempo che Zeus sovrano accordò a un solo uomo
questa dignità di dominare l’Asia intera nutrice di greggi, tenendo lo scettro che
dirige»
105
Cfr. DPd 5 – 20 (R. G. Kent, Old Persians. Grammar, Texts, Lexicon, New
Haven 1953, pg. 135): «Grande è Ahuramazda, il più grande degli dei: egli ha
creato Dario re […] Questa terra di Persia che Ahuramazda mi ha concesso,
buona, che possiede buoni cavalli, che possiede uomini bravi […] con il favore di
Ahuramazda e mio […] non prova timore per nessun altro […]. Possa
Ahuramazda proteggere questa terra dall’esercito (nemico), dalla fame, dalla
menzogna»; DNa 1 – 8 (KENT 138): «Un grande dio è Ahuramazda, il quale ha

80
Babilonese di Ciro106. Inoltre, lo studioso nota come l’opposizione uno
– molti, che ricorre sia nel testo greco che nell’iscrizione posta sulla
tomba di Dario107, non possa essere ridotta a mera ovvietà, infatti,
quando Eschilo tratta del fondamento e dell’universalità (relativa) del
potere del Gran Re, assume proprio la medesima motivazione
religiosa che di questi danno le iscrizioni persiane: è proprio Zeus, da
una parte, e Ahuramazda, dall’altra, che hanno disposto questo ordine
di cose. Altrove, al contrario, quando Eschilo parla della vocazione
continentale dell’impero108, il riferimento non è direttamente a Zeus,
ma alla Moira, un concetto decisamente più greco che persiano. Oltre
a ciò, ulteriori elementi concorrono a consolidare il parallelismo tra le
parole dell’Ombra e le epigrafi achemenidi. Infatti, nel testo eschileo,
tradotti in greco, ritroviamo alcuni concetti tipici delle iscrizioni: il
Kartam persiano (ho compiuto, ho fatto), topos dell’epigrafi regali,
corrisponde all’Þnúein di Eschilo (v. 766 tód’1rgon 2nusen), a
quell’“opera compiuta”, portata a termine, nel catalogo, dal figlio
anonimo di Medo; la saggezza, il controllo delle frénej, richiama il
controllo degli impulsi irrazionali da parte dei sovrani iranici 109;

creato questa terra, il cielo, l’uomo, la felicità per l’uomo, che ha fatto Dario re,
uno (solo) re di molti, uno (solo) signore tra i molti».
106
Cfr. U. Bianchi, Eschilo e il sentire etico – religioso dei re persiani, pg. 68 in
cui è citata l’iscrizione: «Egli (Marduk) […] diresse il suo sguardo sul mondo,
cercando un governante giusto che volesse condur(lo nella processione annuale)
[…] (E allora) egli (Marduk) pronunciò il nome di Ciro, Re di Anshan, e lo
dispose come governante di tutto il mondo».
107
Cfr. v. 762 e DNa 1 – 8 (KENT 138), citati nelle note precedenti.
108
Cfr. vv. 715 sgg.
109
Cfr. vv. 765 – 767 con DNb 7.8 (KENT 140): «Per la volontà di Ahuramazda
io sono così fatto che amo la giustizia e odio l’ingiustizia. Io non voglio che il
debole subisca ingiustizia per volontà del forte, né che il forte subisca ingiustizia
per volontà del debole. Dell’uomo ingannatore io non sono amico. Non sono
irritabile […]. Mi considero superiore al panico, sia che veda il nemico sia che io
non lo veda […]. Ciò che ho compiuto l’ho compiuto grazie alle qualità di cui
Ahuramazda mi ha dotato. Che Ahuramazda mi protegga, me e quanto ho fatto» e

81
E÷daimonía e l’e÷frosúnh di Ciro sono in linea con le
caratteristiche del sovrano delle iscrizioni citate; più in generale, il
concetto achemenide per cui Ahuramazda (il Signore Saggio) fonda la
legittimità e l’autorità del re e che al suo favore vanno ricondotte le
opere compiute dal sovrano può accostarsi allo Zeus \nax che dà
l’investitura a Medo per regnare sull’Asia e al favore concesso a Ciro
dal dio per la sua saggezza.
In secondo luogo, «allorché l’ombra di Dario domanda quali siano
le ragioni dei lutti dei suoi – se si tratti di una pestilenza o di una
guerra civile (stásij pólei: dunque, in termini greci un delitto
contro la fedeltà al sovrano, una “menzogna” nel linguaggio
achemenide) – e Atossa gli risponde trattarsi di una disfatta in guerra,
tutto ciò pare corrispondere puntualmente, fatte le debite trascrizioni,
alle tre categorie di mali che Dario elenca nella sopra citata iscrizione
di Persepoli110: “possa Ahuramazda proteggere questa terra
dell’esercito (nemico), dalla fame, dalla menzogna”»111.
Queste affinità non sono di poco conto. Come spiegare, dunque, la
compresenza di tutti questi fattori – pregiudizio greco e attenzione
storica, non certo pregiudizievole? Torniamo a chiederci: quale
visione ci trasmette Eschilo del Barbaro? Per uscire dal labirinto delle
domande, sarà bene volgerci alla storia. A questo punto sarà
necessario dare uno sguardo “storico” ai valori di quel cosmo persiano
di cui tanto stiamo parlando: proprio il poeta, con i suoi riferimenti
precisi al cosmo regale achemenide, ci spinge in questa direzione.
Sarà anche necessario appurare quale rappresentazione del Barbaro ci

DNb 11 – 15 (KENT 138): « […] Quanto provoca la mia ira, io lo tengo


fermamente sotto controllo con il potere del mio pensiero […]».
110
Cfr. DPd 5 – 20 (KENT 135).
111
Cfr. U. Bianchi, Eschilo e il sentire etico – religioso dei re persiani, pg. 68.

82
hanno lasciato in eredità gli scrittori posteriori al nostro poeta, per
poter valutare la rappresentazione eschilea.

***

Accade spesso che, trattando dei Persiani, si tenda a considerarli


secondo i cliché che abbiamo ereditato da un popolo, quello greco,
che noi occidentali moderni sentiamo, solitamente, come
culturalmente più vicino. Vale a dire, da una prospettiva che tende a
rappresentare la Persia e la sua popolazione principalmente in base ai
suoi rapporti con l’Occidente e, in particolare, come l’antagonista
politica e l’avversaria militare dei Greci (dispotismo orientale
contrapposto alla libertà delle poleis greche). Questo condizionamento
nei confronti dei modelli Greci deriva anche dal fatto che, in una
ricostruzione storica dei modi della regalità persiana, degli
avvenimenti, degli usi, dei costumi, delle credenze persiane, le fonti
greche sono imprescindibili per qualità letteraria, esaustività e
quantità, rispetto a quelle orientali, che, per di più, sono orientate in
senso auto-celebrativo. Tuttavia, anche se manca un corrispondente
persiano di un Erodoto o di un Senofonte, di uno Ctesia o di uno
Strabone, le fonti persiane non possono essere esiliate, soprattutto
perché rappresentano un termine di paragone attraverso il quale
valutare le stesse fonti greche che hanno prodotto quei modelli. Noi,
che vogliamo riflettere sulla rappresentazione dei persiani così come
viene presentata da Eschilo, dobbiamo prendere in considerazione le
fonti orientali ed il quadro che ne deriva, per poter valutare
storicamente l’affresco eschileo.

83
Le più importanti fonti scritte al riguardo sono le iscrizioni regali
achemenidi, redatte a partire da Ciro il Grande fino a giungere ad
Artaserse III Oco. Spesso trilingue (sono scritte in antico-persiano,
cioè una forma stilizzata della lingua dei sovrani e dei Persiani
dell’Iran sud-occidentale, in elamico ed in babilonese o in egiziano
con scrittura geroglifica), sono state ritrovate soprattutto nelle
residenze del Fars, ma anche in molte altre parti del regno 112.
Una delle più importanti iscrizioni è la cronaca trilingue delle azioni
di Dario I, ritrovata a Behistun (DB) su una parete rocciosa lungo
l’antica via carovaniera e militare che, attraverso i monti Zagros,
portava dalla Mesopotamia a Ecbatana. Essa è corredata da un rilievo
trionfale che raffigura la vittoria di Dario su Gaumata il mago e sugli
altri ribelli. Come sostiene lo stesso Dario, l’iscrizione è stata diffusa
in tutto l’impero: infatti, copie di questa e del rilievo sono state
ritrovate a Babilonia ed estratti dell’iscrizione stessa sono conservati
su un papiro proveniente da Elefantina in Egitto. Di altrettanto grande
importanza sono anche le altre epigrafi di Dario, quella posta sulla sua
tomba nella località di Naqš-i Rustam (DN), quelle provenienti da
Persepoli (DP), da Susa (DS), da Suez (DZ), Hamadan (DH), da
Gherla (DG), Elvend (DE). Altrettanto significative, per quanto qui di
nostro interesse, le iscrizioni di Serse da Persepoli (XP) e da Susa
(XS)113.

112
Cfr. G. Gnoli, Le Religioni dell’Iran antico e Zoroastro, pg. 511; Cfr. anche J.
Wiesehöfer, La Persia antica, tr. it., Bologna 2003 (orig. Das frühe Persien.
Geschichte eines antiken Weltreichs, München 1999), pg. 14.
113
Cfr. C. Bezold, Die Achämenidinschriften, Leipzig 1882; R. Borger, W. Hinz,
Die Behistun-Inschrift Darius’ des Grossen, in O. Kaiser (hrsg.), Texte aus der
Umwelt des Alten Textament, 1, Gütersloh 1984, pgg 419 – 450; G. G. Cameron,
The “Daiva” Inscription of Xerxes in Elamite, WO 2, 1959, pgg. 470 – 476;
Idem, The Elamite Version of the Bisitun Inscriptions, JCS 14, 1960, pgg. 59 – 68;
G. Giovinazzo, Les voyages de Darius dans les régions orientales de l’empire,

84
Per comprendere il funzionamento dell’impero achemenide, anche
se solo a livello regionale, sono di primaria importanza le tavolette di
argilla in lingua elamica bruciate nell’incendio di Persepoli, e tra
queste risultano di particolare interesse le cosiddette Tavolette della
Tesoreria (PTT : 492-458 a.C.)114 e le Tavolette delle Fortificazioni

AION 54, 1994, pgg. 32 – 44; S. Graziani, I testi mesopotamici datati al regno di
Serse (485-465 a.C.), Napoli 1986; Idem, Testi editi ed inediti datati al regno di
Bardiya (522 a.C.), Napoli 1991; J. C. Greenfield, B. Porten, The Bisitun
Inscription of Darius the Great. Aramaic version, London 1982; E. Herzfeld,
Altpersische Inschriften, Berlin 1938; W. Hinz, Zu § 14 der Behistun-Inschrift,
ZDMG 113, 1963, pgg. 231 – 235; Idem, Die untere Grabinschrift des Dareios,
ZDMG 115, 1965, pgg. 227 – 241; R. G. Kent, Old Persian. Grammar, Texts,
Lexicon, New Haven 1953; F.W. König, Corpus Inscriptionum Elamicarum, 1,
Die altelamischen Texte, Hannover 1923; P. Lecoq, Les inscriptions de la Perse
achéménide, Paris 1997; F. Malbran-Labat, La version akkadienne de l'inscription
trilingue de Darius à Behistun, Roma 1994; M. Mayrhofer, Supplement zur
Sammlung der Altpersichen Inschriften, Wien 1978; H. C. Rawlinson, The
Persian cuneiform inscription at Behistun, JRAS 10, 1847, pgg. 1 – 349; A. V.
Rossi, Echoes of religious lexicon in the Achaemenid inscriptions?, in C. Cereti,
M. Maggi, P. Provasi (eds.), Religious themes and texts of pre-Islamic Iran and
Central Asia: studies in honour of Professor Gherardo Gnoli on the occasion of
his 65th birthday on 6 December 2002, Wiesbaden 2003, pgg. 339 – 351; H.
Schaudig, Die Inschriften Nabonids von Bab. u. Kyros d. Gr., Muenster 2001; V.
Scheil, Inscriptions des Achéménides à Suse, Paris 1929; E.F. Schmidt, Persepolis
I, Chicago 1953; Idem, Persepolis II, Chicago 1957; Idem, Persepolis III,
Chicago 1970; R. Schmitt, The Bisitun Inscr. of Darius. Old Pers. text (CIIr),
London 1991; Idem, Beiträge zu altpersischen Inschriften, Wiesbaden 1999;
Idem, The Old Pers. inscriptions of Naqsh-i Rustam and Persepolis (CIIr),
London 2000; S. Shahbazi, Old Persian inscr. of the Persepolis platform (CIIr),
London 1985; M. – J. Steve, Inscriptions des Achéménides à Suse (Fouilles de
1952 à 1965), «Studia Iranica» 3 1974, pgg. 7 – 28; Idem, Inscriptions des
Achéménides à Suse (suite), «Studia Iranica» 3 1974, pgg. 135 – 169; Idem,
Inscriptions des achéménides à Suse (Fin), «Studia Iranica», 4 1975, pgg. 7 – 26;
M. Stolper, Texts from Tall-i Malyan, 1, Philadelphia 1984; F. Vallat,
L'inscription cunéiforme trilingue DSab, JA 260, 1972, pgg. 247 – 251; Idem, Les
textes cunéiformes de la statue de Darius, CDAFI 4, 1974, pgg. 161 – 254; Idem,
Corpus des Inscriptions Royales en Elamite Achéménide, tesi ined, Paris 1977; E.
Von Voigtlander, The Bisitun Inscription of Darius the Great. Babylonian
version, London 1978.
114
Cfr. G. G. Cameron, Persepolis Treasury Tablets (The University of Chicago.
Oriental Institute Publications 65), Chicago 1948; Idem, New tablets from the
Persepolis treasury, JNES 24, 1965, pgg. 167 – 192; Idem, Persepolis Treasury
Tablets old and new, JNES 17, 1958, pgg. 161 – 176.

85
(PTF: 509-494 a.C. )115. Le prime documentano pagamenti in argento
e in generi di natura ai lavoratori impiegati a Persepoli, le seconde
registrano le entrate e le uscite di generi alimentari e di bestiame
versate come pagamenti al personale di culto e agli aristocratici
Persiani di entrambi i sessi o come viatico per i lavoratori. Esse,
quindi, ci tramandano la testimonianza di importanti personalità e di
una forza lavoro appartenente a svariate etnie, oltre al funzionamento
del sistema amministrativo ed economico116.
Tra i testi cuneiformi in babilonese è da ricordare l’iscrizione del
Cilindro di Ciro (CB), in cui il sovrano è descritto come l’eletto di
Marduk e strumento del suo volere, e la Cronaca Babilonese117, in cui
è narrata la conquista di Babilonia da parte dei Persiani guidati da
Ciro.
Possediamo anche una serie di testimonianze scritte in diverse
lingue: in aramaico (la lingua franca dell’impero), in cui è
documentata l’azione amministrativa dell’impero achemenide; in
egiziano, in cui è attestata la presenza e l’azione dei sovrani
achemenidi in Egitto118. Sono di particolare importanza i testi
geroglifici sulle stele di Tell el-Maskhutah e Shaluf. Altrettanto
notevoli risultano, per il periodo achemenide, alcuni libri del Vecchio
Testamento, in particolare il Deutero-Isaia, I Libri dei Re, Esdra,
Nehemia, Esther e Daniele. Anche se non propriamente testi storici,
essi, comunque, documentano le relazioni tra il popolo di Israele e i

115
Cfr. R. T. Hallock, Persepolis Fortification Tablets, Chicago 1969; Idem,
Selected fortification texts, CDAFI 8, 1978, pgg. 109 – 136.
116
Cfr. J. Wiesehöfer, op. cit., pg. 17.
117
A. K. Grayson, Assyrian and Babylonian Chronicles, J. J. Augustin, Locust
Valley, N.Y. 1975.
118
Cfr. J. Wiesehöfer, op. cit., pgg. 17-18.

86
nuovi sovrani dell’impero, da Ciro a Dario I ed oltre119. In essi Ciro il
Grande viene dipinto come uno strumento di Jahve in funzione del
popolo ebraico, ma in questo è stato percepito da diversi studiosi un
residuo della particolare forma di propaganda politica utilizzata da
Ciro: lo strumento religioso come giustificazione del potere,
soprattutto se paragonato al Cilindro di Ciro120.
Invece, per quanto riguarda l’Avesta, il libro sacro della religione
Zoroastriana, è difficile giudicare quali testi possano essere stati
composti nel periodo achemenide o anche precedentemente, poiché
non si hanno effettivamente dati storici. Si sa esclusivamente che
questo corpus fu redatto per la prima volta sotto la dinastia Sassanide
(224-651 d.C.), mentre i più antichi manoscritti pahlavici risalgono
soltanto al XIII secolo d.C.121
Accanto alle testimonianze scritte, esiste anche una serie di fonti
non scritte, altrettanto importanti. Ci riferiamo ai capolavori
monumentali dell’arte achemenide: gli esempi di architettura palaziale
persiana, cioè le residenze dei Gran Re, da Pasargade a Susa e
Persepoli, oltre alle sculture e ai rilievi. Significativa è, infatti, la
rappresentazione delle delegazioni etniche portatrici di doni
conservatasi sulla sezione meridionale della facciata Est dell’Apadana
di Dario a Persepoli. Il suo fine è quello di documentare artisticamente
e, forse, anche in modo propagandistico, non tanto l’organizzazione
fiscale dell’impero persiano (i doni, infatti, non rappresentano il
normale tributo versato dai vari popoli, ma omaggi volontari122 come
quelli che venivano portati al Gran Re in occasione della festa del

119
Cfr. G. Gnoli, Le Religioni dell’Iran antico e Zoroastro, pg. 511.
120
Cfr. sull’argomento D. Sabbatucci, Monoteismo, Roma 2001, pgg. 37 sgg.
121
Cfr. G. Gnoli, Le Religioni dell’Iran antico e Zoroastro, pg. 499.
122
Cfr. Hdt. III, 97.

87
Nouruz, il Nuovo Anno persiano), quanto il carattere sopranazionale
della regalità achemenide e la lealtà e la variopinta molteplicità dei
popoli sottomessi123.
Il sovrano achemenide in Iran non veniva venerato come un dio, né
gli veniva assegnata una genealogia divina. Nonostante ciò, il
particolare rapporto con Ahuramazda era un elemento fondamentale
della legittimazione della regalità 124: dice Dario in DB 5: «io sono re
per volere di Ahuramazda, Ahuramazda mi conferì il regno». E
ancora, nell’iscrizione di fondazione di Serse125: «Un gran dio è
Ahuramazda che ha creato la terra, e il cielo che è sopra, che ha creato
l’uomo e che ha fatto Serse re […]126».
Altro elemento fondamentale per la legittimazione della regalità
nell’ideologia achemenide, oltre al particolare rapporto del sovrano
con la divinità e del valore personale che egli deve sempre saper
esprimere, è l’appartenenza dinastica, la volontà di inserire il proprio
operato tra le gesta dei predecessori: «Io Sono Serse […] figlio di
Dario, un Achemenide»127; «Io sono Dario, il gran re, re dei re, il re di
Persia, il re dei paesi, il figlio di Istaspe, il figlio di Arsame, un
Achemenide. Dice Dario il re: mio padre è Istaspe, il padre di Istaspe
era Arsame; il padre di Arsame era Ariaramne; il padre di Ariaramne
era Teispe; il padre di Teispe era Achemene. Dice Dario il re: Per

123
Cfr D. Asheri, S. M. Medaglia, Le Storie, libro III, La Persia, Milano 2000,
pg. LXVI; non così M. Liverani, Dal villaggio all’impero, Torino 1995, pg. 281.
124
Cfr. A. Bausani, I Persiani, Firenze 1962, pg. 24.
125
Detta anche iscrizione contro i Daeva: XPh.
126
XPh 1 (KENT 151); cfr. anche DNb 1 -5 (KENT 138): «Un gran dio è
Ahuramazda, che ha creato quest’opera ottima che si vede, che ha creato la felicità
per l’uomo, che ha accordato saggezza e azione al re Dario».
127
XPh 2.

88
questa ragione noi siamo chiamati Achemenidi, da lungo tempo noi
siamo nobili, da lungo tempo la nostra famiglia ha avuto re»128.
Il desiderio di Ahuramazda che il re abbia successo e che possa, in
questo, agire per il bene dei sudditi129, obbliga questi ultimi alla lealtà
e alla totale ed incondizionata obbedienza nella forma del pagamento
dei tributi e della partecipazione al servizio nell’esercito. Il Gran Re
non è un primus inter pares; egli, piuttosto, unisce in sé tutta l’autorità
ed il potere130, è il massimo legislatore e giudice; ma, dato che il suo
dominio è dovuto al favore di Ahuramazda, egli è obbligato a
prendersi cura della sua “buona creazione”, cioè a far funzionare
quell’impero che il dio gli ha concesso. Egli è in grado di distinguere
ciò che è giusto perché il dio gliene ha data facoltà, ha le virtù
necessarie per controllarsi, per giudicare, punire o premiare secondo
giustizia131. Nell’iscrizione di Behistun, Dario rimarca il suo impegno
contro la Menzogna, ma contemporaneamente mostra come si aspetti
dai suoi sudditi lealtà incondizionata 132. A differenza dello
Zoroastrismo più tardo, per il quale verità (in antico persiano Arta) e
menzogna (Drauga) diverranno concetti morali, per Dario è Drauga
tutto ciò che si oppone al proprio dominio. Mentre il concetto di
Drauga è documentato numerose volte nelle iscrizioni achemenidi, il

128
Cfr. DB 1 – 4; cfr. anche DSd 1-3: «Io sono Dario, il Gran Re, Re dei Re, Re
di tutte le nazioni, Re di questa terra, il figlio di Istaspe, un Achemenide».
129
Cfr. DNa 30 – 60 (KENT 137): «Dice il re Dario: Ahuramazda, quando vide
questa terra in disordine, allora la consegnò a me, mi fece re. Io sono Re. Con il
potere di Ahuramazda io l’ho rimessa al suo posto […]. O uomo, questo è il
comando di Ahuramazda, questo non ti sembri ripugnante; non abbandonare il
giusto sentiero; non sollevarti in rivolta ».
130
DNa 1 – 8.
131
Cfr. DNb 7.8 (KENT 140) e DB IV 65 – 67 (KENT 129): «L’uomo che ha
collaborato con la mia casa, a lui ho rivolto lo sguardo benigno; chi ha commesso
ingiustizia, quello ho punito a ragione».
132
DB 54 – 64.

89
concetto di Arta compare solo in una iscrizione di Serse (XPh) ed è
interpretabile come verità: naturalmente la verità definita dal re. Lo
stesso Erodoto attesta l’opposizione esistente in Persia tra menzogna e
verità: i Persiani insegnano ai loro figli «a cavalcare, a tirare con
l’arco e a dire la verità»133 e ritengono che «dire menzogne sia la cosa
più vergognosa»134, per questo non fanno neanche debiti. Come è
evidente, queste affermazioni di Erodoto hanno una base storica 135.
La regalità persiana, così come emerge dalle fonti orientali, si
presenta con tutte le peculiarità di una monarchia assoluta che,
tuttavia, lascia largo corso ad autonomie locali. L’impero achemenide
si collega, per quanto riguarda l’ideologia, ai precedenti regni assiro e
caldeo: quindi, l’ideologia dell’impero universale possiede, per la
regalità persiana, un posto centrale136. Nonostante ciò, l’atteggiamento
verso i popoli sottomessi è in larga misura differente rispetto a quello
adottato dai regni precedenti137: il nuovo impero universale si basa,
non sulla distruzione dei vinti, ma sull’integrazione di culture
diverse138. A differenza dei precedenti regni, l’impero persiano ha cura
dello sviluppo e del miglioramento delle regioni sottomesse, rispetta
religioni e lingue locali (come è dimostrato dal richiamarsi in modo
propagandistico a divinità e a tradizioni locali o dall’utilizzazione di

133
Cfr. Hdt. I 136.
134
Cfr. Hdt. I 138.
135
L’idea di un’opposizione tra menzogna e verità ha una base storica, nel senso
che Erodoto rielabora quelli che erano i concetti di Arta e Drauga presenti nella
cultura persiana, in base alle categorie della cultura greca.
136
Cfr. XPh 1 – 2; cfr. M. Liverani, op. cit., pg. 283;
137
Cfr. A. Bausani, I Persiani, pg. 20.
138
Cfr. A. Bausani, L’Iran e la sua tradizione millenaria, Roma 1971, pg. 7.

90
più lingue139 nelle iscrizioni regali)140. Per fare solo un esempio: Dario
I completa il canale di Necao in Egitto e nelle iscrizioni e
rappresentazioni figurative provenienti da quel paese, emerge
un’immagine del Gran Re come faraone egiziano gradito agli dèi e
come sovrano di un impero universale141. Se Ciro si proclama
strumento di Marduk142 e assolve i doveri di un re babilonese, se Dario
assume il titolo di faraone, oppure, nella copia dell’iscrizione di
Behistun da Babilonia, mette in risalto Bel piuttosto che Ahuramazda,
questo può solo significare che i re achemenidi erano consci
dell’importanza delle tradizioni provinciali, che le utilizzarono a
proprio vantaggio e che cercarono di rispettarle, laddove non
comportassero un pericolo per la corona. Il fatto che il potere
achemenide riuscì, per oltre duecento anni, a garantire la sostanziale
unità dell’impero, il fatto che la loro sovranità sia rimasta
incontrastata per lungo tempo e che, dopo l’inizio del regno di Serse,
le tendenze separatiste siano state un’eccezione, rende evidente che i
re Persiani furono abili nel consolidare il proprio dominio 143.
Spicca in particolare l’impegno espresso dalla regalità persiana per
risistemare le province sottomesse. Molte, soprattutto in Occidente,
pur avendo conosciuto tradizioni di agricoltura intensiva e di
urbanizzazione, avevano sofferto delle distruzioni assire e babilonesi;

139
M. Liverani, op. cit., pg. 281: «Il trilinguismo sottolinea come il nuovo impero
debba e voglia tener conto delle esperienze organizzative e del prestigio culturale
di stati più antichi ora confluiti in esso».
140
Cfr. G. Gnoli, La civiltà persiana, in AA.VV., Antica Persia, i tesori del
Museo Nazionale di Teheran e la ricerca italiana in Iran, Roma 2001, pg. 3.
141
Si vedano, per esempio, i rilievi dal tempio nell’oasi di Khargah; le iscrizioni e
le immagini delle stele dal canale di Suez; i testi della statua di Dario, di
grandezza maggiore del normale che fu trovata a Susa, ma che era stata eretta ad
Eliopoli.
142
Cfr. A. Bausani, I Persiani, pg. 22.
143
G. Gnoli, La civiltà persiana, pg. 3.

91
alcune, soprattutto nel Nord-Est dell’impero, partecipavano per la
prima volta ad un’organizzazione statale complessa. I re di Persia si
occuparono di questioni infrastrutturali ed economiche: dalla favolosa
Samarcanda, nella satrapia di Sogdiana, fino alle occidentali Sardi e
Sidone, molte capitali di satrapie vennero edificate o restaurate e
dotate di palazzi144; intere regioni furono colonizzate sfruttando nuove
tecniche di irrigazione: per esempio, convogliando le acque
superficiali in lunghi canali sotterranei che sfruttavano la pendenza
naturale dei terreni (in arabo qanat)145; in tal modo, «oasi e vallate
fluviali tornarono ad uno sfruttamento agricolo 146, già conosciuto
nell’antica età del bronzo, ma poi dimenticato per secoli»147.
I re Persiani ampliarono e rimodernarono l’antica rete stradale
costruita durante i regni precedenti, migliorarono il servizio postale, la
velocità di trasmissione delle notizie e dotarono le strade reali di
stazioni per la sosta ed il cambio dei cavalli. I cosiddetti Testi di
viaggio, che ci sono giunti da Persepoli, nel corpus delle tavolette
elamiche, documentano la grande quantità di persone che
percorrevano l’impero, attraverso queste strade sorvegliate, per
trasmettere notizie o trasportare merci. Lo stesso Erodoto, descrivendo
la celebre strada che portava da Sardi a Susa, ci documenta la
presenza di sorveglianti e corrieri, di stazioni regie e delle
meravigliose locande che sorgevano lungo le vie.
L’organizzazione dell’impero si deve soprattutto a Dario I 148. Egli
divise il territorio in una ventina di satrapie rette da governatori con

144
M. Liverani, op. cit., pg. 282.
145
Cfr. J. Wiesehöfer, op. cit., pgg. 60 – 61.
146
Cfr. A. Bausani, I Persiani, pg. 25.
147
M. Liverani, op. cit., pg. 282.
148
A. Bausani, L’Iran e la sua tradizione millenaria, pg. 13.

92
autorità civile e fiscale, ma limitata dal potere centrale di nomina e
revoca, dalla presenza di capi militari che controllavano più satrapie149
e dall’azione degli ispettori (occhi ed orecchie del re). Fulcro e
potenza dell’impero era la struttura tributaria, che permise di
concentrare nel tesoro di Persepoli ricchezze enormi con cui i Sovrani
non solo poterono gestire una corte sfarzosa 150 ed un esercito
gigantesco, ma poterono anche curarsi dello sviluppo delle province,
garantendo in tutto l’impero un periodo di relativa pace e ricchezza.
Oltre alle fonti classiche, in primis Erodoto151, abbiamo una serie di
iscrizioni che ci forniscono liste di popolazioni probabilmente
tributarie del Gran Re152: l’iscrizione di Dario a Persepoli (DPe), due
iscrizioni trilingue di Dario a Susa (DSe e DSm), la base di una statua
di Dario rinvenuta a Susa e recante un’iscrizione in geroglifico
(DSab), l’iscrizione trilingue del monumento tombale di Dario a
Naqš-i Rustam (DNa) e quella trilingue di Serse a Persepoli (XPh).
La cosiddetta pax Achaemenidica, quella pace universale che era
copia dell’ordine voluto da Ahuramazda, partecipa dell’ideologia
politico–religiosa dell’impero achemenide, ma non sempre essa fu
accettata dai popoli sudditi. Non tutti accolsero tranquillamente la
supremazia degli imperatori achemenidi, e allora, come ci documenta
la stessa iscrizione di Behistun153, sperimentarono la punizione e
l’imposizione.
Quale Re dei Re, l’imperatore si pone su un piano superiore rispetto
ai precedenti regni di dimensione regionale, e lo stesso Zoroastrismo

149
Ibidem.
150
M. Liverani, op. cit., pg. 282.
151
Cfr. Hdt. III 90, 4; VII 92-95.
152
Cfr. D. Asheri, S. M. Medaglia, Le Storie, libro III, La Persia, pg. 382.
153
Cfr. DB 16 – 76.

93
contribuisce al disegno di eliminare la menzogna (vale a dire la
dissidenza e la rivolta), ampliando il regno della verità (vale a dire le
terre governate dal Gran Re che, come eletto di Ahuramazda, è
portatore e fautore della Verità, l’unico in grado di governare e
giudicare secondo giustizia).
Dalle fonti orientali si comprende che, nonostante la sua
eterogeneità, lo stato achemenide fu un regno forte: la pluralità di
tradizioni e un sorprendente grado di autonomia locale, insieme ad
una radicata autorità centrale e regionale permisero a questo impero di
essere molto longevo, assicurando pace e prosperità economica ad una
larga parte dei sudditi e creando un sistema che farà da modello
all’impero di Alessandro e dei suoi successori154.
Le fonti classiche greche, almeno dal IV secolo a.C. in poi, invece,
ci propongono stereotipi che partecipano ad una idea di declino
morale o militare dell’impero persiano e di degenerazione dei suoi
costumi: un Gran Re ricco e potente oltremisura, ma
contemporaneamente dispotico, tirannico e dedito alla mollezza e al
lusso più sfrenato e, oltretutto, manovrato da donne ed eunuchi. Già
all’inizio del IV secolo a.C. il greco Ctesia di Cnido, nella sua opera
Persiká, indicava come motivo ultimo dell’instabilità del dominio
persiano la corruzione della corte achemenide, dove donne della casa
reale ed eunuchi avevano un influsso deleterio sul potere regale. Nella
contemporanea letteratura greca si può rintracciare anche l’immagine
della degenerazione delle qualità morali dei sovrani Persiani e della
conseguente decadenza del loro potere e della forza dell’impero. Tale
modello è particolarmente evidente in Senofonte d’Atene che, nella
Ciropedia, considera come causa primaria di questo sviluppo in
154
Cfr. G. Gnoli, La civiltà persiana, pg. 3.

94
negativo della potenza persiana, il cambiamento dei contenuti
dell’educazione persiana, la degenerazione del loro spessore morale,
la rilassatezza dei costumi che ha contraddistinto gli eredi di Ciro.
Se già dal V secolo a.C. si trovano i segni di questi modelli di
degenerazione – lo vedremo accostandoci all’opera Erodotea – è
soprattutto con Isocrate155 che elementi diversi si riuniscono a formare
un giudizio totalmente dispregiativo nei confronti dei Barbari, in
particolare dei Persiani.
Nelle Storie di Erodoto, i Persiani rappresentano sicuramente
un’alterità “privilegiata”156: usi, costumi, credenze e ritualità dei
Persiani e del loro impero vengono richiamati dall’inizio alla fine
dell’opera e sono un irrinunciabile polo di confronto per un greco del
V secolo. Se è vero che Erodoto attraverso le Storie codifica una
coscienza culturale greca, è anche vero che concepisce un nuovo
modo di conoscere la diversità. Attraverso il riflesso persiano egli
definisce la grecità, ma rende anche pensabile e comprensibile il
mondo che esiste al di fuori dei confini dell’Ellade, lo recupera alla
sfera dell’esistenza umana, cercando in buona fede di decodificare
modi di vita differenti da quello greco.
In che modo ci racconta dei Persiani? Quali sono per il nostro
autore le cifre simboliche che segnano la distanza culturale tra Greci e
Persiani? Per poter uscire dalla selva delle domande sarà necessario,
preliminarmente, capire per chi scrive Erodoto. Nell’età arcaica,
ovviamente, anche la cultura greca era una cultura orale in cui le opere
venivano affidate alla memoria e diffuse attraverso la recitazione degli

155
Cfr. Isocrate, Panegirico; Areopagitico; Filippo; Panatenaico.
156
Cfr. P. Briant, Herodot et la société perse, in G. Nenci, O. Reverdin (eds.),
Hérodote et les peuples non Grecs, Vandœuvres-Genève 1990, pgg. 69 – 113, in
particolare pg. 69.

95
aedi e dei rapsodi157. In Grecia, ancora nel corso del V secolo, «non
c’è un mondo della scrittura, a malapena c’è un mondo della parola
scritta»158.
Solo con il V – IV secolo a.C., si avrà la piena affermazione del
manoscritto come forma di conservazione delle opere letterarie. Ciò
che si modifica realmente è, tuttavia, la forma di fruizione dei testi. La
possibilità di accedere a testi scritti si estende ad un maggior numero
di persone e questo trasformerà in senso individualizzante le modalità
di accesso ai prodotti letterari159.
Tale trasformazione culturale non avviene tramite un cambiamento
radicale: in Grecia non si produce un sovvertimento tale che lo scritto
rimpiazzi immediatamente l’orale160. È un lento processo a rendere la
parola scritta sempre più accessibile: nel V secolo, infatti, coesistono
ancora oralità e scrittura, miscelandosi e creando una forma di cultura
ibrida, a cui la stessa tragedia partecipa. L’opera erodotea deve essere
inserita nel momento di passaggio tra una forma sostanzialmente orale
di fruizione dei testi (l’audizione pubblica e la recitazione) ed una che
presto privilegerà la lettura individuale e la trasmissione attraverso
manoscritti; dunque, nel momento in cui sta cambiando la tecnica
della comunicazione. Le Storie, scritte per essere lette ad un pubblico,

157
Cfr. F. Cassola (a cura di), Erodoto. Storie, Milano 2000, pg. 14 – 15.
158
F. Hartog, op. cit., pg. 231: La scrittura si conosce in Grecia già da diversi
secoli (almeno dall’VIII secolo a.C. con l’avvento dell’alfabeto fenicio), ma la
cultura orale «possiede ancora il potere di plasmare le strutture mentali ed il
sapere condiviso dei Greci del tempo».
159
F. Cassola, op. cit., pg. 15: «Il primo accenno a una lettura individuale si trova
nelle Rane di Aristofane, datata al 405 a.C. là dove Dioniso dice: “mentre leggevo
per conto mio l’Andromeda di Euripide (52 – 53)”».
160
Cfr. F. Hartog, op. cit., pg. 231.

96
rappresentano pertanto, una testimonianza di questa cultura ibrida tra
oralità e scrittura161.
La cultura di tradizione orale, proprio per la sua relazione specifica
con l’auditorio, implica manifestazioni del pensiero e norme
espressive diverse dalla cultura che ha come direttrice la
comunicazione scritta. Attraverso la concretezza e l’accessibilità nella
modalità d’espressione e attraverso la paratassi, l’oralità tende ad
organizzare pensieri che possano catturare l’attenzione del pubblico
senza mai tediarlo. Tale forma si riscontra nelle Storie di Erodoto, che
furono composte per essere lette ad un auditorio162 e che perciò
conservano, accanto a tratti assolutamente innovativi, formule
stilistiche tipiche della poesia.
Il passaggio dall’oralità alla scrittura comporta, invece, quel
cambiamento nella mentalità che sarà chiaramente percepibile nelle
Storie di Tucidide. Una mentalità lucidamente analitica nei confronti
della realtà che esclude ogni elemento non verificabile, come il mitico
ed il favoloso che sono ancora presenti nell’opera dello storico di
Alicarnasso, anche se vi è un’azione di razionalizzazione di queste
componenti. Ma un metodo così scientificamente analitico non era
applicabile alla storiografia erodotea, che doveva fare ancora i conti

161
Cfr. Ivi, pg. 232.
162
Cfr. B. Gentili, G. Cerri, Storia e biografia nel pensiero antico, Roma-Bari
1983, pg. 10; cfr. E. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura, tr. it., Roma
– Bari 1995, (orig. Preface to Plato, Cambridge, Mass. 1963), pgg. 268 – 269.

97
con la capacità recettiva di un auditorio163. Leggere Erodoto, infatti,
«è come sentirlo parlare»164.
Quindi, la modalità erodotea di approccio alla diversità è
condizionata da quella particolare tecnologia della comunicazione che
è la lettura pubblica, tanto quanto la messa in scena teatrale influenza i
testi dei tragediografi. Inoltre, il condizionamento che deriva
dall’audizione è rivelato anche dall’utilizzazione da parte dell’autore
di modelli letterari tipici dell’epica omerica 165. Non a caso, anche se
solo in relazione alla lingua e allo stile, Erodoto venne chiamato
Omericissimo dall’anonimo autore del trattato Sul Sublime166.
Dati questi presupposti, è opportuno cercare di individuare chi sia
il destinatario dell’opera erodotea. La questione potrebbe apparire per
molti versi scontata. In realtà, se prendiamo in considerazione il modo
in cui molti studiosi moderni hanno analizzato le Storie, la soluzione
si presenta decisamente più problematica. Spesso il testo erodoteo è
stato valutato in relazione alla quantità e alla qualità delle
informazioni che conteneva su una data popolazione167, come se fosse
un moderno testo d’etnologia o di storia; se i ritrovamenti archeologici

163
B. Gentili, G. Cerri, op. cit., pgg. 8 – 9: Quello di Tucidide è, invece, un modo
di scrivere «alieno ai modi della pubblica performance», una scrittura che mira a
rendere implicito il pensiero attraverso periodi ipotattici ed una serrata
concatenazione logica che esige un lettore attento e difficilmente può trovare un
pubblico che riesca a seguire il filo del discorso.
164
D. Asheri, op. cit., pg. X.
165
Cfr. G. Nenci (a cura di), Erodoto. Le Storie, libro VI: la battaglia di
Maratona, Milano 1998, pg. XIII: l’elencazione dell’esercito di Serse ricorda e
forse trova suggerimenti nel catalogo omerico delle navi; l’uso ricorrente di cifre
simboliche; l’assidua descrizione della geografia dei luoghi delle battaglie;
l’invenzione di dialoghi con cui si caratterizzano i personaggi e con cui si dà un
tono epico alle azioni; il doppio volto di eroi erodotei come Milziade, diviso in un
ruolo insieme antitirannico e dispotico, vittima della sua stessa hybris e che
ricorda le figure di tanti mitologici eroi omerici.
166
Cfr. F. Cassola, op. cit., pg. 15; D. Asheri, op. cit., pg. LX.
167
Cfr. F. Hartog, op. cit., pg. 27 sgg.

98
corrispondevano a ciò che Erodoto raccontava, allora sarebbe stato
uno storico veritiero; al contrario, si addebitavano le mancanze alla
sua poca scrupolosità, alla sua ingenuità, agli errori degli informatori
o, peggio, alla sua mancanza di buona fede. Questo perché i racconti e
le descrizione fatte da Erodoto su molte popolazioni sono stati presi in
esame come se fossero monografie, documenti circoscritti e fondati,
seppure allo stato grezzo, su quel determinato popolo. Dunque, il
referente del testo erodoteo sarebbe stato il popolo stesso e il testo
un’informazione immediata su di esso. Invece, i destinatari dell’opera
erodotea sono i Greci del V secolo a.C.: è per loro che il nostro autore
traduce la diversità, infatti, come sostiene Hartog: «Tra narratore e
destinatario esiste un insieme semantico, enciclopedico e simbolico di
saperi appartenenti ad entrambi che è la condizione stessa del
comunicare»168.
A questo punto, tenteremo di sondare i racconti erodotei sui
Persiani, tenendo presente che chi scrive si rivolge ai Greci suoi
contemporanei, con i quali partecipa di un sapere condiviso greco. È
in base a tale comune sistema simbolico che il testo può essere
realizzato e che il destinatario può decodificarlo: il testo, infatti,
trattando dell’alterità attraverso la comparazione, si comporta come
una traduzione. Un sapere condiviso, che resta largamente implicito,
ma che può essere decifrato grazie ad alcuni tratti che sono evidenti,
come gli interventi del narratore che, «manifestando stupore nei
confronti di una estraneità»169, rende manifesta una diversità.
Secondo Erodoto «i Persiani considerano come loro proprietà l’Asia
e le genti barbare che vi abitano, mentre ritengono che stiano a sé

168
Cfr. Ivi, pg. 30.
169
Cfr. Ivi, pg. 32.

99
l’Europa e la Grecia»170. Già nel primo libro, trattando delle cause
remote dell’inimicizia tra Greci e Persiani – cause che affondano nelle
tradizioni mitologiche greche razionalizzate – Erodoto segnala la netta
contrapposizione tra l’Asia e l’Europa, da una parte, e tra le genti
barbare e la Grecia, dall’altra. Tra il cosmo orientale segnato dal
dominio persiano ed il cosmo occidentale marcato dalla cultura greca.
Tale distinzione informa tutta l’opera erodotea, come cercheremo di
rendere evidente attraverso le contrapposizioni e le differenze tra i due
orizzonti culturali che l’autore ci offre passo dopo passo. Tuttavia,
bisogna tenere sempre presente che per Erodoto differenziazione non
significa chiusura o incomunicabilità, ma che, piuttosto, il suo
progetto prevede di tradurre la diversità che esiste per renderla
comprensibile ai suoi contemporanei. Quindi, differenza sul piano
degli usi, dei costumi e delle credenze, ma uguaglianza sul piano
umano.
Nello stesso capitolo, poco prima del passo su indicato, Erodoto
contrappone il pensiero greco a quello persiano intorno alla questione
morale del ratto delle donne. Sostengono, infatti, i Persiani che se
rapire donne deve considerarsi azione da uomini ingiusti, «il darsi
cura di vendicarle è azione da dissennati, mentre da saggi è il non
preoccuparsene, perché è chiaro che se non avessero voluto non
sarebbero state rapite». Inoltre, gli asiatici non fecero alcun caso alle
donne rapite, mentre i Greci per il rapimento di Elena costituirono una
grande flotta e «poi, giunti in Asia, abbatterono la potenza di Priamo».
Al di là del possibile senso ironico della frase, Erodoto ci mostra la
profonda opposizione di mentalità, che viene alla luce tra Greci e

170
Cfr. Hdt. I 4, 4.

100
Barbari, su temi morali e di costume171: intorno alla questione del ratto
delle donne, della nudità pubblica, della partecipazione delle donne ai
banchetti, del matrimonio monogamico ed intorno al tema morale
della relazione tra verità e menzogna. Inoltre, il richiamo erodoteo al
mito razionalizzato della guerra di Troia, pone in evidenza come i
Troiani siano per lo storico, come d'altronde anche per i Tragici, dei
Barbari172.
Ma la rappresentazione dell’altro non può basarsi solo sul semplice
evidenziare opposizioni e differenze. Il problema, per quanto riguarda
le Storie è ben più complesso: per il narratore non si tratta di
descrivere solamente un’alterità, bensì molte. All’interno dell’impero
persiano, infatti, sono presenti popoli molteplici ed ognuno di essi ha
elaborato una propria peculiare cultura.
Per il narratore si tratta di tradurre tale alterità affinché sia
comprensibile e il metodo utilizzato da Erodoto in questa operazione è
spesso quello di sottolineare le differenze, ma è anche largamente
impiegata la tecnica dell’inversione173. Di questa ultima fa
ampiamente uso nella sua descrizione dei costumi egiziani: «hanno
costumi e leggi contrari a quelli degli altri uomini»174: dove per altri
uomini intende i Greci. Anche quando la tecnica dell’inversione o
quella della evidenziazione delle differenze non vengono utilizzate dal
nostro autore – quando quindi fa uso della comparazione e
dell’analogia – alla base delle sue descrizioni degli altri popoli c’è
sempre il sistema di valori greco che funziona da “modello assente”; il

171
Cfr. D. Asheri, op. cit., pg. 265.
172
Cfr. P. Vidal – Naquet, Il mondo di Omero, tr. it., Roma 2001 (orig. Le Monde
d’Homère, Paris 2000), pg. 25.
173
Cfr. F. Hartog, op. cit., pgg. 185 sgg.
174
Cfr. Hdt. II 35.

101
suo modo di tradurre ciò che è diverso è un’operazione mirante a
ricondurre l’altro al medesimo. Se, come segnala Hartog, all’interno
del logos scita vi è uno sforzo teorico per spiegare il nomadismo ad un
popolo di abitanti di poleis, nei logoi Persiani, nel modo di
rappresentarli, abbiamo rintracciato lo sforzo teorico per rendere
traducibile la il cosmo regale persiano e le differenze culturali relative
ad un diverso sistema statuale.
Avanzando nella lettura delle Storie, è facile rendersi conto che la
descrizione dei Persiani non è statica, ma si evolve, subendo alcune
trasformazioni. Nel capitolo 71 del I libro, i Persiani sono presentati
come un popolo rozzo e virile in antitesi ai Lidi, popolo civile, ma
effeminato175. I Persiani «portano brache di cuoio e di cuoio tutti gli
altri indumenti, e mangiano non quanto vogliono, ma quanto hanno,
poiché posseggono una terra pietrosa». In questo passo i Persiani sono
presentati come una popolazione che, da un punto di vista greco, è
poco più che selvaggia; è un popolo che vive, infatti, ancora allo stato
di natura secondo i parametri ellenici. Innanzitutto, perché non si nutre
di ciò che coltiva – ha infatti una terra pietrosa contrapposta alla
Grecia «che ha avuto in sorte il clima più bello e più temperato» – e,
in secondo luogo, perché mangia ciò che può e non ciò che vuole; non
ha, insomma, un corretto regime alimentare. Nella cultura greca il
regime alimentare ha un’importanza fondamentale perché distingue la
condizione selvatica propria degli animali – che si nutrono di ciò che
trovano in natura – dalla condizione degli esseri umani che si cibano

175
Cfr. D. Asheri, op. cit., pg. 313; una definizione dei Lidi che, come abbiamo
visto, ritroviamo anche in Eschilo.

102
dei cereali frutto delle loro coltivazioni e della carne di animali
allevati e sacrificati176.
Inoltre, in opposizione alla Lidia che era conosciuta dai Greci come
terra di olio, vino e fichi177, «non fanno uso di vino, ma bevono acqua;
non hanno fichi da mangiare né alcun’altra cosa buona». Dunque,
prima di assoggettare i Lidi, i sudditi di Ciro non avevano «alcuna
mollezza, né alcuna comodità». A parlare è Sandanis che tenta di
dissuadere Creso dall’attaccare Ciro. È qui presente il motivo
dell’esaltazione della forza militare di popoli non ancora civili che
però, non conoscendo gli agi della ricchezza e dell’opulenza, hanno
una forte capacità militare e una particolare aggressività sul campo di
battaglia. I Persiani sono temibili, secondo Sandanis, perché non
hanno niente da perdere, al contrario di Creso che, tuttavia, non
ascolterà il consiglio del saggio lidio e muoverà guerra contro di loro,
segnando in tal modo la propria rovina. Tale motivo, peraltro, ricorre
più volte nelle Storie, per esempio al capitolo 207: questa volta sono
gli ormai ricchi e potenti Persiani guidati da Ciro ad attaccare un
popolo che non conosce agi ed è ignaro delle ricchezze persiane: i
Massageti.
Questi sono un popolo rozzo, praticano il cannibalismo, non sono
agricoltori178, offrono in sacrificio i cavalli e non conoscono l’uso del

176
Cfr. M. Detienne, Pratiche culinarie e spirito di sacrificio, pgg. 7 sgg. e J. – P.
Vernant, Alla tavola degli uomini. Mito di fondazione del sacrificio in Esiodo,
pgg. 27 sgg., entrambi in M. Detienne, J. – P. Vernant (a cura di), La cucina del
sacrificio in terra greca, tr. it., Torino 1982 (orig. La cuisine du sacrifice en pays
grec, Paris 1979); cfr. sull’argomento anche J. – P. Vernant, Mito e società
nell’antica Grecia, Religione greca, religioni antiche, tr. it., Torino 1981, (orig.
Mythe et société en Grèce ancienne, Religion grecque, religions antiques, Paris
1976), pgg. 140 – 141.
177
Cfr. D. Asheri, op. cit., pg. 314.
178
Cfr. Hdt. I 216.

103
vino, che nelle Storie rappresenta una bevanda civilizzata 179, tanto che
Creso può ingannarli facendo loro bere del vino puro, non mescolato
all’acqua come invece avviene secondo l’uso greco, e facendo loro
provare l’opulenza dei banchetti Persiani. Il vino è considerato da
Tomiri, la regina dei Massageti, come un veleno (phármakon), essi,
infatti, sono «bevitori di latte»180. Nonostante ciò, l’attacco ai
Massageti significherà per i Persiani la sconfitta e per Ciro la morte.
Dunque, i Persiani si trasformano: da popolo rozzo (che non
conosce il vino, che mangia non quanto vuole, ma quanto ha) in
popolo che, tramite la mediazione di Creso, organizza banchetti
ingannatori e conosce la tecnica per utilizzare il vino come un veleno.
La distanza tra Persiani e Greci sembra assottigliarsi, non sono più
alterità assoluta con cui è impossibile comunicare, ma una diversità
con cui ci si può confrontare. Tale comparazione è resa esplicita nei
capitoli 131-140 del I libro: essi adesso appaiono come un popolo che
sacrifica agli dei, che conosce cibi di pregio, organizza banchetti e usa
il vino.
Come si rapportano ai loro dei i Barbari Persiani? Ci dice Erodoto:
«Il modo seguito dai Persiani per il sacrificio ai suddetti dei è il
seguente: non erigono altari, né accendono fuochi quando vogliono
sacrificare, non usano libagioni, né flauto, né bende, né grani d’orzo.
Quando uno di essi vuole fare un sacrificio all’uno o all’altro degli
dei, condotta la vittima in un luogo puro invoca il dio con la tiara
incoronata per lo più di mirto. A colui che offre un sacrificio non è
lecito invocare favori soltanto per sé in particolare, ma egli prega che
tutti i Persiani ed il re abbiano buona fortuna: infatti fra i Persiani è

179
Cfr. F. Hartog, op. cit., pgg. 150 sgg.
180
Cfr. Hdt. I 216.

104
compreso anche lui. Dopo che, sminuzzate a brani le carni della
vittima, le ha bollite, vi stende sotto dell’erba, la più tenera possibile e
preferibilmente trifoglio e su questa pone tutte le carni. Quando egli le
ha deposte un mago che gli sta accanto canta una teogonia – tale
appunto essi affermano sia il carattere del canto. Dopo aver atteso per
un po’ di tempo, il sacrificante porta via le carni e ne fa l’uso che
vuole»181.
Alla base della descrizione del sacrificio persiano vi è il sacrificio
greco, esso è una delle cifre della distanza culturale che separano
Greci e Persiani.
Il sacrificio cruento, infatti, è uno dei riti più importanti e
significativi della religione della polis ed è strettamente legato
all’ordine politico della città. Il rito sacrificale per eccellenza è la
qusía, il sacrificio dedicato agli dei olimpi182; esso è in relazione
stretta con la vita sociale, tanto che «nessun potere politico può
esercitarsi senza offerta sacrificale. L’entrata in guerra, lo scontro con
il nemico, la conclusione di un trattato, i lavori di una commissione
temporanea, l’apertura di un’assemblea, l’entrata in carica dei
magistrati: sono altrettante attività che cominciano con un sacrificio
seguito da un pasto in comune»183. Attraverso il sacrificio, i cittadini si
riconoscono come comunità di abitanti di una polis, tanto che gli
stranieri non possono effettuare sacrifici, se non tramite la mediazione
di un cittadino e, conseguentemente, non hanno neanche diritti
politici184.

181
Cfr. Hdt. I 132.
182
Cfr. P. Scarpi, La religione greca, in di G. Filoramo (a cura di), Storia delle
religioni, 1, Roma – Bari 1994, pgg. 283 – 330, in particolare pg. 314.
183
Cfr. M. Detienne, Pratiche culinarie e spirito di sacrificio, pg. 9.
184
Cfr. Ivi, pg. 10.

105
Anche i Persiani pregano i loro dei offrendo sacrifici, ma il loro
culto non comporta l’edificazione di statue (Þgálmata), né di templi
(nhoùj), né l’impiego di altari (bwmoùj)185, utilizzano, invece, dei
luoghi puri (I 132, 1), dove condurre la vittima destinata al sacrificio.
Altari, statue e templi rappresentano per Erodoto una linea di
confine tra ciò che è greco e ciò che non lo è. Tale triade ritorna più
volte nelle Storie: gli Sciti non hanno altari, statue e templi186; i
Budini, popolo loro confinante, invece hanno statue, altari, templi per
venerare divinità greche, infatti in origine erano Greci187. Gli Ateniesi,
dando una definizione di ciò che è “Grecità”, lo abbiamo visto, citano
i templi degli dei e il sacrificio188. Altari, statue e templi sono, per
Erodoto, criteri di grecità.
C’è di più: Erodoto ci dice, facendo uso della stessa triade, che «i
primi ad attribuire agli dei altari, statue e templi»189 furono gli
Egiziani. Tuttavia, i Persiani hanno dei luoghi puri, non meglio
determinati se non con il fatto che spesso sono alture, quindi vi è una
certa suddivisione dello spazio sacrale: ora, che senso può avere
questa difformità agli occhi di un greco? Essa segnala l’alterità della
pratica cultuale dei Persiani, rispetto al modello greco. Ciò nonostante,
i Persiani compiono dei sacrifici.
Nella prima fase dell’atto sacrificale altre assenze vengono
sottolineate dal nostro autore: quando i Persiani vogliono sacrificare
non accendono fuochi, non usano libagioni, né flauto, né bende, né

185
Cfr. Hdt. I 131.
186
Cfr. Hdt. IV 59.
187
Cfr. Hdt. IV 108, 2
188
Cfr. Hdt. VIII 144, 2
189
Cfr. Hdt. II 4.

106
grani d’orzo. Tali mancanze indicano un ulteriore scarto rispetto al
sacrificio civico e rappresentano altrettanti criteri d’alterità.
Prima di sgozzare l’animale sacrificale i Greci procedono ad una
serie di atti rituali che mirano a consacrare la vittima e ad ottenere il
suo assenso ad essere immolata. C’è, in un certo senso, la volontà di
cancellare la violenza dell’atto dell’uccisione, «come se occorresse
discolparsi in anticipo dall’accusa di omicidio»190. Una volta che
hanno condotto l’animale sacrificale fino all’altare, cercano di
ottenere la sua approvazione con un movimento della testa. Scagliano
d’improvviso sul capo della vittima dell’acqua e dei grani di farro o
d’orzo, in modo che l’animale, intirizzendo ed essendo disturbato dai
cereali, scuota il capo. Ciò viene interpretato come segno di consenso
all’uccisione.
Il fatto che Erodoto precisi che i Persiani «non erigono altari, né
accendono fuochi quando vogliono sacrificare», indica che essi non
fanno ardere il fuoco che, al contrario, viene acceso dai Greci
sull’altare, prima dell’uccisione rituale dell’animale sacrificale. Le
libagioni assenti dal rituale dei Persiani sono probabilmente libagioni
di vino che possono essere versate già prima dell’uccisione191.
Ciò che colpisce maggiormente è la mancanza nel rituale persiano
della consacrazione della vittima. Come ci ricorda Hartog, quando
Nestore si accinge ad offrire un sacrificio ad Atena comincia con lo
spargere l’acqua lustrale e i chicchi d’orzo, in seguito pronuncia una
preghiera per Pallade, quindi preleva dei ciuffi di peli dall’animale e li
brucia nel fuoco192. Tutta questa fase del sacrificio greco è, secondo

190
Cfr. M. Detienne, Pratiche culinarie e spirito di sacrificio, pg. 15.
191
Cfr. F. Hartog, op. cit., pg. 159.
192
Hom. Od., III 445.

107
Erodoto, ignorata dai Persiani: l’assenza di consacrazione comunica il
distacco esistente tra un sacrificio violento (quello persiano) e uno non
violento193.
Erodoto, inoltre, tace la modalità di uccisione dell’animale, che
in Grecia era lo sgozzamento. Dopo la consacrazione, la vittima
animale era privata del sangue che veniva raccolto in un catino
speciale (sphageion) e successivamente versato in modo uniforme
sull’altare194. Il sangue, nel sacrificio greco, è per gli dèi, esso cola
«lungo le pareti della costruzione degli uomini sino a confondersi con
la terra proprietà divina che ne costituisce il supporto»195. I Persiani,
pur avendo dei luoghi deputati al sacrificio, non fanno scorrere il
sangue che spetta agli dei, amplificando in tal modo la violenza del
sacrificio stesso. Il sangue infatti non deve essere mangiato perché
come elemento indeperibile esso spetta ai divini, come spettano loro
anche le ossa avvolte di grasso.
Nel sacrificio persiano, una volta uccisa la vittima, viene
sminuzzata a brani e bollita. Un altro scarto è, quindi, sottolineato dal
nostro autore attraverso un silenzio: la suddivisione delle carni. In
Grecia dopo l’uccisione dell’animale si procede all’estrazione dei
visceri nobili (splágcna) – fegato, polmone, milza, reni, cuore196 – e
alla separazione delle carni dalle ossa. Nella prima parte del sacrificio,
i visceri infilzati allo spiedo, vengono arrostiti e consumati sul posto
dalla «cerchia ristretta di coloro che partecipano attivamente al

193
Cfr. M. Detienne, Pratiche culinarie e spirito di sacrificio, pg. 7 sgg.
194
Cfr. P. Scarpi, op. cit., pg. 314.
195
J.-L. Durand, Bestie greche, proposte per una tipologia dei corpi commestibili,
in M. Detienne, J.-P. Vernant (a cura di), La cucina del sacrificio in terra greca,
tr. it., Torino 1982, pgg. 90 – 108 (orig. La cuisine du sacrifice en pays grec, Paris
1979), in particolare pg. 127.
196
M. Detienne, Pratiche culinarie e spirito di sacrificio, pg. 16.

108
sacrificio»197, mentre sul fuoco ardono e si consumano, per gli dei, le
ossa ricoperte di grasso; le carni sono destinate a essere bollite in un
calderone, a essere mangiate da una cerchia più allargata e, talvolta, a
varcare i confini del recinto sacro198. Queste fasi di commensalità sono
assenti dal sacrificio persiano: viene infatti esplicitamente dichiarato
che «il sacrificante porta via le carni e ne fa l’uso che vuole»; il
sacrificante sembra apparire come un individuo singolo, è assente il
pasto in comune.
In Grecia, il sacrificio è il giusto rito per rapportarsi agli dei;
momento di incontro tra gli esseri divini e il mondo degli uomini, esso
tende a voler replicare l’antica convivialità che esisteva tra gli dei e gli
esseri umani nell’età dell’oro, quando «mescolati tra loro, godevano in
banchetti senza fine»199, ma allo stesso tempo ne replica la
separazione sancita, nel tempo del mito, dal banchetto sacrificale
ingannevole di Prometeo (Theog. 535 – 558) 200.
La spartizione imprudente delle carni, compiuta da Prometeo,
sancisce definitivamente la condizione umana come separata da quella
divina. Il Titano aveva riservato agli dei le ossa nascoste sotto il
grasso lucente e agli uomini la carne e i visceri celati nel ventre
dell’animale, stabilendo in tal modo i regimi alimentari che da quel
momento in poi caratterizzeranno la comunità umana e divina: «come
l’antica vicinanza si esprimeva miticamente nell’immagine di una
comunità conviviale, così l’attuale separazione si manifesta nel

197
Ibidem.
198
Ibidem.
199
J. – P. Vernant, Alla tavola degli uomini. Mito di fondazione del sacrificio in
Esiodo, pg. 30.
200
Ivi, pg. 27 sgg.; cfr. anche J. – P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia,
pgg. 173 sgg.; Cfr. P. Scarpi, op. cit., pgg. 314 – 315; Cfr. D. Sabbatucci,
Politeismo, pg. 198.

109
contrasto tra due regimi alimentari»201; dell’animale sacrificato, agli
uomini spetta la carne morta e corruttibile che li incatena a un destino
di mortali, agli dei immortali, invece, il fumo odoroso delle ossa
immarcescibili202.
Il rito sacrificale, compiuto per entrare in comunicazione con gli
dei, sancisce di fatto il loro allontanamento, replicando il regime
alimentare instaurato da Prometeo. Gli uomini invece, consumando
l’animale in comune, ribadiscono e individuano il legame sociale che
li unisce e che si manifesta nell’unicità della vittima sacrificale. E il
sacrificio si fa politico: la spartizione qualitativa e quantitativa delle
carni ripete l’articolazione delle componenti sociali 203.
Se il sacrificio è politico, chi ignora la polis non può conoscere il
pasto sacrificale. Per polis non intendiamo il semplice agglomerato di
edifici pubblici e privati, ma quella particolare forma statuale e sociale
espressa dalle poleis greche. Polis nel mondo greco «indica la forma
più alta e comune di organizzazione statale, tanto da identificarsi con
il concetto stesso di vita associata regolata da leggi»204. Tra i Persiani
non vi è spartizione egualitaria, né commensalità, quindi non vi è una
comunità “alla greca”. Il silenzio in questo caso marca una differenza
sostanziale.
Abbiamo omesso di sottolineare che nel sacrificio persiano la fase
dell’arrosto che solitamente precede il bollito205 non è presente:
sminuzzate a brani le carni, i Persiani le cuociono bollendole
direttamente. L’arrosto riappare, tuttavia, più avanti e in tutt’altro
201
J. – P. Vernant, Alla tavola degli uomini. Mito di fondazione del sacrificio in
Esiodo, pg. 30.
202
Cfr. J. – P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, pgg. 30 – 31.
203
Cfr. P. Scarpi, op. cit., pgg. 315 – 316.
204
Enciclopedia Europea, I edizione, Milano 1979, s.v. Polis.
205
Cfr. M. Detienne, Pratiche culinarie e spirito di sacrificio, pgg. 7 sgg.

110
contesto: i Persiani «fra tutte le giornate, usano celebrare
particolarmente quella in cui ciascuno è nato. In questa giornata, essi
ritengono giusto imbandire un pranzo più abbondante che nelle altre;
in questo giorno i ricchi si fanno imbandire un bue, un cavallo, ed un
cammello e un asino interi arrostiti al forno; i poveri imbandiscono
capi di bestiame minuto». Dunque conoscono l’usanza di arrostire le
carni206, tuttavia non la utilizzano nel sacrificio. Erodoto distacca il più
importante momento di commensalità persiano, dal rito del sacrificio
per sottolineare maggiormente che non si tratta di “quel” pasto
sacrificale che sancisce l’appartenenza alla comunità dei cittadini di
una polis.
Il sacrificio persiano è caratterizzato, dunque, da molte assenze e da
molte differenze rispetto al modello Ellenico. Dal punto di vista greco
è un sacrificio violento, incapace di assicurare il giusto contatto con
gli dei e il legame sociale tra gli uomini. Tuttavia, si badi bene, ciò
che non funziona tra i Greci è funzionale nel mondo Persiano, che è
retto da un differente cosmo politico che produce un diverso cosmo
sociale, governato da regole proprie. Ed è questo che vuole
sostanzialmente trasmettere Erodoto al suo pubblico.
Così pure, sebbene gli Egiziani utilizzino statue, altari e templi,
sebbene accendano il fuoco per il sacrificio, sgozzino la vittima
animale e compiano libagioni di vino, essi tuttavia mostrano
ripugnanza a utilizzare lo spiedo, il lebete o il coltello di un greco 207:
questo perché sacrificano e si alimentano secondo regole diverse da
quelle greche208.

206
Oltretutto al forno e non allo spiedo, per intero e non solo i visceri nobili.
207
Cfr. Hdt. II 41.
208
M. Detienne, Pratiche culinarie e spirito di sacrificio, pgg. 8 – 9.

111
I Persiani si muovono e agiscono in un cosmo politico marcato
dalla regalità che detta le sue regole: così il sacrificante, che agli occhi
di un greco può apparire un individuo singolo, fa parte di una
comunità che ha il suo centro nella persona del Gran Re; ed è per
questo che chi vuole sacrificare ad uno degli dèi non può farlo per se
solo, ma deve pregare «che tutti i Persiani e il re abbiano buona
fortuna: infatti fra i Persiani è compreso anche lui (chi sacrifica)»209.
Così Erodoto, che nel descrivere il sacrificio persiano ha definito i
tratti di una comunità tramite quelle assenze che esso presenta –
quindi assenza di una comunità orientata dai valori Greci –
successivamente la definisce in positivo attraverso le caratteristiche
che le sono proprie: si tratta di una società fortemente gerarchizzata. E
infatti ci dice Erodoto: «Quando si incontrano fra loro per strada, da
questo si può riconoscere se quelli che si incontrano sono di pari
grado: invece di rivolgersi l’un l’altro parole di saluto si baciano sulla
bocca. Se invece l’uno è di poco inferiore si baciano sulle guance; se
poi uno è molto meno nobile inginocchiandosi si prosterna dinanzi
all’altro»210.
D’altra parte, Erodoto dimostra in più punti di conoscere con
discreta esattezza il funzionamento della corte achemenide: per
esempio quando mette in scena, durante la sua narrazione dell’infanzia
di Ciro, il gioco al re211 sul modello della corte medo-persiana212, e
ancora, nel libro III, quando descrive il funzionamento delle satrapie
dell’impero.

209
Cfr. Hdt. I 132; è qui attiva la dialettica Uno – Molti che abbiamo visto essere
produttiva già in Eschilo.
210
Cfr. Hdt. I 134.
211
Cfr. Hdt. I 114.
212
Cfr. D. Asheri, op. cit., pg. 337.

112
I Persiani insegnano ai loro figli dall’età di cinque fino ai venti
anni, ci dice ancora lo storico, solo tre cose: «cavalcare, tirar d’arco e
dire la verità»213. Quella persiana è presentata come una società
guerriera che fonda la sua esistenza sociale su legami di sangue. Dopo
il dimostrarsi valorosi e coraggiosi in battaglia, fa notare Erodoto, è
considerato superiore merito «il poter mostrare più figli»; e chi di loro
ne concepisce di più riceve ogni anno doni dal Gran Re 214. In più, essi
sostengono che nessun persiano ha mai ucciso il proprio padre, né la
madre.
Si configurano altri criteri di alterità rispetto al modello greco: da
una parte abbiamo i Persiani che credono che la «cosa più turpe sia il
mentire e, in secondo luogo, l’avere debiti»215; e questo perché al
debitore è necessario anche raccontare menzogne. Dall’altra parte
abbiamo i Greci che hanno «un luogo apposito in mezzo alla città
dove si riuniscono e si imbrogliano l’un l’altro con giuramenti»216.
Queste parole, pronunciate da Ciro, si riferiscono all’agorà, centro
della vita sociale e commerciale delle città greche.
Al contrario, sottolinea Erodoto, i Persiani «non sono soliti servirsi
dei mercati e non ne hanno affatto»217. Con queste affermazioni, egli
mette in evidenza le differenti forme economiche attuate
rispettivamente, dall’impero persiano e dalle poleis greche: un sistema
economico che, con le dovute accortezze218, può essere definito di tipo
feudale, basato, in certi casi, su una sorta di vassallaggio di tipo

213
Cfr. Hdt. I 135, 2.
214
Cfr. Hdt. I 136.
215
Cfr. Hdt. I 138,1.
216
Cfr. Hdt. I 153.
217
Cfr. Hdt. I 153.
218
Con le dovute cautele perché il concetto di feudo si riferisce al Medioevo
europeo e non può aderire totalmente al sistema economico persiano.

113
ereditario patrilineare219, contrapposto ad un sistema economico di
tipo mercantile, che fece del Mediterraneo, dell’Egeo in particolare, il
centro del mondo occidentale.
La società persiana è presentata, come abbiamo detto, come una
società guerriera, come una potenza formidabile che incute terrore ed
è capace di schierare forze imponenti, quali mai avevano solcato il
campo di battaglia; riferendosi alla spedizione di Serse in Grecia,
Erodoto sottolinea, infatti, la potenza dell’armata schierata dai
Persiani: «delle spedizioni che noi conosciamo questa fu di gran lunga
la più grandiosa»220, tanto che di fronte a questa sono nulla quella di
Dario contro gli Sciti, degli Sciti contro i Cimmeri o degli Atridi
contro Troia; «né queste spedizioni, né altre […] sono degne di stare a
pari di questa sola. Qual popolo Serse non condusse dall’Asia contro
la Grecia?»221.
Nonostante ciò, viene sottolineato più volte all’interno delle Storie
che i Persiani “non sanno combattere”. Quando Aristagora di Mileto
arriva a Sparta per provare a convincere il re Cleomene ad intervenire
contro i Barbari con una spedizione in Asia, sottolinea che i Barbari
non sono forti, essi «hanno archi e corte lance e vanno in battaglia con
ampie brache e con turbanti sulla testa. In tal modo sono facili a
vincersi»222. Ugualmente, quando Aristagora si reca ad Atene per
tentare di convincere l’assemblea, mette in evidenza che i Persiani non
conoscono né scudo (Þspíj), né lancia (dóru)223.

219
Cfr. J. Wiesehöfer, op. cit., pgg. 61 sgg.
220
Cfr. Hdt. VII 20; Tematica ampiamente presente anche in Eschilo, come
vedremo.
221
Cfr. Hdt. VII 21.
222
Cfr. Hdt. V 49.
223
Cfr. Hdt. V 97 .

114
Raccontando della battaglia di Platea, Erodoto dà rilievo al fatto che
«per ardimento e per energia i Persiani non erano certo inferiori, ma
essendo privi di armamento pesante (\noploi) e per di più inesperti,
erano anche impari agli avversari per destrezza (sofía)»224. I Persiani
sono dunque \noploi, non utilizzano cioè le armi dell’oplita: «essi
combattevano armati alla leggera contro opliti» e dunque «il loro
equipaggiamento li danneggiava molto»225. Ad una carenza
nell’armamento, Erodoto aggiunge una carenza nelle cognizioni
tecniche, cioè sono impari agli avversari per sofía. Infatti, non
conoscendo la falange226, si scagliano dinnanzi a uno a dieci o più o
meno per volta227, senza τάξις. Quest’ordine necessario nella falange,
non appartiene, quindi, all’agire persiano.
Come ci ricorda Detienne, in Grecia nel corso del VII secolo a.C. si
era sviluppata una nuova tattica di combattimento, la falange, che
modificò radicalmente il modo di fare la guerra. Essa ha nuove regole:
«la bataille est livrée par un groupe d’hommes, soumis à une même
discipline. Tenir sa place dans le rang, s’élancer d’un même pas contre
l’ennemi, combattre bouclier contre bouclier, exécuter toutes les
manœuvres, comme un seul homme, autant d’activités que résume une
notion capitale : τάξις»228.
Essi, non conoscendo l’ordine della falange, non capiscono il modo
di combattere greco, così come i Greci non comprendono il modo di
combattere dei Barbari: tutto questo è reso evidente nel discorso di
224
Cfr. Hdt. IX 62; IX 90, 2 – 3, sulla flotta di Serse.
225
Cfr. Hdt. IX 63.
226
Cfr. per un’analisi della falange in Grecia: M. Detienne, La Phalange:
problèmes et controverse, in J. – P. Vernant, Problèmes de la guerre en Grèce
ancienne, Paris 1985.
227
Cfr. Hdt. IX 63.
228
M. Detienne, La Phalange: problèmes et controverse, pg. 122; cfr. anche Hdt.
VI, 111; 112; VII, 104; IX, 31.

115
Mardonio a Serse: «Cosa c’è da temere? Quale mai massa di armati?
Quale potenza di mezzi? Noi ne conosciamo il modo di combattere, e
ne conosciamo la potenza, che è debole. […] Eppure, a quanto io so, i
Greci sono soliti ingaggiar guerra con la massima sconsideratezza,
spinti da stoltezza e follia: infatti, quando si siano proclamata fra loro
guerra, cercano la località più bella e più pianeggiante ed in questa
scendono a combattere in maniera tale che i vincitori si allontanano
con grave danno; dei vinti poi non ne parlo neppure, perché,
naturalmente, vengono del tutto annientati. Essi, che sono della stessa
lingua, dovrebbero comporre le loro controversie servendosi di araldi
e di ambasciatori e in qualunque maniera piuttosto che in
combattimento. Se poi dovessero assolutamente combattere l’uno
contro l’altro, dovrebbero cercare un luogo in cui entrambi potessero
difendersi meglio e in quello tentare la sorte delle armi»229.
Mardonio non può comprendere cosa sia la falange, tanto meno lo
scontro di due di esse, non può comprendere la morale oplitica – il
marciare di un medesimo passo contro i nemici, il sottostare alla
medesima legge che ti impone di non fuggire ma di tenere il tuo posto
dentro i ranghi –, ma soprattutto non può comprendere che la guerra
tra le poleis greche è battaglia governata dal nómos, dove città rivali si
affrontano in base a precise regole, dettate dall’appartenenza alla
medesima cultura.
I Persiani sono dei Barbari perché sono \noploi, senza armi
pesanti; quindi, senza l’equipaggiamento dell’oplita, non sono dei
cittadini di una polis230: e infatti, essere \noploj significa non essere
oplita, quindi non essere cittadino. I Persiani, arcieri e cavalieri, sono

229
Cfr. VII 9.
230
Cfr. F. Hartog, op. cit., pg. 60.

116
educati a cavalcare e a tirar d’arco fin dalla prima infanzia; ma solo le
armi dell’oplita sono, per i Greci, armi in senso proprio.
L’opposizione tra arco e lancia231, dopo le guerre persiane, diviene
ricorrente e, come abbiamo visto, è adottata quale parametro di alterità
tra Greci e Barbari, sia da Erodoto, sia da Eschilo nei suoi Persiani.
Carenti in tutti questi attributi, essi di fatto non sanno combattere,
rappresentano gli anti-opliti per eccellenza.
Inoltre, la guerra in Grecia è fortemente legata alla sfera politica,
tanto che solo chi poteva fornirsi a proprie spese di un armamento da
oplita232, poteva essere considerato cittadino al quale erano
riconosciuti tutti i relativi diritti. Non essere oplita significa non
appartenere alla comunità della polis: quindi i Persiani, che sono gli
anti-opliti per eccellenza, non possono appartenere a una comunità di
cittadini (sono diversi, appartengono a un cosmo sociale che, anche
dal punto di vista della guerra, ha regole diverse). Essi, perciò,
combattono anche in modo differente.
Prima dello scontro con i Persiani, la guerra in Grecia si svolgeva
tutta all’interno del mondo ellenico, a cui appartenevano tutte le città
unite dalla stessa lingua, dalla stessa mentalità, dai costumi, dalla
religione, dalla forma di vita sociale. Quando queste entravano in
guerra l’una contro l’altra, erano tuttavia partecipi della medesima
cultura e l’altro non era mai del tutto altro, non era una diversità che si

231
Sull’opposizione tra arciere ed oplita cfr. J – P. Vernant, P. Vidal – Naquet,
Mito e tragedia nell’antica Grecia, tr. it., Torino 1976, (orig. Mythe et tragédie en
Grèce ancienne, Paris 1972), pg. 163; cfr. F. Hartog, op. cit., pg. 64; cfr. Eur.
Eracle, vv. 153 – 164; Soph. Philot.; Aesch. Pers. vv. 25 – 30; 233 – 240.
232
Cfr. J. – P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, pg. 37. Per
l’equipaggiamento degli opliti cfr. M. Detienne La Phalange: problèmes et
controverse, pgg. 121 sgg.; cfr. J. – P. Vernant, La tradition de l’hoplite athénien,
in Problèmes de la guerre en Grèce ancienne, Paris 1985.

117
combatteva «come si dà la caccia a una bestia»233 perché estranea alla
sfera civile. L’altro è un potenziale partner del commercio sociale,
venera gli stessi dei ed è vicino per gli usi e le leggi che condivide234.
La guerra tra le poleis esclude ogni volontà di annichilire il nemico
nella sua esistenza religiosa e sociale, per assimilarlo a sé; infatti è già
sé. Le città che si confrontano attraverso l’opposizione delle rispettive
falangi partecipano degli stessi nómoi e spesso possono appartenere
alla stessa anfizionia, così la guerra tra le poleis non può essere
anomía, mancanza di regole235. La guerra greca nell’epoca classica è
un agone in cui si scontrano due città in posizione di esatta
simmetria236, seguendo norme accettate da tutti i Greci che traggono
origine da valori, riti e credenze comuni. Al contrario, dalle Storie
emerge, da parte persiana, un modo totalmente altro di combattere,
che ha anche motivazioni diverse.
La guerra dei Persiani è una guerra di conquista che tende ad
assoggettare i popoli al potere di un unico re, lo abbiamo visto. È vero
che storicamente l’impero Persiano ebbe un certo rispetto della
religione, degli usi e dei costumi dei popoli che conquistava,
nondimeno successe anche che l’impero ordinò delle deportazioni di
interi popoli da una terra ad un’altra e, comunque, divenne di fatto il
padrone dei territori che conquistava. Tra le motivazioni
dell’invasione di Serse in Grecia c’era sicuramente quella di vendicare
i torti subiti da Dario a causa degli Ateniesi 237, ma anche quella di

233
J. – P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, pg. 37.
234
Ibidem.
235
J. – P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, pg. 39.
236
Cfr. in generale A. Brelich, Guerre, agoni e culti nella Grecia arcaica, Bonn,
1961; J. – P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, pg. 38.
237
Cfr. Hdt. VII 8.

118
estendere i confini dell’impero fino all’etere di Zeus 238, di conquistare
la Grecia perché terra fertile, bella e ricca, «degna di essere posseduta,
fra i mortali, solo dal Gran Re»239. La guerra dei re persiani è una
guerra di conquista, non un agone tra pari, e spesso nelle Storie
assume i tratti di una caccia. I Persiani per vincere usano trappole e
inganni per indebolire il nemico, come si fa con una preda da
braccare: ad esempio, quando Ciro combatte contro i Massageti
predispone un tranello, con l’aiuto di Creso, per fiaccare l’esercito
nemico. Ugualmente Dario, per espugnare Babilonia, deve servirsi di
un inganno architettato ad arte da Zopiro, un suo suddito240. Anche
quando i Persiani vogliono proporre al nemico una guerra alla greca,
come nel caso di Dario contro gli Sciti, in cui i Persiani appaiono
come dei quasi-opliti, essi vengono condotti dal nemico ad affrontare
una caccia, più che un combattimento241. La guerra dei re persiani
nelle Storie assomiglia spesso a quella dei Greci contro Troia, attuata
con gli stessi ingannevoli tranelli, primo tra tutti il cavallo di Troia.
Zopiro, infatti, si comporta un po’ come il cavallo di Troia: egli si
mutila e fa credere ai Babilonesi che sia stato il re Dario a ridurlo in
tale maniera. Con questo stratagemma riesce ad ottenere il permesso
di entrare nella città in cui poi farà penetrare l’esercito persiano.
I Persiani, dunque, combattono come sudditi governati da re; di
conseguenza essi si battono per il timore della sferza242, mentre i Greci
sono soggetti solo alla legge243.

238
Cfr. Hdt. VII 8.
239
Cfr. Hdt. VII 5, 3.
240
Cfr. Hdt. III 154 – 160.
241
Cfr. F. Hartog, op. cit., pg. 52 – 72.
242
Cfr. Hdt. VII 103, 4; 223, 3.
243
Cfr. Hdt. VII 101-105; 135

119
Riassumendo, abbiamo visto come Erodoto per rappresentare la
diversità persiana al destinatario della propria opera, debba usare delle
categorie greche, come il sacrificio e la guerra oplitica, che sono, su
piani diversi, l’espressione del cosmo politico greco. Lo sforzo teorico
di Erodoto è di tradurre la regalità a chi non ha più re; tale traduzione,
per essere compresa dai Greci del V secolo a.C., è realizzata attraverso
una comparazione con il “modello greco”. Erodoto mette in evidenza,
insomma, come la società persiana si inscriva in un cosmo politico
informato dalla regalità, che ha regole e leggi differenti dal cosmo
politico proprio della società greca.
Un ultimo elemento dell’indagine erodotea ci sembra essere
rilevante, perché può gettare luce sulla cognizione del Barbaro nel V
secolo. Nel discorso tra Serse e Demarato244, poco prima della
battaglia delle Termopili, il Gran Re chiede all’ex re spartano se gli
Spartani veramente tenteranno di resistere agli assalti dell’armata
reale, talmente soverchiante rispetto alle forze schierate dai nemici. La
risposta di Demarato è positiva: gli Spartani combatteranno perché
l’Ellade è un paese povero e solo grazie all’inventiva (sofía) e alla
legge (nómoj) essi si difendono dalla povertà e dal dispotismo
(desposúnh). Inoltre, lo spartano loda il grande valore militare dei
suoi compatrioti. Serse ride alle parole di Demarato e gli oppone due
contestazioni: 1- anche se gli Spartani sono tanto valorosi, il numero
delle forze messe in campo dal Gran Re è nettamente superiore; 2- è
più facile che in una monarchia il singolo soldato, per timore del
sovrano, sia spinto a superare i limiti della propria natura (parà tèn
phýsin). Dihle nota, in riferimento a questo passo, che esso si inserisce
nel quadro dei concetti elaborati dalla contemporanea scienza ionica:
244
Cfr. Hdt. VII 101 sgg.

120
la capacità individuale può essere accresciuta o diminuita in base a
particolari condizioni di vita245. La risposta finale di Demarato sposta,
a detta dello studioso, l’attenzione su un altro piano. A Demarato non
interessa sapere quanti avversari può affrontare un singolo Spartano,
ma sottolinea, piuttosto, che gli Spartani uniti nella falange sono più
forti di qualunque avversario e che essi, pur essendo liberi, non sono
in tutto liberi: è tra loro sovrano il nómos, del quale hanno timore
molto più di quanto non abbiano timore i Persiani della sferza del
sovrano. Una legge immutabile che impone loro di restare nei ranghi,
combattere, vincere o morire. La risposta dell’ex re si muove
all’interno del dibattito tra nómos e phýsis. Erodoto mostra
chiaramente che non è la superiorità “naturale” dei Greci presi
singolarmente a renderli capaci di resistere al nemico persiano, bensì
il nómos, la legge, la cultura, l’ordinamento socio-politico. È su questo
piano che i Greci sono superiori ai Barbari e, ricordiamolo, esso
comprende usi, costumi, credenze religiose in un insieme inscindibile.
Erodoto, nel proemio delle Storie dice: «Questa è l’esposizione
delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso perché le imprese degli
uomini col tempo non siano dimenticate, né le gesta grandi e
meravigliose così dei Greci come dei Barbari rimangano senza gloria,
e, inoltre per mostrare per quale motivo vennero a guerra fra loro».
Erodoto, ponendo le basi della propria ricerca, mette sullo stesso piano
Greci e Barbari, degni entrambi di grandi imprese. L’enciclopedica
opera di Erodoto supera i confini di questo intento programmatico,
aprendosi all’osservazione curiosa e alla traduzione dell’alterità.
Erodoto ha, in buna fede, l’intenzione di descrivere l’atro, il Persiano

245
Cfr. A. Dihle, I Greci e il mondo antico, tr. it., Firenze 1997 (orig. Die
Griechen und die Fremden, München 1994).

121
in particolare, in modo obbiettivo, ma non ne possiede ancora gli
strumenti ermeneutici. Il suo relativismo, per quanto notevole per
l’epoca, non riesce a portarlo oltre i limiti angusti della superiorità
della propria cultura.
Il contatto con l’altro, con il nemico estraneo, nel 490 – 480, ha
portato una nuova esperienza nella vita dei Greci. Da questo incontro-
scontro, nasce un nuova concezione del Barbaro. Ma in nessuno dei
testi del V secolo246 è dato scorgere la concezione di una superiorità
dei Greci sui Barbari sancita dalla natura.
L’esame retorico di una astratta opposizione tra Ellenismo e
Barbarismo, comune in Euripide, non si trova nei Persiani di Eschilo;
la speculazione filosofica sull’antitesi si sviluppa più avanti, sotto
l’influenza dei Sofisti247. La blanda opposizione, seppur definita, tra
Greci e Barbari in Eschilo, solo più tardi diventa una retorica su larga
scala248: è solo con la fine del V e con l’inizio del IV secolo che la
xenofobia vituperativa dell’Oratoria e la giustificazione teoretico-
filosofica della preminenza della cultura greca cominciano a fare
scuola249. I primi segnali di un inasprimento dell’opposizione al
Barbaro si ritrovano, secondo Dihle250, nelle tragedie di Euripide
composte durante la Guerra del Peloponneso, alla quale seguirà un
fase di profonda crisi delle strutture delle poleis.

246
Né nei tragici, né in Erodoto, né nei più antichi trattati scientifici del Corpus
Ippocratico, né nei frammenti dei Sofisti. Cfr. A. Dihle, op. cit., pg. 43.
247
Cfr. E. Hall, op. cit., pg. 57.
248
Cfr. Ivi, pg. 16.
249
Cfr. Ivi, pg. X.
250
Cfr. A. Dihle, op. cit., pg. 43. Lo studioso cita il re dei Traci, Polimestore, che
nell’Ecuba è presentato con tutti i tratti del Barbaro rapace, feroce (v. 54 sgg.) e
perfido (v. 953 sgg.) che riceve la giusta punizione (v. 1035 sgg.). Si veda anche
Eur. IA, vv. 952 – 954 e 1400 sgg.

122
Proprio in questo periodo, poco tempo dopo Erodoto, un altro greco
si volge verso l’alterità persiana: è Senofonte di Atene che, nella sua
Ciropedia, narra la biografia ideale del Sovrano persiano Ciro il
Grande251. Per riuscire a comprendere il significato della Ciropedia, al
di là delle intenzioni esplicitate dall’autore nel titolo e nelle prime
pagine dell’opera, è estremamente importante fare riferimento al
periodo storico in cui visse e operò Senofonte. Un periodo, questo, di
profondi e radicali mutamenti, sul piano politico e culturale, per la
Grecia: mutamenti che ci possono orientare nella comprensione della
nuova e particolare prospettiva che ha potuto assumere lo sguardo di
un greco nei riguardi dell’Oriente.
Tale periodo, che possiamo circoscrivere cronologicamente tra il
430 ed il 350 a.C., è caratterizzato dall’aspro conflitto tra Atene e
Sparta, nell’ambito della guerra del Peloponneso, che segna la fine
dell’egemonia ateniese e la crisi irreversibile delle poleis.
Le cause della guerra del Peloponneso sono rintracciabili nella
contrapposizione di interessi e ideologie che si era delineata fin dal
461 a.C. tra i due blocchi contrapposti, la lega Peloponnesiaca e quella
Delio-Attica, che aspiravano entrambe all’egemonia sulla Grecia. La
fine del conflitto porta alla caduta di Atene, che deve accettare, sotto
dure condizioni, la pace imposta da Sparta nel 404 a.C.
Il cinquantennio che segue la fine della guerra è molto importante,
poiché si assiste a tanti e tumultuosi mutamenti: l’affermazione
dell’egemonia di Sparta e la sua fine; la rinascita di Atene attraverso
l’alleanza con i popoli che più le erano stati ostili durante la guerra e
la fondazione della seconda lega ateniese; l’attestarsi ed il rapido
dissolversi dell’egemonia tebana; l’avvento al potere di Filippo di
251
Cfr. G. Mazzoleni, L’Asia "pensata" dall’Occidente, Roma 2001, pgg. 27-28.

123
Macedonia, a causa del quale le grandi poleis della Grecia classica
perdono la loro libertà e si riducono ad essere municipi dell’impero
Macedone.
In sintesi, questo periodo può essere considerato «la storia del
fallimento della polis e della sua crisi. La dimostrazione
dell’incapacità della polis, sia di unificare la Grecia con una stabile
egemonia, sia di coesistere con le altre poleis, di attuare cioè, la sua
autonomia e la sua libertà, rispettando l’autonomia e la libertà delle
altre poleis»252.
Senofonte vive in prima persona e non senza traumi la decadenza
dei valori della polis, l’inadeguatezza, ormai, del sistema democratico
ateniese e di quello oligarchico spartano. È proprio il fallimento degli
ordinamenti politici della Grecia classica che spinge Senofonte a
gettare il suo sguardo oltre l’orizzonte limitato del particolarismo
ellenocentrico delle città – stato per volgersi a quel mondo considerato
barbaro, all’Oriente e in particolare ai Persiani, per piegarlo alla
propria visione politica. Tale visione proietta il problema di governare
gli uomini su una scala che supera i limiti della polis e pone,
attraverso una versione utopica dell’antica storia persiana, la
prospettiva di una vasta compagine multietnica e multinazionale,
come quella creata da Ciro, quale unica via per uscire definitivamente
dal particolarismo del mondo greco.
«Da oggetto della raffigurazione serve il passato, da protagonista il
grande Ciro, ma punto di partenza della raffigurazione è l’età
contemporanea di Senofonte: è questa a dare i punti di vista ed i punti
di orientamento assiologici. È caratteristico che il passato eroico scelto
252
M. Sordi, La Grecia classica, in Nuove questioni di storia antica, Milano
1972, pg. 160.

124
non sia quello nazionale, ma quello straniero, barbarico. Il mondo si è
ormai aperto; il mondo monolitico e chiuso dei propri (come era
nell’epopea) è sostituito dal grande e aperto mondo dei propri e degli
altri. Questa scelta dell’eroicità altrui è determinata da un accentuato
interesse, caratteristico dell’età senofontea, per l’Oriente, per la sua
cultura, la sua ideologia, le sue forme politico – sociali; dall’Oriente si
aspettava la luce. Cominciava già la reciproca illuminazione delle
culture, delle ideologie e delle lingue»253.
È proprio dell’età senofontea l’idea del rinnovamento delle forme
politiche greche sull’esempio dell’autocrazia orientale: idea condivisa
da molti contemporanei – ma non da tutti – che si può cogliere
nell’idealizzazione esasperata della figura di Ciro, quasi
completamente nuova ed estranea per esempio al Ciro erodoteo.
Un altro elemento che rende più chiara la novità dell’orizzonte
senofonteo ci rimanda a un episodio fondamentale della sua vita: la
partecipazione alla spedizione di Ciro il Giovane contro Artaserse II,
quando abbandona la polis per cercare un’affermazione della propria
personalità, in un contesto nuovo e lontano dagli ideali del suo
maestro Socrate: «Se Socrate si vantava di non aver mai abbandonato
la polis tranne che per le necessità militari, dimostrando di intendere la
città come strumento e fine della vita dell’uomo, Senofonte invece
decide di varcare l’ormai angusto confine, in contrasto, a quanto è
dato di capire da una pagina famosa dell’Anabasi (III, 5-8), con le
profonde convinzioni del maestro»254.

253
M. Bachtin, Epos e Romanzo, in, Estetica e romanzo, Torino 1979, pgg. 445-
482, in particolare pg. 470.
254
A. Barabino (a cura di), Senofonte, Anabasi, Milano 1992, pgg. VIII – IX.

125
Senofonte scrive la Ciropedia probabilmente negli ultimi anni della
sua vita: sicuramente dopo il 361 a.C., poiché vengono menzionati
episodi della rivolta dei satrapi (VIII 8). Nell’opera si narra in otto
libri l’ascesa al potere di Ciro il Grande, fondatore dell’impero
persiano, fino alla sua morte. Il titolo Ciropedia è impreciso dal
momento che la paideia di Ciro non è l’unico argomento sviluppato,
ma è relegata esclusivamente al primo libro.
Senofonte aveva già trattato dei Persiani nell’Anabasi in cui narra,
da memorialista, la marcia di quel Ciro il Giovane che ai suoi occhi
incarnava l’ideale dell’antica virtù persiana. Ma l’Anabasi è un’opera
giovanile che segna un ritorno alla ingenuità e schiettezza dei
logografi, con un certo interesse per l’etnografia dal vivo, già presente,
come abbiamo visto, nelle Storie di Erodoto (che, insieme ai Persikà
di Ctesia di Cnido, costituiscono le fonti principali della Ciropedia).
In quest’opera senofontea, però, non c’è nessuno dei precisi
riferimenti geografici ed etnografici che si ritrovano nelle Storie e
nell’Anabasi. Possiamo comunque cogliere un rapporto di dipendenza
tra la narrazione senofontea e le sue fonti, nella corrispondenza di
alcune sequenze narrative, come per esempio la presenza di Ciro alla
corte Meda o il motivo del coppiere (I, 3), in cui è evidente che
l’autore presuppone alcuni tratti narrativi e descrittivi presenti nei suoi
predecessori. Senofonte, però, sa anche distaccarsi da essi in modo
funzionale al suo progetto, modificando taluni particolari, come la
nascita di Ciro: da un ricco borghese persiano e da una principessa
Meda in Erodoto, come “re figlio di re” in Senofonte, che sottolinea in
tal modo che Ciro ha sangue regale, sia in linea paterna, sia materna.
Mentre il Ciro erodoteo muore assassinato durante la sua ultima
campagna, quella contro i Massageti, il Ciro di Senofonte muore di

126
morte naturale alla sua corte e nel suo letto. Dobbiamo comunque
tener presente anche l’esistenza di fonti orali – come una saga iranica
di Ciro che aveva accolto motivi del folklore asiatico in relazione
all’instaurarsi di una nuova dinastia – che avevano in passato trovato
posto nelle leggende di Sargon e Mosè255. Queste forse sono note a
Senofonte che, però, le utilizza in minima parte e modificandole
attraverso l’uso che ne fa Erodoto.
Che tipo di opera è la Ciropedia? A quale genere letterario
appartiene? Per molto tempo è stata considerata esclusivamente come
scritto storico – pedagogico (Cesare la consigliava come manuale del
perfetto governante). Occorre tener presenti, riteniamo, le intenzioni
espresse da Senofonte nel primo libro, in cui indica nella “riflessione”
la molla iniziale per la composizione dell’opera, come peraltro aveva
fatto per la Costituzione degli Spartani256. Riflessione, nel caso della
Ciropedia, «su quanti governi democratici furono rovesciati […] e
quante monarchie e quante oligarchie […]»; su come «per natura
all’uomo riesce più facile comandare su tutti gli altri esseri viventi che
sui propri simili»257. Non appena Senofonte prende in considerazione
Ciro di Persia, cambia idea su questa difficoltà e perviene alla
convinzione «che il comandare agli uomini, purché se ne conosca
l’arte, non è cosa impossibile»258.
È opportuno considerare attentamente questo punto per cogliere e
valutare il vero progetto di Senofonte: delineare la figura di un
principe capace di superare i particolarismi greci, per abbracciare con
lo sguardo anche il mondo e le genti dell’Oriente, un principe ideale,

255
Cfr. F. Ferrari (a cura di), Ciropedia, Milano 1997, pgg. 8 – 9.
256
Ivi, pg. 77.
257
Xen. Cyr. I 1.
258
Xen. Cyr. I 1, 3.

127
metastorico, che riassuma gli alti valori della lezione socratica e i
valori aristocratici a lui cari. Un monarca ecumenico, insomma, come
non era stato Pericle, rimasto chiuso in un preciso contesto urbano.
Per Senofonte allora, Ciro, il fondatore dell’impero Achemenide, è
colui che conosce l’“arte” di comandare e di governare gli uomini. Ma
quali sono gli aspetti che costituiscono l’arte di Ciro?
Leggendo, emerge l’indole di un giovane che sembra comunicare
una naturale regalità, come era per Erodoto, ma che, in realtà, è il
risultato non solo della nascita, ma anche dell’educazione ai valori
aristocratici (così importanti per Senofonte). Il giovane Principe è
presentato con l’irruenza e la curiosità proprie della sua età, impara
rapidamente, emerge sui coetanei, ed i suoi comportamenti sono
improntati alla rettitudine morale ed alla tolleranza. Si preannuncia da
subito come mediatore tra culture diverse: assume alcuni costumi
Medi, come l’equitazione, che in Persia non poteva essere praticata
per la natura del territorio; ne critica garbatamente altri (l’eccessivo
sfarzo nell’abbigliamento, lo smodato bere e la ricercatezza dei cibi),
ma si comporta anche secondo i costumi persiani. È abile nella caccia
e si rivela ben presto stratega accorto. Questo potrebbe far pensare che
Senofonte esalti, nella figura di un re barbaro, la monarchia dei
Persiani e che, in questa, voglia indicare un nuovo ordine politico alla
Grecia.
In realtà, la figura di Ciro risponde veramente ai tratti di un principe
persiano? L’identità di un Ciro, che sentenzia usando frasi di Socrate e
Platone, che sacrifica una sola volta allo Zeus dei suoi avi259, che
peraltro venera sempre secondo i canoni della religione greca, va
evidentemente letta in modo ellenico.
259
Xen. Cyr. I 6.

128
Senofonte non abdica alla propria identità greca; infatti, nell’ultimo
capitolo, ci fa intuire la sua reale prospettiva: il sogno di un governo
illuminato che dipenda da una persona moralmente superiore. E
proprio nel suddetto capitolo descrive i Persiani del suo tempo in
modo negativo, sviluppando i luoghi comuni greci su di essi: parla di
un Oriente dispotico e corrotto, sostiene che i discendenti di Ciro,
dopo la sua morte, si sono imbarbariti, «codardi in guerra, iniqui verso
il prossimo». In questo, il nostro autore si rivela lontano da Erodoto e
dalla sua pacatezza e ci mostra quanto poco, in realtà, concedesse alle
culture orientali.
Senofonte scrive la biografia ideale di un monarca persiano, cosa
del tutto nuova per un Greco; tuttavia, non verrà mai criticato per la
sua scelta, poiché Ciro è pretesto e mezzo per un fine: nella
rappresentazione del nostro autore, dopo la morte del grande
fondatore, la società persiana decade, per cui Senofonte la può
ridicolizzare: era Ciro che esaltava, non i Persiani.
Trenta anni dopo la Ciropedia, si presenta alla ribalta della storia un
grande facitore di Stato, come aveva sognato Senofonte: in Alessandro
Magno si realizza quanto egli aveva prefigurato, ma la precoce morte
del grande re ed il successivo smembramento del suo impero sono
testimonianza di quanto fosse utopistico il sogno di Senofonte,
dimostrando la caducità di uno Stato basato sull’eccezionale
personalità del singolo.
Senofonte rappresenta, per il suo tempo, un esempio significativo di
innovazione in campo letterario, dal momento che opera uno
scardinamento, anche se spesso involontario, della struttura dei generi
letterari consolidati, dando vita a filoni nuovi che avranno eccezionale
fortuna nei secoli seguenti. La Ciropedia, oltre ad essere il punto di

129
arrivo della sua riflessione politica, è anche il veicolo attraverso il
quale Senofonte sviluppa e discute idee ed interessi presenti già negli
altri suoi scritti. In questa, l’autore ricorre a una varietà di forme
letterarie impiegate anche in altre opere, per cui la biografia di Ciro è
una cornice in cui Senofonte inquadra riflessioni e idee personali.
In ultima analisi, Senofonte attraverso la Ciropedia intende
sollecitare eticamente e provocare i suoi contemporanei, senza
peraltro ridurre la propria identità, il sé greco, ad una dimensione che
non poteva appartenergli e che rigetta nell’ultimo capitolo 260. Tacito,
alcuni secoli dopo, farà qualcosa di simile con la sua Germania,
cercando di risvegliare moralmente l’impero Romano, ormai in
decadenza, attraverso un campione barbaro e alieno.
Se Erodoto considera la polis come la migliore forma di vita
associata per la Grecia, in cui gli uomini, soggetti solo alla legge,
possono vivere liberi e, nonostante non sia amante della guerra,
giustifica un popolo che lotta per difendere la propria indipendenza
come i Greci, piuttosto che un insieme di sudditi che lottano solo per
paura della sferza, come i Persiani (VIII 86 – 89), Senofonte è un
aristocratico, che ha vissuto in prima persona i problemi portati dalla
guerra del Peloponneso, non crede più alla polis come risposta
adeguata per “governare gli uomini” e propone una nuova visione
politica basata principalmente sul recupero ellenizzato del passato
persiano. Individua nella monarchia di Ciro il Grande la forma
statuale più idonea: il sovrano ideale deve essere uomo moralmente
superiore, non solo grazie alla nascita, ma anche per indole ed
educazione.

260
G. Mazzoleni, op. cit., pg. 3.

130
Questo periodo, dunque, segna l’inizio della crisi delle strutture
classiche della polis e modifica per sempre l’assetto della Grecia
antica. Il peso sempre crescente della diplomazia persiana nelle
faccende greche, l’annessione delle poleis greche dell’Asia Minore
all’impero nel 387 a.C. e la Pace di Antalcida del 386 a.C. (la famosa
Pace del Re) generano un risentimento sempre più forte verso i
Persiani e i Barbari in generale e, allo stesso tempo, le poleis greche
sembrano incapaci di una reazione. A questa situazione, rispose la
pubblicistica politica dell’epoca, della quale ci interessa sottolineare,
in particolare, la figura di Isocrate. L’Oratore è contemporaneo di
Senofonte, vive appieno i tumulti di quest’epoca e ne rappresenta una
delle più importanti voci. In Isocrate, la radicalizzazione dell’antitesi
Greco / Barbaro emerge in modo forte, netto e talvolta vituperativo. I
Barbari, i Persiani in particolare, nella prospettiva che affiora dai suoi
scritti, sono nemici “naturali” dei Greci261; l’ostilità tra gli uni e gli
altri ha carattere ereditario262. I Barbari sono odiati e non sono
ammessi ai Misteri, proprio come gli “assassini”263, sono considerati
sullo stesso piano dei malfattori264. «Sono perfidi con gli amici e vili
con i nemici, vivono alternando prostrazione e superbia, ora
strisciando, ora calpestando»265. Tra le loro peculiari caratteristiche vi
è l’Þnandría, la codardia, la viltà o mancanza di virilità266; la
hybris267; la brama di potere268; la despóteia269; la pleonexía270. I

261
Cfr. Paneg. 158; Panath. 163.
262
Cfr. Elen. 51; Panath. 80.
263
Cfr. Paneg. 157
264
Cfr. Panath. 220
265
Cfr. Paneg. 152; la traduzione dei testi di Isocrate è di C. Ghirga e R. Romussi
in S. Gastaldi (a cura di), Isocrate. Orazioni, Milano 1993.
266
Cfr. Phil. 137.
267
Cfr. Panath. 47, 61 e 83.
268
Cfr. Paneg. 67.

131
Barbari sono considerati effeminati, corrotti da una vita dissipata e
codardi in guerra271; ovunque, danno prova della loro mollezza in
battaglia e «in questo», sostiene l’Oratore, «non c’è nulla di illogico,
anzi è tutto conseguente: non è infatti possibile che gente così educata
e governata possieda qualche virtù o trionfi nelle battaglie sui nemici.
Come può esistere un abile generale o un valoroso soldato nel sistema
che si ritrovano, dove la maggior parte della gente è costituita da una
folla disordinata e incapace di affrontare le avversità, rammollita se si
tratta di combattere, ma ben educata, meglio dei nostri schiavi, se si
tratta di servire?»272. I Barbari, infatti, «hanno corpi rammolliti dal
lusso grazie alla ricchezza, ma anime umiliate e spaventate grazie alla
monarchia, subiscono perquisizioni davanti alle porte del palazzo
reale, si prostrano a terra e si umiliano in ogni modo, fanno atto di
adorazione a un mortale e lo chiamano dio, tenendo in minor conto gli
dei degli uomini»273; è forte la loro attitudine alla douleía274. L’unica
guerra inevitabile e giusta, per Isocrate dunque, è quella di tutti gli
uomini uniti contro la ferocia delle belve e, in subordine, quella dei
Greci contri i Barbari275. Infatti, se gli Spartani fossero stati in grado di
superare le divergenze con Atene, avrebbero potuto «fare di tutti i
Barbari i Perieci della Grecia»276. I Barbari meritano di essere trattati
in modo minaccioso (ci si deve valere del fóboj), con i Greci si deve

269
Cfr. Phil. 154.
270
Cfr. Paneg. 179.
271
Cfr. Phil. 124.
272
Cfr. Paneg. 149 – 150.
273
Cfr. Paneg. 151.
274
Cfr. Phil. 139; Evag. 20.
275
Cfr. Panath. 163.
276
Cfr. Paneg. 131.

132
essere, invece, leali (ricorrendo alla pístij)277, con gli Elleni si deve
usare la persuasione, con i Barbari si può ricorrere alla costrizione 278.
In taluni passaggi, emerge anche l’idea che il Barbaro sia diverso
“per natura” dal Greco279 e che gli Elleni siano superiori “per natura”
ai Barbari280, tuttavia, permane in Isocrate l’idea di fondo che Greco
sia principalmente colui che ha ricevuto una educazione
greca:«(Atene) ha fatto si che il nome di Greci non indichi più il
génos, ma la cultura, e siano chiamati Elleni gli uomini che
partecipano della nostra tradizione culturale più di quelli che
condividono la nostra stessa origine etnica»281. Ovviamente, Isocrate
presuppone una più alta considerazione per la cultura Greca ed è la
paideía greca che ha in mente282.
Nel passaggio tra V e IV secolo, la nozione di Grecità ha ancora
tratti principalmente culturali, ma questa connotazione, gradualmente,
si modifica. L’idea che il Greco sia “per natura” superiore al Barbaro
si è fatta strada sul terreno politico – culturale posteriore alla Guerra
del Peloponneso.
Sebbene all’interno di parte della tradizione filosofica, fosse ancora
in atto una riflessione antropologica che non vedeva nelle differenze
etniche e nazionali alcun elemento che potesse implicare giudizi

277
Cfr. Areop. 51.
278
Cfr. Phil. 16.
279
Cfr. Antid. 293.
280
Cfr. Paneg. 131 – 132.
281
Cfr. Paneg. 50. Cfr. anche Evag. 66: a Evagora, re di Salamina di Cipro,
Isocrate indirizza una lode, perché, ricevuta una città barbara, ha restaurato la
dignità del proprio génos ellenico, trasformando i suoi sudditi in Greci, da Barbari
che erano, e tramutandoli da vili in guerrieri.
282
Cfr. A. Dihle, op. cit., pg. 45.

133
morali283, in Aristotele, al contrario, il Barbaro è chi per natura è nato
per essere schiavo284 e, prima di lui, in Platone, i Barbari sono per
natura diversi dai Greci e, mentre si deve evitare di asservire gli
Elleni, è giusto asservire i Barbari285.
È ben evidente, da quanto detto, che in Eschilo la disfatta
dell’esercito persiano non è causata da una superiorità naturale del
Greco sul Barbaro. Nella tragedia Persiani non leggiamo, infatti, una
sola parola denigratoria, né un’invettiva, né un attacco nei confronti
degli sconfitti, al contrario, l’assunzione di un ottica persiana, la
dignità della figura persiana di Dario e dei re predecessori mettono in
evidenza anche ciò che vi può essere di positivo nel cosmo alieno. In
effetti, come vedremo, l’ambiguità dell’ombra di Dario è l’elemento
più sottilmente problematico della tragedia: egli predica l’idea greca
della hybris e, allo stesso tempo, nelle sue parole e nella sua immagine
ritroviamo tratti genuinamente persiani. Il suo statuto così elevato
(qeomÔstwr) lo rende figura positiva e, contemporaneamente,
eccessiva nella sua esclusiva positività (costruita ad arte dal
tragediografo, anche attraverso elementi astorici): una paradossale
visione che inserisce anche Dario nella dimensione della hybris.
Inoltre, nel sogno della Regina, le due figure di donne, che
simboleggiano rispettivamente il cosmo greco e quello persiano, sono
presentate con eguale rispetto. Il significato, fuor di metafora, è che
entrambi i sistemi hanno dignità di esistere, perché entrambi

283
Cfr. A. Dihle, op. cit., pg. 46. Lo studioso ci ricorda che alcune scuole
filosofiche post-socratee minori adottarono questa dottrina, che già
occasionalmente si ritrova nei Sofisti del V secolo, annullando la differenze tra
Greci e non-Greci. Cfr. Antifonte, fr. 44B DIELS – KRANZ; Alcidamante citato
da Arist. Reth. 1373 b; Alcmeone, fr. 5A DIELS – KRANZ.
284
Cfr. Arist. Polit. 1252b 5 – 6, 1254b 7 – 13.
285
Cfr. Rep. V 469 – 470.

134
provengono dall’ordinamento cosmico voluto dalla divinità. Il trionfo
dell’esercito greco, per Eschilo, è dovuto alla hybris di Serse che, con
il suo tentativo di annientare la Grecia, minaccia l’equilibrio tra Greci
e Barbari ordinato dagli dei, fa traballare l’equilibrio cosmico: per
questo il suo progetto di includere il cosmo greco in quello barbaro è
vanificato dagli stessi dei286.
La complessa lettura dell’altro, in Eschilo, dipende dal medium
della rappresentazione tragica. È proprio questo nuovo “mezzo di
comunicazione”, il cui fine è la riaffermazione dei valori comuni della
polis democratica, che condiziona il tragediografo nell’esprimere
l’alterità: vi è una grande differenza tra il tentativo erodoteo di
descrive mondi alieni e quello eschileo. Il Persiano in Eschilo è
primariamente uno strumento. Egli, in qualità di poeta costruisce un
mondo simbolico, tragico in cui hanno spazio scelte differenti:
storiche, astoriche, segnate dal pregiudizio e neutrali. D’altra parte,
come dice Aristotele, la tragedia non guarda al vero, ma al
verisimile287.

286
Cfr. sull’argomento A. Dihle, op. cit., pgg. 33 – 34.
287
Cfr. Arist. Poet. 1451b.

135
III - I PERSIANI DI ESCHILO

Eschilo mette in scena letteralmente un universo di valori estranei e,


nella sua rappresentazione dell’alterità, pone in evidenza la diversità
di due orizzonti, quello greco e quello persiano. In tutto il testo della
tragedia, il poeta ci ricorda costantemente la diversità culturale che
separa i due mondi1.
Un dato quello della diversità che, tuttavia, non ha necessariamente
come ovvi corollari: l’idea dell’affermazione di un punto di vista
integralmente greco, il cui apice risulterebbe nel solo encomio della
patria; la visione totalmente negativa del Barbaro, tradotto ai propri
connazionali unicamente attraverso la tecnica dell’inversione dei
valori; la prospettiva che ritiene nodo chiarificatore del dramma lo
scontro di civiltà, laddove la guerra è motivata piuttosto dalla volontà
di potenza e da numi avversi.

1
Fin dai primi versi, tale scarto si fa anche distinzione geografica: Táde mèn
PersÏn tÏn oêcoménwn / ŒEllád’ æj aôan pistà kaleîtai (Noi dei
Persiani partiti per la terra dell’Ellade qui siamo detti i fedeli). Il contrasto
geografico viene reificato ai vv. 130 – 132, nel racconto del passaggio di Serse
dall’uno all’altro continente, e personificato nel sogno di Atossa dalle due sorelle,
delle quali l’una ha ottenuto in sorte la terra dell’Ellade e l’altra la terra dei
Barbari (vv. 186 – 187). Già nella Teogonia di Esiodo (vv. 357 sgg.), Europa è
figlia di Oceano e Teti e sorella di Asia. Ma la prima attestazione documentata
della divisione geografica dell’ecumene in continenti è contenuta nelle Periegesi
di Ecateo di Mileto (520 a.C. circa), in cui le terre emerse, circondate dal Fiume
Oceano e attraversate dal Mare Interno, sono ripartite in Europa e Asia, titoli delle
due sezioni della sua opera. In Erodoto, invece, il mondo appare diviso in tre
continenti: Libia, Europa e Asia (IV 45). Tuttavia, già dai primi capitoli lo storico
segnala la netta contrapposizione tra l’Asia e l’Europa: «i Persiani considerano
come loro proprietà l’Asia e le genti barbare che vi abitano, mentre ritengono che
stiano a sé l’Europa e la Grecia» (I 4, 4).
Fin dalla Parodo, comunque, il tragediografo scandisce i temi che
domineranno l’intero dramma, costituendone l’ossatura principale 2.
I primi elementi significativi che devono essere sottolineati sono le
ricorrenti immagini della moltitudine e della grandezza, che si
rivelano tratti decisamente caratterizzanti l’impero Persiano3, tanto da
diventarne la connotazione espressiva essenziale. L’idea di grandezza
viene ricreata dal tragediografo attraverso l’utilizzo, ossessivo e
martellante, dei termini che indicano moltitudine, ricchezza, totalità:
stratiâj pollÖj 1foroi (v. 25: alla guida di un numeroso
esercito4); \llouj d’ ñ mégaj kaì poluqrémmwn / Neîloj
1pemyen (vv. 33 – 34: altri l’ampio e fecondo Nilo mandò); mégaj
ŒArsámhj (v. 37: il grande Arsame); kaì çleiobátai naÏn ærétai
/ deinoì plÖqój t’ Þnáriqmoi. / ßbrodiaítwn d’ 6petai LudÏn /
3cloj, o!it’ æpípan Òpeirogenèj / katécousin 1qnoj (vv. 39 –
43: e i rematori di navi sulle paludi, una massa terribile e immensa.
Segue la folla dei Lidi raffinati costumi signori di tutto un popolo nato
sul continente); caê polúcrusoi Sárdeij æpócouj / polloîj –

2
Cfr. G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo: problemi di focalizzazione
drammatica, Roma 1978, pg. 36.
3
G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pgg. 40 – 60; L. Belloni, Eschilo. I
Persiani, Milano 1994, pgg. XXIX - XXX; M. V. Ghezzo, I Persiani di Eschilo,
AIV 98, 1938 – 1939, pgg. 427 – 448, in particolare pgg. 433 – 436; R. Lattimore,
Aeschylus and the Defeat of Xerxes, in Classical Studies in Honor of William A.
Oldfather, Urbana 1943, pgg. 82 – 93; G. Clifton, The Mood of the Persai of
Aeschylus, G&R 10, 1963, pgg. 111 – 117; H. C. Avery, Dramatic Devices in
Aeschylus’ Persians, AJPh 85, 1964, pgg. 173 – 184, in particolare pgg. 174 –
176; S. Saïd, Tragédie et renversement. L’Exemple des Perses, «Métis» 3, 1988,
pgg. 321 – 341; K. A. Kelley, Variable Repetition: Word Patterns in the Persae,
CJ 74, 1979, pgg. 213 – 219; A. N. Michelini, Tradition and Dramatic Form in
the Persians of Aeschylus, Leiden 1982, pgg. 86 – 98; A. Moreau, Eschyle: La
violence et le Chaos, Paris 1985, pgg. 112 – 119; J. Ferguson, A Companion to
Greek Tragedy, Austin e London 1972, pg. 42.
4
La traduzione dei versi della tragedia è di L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pgg. 3
– 69.

137
rmasin æxormÏsin (vv. 45 – 46: e Sardi ricca d’oro li spingono
all’attacco montati su molti carri); BabulÎn d’ / Ó polúcrusoj
pámmeikton 3clon / pémpei súrdhn (vv. 52 – 54: Babilonia la
ricca d’oro dispiega un schiera d’ogni sorta in ampie file); tò
macairofóron t’ 1qnoj æk páshj / ŒAsíaj 6petai (vv. 56 – 57:
segue da tutta l’Asia la moltitudine armata di corta spada);
poluándrou d’ ’Asíaj qoúrioj \rcwn / æpì pâsan cqóna
poimanórion / qeîon ælaúnei / dicóqen (vv. 73 – 76: l’impetuoso
sovrano dell’Asia molti abitanti contro tutte le terre per due vie
sospinge un gregge divino); polúceir kaì polunaútaj (v. 83:
ricco di uomini e navi); dókimoj d’ o5tij øpostàj / megál_
×eúmati fwtÏn / æcuroîj 6rkesin e#irgein / \macon kûma
qalássaj (vv. 87 – 90: nessuno è in grado, contrastando una
grande fiumana di uomini, di trattenere con solide mura, l’invincibile
onda del mare)5.
L’immagine della moltitudine, produttiva ben oltre gli esempi citati,
s’innesta nella più ampia sfera del “presagio di sventura” che connota
tutta la Parodo, sia la parte anapestica, sia la parte lirica. Già dal primo
verso della tragedia, infatti, il tema della partenza (oêcoménwn)6 –
ripreso anche al v. 13 con ¼cwken, dove si specifica in modo più forte
il vuoto lasciato dalla forza nata dall’Asia, e ai vv. 59 – 60: toiónd’
\nqoj Persídoj a#iaj / o#icetai ÞndrÏn – si carica di polisemie e

5
Cfr. G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pg. 40.
6
Il valore ambiguo di o#icomai, usato molto in ambito funerario, è stato messo in
rilievo più volte dalla critica: cfr. H. D. Broadhead, The Persae of Aeschylus,
Cambridge 1960, pg. 38; H. C. Avery, op. cit., pg. 175; G. Clifton, op. cit., pg.
114; H. J. Rose, A Commentary on the Surviving Plays of Aeschylus, Amsterdam
1957, pg. 86; M. V. Ghezzo, op. cit., pg. 434; Ph. W. Harsh, A Handbook of
Classical Drama, Stanford 1967, pg. 48; J. Ferguson, op. cit., pg. 41; E. T. Owen,
The Harmony of Aeschylus, Toronto 1952, pg. 22.

138
di ambiguità, fino a esprimere il “ritorno mancato” e il disperdersi del
plethos. Il tema della partenza, nella Parodo, si fa simbolo di una
grandezza, di una moltitudine assente – più sono i “molti” che sono
partiti, tanto più grande è il timore per il vuoto lasciato 7 – e infine, nel
resto della tragedia, eufemisticamente della morte8: coloro che sono
partiti, quella vastità di individui e mezzi, ormai sono perduti per
sempre.
In questo gioco di ambiguità, la moltitudine di uomini, la grande
ricchezza e l’intera totalità dell’impero, amplificati dal lessico del
gigantismo che dipinge i Persiani sotto il segno dell’abnorme numero
e della potenza smisurata, rappresentano simbolicamente il proprio
opposto, il vuoto di una moltitudine9, l’assenza della totalità10 e una
ricchezza / prosperità andata perduta11. Tutta la tragedia insiste sulla
dicotomia tra una tale moltitudine – di uomini, di mezzi, di ricchezze
– e il vuoto generato dalla morte del “fiore” dei Persiani a Salamina 12.
Che l’impero sia grande e potente è un dato oggettivo antecedente
al codice poetico, ma questo dato, di per sé neutro, viene caratterizzato
da Eschilo in senso decisamente negativo. In primo luogo, nei suoi
esiti: proprio l’elefantiasi della flotta, infatti, si trasforma in paralisi
durante la battaglia di Salamina 13. In secondo luogo, nei suoi effetti: il
Coro stesso, infatti, appresa la notizia della colossale sconfitta,

7
Cfr. vv. 117 – 118: kénadron che fa eco negativa a poluándrou del vv. 73.
Cfr. anche v. 549 in cui la totalità dell’Asia, ækkenouména, solleva un pianto
collettivo.
8
Cfr. il ritorno di o#icetai al v. 252, dove, dai presagi, si è passati alla marmorea
certezza della disfatta dell’esercito; cfr. anche i versi 546 e 915.
9
Cfr. vv. 118; 419 – 421; 429 – 432; 730; 794; 800; 816 – 818.
10
Cfr. vv. 125 – 132; 548 – 549; 718; 729.
11
Cfr. vv. 161 – 164; 251 – 252; 751 – 752.
12
Cfr. A. Maddalena, Interpretazioni eschilee, Torino 1951, pg. 101.
13
Cfr. G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pg. 58.

139
immagina la possibile paralisi della compagine dell’impero 14: i sudditi
non seguiranno più la legge persiana, si rifiuteranno di versare il
tributo15 al Gran Re, non obbediranno più prostrandosi a terra,
avranno l’ardire di parlare liberamente; una vera e propria stasi nel
regno.
Dunque, «l’azione drammatica si avvia intaccando il principio del
numero, riempiendo la scena di un ritorno solo auspicato»16: se nella
Parodo, le immagini del plethos, i tratti di unità e di grandezza e
l’apparente strapotenza dell’impero hanno la funzione di ingigantire il
timore della sciagura, nel resto del dramma servono a enfatizzare
l’imponenza della sconfitta. Il Coro prepara il clima necessario
affinché la fotografia di un impero che appare invincibile sia volta nel
suo negativo. Questi attributi, dunque, sono demoliti nel momento
stesso in cui sono asseriti: prima attraverso il presagio di sventura, poi
sperimentando la certezza della distruzione.
Tali tematiche sono connesse anche a uno dei passaggi
fondamentali della tragedia: il confronto differito tra Dario e Serse,
dove l’arrivo dell’Ombra e il rimpianto per il cosmo che essa
simboleggia sembrano aprire nuovi parametri all’immagine della
moltitudine. Nel passo, sono ripresi i medesimi modelli formali: il
riferimento del governo di uno solo sulla totalità dell’Asia 17;
l’esaltazione della categoria della grandezza, della moltitudine,

14
Cfr. L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pgg. XXX – XXXI; P. Tozzi, Salamina,
l’obbedienza distrutta e la libertà dei Greci d’Asia nei Persiani di Eschilo,
«Athenaeum» 58, 1980, pgg. 259 – 263.
15
Sul tributo nella documentazione Persiana vedi: DB I 17 – 20 (KENT, 117);
DPe 5 – 18 (KENT, 136); Dna 15 – 30 (KENT, 137); DSe 14 – 30 (KENT, 141);
XPh 13 – 28 (KENT, 151).
16
Cfr. L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. XXX.
17
Cfr. vv. 762 – 764: ßpáshj ’Asídoj.

140
dell’invincibilità e della ricchezza persiana18. Rispetto a quanto visto
sopra, in questa parte della tragedia, la connotazione dei modelli non è
ambigua – non sottende cioè una negazione indiretta dei modelli
stessi, ma li afferma per la prima volta in positivo – l’ambiguità nasce
piuttosto dal renderli circoscritti al passato, quindi inattuali 19.
In questa dimensione ambigua, ogni apporto alla grandezza si
risolve, in ultima analisi, in un simbolo di segno negativo.
Simile è, infatti, il destino di un altro importante elemento di
caratterizzazione del Barbaro che si innesta a maglie fitte nel tessuto
tragico, tratteggiato dall’idea onnipresente del plethos: mi riferisco al
tema della ricchezza / prosperità. Il mito della ricchezza orientale è
ben rappresentato nei Persiani; solo nella Parodo il termine
polúcrusoj ricorre quattro volte20. Per i Greci l’oro era metallo raro
e prezioso che si confaceva più alla divinità che non al mortale 21.
Inoltre, l’idea dell’oro e della ricchezza è tanto qualificante da
18
Cfr. vv. 852 – 857: megálaj (biotÔ); \macoj (Dareîoj) e soprattutto vv.
897 – 903: kaì tàj e÷kteánouj katá klÖron pluándrouj „Ellánwn
ækrátune (póleij) sfetéraij fresín. Þkámaton dè parÖn sqénoj
ÞndrÏn teuchstÔrwn pammeíktwn t’ æpikoúrwn (E nel possesso ionico,
sulle ricche, popolose città degli Elleni imperava con la saggezza e disponeva di
una forza infaticabile di uomini in armi e di alleati di ogni stirpe).
19
Cfr. G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pgg. 75 – 76.
20
Cfr. v. 3: in riferimento alla sede persiana; v. 9: in riferimento all’esercito
persiano; v. 45: in relazione a Sardi; v. 53: in rapporto a Babilonia. Per il termine
in questione, è possibile un riferimento a precedenti omerici, soprattutto in quei
luoghi dove, designando Sardi e Babilonia, può far pensare a Micene “ricca di
oro”. In proposito, cfr. Il. VII 180; XI 46; Od. III 304: polucrúsoio MukÔnhj;
Cfr. Il. XVIII 289: relativamente a Troia.
21
Un eroe, Crisaore, ricorda nell’etimologia del suo nome, proprio l’oro (significa
“colui che porta la spada d’oro”), egli era nato insieme a Pegaso dalla testa
mozzata di Medusa (Hes. Theog. vv. 282 – 283), d’altra parte, le stesse Gorgoni
possedevano ali d’oro (Apollod. Bibl. II 4, 2); Febe con la corona d’oro (Hes.
Theog. v. 136); i pomi d’oro del giardino delle Esperidi (Hes. Theog. v. 215 sgg.);
la ricerca del vello d’oro (Apollod. Bibl. I 9, 16); la bilancia d’oro di Zeus (Il. VIII
69); la lira d’oro d’Apollo (Hom. Hymn. ad Apoll. vv. 185 sgg.; Callim. Hymn ad
Apoll. vv. 32 sgg.); la verga d’oro di Atena (Hom. Od. v. 172); l’arco d’oro di
Artemide (Hom. Hymn. ad Artem. vv. 1 - 5) ecc.

141
imprimersi anche nelle origini mitologiche del popolo persiano:
crusogónou geneâj è chiamato Serse dal Coro22. Il riferimento è
all’origine della stirpe persiana, fatta risalire dai Greci alla nascita del
capostipite Perseo, generato dalla pioggia d’oro con cui Zeus aveva
reso feconda Danae23. Ma proprio tale smisurata e incalcolabile
ricchezza da elemento oggettivamente positivo, diventa, nella tragedia
di Eschilo, principio di negatività e motivo di terrore; come modulo
amplificativo essa ha la funzione di ingigantire incertezze e dubbi.
L’entrata in scena della Regina, per esempio, si inaugura con il timore
che «una grande ricchezza (mégaj ploûtoj)24, impolverando al
suolo, abbia travolto col piede una fortuna (3lbon) elevata da Dario
non senza l’aiuto di un dio»25; poco più oltre, Atossa ribaltando il
discorso dirà che «una quantità di ricchezze non custodite da uomo
non ha pregio»26, ricollegandosi al timore già espresso dal Coro
relativamente all’“assenza di uomini”, con la funzione di ulteriore
amplificazione e di sottolineatura della tematica della perdita del
plethos.

22
Cfr. v. 80.
23
Cfr. schol. in Il. XIV 319; Hes. frr. 129, 14; 135, 4 M.-W.; Hdt. VII 61, 3; 150,
2; Soph. Ant. 944 – 950; Pind. Pyth. 12, 17 – 18; schol. in Apoll. Rhod. IV 1091 (=
FGrHist 3 F 12 [Pherec.]); Ellanico FGrHist 4 F 59 – 60; Lycophr. 1413 – 1416;
Apollod. Bibl. II 4,1; 4, 5.
24
L’espressione deve essere intesa in senso ampio, comprendendo l’idea di
potenza, di quantità numerica e di ricchezza in termini più strettamente economici.
Il rilievo di ploûtoj e 3lboj è dovuto al ruolo che la potenza del numero e un
benessere di origine divina occupano tra i Persiani. Nel ploûtoj vi è un richiamo
al regno di Serse, nell’3lboj un richiamo al regno di Dario, come vedremo, i
termini di un contrasto vitale nell’intero dramma. Cfr. L. Belloni, Eschilo. I
Persiani, pg. XIX e pgg. 117 – 120. Sul binomio ploûtoj / 3lboj cfr. M.
Gagarin, Aeschylean Drama, Berkeley, Los Angeles, London 1976, pgg. 44 – 45 e
180 – 181 n. 35.
25
Cfr. vv. 162 – 164.
26
Cfr. v. 166.

142
In un tale clima di incertezza, è inaugurata anche la tematica della
hybris colpevole di Serse, tesi inizialmente non delineata in modo
chiaro e inequivocabile, come sarà più oltre nella condanna sancita da
Dario, ma fotografata in quelli che saranno i suoi più limpidi segni di
riconoscimento e le sue più eloquenti immagini. La hybris
dell’impresa viene colta, in primo luogo, nelle caratteristiche del Gran
Re e del suo esercito, attraverso l’utilizzo di particolari definizioni: nei
vv. 73 – 80, Serse è detto qoúrioj \rcwn, impetuoso sovrano. Il
termine è una variante dell’omerico qoûroj, epiteto ricorrente di Ares
nell’Iliade27, e implica le idee di veemenza, di violenza e di
bellicosità. Inoltre, non è meno importante sottolineare che Eschilo,
nel Prometeo Incatenato28, utilizza la medesima espressione per
descrivere Tifone, il mostro dalle cento teste di serpente 29 che Esiodo
nella Teogonia30 definisce ÷bristÔj.
Qoúrioj è epiteto di Serse per tre volte nei Persiani: lo
rintracciamo nelle parole del Coro nella Parodo (v. 73), nelle parole
della Regina, durante il dialogo con l’Ombra di Dario (v. 718 – 754).
Nella strofe successiva (vv. 81 – 86), proprio il richiamo al serpente
avvicina il Gran Re a un immaginario titanico e mostruoso:

kuáneon d’3mmasi leússwn


foníou dérgma drákontoj,
polúceir kaì polunaútaj,
Súrión q’–rma diÍkwn,
æpágei douriklútoij

27
Cfr. Il. V 30; 35; 355; 454; 507; 830; 904; XV 127; 142; XXI 406; XXIV 498.
28
Cfr. v. 354.
29
Cfr. Hes. Theog. v. 825.
30
Cfr. Hes. Theog. v. 307.

143
Þndrási toxódamnon ‡Arh.31

L’immagine degli occhi in cui brilla un lampo scuro, fosco, occhi di


serpente smanioso di sangue, rievoca la descrizione di Tifone fatta da
Esiodo32 e, ancor più, quella fatta da Eschilo stesso nel Prometeo33.
Nella seconda parte della strofe, si chiude il paragone con Ares,
iniziato nell’antistrofe precedente con l’epiteto qoúrioj. Il riferimento
al carro di Siria è eloquente richiamo al terrificante oracolo dato dalla
Pizia agli Ateniesi e riportato da Erodoto (VII 140, 2): «O sventurati,
perché state qui seduti? Fuggite agli estremi confini della terra,
abbandonando le case e l’alta rocca della città rotonda, perché né la
testa rimane illesa, né il corpo, né i piedi e neppure le mani, né
alcunché del mezzo rimane, e non è certo invidiabile: ché su di essa si
abbatte il fuoco e l’aspro Ares, guidando Siriaco carro di guerra.
Anche molte altre rocche rovinerà, non la tua sola; e darà in preda a
fuoco distruggitore molti templi degli immortali, che ora qua e là si
drizzano in piedi grondanti sudore, di terror trepidanti; e giù dai tetti
nero sangue gronda, presagio di ineluttabile sciagura […]». Serse e il
suo intero esercito si muovono sotto il segno di Ares, l’Ares «che non
conosce legge alcuna» di Iliade V 761, l’Ares che si sazia solo di
guerra.
L’accostamento con la creatura mostruosa, ma anche con la
divinità, non è casuale, si lega a una immagine del Gran Re che supera

31
Fosco volgendo lo sguardo con occhi di drago bramoso di sangue, ricco di
uomini e navi. Sospingendo un carro di Siria, guida contro uomini lancia illustre
un Ares prode con l’arco (vv. 94 – 114).
32
Cfr. Hes. Theog. vv. 826 – 828 dove è detto che dagli occhi di Tifone, sotto le
ciglia, brillava un ardore di fuoco.
33
Cfr. v. 356, dove si dice che dagli occhi di Tifone lampeggia un bagliore come
sguardo di Gorgone.

144
decisamente i limiti dell’umano. E questa visione è consolidata
ulteriormente attraverso l’utilizzo di due nessi eloquenti, anch’essi di
coloritura omerica: Serse è detto êsóqeoj fÍj34 e poimanórion
qeîon35 il suo esercito.
Il primo, êsóqeoj fÍj, uomo uguale agli dei, è attributo frequente
nell’Iliade36 e compare solo in due passi dell’Odissea37; fÍj indica
l’eccellenza umana segnata dal limite della mortalità e si contrappone
idealmente, in un rapporto ossimorico, a êsóqeoj, che definisce la
prerogativa divina, per antonomasia lontana dal rischio della morte
che la condizione umana invece implica. In tal senso, il nesso è
attributo tipico dell’eroe e nel caso di Serse delinea chiaramente la
tracotanza del mortale che si crede “pari agli dei”, che ritiene di poter
trattare la divinità come sua pari38, tale sarà il comportamento di Serse
nei confronti di Poseidone.
In modo significativo, l’epiteto êsóqeoj, ma senza il sostantivo
fÍj, sarà attribuito anche a Dario (al v. 856; êsodaímwn basileùj
al v. 633). L’etica greca prescrive, generalmente, di non esigere di
farsi uguale al divino, l’uomo deve accettare i propri limiti di mortale.
In tal senso, è da intendersi, per esempio, il precetto di Delfi “conosci
te stesso”39. Serse e Dario, nella prospettiva greca, risultano entrambi

34
Cfr. v. 80.
35
Cfr. v. 74 – 75.
36
Cfr. ad esempio Il. II 565.
37
Cfr. Od. I 324; XX 124.
38
Cfr. sull’argomento M. Centanni (a cura di), Eschilo. I Persiani, Milano 1991,
pg. 100 n. 80.
39
Cfr. J. – P. Vernant, Mito e Religione in Grecia antica, tr. it., Roma 2003 (orig.
Mythe et religion en Grèce ancienne, Paris 1990), pg. 42.

145
certamente segnati dalla hybris40, ma la tragedia di Eschilo ha
un’articolazione complessa, si muove, come vedremo, sempre su una
duplice prospettiva e nello sforzo di assumere un’ottica persiana,
segnerà una profonda differenza tra le due figure di sovrano.
Nella stessa direzione, l’attributo poimanórion qeîon, gregge
divino, ascritto all’esercito del Gran Re. Qui, a far leva è la “hybris del
numero” (ancora la metafora della moltitudine), un esercito tale con
un tale condottiero non può che apparire “divino”, superiore alla
norma umana, tracotante.
Fin dalla Parodo, ancora, possiamo rintracciare quello che è il
simbolo chiave della hybris di Serse, vale a dire l’immagine del
“giogo”, zugón. Appare dapprima parzialmente attribuito solo a una
parte dell’impero41, poco dopo ben qualificato, invece, attraverso il
primo accenno al ponte chiodato, composto da zattere legate da funi di
lino, con cui Serse aveva gettato un giogo sullo stretto di Elle
Atamantide, sul collo del mare42, violando il sacro spazio marino
consacrato a Poseidone.
Il tema dello zugón – tanto quanto altri motivi della tragedia quali
la moltitudine dispersa, la ricchezza orientale, la hybris, la lacerazione
della veste, l’inganno divino, la perdita del legame del re con il dio e
la distruzione dell’3lboj, – connette e armonizza i diversi momenti
della tragedia, dalla Parodo all’Esodo, passando per il momento

40
Cfr. L. Marchetta, Lettura storico – religiosa dei Persiani di Eschilo per gli
studenti di una scuola secondaria, «Aufidus» 17, 1992, pgg. 131 – 141, in
particolare pgg. 138 – 139.
41
Cfr. vv. 49 – 50: steûtai d’ëeroû TmÍlou pelátai / zugòn Þmfibaleîn
doúlion ‘Elládi (I vicini del sacro Tmolo minacciano / di imporre all’Ellade
un giogo servile).
42
Il ponte di zattere è descritto in termini analoghi da Erodoto (VII 34 – 36) e da
Timoteo (Pers. 72 - 78).

146
dell’Ombra, in cui le molteplici tematiche trovano un equilibrio
coerente nelle parole sanzionatorie della figura ultraterrena. Le
espressioni usate per definire la condanna di Serse, infatti, sono le
medesime utilizzate nella Parodo, ampliate e resemantizzate. Così,
ritroviamo l’immagine del giogo ai vv. 722 – 723 e al v. 736, nel
dialogo tra Atossa e Dario, dove l’atto di aggiogare l’Ellesponto è
ormai direttamente connesso alla colpa di Serse, causa della
distruzione della potenza persiana. Nel quadro dipinto dalla Regina al
defunto marito, affiorano le responsabilità di Serse qoúrioj, opposto
adesso palesemente a Dario e ai sui predecessori riguardo alla sua
condotta, alla sua intemperanza giovanile, alla colpa di aver svuotato
il plethos. E ancora, rintracciamo un riferimento al ponte chiodato ai
vv. 745 – 748 in cui esplicitamente è decretato, attraverso le parole
chiarificatrici di Dario, che la condizione mortale di Serse è
irriducibile all’atto di sfida portato agli dei, al superamento dei limiti
umani, nella follia e nella stoltezza di voler far torto al pantheon e a
Poseidone, rendendo schiavo il sacro Ellesponto. Si denuncia qui la
natura prima di una hybris, i contorni della quale vengono
gradualmente delineati nel corso della tragedia, fino al riferimento
diretto nei vv. 808 e 821. Per dirla in poche parole, il termine zugón
che esprime nella Parodo un valore principalmente tecnico, legato alla
costruzione di ponti – sebbene ricco di echi anticipatori – è
risemantizzato al fine di manifestare l’imposizione di un dominio
esecrabile. Parallelamente, il simbolo del giogo emerge anche in
situazioni che fissano una consonanza tra lo zugón di Serse e quello
diffuso nel costume persiano: dopo la perdita del plethos la donna
rimane monózux (v. 139) e rimpiange il “giogo recente” delle nozze
(v. 542: Þrtizugían); nel sogno di Atossa, Serse aggioga due donne

147
che rappresentano la terra dell’Ellade e quella Barbara (vv. 190 – 192;
195 – 196). Dal giogo, accettato dalla donna barbara e rifiutato da
quella greca, trapela l’inconciliabilità tra Oriente e Occidente nel
dominio di un solo uomo. Il sogno, inoltre, è il primo segnale sicuro
della sconfitta persiana, poiché mezzo di trasmissione di informazioni
che, nella cultura antica, non è mai ascrivibile alla sola volontà
dell’uomo, ma sempre mediato dal divino. Esso, dunque, ha la
funzione di convalidare i dubbi del Coro e di anticipare l’annuncio del
Messo. Tra i timori del Coro c’è, in ultimo, la fine dello zugòn Þlkâj
(giogo di forza), che ha retto il variegato impero soggetto al Gran Re
prima della catastrofe (v. 594)43.
Altra immagine legata alla hybris e che si innesta nel medesimo
clima di ambiguità è quella dell’invincibilità e della strapotenza
dell’esercito di Serse. Nella seconda antistrofe, vv. 87 – 92, l’esercito
persiano è definito, infatti, Þprósoistoj – irresistibile, indomito – e,
per mezzo di una metafora, è presentato quale “grande fiumana di
uomini” simile all’onda del mare che non può essere trattenuta dalle
mura; l’onda del mare, proprio come la grande milizia barbara, è
invincibile – \macoj, un termine che, come abbiamo visto, tornerà
negli appellativi di Dario.
Notiamo, en passant, che la metafora marina dei vv. 87 – 92
rimanda, con una sottile ironia, direttamente a quanto vien detto
successivamente. Nei vv. 93 – 113 l’azione distruttrice di Ate, di fatto,
si accompagna alla violazione di una norma, a un nuovo
apprendimento: i Persiani, milizie terrestri per volere della Moira,
hanno imparato a conoscere il mare. E, paradossalmente,
quell’invincibile onda a cui i Barbari sono stati paragonati, segnerà
43
Cfr. L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. 94.

148
ironicamente la loro sconfitta, confermando sulla loro pelle proprio
l’invincibilità del mare.
Tuttavia, nel passaggio dalla seconda antistrofe al mesodo e alle
coppie strofiche seguenti (vv. 93 – 113)44, proprio quando la forza dei
Persiani è rappresentata al suo apice, avviene qualcosa di inaspettato,
si innesta il seme del dubbio. Compare, infatti, il tema dell’inganno
del dio: dolómhtin d’Þpátan qeoû tíj ÞnÕr qnatòj Þlúxei (ma
l’inganno astuto di un dio quale mortale fuggire potrà?). Il sospetto è
posto in questi termini: “sembra che nessuno possa fermare il plethos
di Serse, che è irresistibile, ma quale mortale sarà capace di evitare
l’inganno della divinità?” La risposta sarà data direttamente da Dario:

qînej nekrÏn dè kaì tritospór_ gonØ


\fwna shmanoûsin 3mmasin brotÏn,
Ìj o÷c øpérfeu qnhtòn 3nta crÕ froneîn.
0brij gàr æxanqoûs’ ækárpwse stácun
\thj, 8qen págklauton æxamÙ qéroj.
Toiaûq’ ñrÏntej tÏnde tÞpitímia
mémnhsq’ ’AqhnÏn ‘Elládoj te, mhdé tij
øperfronÔsaj tòn parónta daímona
\llwn ærasqeìj 3lbon ækcé+ mégan.
Zeúj toi kolastÕj tÏn øperkómpwn \gan
fronhmátwn 1pestin, e5qunoj barúj 45.

44
I vv. 93 – 113 sono stati discussi ampiamente nel capitolo precedente in
relazione alla tematica della responsabilità umana e dell’azione divina.
45
Vv. 818 – 828: Mucchi di cadaveri, anche alla terza generazione, muti,
riveleranno a occhi di uomini che, essendo mortale, non si ammette pensiero di
troppo orgoglio. Infatti dismisura, sbocciando, suole produrre una spiga di
rovina, da cui miete un raccolto di molte lacrime. Assistendo a tale castigo di
questi mali, ricordatevi di Atene e dell’Ellade, né alcuno, altero col demone

149
L’indicazione della potenza di Serse come realtà impossibile a
contrastarsi è, quindi, subito problematizzata attraverso una domanda
inquietante e, in seguito, definitivamente negata dalle parole
sanzionatorie di Dario.
Proprio in relazione a quanto qui si sta discutendo, è importante
notare che ai vv. 93 – 113 inizia una considerazione diacronica dello
sviluppo della storia persiana. Vi è il primo accenno, dunque, alla
Moira che impose ai Persiani di essere guerrieri di terra, combattenti a
cavallo, assalitori di rocche e distruttori di città. A voler essere precisi,
in modo indiretto, questa caratteristica dei Persiani è già richiamata
nei vv. 65 – 67: pepéraken mèn ñ perséptolij 2dh / basíleioj
stratòj eêj Þntíporon geítona cÍran (l’armata regale che
devasta città già è passata alla terra vicina della sponda opposta).
Perséptolij è un aggettivo che, oltre a essere una precipua
indicazione della vocazione terrestre dell’esercito persiano, introduce
un gioco etimologico che segnala in nuce il passaggio
dall’invincibilità dei Persiani alla loro sconfitta. Un’anticipazione, in
un certo senso, di quanto stiamo esaminando. I Pérsai, connessi al
pérqein e conquistatori (vv. 105 – 106; 177 – 178), si arrestano
quando, nelle parole del Messaggero, Atene è definita Þpórqhtoj –
invitta, non sconfitta – e definitivamente, nel rimando lessicale,
quando viene sancito dalle parole di Atossa che la forza dei Persiani è
stata distrutta (v. 714: diapepórqhtai)46. Riassumendo, nel brano
preso in esame è espresso il destino di conquiste terrestri dell’impero,

presente, bramando altri beni, disperda una grande fortuna. Zeus, punitore di
oltracotante sentire, incombe, giudice tremendo.
46
Cfr. L. Belloni Eschilo. I Persiani, pg. 93; M. Centanni, Eschilo. I Persiani, pg.
98.

150
si denuncia il “nuovo apprendimento” che porterà i Persiani sul mare e
si accenna nuovamente al ponte di navi: in pochi versi è raffigurata
l’origine di una scissione tra passato e presente persiano che sarà
ripresa in seguito con l’arrivo dell’Ombra e con il contrasto, non solo
tra Dario e Serse, ma tra quest’ultimo e l’intera tradizione Persiana:
tutto il passaggio è funzionale al tema del contrasto tra generazioni; su
questo ritorneremo in seguito. Bisogna sottolineare, infine, che
l’impresa di Serse è ancora più pericolosa poiché offende il sacro
spazio marino, póntion \lsoj: la hybris, dunque, mina la potenza
persiana sul mare e la invalida insieme alle deboli mhcanaí – il ponte
di zattere legato con chiodi e con funi di lino – nelle quali Serse ha
riposto la propria fiducia47.
Le immagini e i temi analizzati fino a questo momento insistono
tutti su un modulo che si può definire anticipatorio e sulla medesima
struttura di ribaltamento, che sarà poi funzionale all’intervento di
Dario.
Simili meccanismi sono in atto finanche nell’espressione dei
sentimenti di mancanza e di nostalgia. Il tema del póqoj compare per
la prima volta nella Parodo ai vv. 61 – 64, dove l’Asia intera piange
“con bruciante rimpianto” (póq_ malerÐ) la partenza del “fiore dei
persiani”; una nostalgia che si acuisce, unendosi all’estenuante
computo dei giorni di genitori e spose, persi nel timore per un tempo
che si fa inesorabilmente più lungo. Il póqoj ritorna poi ai vv. 133 –
138, dove si presta ad esprimere il rimpianto per i mariti assenti, la
solitudine dei talami che si colmano ormai solo di lacrime e il
desiderium della donna che rimane monózux. Dopo il racconto del

47
Cfr. sull’argomento L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pgg. 97 – 104.

151
messo, il verbo poqéo sarà piegato a manifestare il rammarico per una
perdita di fatto avvenuta (vv. 511 – 512): la nostalgia si fa veramente
rimpianto. E ancora, nel desiderio e nel rimpianto delle spose (vv. 541
– 545), il póqoj diventa ormai pénqoj (lutto, dolore).
Anche la significativa immagine delle vesti lacerate, tanto discussa
dagli studiosi soprattutto in relazione a Serse, accompagna, lungo
l’intero arco del dramma, l’avverarsi della disfatta barbara, in un gioco
di anticipazioni continue: dai presagi nefasti del Coro che si augura
che “la lacerazione non abbia a cadere sui pepli di bisso” (vv. 119 –
124), all’atto di lutto e dolore con cui le donne persiane si lacerano i
veli, una volta appresa la sciagura (vv. 537 – 538). Ma la visione dello
strazio delle vesti, nei Persiani, riguarda principalmente la
rappresentazione di Serse: dal sogno angoscioso e oracolare di Atossa,
in cui il Gran Re, vedendo il padre Dario che lo commisera, si straccia
gli abiti (vv. 197 – 199), al resoconto del messo che riferisce il
medesimo gesto, dopo la scena dello scempio della flotta (vv. 466 –
468); dall’invito rivolto dall’Ombra alla Regina affinché prenda uno
splendido ornato per andare incontro al figlio, fino al ritorno del
sovrano con le vesti a brandelli e all’invito al Coro ad unirsi a lui
nell’identico gesto di lutto (v. 1030; 1060). Lo strazio delle vesti, sarà
nel finale, l’estrema manifestazione della sconfitta e il simbolo di una
regalità degradata: quando il Coro chiede a Serse che cosa si sia
salvato dalla distruzione, Serse risponde: «Vedi quanto rimane della
mia veste?» (vv. 1016 – 1017). «Tutti i presagi funesti […]
riecheggiano nella triste conferma dell’ultimo stasimo (le vesti
lacerate, la città deserta, l’urlo delle donne, i letti vuoti)»48.

48
Cfr. M. Centanni, Eschilo. I Persiani, pg. 103.

152
Anche l’immagine della faretra vuota di Serse (vv. 1020 – 1023)
esprime un equivalente valore simbolico, innestandosi, quale
evoluzione conclusiva, nella dialettica arco / lancia, vitale in tutta la
tragedia49.
Questo, dunque, lo scheletro formale in cui si innesta il conflitto
reale, quello che oppone Dario e Serse. L’episodio dell’Ombra, infatti,
rappresenta, come vedremo, la vera katastrofÔ della tragedia.

***

I Persiani, dunque, si apre con il canto di entrata del Coro che


contiene in embrione le tematiche che costituiscono l’intelaiatura del
dramma e che si avvicendano armonicamente, in un gioco di continui
echi, per tutto il corso della tragedia. Ben presto, nell’analisi del
dramma, si impone la necessità di individuare il punto di vista dal
quale il tragediografo analizza i fatti di quella che è considerata una
delle più celebri guerre combattute dai Greci, seconda solo alla mitica
guerra di Troia. Bisognerà chiedersi, infatti, quale sia la prospettiva
scelta dal Nostro per ragionare e far ragionare sulle vicende legate alle
sconfitta persiana, quale siano le modalità con cui egli rende dialettici
gli avvenimenti, al fine di inserirli nell’ottica tragica. In altre parole,
occorrerà riflettere sulle modalità scelte dal poeta per rende questi
accadimenti dialetticamente funzionali alla situazione storico –
culturale a cui egli stesso appartiene. Il teatro, infatti, ha come ultimo

49
I Persiani, nel dramma eschileo, sono caratterizzati principalmente come arcieri
(cfr. vv. 30; 55; 269; 278; 556; 926), in contrapposizione agli opliti greci armati di
lancia (cfr. vv. 85 – 86; 146 – 149; 239 – 240; 816 – 817). L’Arco,
nell’immaginario greco del V secolo è l’arma d’elezione del Barbaro. Cfr.
sull’argomento E. Hall, Inventing the Barbarian, Oxford 1989, pgg. 85 – 86.

153
polo di riferimento la contemporaneità del pubblico ateniese, ad essa
sono da ascrivere i parametri interpretativi della tragedia.
Il teatro tragico è un fenomeno complesso, che tocca molteplici
aspetti del reale e può essere letto da diverse angolature. In una
tragedia, infatti, il significato non è mai univoco, ma è sempre un
insieme di più significazioni, poliedricamente espresse da complessi
elementi significanti.
Fin dalla Parodo si palesa, attraverso il canto corale, la prospettiva
assunta dal tragediografo nel comporre il dramma. Il primo elemento
significante intorno al quale egli costruisce la vicenda, lo abbiamo
visto, è rappresentato da una condizione di ambiguità della quale è
intessuto anche l’intero dramma. È l’idea che la moltitudine gloriosa,
di uomini, di mezzi, di risorse, di ricchezze, diventi la misura della
grandezza della disfatta. È la prospettiva in cui le definizioni di
potenza e di invincibilità, fortemente caratterizzanti Serse e la sua
milizia, vengono ribaltate fin dalle fondamenta al fine di essere
negativizzate. Come valori che caratterizzano il mondo barbaro fin
dall’inizio del dramma e, in modo ancora più forte, nel resto della
tragedia, essi denunciano la consuetudine di Serse di porre tutto sotto
il segno dell’eccesso. Il mondo di Serse è pervaso da una totale
assenza di ideali, che non siano quelli della strapotenza quantitativa,
della immane ricchezza, della violenza, della furia e dell’invincibilità:
il cosmo di Serse appare orientato unicamente dall’“eccesso”.
Il secondo punto notevole è sicuramente delineato dall’eccesso per
eccellenza, la hybris di Serse. Essa rappresenta il principio della linea
che sostiene la vicenda messa in scena nei Persiani: la messa in
discussione dell’azione di Serse e la sua identificazione quale
momento di ribaltamento di sorte dell’impero Persiano.

154
Il primo aspetto notevole della hybris del Gran Re è che essa è
rappresentata da quello che potremo definire “un eccesso di guerra”.
L’esercito Persiano si muove in una dimensione bellica estranea ai
valori greci espressi nella battaglia e ben delineati, come abbiamo
visto analizzando Erodoto, dalla “falange oplitica”50. La guerra
oplitica, non è mai annientamento indiscriminato dell’avversario,
esclude ogni volontà di annichilire il nemico nella sua esistenza
religiosa e sociale per assimilarlo a sé, egli già condivide le medesime
istanze culturali. La guerra tra le poleis greche è battaglia governata
dal nómos, dove città rivali si affrontano in base a precise regole
dettate dall’appartenenza alla medesima cultura. La stessa lingua, la
stessa mentalità, i costumi, la religione, la forma di vita sociale: l’altro
non è mai del tutto alieno. Le città che si confrontano attraverso
l’opposizione delle rispettive falangi, partecipano degli stessi nómoi.
Serse, al contrario, vuole inglobare l’Ellade nel cosmo persiano,
vuole renderla una satrapia dell’impero, vuole imporle un giogo
servile, violando in tal modo la Moira che dal tempo antico impose ai
Persiani di effettuare conquiste di terra. La volontà di Serse di
estendere il proprio dominio e la propria potenza è affermata
apertamente dal Coro e da Atossa51. Inoltre, come è evidente dal
sogno di della Regina, Serse viola quella norma divina, ripresa poi
esplicitamente da Erodoto, che non prevede che un solo uomo regni su
Asia ed Europa52; per dirla con lo storico, Serse vuole “rendere la terra
Persiana confinante con l’etere di Zeus53”. E proprio come il Serse
erodoteo, l’azione del Gran Re eschileo intende cancellare ogni traccia

50
Si veda il capitolo precedente.
51
Cfr. v. 234: «tutta l’Ellade, allora, sarebbe suddita del re».
52
Cfr. Hdt. VIII 109, 3 nel discorso di Temistocle agli Ateniesi.
53
Cfr. Hdt. VII 8, γ, 1 – 3.

155
culturale del nemico, finanche gli spazi riservati al divino. L’alterità
persiana irrompe nel cosmo greco: ma Serse con le sue azioni non
mette in crisi solamente l’assetto del mondo ellenico, egli tradisce,
come vedremo, anche l’ethos persiano, mettendo in forse i valori della
tradizione.
In secondo luogo, il comportamento di Serse è un “eccesso
sacrilego”, poiché irrispettoso dei limiti che passano tra il divino e
l’umano. Il sovrano ha dimenticato che ai mortali “non si ammette
pensiero di troppo orgoglio”54 nei confronti della divinità. Infatti, la
hybris contro il divino porta alla rovina chi si spinge oltre ogni limite
e, in relazione a Serse, essa è una follia 55 devastatrice che non arretra
di fronte a luoghi sacri per eccellenza: il mare di Poseidone; i templi, i
simulacri e gli altari degli dei56. Sul gesto empio di imporre un giogo
al mare si è detto. Per quanto riguarda invece gli altari, le statue e i
templi: essi in Erodoto, come abbiamo visto, rappresentano “criteri di
grecità”, espressioni di cultura, vale a dire “cifre simboliche”
attraverso le quali lo storico misura, per analogia, differenza o
inversione, la distanza culturale che separa i popoli descritti nelle
Storie dagli Elleni, ma anche gli uni dagli altri. In questo senso, la
guerra di Serse e dell’esercito persiano è eccessiva, perché volontà di
annientamento culturale indiscriminato che getta le fondamenta della
futura catastrofe. Tutta la vicenda dei Persiani è marchiata dal sigillo
di questo errore fondamentale.
54
Cfr. v. 820.
55
Più di una volta nella tragedia, vien detto che Serse agisce essendo stato colpito
“da un male della mente” (vv. 750 – 751), “da un demone, per cui egli non
pensava saggiamente” (v. 725), “senza comprendere” (v. 744). Sull’interferenza
divina nelle scelte umane cfr. il primo capitolo.
56
Cfr. l’azione dell’esercito di Serse che, senza timore alcuno, mette a ferro e a
fuoco i templi, asporta le statue delle divinità, distrugge le are e rende i santuari
degli dei un cumulo di macerie (vv. 809 – 812).

156
Nel primo capitolo, analizzando le proposte avanzate dalla critica
riguardo all’individuazione della dimensione protagonistica della
tragedia e rispetto alla definizione della funzione generativa del
conflitto drammatico, avevamo affermato che Serse, nonostante la sua
lunga assenza dalla scena, difficilmente poteva essere considerato
semplice comparsa e che, se il conflitto drammatico si genera da una
scelta, da un errore o da una colpa del protagonista (unitamente a una
volontà ultraterrena), non vi è dubbio che nella tragedia Persiani
questa scelta sia la spedizione contro la Grecia, con tutte le azioni
colpevoli che essa genera, e non vi è dubbio che questa sia compiuta
unicamente da Serse. Non vi è dubbio, quindi, che la hybris di Serse
rappresenti la funzione generativa del conflitto drammatico.
Dunque, nei Persiani quella che Aristotele chiama metabasis57, il
ribaltamento di fortuna, avviene, per così dire, “fuori campo” (la
hybris verso gli dei, l’inganno divino e la sconfitta persiana); in altre
parole, uno degli elementi che viene riconosciuto dalla critica come
fondamentale condizione del tragico, la “scelta” – che mostra l’eroe
davanti a due possibilità, entrambe dolorose, senza soluzione se non
tragica appunto – è nel nostro dramma già stata effettuata. I contorni
di questa metabasis sono delineati in modo sempre più chiaro:
prefigurata dai timori del Coro e della Regina, narrata dal Messo e
codificata dall’Ombra nella sua irreparabilità. La metabasis fuori
campo riguarda in primo luogo la condotta di Serse e, di conseguenza,
coinvolge nella rovina tutti i componenti della casa reale, il Coro, i
Persiani comuni, spose e genitori, propagandosi come un’onda dal suo
centro. L’azione dell’autocrate, infatti, si ripercuote a cascata, secondo
l’assetto organizzativo piramidale persiano, su tutto l’impero, essendo
57
Cfr. Arist. Poetica, 1452 b;

157
egli il garante di un ordine che trova proprio nel legame tra il dio e il
sovrano il suo modo di esplicazione nella storia. Tuttavia, né la
prefigurazione della sconfitta nelle ansie dei Persiani rimasti a Susa,
né la narrazione effettuata dal Messo del ribaltamento di fortuna che
colpisce Serse e il suo esercito, esauriscono il tragico dei Persiani; di
fatto, la marmorea certezza della sconfitta, il terrificante tormento, i
pianti e i lamenti di tutti i Persiani sono ben lungi dal dare una
conclusione alla catastrofe persiana.
Inoltre, affermare che la hybris di Serse è la funzione generativa del
conflitto tragico, significa anche dichiarare che essa, da sola, non
possiede i caratteri di conflittualità necessari al dispiegarsi del tragico.
Mentre nell’Edipo Re di Sofocle la ricerca e la scoperta della entità
della catastrofe, anch’esse scandite da presagi e paure, esauriscono
velocemente l’azione, per l’immediata significatività tragica del
contenuto delle scoperte58, nei Persiani la rivelazione dell’ampiezza
della sventura rappresenta solo un punto di inizio. Del resto, mentre
nell’Edipo il conflitto tragico si manifesta nei termini di una scissione

58
Per quanto riguarda la contrapposizione Persiani / Edipo Re cfr. Paduano, Sui
Persiani di Eschilo, pgg. 85 – 87. Non concordiamo, tuttavia, con lo studioso
relativamente alla visione dei Persiani come dramma dell’informazione. Come
abbiamo visto nel primo capitolo, secondo U. Albini, (Lettura dei Persiani di
Eschilo, PP 22, 1967, pgg. 252 – 263, in particolare pg. 252 – 253) «nel dramma
d’informazione qualcosa che viene alla luce provoca traumi, sconvolgimenti e
rovine». Nei Persiani, di fatto, «non succede a nessuno dei personaggi niente di
grave che non fosse successo già prima», i timori del coro sulla dissoluzione
dell’impero restano tali, i timori della Regina sulle sorti del figlio sono subito
fugate, ecc.
La scelta del tragediografo di sviluppare il dettato scenico in questo modo, può
dipendere dai vincoli portati alla materia dalla storicità dell’argomento della
tragedia: l’impero Persiano è tutt’altro che annientato dopo la sconfitta di Platea.
Sta di fatto che la tragedia i Persiani sembra sfuggire a una classificazione
univoca. A nostro avviso, la tragedia in discussione si avvicina maggiormente al
modello della katastrofÔ, del capovolgimento, la catastrofe
dell’annichilimento dei valori del cosmo regale e della stasi della regalità, il vero
mutamento del dramma.

158
e di una tensione dinamica interna all’eroe, nei Persiani i termini della
contrapposizione drammatica non si esprimono in una lacerazione
interiore del protagonista. Piuttosto, il conflitto tragico è orientato da
due poli principali: Dario e Serse.
Possiamo subito notare, con Paduano, che la contrapposizione
cardine della tragedia, non riguarda due presenze sceniche, ma
paradossalmente due assenze59: una inerente alla morte, un’assenza
fisica rappresentata dalla yucÔ60 del sovrano che ascende alla
sommità del tumulo; l’altra scenica, inerente all’assenza prolungata di
Serse, le cui caratteristiche e le cui azioni sono continuamente
richiamate dagli altri personaggi. A nostro avviso, il cento nevralgico
della tragedia è, dunque, la scena dell’Ombra che si costruisce, non
solo sull’opposizione (per altri versi, già prefigurata oniricamente da
Atossa) tra Dario e Serse, ma anche sul paragone tra passato e
presente persiani che i due sovrani rispettivamente incarnano. Quanto
questo sia vero, è dimostrato, in primo luogo, dalla complessa
operazione che Eschilo ha effettuato per convertire in opposizione il
rapporto storico tra Dario e Serse.
Se guardiamo all’opera erodotea, ad esempio, possiamo vedere
come Dario e Serse si inseriscano nella medesima linea di condotta
politica che era appartenuta già ai loro predecessori. Non sarà di poco
vantaggio, a questo punto, soffermarci comparativamente sul modo
erodoteo di rappresentare la regalità persiana e le sue principali
personalità.

59
Cfr. G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pgg. 85 – 87
60
Cfr. J. – P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, tr. it., Torino 1970 (orig.
Mythe et pensée chez les Grecs, Paris 1965), pg. 357.

159
***
Erodoto, pur avendo una concezione lineare del tempo storico,
individua un ciclo tripartito – ascesa, grandezza e decadenza – che
riguarda tutti gli uomini, le città e gli Stati, come viene espresso alla
fine del Proemio61 della sua opera, Storie. In particolare, egli mette in
evidenza, nel colloquio tra Creso e Ciro prima della campagna contro i
Massageti, il cambiamento di fortuna tipico degli eventi umani: «C’è
un ciclo delle vicende umane che, con il suo volgersi non permette che
sempre gli stessi siano fortunati»62. Questa “ruota della fortuna”,
nell’immaginario erodoteo, riguarda tutti gli uomini, tutte le città e
tutte le nazioni prese in considerazione nelle Storie, e riguarda tanto
l’Oriente quanto l’Occidente. Non si tratta di un ciclo che copre tutta
la storia universale, non si tratta neanche di vedere l’unità della storia
in un sovrapporsi di ciclicità individuali per formare modelli più ampi,
giacché Erodoto non è uno storico ciclico. Piuttosto, ogni modello è
unico e non necessariamente deve coincidere con altri. Come ha
messo ben in evidenza Immerwahr63, nella sua opera Form and
Thought in Herodotus, il modello tripartito non è connesso con l’idea
di giustizia, esso è primariamente in Erodoto un principio di
individuazione attraverso il quale è possibile identificare città, paesi
ed individui: «The cycle of growth and decay is primarily a principle
of individuation. If we want to know who Croesus was, we can do so
only by knowing his rise to power and its end. Each unit – be it a city,
a country, or an individual – can be identified only by a particular
configuration of the cycle of growth and decay. It is thus a transient

61
Cfr. Hdt. I 5, 4.
62
Cfr. Hdt. I 207, 2.
63
Cfr. H. R. Immerwahr, Form and Thought in Herodotus, Cleveland, Ohio 1966,
pg. 148 – 154.

160
part of a permanent historical world that maintains its constancy in
alternations of growth and decay. In themselves, the changes that take
place are aimless and repetitive. Progress applies only to individual
units and not to the whole course of history. Only the totality of
history is permanent, since the principle of individuation is
permanently operative. [...] Individual uniqueness within a fixed
pattern is expressed by Herodotus trough the simple rule that, for each
state or individual, the very conditions that give rise to greatness are
also the conditions of downfall” 64.
“Le medesime condizioni che danno origine alla grandezza sono
anche le condizioni della decadenza”. Questa semplice legge funziona,
anche in modo inverso65, in tutta l’opera erodotea, sia per i Barbari
che per i Greci. Mentre per ogni singolo re persiano sembra applicarsi
un modello che dalla grandezza porta alla decadenza, per alcune delle
poleis greche sembra funzionare il modello inverso66.
Ciro67 è il primo sovrano achemenide chiamato in causa dallo
storico di Alicarnasso; egli subisce un cambiamento di fortuna che
nasce proprio dalle condizioni iniziali della sua esistenza, cioè dal
fatto di essere il fondatore dell’impero persiano.
La storia della giovinezza di Ciro, dalla nascita all’esposizione,
dalla sopravvivenza al riconoscimento, assomiglia al mito, ben
conosciuto in molte culture, del bambino divino. Il tratto distintivo

64
Ivi, pg. 153 – 154.
65
Le condizione che trattengono un individuo o uno stato in basso possono essere
allo stesso tempo le condizioni che lo porteranno alla grandezza; cfr. Ivi, pg. 154.
66
Per quanto riguarda il modello applicato alla storia greca cfr. Ivi, pgg. 189 e
sgg.
67
Sulla figura di Ciro, Cambise, Dario e Serse, cfr. K. H. Waters, Herodotos on
Tyrants and Despots. A study in Objectivity, «Historia» Einzelschr. XV,
Wiesbaden 1971, pgg. 45 sgg.; cfr. anche H. R. Immerwahr, op. cit., pgg. 161 –
188.

161
della narrazione erodotea è la logicizzazione dell’elemento divino,
così che gli avvenimenti sono per lo più riferiti alla sfera d’azione
umana. Protagonisti della storia sono Astiage, il re crudele, Arpago,
colui che cerca vendetta, e Ciro stesso, il fortunato nuovo sovrano. La
storia di Ciro inizia, già prima della sua nascita, con i due sogni del
nonno Astiage che riguardano la figlia Mandane, futura madre di
Ciro68. Nel primo Mandane inonda di urina la città del padre fino a
sommergere l’intera Asia69; nel secondo una vite nasce dai suoi
genitali e copre d’ombra tutta l’Asia70. I due sogni sono molto simili,
ma differiscono per il significato simbolico delle immagini utilizzate.
L’urina di Mandane è una contaminazione della terra, quindi
un’immagine decisamente negativa che è legata, non tanto all’idea
persiana della purezza dell’acqua, come dice Immerwahr 71, quanto
proprio all’idea della purezza della terra 72 e all’idea dell’urina come
agente inquinante73.
La vite che ombreggia l’Asia rappresenta i benefici aspetti del
potere regale: infatti, il vino, nelle Storie, rappresenta una bevanda
civilizzata, anche se pericolosa, qualora non utilizzata in modo
adeguato. La vite di questo sogno deve essere collegata con il vino
68
Sogni tipici prima dell’avvento di un nuovo sovrano e frequentemente utilizzati
da Erodoto.
69
Cfr. Hdt. I 107, 1.
70
Cfr. Hdt. I 108, 1.
71
Cfr. H. R. Immerwahr, op. cit., pg. 163.
72
In effetti, Erodoto parla della terra come una delle divinità venerate dai Persiani,
questo riferimento ha delle basi storiche nel senso che ci rimanda al divieto
zoroastriano di inquinare l’acqua, il fuoco e la terra; i Persiani esponevano i
cadaveri sulle cosiddette torri del silenzio, proprio per questo motivo. Cfr.
sull’argomento G. Gnoli, op. cit., pg. 469 e pgg. 524 – 525. L’appartenenza di
Erodoto ad un orizzonte religioso politeistico deve, probabilmente, averlo indotto
a considerare venerazione, il rispetto portato dai Persiani per la purezza di questi
elementi, così come il simbolismo del fuoco e della luce ha portato, in passato, a
vedere negli zoroastriani nulla più che adoratori dell’elemento igneo.
73
Cfr. Hdt. I 138, 2; I 133, 3.

162
della campagna contro i Massageti e soprattutto con il fatto che Ciro
insegna ai Persiani a berlo in modo corretto74. Il matrimonio di
Mandane con un Persiano, per giunta a lei inferiore – in quanto non
appartenente ad una dinastia regnante – è motivato dal fatto che
Astiage vuole prevenire gli effetti del primo sogno. La stessa
spiegazione razionalistica è data per l’esposizione di Ciro, che è la
risposta di Astiage al secondo sogno. Così il significato originale delle
visioni è soppiantato da motivazioni puramente umane. Erodoto
impiega motivazioni umane in tutta l’intera storia dell’ascesa di Ciro.
Egli spiega le caratteristiche divine del mito, riducendole ad eventi
ordinariamente umani.
Ciro, dopo essere stato esposto, è salvato da Arpago e da un pastore
per motivazioni puramente umane75: il fatto che contemporaneamente
la moglie del pastore metta alla luce un figlio morto che sostituirà
Ciro, avviene, nel racconto erodoteo, per una semplice coincidenza,
non per una interferenza divina76. Il riconoscimento di Ciro, poi, si
realizza in virtù delle sue caratteristiche naturali – la natura regale
ereditata da parte di madre – e non per intervento divino. Questo è
dunque limitato soltanto all’inizio della storia, nei due sogni, e a una
inconsueta fortuna che privilegia Ciro nelle sue azioni di guerra.
Ancora, Erodoto riporta che, dopo il riconoscimento, Ciro torna dai
suoi genitori ai quali racconta come sia stato salvato dal pastore e
dalla moglie, Cino: «I genitori, appreso questo nome, sparsero la voce
che Ciro, esposto, era stato nutrito da una cagna, in modo che ai
Persiani sembrasse che loro figlio era sopravvissuto in modo più

74
Cfr. I 126, 2.
75
Cfr. I 109 – 113.
76
Cfr. H. R. Immerwahr, op. cit., pg. 164.

163
miracoloso. Di qui ebbe origine questa voce»77. L’idea che la sua
sopravvivenza sia dovuta all’aiuto divino sarà data a Ciro da Arpago:
«O figlio di Cambise, poiché gli dèi ti proteggono, altrimenti non
saresti pervenuto a tal punto di fortuna, vendicati di Astiage il tuo
assassino. Infatti, secondo il suo volere tu eri morto, mentre
sopravvivi grazie agli dèi e a me»78. Ciro fa sua questa versione degli
eventi tanto che, incitando i Persiani alla rivolta contro Astiage, dice:
«Dunque, dandomi ascolto, divenite liberi. Io stesso infatti, credo di
essere nato per sorte divina […]»79. È la fede nella sua superiorità più
che umana a causare la sua disfatta.
Esiste, dunque, una corrispondenza tra l’ascesa di Ciro al potere e la
campagna contro i Massageti, momento della sua disfatta: essa si basa
sull’idea che le condizioni della sua ascesa alla regalità suscitino in
Ciro la falsa fede nella sua superiorità più che umana (o comunque
l’idea di essere caro ad un dio). Tale idea “eccessiva” è espressa nella
motivazione della guerra che Ciro intende attuare contro i Massageti:
«molte e grandi erano le ragioni che lo esaltavano e lo spingevano: in
primo luogo, la sua origine, il credersi superiore ad ogni essere
umano; in secondo luogo la fortuna, sopravvenuta in tutte le guerre»80.
Queste idee lo porteranno, nonostante il parere contrario di Creso, ad
attaccare guerra contro i Massageti e a trovarvi la morte.
La grandezza e il declino di Cambise, che eredita dal padre Ciro la
regalità, sono legate all’idea di “successione legittima”. Nel racconto
erodoteo, gli iniziali atteggiamenti del monarca sono: la lealtà verso la
dinastia e il rispetto della tradizione. Egli inverte entrambi: distrugge

77
Cfr. Hdt. I 121, 3.
78
Cfr. Hdt. I 124, 1 – 2.
79
Cfr. Hdt. I 126, 6.
80
Cfr. Hdt. I 204, 2.

164
la dinastia, uccidendo i suoi familiari più stretti, e viola le tradizioni
persiane81.
La distruzione della dinastia avviene attraverso due uccisioni
fondamentali: quella del fratello Smerdi, causata da un sogno in cui un
messaggero gli annunciava che Smerdi, seduto sul trono regale, con la
testa toccava il cielo. Peraltro, l’uccisione del fratello rende possibile
la ben nota usurpazione dei Magi (III 61 – 66). In più, Cambise uccide
la sorella-sposa che era incinta del suo erede e dunque rimane senza
successione. Invece di avere un figlio, un futuro re, Cambise uccide i
suoi parenti. Tutto questo è anche sottolineato in modo profetico da
Creso che, nel paragonarlo al padre Ciro, sottolinea l’inferiorità di
Cambise proprio nella mancanza di un successore82.
In seguito, Cambise commetterà una serie di atti contrari, sia ai
costumi dei Persiani che degli Egiziani: un giorno, fa catturare e
seppellire vivi a testa in giù dodici tra i Persiani più illustri 83 senza una
motivazione, contravvenendo in tal modo il precetto persiano che non
prevede il seppellimento, ancor meno il seppellimento di uomini vivi;
uccide i servi che avevano salvato Creso, trasgredendo la norma
secondo la quale neppure il Gran Re può uccidere un suddito per una
sola disobbedienza; a Menfi, profana antiche sepolture per esaminare i
cadaveri e viola anche alcuni templi egiziani; inoltre, per vendetta,
oltraggia il corpo di Amasi, re Egiziano, disseppellendolo e dandogli
fuoco, contravvenendo al precetto, sia egiziano, sia persiano, di non
cremare i cadaveri. Dunque, le condizioni iniziali del suo potere, cioè
la legittima successione e il rispetto delle tradizione, segnano la sua

81
Cfr. Hdt. III 1 – 38.
82
Cfr. Hdt. III 34.
83
Cfr. Hdt. III 35, 5.

165
distruzione. Muore, infatti, consapevole dell’usurpazione dei Magi e
grazie a una ferita che si è procurato alla coscia, precisamente nello
stesso punto in cui aveva colpito il dio Api per ucciderlo.
La principale caratteristica del Dario erodoteo è, invece,
l’estensione enorme del suo potere, che è la ragione della sua
grandezza e che diventerà anche la ragione, non della sua caduta, ma
della sua frustrazione in merito all’idea della conquista di nuove terre,
idea che sostiene e tara l’ideologia politica dell’impero, fin dall’ascesa
e dalla caduta del suo fondatore Ciro. Perciò, l’idea centrale dei logoi
che riguardano Dario è la limitazione del suo sconfinato potere 84. I
logoi che parlano di Dario possono essere divisi in tre parti:

 La narrazione della sua ascesa al trono, attraverso la sconfitta


dei Magi usurpatori (III, 61-88).
 La descrizione del suo potere e della sua ricchezza (III, 89 –
117).
 Le sue campagne militari.

Attraverso queste tre fasi del racconto, l’immagine di Dario si


trasforma da quella di un abile usurpatore a quella di un potente e
prosperoso sovrano, fino a diventare il re dispotico delle campagne
militari. Il giovane Dario giunge sulla scena della narrazione
improvvisamente, proprio nel momento in cui sei nobili Persiani
stanno preparando la cospirazione contro il Mago usurpatore del
trono. Il resto lo sappiamo: Dario spinge i cospiranti ad agire subito,
senza indugiare, uccide il Mago e diventa sovrano con l’inganno. In

84
Cfr. H. R. Immerwahr, op. cit., pg. 170.

166
maniera alquanto anomala, il Dario erodoteo parla in difesa della
menzogna85, contraddicendo la regola persiana per cui non bisogna
mentire ed ingannare86. Egli è un usurpatore poiché non ha sangue
regale: appartiene a un ramo cadetto degli Achemenidi, fa dunque
parte dell’alta nobiltà, ma non è figlio di re. Tuttavia, l’elemento
divino partecipa fin dall’inizio alla sua ascesa: nel sogno di Ciro,
questa è presentata come un evento voluto dal fato. Quando il suo
cavallo nitrisce per primo – grazie, tuttavia, ad uno stratagemma
ideato dal suo scudiero Ebare – è un fulmine a sancire la sua elezione
a Gran Re. L’ascesa di Dario è, quindi, un insieme di abilità umana,
fato divino e generica fortuna che si esplica nella narrazione attraverso
un gran numero di inaspettate coincidenze.
Il nuovo sovrano, per rafforzare la propria posizione e acquisire la
legittimità che gli manca per essere re, contrae «in Persia i matrimoni
più eminenti: con due figlie di Ciro, Atossa e Artistone: Atossa che
già era stata sposa del fratello Cambise e poi del Mago, Artistone che
era vergine. […] Era al colmo della sua potenza»87. Sono suoi sudditi,
tutti gli abitanti dell’Asia occidentale e orientale, eccetto gli Arabi.
Egli completa l’organizzazione dell’impero, costituendo le satrapie
come distretti tributari: e per questo viene ritenuto dai Persiani, come
ci dice Erodoto, un bottegaio, perché prima di lui, sotto Ciro e
Cambise, i tributi non erano imposti, ma erano dei doni volontari.
Dario è presentato come possessore di un impero ereditato e come
sovrano che ha il pieno controllo del suo territorio. Tuttavia, il suo
impero è accerchiato da popolazioni che non può controllare

85
Cfr. Hdt. III 72, 4.
86
Cfr. Hdt. I 136, 2.
87
Cfr. Hdt. III 88, 2 – 3.

167
completamente: gli Arabi, gli Sciti e i Greci. Il modo in cui Erodoto
rappresenta il potere sconfinato di Dario, contiene anche elementi che
negano l’estensione illimitata del suo potere.
A questa visione, tutto sommato positiva di Dario, si oppone
l’elemento dispotico che emerge nella storia delle campagne militari.
La situazione di partenza dei logoi delle campagne militari vede il
Gran Re capace di sedare le rivolte e di governare fermamente l’Asia,
ma egli è sempre sconfitto quando tenta di espandere il proprio
dominio. Uniche eccezioni a questa regola, sono la campagna indiana
e la campagna in Europa, per mezzo della quale Dario conquista
l’Ellesponto. Ma queste sono considerate da Erodoto eventi minori più
che vere e proprie conquiste88, tanto che la campagna indiana non
viene neanche descritta nei dettagli. I temi principali della narrazione
erodotea sono ora gli atti di crudeltà, misti ad atti di giustizia,
compiuti da Dario e l’insoddisfazione del Gran Re per non riuscire ad
espandere l’impero.
La frustrazione di Dario nasce dalla sua insofferenza riguardo al
mero dominio sull’Asia che ha ereditato dai suoi predecessori. La
guerra dei Persiani è, per tara di nascita, una guerra di conquista e
Dario, per legittimare la sua usurpazione del trono, è costretto a
espandere l’impero come avevano già fatto i suoi predecessori, Ciro e
Cambise. Questa ansia di conquista, come abbiamo avuto modo di
notare nel primo capitolo, è espressa dalle parole di Atossa: «O re, tu
che hai una potenza così grande, rimani inoperoso: non acquisti ai
Persiani nessun popolo e nessun potere. È bene invece che un uomo
giovane e padrone di grandi ricchezze si segnali mostrando qualche
impresa, affinché anche i Persiani sappiano che sono governati da un
88
Cfr. H. R. Immerwahr op. cit., pgg. 172 – 173.

168
uomo. Ti conviene agire così per due motivi: sia perché i Persiani
sappiano che è un uomo a governarli, sia perché la guerra li logori ed
essi, rimanendo oziosi, non comincino a complottare contro di te»89.
Per bocca di Atossa viene esposta la teoria secondo la quale la virilità
di un re si manifesta con le sue imprese belliche 90, che ogni re
persiano ha il dovere di estendere i confini dell’impero e che
l’inattività del popolo costituisce un pericolo per il sovrano. È
implicito nelle sue parole il confronto con Ciro e Cambise. Inoltre,
come abbiamo visto sopra, l’idea della guerra di conquista per
l’edificazione di un impero universale è storicamente appartenuta alla
regalità persiana. Essa sarà ancora più esplicita nel Serse erodoteo, che
aspirerà a che la Persia abbia come solo confine l’etere di Zeus.
Dario, dunque, placa con successo tutte le rivolte che gli si
presentano: Ionia, Media e Babilonia. Anche la sua campagna in India
fu un successo, ma Erodoto ne fa solo un accenno. Tutte le campagne
fuori dall’Asia (a parte quella in Europa) finiscono in un fallimento.
Del resto anche la campagna in Europa, che sembra essere positiva, è
in realtà negativa quando si pensa alla sconfitta di Dario contro gli
Sciti, i quali, avendo sopra di loro un territorio senza limiti, non
potevano essere sottomessi; la sconfitta segna un limite invalicabile
per l’impero. Come sottolinea Immerwahr : «Darius, who could not
accept the limitation of a purely Asian empire, is thus literally
defeated by the limitless. Darius is defeated in Scythia only by his
unlimited desire of expansion»91.

89
Cfr. Hdt. III 134.
90
Cfr. Hdt. III 120, 2 – 3.
91
Cfr. H. R. Immerwahr, op. cit., pg. 175.

169
Dario viene sconfitto anche in Libia e a Maratona, in Grecia. Egli
muore prima di aver potuto portare a termine le sue conquiste, che
lascerà da compiere al figlio Serse: «Dopo aver designato re dei
Persiani Serse, Dario si dispose a partire per la spedizione. Ma […]
morì, e non riuscì a punire, né gli Egiziani ribelli, né gli Ateniesi»92.
Dario muore ingannato dalle sue ambizioni e dal suo illimitato potere.
Dunque Serse eredita tutto l’impero, ma con esso anche la vendetta
contro Atene e la rivolta egiziana.
Serse, che è presentato come l’antagonista per eccellenza del
mondo greco, è considerato dalla critica erodotea il personaggio
centrale delle Storie93. Appare evidente l’interesse particolare di
Erodoto verso Serse, che era stato il protagonista delle più importanti
fasi delle guerre persiane. Delle lotte tra Greci e Persiani, l’ultima è
ancor più enfatizzata, poiché, chiudendo il ciclo del recente passato,
ha maggiori ripercussioni sulla contemporaneità vissuta da Erodoto.
Quando compariamo il ritratto di Serse con i ritratti dei re
precedenti, appare evidente che essi sono, in un certo senso, il
preludio alla figura di questo ultimo re persiano messo in discussione
da Erodoto.
I capitoli 1 – 19 del libro VII sono un sorta di introduzione a quelle
che saranno le azioni di Serse. In essi, Erodoto cerca di rendere conto
e di motivare la decisione del re di muovere guerra alla Grecia e di
mostrare quali forze si esercitarono pro e contro l’invasione.

92
Cfr. Hdt. VII 4.
93
Cfr. A. Masaracchia, Studi Erodotei, Roma 1976, pgg. 47 – 111; cfr. anche H.
R. Immerwahr, op. cit., pg. 183; Cfr. anche sull’argomento le osservazioni di W.
Marg, Herodot, München 1962, pgg. 619 sgg.; al contrario J. L. Myres nella sua
opera Herodotus Father of History, Oxford 1953, pgg. 78 – 216, asserisce che nei
libri VII – IX delle Storie, che dovrebbero costituire un dramma a se stante, l’eroe
non è Serse ma Mardonio, poiché al primo mancherebbero qualità eroiche.

170
Erodoto individua principalmente tre ordini di motivazioni:

 L’eredità dinastica.
 L’intervento esterno dei consiglieri.
 La volontà divina.

Sono esattamente le stesse motivazioni addotte da Eschilo. Nel


tragediografo, esse sono strumento per una riflessione sulla hybris e
sul senso dell’agire umano in relazione alla volontà divina e all’ordine
cosmico da essa costituito, in cui l’uomo stesso occupa un posto ben
determinato. Anche allo storico appartiene la riflessione sulla hybris,
ma essa è, se non subordinata, importante almeno quanto altri interessi
e altre finalità (non dimentichiamoci la dimensione enciclopedica
dell’opera erodotea). Per Erodoto, l’obiettivo ultimo è, piuttosto,
l’interpretazione del senso storico dell’impero persiano e la
definizione delle cause che generarono lo scontro con i Barbari, di cui
Serse risulta essere l’ultimo atto. Nell’interpretazione erodotea, con
Serse si esauriscono le energie dinamiche del cosmo achemenide.
Non è senza valore esaminare in quale modo Erodoto giunga al suo
scopo. Il libro VII si apre con la salita al trono di Serse come
successore designato da Dario; egli tuttavia ottiene il trono solo dopo
una crisi dinastica indotta dal fratellastro maggiore che rivendica il
suo diritto al trono quale primogenito di Dario. L’intervento di Atossa,
madre di Serse, figlia di Ciro, difenderà i diritti legittimi del figlio.
Serse sarà re. Egli con la regalità eredita l’impegno a continuare la
tradizione di conquista del fondatore della dinastia, tradizione nata
dall’assoggettamento degli antichi padroni che si trasforma in
assoggettamento di tutti gli altri popoli. Il diritto legittimo a regnare,

171
rivendicato da Serse, condiziona fin dall’inizio l’atteggiamento futuro
del re. Dal momento che tale diritto è stato messo in discussione, deve
essere continuamente affermato: e questo vizio di origine orienterà le
decisioni del sovrano.
Nel capitolo cinque del libro VII libro, Erodoto analizza le
motivazioni per le quali Serse decide la gigantesca spedizione che,
inizialmente, non aveva alcuna intenzione di attuare. Il
concatenamento di tre interventi esterni porta il Gran Re ad optare per
l’azione di guerra, non senza continui ripensamenti che rendono conto
della eccessiva volubilità del sovrano.
Il primo è l’intervento di Mardonio94, che adduce come motivazioni
a favore della spedizione: la punizione di Atene per il suo intervento
nella rivolta ionica; le attrattive materiali della terra greca;
l’esaltazione dell’orgoglio e del prestigio regale di Serse (è implicito il
paragone con i suoi predecessori). Serse appare, in questi passi che
esaminiamo, minacciato da una basilare incertezza sull’agire o meno,
che si alterna con momenti di lucida decisione. Ciò permette allo
storico di Alicarnasso di esaminare le ragioni della scelta di attaccare:
«Erodoto si è servito dello schema del personaggio che “disvuol ciò
che volle” per indicare la portata storica della decisione da
prendere»95. Serse sembra, dopo l’intervento di Mardonio, pronto ad
agire: quindi convoca un’assemblea96 e tiene un discorso ai nobili
Persiani in cui comunica la propria intenzione di marciare contro la
Grecia. Nelle sue considerazioni, giustifica la volontà di conquista
facendo riferimento alla tradizione persiana: egli non ha obbiettivi che

94
Cfr. Hdt. VII 5 – 7.
95
A. Masaracchia, Studi Erodotei, pg. 53.
96
Cfr. Hdt. VII 8.

172
non siano stati dei suoi predecessori dal tempo in cui Ciro soggiogò i
Medi. Rivela anche la volontà di vendicare il padre per i torti subiti
dagli Ateniesi: il programma di Serse non è altro che il programma di
Dario e Serse, come suo erede, lo attuerà. Ma fino a qui siamo
nell’ambito di ciò che avevamo sentito pronunciare da Mardonio.
Serse va oltre, rendendo esplicito un programma di imperialismo
totale che nei suoi predecessori era solo accennato o sottinteso e che
ora si impone nella sua evidenza: «se assoggetteremo loro e i loro
vicini, […] renderemo la terra persiana confinante con l’etere di Zeus.
Il sole non vedrà nessuna terra confinante con la nostra, ma di tutto, io
insieme con voi, formerò una sola terra dopo aver percorso tutta
l’Europa. […] Non resterà alcuna città, né alcun popolo in grado di
combattere con noi […] in tal modo sopporteranno il giogo servile e
quelli che furono colpevoli verso di noi e gli innocenti»97. Il Serse
erodoteo, pronunciando queste parole, non fa avvertire solo il vago
tema della conquista, ma esprime anche l’esegesi erodotea del senso
storico dell’impero persiano: l’identificazione della sua ideologia con
la ricerca del dominio universale. Quelle che erano le condizioni della
nascita dell’impero, cioè la conquista dei Medi per la libertà dallo
straniero, divengono le condizioni della sua stasi, cioè la necessità
dell’azione di Serse contro la Grecia: la disfatta di tale attacco militare
blocca la possibilità, a un impero basato su un’ideologia di conquista
universale, di esplicarsi ulteriormente nella storia. Il discorso di Serse
si conclude con l’ordine di preparare l’esercito; tuttavia, in
contraddizione con quanto deciso, chiede ai suoi di esprimere
un’opinione al riguardo. A questo punto si svolgono altri due
interventi esterni decisivi: il primo (al capitolo dieci) è quello di
97
Cfr. Hdt. VII 8.

173
Artabano, che è contrario alla spedizione. Egli ricorda a Serse come
andò a finire la spedizione di Dario contro gli Sciti 98 e quali
potrebbero essere i pericoli di gettare un ponte sull’Ellesponto: il
ponte potrebbe essere distrutto e, con esso, ogni speranza di ritirata in
caso di sconfitta. Artabano esprime una concezione di attesa e di
riflessione: invita Serse ad aspettare ancora. La risposta di Serse si
volge verso l’azione immediata perché, se il Gran Re non avesse
attaccato sarebbero stati i Greci a preparare una spedizione contro i
Persiani. Tuttavia, questo colloquio con Artabano ha la funzione di
istillare nella mente di Serse il dubbio, in modo che possa esplicarsi
nel racconto il terzo intervento esterno, che è quello della divinità.
Logorato dal dubbio99, Serse si addormenta dopo aver deciso di non
attaccare più battaglia, ma avviene qualcosa che gli fa nuovamente
cambiare idea. Intervengono adesso tre sogni decisivi. Nel primo,
vede un uomo che lo invita a non cambiare parere e ad attaccare la
Grecia; ma il sovrano, non riconoscendo il sogno come elemento
divino, non segue il consiglio e rimane dell’opinione di aspettare. In
un secondo sogno, la notte successiva, ha la visione di un uomo che
questa volta lo minaccia, dicendo: «Ma sappi bene che se non farai
subito la spedizione, queste saranno le conseguenze: come in breve
tempo sei diventato grande e potente, così di nuovo in breve sarai
meschino»100. Ritorna, come è evidente, l’idea della guerra di
conquista: se Serse tenterà di sovvertire la logica di sviluppo
dell’impero persiano, così come si è affermata con i suoi predecessori,
98
Gli Sciti avevano tentato di corrompere Istieo, tiranno di Mileto, lasciato da
Dario a guardia del ponte sul Bosforo; Artabano vuole mettere in evidenza che
quella volta fu per il mancato tradimento degli ioni che Dario si salvò e vuole
anche sottolineare che la cosa avrebbe potuto non ripetersi con la stessa fortuna.
99
Cfr. Hdt. VII 12.
100
Cfr. Hdt. VII 14.

174
perderà anche la sua attuale potenza, «perché un potere dispotico non
può venire a patti con la sua tendenza di base, senza mettere in moto
un processo di segno contrario che lo porta rapidamente alla
rovina»101. Questo sogno fa spaventare Serse che chiede l’intervento di
Artabano. Egli darà una spiegazione razionalistica del sogno:
«sogliono venire soprattutto come visioni in sogno quelle cose cui uno
pensa durante il giorno»102. Serse, però, non è convinto e chiede ad
Artabano di sostituirsi a lui nel letto del re; così avviene, e anche lui
ha la medesima visione e si convince che il sogno è di origine divina,
per cui cambia parere e suggerisce a Serse di attaccare. Nel terzo
sogno103 pareva a Serse di essere incoronato con un ramo di ulivo, i
cui ramoscelli ombreggiavano tutta la terra e poi la corona, posta sulla
testa, scompariva. Questa visione riassume i tratti del destino di Serse,
il disegno di conquistare il mondo e il suo fallimento.
Alla figura di Serse, come emerge dal libro VII, sono legate una
serie di tematiche: la guerra di conquista e l’allargamento dei confini
dell’impero, come abbiamo visto, e soprattutto le riflessioni sul senso
e sui limiti dell’agire umano. Quest’ultime si esprimono attraverso
l’ennesimo dialogo con Artabano (capitoli 45 – 46). Alla figura di
Serse, è legata anche la riflessione erodotea sulla valutazione storica e
comparativa delle due civiltà, la greca e la persiana; essa è consegnata,
come abbiamo visto, ai colloqui con Demarato104. La vittoria dei
Greci, per il nostro storico, è dovuta ad una sostanziale differenza
politica e civile tra le due culture, oltre che all’attuarsi di un modello
etico – religioso di colpa / castigo, favore / sfavore della divinità, che

101
A. Masaracchia, Studi Erodotei, pg. 67
102
Cfr. Hdt. VII 16.
103
Cfr. Hdt. VII 19.
104
Cfr. Hdt. VII 101.

175
è presente ovviamente in Erodoto, ma che risulta secondario, rispetto
alle motivazioni puramente storiche: i Persiani si battono per timore
della sferza, i Greci, e gli Spartani in particolare, hanno come solo
despota la legge, che impone loro di rimanere fra i ranghi e di non
fuggire di fronte al nemico: nel momento decisivo, per il greco
Erodoto, la lotta per la libertà sarà più forte della guerra di conquista.
Attraverso il Serse del VII libro Erodoto ha voluto dare, nei modi
ispirati dalla sua cultura, una lettura delle fonti persiane in suo
possesso che gli permettesse di prendere posizione su grandi temi
ancora contemporanei, come il rapporto tra teoria ed azione,
l’intervento divino, la formazione dell’impero persiano e la sua
particolare struttura politica, il significato dello scontro tra Greci e
Barbari. Se è vero che le figure mancano di caratterizzazione (e quindi
non possono assurgere a “tipo”), proprio per il modo erodoteo di
piegare il personaggio ad esprimere preoccupazioni storiche reali, è
vero anche che le capacità di Erodoto permettono, talvolta, di
trasformare queste figure in individui. Se, nel libro VII, Serse è
sostanzialmente il mezzo erodoteo per far convergere in un solo punto
le aspirazioni, le ansie ed i conflitti che condizionano il divenire
storico (tanto da apparire come uomo condizionato dall’eredità
dinastica, campo aperto alle influenze esterne e dominato dalla
necessità del proprio ruolo), nei libri VIII e IX la sua rappresentazione
come individuo si fa più evidente105.
Il rifiuto di ascoltare Artemisia e le sue considerazioni sui pericoli e
le incognite dell’imminente battaglia106 fa il paio con il non accettare

105
Cfr. A. Masaracchia (a cura di), Erodoto, Le Storie, libro VIII, La Battaglia di
Salamina, Milano 1996, pg. XIX.
106
Cfr. Hdt. VIII 68.

176
l’ardita strategia proposta da Demarato107: entrambi esprimono gli
errori decisivi commessi da Serse nella conduzione della guerra,
motivi che si riferiscono all’orgoglio e all’eccessivo senso di sicurezza
nelle proprie possibilità.
Il lungo racconto108 dell’innamoramento di Serse per la moglie del
fratello Masiste e delle sue conseguenze distruttive, serve a plasmare
più nettamente la figura del Gran Re e forse a mostrare il lento
degrado morale della corte achemenide. Il tratto più evidente è, infatti,
la volubilità con cui cambia l’oggetto del suo amore e il modo in cui si
infiamma d’ira al momento dell’opposizione del fratello alla sua
empia proposta. Questa rappresentazione si affianca ai tratti più
rappresentativi del suo dispotismo assoluto: la mancanza del minimo
scrupolo nel sedurre la cognata, la tranquillità con cui passa da un
piacere ad un altro (come colui a cui tutto è dovuto) e l’egoismo con
cui desidera sottomettere Masiste alle proprie volontà, fino alla
crudele e spietata uccisione del fratello e di tutta la sua famiglia 109.
L’incontrastato ed enorme potere che Serse ha ereditato con il regno
è anche la causa della sua rovina finale: l’incapacità di ascoltare, per
orgoglio e sentimento di superiorità, i saggi consigli dati da Artabano,
Artemisia e Demarato, spinge Serse incontro alla disfatta militare e si
ricollega direttamente all’incapacità di risolvere i guai che lui stesso
ha provocato alla sua famiglia e alla sua stessa inadeguatezza che lo
porterà alla distruzione.
Oltre agli importanti episodi che abbiamo citato, ve ne sono altri
che aiutano a definire meglio la figura del Serse erodoteo e la natura

107
Cfr. Hdt. VII 235
108
Cfr. Hdt. IX 108-113
109
Cfr. A. Masaracchia, Studi Erodotei, pg. 93.

177
della sua regalità. Anche i Erodoto, una delle immagini principali di
Serse è quella della sua potenza illimitata: tutte le azioni di Serse e la
spedizione greca sono all’insegna della grandiosità110. Infatti, nel
visitare la Pergamo di Priamo, sacrifica ben mille buoi ad Atena
Iliade111; si impadronisce a Babilonia dello Zeus d’oro di dodici cubiti
che neanche suo padre Dario aveva osato rimuovere112; scava un
canale nell’Athos per mostrare la sua potenza113; versa libagioni al
mare da una coppa d’oro e poi, compiuta l’invocazione, getta nel mare
la coppa, un cratere d’oro ed una spada persiana114. Il suo aspetto,
quasi sovrumano, fa esclamare ad un abitante dell’Ellesponto, mentre
Serse attraversava il mare: «O Zeus, perché prendendo l’aspetto di un
persiano e sotto il nome di Serse invece che di Zeus vuoi metter
sottosopra la Grecia? Anche senza di loro tu avresti potuto far ciò»115.
La sua potenza si traduce in doti fisiche sovrumane: «tra tante migliaia
di uomini, nessuno per bellezza e grandezza era più degno di Serse
stesso di avere il supremo comando»116.
Si intrecciano, accanto al motivo della sua grandezza, anche quelli
della sua generosità e della sua crudeltà in un groviglio che è difficile
dipanare: i più importanti episodi sono quelli di Sataspe (IV 43), del
nocchiero (VIII 18) e di Pizio (VII 27 – 29; 38 – 39). Questo ultimo,
in particolare, evidenzia il doppio comportamento adottato da Serse. A
una prima fase in cui Serse premia Pizio per la generosa offerta
d’aiuto rivolta alla sua spedizione, ne segue una seconda in cui Pizio

110
Cfr. Hdt. VII 2.
111
Cfr. Hdt. VII 43.
112
Cfr. Hdt. I 183.
113
Cfr. Hdt. VII 22 – 24.
114
Cfr. Hdt. VII 54.
115
Cfr. Hdt. VII 56.
116
Cfr. Hdt. VII 187.

178
viene severamente punito con l’uccisione del figlio maggiore per la
sola colpa di aver chiesto al re di esonerare questo figlio dalla
spedizione militare. A ben guardare, ciò che a noi (e ovviamente ad
Erodoto) sembra un atto di pura malvagità, trova la sua giustificazione
nel funzionamento della stessa compagine statale persiana in cui la
partecipazione all’esercito era, non solo un dovere, ma anche la
massima dimostrazione di obbedienza.
Quindi, in Serse si ritrovano le immagini del sovrano potentissimo,
del despota crudele e del re generoso e giusto: tali modelli si
mescolano e concorrono a dare un’immagine composita che non può
essere paradigmatica per nessuno degli elementi citati. Emerge
un’immagine della regalità come dispensatrice di castighi e
ricompense, secondo parametri che non sono Greci, ma che si
integrano nell’orizzonte della società persiana.
In seguito ad una grave crisi dinastica Serse è diventato re; la
rivendicazione del diritto di successione lo porta alla necessità di
dover continuare l’eredità dei predecessori; accanto a questa energia
interna agiscono forze esterne di ordine divino e anche umano che
portano Serse a scegliere la guerra come inevitabile. Ma l’ideologia di
conquista di un impero universale si scontra con la resistenza dei
popoli Greci che appartengono ad una diversa civiltà politica e
sociale117. Il Serse incoerente, incerto e contraddittorio serve ad
Erodoto per rendere con vivida efficacia quale sia la drammatica
importanza degli eventi che si stanno compiendo. Da qui, la debolezza
in cui si vanifica e si consuma la forza conquistatrice degli
Achemenidi. È inevitabile, quindi, la crisi della dinastia Achemenide
di cui Salamina, Platea ed anche il disfacimento dei costumi alla corte
117
Cfr. A. Masaracchia, Studi Erodotei, pg. 95.

179
di Serse (con la seguente distruzione della sua famiglia), sono
altrettante tappe. Ma, come abbiamo visto, tutti i re Persiani da Ciro a
Cambise a Dario operano inconsapevolmente, ed ognuno a suo modo,
verso la propria rovina e, nello stesso tempo, per la decadenza della
dinastia, lasciando in eredità all’ultimo re conquistatore l’ideologia
della conquista del mondo e con essa l’inevitabile scontro fatale con i
Greci. La condizione iniziale che rende i Persiani liberi dal giogo
Medo (l’ideologia di conquista) e permette l’esplicazione della loro
azione nella storia, è anche la condizione che consente il rovescio
della fortuna (ideologia dell’impero universale – impossibilità di
attuarlo). L’interesse principale di Erodoto nelle Storie è il voler
cristallizzare e mettere in luce, nei suoi vari risvolti, un periodo di
storia passata, ma che influenza ancora l’età contemporanea che il
nostro autore ha sotto gli occhi: la difficile eredità che le guerre
persiane hanno lasciato alla grecità tutta. In ultima analisi, se la causa
dello scontro tra mondo barbaro e mondo greco è nell’interferenza tra
i rispettivi spazi vitali, la regalità persiana, nell’ideologia erodotea,
non poteva che dirigersi fin dalla sua nascita verso la necessaria
disfatta. La descrizione erodotea della regalità enfatizza gli elementi di
questa ingloriosa conclusione: Erodoto neutralizza tutti gli elementi
strutturali della regalità persiana. Punto centrale di questa, come
abbiamo visto, è il suo rapporto con l’elemento divino che nelle Storie
è, per i Persiani, soltanto foriero di sventure. Infatti, i sogni dei sovrani
di Persia appaiono sempre in negativo, mai in positivo. È quasi
completamente eliminato l’elemento divino dalla storia di Ciro, che
tuttavia doveva essere presente, e Ciro stesso ne muore poiché,
ritenendosi privilegiato e guidato dagli dei, comincia a credersi
invincibile fino alla fatale battaglia in cui perde la vita. Il sovrano

180
come custode dei costumi Persiani e degli altri popoli sottomessi è
messo in crisi nella figura di Cambise, che con la sua pazzia
provocherà una crisi dinastica. La mancanza di legittimi eredi, che
permette ai magi l’atto di usurpazione, condiziona anche tutta la vita
di Dario che, per legittimare la sua regalità, sarà costretto alle azioni di
conquista. Con la frustrazione di Dario nel non riuscire a estendere
l’impero oltre i confini asiatici, Erodoto mette in crisi l’ideologia di
conquista universale dell’impero che, come abbiamo visto, influenzerà
tutta l’attività di Serse fino alla definitiva incapacità di metterla in atto
e il conseguente deterioramento dei costumi della corte achemenide.
Poco c’è in Erodoto dell’idea di quel regno apportatore di una relativa
pace in Asia, niente di quella idea di regalità come protettrice della
buona creazione di Ahuramazda delle epigrafi achemenidi.
Un’idea così negativa della regalità persiana non deve però indurci
a pensare che in Erodoto ci sia una rifiuto assoluto della regalità in
quanto tale: essa è solo un sistema passato che non appartiene più
all’orizzonte culturale greco, in quanto sistema non più attualizzabile,
che non può più fornire valori alla struttura sociale e politica. Che la
regalità in Erodoto non sia un disvalore assoluto è reso evidente
dall’immagine che egli dà della regalità degli altri popoli barbari, in
particolare degli Egiziani118. L’alterità egiziana, nel nostro autore, è
più che positiva e la cultura egiziana è più rigogliosa che mai: l’Egitto
è l’inventore dei dodici dei, delle statue, dei templi che costituiscono
altrettanti elementi della cultura greca. I Greci hanno imparato dagli
Egiziani. La regalità non è fonte di decadenza o impoverimento per
questo popolo, ma, tutto sommato, ha svolto e continua a svolgere
un’azione positiva. La negatività della regalità persiana evidenziata da
118
Cfr. Hdt. II 99 – 182.

181
Erodoto deriva dal suo scontro con la società greca e
dall’enfatizzazione che questa fa delle guerre persiane, momento in
cui si afferma la propria autonomia e nasce la sua potenza: a livello
storico, la sconfitta dei Persiani, nell’orizzonte greco, significa lo
spostamento del baricentro economico e culturale dall’Oriente
all’Occidente, rispetto ad un Oriente culturalmente ed
economicamente immobile.
La sconfitta dei Persiani verrà esaltata da parte dei Greci e così
giungerà fino a noi moderni. Dal punto di vista della storia
dell’impero, tale sconfitta è meno rilevante: storicamente l’impero non
viene distrutto con Platea (479 a.C.), l’ultima grande battaglia, ma
continuerà ad influenzare l’andamento della storia greca per molto
tempo ancora, almeno fino alla pace di Callia del 449 a.C. e anche
oltre. Questo genererà, come sappiamo, le condizioni necessarie alla
nascita dell’imperialismo ateniese con il conseguente urto con Sparta.

***

Dunque, in Erodoto, non solo Dario e Serse, ma anche Ciro e


Cambise, si inseriscano nella medesima linea di condotta politica in
un ciclo temporale che dall’ascesa porta alla grandezza e poi alla
decadenza della dinastia. Come abbiamo visto, quando compariamo il
ritratto del Serse erodoteo con i profili dei re precedenti, appare
evidente come essi siano, in un certo senso, il preludio alla figura di
questo ultimo re persiano. Dario stesso, in Erodoto, si apprestava a
compiere quanto intrapreso poi dal figlio, se la morte non lo avesse
colto d’improvviso. Anch’egli, inoltre, realizza l’azione empia di

182
aggiogare, con un ponte di navi, il Bosforo Tracio per conquistare gli
Sciti (IV 83 sgg.) e si scontra con i Greci a Maratona.
È evidente che il Dario storico non poteva biasimare Serse per nulla
di quanto vien detto nella tragedia. In Eschilo, invece, la figura di
Dario è costruita a costo di forti caratterizzazioni antistoriche119,
proprio al fine di una comparazione con il figlio e di una sanzione
dell’operato di Serse. L’idealizzazione di Dario ha, in definitiva, il
fine di creare una tensione tragica e, in tal senso è “funzionale” alla
semantica del dramma. La stessa “messa in scena” del rito
necromantico indispensabile all’evocazione dell’Ombra, rito estraneo
all’orizzonte storico dei Persiani, sarà, come vedremo, strumento
necessario al dramma sotto molteplici aspetti: scenici, simbolici e
finanche metateatrali.
Nel contrasto con Serse, già prefigurato dal sogno della Regina 120,
Dario risponde puntualmente agli atteggiamenti e alle
caratterizzazioni del figlio con modalità assolutamente contrarie e
119
Cfr., sull’idealizzazione della figura di Dario, L. Belloni, L’ombra di Dario nei
Persiani di Eschilo. La regalità degli Achemenidi e il pubblico di Atene,
«Orpheus» 3, 1982, pgg. 185 – 199, in particolare pgg. 191 – 192; G. Paduano,
Sui Persiani di Eschilo, pg. 91; M. Croiset, Eschyle. Études sur l'invention
dramatique dans son théâtre, Paris 1965, pg. 28; B. Lavagnini, L’azione
drammatica nei Persiani di Eschilo, «Athenaeum» 15/4, 1927, pgg. 295 – 301, in
particolare pg. 229; M. V. Ghezzo, op. cit., pg. 430 sgg.; W. Schmid, Geschichte
der Griechischen Literatur, 2, München 1934, pg. 204; L. Roussel, Eschyle: Les
Perses, Montpellier 1960, pgg. 256 – 365; M. H. Finley, Pindar and Aeschylus,
Cambridge 1955, pg. 215; H. D. Broadhead, op. cit., pgg. XVII – XXX; B.
Alexanderson, Darius in the Persians, «Eranos» 65, 1967, pgg. 1 – 11, passim; J.
De Romilly, Eschyle, Les Perses. Edition, introduction et commentaire par un
groupe de Normaliens sous la direction de J.D.R., Paris 1974, passim; D. J.
Conacher, Aeschylus’ Persae. A Literary Commentary, in J. L. Heller, J. K.
Newman (eds.), Serta Turyniana: Studies in Greek Literature and Palaeography
in honor of Alexander Turyn, Urbana, Chicago, London 1974, pgg. 143 – 168, in
particolare pgg. 147 e 166.
120
La scena onirica è figura, attraverso un modulo anticipatorio che ormai ci è ben
noto, di quanto poi effettivamente avviene nella tragedia: il giudizio di Dario
sull’operato di Serse.

183
opposte. Dario è \macoj121, non è mai stato sconfitto, non ha mai
perso il potere sulle terre dell’impero122. Addirittura tra i morti egli
esercita questa auctoritas123 e al ritorno tra i vivi il suo rapporto con i
sudditi non è mutato124.
Su un piano diverso, il contrasto tra Dario e Serse viene tradotto nei
termini di una cecità conoscitiva: a confronto con il padre che è
definito qeomÔstwr125, divino consiglio, e che «imperava con la
saggezza»126, è presentato un Serse che «tutto compì stoltamente»
(dusfrónwj)127 e che «non pensava saggiamente» (9ste mè
froneîn kalÏj)128. Nella genealogia achemenide, le frénej
vengono richiamate quali elementi paradigmatici di buon governo: sia
per il successore anonimo di Medo, per il quale «il pensiero bene
reggeva il suo cuore» (frénej gàr a÷toû qumòn
oêakostrófoun)129, sia per Ciro, infatti «un dio non gli fu ostile,
poiché era saggio» (e5frwn)130. La Saggezza è un elemento
importante nella definizione della regalità persiana, è dono divino e
codifica quel legame che esiste tra Ahuramazda e il sovrano. Serse,
che non pensa saggiamente, ha rotto quel legame con la divinità, in
opposizione al padre e ai predecessori che, invece, nella descrizione
eschilea, l’hanno sempre conservato.

121
Cfr. vv. 653; 656; in particolare il v. 855.
122
Cfr. vv. 858 – 863.
123
Cfr. vv. 691 – 692.
124
Cfr. vv. 694 – 696; 703.
125
Cfr. vv. 654 – 655.
126
Cfr. v. 900.
127
Cfr. v. 552.
128
Cfr. v. 725; cfr. anche vv. 750 – 751.
129
Cfr. v. 767. Il passo mette in relazione buon governo e dominio dei propri
pensieri per cui cfr. DNb 11 – 15 (KENT, 138) citato nel capitolo precedente.
130
Cfr. v. 772.

184
Nelle parole di Atossa, come abbiamo già accennato, l’3lboj
elevato da Dario per mezzo del favore divino si oppone all’effimero
ploûtoj di Serse, che impolvera al suolo dopo la sconfitta. La
Regina teme che proprio questo ploûtoj eccessivo abbia vanificato
3lboj131 di Dario. In Omero, i due termini spesso sono associati132,
ma l’origine dell’3lboj è diversa, palesemente divina, esso proviene
direttamente da Zeus133. Il ploûtoj nei Persiani rappresenta spesso
una ricchezza ammassata in casa (vv. 168, 237), una prosperità
tutt’altro che definitiva, estemporanea (v. 842). Anche nell’Aggelia è
attivo il binomio ploûtoj / 3lboj134 che sarà ripreso, nella nota
modalità di richiami interni al testo, dalle parole di Dario 135. Parimenti
attraverso questo binomio si può leggere una contrapposizione tra il
vecchio re e l’attuale: Serse, pur avendolo ereditato, non ha saputo
incrementare 3lboj di Dario; esso è «un attributo intrinseco alla
regalità (cfr. il v. 709), è uno stato di grazia al quale il sovrano
dovrebbe concorrere con il suo apporto (v. 756), o quanto meno con la
sua azione difensiva (vv. 824 - 826)»136; d’altra parte, Dario, che ha
superato in 3lboj tutti i mortali con sorte favorevole (v. 709),
testimonia un rapporto preferenziale con la divinità, origine di un
“benessere” per se stesso e per il regno, che completa il suo statuto di
sovrano; la perdita da parte di Serse del favore del dio, causa della

131
Cfr. vv. 163 – 164.
132
Cfr. Hom. Il. XVI 596; XXIV 535 – 536; Od. XIV 205 – 206.
133
Cfr. Hom. Od. VI 188 e anche III 208; IV 207 – 208; XVIII 19. Solone invoca
3lboj dalle muse, ma distingue comunque tra un ploûtoj che deriva dagli dei e
quello desiderato dai mortali attraverso la violenza, la hybris (Sol. 13, 3 – 4, 9 –
13 W2) causa sovente di sventura. Cfr. L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. 120.
134
Cfr. vv. 249 – 252.
135
Cfr. vv. 750 – 756 in cui viene messo in rapporto, questa volta, il ploûtoj di
Dario con il mancato 3lboj di Serse.
136
Cfr. L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. XIX.

185
distruzione del ploûtoj, lo priva di uno degli elementi fondamentali
che definiscono la sua condizione regale.
Quando Serse finalmente appare in scena137, è ormai ben diverso
dal sovrano potente, orgoglioso e impetuoso che la Parodo e l’Aggelia
ci avevano fatto conoscere. Il suo arrivo è in acuta opposizione con
l’immagine della regalità persiana, ben rappresentata nei suoi tratti
essenziali dal Coro, da Atossa, da Dario e dalla rievocazione dei re
predecessori. Nel corso della tragedia, infatti, i rappresentati più
eminenti della casa reale richiamano, a più riprese, i tratti peculiari
della monarchia: il dominio dell’Uno sui Molti138; l’assolutismo del
monarca e la sottomissione a lui dovuta da parte dei popoli che
versano il tributo139; il possesso persiano dell’Asia 140; l’investitura
divina del sovrano attraverso il simbolo dello scettro 141; la
proschinesi142; la saggezza del sovrano143; l’arco quale arma
d’eccellenza del re.
Anche nell’“inchiesta” di Atossa su Atene, le domande della Regina
e le risposte del Coro gettano indirettamente luce sui principali
caratteri dell’assolutismo monarchico, attraverso il paragone con
Atene144 e attraverso il tentativo di attribuzione alla polis di categorie
persiane. La monarchia concepita dalla Regina per Atene rende
evidente la volontà del poeta di proiettarsi in una realtà aliena. I
quesiti della regina vertono: sul numero degli uomini che
compongono l’esercito della città (la moltitudine è per Eschilo valore
137
Cfr. v. 907.
138
Cfr. vv. 24; 58; 85; 550; 213 – 214; 765; 773; in particolare 762 – 763.
139
Cfr. vv. 585 – 586.
140
Cfr. vv. 762 – 763.
141
Cfr. v. 764.
142
Cfr. vv. 152; 588.
143
Cfr. v. 772.
144
Cfr. vv. 231 – 245. Cfr. L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pgg. XX – XXI.

186
perno della regalità); sulla ricchezza da essi posseduta (ancora lo
stereotipo della prosperità dell’impero); sull’utilizzo dell’arco; su chi
sia il loro signore – nella sua concezione dello stato-regno, esiste solo
il governo di uno su molti; dalla sua ottica regale, la Regina non
comprende come possa resistere all’assalto del nemico chi non è
guidato da nessuno, tanto che rimane stupita dalla risposta del Coro
«di nessuno di dicono schiavi né sudditi di un uomo».
Serse si presenta al Coro, dunque, con la faretra vuota, essa ben
rappresenta, oltre che in termini simbolici, anche in termini visivi la
perdita delle prerogative del sovrano persiano quali sono attestate dai
rilievi rupestri, che spesso ritraggono il Re dei Re con l’arco in
mano145; in antitesi, Dario è tóxarcoj.
Ancora, Dario è detto: ÞblabÔj146, letteralmente “che non infligge,
né subisce danno”, “immune ai mali”; è invocato, anzi, come unico
rimedio dei mali presenti147; per due volte, è definito páter \kake148,
o semplicemente Þkákaj149. Tutte queste definizioni corrispondono
in positivo: ai kaká neókota, inflitti da Serse al popolo persiano,
con la sua hybris150; al “baratro di mali” del v. 712; alla quantità del
male prodotto dall’azione di Serse, «quanto male egli fece»151,
«realizzò questi mali»152, e così via. Di contro, Dario non recò mai
«un male tanto grande alla città»153.

145
Per esempio il rilievo dell’iscrizione di Behistun.
146
Cfr. v. 555.
147
Cfr. vv. 631 – 632.
148
Cfr. vv. 662 e 671.
149
Cfr. v. 855.
150
Cfr. v. 256.
151
Cfr. v. 726.
152
Cfr. v. 744.
153
Cfr. v. 781.

187
Ancora, Serse si presenta al Coro, come abbiamo visto, con la veste
stracciata. L’ignominia delle vesti, ben sottolineata da Atossa154, si
oppone sotto molteplici aspetti all’epifania di Dario, che al contrario si
presenta con tutti gli attributi regali: il sandalo tinto di croco e la tiara
regale, prerogativa del solo sovrano155. Questi sono elementi che
normalmente vengono associati, nel costume persiano, all’idea stessa
di regalità: il monarca è tale anche per la sua veste, la regalità abita
quella immagine e coincide con essa. Nell’orizzonte persiano, per il
Re dei Re apparire con gli indumenti lisi e logori era una terribile
degradazione. Un seguito splendente lo accompagnava sempre, le sue
vesti erano le migliori e le più costose che si potessero reperire: un re
senza questa bardatura era inconcepibile156. Dario incarna una realtà
opposta a quella di Serse, Dario che agì bene, che seppe inserirsi nella
tradizione, fino a diventarne il massimo esponente, si presenta con la
tiara, segno visibile della regalità, mentre Serse è privo di quella veste
preziosa che dovrebbe attestare la sua dignità: altro segnale simbolico
e visivo del venir meno dei sui onori e del suo carisma di sovrano 157.
Ex iure, i due sovrani partono dai medesimi privilegi e dagli stessi
attributi regali e, quando la hybris manifesta la sua negatività, una
diversa immagine mette in contrapposizione il re attuale e il re suo
predecessore. Nella prima parte della tragedia, i titoli di Serse sono gli
stessi che saranno, in seguito, attribuiti a Dario.

154
Cfr. v. 847.
155
Cfr. vv. 660 – 661. Cfr. Suida, s. v. tiára; Hesych. t 836 Schmidt: tiára< Ó
legoménh kurbasía. taút+ dè oë Pérsai basileîj mónoi æcrÏnto ðeqØ
oë dè strathgoì øpokeklimén+; Hdt. VII 61,1.
156
Cfr. H. D. Broadhead, op. cit., pgg. XX – XXI.
157
Cfr. sull’argomento L. Belloni, L’ombra di Dario nei Persiani di Eschilo, pg.
190. Il medesimo valore è riconosciuto ai simboli del potere regale anche in Hdt.
VII 15.

188
In primis, è caratterizzante la citazione del titolo regale achemenide:
Serse è chiamato “Gran Re” (cfr. v. 25: basilÖj basiléwj 0pocoi
megálou; Dario è evocato in qualità di “Re dei Re” (cfr. v. 666:
Déspota despotân)158, in più, nelle parole del coro egli è «il solo
vero sovrano»159.
Di rilevante importanza, come abbiamo visto, anche il nesso
êsóqeoj fÍj attribuito a Serse160 e ripreso anche per Dario161.
Ugualmente, Atossa è definita compagna di un dio dei Persiani e
madre di un dio162. Come è noto, i re persiani non erano venerati dal
loro popolo come dei, al modo, ad esempio, dei faraoni egiziani. Ma
dal punto di vista greco, l’immagine dei sovrani Achemenidi doveva
apparire molto prossima a quella che i Greci avevano dei loro dei 163: la
proschinesi, l’oro, il lusso, la potenza, i modi di vita dovevano
apparire quasi divini agli occhi degli Elleni. Tale paragone, come
abbiamo visto sopra, è reso evidente da Erodoto dalle parole di un
abitante dell’Ellesponto: «Si narra allora che, mentre Serse aveva già
attraversato l’Ellesponto, un Ellespontiaco disse: «O Zeus, perché
prendendo l’aspetto di un Persiano e sotto il nome di Serse invece che
di Zeus vuoi mettere sossopra la Grecia, conducendo con te tutti gli
uomini? Anche senza di loro tu avresti potuto fare ciò»164.

158
Entrambi i titoli sono conformi a allo status del sovrano enunciato in DB I 1 –
3 (KENT, 116): «Io sono Dario, il Gran Re, Re dei Re, Re in Persia, Re di
Regioni»
159
Cfr. v. 651.
160
Cfr. v. 80.
161
Cfr. v. 856; êsodaímwn basileùj al v. 633; qeomÔstwr.
162
Cfr. v. 157.
163
Sulla medesima linea, ad esempio, le parole di Isocrate (Paneg. 151): i Persiani
«si prostrano a terra e si umiliano in ogni modo, fanno atto di adorazione a un
mortale e lo chiamano dio, tenendo in minor conto gli dei degli uomini».
164
Cfr. Hdt. VII 56, 2.

189
Il rilievo della divinità dei re persiani è sicuro segno di hybris, essa
li accomuna, nell’immaginario greco, alle figure degli eroi della
tradizione segnati, in positivo o in negativo, da una straordinarietà
sovrumana165. Ma analizzando la tragedia di Eschilo, in cui vi è lo
sforzo di assumere un’ottica persiana, non possiamo esimerci dal
valutare il tutto da un punto di vista regale. Se nelle fonti persiane non
è attestata una divinizzazione del sovrano, vi è però l’affermazione di
una investitura divina, ideologia peraltro ben testimoniata anche nella
tragedia166 eschilea. In questa prospettiva, êsodaímwn basileùj,
êsóqeoj e qeomÔstwr, Persân SousigenÖ qeón potrebbero
rappresentare una alterazione di quella ideologia e, nello stesso tempo,
richiamarla. Di conseguenza, la divinità dei re in Eschilo sottintende il
favore conferito dal dio al sovrano167. Il fine è quello di esasperare
l’eccezionale figura di Dario e nello stesso tempo porre sulla scena la
perdita di quella prerogativa da parte di Serse. L’ordito della tragedia
va in questo senso: la hybris, l’inganno divino, il costante riscontro
dell’azione e dell’ostilità della divinità, l’abbandono dell’esercito da
parte di un dio ecc. La perdita del favore del dio, l’immagine di una
potenza difesa e appoggiata dalla benevolenza ultraterrena, delineano i
tratti di una monarchia non conservati da Serse, ma inerenti il regno
del padre.
Dario, dall’alto dei sui attributi, si erge a pietra di paragone
dell’operato del figlio e si pone quale giudice della sua empia
condotta. L’azione sfortunata di Serse, per esempio, è sottesa a tutto il
165
Cfr. in generale A. Brelich, Gli eroi greci. Un problema storico-religioso,
Roma 1958, passim; L. Marchetta, op. cit., pg. 139.
166
Cfr. Dna 1 – 8 (KENT, 137): «Un gran dio è Ahuramazda, che creò questa
terra, che creò lassù il cielo, che creò l’uomo, che creò la felicità per l’uomo, che
fece Dario re, un re di molti, un signore di molti». Cfr. Pers. vv. 762 – 763.
167
Cfr. L. Belloni, L’ombra di Dario nei Persiani di Eschilo, pg. 190.

190
rito di evocazione dell’Ombra di Dario168; Serse, dopo il racconto del
Messo, era stato chiamato per nome per tre volte169, invocato quale
guida (dell’esercito), quale causa della morte dei giovani Persiani e
quale autore della sconsiderata (vedi dusfrónwj del v. 552) impresa
con le navi sul mare. Ora diventa oggetto di paragone. Anche Dario,
infatti, è evocato con il triplice appellativo di Dariana e le tematiche
esposte sono le stesse, ma invertite di segno per il sovrano
irreprensibile: «ed era realmente qeomÔstwr, poiché bene guidava
l’esercito»170; «[…] non una volta aveva perduto uomini con folli
disegni recanti distruzioni di guerre»171; «una tenebra stigia volteggia
su noi, poiché ormai tutti i giovani sono perduti»172;«a questa terra
tutte le triremi sono andate perdute»173. In un’ottica che privilegi il
campo persiano, Serse, in quanto re e successore, dovrebbe essere un
nuovo Dario; occupa il suo ruolo, dovrebbe raccoglierne l’eredità.
Ogni comportamento di Serse è valutato rispetto al modello del
predecessore, il senso ultimo è: se Dario ha trionfato e Serse ha,
invece, fallito, questo dipende tanto dalla hybris verso il divino,
quanto dal tradimento di un ethos, di una tradizione che, al contrario,
aveva sempre rispettato i dettami della Moira.
Dall’incolmabile distanza dei suoi meriti e del suo attuale statuto
sovrumano, Dario, in qualità di esegeta, giudice e veggente, interpreta
formalmente gli eventi occorsi. Proprio come in un processo, Dario in
primis chiede ragguagli sulla calamità: «in quale modo? Un flagello di

168
Cfr. vv. 623 – 680.
169
Cfr. vv. 548 – 558.
170
Cfr. vv. 645 – 646.
171
Cfr. vv. 652 – 653.
172
Cfr. vv. 669 – 670.
173
Cfr. vv. 677 – 678.

191
peste ha colpito la città? una discordia interna?»174. Appreso che la
potenza dei Persiani è stata distrutta dall’annientamento dell’armata,
chiede chi sia il colpevole: «Dì quale dei miei figli era là, al comando
dell’esercito»175. Dopo aver udito il nome di Serse, domanda
chiarimenti sullo svolgimento dell’accaduto e, venuto a conoscenza
della costruzione del ponte di navi, riconosce l’azione di un dio
malevolo che ha privato Serse della saggezza 176. Identifica la
situazione attuale quale esito di annosi oracoli e individua nel giogo
gettato da Serse sull’Ellesponto la colpa di aver voluto sfidare la
divinità177. Viene fatto il nome di Zeus per la prima volta, quale
artefice dell’inganno e del mutamento di fortuna: «Zeus ha fatto
cadere su mio figlio l’esito dei vaticini»178. Ma subito, viene
riconosciuta la colpa, tutta umana, del figlio: «ma quando uno, di per
sé, si affretta, anche il dio lo asseconda»179. A questo punto, sono
indagate le motivazioni che portarono Serse a compiere cotanta
sciagura e sono presentate le circostanze attenuanti: l’ardore dell’età
giovanile, per colpa della quale Serse Qoúrioj realizzò tutti questi
mali180, l’eredità dinastica e l’ansia verso la conquista, per cui Serse in
nulla accresceva l’3lboj del padre; l’intervento esterno di uomini
malvagi, che lo biasimavano, perché solo “in casa” brandiva la lancia;
la volontà divina, che ha deviato la mente del figlio 181. È poi
presentata la sentenza, Serse è colpevole: «Pertanto da lui è stato
compiuto un disastro immane, indimenticabile, quale mai ebbe ha
174
Cfr. v. 715.
175
Cfr. v. 717.
176
Cfr. vv. 719 – 726.
177
Cfr. vv. 739 – 750.
178
Cfr. v. 740.
179
Cfr. v. 742.
180
Cfr. v. 744.
181
Cfr. vv. 749 – 758.

192
colpire e svuotare la città di Susa»182. La colpevolezza è decifrata,
spiegata e interpreta, inquadrandola nella tradizione regale persiana. Il
catalogo genealogico dei sovrani Persiani, in cui sono passati in
rassegna i crismi indispensabili alla regalità persiana, individua in
Zeus l’origine della monarchia183 e la legittima successione a cui
Dario appartiene. A Zeus si devono i successi e gli obiettivi colti dai
re achemenidi più importanti, proprio come la tradizione achemenide
riconduce ad Ahuramazda l’investitura del re e la legittimità delle sue
azioni. La fisionomia giuridica dell’istituzione monarchica è completa
e ha lo scopo di enunciare un nomos persiano184. I principali esponenti
citati sono: Medo, l’eponimo, che per primo riceve l’investitura
divina185, che abbiamo visto ben attestata nella documentazione
achemenide. Poi suo figlio, anonimo: egli portò a compimento l’opera
di conquista (l’unità della Persia in senso stretto) iniziata dal padre, «il
pensiero bene reggeva il suo cuore»186. Come sottolineano Bianchi187
e Belloni188, queste due prerogative trovano puntuali risconti nei testi
achemenidi: «l’Þnúein di Eschilo è infatti il condurre a compimento,
il perfectum, il Kartam proprio del sovrano e sua ambizione

182
Cfr. vv. 759 – 760.
183
Cfr. vv. 762 – 764.
184
Il catalogo, come è noto, non è storicamente esauriente. Il fine di Eschilo, non
è tanto quello di proporre un elenco completo dei sovrani achemenidi, quanto
richiamare i tratti distintivi di una legittimità dinastica. Cfr. L. Belloni, Eschilo. I
Persiani, pgg. XXIII – XXIV; H. D. Broadhead, op. cit., pgg. 278 – 280; W.
Kranz, op. cit., pgg. 94 – 98; S. Saïd, Darius et Xerxes dans les Perses d’Eschyle,
«Ktema» 6, 1981, pgg. 17 – 38, in particolare pgg. 36 – 38; A. Sidgwick,
Aeschylus, Persae, Oxford 1903, pgg. 62 – 64.
185
Cfr. v. 765.
186
Cfr. v. 767.
187
Cfr. U. Bianchi, Eschilo e il sentire etico – religioso dei re persiani, in E.
Livrea, G. A. Privitera, Studi in onore di Anthos Ardizzoni, 2, Roma 1978, pgg. 63
– 72, in particolare pg. 69.
188
Cfr. L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. XXIV.

193
primaria189, il richiamo alla saggezza190, alle frénej, rafforza
l’autorità sovrana e la sostiene nel suo esercizio»191. Terzo è Ciro il
Grande, e÷daímwn ÞnÔr192, che, grazie al legame con il dio che gli
garantisce la saggezza, riuscì a espandere l’impero oltre i suoi confini
e a garantire la pace. L’E÷daimonía e l’e÷frosúnh sono i
presupposti dell’Ordine che Ciro riesce a realizzare per il suo
popolo193. Per quarto, è citato Cambise in forma anonima, come
“reggitore del popolo”. Possiamo notare che tutti i tratti sottolineati
per i sovrani del passato, richiamano la figura di Dario così come
l’abbiamo analizzata. Rimangono esclusi dalla corretta successione
dinastica Serse e Mardo-Smerdis, che in un certo senso lo prefigura.
Mardo è «infamia alla patria e al trono antico»194. Principali fonti della
sua vicenda sono l’iscrizione di Behistun ed Erodoto (III 1- 38; 61 -
88)195, da entrambe si evince l’intervento ordinatore di Dario, teso a
restaurare la legittimità della successione. Ricordiamo che in Erodoto
l’azione dei congiurati e la conquista del trono – un po’ per fato, un
po’ per ingegno – ottengono una sorta di palacet divino. Dario e i

189
È uno dei concetti più diffusi nei testi achemenidi. Cfr. R. G. Kent, Old
Persians. Grammar, Texts, Lexicon, New Haven 1953, pg. 179. Cfr. anche U.
Bianchi, Eschilo e il sentire etico - religioso dei re persiani, pg. 72 n. 26.
190
Cfr. DNb 11 – 15 (KENT, 138): «Ciò che è giusto, questo corrisponde al mio
desiderio. Io non sono amico all’uomo che è seguace della menzogna. Io non sono
violento. Quanto provoca la mia ira io lo tengo fermamente sotto controllo con il
potere del mio pensiero. Io domino con sicurezza i miei (impulsi)».
191
Cfr. L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. XXIV.
192
Cfr. Xen. Cyr. VIII 7, 6; Hdt. III 89,3
193
L. Belloni, scorge nell’Ordine costruito da Ciro gli attributi di Arta, l’Ordine
Giusto, dal quale derivano al sovrano felicità e saggezza. Cfr. XPh 51 – 6 (KENT,
151): «l’uomo che ha rispetto per questa legge che Ahuramazda ha stabilito e che
adora Ahuramazda e Arta secondo il rito, è lieto quando è in vita e beato dopo la
morte»; DB V 18 – 20 (KENT, 133). Cfr. U. Bianchi, L’inscription «des daivas»
et le Zoroastrisme des Achéménides, RHR 192, 1977, pgg. 3 – 30, pgg. 7 – 8.
194
Cfr. vv. 774 – 775.
195
Per un paragone tra le due fonti cfr. R. N. Frye, The History of Ancient Iran,
München 1984, pgg. 98 – 102.

194
congiurati, di fatto, eliminano dalla genealogia persiana una presenza
inaccettabile, tuttavia Dario non adegua, nelle parole del poeta, la sua
condizione a quella dei cospiratori, piuttosto allo statuto dei suoi
predecessori, come è evidente nella chiusura del catalogo. Comunque,
anche la regalità di Mardo, per la quale il poeta non nega apertamente
un fondamento legittimo, pur prefigurando quella di Serse per
l’infamia al trono antico (= alla tradizione dei predecessori), se ne
distacca nel comune richiamo a tutti i detentori del potere: «noi tutti,
che abbiamo detenuto, questo potere, è chiaro che non potremmo
apparire autori di sciagure tanto gravi»196. Come l’idealizzazione di
Dario non può essere valutata, se non nel confronto con il figlio,
ugualmente, l’excursus genealogico risponde a un disegno del poeta
teso al paragone con Serse e alla sua esclusione dall’ethos regale
persiano. Tale estromissione ha il suo peso nell’economia del
dramma, associandosi, poco dopo, alla condanna dell’azione empia di
Serse come hybris. Se una parte della punizione, per tutti questi errori
del re qoúrioj, è già stata scontata nella disfatta di Salamina, il mali
sono tutt’altro che esauriti. Infatti, Dismisura «sbocciando, suole
produrre una spiga di rovina, da cui miete un raccolto di molte
lacrime»197 e quel raccolto, nelle parole oracolari di Dario, è la futura,
grande «libagione di sangue versata nella terra di Platea dalla lancia
doriese»198: l’ulteriore scotto che attende i Persiani per volere di Zeus,
«punitore di oltracotante sentire» che «incombe, giudice tremendo»199.
L’unica soluzione che Dario indica per il futuro è l’astenersi
dall’invadere la Grecia.

196
Cfr. v. 785.
197
Cfr. vv. 821 – 822.
198
Cfr. vv. 816 – 817.
199
Cfr. vv. 827 – 828.

195
Da quanto detto, si intuisce come i temi della hybris, dell’inganno
divino e l’enunciazione del nómos regale persiano abbiano permesso a
Eschilo di intersecare la sapienza greca e la tradizione barbara.
L’arrivo dell’Ombra, infatti, giudica il mancato rispetto della norma
divina, osservata dai Greci in base all’insegnamento delfico di
moderazione, ma osservata anche dai re Barbari, nella cui tradizione la
saggezza e il buon pensiero del sovrano, indice del benestare divino,
sono garanzia di protezione e fioritura.
Dunque, la costante diacronica che lega Dario a Serse è l’esercizio
del medesimo potere, partendo dagli stessi attributi: l’esito differente è
prova che Serse ha esercitato questo potere in modo non consono,
peccando di hybris e allontanandosi dalla tradizione.
È importante sottolineare, a questo punto, che la regalità persiana,
così come è stata descritta dai più alti esponenti della monarchia, è
sconvolta nei suoi elementi fondanti. Nonostante Atossa dichiari che,
se anche fosse sconfitto, Serse non sarebbe responsabile verso nessuno
«e, una volta salvo, come prima è sovrano di questa terra»200, è chiaro
che il sistema di valori persiani subisce una grave crisi e che i tratti
della regalità sono ormai cancellati dall’immagine di Serse. Egli si
presenta in scena ormai privato dei suoi attributi di sovrano, attributi
necessari affinché il ritratto del Gran Re sia riconosciuto nella
interezza del suo potere. Egli ha perso ormai l’investitura divina e
anche la tradizione persiana sconfessa il suo operato. Il suo lamento
finale, alternato a quello del Coro, non rappresenta un segno di
debolezza in senso lato, né una ridicolizzazione dell’istituto regale, ma
integra semplicemente la visione del sovrano sbaragliato, schiacciato e
umiliato, già annunciato dalle parole degli altri personaggi.
200
Cfr. vv. 213 – 214.

196
Quanto detto fino ad ora conferma pienamente la volontà del
tragediografo di assumere un’ottica persiana e di penetrarne i caratteri,
ma non dobbiamo dimenticare che egli parla pur sempre a un popolo,
quello degli ateniesi suoi contemporanei. Comunque, solo assumendo
una prospettiva barbara egli può delineare con caratteri più che
positivi il regno di Dario e contrapporlo all’impero di Serse, alterando,
come abbiamo visto, realtà storiche ben note agli Ateniesi stessi.
Dario, dunque, si inserisce nella serie dinastica persiana, mentre
Serse se ne allontana per colpa dei suoi errori: nella prospettiva
persiana della tragedia, la hybris di Serse è ancora più grave poiché la
colpa non si può ascrivere a nessuno dei suoi predecessori, ma ricade
unicamente su di lui.
La legge, l’ordine creato da Zeus e la pace di Ciro, costruita con la
saggezza e il benestare divino sono i massimi ideali espressi nella
tragedia e, nonostante le differenze ben note, divengono base di
raccordo tra Oriente e Occidente201. Pur tuttavia, essi rappresentano
nella sintassi della tragedia un equilibrio perduto, violato dall’azione
empia di Serse che catapulta l’impero in un profondo stallo.
Nell’evenienza della crisi, il poeta prefigura, l’abbiamo visto, l’ipotesi
più fosca e antistorica: l’idea che la rovina si propaghi dall’esercito a
tutto il regno e che si frantumi il giogo di forza (zugòn Þlkâj),
diventando un tornado inarrestabile che spazzi via l’ordinamento
autocratico dell’impero202. La storia ha comunque dei vincoli, e per
quanto Eschilo ci presenti un passato idealizzato e una
contemporaneità persiana in cui il monarca appare privato dei suoi
tratti caratterizzanti e depotenziato nel suo ruolo (nulla trascurando il

201
Cfr. L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. XXXVI.
202
Cfr. vv. 584 – 594.

197
poeta «ad summam Xerxis miseriam declarandam»203), egli non può
certo dimenticare che Serse è ancora re204 e che l’impero Persiano,
parlando storicamente, non è arretrato di un passo. Se la tragedia è
destinata a un pubblico ateniese e ha come fine ultimo quello di
riaffermare e di confermare continuamente i valori del cosmo
democratico ateniese, è necessario, alla luce di quanto finora detto,
interrogarsi sul fine ultimo del messaggio eschileo e sulle modalità
con cui egli rende eloquenti gli eventi messi in scena. Qual è il senso
della rievocazione di un passato aureo persiano, della
rappresentazione della sconfitta persiana, della messa in scena di una
regalità, che nella realtà storica contemporanea, è ben lungi dall’essere
stata annientata?
Nell’economia della tragedia, per un momento il trono achemenide
ha vacillato e se non è stato annientato, è sicuramente stata intaccata
l’iniziale ambizione di onnipotenza. Come abbiamo visto, Serse
usando l’autorità contro il divino, ha messo in crisi il concetto stesso
di potere, mettendo in forse l’ordine stesso del Cosmo su cui tale
concetto riposa e da cui dipende, sia da un punto di vista greco, sia
persiano. In questi termini, si comprende ulteriormente il conflitto con
Dario, che invece, è presentato come garante dell’ordine divino205.

203
Cfr. Aeschyli Tragoediae quae supersunt ac deperditarum Fragmenta,
recensuit Ch. G. Schütz II, Persae et Agamemnon, Hale 1784, comm. ad vv. 1076
– 1077, citato da L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. 267.
204
Si ricordino ancora le parole con cui Atossa sottolinea proprio che, nonostante
la sconfitta, il figlio resterà comunque il detentore del potere. Anche l’Esodo della
tragedia è in questa linea, ricongiungendo, nel comune cordoglio, Serse al Coro ed
evitando, in tal modo, uno, storicamente impossibile, annullamento della
monarchia persiana. Cfr. L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pgg. 266 – 267.
205
Il Dario eschileo, nota Paduano (Sui Persiani di Eschilo, pgg. 93 e 101), si
muove all’interno dell’orizzonte simbolico di Zeus, in primo luogo, perché
presentato quale esegeta degli oracoli divini e, infine, quale dio, quale re, quale
padre irreprensibile, quale giudice.

198
Serse, in effetti, si comporta come se fosse un dio, sfida Poseidone,
imponendo anche a lui il giogo che, per altri versi regge l’impero206,
cosmicizza il territorio, modificandolo anche geograficamente: unisce
con il ponte di zattere due sponde di terra che sono naturalmente
separate207. Serse, in definitiva, tenta di invertire a proprio vantaggio
una gerarchia (divino – umano; immortale – mortale), la gerarchia
universale del Cosmo208.
Serse agisce come se fosse onnipotente, confidando nel numero,
nella varietà e nella ricchezza; agisce come se non esistesse alcuna
norma culturale, non solo da un punto di vista greco, ma anche in una
prospettiva persiana. L’azione di Serse, nel confronto con la figura
idealizzata del padre e con il suo buon governo, manifesta tutta la sua
empietà, facendo venir meno le coordinate culturali, siano esse greche
o barbare, grazie alle quali si comprende ciò che è lecito perseguire.
Nella tragedia eschilea c’è il tentativo di sussumere i fatti sotto
un’ottica aliena e questo modus operandi è ricco di conseguenze.
Nella prospettiva persiana della tragedia, Eschilo individua in Dario
un testimone dell’esistenza, anche nell’alterità regale, di coordinate
culturali che permettono il benessere e il buon governo. Dario, in altre
parole è il testimone dell’esistenza di quei valori, di quelle regole di
cultura a cui un uomo, e anche un monarca, deve continuamente

206
In Erodoto, addirittura, fa frustare per trecento volte il mare e ordina di buttare
nelle sue acque alcuni ceppi. Cfr. Hdt. VII, 35; cfr. M. Rocchi, Serse e l'acqua
amara dell'Ellesponto (Hdt. 7,35), in Perennitas. Studi in onore di Angelo Brelich
promossi dalla Cattedra di Religioni del mondo classico dell'Università degli
Studi di Roma, Roma 1980, pgg. 417 – 429; sulla figura di Serse in Erodoto, cfr.
anche della stessa autrice La ritualizzazione del passaggio di Serse in Grecia.
Appunti per una lettura erodotea, C&S 74, 1980, pgg. 100 – 105.
207
In Erodoto, oltre a costruire il ponte di navi, Serse scava un canale intorno al
monte Athos. Cfr. VII 22 – 24.
208
G. Paduano, Sui Persiani di Eschilo, pg. 101.

199
rapportarsi per orientare le proprie azioni. Coordinate culturali che in
vita Dario avrebbe seguito e che, invece, sono state disattese dal figlio.
Il pensiero di onnipotenza, infatti, nasconde il rischio di sprofondare
nel caos, sotto la maschera della moltitudine invincibile.
Da quanto detto fino a questo momento, possiamo tirare alcune
prime sommarie conclusioni.
In primo luogo, riconosciamo nella tragedia Persiani l’esistenza
simultanea di tre punti di riferimento spazio – temporali che
interagiscono tra loro:

 La dimensione persiana contemporanea a Serse.


 La dimensione persiana contemporanea all’Ombra di Dario e
ai re del passato.
 La dimensiona contemporanea degli spettatori Ateniesi.

Le prime due dimensioni sono messe in stretto paragone, attraverso


il confronto tra la figura di Dario e quella di Serse e tra i valori di cui
essi si fanno rispettivamente portatori: un cosmo di valori votato
all’eccesso in senso negativo, quello rappresentato da Serse; un cosmo
di valori, quello espresso dalla immagine di Dario 209, che aderisce a
tutti i crismi della tradizione, che custodisce tutti i tratti benefici e
209
Veggente; esegeta degli oracoli divini; divino consiglio; padre irreprensibile,
esente da mali; in tutto provvido; senza colpa; invincibile o, meglio, invitto; dio in
vita e in morte; re, la cui auctoritas ha tanto valore nel mondo infero, quanto ne
aveva tra i vivi; demone illustre, il cui eguale mai ha calpestato terra persiana;
anima diletta; il solo vero sovrano; non ha mai perduto uomini con folli disegni di
guerra; irreprensibile guida dell’esercito; Re dei Re; superò in felicità tutti i
mortali con sorte propizia; ha trascorso simile a un dio una vita beata; quando
dominava il paese, i Persiani ebbero in sorte un buon governo grande e splendido,
con eserciti gloriosi, i cui ritorni dalla guerra erano felici, con prospere case, con
consuetudini salde come torri, con uomini immuni da fatica e da sofferenza;
imperava con saggezza.

200
favorevoli immaginabili per una monarchia, ma che, in ultima analisi,
appare votato a un eccesso opposto, in senso positivo, tanto “aureo”
da divenire cosmo impossibile, come impossibile è il ritorno all’epoca
aurea per i Greci. Nella loro unilateralità, nel loro essere personaggi a
“una sola dimensione” 210, i due sovrani ci mostrano, amplificata fino
all’esasperazione, una immagine univoca di se stessi, veicolo di idee e
valori talmente assoluti e opposti da divenire simboli esemplari.
Qui risiede, a nostro avviso, il vero conflitto tragico del dramma, in
un’antinomia che non trova soluzione, uno scontro di opposti valori
che si pongono come assoluti e inconciliabili, presupposti di una
situazione che non consce compromessi: non il pathos, non l’intento
encomiastico, patriottico e auto-celebrativo, non lo scontro di civiltà,
non il messaggio etico intrinseco all’idea della hybris e della sua
punizione – per quanto tutti elementi ben presenti nel dramma –
rappresentano il tragico nei Persiani. La metabasis, il capovolgimento
di sorte fuori campo è costantemente attualizzato da tutti i personaggi
della tragedia, attraverso una continua comparazione tra l’attuale
mutamento di fortuna e un passato di grandezza e di benessere.
Quanto più alto, bello e positivo è rappresentato il passato, tanto più
tragica appare la situazione presente. La distanza tra le due dimensioni
temporali, per essere tragica, deve essere assoluta. Dario chiarisce,
infatti, l’entità del mutamento, attraverso il rimando alla tradizione e
lo sancisce come non ancora esaurito, preannunciando agli sconfitti
ulteriori sofferenze nella battaglia di Platea. Dunque, attraverso un
contrasto tutto interno alla regalità persiana, in una focalizzazione
drammatica decisamente aliena, possiamo individuare la vera
katastrofÔ del dramma: alla consapevolezza del rovesciamento nel
210
Cfr. G. Guidorizzi, La letteratura greca. L’età classica, Milano, 1996, pg. 26.

201
quale si consuma la hybris di Serse e la perdita dei suoi attributi regali,
fa da contrappunto il buon governo del re “impossibile” 211 Dario, un
ombra, una psychḗ, un eídōlon, la cui presenza fa patire ancor più il
peso della sua reale assenza: il cosmo dei Persiani appare, in
definitiva, un cosmo svuotato di valori. In una tale dimensione,
possiamo cogliere la radice dell’ambiguità che permea i vari piani di
lettura della tragedia Persiani, tutt’altro che semplice e di facile
decodificazione. L’elemento più ambiguamente problematico della
tragedia è nella definizione dello statuto di Serse, lontano tanto dai
valori greci quanto da quelli della tradizione persiana; con la sua
hybris egli si situa sul versante opposto rispetto al buon governo e al
rispetto delle leggi della tradizione dei suoi predecessori, ma anche
rispetto ai valori greci di moderazione, di distinzione della sfera
umana da quella divina, si situa nel versante opposto rispetto a quello
di Zeus, nel cui segno l’uditorio ateniese colloca l’ordine, la legge e la
giustizia. Ma altrettanto problematica appare la definizione dello
statuto di Dario e della dimensione regale incarnata dai re
predecessori, una dimensione destorificata che concentra in sé tutti i
valori di un cosmo regale barbaro, rievocato nei suoi elementi
distintivi, collocata in un passato che, in quanto tale, non può più
tornare. Qui si coglie l’ambiguità del testo: Serse resta comunque re,
ma la sua regalità è annichilita, ciò che rendeva possibile l’esplicarsi
dell’impero nella storia è vincolato ormai al passato, poiché Serse,
allontanandosi irreparabilmente da quanti prima di lui avevano
detenuto il potere, genera il mutamento più profondo del dramma,
quello di una stasi della regalità.

211
Cfr. J – P. Vernant, P. Vidal – Naquet, Mito e tragedia due, tr. it., Torino 1991
(orig. Mythe et tragédie deux, Paris 1986), pg. 91.

202
Ponendo mente alla tragedia quale strumento di riaffermazione del
sistema di valori della polis possiamo ora considerare in maniera
dialettica la terza dimensione che abbiamo individuato: la
contemporaneità del pubblico ateniese. È conseguente pensare che il
poeta abbia voluto offrire uno stimolo agli spettatori, per considerare
il mondo persiano dialetticamente e per prendere le distanze da esso.
Gli spettatori che hanno in mano, ora, tutti i fili del gioco
drammatico possono riconoscere per contrasto e riaffermare il giusto
sistema di valori. Tra i due estremi che abbiamo individuato – la
dimensione contemporanea di stasi della regalità persiana,
impersonata da Serse, e la dimensione positiva della regalità di Dario,
però relegata al passato del regno e che, evocata dal Coro, non può
che constatare l’effettività e la non conclusione dei mali – si situa il
termine mediano, il pubblico ateniese e la città di Atene che ha
relegato a livello mitico la sua esperienza monarchica212 e ha, invece,
adottato la democrazia come modo corretto di esplicarsi nella storia.
Un’ultima considerazione ci sembra doverosa. La riaffermazione
dei valori della democrazia quale forma di governo della polis ateniese
non significa un “rifiuto della regalità” in quanto tale, ma la
considerazione della monarchia quale modello sentito come non più
attuale e inattuabile. Tale è, come abbiamo visto la valutazione
dell’istituto monarchico in Erodoto.
Queste prime conclusioni non esauriscono ancora le problematiche
che ci siamo proposti di affrontare nell’introduzione e altre che
abbiamo individuato nel procedere del nostro discorso: qual è la

212
Si pensi, ad esempio al mito di Codro, per cu cfr. Hdt. I 147; V 65, 76; VII 97;
Ferec. HGrF, 1, 98; Ellan. HGrF, 1, 47; Paus. I 19, 5; II 18, 8; VII 2, 1; VIII 52,
1; Arist. Cost. d’At. 1310b.

203
funzione del rito necromantico messo in scena nei Persiani? In quale
modo è funzionale alla semantica del dramma? Più in generale, come
si relazionano i Persiani e, in genere, le tragedie di argomento storico,
con un orizzonte di tragedie pressoché di argomento mitico? La loro
struttura normativa può essere assimilata a quella delle tragedie
cosiddette mitiche? Tutto questo sarà argomento del prossimo
capitolo.

204
IV - I PERSIANI COME METATRAGEDIA

Nei capitoli precedenti abbiamo rimandato a questo momento una


più puntuale considerazione della messa in scena del rito
necromantico nei Persiani.
Qual è, nell’economia del dramma, la funzione di questo rito, ci
siamo chiesti? Lungi dall’essere meramente “ornamento” e
“riempitivo”, la rappresentazione scenica dell’azione di necromanzia è
funzionale alla semantica della tragedia eschilea, ma in che modo?
Perché proprio un rito necromantico? E se il termine “necromanzia”
appare un contenitore troppo ampio per definire specificamente
quanto messo in scena da Eschilo, quali sono le coordinate di tale
azione rituale?
Innegabilmente, il rito permette all’Ombra di tornare
temporaneamente tra i vivi – letteralmente di entrare in scena – e
consente al tragediografo di instaurare un confronto diretto tra Dario
stesso e il suo successore, Serse, a discapito di quest’ultimo. Inoltre,
proprio in questa dialettica Dario / Serse abbiamo ritenuto di poter
rintracciare il “conflitto tragico” del dramma in questione.
Tuttavia, dal mero punto di vista dello sviluppo evenemenziale
della tragedia, l’opposizione tra i due sovrani avrebbe potuto essere,
ugualmente ed efficacemente, instaurata in altro modo, ad esempio
attraverso le parole del Coro e degli altri personaggi – nel medesimo
modo in cui il racconto del Messo rende presente sulla scena,
attraverso la sua rievocazione, la battaglia di Salamina – senza che si
modificasse in nulla l’intreccio del dramma 1. Si dirà che il ritorno di
Dario dagli inferi produce, probabilmente, una maggiore attrattiva
sull’uditorio, impressionando e consentendo un più immediato
confronto, anche visivo sebbene differito, tra la regalità rappresentata
da Dario e quella delineata da Serse. Si dirà che la sanzione della
hybris di Serse ha ben altro peso se pronunciata dal suo predecessore,
un suo pari oltre che suo padre, dotato, come abbiamo visto, di una
auctoritas più che umana. A ben guardare, l’intervento dell’Ombra va
ben oltre l’instaurazione di questa opposizione, rendendo durevole,
attraverso la profezia dei “mali” di Platea, la stasi della regalità
persiana.
Ma è solo questa la funzione della messa in scena del rito
necromantico nell’economia dei Persiani? La sensazione è che esso
sia non solo funzionale da un punto di vista semantico, ma che sia
stato scelto dal tragediografo per le sue peculiari caratteristiche. Senza
tentare di arrivare subito alle conclusioni, possiamo dire che si ha
l’impressione che l’atto di necromanzia sia strettamente connesso allo
stesso impianto strutturale della tragedia.

***

1
Cfr. H. D. Broadhead, The Persae of Aeschylus, Cambridge 1960, pgg. XXXVI
e XL. Come abbiamo detto nel primo capitolo, per Broadhead la tragedia sarebbe
potuta finire già al verso 597; la prima metà dell’opera, infatti, sarebbe una unità
compatta e, dal punto di vista strutturale, senza sbavature. Per Broadhead, la
necessità di inserire “contenuti morali” – la tematica della hybris è, per lo
studioso, il centro del dramma e non il contrasto Dario / Serse – giustifica la
necessità di una tela più ampia che comprendesse la scena dell’Ombra di Dario.
Per B. Snell, Eschilo e l’azione drammatica, tr. it., Milano 1969 (orig. Aischylos
unddas Handeln im Drama, «Philologus» Suppl. 20, 1928, che non riesce a
ritracciare filologicamente l’unità della tragedia, l’episodio dell’evocazione di
Dario è solo “episodio, ornamento, riempitivo”.

206
Per tentare di comprendere la funzione della messa in scena del rito
che convenzionalmente definiamo necromantico, è necessario provare
a delineare le possibili influenze che Eschilo accolse nella
rappresentazione dell’evocazione dell’Ombra.
La critica scientifica si è soffermata a più riprese sull’argomento,
tentando di capire, in primo luogo, se Eschilo avesse in mente di
riplasmare un reale rituale orientale e, più nello specifico, se il legame
tra i Persiani – i Magi in particolare – e la necromanzia fosse casuale,
oppure se fosse già parte di quella più tarda tendenza che, proprio nel
mondo greco-romano, vede i Magi e i Caldei quali primi detentori del
sapere necromantico. Una parte degli studiosi ha ritenuto di poter
rintracciare, nel rito che permette il ritorno di Dario, elementi
spiccatamente “orientali”, ma con risultati, a nostro avviso angusti.
Esempio ne è il ben noto articolo di Headlam2, il quale, ravvisando
nell’episodio messo in scena nei Persiani l’incidenza di un rituale
“magico” di origine orientale, più che di un rituale di carattere
religioso, ritiene che i Vecchi Fedeli che intonano l’inno di
evocazione del defunto siano dotati del potere stesso dei Magi3.
Infatti, analizzando soprattutto – ma non solo – la letteratura

2
Cfr. W. Headlam, Ghost-rising, magic, and the underworld, pgg. 52 – 61.
3
Cfr. Ivi, pg. 55. Secondo lo studioso, nella letteratura più tarda la necromanzia è
effettuata da agenti dotati di poteri “stregoneschi”: da Circe (ma anche dalla Circe
dell’Odissea che istruisce l’eroe), o con la protezione di Ecate e Circe, o della
Sibilla Cumana, attraverso il “Mago” Tiresia e sua figlia Manto, o da “streghe”
come Medea ed Erichto. A supporto delle proprie opinioni, Headlam annota
numerosi passaggi di autori più tardi: Lucano, Bellum Civile - Pharsalia,
Svetonio, Nero, Erodiano, Eliodoro, Aethiopica, VI 14 – 15, e Luciano, Necyom.
9. Tutte queste – tarde – evenienze portano lo studioso a credere che il Coro, al
quale Atossa chiede di eseguire l’evocazione, sia intenzionalmente dotato dei
“poteri magici” dei Magi persiani e che le loro preghiere devono essere intese
come incantesimi magici.

207
posteriore ad Eschilo, Headlam nota che la necromanzia può essere
attuata solo tramite operatori dotati di poteri “magici”. Inoltre, egli
postula una lacuna tra i versi 632 e 633 in cui si sarebbero pronunciati
“abracadabra” simili a quelli ormai noti dai Papiri Magici4. A parte la
critica di Lawson5 – il quale, biasimando l’identificazione dei Vecchi
Fedeli con i Magi e sottolineando che l’inno di evocazione, nei
Persiani, non ha nulla di magico, nota anche che le offerte di Atossa
sono simili a quelle ordinariamente inviate ai defunti, che la
necromanzia è attuata di giorno e in un luogo solitamente deputato
alla normale pratica religiosa e che, quindi, l’intero rituale è concepito
da Eschilo come “religioso” e non “magico” – vi sono due elementi
nella teoria dello studioso che lasciano perplessi: in primo luogo, la
proiezione di elementi propri di opere posteriori 6 sui Persiani e,
inoltre, la distinzione tra un rituale magico e uno religioso. Come è
ormai stato ampiamente dimostrato, infatti, la dialettica magico /
religioso non appartiene alla cultura greca che non conosce il nostro
concetto di magia e, di certo, non il moderno concetto di religione7. Il
che, ci pare, infici l’intera polemica relativa alla dimensione magica
dell’episodio e con essa la possibilità di risalire, per questa strada, a
una possibile derivazione orientale del rito necromantico 8. Da ultimo,

4
Cfr. E. Hall, Inventing the Barbarian, Oxford 1989, pg. 90.
5
Cfr. J. C. Lawson, The evocation of Darius (Aesch. Persae 607 – 693), CQ 28,
1934, pgg. 79 – 89, in particolare pgg. 81 – 82.
6
In particolare, dai Papiri Magici Greci e da Lucian. Necyom. 9. Inoltre, come
abbiamo già avuto modo di notare, lo studioso in Notes on Aeschylus, pg. 241,
intende bárbara safhnÖ come un ossimoro e, rifiutando la paradossalità della
frase, propone bárbara ÞsafhnÖ, riferendosi a Lucian. Necyom. 9.
7
Per un discussione sulla nascita del concetto di magia e sulla antitesi magia /
religione si rimanda al saggio di P. Xella (a cura di), Magia. Studi di storia delle
Religioni in memoria di Raffaela Garosi, Roma 1976.
8
Headlam è seguito da J. E. Lowe, Magic in Greek and Latin Literature, Oxford
1929, pg. 55; J. Bidez, “À propos des Perses d’Échyle”, BAB, 1937, pgg. 206 –

208
Ogden9 che, pur riconoscendo l’esistenza di una fondamentale
somiglianza tra i riti “necromantici” greci e quelli riservati al morto
presso la tomba, paradossalmente ammette – proprio recuperando la
tesi di Headlam – che il legame tra il rito necromantico e i Persiani
nella tragedia di Eschilo sia tra le prime manifestazioni di una
tendenza più tarda. Recuperando il bárbara ÞsafhnÖ (parole
oscure in lingua barbara) di Headlam, lo legge alla luce delle «non-
Greek semi-meanigless words found in Greek magical spells and now
conventinally referred to as voces magicae». Le più vicine a queste
ultime nel testo eschileo sono le grida “ee”, “oi”, “aiai”, ecc. Lo
studioso sostiene, infine, con la cautela del “punto interrogativo”, che
Eschilo avrebbe potuto aver fuso volutamente nella frase l’estraneità
della comune parlata barbara alle orecchie di un Greco con l’estraneità
delle “voci magiche” che un necromante (Greco) impiegava durante il
rito: «the glide between the two would have been facilitated if
Aeschylus and his audience considered the voces magicae a Greek
necromancer used to include or to be equivalent to Persian words». Al

235; P. Scazzoso, Il rito regale dell'evocazione di Dario nei Persiani di Eschilo,


«Dioniso» 15, 1952, pgg. 287 – 295, in particolare pg. 291 in cui lo studioso,
sottolineando la regalità dei protagonisti e notando le funzioni sacerdotali
ricoperte dalla Regina e dal Coro, ipotizza una possibile iniziazione misterica per
il sovrano persiano da parte dei Magi; S. I. Johnston, Restless Dead: Encounters
between the Living and the Dead in the Ancient Greece, Berkeley 1999, pgg. 117
– 118; contro le tesi di Headlam: J. C. Lawson, op. cit., pg. 81; L. Belloni,
Eschilo. I Persiani, Milano 1994, pgg. 208 – 214; E. Hall, op. cit., pg. 90. Se
proprio si volesse instaurare un paragone tra il Coro dei Persiani e i Magi,
bisognerebbe ragionare in maniera diversa. Si potrebbe sottolineare, ad esempio,
che i Vecchi Fedeli svolgono alcune funzioni che Erodoto attribuisce ai Magi. Per
lo storico, i Magoi sono esperti nella divinazione, astrologi e astronomi e
interpreti dei sogni; ora proprio al Coro Atossa si rivolge per chiedere
l’interpretazione del sogno notturno e del funesto presagio occorso il mattino
seguente, mentre eseguiva riti apotropaici, ed è il Coro stesso che le prescrive una
seri di rituali atti a stornare i mali. Su questo punto, torneremo più avanti.
9
D. Ogden, Greek and Roman Necromancy, Princeton 2001, pgg. XXVI –
XXVII, 7, 95, 128 – 130.

209
di là del fatto che nella prospettiva di Ogden ci sono troppi punti
interrogativi e troppi “se”, tutto questo, comunque, non supera le
obiezioni già mosse nel caso di Headlam e non spiega ancora
l’accostamento tra i Persiani e la necromanzia avanzato da Eschilo.
Da una prospettiva diversa, alcuni studiosi, rifiutando la tesi di
Headlam, hanno ritenuto essere completamente greco – nella genesi e
nel contenuto – il rito necromantico messo in scena dal poeta, già a
partire dalle offerte di Atossa10 e dalle preghiere agli dei ctoni – Ade,
Terra, Ermes. Secondo questa parte della critica, il rito appartiene a un
contesto in cui il precedente omerico (la Nekyia odissiaca, cfr. Hom.
Od. X 516 – 540; XI 1 sgg.) è elemento di chiaro parallelo. Oltre a
questo, si sottolinea solitamente la possibilità di rintracciare
nell’invocazione del Coro le medesime strutture dell’inno cletico
(soprattutto nella terza coppia strofica, dove Dario è appellato quale
patÔr, che il rito greco attribuisce di norma a Zeus)11, indirizzato
solitamente alla divinità. Inoltre, per buona parte degli studiosi,
l’evocazione di Dario possiede molte caratteristiche che la avvicinano
al normale rito per i morti e all’ordinaria invocazione del defunto
presso la tomba12: l’ansia che il defunto presti ascolto13, l’utilizzo di

10
È inutile in questa sede insistere sul dibattito intorno alle offerte di Atossa, per
le quali rimando a L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pgg. 206 – 208; H. Hall, op. cit.,
pg. 89 e n. 155; A. F. Garvie, Aeschylus. Persae, Oxford 2009, pg. 249; M.
Centanni (a cura di), Eschilo. Le tragedie, Milano 2007, pg. 742. Un rilievo a
parte andrà fatto per la mancanza del rito cruento nell’episodio dei Persiani.
11
Cfr. V. Citti, Il linguaggio religioso e liturgico nelle tragedie di Eschilo,
Bologna 1962, pgg. 41 – 43; O. Taplin, The Stagecraft of Aeschylus. The
Dramatic Use of Exists and Entrances in Greek Tragedy, Oxford 1977, pgg. 114 –
115.
12
Cfr. H. J. Rose, Ghost Ritual in Aeschylus, HThR 43, 1950, pgg. 257 – 280; H.
D. Broadhead, op. cit., Appendix III, pgg. 302 – 309. J. A. Haldane, «Barbaric
Cries» (Aesch. Pers. 633 – 639), CQ 22, 1972, pgg. 42 – 50; A. F. Garvie, op. cit.,
pg. 259.

210
parole corrette e comprensibili, l’utilizzo delle giuste offerte, l’uso di
ripetizioni, esclamazioni e l’adulazione del defunto. In più, tutti questi
elementi considerati nel loro insieme documenterebbero «una
continuità attestabile da Omero fino alla Necyomantia di Luciano»14,
dove Mitrobarzane guadagna per Menippo l’ingresso nell’Ade
attraverso rituali, invocazioni e lamenti molto simili. Infine, è stato
messo in evidenza che l’idea dell’evocazione del defunto non è
estranea al pensiero greco. Essa sarebbe comprovata, da un punto di
vista rituale, dall’esistenza di nekyomanteia in varie parti della Grecia
e anche da riscontri letterari: l’Odissea, la mancata psicagogia delle
Coefore, gli Psychagogoi di Eschilo, l’evocazione, da parte di
Periandro, della moglie Melissa presso il nekyomanteion di Acheron in
Tesprozia, raccontata in Erodoto (V. 92.): «necromancy could hardly
have been seen as an identifiably Persian affair»15.
Da quanto detto, emerge che anche per questa parte della critica
rimane poco chiaro il nesso Persiani – necromanzia, il quale viene
piuttosto sminuito. Per Garvie, Eschilo adatterebbe semplicemente
una consuetudine rituale greca ai bisogni drammatici dell’opera.
Anche Belloni risolve il problema ritenendo che Eschilo plasmi in
forme nuove i codici di un rito, ma aggiunge anche che esso possiede
una tinta orientale, recuperando il lavoro di Scazzoso, il quale vedeva
proprio nell’epifania della regalità l’elemento orientale del rito
stesso16.

13
Cfr. V. Citti, op. cit., pg. 13; L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. 210: una
domanda, quella di prestare ascolto, tradizionalmente unita agli epiteti costituenti
l’epiclesi.
14
Cfr. L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. 209.
15
E. Hall, op. cit., pg. 90; Cfr. anche A. F. Garvie, op. cit., pgg. 258 e 260.
16
Cfr. L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. 209.

211
Ma perché Eschilo dovrebbe “colorire” la necromanzia di
suggestioni orientali? E perché dovrebbe rappresentarla come
caratteristica dei Persiani? Inoltre, non di Persiani qualsiasi, ma
proprio di quelli che del regno sono ipostasi viventi (Atossa, Dario, il
Coro dei Fedeli)?
In effetti, il problema del legame nella tragedia di Eschilo tra i
Persiani e la necromanzia è complesso e di difficile valutazione. La
difficoltà nasce dalla constatazione che, da una parte, troviamo
collegati necromanzia e Persiani, senza alcun riferimento diretto ai
Magi – e va sottolineato anche il fatto che non abbiamo alcuna
attestazione documentale di rituali di tipo necromantico nel contesto
più strettamente persiano e achemenide – e, dall’altra parte,
conosciamo una tradizione posteriore che, da un certo momento in
poi17, avvicina la necromanzia a un sapere orientale, legato all’azione
dei Magi, dei Caldei e degli Egiziani.

***

Passiamo per un momento a valutare la necromanzia nel più ampio


contesto vicino-orientale. La nostra più interessane fonte è, senza
dubbio, la storia della biblica necromante di En-Dor riportata da I
Samuele 2818; essa rappresenta anche una delle più ampie e dettagliate

17
Difficile da definire con precisione il quando; vi ritorneremo.
18
I Samuele 28, 3 – 25. Riportiamo il testo tradotto da C. Grottanelli, Messaggi
dagl’inferi nella ibbia ebraica: la necromante di En-dor, in P. Xella (a cura di),
Archeologia dell’Inferno, Verona 1987, pgg. 191 – 207, in particolare pgg. 196 –
197: «28. 3Samuele era morto, e tutto Israele l’aveva pianto e l’aveva sepolto in
Ramah, nella sua città. E Saul aveva eliminato i maghi e i necromanti dalla terra.
4
I Filistei si adunarono, e vennero e si accamparono in Shunem; e Saul adunò tutto
Israele, e si accamparono a Gilboa. 5Quando Saul vide l’esercito dei Filistei, ebbe
paura, e il suo cuore tremò grandemente. 6E quando Saul consultò Yahweh,

212
sequenze di divinazione attraverso evocazione dei defunti
dell’antichità. È noto che re Saul consultò la necromante di En-Dor,
sebbene egli stesso avesse proibito, in tutto il territorio degli Israeliti,

Yahweh non gli rispose, né con sogni, né con profeti. 7Allora Saul disse ai suoi
servi: “Cercatemi una donna, che sia una necromante (bclt ’wb), che possa andare
da lei a consultarla”. E i suoi servi gli dissero: “Ecco, c’è una necromante (bclt
’wb) a En-dor”. 8Allora Saul si travestì e mise abiti diversi, e andò, lui e due
uomini, e giunsero dalla donna di notte. E (Saul) disse: “Vaticina per me a mezzo
dell’ob (qswmy-n’ ly b’wb) e portami su (whcly ly) chiunque ti dirò”. 9E la donna
gli disse: “Certamente sai quello che Saul ha fatto, e cioè che ha eliminato dalla
terra i maghi e i necromanti. Perché dunque mi tendi una trappola, per farmi
morire?”. 10Ma Saul le giurò per Yahweh: “Come (è vero che) vive Yahweh, così
nessuna punizione ti verrà per questa azione”. 11E la donna disse: “Chi ti farò
salire (’clh-lq)?”; e (Saul) le rispose: “Samuele fammi salire (hcly ly)”. 12Quando la
donna udì il nome di Samuele, gridò con alta voce, e disse a Saul: “Perché mi hai
ingannato? Tu sei Saul!”. 13Il re le disse: “Non temere (’l-tyr’y), ma dimmi
piuttosto quello che vedi”. E la donna disse a Saul: “Vedo uno spirito (’lhym) che
sale su dalla terra (r’yty clym mn-h’rṣ)”. 14Ed egli le chiese: “Che aspetto ha?”. E
rispose: “Un vecchio sale su (clh) ed indossa un mantello”. Allora Saul comprese
che si trattava di Samuele, s’inchinò con la faccia a terra, e gli rese omaggio.
15
Allora Samuele disse a Saul: “Perché mi hai disturbato (hrgztny) facendomi
salire (lhclwt)?”. Saul rispose: “Sono in grande angoscia: i Filistei fanno guerra
contro di me, e Yahweh si è distolto da me e non mi risponde più, né con profeti,
né con sogni, perciò ti ho chiamato perché tu mi dica che cosa devo fare”. 16E
Samuele disse: “Perché m’interroghi, se Yahweh si è distolto da te ed è divenuto
tuo nemico? 17Yahweh ha fatto a te ciò che aveva comunicato per mezzo mio;
Yahweh ha tolto il regno dalle tue mani per darlo a un tuo simile, David.
18
Siccome non hai obbedito alla voce di Yahweh, e non hai dato corso alla sua
collera contro Amalek, perciò oggi Yahweh ha fatto a te questa cosa. 19Inoltre,
Yahweh darà Israele con te nelle mani dei Filistei, e domani tu e i tuoi figli sarete
con me; Yahweh darà l’esercito di Israele nelle mani dei Filistei”. 20Allora Saul
cadde a terra (’rṣh) di schianto, lungo disteso, ed era pieno di terrore per le parole
di Samuele; e non c’era forza in lui, perché non aveva mangiato nulla tutto il
giorno e tutta la notte. 21E la donna venne a Saul, e quando vide che era pieno di
terrore, gli disse: “Ecco, la tua schiava ha ascoltato la tua voce, e ho rischiato la
mia vita; 22ora dunque ascolta la voce della tua schiava: ti porrò davanti un po’ di
cibo (lḥm); e tu mangia, che tu possa avere un po’ di forza quando te ne andrai per
la tua strada”. 23Ma rifiutò, e disse: “Non mangio”. Ma i suoi servi, insieme con la
donna, lo pressarono, ed egli ascoltò le loro voci, e si alzò dalla terra (wyqm
mh’rṣ) e si sedette sul letto. 24E la donna aveva in casa un vitello grasso, e lo
uccise in fretta, e poi prese la farina, l’impastò e cosse dei pani azzimi, 25e pose
ciò davanti a Saul e ai suoi servi; e ne mangiarono. Poi si alzarono e andarono via
quella notte stessa».

213
le pratiche per consultare i morti19. infatti, in procinto dello scontro
con i Filistei, ogni altro mezzo ortodosso di indagine del volere divino
aveva fallito (sono espressamente indicati i profeti e i sogni). Il passo
è stato ampiamente indagato da eminenti studiosi, anche nelle sue
relazioni formali con la scena di Dario nei Persiani20. In questa sede,
ci interessa soprattutto rammentare al lettore alcuni importanti
considerazioni.
In primo luogo, in relazione alla problematica presenza della
necromanzia in Israele. Infatti, la sequenza dell’evocazione di En-Dor
è, insieme ad altri (pochi) passaggi biblici, la più diretta testimonianza
dell’effettiva esistenza di pratiche di divinazione tramite i defunti. In
II Re 21 si narra, per esempio, come uno dei re di Giudea, Manasse,
praticasse «magie per conoscere il futuro» e consultasse «quelli che
interrogano i morti» (21, 6) e proprio a causa di queste «pratiche
vergognose» il Signore decise di portare la rovina su Gerusalemme e
sugli Israeliti. Entrambi i passaggi narrativi sono, evidentemente,
funzionali al contesto biblico e hanno lo scopo di contrapporre
efficacemente una divinazione lecita, il vaticinare profetico collegato a
Yahweh, a una illecita che porta alla punizione e alla rovina.
Entrambi, poi, si inseriscono nel più esteso divieto biblico di ogni
forma di divinazione diversa dalla suddetta rivelazione profetica21.
Oltre a queste narrazioni, infatti, ritroviamo proibizioni esplicite nei
libri apodittici: nel Deuteronomio (18, 11 – 12) e nel Levitico (19, 31;

19
Le pratiche per consultare i morti erano proibite dalla legge mosaica; vedi sotto.
20
Cfr. C. Grottanelli, op. cit., pgg. 191 – 207; M. L. West, the East Face of
Helicon: West Asiatic Elements in Greek Poetry and Myth, Oxford 1997, pgg. 550
– 552: entrambi approfondiscono la comparazione con Eschilo. Cfr. anche I. L.
Finkel, Necromancy in ancient Mesopotamia, AfO 29, 1983, pgg. 1 – 17.
21
Cfr. S. Cavalletti, Di alcuni mezzi divinatori nel giudaismo, SMSR 29, 1958,
pgg. 77 – 91.

214
20, 27) sono vietate categoricamente sia le pratiche della divinazione,
della magia e della stregoneria, sia la consuetudine di interrogare i
morti, pena la lapidazione e l’acquisizione di uno stato di impurità.
Dunque, conosciamo la necromanzia nel contesto ebraico in modo
indiretto attraverso la sua proibizione. Se da una parte, comunque, vi è
una carenza di documentazione che attesti in positivo l’utilizzo della
necromanzia, dall’altra, nei riferimenti che fa il Vecchio Testamento,
questa sembrerebbe essere una pratica diffusa tra le culture del Vicino
Oriente, sebbene esemplarmente illecita nel contesto ebraico22.
In secondo luogo, è risultata assolutamente straordinaria la
somiglianza formale della sequenza della necromanzia di En-Dor con
quella rappresentata nei Persiani. Entrambi i luoghi prendono avvio
da una condizione di paura in relazione a una crisi militare che porta
alla necessità dell’evocazione: nel caso di Saul, il risultato del
prossimo attacco dei Filistei, nel caso di Atossa e del Coro, il
disastroso risultato della guerra contro gli Elleni; come Saul si spoglia
dei suoi indumenti regali e indossa abiti comuni, così Atossa
abbandona il lusso regale e ritorna in scena a piedi invece che con il
carro, simbolo di regalità; Saul ordina alla donna di En-Dor di evocare
Samuele, la Regina ordina ai Vecchi Fedeli di evocare Dario, anche se
nella tragedia essa ha parte attiva nel rituale, versando le libagioni sul
suolo, mentre il passo biblico nulla ci dice dei mezzi del rituale tout
court; nel passo biblico, la necromante dice di vedere una “divinità”
(?) (’elohim)23 uscire fuori dalla terra e che egli è vestito con un

22
Cfr. Ivi, pg. 84.
23
Grottanelli (op. cit., pg. 197) sottolinea la duplice ambiguità del termine che, da
una parte, pur rappresentando uno dei due nomi principali del dio nazionale, viene
attribuito a Samuele, forse per indicare che nel contesto della necromanzia il

215
mantello, nei Persiani, il Coro invoca “il re beato simile a un
demone”, “il dio dei Persiani nato a Susa”, egli è visto salire al vertice
del tumulo (dunque, dalla terra), indossando sandali e tiara regale;
Saul si prosterna, il Coro ha paura di guardare e parlare a Dario;
Samuele chiede: «perché mi hai disturbato facendomi salire?», Dario
chiede il motivo di tanto frastuono e di tanto lamento e anche il
motivo per cui è stato fatto salire; Saul dice a Samuele della
imminente guerra portata dai filistei e gli chiede cosa fare, Atossa
racconta a Dario la disfatta militare (è già stato detto in precedenza
che egli potrebbe conoscere un rimedio ai mali che affliggono l’Asia);
Samuele dichiara a Saul: «Yahweh ha fatto a te ciò che aveva
comunicato per mezzo mio, Yahweh ha tolto il regno dalle tue mani
per darlo a un tuo simile, David» per il peccato di disobbedienza verso
Yahweh, Dario dice che un oracolo è stato portato a compimento e
che Zeus ha fatto cadere su Serse l’esito dei vaticini a causa della sua
hybris; Samuele, infine, profetizza che la disfatta di Israele sarà
compiuta l’indomani, Dario profetizza l’altrettanto grande sconfitta di
Platea; Saul sviene, pieno di terrore per quanto udito, il Coro e la
Regina esprimono il loro sgomento per il messaggio di Dario24.
Seguendo l’interpretazione che fa Grottanelli del passo biblico, si può
avanzare anche un’ulteriore parallelo. Lo studioso, infatti,
sottolineando, in prima istanza, che la necromanzia “funziona” e che il
responso ottenuto è corretto25, la mette in relazione diametrale e

morto è in qualche modo “divino”. In secondo luogo, lo studioso evidenzia


l’imbarazzante utilizzo della forma plurale.
24
Cfr. M. L. West, op. cit., pg. 551.
25
Grottanelli (op. cit., pg. 198) sottolinea altresì che questa efficacia della
necromanzia forse è dovuta proprio al fatto che il morto evocato è Samuele, cioè il
tramite costante tra Yahweh e Saul, anche in vita, e profeta veridico di Yahweh.

216
oppositiva con il corretto messaggio profetico, ma in parte fallace26
(tranne che nella vaticinazione di Michea), di I Re 22. In questa
prospettiva, lo studioso evidenzia che «al vaticinare profetico,
yahwistico, celeste, maschile, diurno, prescritto, ufficiale, si
contrappone, in modo certo non casuale, il vaticinare necromantico:
non yahwistico, infero, femminile, notturno, proibito, clandestino».
Non stupisce, dunque, che, mentre per volere di Yahweh il vaticinio
profetico può essere anche fallace, l’unica descrizione biblica di
vaticinare necromantico abbia quale esito una profezia veridica. Ma,
avverte lo studioso, il passo in esame è funzionale al contesto biblico,
poiché «presenta il risultato della necromanzia, anche se corretto,
come inutile, dal momento che giunge a ricorrere alla necromanzia
solo un peccatore, che non può usare altri mezzi divinatori». Infatti,
l’inimicizia di Yahweh e la sua prossima punizione erano noti a Saul
perché già profetizzati in parte da Samuele quando era ancora in vita.
La necromanzia, dunque, vaticinando solo sciagure e cose già note è,
non solo inutile, ma anche inefficace27. Similmente, anche la profezia
di Dario, nel contesto persiano dell’evocazione necromantica messa in
scena nella tragedia, è, seppur veridica, disfunzionale e inefficace.
Dario, infatti, non solo sancisce come “irrimediabili” i mali causati da
Serse, ma ne profetizza di ulteriori nella prossima battaglia di Platea.
Anche la risposta di Dario alla domanda del Coro – «a qual fine
volgono le tue parole? Dopo l’accaduto, come potremo, noi popolo
persiano, godere in futuro della sorte migliore?»28 – indica un rimedio
(non invadere più la terra dell’Ellade) che appare piuttosto come una

26
Ovviamente per volere di Yahweh.
27
Cfr. C. Grottanelli, op. cit., pgg. 198 – 202.
28
Cfr. vv. 787 sgg.

217
calamità dal punto di vista della regalità, definendo l’impossibilità di
attuare ulteriori espansioni; il che, detto per inciso, si inserisce nel
quadro analizzato nel capitolo precedente, aggiungendosi a tutti gli
altri temi che delineano una stasi della regalità persiana.
Certo, anche le differenze tra la necromanzia biblica e quella
eschilea sono notevoli: Samuele non è stato re di Israele, ma di certo
ne è stato il governante; Saul dipende da una necromante
specializzata, che sola può vedere il morto evocato, mentre lui può
solo sentire la sua voce, al contrario, Dario è visibile a tutti; infine,
anche Atossa utilizza il Coro quale intermediario, tuttavia, come
abbiamo visto, il loro ruolo di “specialisti” è tutt’altro che scontato29.
Come sottolinea West, ovviamente Eschilo non aveva letto il testo
biblico, tuttavia, la grande quantità di affinità riscontrate porta lo
studioso ad affermare che lo schema narrativo deve aver viaggiato tra
Oriente e Occidente attraverso percorsi più ampi 30; percorsi, va
sottolineato, che noi a tutt’oggi non possiamo ricostruire.
Da un’altra prospettiva, Grottanelli 31, confrontando il racconto di I
Samuele 28 con la Nekyia omerica e con il testo dei Persiani, arriva
alla importante conclusione che, non solo possiamo ricostruire
l’esistenza e, «nelle linee generali, il funzionamento nell’Israele
biblico, di un modo di vaticinare “necromantico”», infatti, «la
necromanzia di I Samuele 28 è troppo simile a quella omerica ed
eschilea per essere una pura invenzione dei redattori biblici», ma
anche che «i confronti fatti hanno mostrato una coerenza di fondo fra
la necromanzia di I Samuele 28 e quella di altri ambienti, agrari e

29
Cfr. M. L. West, op. cit., pgg. 551 – 552.
30
Ivi, pg. 552.
31
Cfr. C. Grottanelli, op. cit., pgg. 204 – 206.

218
politeistici», infatti – continua lo studioso – «questi confronti greci,
arcaico e classico, mostrano che almeno i principali aspetti della
necromanzia così com’è descritta nel nostro passo biblico sono
attestati anche in un’altra cultura, non lontana nel tempo, del
Mediterraneo orientale».
Altri dati sulla necromanzia nel contesto vicino-orientale ci giungono
dalla Mesopotamia. Esistono, infatti, sparse indicazioni che la
necromanzia vi fosse praticata32. Il primo dato importante è di
carattere mitico, riguarda, infatti, un passo dell’Epopea di Gilgameš,
noto come Enkidu e gli Inferi, nel quale è raccontato che il dio Nergal,
su richiesta di Gilgameš, apre un foro nella terra attraverso il quale
emerge Enkidu, “come un soffio”, per parlare con lui. Dal punto di
vista rituale, pare che l’evocazione dei defunti fosse riservata a
personale specializzato33, come sembra evidente dalla Lista dei Lu, un
elenco di professioni che ci conserva – sia nella versione databile al
secondo millennio, sia in quella del primo millennio a.C. – il termine
per necromante34. Le fonti principali che ci documentano la pratica in
Mesopotamia sono rappresentate dai frammenti di due lettere, una
proveniente da Kültepe (TCL 4 5) e una Neo-Assira (ABL 614), e da
due testi Babilonesi databili al primo millennio a.C. circa 35 (BM
36703 e K 2779). La lettera Neo-Assira, che sembra36 riportare il
risultato di una consultazione necromantica richiesta dal re per
evocare il fantasma/spirito della defunta regina, al fine di sapere se il
loro figlio fosse un adatto successore al trono, è da alcuni attribuita
32
Cfr. I. L. Finkel, op. cit., pg. 1. Per l’ulteriore bibliografia sulla necromanzia
mesopotamica cfr. D. Ogden, op. cit., pgg. 133 – 134.
33
Cfr. S. Cavalletti, op. cit., pg. 83.
34
Cfr. I. L. Finkel, op. cit., pg. 1.
35
Ibidem.
36
L’interpretazione del passo è controversa.

219
all’epoca del re assiro Esarhaddon (681 – 669 a.C.)37. I due testi
babilonesi, invece, ci riportano le istruzioni per effettuare riti
necromantici e sono anche caratterizzate da particolari riti
apotropaici38. In sintesi, le parti più rilevanti, per quanto qui di nostro
interesse, riguardano: una invocazione a Šamaš quale divinità che
possiede il potere e l’autorità per richiamare un morto dall’oltretomba,
l’intera operazione è posta sotto i suoi auspici – l’invocazione termina
con il fantasma che, in qualche modo, entra dentro un teschio per
rispondere alle domande che saranno poste; il rituale vero e proprio
che consiste nello spalmare un unguento – composto da parti di
animali e altri elementi che viene lasciato riposare tutta la notte – sul
teschio, e/o sul fantasma (probabilmente una figurina rappresentante il
morto) e/o sul consultante (il rito finisce con la frase «quando lo
invocherai, lui ti risponderà»); rilevante è anche il “Rituale per
consentire a un uomo di vedere un fantasma” che consiste nel fare un
miscuglio di vari elementi – legno ammuffito, foglie fresche dei
pioppi dell’Eufrate schiacciati e mescolati con olio, vino e birra,
grasso di serpente e di leone fatti seccare e schiacciati, miele bianco,
una rana che vive tra i ciottoli, peli di cane e gatto, scaglie di lucertola
e di camaleonte ecc. il tutto mischiato con olio, miele e vino – che
deve essere spalmato sugli occhi (il rituale finisce con la frase «Tu
vedrai il fantasma, egli ti parlerà. Tu puoi guardare il fantasma, egli ti
parlerà»).

37
Cfr. I. L. Finkel, op. cit., pgg. 1 – 3; J. Tropper, Necromantie, AOAT 223,
1989, pgg. 47 – 109, in particolare pgg. 76 – 83.
38
In particolare, la tavoletta BM 36703 sembra essere un manuale per il
necromante che cataloga una collezione di rituali e incantesimi necessari a
intraprendere in sicurezza l’evocazione dei morti; cfr. I. L. Finkel, op. cit., pg. 7.

220
Mentre tutte queste istruzioni non assomigliano molto alle pratiche
attestate in Grecia, è interessante notare, per quanto qui ci interessa, il
contesto regale della lettera Neo-Assira riportata sopra. Non possiamo
andare oltre questo. Al contrario, secondo Schmidt 39, non ci sono
prove della pratica della necromanzia in altre culture del mediterraneo
orientale – comprese Anatolia ed Egitto – fino al tempo del regno di
Esarhaddon. È probabile, prosegue lo studioso, che, in seguito
all’espansione del suo regno in Egitto e in alcune regioni anatoliche,
l’usanza sia stata importata da altre culture che avrebbero accolto
l’idea mesopotamica. Anche per quanto riguarda la cultura greca, che
in questo periodo inizia a produrre prove per tali pratiche,
sembrerebbe probabile un’influenza, diretta o indiretta, dalla
Mesopotamia.
Tuttavia, la tesi di Schmidt resta ampiamente congetturale, almeno
per quanto riguarda la cultura greca, infatti, se da una parte le origini
della necromanzia in Grecia sono ben poco chiare, si perdono infatti
nei cosiddetti “secoli bui”, dall’altra, è evidente che nulla sappiamo
della sua possibile esistenza prima del racconto omerico e della
supposta influenza mesopotamica.
Per comprendere possibili influssi subiti dalla rappresentazione
eschilea, è di ben poco aiuto, in definitiva, il constatare l’esistenza di
pratiche necromantiche a Babilonia in un periodo antecedente alla
composizione della tragedia. Inoltre, l’associazione, nel contesto greco
e greco-romano della necromanzia con l’azione dei Caldei babilonesi

39
Cfr. B. B. Schmidt, Israel's beneficent dead: ancestor cult and necromancy in
ancient Israelite religion and tradition, Tübingen 1994, pgg. 121 – 143 e 241 –
245; Idem, The “Witch” of En-Dor, 1 Samuel 28, and Near Eastern Necromancy,
in M. Meyer, P. Mirecki (eds.), Ancient Magic and Ritual Power, Leiden 1995,
pgg. 115 – 120.

221
sembra essere successiva, almeno stando alle fonti in nostro possesso,
all’associazione di questa con i Persiani40. In relazione alla prassi
necromantica, l’elaborazione greca di motivi orientali, sebbene
ipotizzabile, non è ancora stata provata.

***

In mancanza di ulteriori lumi da Oriente, volgiamoci a considerare


per un momento il contesto greco in relazione alla necromanzia.
L’esistenza di una azione necromantica specifica della cultura greca
è confortata da alcune prove di ordine linguistico, letterario e rituale –
queste ultime, tuttavia, più rare, di difficile decodificazione e, talvolta,
ricostruite attraverso le citazioni che ne fanno gli stessi autori greci.
Dal punto di vista letterario, possediamo un buon numero di
riferimenti a rituali che, convenzionalmente, possiamo definire
necromantici. Avvertiamo il lettore, tuttavia, che la “necromanzia”, in
termini moderni, è generalmente considerata quell’arte divinatoria che
si attua attraverso la comunicazione con i morti, con qualunque morto,
attraverso molteplici mezzi. Attribuire questa “etichetta”
onnicomprensiva ad alcuni fatti della Grecia, tuttavia, crea non pochi
problemi. Detto in altre parole, se la necromanzia appare a noi, oggi,
come una pratica che ha avuto origine nell’antichità, è, tuttavia,
necessario ricondurre il concetto generico di necromanzia alla cultura
che tali pratiche ha utilizzato, vale a dire a un certo sistema di valori, e
fare emergere la specificità di determinati rituali in quel determinato
contesto, senza proiettare le nostre categorie (moderne, occidentali) su
fatti del passato.
40
Cfr. D. Ogden, op. cit., pg. 133.

222
Inoltre, nei testi letterari d’epoca greca e romana che, in genere,
descrivono riti finalizzati al contatto con i trapassati, le tecniche di
comunicazione e i soggetti di tali rituali risultano notevolmente
variabili nel corso dei secoli. Un campo di studio, dunque, refrattario a
facili schematizzazioni. Come sottolinea, d’altra parte, anche
Grottanelli a chiusura del suo articolo sulla necromante di En-dor41, la
«necromanzia “arcaica” si distingue facilmente dall’evocazione dei
morti che comincia a divenire frequente, in papiri magici e in testi
“letterari” nel Mediterraneo antico a partire dall’Ellenismo, e che pure
della prima rappresenta verosimilmente uno sviluppo. L’evocazione
dei morti di età ellenistica e romana appare infatti meno selettiva nella
scelta del morto da evocare e meno chiaramente volta alla divinazione
necromantica». A Roma, la necromanzia si fonderà con l’ormai noto
concetto di magia e sarà coinvolta anch’essa nella polemica
antimagica.
In breve, le nostre più importanti fonti per quanto riguarda la
concettualizzazione di un’azione necromantica in Grecia, sono:
l’Odissea di Omero; i Persiani, gli Psicagoghi e le Coefore di
Eschilo; l’Alcesti di Euripide; gli Uccelli di Aristofane, le Storie di
Erodoto; alcuni passi delle Leggi e della Repubblica di Platone; il
frammentario dramma satiresco Agen, forse attribuibile a Pitone di
Catania; la Nekyia di Menippo di Gadara, per noi solo un titolo; il
Menippo di Luciano di Samosata; il resoconto della consultazione
necromantica da parte di Pausania, il reggente di Sparta, descritto da
più autori: Plutarco, Pausania (il periegeta) e, forse, da Tucidide; il
racconto della consultazione effettuata da Elysio di Terina riportata da
Plutarco e da Cicerone, che la ascrive all’opera di Crantore di Soli.
41
C. Grottanelli, op. cit., pg. 206.

223
Qui, non tenteremo una ricostruzione puntuale della necromanzia in
Grecia, piuttosto cercheremo di verificare la ricezione della pratica e
la sua concettualizzazione nella Grecia del V secolo a.C., al fine di
valutare dialetticamente la scena eschilea, in relazione a testimonianze
letterarie e archeologiche dell’antichità che documentano rituali atti a
comunicare con i morti.
Dal punto di vista linguistico, come ha messo in evidenza Ogden 42,
l’esistenza di tale prassi è, in primo luogo, in connessione con
l’utilizzo in Grecia della parola nekuomanteîon – traducibile come
“luogo di divinazione del morto” o “oracolo del morto” – termine noto
già dal V secolo a.C.43 e, in secondo luogo, di Yucagwgoí – termine
tradotto generalmente con “evocatori di anime/ombre” 44 – anch’esso
attestato fin dal V secolo: è, infatti, il titolo di una tragedia di Eschilo
della quale ci sono giunti solo alcuni frammenti 45.
Tuttavia, i termini correlati a nekuomanteîon, che attestano
astrattamente la pratica divinatoria in questione, sono testimoniati
nelle nostre fonti solo molto più tardi, come titoli di opere letterarie e
non prima del III secolo a.C.
Nékuia è notoriamente il titolo del XI libro dell’Odissea e, come
tale, è attestato a partire da Diodoro Siculo46, nel I secolo a.C., ciò
nonostante sembra essere stato già il titolo della relazione su un rito

42
In generale, sulla necromanzia in Grecia e nel mediterraneo antico, oltre alle
opere citate sopra, cfr. D. Ogden, op. cit., per i termini ad essa relativi cfr., in
particolare, pgg. XIX – XXI e XXXI – XXXI, per l’ulteriore bibliografia cfr. pgg.
269 – 302; S. I. Johnston, op. cit., passim; A. Cecon, Femminile e saperi illeciti:
la necromanzia nel mediterraneo antico, tesi di laurea reperibile sul web
all’indirizzo http://www.lett.units.it/ichco/default.aspx.
43
Cfr. Hdt. V 92; Soph. F 748 TrGF.
44
Derivato da YucÔ anima, ombra in relazione ai morti, e Þnágw, “condurre su”,
“far salire”.
45
Cfr. Aesch. F 273, 273a, 274 e 275 TrGF.
46
Cfr. Diod. IV 39.

224
necromantico scritto da Menippo di Gadara nel III secolo a.C. 47, il
quale potrebbe aver preso spunto proprio dall’XI dell’Odissea, noto
forse in tali termini già da allora 48. Nekuomanteía (fem. sing.) è
attestato per la prima volta, in forma latinizzata – necyomantia –,
come titolo di un Mimo del I secolo a.C. scritto dal mimografo
Decimo Laberio49 (106 – 43 a.C.). Nello stesso periodo, Cicerone50
usa il “neutro plurale” greco nekyomanteia con il significato di “riti di
divinazione per mezzo dei morti”, attribuendo la loro pratica ad Appio
Claudio, e utilizza il termine psychomantíum51, con il significato di
“luogo per la divinazione per mezzo delle anime”52. Ancora, nel I
secolo d. C., Plinio il Vecchio conosce la parola femminile,
nuovamente latinizzata come necyomantea, e la utilizza per
denominare il libro XI dell’Odissea di Omero53. E, infine, nel II
secolo d. C., ritroviamo il termine nella sua forma greca, come titolo
alternativo della satira di Luciano di Samosata, Menippo o La
Necromanzia. Da ultimo, bisogna ricordare che il termine greco
nekromanteía (necromanteia) è una forma relativamente rara –
attestato per la prima volta come glossa a nekuomanteía nell’opera di
Esichio di Alessandria – sebbene già nel III, o forse II secolo a.C.,
scopriamo il termine nekromántij, utilizzato probabilmente nel
senso di “profeta morto”, nel poema Alessandra dello Pseudo-

47
Cfr. Diog. Laert. VI 8, 99 – 101.
48
Per A. – M. Tupet (cit. da D. Ogden, op. cit. pg. XXXI), the meaning of nekuia
should be confined to “descent to the dead”.
49
Cfr. Aulo Gellio, XVI 7e XX 6.
50
Cfr. Cic. Tusc. Disp. I 37.
51
Cfr. Cic. Tusc. Disp. I .
52
Ancora, Cicerone utilizzerà il termine psychomantia nel De Div. I, 132 con il
significato di “riti di divinazione per mezzo delle anime”, attribuendone la pratica
nuovamente ad Appio Claudio, il che rende il termine probabilmente sinonimo di
nekyomanteia.
53
Cfr. Plin. Nat. Hist. XXXV 132.

225
Licofrone54. Vi sono alcuni problemi nel tradurre l’epiteto tout court
come “necromante”, intendendo con esso lo specialista della
necromanzia, poiché il termine è attribuito allo stesso Tiresia, nel
racconto della profezia di Cassandra.
Per quanto riguarda la famiglia di parole a cui appartiene anche
Yucagwgoí, bisogna dire che il termine astratto indicante
l’evocazione delle anime, Yucagwgía, è attestato non prima del II o
III secolo d. C. nel dialogo Heroicus (IXX 3) di Filostrato55. Nel IV
secolo d. C., invece, il commentatore virgiliano Servio56 indica che, ai
suoi giorni, si è sviluppata una più raffinata tecnica: per lui il termine
sciomantia (divinazione per mezzo delle ombre) è usato per
l’evocazione dei morti, mentre il termine necromantia è riservato
ormai alla divinazione per mezzo della rianimazione dei cadaveri,
come nella Pharsalia di Lucano del I secolo d. C.
Due termini, dunque, sono fondamentali per quanto qui di nostro
interesse, yucagwgoí e nekuomanteîon, entrambi attestati nel V
secolo a.C., il primo, proprio in Eschilo, il secondo, per la prima volta
in Erodoto57. Possiamo dire, provvisoriamente, che il primo termine,
sembra descrivere operatori specializzati in una particolare tecnica di
evocazione dei morti, probabilmente a scopo divinatorio, ma non solo;
il secondo, sembra indicare un luogo dove è possibile entrare in
contatto con i morti.
A fronte di un buon numero di attestazioni, nelle fonti antiche, di
consultazione dei morti presso i nekuomanteîa, nessuna da

54
Cfr. Pseudo-Lycoph. v. 682.
55
Probabilmente, Flavio Filostrato (172 – 247 d. C.), lo stesso autore della Vita di
Apollonio di Tiana.
56
Serv. ad. Virg. Aeneid. VI 149 e 667.
57
Cfr. Hdt. V 92.

226
considerare storica, abbiamo, di contro, problematiche prove di
carattere archeologico. A più riprese, molti studiosi, soprattutto sulla
scorta dell’archeologo greco Dakaris (il quale ritenne di identificare il
nekuomanteîon di Acheron in Tesprozia con un complesso
ellenistico situato sotto un monastero di epoca cristiana), hanno
tentato di individuare la collocazione fisica dei siti citati dalle fonti,
con risultati angusti e poveri di incontrovertibili riscontri. Non è
possibile, in questa sede rendere conto di tutte le questioni connesse ai
rilievi archeologici, per le quali rimandiamo alla buona discussione
condotta da Ogden58. Qui ci interessa soprattutto richiamare alcune
considerazioni che rendono problematica l’interpretazione della
specificità e della funzione dei nekyomanteia.
In primis, la difficoltà di individuare archeologicamente i
nekyomanteia è legata anche al fatto che, diversamente rispetto ad altri
noti oracoli, ad oggi, non vi è la minima traccia di epigrafi connesse
ad essi59. Tuttavia, questa ultima considerazione non stupisce molto se
si pensa alla generale scarsità di prove documentarie dirette riferibili
alla necromanzia nell’antichità60.
Invece, una certa specificità dei nekyomanteia sembra possa essere
congetturata dall’analisi delle fonti. Infatti, bisogna sottolineare che il
termine nekuomanteîon (e le forme affini che abbiamo individuato
sopra), quando si riferisce ad un oracolo preciso, identifica sempre –

58
Cfr. D. Ogden, op. cit., pgg. 17 – 74.
59
Tranne una possibile eccezione, una tavoletta oracolare proveniente da Dodona,
databie alla fine del V inizio IV secolo a.C., su cui ritorneremo più avanti.
60
Cfr. D. Ogden, op. cit., pg. XXXI: «These papyri [i Papiri Magici Greci] are
the sole direct “documentary” evidence for the practice of necromancy in
antiquity. It is a remarkable fact that there is almost no epigraphy of direct
relevance to necromancy». Evidentemente, Ogden si riferisce al solo contesto
greco-romano, infatti, come abbiamo visto, “prove documentarie dirette” esistono
anche per la Mesopotamia.

227
con alcune eccezioni61 – uno dei quattro grandi oracoli: Acheron in
Tesprozia, Averno in Campania, Herakleia Pontica sulla costa del
Mar Nero e Tainaron, presso l’attuale Capo Matapan. Infatti, nessun
uso antico del termine ci obbliga a supporre che esso sia applicato a
qualche altro oracolo62. Il che ci porta a un’ulteriore considerazione:
sebbene associati talvolta dalle fonti antiche con altri oracoli eroici, in
particolare con quello di Trofonio a Lebadea e con quello di Anfiarao
a Oropo63, da essi sono sempre distinti. Si stabilisce, dunque, una
similitudine, ma essi non sono mai chiamati nekyomanteia e questo
dato potrebbe rimandare ad una differenza concettuale tra i due tipi di
oracoli.
Tuttavia, un altro elemento concorre a complicare l’indagine sui
nekyomanteia: precisamente, la loro diffusa reputazione di “accessi
inferi”. Luoghi con questa fama sono molteplici in Grecia e, come
sottolinea Ogden, si può dire che quasi ogni poleis ne avesse uno
proprio. Cave mefitiche, pozzi o paludi miasmatiche rappresentano
quell’articolata geografia di accessi che collegano il mondo dei vivi
con quello dell’oltretomba. Ad essi, come anche ai più specifici
nekyomanteia, si ascrivono le catabasi e le anabasi di molti eroi e dei
della mitologia: Eracle, Teseo, Orfeo e Dioniso; ad essi, inoltre, è
connesso il mitico ratto di Persefone. Questa duplice valenza, di
accessi inferi e di luoghi deputati all’evocazione dei morti, rende
ulteriormente complessa la valutazione di una dimensione reale e
specifica dei nekyomanteia. Probabilmente, le due dimensione si
61
Per le quali rimandiamo a D. Ogden, op. cit., pgg. 17 – 18.
62
Ibidem..
63
Cfr. D. Ogden, op. cit., pg. 24. Cfr. Plut. Mor. 109; Maxim. Tyr. VIII 2;
Luciano necyom. XXII fa risalire Menippo, dopo la sua discesa agli inferi presso
Babilonia, dal “foro” di Trofonio. Sul complesso mitico rituale di Trofonio cfr A.
Brelich, Gli eroi greci. Un problema storico-religioso, Roma 1958, pg. 46 – 66.

228
completano a vicenda nell’immaginario greco, ma questo avrebbe
bisogno di una ulteriore approfondita indagine che non compete
all’ambito della presente ricerca.
Desideriamo soffermarci, a questo punto, sulle fonti che ci attestano
l’esistenza dei nekyomanteia e che ci informano circa consultazioni di
carattere necromantico presso tali luoghi.
La prima testimonianza diretta, e anche la più antica, è quella
documentata dalle Storie di Erodoto64. Ci narra, infatti, lo storico di
Alicarnasso che il tiranno di Corinto, Periandro, volendo avere
informazioni circa un tesoretto monetale nascosto da un suo ospite,
invia messi presso i Tesprozi, sul fiume Acheronte, per consultare
l’oracolo dei morti (nekuomanteîon)65. Qui, continua Erodoto,
Melissa apparve (æpifaneîsa) e disse che non avrebbe indicato il
luogo in cui giaceva il deposito, perché aveva freddo ed era nuda.
Melissa, infatti, non traeva alcun vantaggio dalle vesti che erano state
messe nel suo tumulo, poiché non erano state incenerite. La donna, la
sua ombra ovviamente, per provare a Periandro che quel che diceva
era vero, aggiunse che lo scellerato marito aveva posto i “pani” nel
“forno freddo”.
Periandro intende subito la veridicità del discorso enigmatico della
moglie, comprendendo, di fatto, la metafora dei pani e del forno
freddo, poiché s’era unito a Melissa quando era già morta, in un
abominevole atto di necrofilia.

64
Cfr. Hdt. V 92.
65
Apprendiamo ulteriori particolari da altre fonti. Periandro uccise
involontariamente Melissa in un accesso d’ira. Calunniata da alcune concubine, fu
picchiata dal marito e morì in conseguenza delle percosse. In seguito, pentito
dell’accaduto, Periandro bruciò vive queste donne. Cfr. in proposito Hdt. III 50 –
52; Diog. Laert. I 7, 94 – 95.

229
Il tiranno, a questo punto, fa emanare un bando affinché tutte le
donne di Corinto andassero al tempio di Era. Esse si recarono
abbigliate come ad una festa, e con le loro vesti più belle. Periandro le
fece spogliare tutte, senza eccezione, le libere e le schiave, e,
rivolgendo preghiere a Melissa, bruciò le loro vesti presso la tomba.
Quindi, inviò a consultare una seconda volta l’oracolo; l’ombra di
Melissa (eêdwlon) indicò subito il luogo in cui aveva messo il
deposito dell’ospite.
Una serie di considerazioni si possono fare su questo racconto.
Innanzitutto, lungi dall’essere un’attestazione storica – probabilmente
si tratta di un racconto tradizionale che si è legato, ad un certo
momento, alla figura di Periando66 , esso è ricco di elementi mitici. La
stessa Melissa, rappresenta ben più che un morto comune. Il suo nome
– in realtà un soprannome, se si da credito alla notizia di Diogene
Laerzio67, per il quale il vero nome della donna era Liside – richiama
l’ape, in greco mélissa. Le api hanno uno statuto particolare
nell’immaginario mitico greco e alcune loro caratteristiche sono
notevolmente importanti in relazione alla necromanzia 68. In primo
luogo, si ritiene che esse si originino dai cadaveri di uomini e
animali69, che abitino grotte ed antri70 e sovente sono associate
all’immagine delle ombre che affollano gli inferi come “sciami”

66
Sul racconto erodoteo, si vedano in particolare: E. Pellizer, Periandro di
Corinto e il forno freddo, in R. Pretagostini (a cura di), Tradizione e innovazione
nella cultura greca da Omero all’età ellenistica. Scritti in onore di runo Gentili,
2, Roma 1993, pgg. 801 – 811; P. duBois, Sowing the Body, London 1988; N.
Loraux, Melissa, moglie e figlia di tiranni, in N. Loraux (a cura di), Grecia al
femminile, Roma – Bari 1993, pgg. 3 – 37. Per possibili antecedenti e paralleli cfr.
D. Ogden, op. cit., pgg. 57 – 60.
67
Cfr. Diog. Laert. I, 7, 94.
68
Cfr. D. Ogden, op. cit., pg. 56.
69
Cfr. Hdt. V 114; Virg. Georg. IV 317 – 558.
70
Cfr. Hom. Il. II 87; XII 156.

230
d’api71. Inoltre, sono note per avere poteri profetici 72. Il commentatore
virgiliano Servio73, poi, ci informa che un’altra donna corinzia di
nome Melissa, un’anziana donna a cui Cerere (Demetra) aveva
affidato i suoi riti, sarebbe stata uccisa violentemente e dal suo corpo
la dea avrebbe fatto nascere le api74. Al di là del racconto logicizzante
di Erodoto, la figura di Melissa, dunque, sembrerebbe godere di un
statuto ben più elevato, che non quello di un qualsiasi morto. In
relazione alle valenze semantiche della figura di Melissa, il racconto
erodoteo, forse, può essere avvicinato ad una più tarda narrazione. Ci
racconta, infatti, il lessico Suda75 che l’uccisore del poeta Archiloco,
un tale Kalondas, soprannominato “Korax” – corvo –, andò a
consultare la Pizia (i motivi non sono specificati) la quale, tuttavia,
non lo volle ammettere e lo allontanò, considerandolo impuro. Ma il
dio, mosso a pietà per il suo fato, lo inviò presso il Tainaron, il luogo
dove era stato sepolto Tettix – cicala –, per placare l’anima (yucÔ)
del poeta e per renderla “amichevole” per mezzo di libagioni.
Seguendo queste istruzioni, l’uomo si liberò dall’ira del dio.
Plutarco, narrando la medesima vicenda, si riferisce all’oracolo
chiamandolo “la casa di Tettix”, Pausania lo chiama “la casa
sotterranea degli dei, dove le anime vengono radunate” ed Esichio ci
71
Cfr. Aesch. Psych. fr. 273a TrGF; Soph. fr. 879 TrGF; Virg. Aeneid. VI 706.
72
Cfr. Arist. Hist. Anim. 627 b 10; ci racconta Pusania (IX 40), che esse hanno
rivelato il luogo dell’oracolo di Trofonio; Cfr. anche Schol. Aristoph. Nuv. 506.
73
Cfr. Serv. ad Virg. I 430: «apud Isthmon anus quaedam nomine Melissa fuit.
Hanc Ceres sacrorum suorum cum secreta docuisset, interminata est, ne cui ea
quaedidicisset aperiret; sed cum ad eam mulieres accessissent, ut ab eaprimo
blandimentis post precibus et praemiis elicerent, ut sibi a Cerere commissa
patefaceret, atque in silentio perduraret, ab eisdem iratismulieribus discerpta est.
Quam rem Ceres inmissa tam supra dictisfeminis quam populo eius regionis
pestilentia ulta est; de corpore vero Melissae apes nasci fecit».
74
Inoltre, Mélissa, era anche titolo comune alle sacerdotesse di Demetra, cfr. D.
Ogden, op. cit., pg. 56 e n. 56.
75
Cfr. Suda, s.v. Archilochos.

231
informa che il cretese Tettix aveva, in passato, colonizzato il
promontorio76. Ogden ritiene che, forse, questo personaggio possa
servire da mediatore, quale morto “speciale”, per introdurre i
consultanti dell’oracolo all’incontro con altri morti e che rappresenti
una sorta di patrono dell’oracolo stesso. La medesima funzione, forse,
ricopriva Melissa nel nekyomanteion di Acheron in Tesprozia, luogo
sacro, inoltre, ad Ade e Persefone. Ma la scarsità delle fonti rende
difficile una analisi che vada oltre la congettura. Il ricco simbolismo
della cicala, comunque, si raccorda in qualche modo con quello
dell’ape. Essa è la profetessa delle Muse77, è amata dalle Muse stesse
e da Apollo, è nata dalla terra, è saggia, è immortale, non può soffrire,
la sua carne è priva di sangue ed è, dunque, simile agli dei78. In più, la
cicala è una creatura sacra79, simbolo, nel Fedro di Platone, dell’anima
che perviene, liberata dal legame con la materia, alla contemplazione
suprema80. Aggiungiamo a quanto detto sopra che ugualmente, anche
l’ape, come la cicala, è amata dalle Muse81 e il miele che essa
produce, si ritiene abbia proprietà curative, rigenerative e conservative
e che sia particolarmente apprezzato dagli dei82. Il miele stesso è citato
spesso nei resoconti di consultazioni necromantiche e nelle offerte
comuni in onore dei defunti presso le tombe.

76
Cfr. D. Ogden, op. cit., pg. 38; cfr. Paus. III 25; Plut. Mor. 560 e – f; Hesyc. s.v.
Tettigos hedranon.
77
Cfr. Platone, Fedro 262 d.
78
Cfr. Anacreontea, XXXIV 10 – 18. Sul simbolismo della cicala Cfr. D. Ogden,
op. cit., pg. 38.
79
Cfr. Plut. Quest. Conv. VIII 7, 3.
80
Cfr. A. Cecon, op. cit., pg. 48.
81
Cfr. Varro De re rust. III 16.
82
Cfr. L. Bodson, Hiera Zoia. Contribution à l’étude de la place de l’animal dans
la religion grecque ancienne, Bruxelles 1975, pgg. 23 – 25.

232
Comunque, il racconto erodoteo di Periandro e Melissa si inserisce
nel più ampio ragionamento sui mali della tirannide e sulla hybris del
tiranno; riflessione che Erodoto fa enunciare dall’araldo corinzio
Socle presso gli Spartani: le ultime parole, in chiusura di discorso,
sono: «Tale è la tirannide, o Spartani, e capace di tali azioni». Ma
sorvoliamo per un momento su questo importante elemento, sul quale
torneremo a breve, per richiamare un altro resoconto di consultazione
necromantica che vede per protagonista il reggente spartano Pausania,
il vincitore dei Persiani a Salamina. Anche questo passo può essere
accostato al brano erodoteo su molteplici livelli. Plutarco83 ci informa
che re Pausania si era recato a consultare Kleonike presso il
nekyomanteion di Herakleia84. Infatti, narra lo scrittore, re Pausania
convocò una vergine di Bisanzio, di buona famiglia, con lo scopo di
“rovinarla”. A chi la conduceva dal re, la fanciulla domandò di poter
entrare nella stanza di Pausania al buio e in silenzio, ma accadde che,
entrando, urtò accidentalmente un lucerniere, facendolo cadere.
Pausania, che già dormiva, svegliatosi di soprassalto, credendo fosse
un nemico, la uccise. Pausania, il periegeta, aggiunge che il re era
sempre preda di turbamenti e paure, poiché era conscio di essere un
traditore della Grecia85. Da allora, il re fu perseguitato in sogno dal
fantasma della fanciulla e per questo si recò al nekyomanteion di

83
Cfr. Plut. Cim. 6 ; Mor. 555c; Cfr. Anche Paus. III 17.
84
Presso gli Yucagwgoí di Figalia in Arcadia per Paus. III 17.
85
È noto, infatti, che lo stesso vittorioso re che aveva sconfitto i Persiani a Platea
è accusato, in seguito, di “medismo”. Cfr. Tucidide, I 132 – 134: il racconto, qui,
è incentrato proprio sul tradimento di Pausania, sulle famose “lettere al nemico”,
ed è ricco di riferimenti a contesti necromantici e al nekyomanteion di Tainaron;
secondo D. Ogden, op. cit., pg. 40, il racconto tucidideo potrebbe essere una
forma razionalizzata di una storia che è essenzialmente un doppione di quella
narrata da Plutarco. Lo stesso Plutarco, prima del racconto che qui stiamo
esaminando, accenna al tradimento di Pausania e ai suoi atteggiamenti tirannici.

233
Herakleia per tentare di placare la sua ira. L’ombra di Kleonike
rispose, con un linguaggio enigmatico, che le sue pene avrebbero
avuto fine una volta tornato a Sparta. Tornato a Sparta Pausania morì
come è noto.
Anche qui, sono possibili molteplici richiami sia al racconto di
Periandro e Melissa, sia a quello di Korax e Tettix. In relazione al
racconto erodoteo, bisogna notare che in entrambi i casi, l’uomo
uccide accidentalmente la moglie e ne evoca il fantasma presso un
nekyomanteion. Ma un omicidio – in guerra – è anche il motivo ultimo
che avvia la consultazione di Korax nella Suda. Riguardo agli
“obiettivi” dei rituali necromantici narrati, Ogden 86 sottolinea che,
sebbene non si accenni esplicitamente in Erodoto, come invece accade
nel resoconto su re Pausania e in quello su Corax, l’intenzione
principale sembrerebbe essere quella di placare i defunti stessi. Per
quanto riguarda il racconto dello storico di Alicarnasso, tuttavia, un
tale proposito sembrerebbe rintracciabile nelle pieghe del testo,
particolarmente nella richiesta di Melissa di bruciare le vesti. Forse
Erodoto, che ha come fine quello di dipingere i mali della tirannide,
attraverso una concatenazione di atti che possono essere considerati
esemplari per la hybris tirannica (cupidigia, necrofilia, necromanzia,
autocrazia), ha posto maggiore enfasi su alcuni elementi, mettendone
altri in secondo piano.
Inoltre, anche nella parabola Plutarchea su re Pausania e Kleonike,
come in quella erodotea e in quella della Suda, i nomi dei protagonisti
hanno una duplice valenza: Kleonike, “vittoria gloriosa”, può far
riferimento alle recenti vittorie di Pausania87, ma può essere inteso

86
Cfr. D. Ogden, op. cit., pg. 57.
87
Cfr. D. Ogden, op. cit., pg. 32.

234
anche quale metafora di eccesso, di tracotanza – il desiderio smodato
del condottiero nei confronti della vergine è eloquente – tanto più che,
Kleonike stessa, nelle sue oniriche apparizioni, tormenta Pausania
facendo anche esplicito riferimento alla hybris: «Steîce díkhj
%asson: mála toi kakòn Þndrásin 0brij». Il nome del padre di
Kleonike, Koronide88, significa “figlio del corvo” – da notare il
parallelo con Korax – ed anche il corvo è animale spesso associato
alle anime dei trapassati89.
Dunque, ritroviamo in questi resoconti, elaborati in momenti diversi
e culturalmente stratificati, una serie di elementi ricorrenti che,
probabilmente, dovevano essere noti e immediatamente recepibili
dalla communis opinio e dai destinatari dei racconti stessi. Le
narrazioni prese in esame fino a questo momento, se, da una parte, ci
attestano la possibile esistenza di nekyomanteia e ci attestano come
fosso noto che in tali luoghi fosse plausibile entrare in contatto con
l’oltremondo e con i defunti, dall’altra, ci dicono poco rispetto al
possibile funzionamento di un nekyomanteion. Le analisi delle fonti
dirette a rintracciare – attraverso la comparazione con il
funzionamento di altri oracoli noti e che sono spesso recepiti, forse più
dalla mentalità della critica moderna che non dagli antichi stessi, come
“simili” – una possibile modalità operativa dei nekyomanteia e un
possibile modello di funzionamento comune, hanno generato non
poche discussioni90. Per Ogden, la comparazione tra le fonti greco-
romane sui nekyomanteia e alcuni oracoli eroici, Trofonio, Anfiarao e

88
In Aristodemo cit. da D. Ogden, op. cit., pg. 31
89
Cfr. Plin. Nat. Hist.VII 174.
90
Sia in relazione al possibile modus operandi, sia in riferimento alla loro stessa
natura di oracoli. Cfr. sull’argomento D. Ogden, op. cit., pgg. 17 – 92 e 163 – 216;
Cfr. A. Cecon, op. cit., pg. 38.

235
Fauno, sembrerebbe indicare l’incubazione quale tecnica precipua di
consultazione necromantica presso i nekyomanteia e presso le
tombe91, unitamente a rituali di purificazione92.
L’ipotesi comparativa, oltre alla “somiglianza” tra quegli oracoli e i
nekyomanteia e alla stretta associazione nell’immaginario greco tra
morte, sonno, sogni e divinazione, sembrerebbe confortata da alcuni
dettagli di un altro racconto di Plutarco93: la consultazione effettuata
da Elysio di Terina presso uno psychomanteion in Italia, non meglio
identificato (pensava Plutarco forse all’Averno?), al fine di conoscere
le cause della morte del suo unico figlio. Il racconto è noto anche a
Cicerone94, che lo attribuisce al filosofo greco dell’Accademia
ateniese Crantore di Soli (III secolo a.C.), il quale, tra le altre cose,
aveva scritto un’opera Sul dolore (in greco Περὶ Πένθους, tradotto in
latino con De Luctu), inaugurando il genere letterario delle
“Consolazioni”. Nella versione plutarchea, dunque, Elysio, giunto allo
psychomanteion, dopo aver effettuato gli usuali riti sacrificali, si mette
a dormire e, attraverso la visione onirica, “sperimenta” il defunto.
Le fonti che abbiamo esaminato sembrano indicarci, altresì, che in
Grecia, soprattutto nell’epoca arcaica e classica, ciò che noi usiamo
definire convenzionalmente necromanzia fosse legata
indissolubilmente alla dimensione del culto eroico, a un morto
“speciale” dotato di caratteri sovrumani, anche se certi percorsi
sembrano sfuggirci.
Come sottolineato anche da Grottanelli, lo abbiamo visto sopra, la
necromanzia nelle epoche successive, diverrà qualcosa di diverso: nel

91
Cfr. D. Ogden, op. cit., pgg. 75 – 92.
92
Libagioni, sacrifici, invocazioni ecc.
93
Cfr. Plut. Mor. 109 b – d.
94
Cfr. Cic. Tusc. Disp. I 115.

236
passaggio dal mondo greco al mondo sincretistico ellenistico e
romano, muteranno le istanze culturali e, di conseguenza, anche le
forme, i procedimenti, le norme, i modelli della prassi necromantica
conosceranno nuove dimensioni95 e muteranno anche gli attori di
questa necromanzia. Come ci testimonia esplicitamente il retore Greco
Massimo di Tiro (II secolo d. C.), in relazione all’oracolo di Aornos
(Averno), chi necessita di evocare un morto, vi si reca, prega,
predispone il sacrificio e le libagioni necessarie ed evoca l’anima di
chiunque egli voglia tra i suoi antenati e conoscenti 96. Anche se la
dipendenza dal modello Omerico rende poco attendibile la descrizione
del funzionamento dell’oracolo stesso, egli comunque ci documenta
una nuova ricezione della prassi necromantica, ormai aperta al
consulto di qualunque morto.
I documenti presentati fino a questo momento, oltre a dirci poco sul
funzionamento dei nekyomanteia, non ci dicono nulla sull’esistenza di
possibili “necromanti”, vale a dire di personale sacerdotale adibito alla
pratica di tali riti. Ci volgiamo, a questo punto, a considerare la
seconda parola che avevamo indicato come rilevante nella
individuazione di una prassi necromantica in Grecia, yucagwgoí.
In verità, nella tarda testimonianza di Massimo di Tiro, gli
attendenti dell’oracolo di Averno sono chiamati proprio yucagwgoí –
evocatori. Yucagwgoí, come abbiamo detto, è il titolo di un dramma
di Eschilo, probabilmente una tragedia, il cui frammento più
importante97 ci presenta i momenti salienti di un rito necromantico di
evocazione delle ombre dei defunti presso una límnh. Alla luce degli

95
Lacanomanzia boy medium ecc grandi necromanti latine
96
Cfr. Maxim. Tyr. VIII 2.
97
Cfr. Pap. Coloniae 125 = 273 a TrGF.

237
altri frammenti in nostro possesso98, la scena descritta è generalmente
attribuita dagli studiosi all’episodio di Odisseo e della profezia di
Tiresia. In breve, “qualcuno” invita uno straniero (ý xeîn’) a
effettuare, presso una límnh, un sacrificio in favore dei defunti (è
detto chiaramente «concedi agli inanimati come bevanda il sangue di
questo sacrificio, verso il fondo oscuro delle canne»), invocando la
Terra, Hermes Ctonio e soprattutto Zeus Ctonio, affinché mandi
indietro le schiere dei morti. Gli psicagoghi del titolo, dovrebbero
essere quel “genos intorno alla palude” che onora Ermes come
progenitore della stirpe che ritroviamo al frammento 273 TrGF, e che
è accostato solitamente al popolo dei Cimmeri di omerica memoria.
Dunque, se la scena rappresenta la Nekyia omerica, Eschilo sembra
allontanarsi a vari livelli dalla narrazione del poeta epico. In primo
luogo, nel nostro frammento, non è Circe, ma sono gli psicagoghi,
pare, che istruiscono lo straniero sulle azioni da compiere. In secondo
luogo, per le modalità del rito: qui il sangue del sacrificio, non è
versato dentro la fossa scavata nel terreno alla confluenza tra
l’Acheronte e il Cocito, ma direttamente nella límnh. Secondo
Ogden99, la scena eschilea potrebbe essere ambientata presso il
nekyomanteion di Acheron in Tesprozia e gli “psicagoghi”, pur
assomigliando ai Cimmeri100 e benché siano definiti genos, potrebbero

98
In particolare il fr. 275 TrGF.
99
Cfr. D. Ogden, op. cit., pgg. 43 – 60, in particolare pg. 48, ma vedi anche .
100
Il frammento 273 TrGF accenna a “„Ermân mèn prógonon tíomen génoj oë
perí límnan”. Per il commentatore di Aristofane, Triclinio (Rane, v. 1266), la
límnh di cui si parla sarebbe quella di Stinfalo, presso il monte Cillene, dove,
secondo la tradizione, nacque Hermes. Se la límnh dei due frammenti in
questione è la medesima, la tragedia sembrerebbe allontanarsi dal dettato omerico.
Tuttavia, l’identificazione del lago dei passi citati con quello di Stinfalo non è
condivisa da tutti gli studiosi. Cfr., ad esempio, D. Ogden, op. cit., pgg. 23 – 24 e
n. 17 con ulteriore bibliografia.

238
essere una proiezione a livello mitico degli psicagoghi storici.
L’ipotesi nasce dalla constatazione che alcune fonti antiche, Pausania
tanto per fare un esempio101, proiettavano l’effettiva sede della Nekyia
omerica presso i luoghi della Tesprozia, che per la sua particolare
conformazione idrografica e per la toponomastica locale – che
associava i suoi fiumi proprio ad alcuni fiumi infernali descritti e
nominati da Omero – prestava bene il fianco a tali associazioni.
Tuttavia, qui non ci interessa soffermarci su associazioni difficilmente
dimostrabili – è Omero che prende spunto dalla toponomastica della
Tesprozia102, oppure sono i fiumi che prendono i nomi in seguito alla
fama del dettato omerico? – piuttosto vorremmo soffermarci sulla
dimensione storica degli psicagoghi e sulle caratteristiche della loro
arte. In primo luogo, abbiamo alcune fonti che associano gli
psicagoghi con i nekyomanteia. Come abbiamo visto, Massimo di Tiro
lo fa esplicitamente, Pausania, nella sua versione della consultazione
della defunta Kleonike da parte di re Pausania, ambienta
l’avvenimento presso gli psicagoghi di Figalia in Arcadia, ma senza
citare alcun nekyomanteion. Tuttavia, l’identità, tranne che per alcuni
dettagli, con i resoconti di Plutarco, il quale ambienta la consultazione
per ben due volte presso il nekyomanteion di Herakleia, suggerisce
che anche nel caso del periegeta il riferimento sia proprio a un
nekyomanteion. Ancora, da Plutarco103 apprendiamo che un oracolo104
ordinò agli Spartani di far chiamare psicagoghi dall’Italia, per placare
l’ormai morto reggente Pausania. A fronte di queste esigue
101
Cfr. Paus. I 17, 4 – 5.
102
Il che, evidentemente, potrebbe attestare la presenza di un nekyomanteion già
per epoche antecedenti ad Omero stesso; Cfr. D. Ogden, op. cit., pg. 43 – 47.
103
Cfr. Plut. Mor. 560 e – f.
104
Probabilmente quello di Delfi, come ci ricorda Tucidide nella narrazione
razionalizzata della medesima storia.

239
attestazioni, possediamo, invece, una fonte archeologica molto più
importante – l’eccezione a cui accennavamo sopra – proveniente dalle
tavolette dell’oracolo tesprozio di Zeus a Dodona (databili alla fine del
V secolo a.C.). In una di queste105, un gruppo di persone106 interpella il
dio sulla opportunità o sulla necessità di ricorrere alle abilità dello
psicagogo Dorios: «˜ mÕ crhûntai Dwríwi tÏ[i] yucagwgÏi;»107.
Se è impossibile confermare una connessione tra lo psicagogo Dorios
e il vicino nekyomanteion di Acheron108, tuttavia la tavoletta ci
documenta, anche se in maniera limitata, la reale attività storica di uno
psicagogo sul finire del V secolo.
Ma che cosa era la Yucagwgía? Il lessico Suda ci riporta le
seguenti informazioni:

Περὶ ψυχαγωγίας. γοητείας τινὰς ποιοῦσιν ἐς τοὺς νεκρούς: ἐπὰν


γὰρ ἐς τὰ χωρία ἀφίκωνται ὅθεν ἄγειν ἔστι τὰς ψυχάς, ἃς ποθοῦσιν οἱ
δεόμενοι, ἀφικνοῦνται ἔνθα τεθνᾶσιν οἱ ψυχαγωγούμενοι: καὶ οὐχ
εὑρίσκουσι παραχρῆμα τὸν χῶρον, ἀλλὰ ἀνιχνεύουσι τὸν τρόπον
τοῦτον. πρόβατον μέλαν παραλαβόντες, εἶτα τοῦ κέρατος τοῦ ἑτέρου
λαβόμενοι ἢ τῶν ποδῶν τῶν προσθίων καὶ ἐπὶ τοῖς ποσὶ τοῖς ἄλλοις
στήσαντες περιάγουσι: τὸ δὲ ἕπεται τῇ ἕλξει, καὶ μάλα εὐπειθῶς. ὅταν
δὲ ἀφίκηται ἔνθα ἐκεῖνος ἢ ἐκείνη κατ- ηνέχθη, ἐνταῦθα τὸ πρόβατον
ἑαυτὸ ἔρριψε: καὶ τούτου γενομένου, εἶτα τὸ πρόβατον ἐκποδὼν
ποιήσαντες καὶ κατακρύψαντες σὺν καί τισι ποικίλαις ἱερουργίαις καὶ
ἐπῳδαῖς περιηγοῦνται καὶ περιέρχονται αὐτὰ καὶ ἀκούουσι λεγόντων

105
Inv. M166.
106
Che potrebbero essere sia privati cittadini, sia rappresentanti di una comunità.
107
«Dovrebbero realmente utilizzare lo psicagogo Dorios?». Cfr. sull’argomento,
S. I. Johnston, op. cit., pg. 109.
108
Cfr. D. Ogden, op. cit., pg. 53.

240
καὶ τὰς αἰτίας, δι' ἃς μηνίουσι, πυνθάνονται. ἐψυχαγώγησε δὲ καὶ
Ἀντωνῖνος ὁ Ῥωμαίων βασιλεὺς περὶ Κομόδου τοῦ πατρὸς αὐτοῦ.

La descrizione della Suda punta sulla psicagogia quale arte per


placare i morti senza pace, i quali, paradossalmente, per essere quietati
devono prima essere evocati. Si impone, di passaggio, il paragone con
i passi analizzati sopra: nel racconto di Korax, in quello del reggente
Pausania e, con più difficoltà, in quello del tiranno Periandro
l’obiettivo primario della consultazione necromantica è quello di
placare i morti109.
Un rilievo quest’ultimo che meriterebbe, in verità, una più ampia
analisi che puntasse precipuamente sull’indagine delle finalità delle
azione necromantica in Grecia, in particolare, sullo statuto del morto
evocato, e che tracciasse, nelle linee principali, le dinamiche di un
mutamento. Una tale indagine esula dalle possibilità della presente
ricerca110, ma notiamo di passaggio che nella catabasi di Odisseo il
morto consultato è Tiresia, che mantiene poteri oracolari anche
durante la morte, mentre tutti gli altri morti sembrano non conoscere
nulla del futuro. La necromanzia eschilea nei Persiani è più
problematica; infatti, bisogna sottolineare che, inizialmente, la finalità
dell’evocazione di Dario dichiarata dal Coro (vv. 631 – 632) è quella
di poter avere un qualche rimedio ai mali del presente (la sconfitta di
Serse e la morte del “fiore” dei Persiani) ed è anche, però, affermato
esplicitamente che Dario è l’unico tra i mortali a poterne dire la fine.
Quando Dario appare (vv. 681 – 820), evidentemente non sa nulla

109
Ibidem.
110
Per un approccio preliminare alle problematiche qui indicate, rimandiamo il
lettore a quanto discusso da D. Ogden, op. cit., pgg. 231 – 250; Cfr. anche S. I.
Johnston, op. cit., passim.

241
degli eventi presenti; una volta che li ha appresi dalle parole di Atossa,
identifica in essi il compimento degli oracoli dei quali, tuttavia, era già
a conoscenza quando era vivo; e tali oracoli sembrano essere anche la
fonte delle successive conoscenze su quanto accadrà presso il fiume
Asopo e a Platea. Di contro, come abbiamo visto nel precedente
capitolo, lo statuto di Dario è quello di un morto “speciale”, egli è il
“dio persiano di Susa”, egli è in morte ed era in vita “consigliere
ispirato dal dio”, qeomÔstwr (vv. 651 – 656).
Fondamentale, per quanto qui di nostro interesse, un passaggio di
Platone nelle Leggi111che descrive negativamente proprio l’attività
degli psicagoghi:

«ὅσοι δ᾽ ἂν θηριώδεις γένωνται [909β] πρὸς τῷ θεοὺς μὴ νομίζειν ἢ


ἀμελεῖς ἢ παραιτητοὺς εἶναι, καταφρονοῦντες δὲ τῶν ἀνθρώπων
ψυχαγωγῶσι μὲν πολλοὺς τῶν ζώντων, τοὺς δὲ τεθνεῶτας φάσκοντες
ψυχαγωγεῖν καὶ θεοὺς ὑπισχνούμενοι πείθειν, ὡς θυσίαις τε καὶ εὐχαῖς
καὶ ἐπῳδαῖς γοητεύοντες, ἰδιώτας τε καὶ ὅλας οἰκίας καὶ πόλεις
χρημάτων χάριν ἐπιχειρῶσιν κατ᾽ ἄκρας ἐξαιρεῖν, τούτων δὲ ὃς ἂν
ὀφλὼν εἶναι δόξῃ, τιμάτω τὸ δικαστήριον αὐτῷ κατὰ[909ξ]νόμον
δεδέσθαι μὲν ἐν τῷ τῶν μεσογέων δεσμωτηρίῳ, προσιέναι δὲ αὐτοῖς
μηδένα ἐλεύθερον μηδέποτε, τακτὴν δὲ ὑπὸ τῶν νομοφυλάκων αὐτοὺς
τροφὴν παρὰ τῶν οἰκετῶν λαμβάνειν»112.

111
909 a – b.
112
«Quelli che invece, simili a bestie, oltre a non credere all'esistenza degli dèi, o
a ritenerli negligenti o corruttibili, in disprezzo degli uomini, incantano l'anima di
molti viventi,asserendo di saper evocare i morti. Essi garantiscono di persuadere
gli dèi attraverso le pratiche di stregoneria, con sacrifici, preghiere, ed
incantesimi, e mettono mano, per sete di ricchezze, alla completa rovina di privati
cittadini, delle famiglie intere e degli stati, per colui che fra costoro risulti dunque
colpevole, il tribunale per quello stabilisca che sia condannato al carcere che sta
in mezzo alla regione, secondo la legge, e mai alcun uomo libero si avvicini a

242
Il passo si inserisce nel più ampio discorso sull’empietà verso il
divino del X libro e il gruppo di persone qui descritte, anche se il
vocabolario utilizzato appare differente, è senz’altro il medesimo
individuato nel famoso passo anti-orfico della Repubblica113: quel
gruppo di truffatori, girovaghi e indovini (Þgúrtai e mánteij) che
bussano alla porta dei ricchi, promettendogli di poter eliminare le
ingiuste azioni attraverso piaceri e feste; persuadono i malcapitati di
aver avuto in dono dagli dei una “facoltà”, ottenuta con sacrifici
(qusíaij) e incantesimi (æp_daîj); affermano che, con poca spesa,
possono abbattere il giusto, come l’ingiusto, attraverso magici nodi
(katadésmoij) ed evocazioni/incantesimi (? æpagwgaîj), poiché
sono in grado di asservire gli dei al loro comando. Il lessico utilizzato
nelle Leggi è particolarmente significativo in relazione alla
Yucagwgía, poiché ci permette di mettere in evidenza un’altra
particolarità: coloro che ammaliano le anime dei vivi (ψυχαγωγῶσι),
asserendo di poter evocare / ammaliare (ψυχαγωγεῖν) le anime dei
morti, sono gli stessi che qualche riga dopo praticano la gohteía.
Nelle parole di Platone, la gohteía è, dunque, strettamente
associata alla yucagwgía e l’associazione è ancora più esplicita nelle
fonti più tarde114. Significativo, ad esempio, è uno scolio115 ad
Euripide, la cui fonte dichiarata è Plutarco, che descrive gli psicagoghi
chiamati da Sparta per quietare l’anima del reggente Pausania come
goētes, i quali sapevano usare purificazioni (kaqarmoí), e la gohteía

questa gente, ed essi ricevano il vitto stabilito dai custodi delle leggi da parte dei
servi».
113
364 b – e.
114
Cfr. D. Ogden, op. cit., pgg. 110 – 111.
115
Cfr. schol. Eur. Alc. 1128.

243
come quell’azione che poteva sia aizzare le anime dei morti contro gli
altri, sia scacciarle via. La derivazione di gohteía e di góhj da góoj, il
lamento funebre116 presso la tomba, indica proprio nella yucagwgía
il centro concettuale della gohteía stessa117. E come tale, pare, sarà
avvertito per molto tempo ancora, se nel lessico Suda la gohteía «è il
far salire (evocare) i morti (Þnágein nekròn) attraverso l’invocazione
del loro nome (æpiklÔsewj), donde deriva il suo nome dai gemiti
(góon) e dalle lamentazioni (qrÔnwn) delle persone intorno alla
tomba». Interessante notare che, in un passaggio dell’Odissea 118, lo
stesso eroe, fuggendo con le navi dopo che i Danai erano stati
sopraffatti in battaglia dai Cìconi, compie un rituale particolare: egli
chiama, per tre volte, il nome dei compagni feriti sul campo di
battaglia. Il fine ultimo di questo rituale è solitamente interpretato
quale tecnica atta a placare le anime dei defunti a cui non si potevano
rendere gli onori funebri, costringendole nel loro cenotafio.
Nei Persiani, il lessico utilizzato per la scena necromantica è
particolarmente preciso e rimanda alla Yucagwgía e alla gohteía,
una sfera di significati che dovevano essere, evidentemente,
facilmente recepibili dal pubblico ateniese del V secolo. Una volta
apparso, infatti, Dario denomina i lamenti del Coro Yucagwgoîj
góoij119, vale a dire lamenti che evocano le “anime” dei morti, e

116
Cfr. S. I. Johnston, op. cit., pg. 92; D. Ogden, op. cit., pg. 110; F. Graf, La
magia nel mondo antico, tr. it., Roma – Bari 1995, (orig. La magie dans
l’antiquité gréco-romaine. Idéologie et pratique, Paris 1994).
117
D. Ogden, op. cit., pg. 110.
118
Cfr. vv. 62 – 66 e schol.; Eustat. ad loc, che ci ricorda come fosse d’uso
innalzare cenotafi per coloro che erano morti in mare e pronunciare il loro nome
tre volte; Pind. Pyt. IV 159 e schol; cfr. S. I. Johnston, op. cit., pg. 151 e 155; D.
Ogden, op. cit., pg. 109; cfr. E. Rohde, Psyche: The Cult of Souls and Belief in
Immortality among the Greeks, London 1925, pg. 42.
119
Cfr. v. 687.

244
asserisce, poco oltre, di essere salito da laggiù cedendo ai lamenti
(góoij, v. 697) dei Fedeli. Ma quali sono nel testo i gemiti di dolore a
cui fa riferimento Dario? Possono essere, forse, identificati nei famosi
“ee”, “oi”, “aiai”, ma il riferimento può essere anche all’intero inno
evocatorio, considerato nella sua totalità120. È interessante notare che,
all’interno del canto di evocazione dell’ombra di Dario, l’antico
sovrano viene evocato proprio per tre volte con il suo nome persiano
(ovviamente, quello che per Eschilo poteva essere il suo nome
persiano), con un’inversione del rito descritto dall’Odissea.
Secondo Johnston121, «in the Persians, we witness the very
transformation of female lament into male goēteia. Aeschylus
crystallizes in a single dramatic scene a process that spanned, no
doubt, far more than a century»122. Inoltre, suggerisce la studiosa, il

120
Cfr. D. Ogden, op. cit., pg. 109
121
Cfr. S. I. Johnston, op. cit., pg. 117.
122
S. I. Johnston (op. cit., pgg. 115 – 116), pur rifiutando la tesi di W. Burkert
(Goes: Zum griechischen “schamanismus”, RhM 105, pgg. 36 – 55, in particolare
pg. 44) secondo la quale la figura del góhj sarebbe stata originariamente una sorta
di “sciamanico” conduttore di anime il cui compito sarebbe stato quello di
facilitare il passaggio dei morti nell’altro mondo, ritiene che l’idea che i vivi
potessero “manipolare” i morti, attraverso particolari tecniche, sia di origine non
greca e che i Greci l’abbiano appresa da culture limitrofe durante il periodo
arcaico. Poiché il contatto con i morti richiedeva una comunicazione con il mondo
infero, il termine greco per descrivere gli esperti in questa nuova arte fu costruito
sulla radice di una più antica parola che tradizionalmente descriveva il lamento
indirizzato al morto: góoj. Così importante fu questo elemento di comunicazione
nell’atto di invocare il morto, che anche l’associazione di lunga durata tra il góoj
e le donne (è noto, infatti,che il lamento maschile, più ordinato e composto, era
denominato qrÖnoj) non impedì lo sviluppo della parole maschile góhj. La
studiosa adduce a sostegno di questa tesi una serie di esempi finalizzati a
dimostrare l’origine straniera della pratica della gohteía, non ultimi,
suggerimenti di carattere linguistico. Tuttavia, in relazione alla derivazione
straniera – orientale – dell’idea di poter entrare “manipolare” i morti – cioè la
necromanzia – valgono le considerazione già espresse sopra. Suggerisce, a tal
proposito, D. Ogden (op. cit., pg. 112) che le restrizioni legali indirizzate alle
espressioni del dolore nella Grecia arcaica (cfr., ad esempio, Plut. Sol. 21), più
dure nei confronti delle donne che non degli uomini, poiché prime responsabili

245
fatto che Eschilo abbia scelto di cristallizzare questa trasformazione,
ambientandola alla corte dei Persiani, l’alterità per eccellenza, è un
ulteriore indice di una concettualizzazione della goēteia quale pratica
sentita come estranea, straniera ed estrema123. Questa cristallizzazione
operata da Eschilo, nella grande scena di psicagogia, sarebbe
informata, secondo la studiosa, dall’unione, nel medesimo atto rituale,
dei caratteristici riti di cordoglio presso la tomba e dalla tecniche
nuove della psicagogia. A tal proposito, secondo Graf, «in Eschilo,
ritroviamo il góes come colui che fa uscire i morti dalle loro tombe,
inversione di una funzione implicita nel góos»124. Di fatto, Graf
aderisce all’ipotesi sciamanistica di Burkert, e vede il góes quale
figura sciamanica in rapporto con il mondo dei morti, il cui compito
sarebbe stato quello di facilitare il passaggio dei defunti nell’altro
mondo. Utilizzare in modo fenomenologico categorie appartenenti ad
altri ambiti culturali corrisponde al dare interpretazioni moderne di
fatti antichi, estrapolandoli dal contesto culturale che li ha prodotti.
Queste interpretazioni acquistano un valore fuorviante e
metodologicamente discutibile125. Non ci interessa qui soffermarci su
periodi storici difficilmente indagabili, non vogliamo risalire alle
origini della goēteia, della mageia o della psicagogia, ma cercare di

«for the business of mourning», potrebbero avere quale ultima giustificazione


l’idea che «if there is too much of it, one might bring the dead back». Tesi
senz’altro suggestiva, ma che ci pare difficilmente dimostrabile. Sull’argomento
cfr., invece, sull’argomento, E. De Martino, Morte pianto rituale nel mondo
antico, Torino 1958; N. Loraux, Mothers in Mourning, tr. ingl., Ithaca, New York
1998, (orig. Les mères en deuil, Paris 1990).
123
Sulla gohteía cfr. P. Realacci, I Telchines, “maghi” nel segno della
trasformazione, in P. XELLA (a cura di), Magia. Studi di storia delle Religioni in
memoria di Raffaela Garosi, Roma 1976, pgg. 197 – 206.
124
F. Graf, op. cit., pgg. 27 – 28.
125
Sulle difficoltà per il costituirsi in Grecia di un fenomeno sciamanico cfr. P.
Realacci, op. cit., pg. 197.

246
comprendere la possibile dimensione storica nel V secolo di certe
prassi riplasmate da Eschilo nei suoi Persiani.
Ancora più interessante, considerato il contesto persiano del
dramma, è il fatto che nella tragedia eschilea, non rintracciamo la
presenza del termine magos, né parole appartenenti alla medesima
famiglia. Questa assenza è di difficile interpretazione, perché dipende,
in primis, dalla concettualizzazione del magos e della mageia nel V
secolo a.C. e, inoltre, dalla valutazione delle sue relazioni con la
necromanzia: quest’ultima, nel V secolo, rientrava nelle abilità del
magos? Secondo Johnston126, che lo ritiene già noto per le sue abilità
di evocazione dei morti (oltre che per le sporadiche applicazioni delle
sue abilità quale “manipolatore di anime”, in contesti iniziatici
misterici), l’assenza del magos nella tragedia eschilea sarebbe
scientemente voluta, al fine di enfatizzare la potenza del góos e le
dinamiche della trasformazione di un’arte nell’altra.
Tuttavia, dare per assodato che i Greci contemporanei a Eschilo
vedessero già nel magos un esperto manipolatore delle anime dei
morti, non è così immediato. Le fonti più antiche sul magos127 in
Grecia, ci trasmettono una visione ambigua. Da una parte, possiamo
circoscrivere una tradizione più positiva sulla figura del magos128 e
un’altra decisamente negativa. Per Erodoto, come è noto, i magoi sono
un genos dell’ethnos dei Medi. Come abbiamo visto sopra, essi
ricoprono una funzione sacerdotale: un magos doveva essere sempre

126
Cfr. S. I. Johnston, op. cit., pgg. 110 – 111 e 118.
127
Per una storia del termine magos, cfr. I. Chirassi, Il Magos e la Pharmakis, in
C. Bonnet, J. Rüpke, P. Scarpi (eds.), Religions orientales – culti misterici,
Stuttgart 2006, pgg. 163 - 179, in particolare pg. 163.
128
Cfr. Xen. Cyrop. VIII 3, 11, «hoi peri tous theus technitai»; Arist. De Phil. fr.
6 Rose; Suda s.v. magoi, «philosophoi kai philotheoi»; ulteriori fonti in I.
Chirassi, op. cit., pg. 172.

247
presente durante il sacrificio per cantare una teogonia. Lo storico, li
presenta anche quali interpreti dei sogni, esperti nell’astrologia e nella
divinazione e, inoltre, intervengono nel trattamento dei cadaveri,
secondo informazioni che lo stesso Erodoto dichiara essere criptate,
sottoposte a vincolo di segretezza129. La prima attestazione del termine
che ci presenta una visione negativa del magos, nonché il più antico
utilizzo della parola nella letteratura greca, risale al famoso frammento
di Eraclito130 riportato da Clemente Alessandrino, noto autore della
patristica greca, in cui troviamo magoi e nyktypoloi, bacchoi, lenai e
mystai. Testimonianza che è stata considerata non troppo
attendibile131, soprattutto per l’inserimento dei magoi in gruppo di
personaggi riconducibili ai riti misterici e che qualcuno vorrebbe
escludere132. Tuttavia, la presenza dei magoi nel famoso papiro di
Derveni (tardo IV secolo), un testo di difficile interpretazione che
contiene un commento ad una teogonia orfica, ha portato a
riconsiderare la questione, ma il rito descritto sembra essere non
orfico per la presenza del sacrificio cruento. Secondo Colombo, qui i
Magoi intervengono in qualità di «specialisti Persiani, mazdei,
presenti e partecipi alle pratiche cultuali delle dottrine degli aderenti a
confraternite, inseriti nella galassia dei gruppi orfici, anche se non loro
stessi orfici»133. Quel che va segnalato, tuttavia, è che sembra che essi
intervengano come coloro che sono in grado, attraverso preghiere e
sacrifici, di placare i demoni che sono di impedimento alle anime
(degli iniziati?). Ma siamo, comunque, nel tardo IV secolo a.C., un
129
Cfr. Cfr. Hdt. I 101, 107, 132, 140 – 142; cfr. I. Chirassi, op. cit., pg. 172.
130
Fr 22 B 14 D-K = Clem. Al. Protr. XXII 2.
131
Cfr. I, Chirassi, op. cit., pg. 173.
132
Cfr. C. Diano, G. Serra (a cura di), Eraclito, i frammenti e le testimonianze,
Milano 2001, pgg. 191 – 192.
133
Cfr. I. Chirassi, op. cit., pg. 173.

248
secolo in cui, probabilmente, magos e goēs potrebbero già essere stati
accostati nelle loro funzioni. Ancora più complessa appare la
situazione, se prendiamo in considerazione il magos in relazione alla
necromanzia. Un passo di Erodoto è stato interpretato come rilevante
in questa direzione: nel libro VII134, giunto a Troia, Serse sacrifica ad
Atena Iliaca e i magi versano libagioni agli eroi – morti – sepolti a
Troia. Dopo questi riti, ci informa Erodoto, durante la notte, calò il
panico tra le truppe. Interpretare questo passaggio quale rito
necromantico e motivare la causa della paura provata dalle truppe
quale ipotetica visione dei fantasmi degli eroi morti a Troia è una
forzatura della fonte. Di fatto, Serse, passando a Troia, vuole
ingraziarsi la divinità del luogo in cui i Greci avevano vinto sui nemici
dell’Asia e porsi quale loro vendicatore. Il timor panico che calò sulle
truppe durante la notte rientra in quella serie di auspici negativi che i
Persiani non sanno interpretare (sogni di Serse, eclissi, tuoni e folgori
che accompagnano la marcia dell’esercito) ed è motivato, si potrebbe
pensare, dal pensiero di essere sconfitti dagli Elleni, come quegli eroi
morti a Troia. Se Erodoto avesse voluto presentarci un rito
necromantico, come accade in altre parti della sua opera, lo avrebbe
fatto. Un’altra fonte può essere, tuttavia, interessante. Nell’Edipo Re135
di Sofocle, Edipo insulta Tiresia chiamandolo magos, augurtes e
mantis; lo stesso gruppo – tranne magos ovviamente – individuato da
Platone nella Repubblica (probabilmente orfici) e che abbiamo
avvicinato agli psicagoghi delle Leggi. In un altro passo delle Leggi,
comunque, mageia – o meglio le meccaniche dei magoi (magganeiai),

134
Cfr. Hdt. VII 43.
135
Cfr. Soph. OT vv. 397 sgg.

249
epodai (formule) e katadeseis (nodi magici), sembrerebbero essere
accostati all’arte di chi goeteuein136.
Sembra di essere in un puzzle, i cui pezzi non combaciano mai
perfettamente: Eschilo, nella grande scena di psicagogia, sembra
riplasmare, in ultima analisi, una serie di rituali greci, proiettandoli
nell’alterità persiana. Tuttavia, la nostra incertezza relativamente
all’epoca dell’effettiva penetrazione del termine magos, del suo
accostamento alla figura del goēs e relativamente alle abilità
riconosciute al magos dai Greci nel V secolo a.C., non ci permette di
escludere con piena sicurezza che, all’epoca della messa in scena dei
Persiani, il magos non fosse già quello che sarà per i tragediografi
posteriori. Certo, la mancanza di fonti che attestino chiaramente – cioè
non passando per la figura del goēs – un legame tra mageia e
necromanzia nel V secolo, ci fa ipotizzare che tale abilità sia stata
attribuita ai magi solo dopo la loro identificazione con il goēs stesso.
Infatti, la prima attestazione chiara di rituali necromantici collegati ai
magi, per quanto abbiamo potuto vedere, si trova nel dramma
satiresco Agen137, di incerta attribuzione. Ateneo138 nei Deipnosofisti
ci informa che Alessandro Magno, in occasione delle Dionisie
(probabilmente nel 326 a.C.), fece rappresentare sulle rive dell’Idaspe
un dramma satiresco, Agen, connesso in parte con la vicenda
dell’inaffidabile tesoriere Arpalo. Apprendiamo che Arpalo, nel
dramma in questione, con l’aiuto dei magi a Babilonia evoca l’anima
della sua amata Pitonice, ormai defunta. Siamo, ormai, ai primordi

136
Cfr. I. Chirassi, op. cit., pg. 174.
137
Python, 91 F1 TrGF.
138
Cfr. Ath. Deip. XIII 595 – 595.

250
dell’ellenismo e Persiani, Magi e Caldei diventeranno i protagonisti
della necromanzia.
Quanto preso in esame fino a questo momento, ci permette di
fissare qualche conclusione circa la ricezione della necromanzia in
Grecia.
Un’ambiguità di fondo permea la ricezione di quei rituali atti a
entrare in contatto con i morti; un’ambiguità le cui parole chiave sono
distanza, lontananza, marginalità ed eccessività. A livello mitico, il
suo essere avvertita come una pratica eccessiva è evidentemente ben
espresso dal viaggio di Odisseo, l’eroe, figura extra-umana mitica per
eccellenza. Un viaggio nel viaggio, agli estremi confini del mondo,
nello spazio del margine e dell’acosmico, in un luogo che è l’anti-
politico per eccellenza, intendendo la polis quale luogo di esplicazione
del civico, dell’umano. Uno spazio, dunque altro, diverso e
negativo139. Un viaggio e un rito, quelli messi in atto dall’eroe nella
sua katábasij, descritti e avvertiti come pericolosi ed estremi, una
rischiosa e difficile necessità140, una prova che può essere affrontata
solo grazie alle accorte indicazioni di Circe, il cui statuto ambiguo e
marginale è già stato messo in evidenza da altri 141. Una esperienza,
dunque, nel segno della hybris eroica, in un luogo estremo e

139
La polis dei Cimmeri sembra essere contrapposta alla polis perfetta dei Feaci.
Cfr. A. Cecon, op. cit., pg. 57.
140
Cfr. Hom. Od. X, 496 – 503.
141
Cfr. K. Kerényi, Figlie del Sole, tr. it., Torino 1991, (orig. Töchter der Sonne,
Zürich 1944), pgg. 61 – 77; F. Frontisi-Ducroux, L’Homme-Cerf et la Femme-
Araignée. Figures grecques de la Métamorphose, Paris 2003, pgg. 61 – 93; E.
Pellizer, Favole d’identità, favole di paura. Storie di caccia e altri racconti della
Grecia antica, Roma 1982, pgg. 72 – 81 e 82 – 101; N. Loraux, Che cos’è una
dea?, in J. Duby e M. Perrot (a cura di), Storia delle donne in Occidente, 1, Roma
– Bari 1990, pgg. 13 – 55; J.-P. Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini. Il
racconto del mito, tr. it., Torino 2000 (orig. L’Univers, les Dieux, les Hommes.
Récits grecs des origines, Paris 1999).

251
periferico, l’unico spazio in cui è possibile annullare le distanze tra
vivi e morti.
La possibile esistenza dei nekyomanteia, se, da una parte, può
attestare una effettiva pratica della necromanzia – intesa, come
abbiamo fatto, nella specificità del contesto greco – dall’altra, ci
informa anche sulla sua marginalità: non un’epigrafe è connessa a
questi luoghi; di nessuno di questi oracoli si può dire che essi fossero
in qualche modo “istituzionali” 142. Una marginalità, inoltre, realmente
geografica, demandata a luoghi – paludi e grotte – che,
nell’immaginario greco, sono spazi naturali di difficile controllo,
difficilmente gestibili, luoghi selvaggi, antitetici rispetto allo spazio
civilizzato che gravita intorno al mondo della città e della campagna
urbanizzata. Anche il ruolo dell’oracolo delfico, che talvolta
interviene nei racconti di consultazioni presso i nekyomanteia,
indirizzando lo sfortunato di turno presso uno di questi oracoli, oppure
ordinando di ricorrere agli psicagoghi, come nel caso del fantasma di
Pausania che affliggeva Sparta, lungi dall’attestare una loro forma di
istituzionalità, definisce lo statuto delle pratiche in questione come
“estremo” e, forse, rientra in quella dinamica sottolineata da Brelich143
per la quale la mantica apollinea tende a estendere la sua ombre su
altre forme di mantica, conquistando una sorta di monopolio su di
essa. Anche la tavoletta di Dodona, in cui ci si informa
sull’opportunità di rivolgersi allo psicagogo Dorios dovrebbe essere
interpretata quale testimonianza della pericolosità e marginalità della

142
Forse solo di Tainaron. Sull’argomento, cfr. D. Ogden, op. cit., pgg. 29 – 42 e
263 – 268.
143
Cfr. A. Brelich, Gli eroi greci, pgg. 52 – 53 e 106 – 118.

252
pratica che mette in contatto con i morti attraverso l’opera dello
psicagogo.
Anche nei racconti di Erodoto e di Plutarco analizzati sopra,
l’elemento eccessivo della pratica necromantica è ampiamente
evidente: proprio la consultazione presso i nekyomanteia tende ad
essere utilizzata quale prova della hybris del tiranno. Se le variegate
prassi necromantiche greche non sembrano soggette ad essere
considerate fuorilegge, la loro marginalità e la loro pericolosità
coinvolge a vari livelli la rappresentazione dei loro operatori.
Platone, come abbiamo visto, condanna la necromanzia, sia nella
Repubblica144, sia nelle Leggi145, raffigurando i suoi specialisti in una
dimensione totalmente negativa. Respingeva, infatti, l’idea che gli dei
potessero essere influenzati da riti e formule, considerava la
necromanzia una pratica fraudolenta ed era preoccupato dei suoi
effetti dannosi. Anche la commedia aristofanea sembra recepire questa
visione negativa: si veda, ad esempio, negli Uccelli146 la
rappresentazione satirica di Socrate quale psicagogo, in una scena che,
evidentemente, è parodia degli Psicagoghi di Eschilo.
Non stupisce, dunque, che la psicagogia, come anche la mageia e la
goeteia, sia pensata come altra, straniera ed estranea e, come tale,
attribuibile anche a circoli orfici e pitagorici, o ai Persiani, l’alterità
per eccellenza nel V secolo.

***

144
364 b – e.
145
905 d; 907 d; 909 a – b.
146
Cfr. vv. 1553 – 1564.

253
Giunti a questo punto della nostra indagine, è necessario ritornare al
principio e riprendere le problematiche che ci eravamo posti all’inizio
del capitolo. Perché, dunque, Eschilo sceglie di mettere in scena
proprio un rito necromantico, precisamente una psicagogia? La
sensazione è che l’edificio costruito da Eschilo sia molto più
complesso di quanto appaia e che la funzione di questo rito vada ben
oltre il piano meramente semantico ed evenemenziale, per investire
direttamente il piano della struttura compositiva del dramma.
Abbiamo avuto modo di notare più volte nei capitoli precedenti che
Eschilo, presentandoci gli avvenimenti storici nel cui quadro agiscono
i protagonisti della tragedia, altera, talvolta, alcuni di questi
accadimenti: la svalutazione della battaglia di Maratona rispetto a
quella di Salamina, la rimozione della campagna scitica di Dario,
corrispondono alla netta opposizione che egli instaura tra la politica di
Dario e quella di Serse e tra la figura del re defunto e quella del suo
successore quali ipostasi della regalità persiana. Tutti questi elementi,
evidentemente, alterano quella che noi definiamo obiettività storica,
ma, tuttavia, essi non modificano la dimensione storica del dramma
perché rientrano ancora in quella che si usa definire dimensione
interpretativa della storia. Con la messa in scena del rito
necromantico, invece, accade qualcosa di diverso: ciò che fino a quel
momento rientrava nella dimensione dell’attuale, dello storico, del
quotidiano, del possibile, cessa di essere tale, per aprirsi alla
dimensione dell’illusione. In altre parole, fino a quel momento, ciò
che gli spettatori vedevano accadere sulla scena poteva essere del tutto
vero, o verisimile, finanche gli omaggi e le offerte resi da Atossa

254
presso la tomba147. Con gli imperativi di Atossa, æpeufhmeîte –
Þnakaleîsqe (elevate inni – evocate Dario)148, che danno inizio
all’evocazione dell’Ombra, ciò che viene agito sulla scena cessa di
essere un rituale possibile. La psicagogia instaura sulla scena una
dimensione che si può definire non astorica, ma “metastorica”.
Quali sono le conseguenze che la messa in scena del rito
necromantico comporta sulla struttura della tragedia?
In primo luogo, nei Persiani, Eschilo utilizza il rito necromantico
per instaurare un ulteriore paragone tra l’alterità persiana e la
dimensione ateniese. Egli mette in relazione oppositiva, a nostro
avviso, la tragedia stessa, in quanto rito, e il rito di evocazione, ma
non nella sua dimensione reale, piuttosto in quella che lo stesso
drammaturgo propone, quando riplasma la necromanzia sulla scena.
Come abbiamo avuto modo di vedere sopra, quando parlavamo
delle modalità di attuazione di certe prassi che abbiamo definito
convenzionalmente necromantiche, sicuramente l’esito di una
psicagogia non poteva essere quale Eschilo ce lo presenta: ovviamente
l’ombra del morto non appariva agli officianti del rito. Nella tragedia,
invece, l’ombra di Dario appare sul vertice del tumolo, indossa una
maschera come tutti gli altri attori, entra letteralmente in scena. Egli,
anzi, è chiamato a gran voce dal Coro affinché si manifesti, affinché
appaia: #iqi, ëkoû, 1lqe, báske, fánhqi.
Il collegamento tra i due riti, quello della tragedia, che agisce nella
contingenza storica dell’Atene del V secolo, e quello necromantico
che agisce nella dimensione metastorica del dramma, è a nostro avviso
Dioniso.

147
Cfr. vv. 607 – 618.
148
Cfr. vv. 620 – 621.

255
Il legame tra Dioniso è la tragedia è stato ampiamente studiato dalla
critica. Brelich, oltre a porre in evidenza il fatto che le
rappresentazioni teatrali erano parte integrante delle feste dionisiache,
collega direttamente il teatro alla dimensione del dionisiaco. La
dinamica caos / cosmo che abbiamo evidenziato nell’introduzione e
che, per lo studioso, è parte costitutiva delle vicende eroiche
rappresentate nelle tragedie, dove la riattualizzazione rituale di un
passato mitico caotico non è fine a se stessa, ma è collegata al
superamento della crisi stessa e a una nuova instaurazione dell’ordine
costituito, tale dinamica è per lo studioso uno dei segni che
inequivocabilmente rimanda al piano della realtà che il dio controlla.
Essa è elemento caratterizzante il culto di Dioniso: «facendo aprire gli
occhi sull’abisso potenziale insito in ogni crisi, Dionysos mostra la via
verso un’esistenza più completa. Non è forse la stessa cosa che
realizzano tragedia e commedia, trascinando il pubblico nelle opposte
prospettive dell’eccesso sovrumano dei valori in urto e della comicità
della vita svuotata di ogni valore?»149. In Dioniso si intuisce una
regolazione istituzionale del disordine e una periodica messa in
discussione dell’ordine in cui la dimensione dell’attuale trova
fondamento. Inoltre, nota lo studioso, «non esiste una divinità così
vicina alla sfera eroica come Dionysos. […] Per tutti questi tratti
Dionysos appare come il “dio della forma eroica”, un dio, cioè, che –
in virtù della sua immortalità (che non gli impedisce di morire) –
rappresenta continuamente l’essenza perenne dell’“eroismo” come
l’hanno voluto concepire i Greci. […] È così soltanto, del resto, che si

149
A. Brelich, I Greci e gli dei, pg. 111.

256
spiega il grande enigma della tragedia greca che era parte del culto
dionisiaco, ma evocava quasi esclusivamente miti eroici»150.
Anche lo studio di Vernant si concentra sull’analisi della figura di
Dioniso151 ed evidenzia il legame tra questo dio e la tragedia. Anche
Vernant, propone un legame specifico tra Dioniso e la tragedia
ateniese, mettendo in evidenza il tema della maschera teatrale152. Lo
studioso sottolinea come Dioniso sia l’unico dio olimpico ad avere
come idolo cultuale una maschera, essa è il simbolo “dell’epifania del
Dio”, è il simbolo della sua presenza. Lo studioso rielabora, in questa
sua analisi della maschera tragica e della maschera dionisiaca, le
teorie di Otto153. Questi aveva sostenuto che il mondo che si rivela con
Dioniso è il “mondo primordiale” in cui si affrontano gli opposti
elementi dell’essere e Dioniso quale dio dalla “doppia natura” tiene
congiunti gli opposti: nel “mondo in delirio”, mondo dionisiaco
primordiale ontologicamente anteriore alla cultura olimpica, vita e
morte si presentano unite, la massima vitalità corrisponde con la morte
stessa. Dioniso porta all’eccesso i contrasti dell’esistenza, è il dio
unitamente selvaggio e feroce, ma, allo stesso tempo, il più gioioso di
tutti gli dei. Per Otto la maschera è il simbolo della “doppia natura”
dionisiaca, simbolo dell’epifania del dio e della sua immediata
presenza, ma la maschera è una superficie che dietro è vuota e quindi
simboleggia anche l’assoluta assenza.

150
Cfr. A. Brelich, Gli eroi greci, pgg. 365 – 368.
151
Cfr. P. Pisi, Dioniso da Nietzsche a Kerényi, SMSR 69, 2003, pgg. 129 – 218,
in particolare pgg. 204 – 208.
152
Cfr. J. – P. Vernant, P. Vidal – Naquet, Mito e tragedia due, tr. it., Torino 1991
(orig. Mythe et tragédie deux, Paris 1986), pgg. 221 – 254.
153
W. Otto, Dioniso: mito e culto, tr. it., Genova 1990, (orig. Dionysos, Frankfurt
1933), passim. Cfr. anche P. Pisi, op. cit., pgg. 170 – 196.

257
Vernant riprende la teoria della “presenza / assenza” di Dioniso e
recupera la maschera tragica al dionisismo: la maschera rappresenta la
“presenza di un assente”, in questo modo gli eroi della tradizione
irrompono sulla scena, ma non sono lì dove il pubblico li vede. Nella
tragedia infatti, secondo lo studioso francese, quando si mette una
maschera se ne assume anche l’identità, la maschera non camuffa, ma
rivela qualcosa che non c’è. Vernant, nonostante quanto detto, non
condivide lo statuto ontologico del Dioniso di Otto, ma si rifà alle
teorie di Gernet, un classicista attento, però, agli sviluppi delle scienze
antropologiche, che aveva definito Dioniso quale “dio dell’Altro”,
rispetto ad un sistema di identità culturale. Essere “dio dell’alterità”
significa avere la capacità di mediare verso il diverso, verso
quell’alterità positiva con cui una cultura deve sempre relazionarsi
affinché non prenda il sopravvento: il “medesimo” è tale solo nel
momento in cui prende coscienza dell’“alterità” con cui si mette in
relazione. Dioniso, secondo Vernant, rappresenta l’alterità positiva
culturalmente mediabile, e come tale, è il dio che abbatte i limiti in cui
è racchiusa normalmente la condizione umana, il dio che rende fluidi i
confini tra categorie solitamente ben separate: annulla i confini tra
divinità, umanità e ferinità; tra vita e morte, tra femminile e maschile,
tra qui ed aldilà; tra selvaggio e civilizzato154.

154
Cfr. J. – P. Vernant, P. Vidal – Naquet, Mito e tragedia due, pgg. 239 – 241;
cfr. anche C. Segal, op. cit., pg. 215: «Dionysus is the god not only of wine,
madness, and religious ecstasy, but also of the drama, of the mask. His worship
breaks down the barriers not only between god and beast and between man and
wild nature, but also between reality and illusion. In the tragic theater, as in the
Bacchic ecstasy, the participant “stand outside” of himself: he temporarily
relinquishes the safe limits of personal identity in order to extend himself
sympathetically to other dimensions of experience»

258
Anche Sabbatucci lega in modo strutturale la figura di Dioniso alla
tragedia: Dioniso è il dio preposto alla trasformazione155. Dal punto di
vista dello studioso italiano, il Dioniso che ha un culto ad Atene
mediante il rito tragico si distacca, in parte, dal Dioniso panellenico
per divenire il garante metastorico della possibilità di non perdere, ma
piuttosto di riaffermare, la svolta democratica ateniese tramite il rito
tragico, nato probabilmente dal timore che opprime i cittadini, di poter
perdere la propria coscienza democratica. Se a livello panellenico,
come anche ad Atene, «Dioniso è il dio delle crisi di passaggio da una
condizione culturale ad un’altra»156, a livello ateniese, l’azione
dionisiaca, l’azione tragica, viene utilizzata per operare il passaggio da
una condizione non democratica alla condizione democratica, ma non
una volta e per sempre, come nei miti di Dioniso incivilitore, bensì
ogni volta che viene messa in scena una tragedia. Dunque, durante la
tragedia viene reificata, nel segno del Dioniso trasformatore, la
condizione di cittadino della polis democratica157.
Il “dio trasformatore” di Sabbatucci è, per molti versi, avvicinabile
al “dio dell’alterità” di Vernant: Dioniso, proprio in quanto
rappresenta l’apertura culturale verso l’alterità, può essere anche un
dio trasformatore. A Dioniso compete di rendere permeabili i confini
tra identità ed alterità, quindi può e deve allargare i confini
dell’ordinamento culturale per permettere il passaggio a una
dimensione più articolata rispetto a quella consueta, integrando in essa
contenuti non ancora noti. Il campo di azione dionisiaco occupa spazi
non consentiti, o consentiti solo in parte, alle altre divinità: Dioniso è

155
Cfr. D. Sabbatucci, Il mito, il rito e la storia, pg. 151.
156
Ivi, p. 149.
157
Ivi, pgg. 149 – 150.

259
il dio che appare, che viene, è lo straniero che compie la sua
epifania158, è legato al mondo “altro”, all’Oriente, allo spazio del
margine geografico, sociale, individuale. È il dio dei misteri, delle
iniziazioni159, dei passaggi di stato. Egli è il dio metamorfico, incarna
la trasformazione160, è giovane, è adulto, è una maschera la cui forma
concava simboleggia il costante pericolo di perdere la propria identità
e, allo stesso tempo, la possibilità di instaurare un confronto con
l’alterità, mettendo in discussione gli assetti consolidati161. Dioniso è
anche il dio incivilitore che fa conoscere la coltivazione della vite e la
produzione del vino: bevanda civilizzata, ma pericolosa se non usata
in maniera controllata. È il dio ferino, il dio della mania estatica che
può far perdere alle sue vittime la coscienza di loro stessi e della
propria identità, come accade a Penteo e ad Agave nelle Baccanti di
Euripide162.
Dioniso, quale dio della “forma eroica”, ma anche quale dio
dell’alterità che abbatte le barriere tra divino, umano e ferino, tra
realtà e illusione, tra qui e aldilà è anche un dio connesso strettamente
alla sfera dell’alterità infera. Come sottolinea efficacemente Brelich,
sebbene Dioniso sia a tutti gli effetti un dio immortale, egli ha una
tomba a Delfi, più di un mito di morte163 e un mito di katabasis
nell’Ade per ricondurre dall’aldilà la madre Semele. Inoltre, tra le

158
Cfr. M. Detienne, Dioniso a cielo aperto, tr. it., Roma – Bari 1988 (orig.
Dionysos à ciel ouvert, Paris 1986), pgg. 15 – 23.
159
Cfr. A. Brelich, Gli eroi greci, pg. 367.
160
Cfr. M. Detienne, Dioniso e la pantera profumata, tr. it., Roma – Bari 1981
(orig. Dionysos mis à mort, Paris 1977), pg. 7.
161
Cfr. J. – P. Vernant, P. Vidal – Naquet, Mito e tragedia due, pgg. 11 – 29 e 221
– 254.
162
Cfr. C. Segal, op. cit., pgg. 223 – 232.
163
Cfr. A. Brelich, Gli eroi greci, pg. 366; cfr. Philoch. 7 Jac.; Paus. VIII 37, 5;
Schol. Hom. Il. XIV 319; Plut. Is. Os. XXXV 364 F.

260
principali feste ateniesi dedicate a Dioniso in cui si approntavano
agoni teatrali, i Lenaia e i Dionysia Megala, vi era anche la festa degli
Anthesteria dove un ruolo centrale era attribuito al tempio di Dioniso
en Limnais, il cui funzionamento era strettamente connesso alla festa
stessa. Questa era – secondo Nilsson164 – l’antico capodanno di Atene,
comune a tutte le altre stirpi ioniche, sostituito, poi, dai Panathenaia 165.
La festa, come ha ben messo in evidenza Spineto166, presenta
caratteristiche di sospensione e inversione rituale dell’ordine costituito
ed è contrassegnata da un capovolgimento delle usanze comuni. Era
suddivisa in tre giornate denominate Pithoigia, Choes e Chytroi. Il
primo giorno, vi era un rito di apertura delle botti, con offerta
primiziale del vino nuovo a Dioniso e sospensione rituale dell’ordine,
attraverso la partecipazione degli schiavi che venivano lasciati bere.
Un rito prevedeva che bambini e adulti venissero incoronati di fiori. Il
secondo giorno vi erano agoni di bevute presso il tempio en Limnais;
riti della basilinna e delle Gerarai; forse lo hieros gamos nel
Boukolion; il simposio e il banchetto collettivo, che si deduce dal mito
di Oreste, con seguente offerta delle coppe e delle corone al tempio en
Limnais. Il terzo giorno di questa festa era considerato un giorno
nefasto, con un rito in onore dei morti del diluvio deucalionico,
caratterizzato dall’offerta a Ermes Ctonio di marmitte piene di
granaglie (panspermia) e dall’offerta ai morti di brocche d’acqua: riti
che propiziavano una controllata irruzione dei morti. Si svolgevano,
forse, agoni teatrali e, infine, la restaurazione del tempo ordinario con
espulsione rituale delle anime dei defunti. Il referente ultimo delle

164
M. P. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, Munich 1967, pg. 267
165
H. W. Parke, Festivals of the Athenians, London 1977, pgg. 30 sgg.
166
I dati e le fonti relative alla festa sono in N. Spineto, N. Spineto, Dionysos a
teatro. Il contesto festivo del dramma greco, Roma 2005, pgg. 13 – 123.

261
celebrazioni degli Anthesteria era Dioniso; è la presenza del dio che
permette l’instaurazione, su molteplici livelli, di un tempo festivo
durante il quale le istituzioni e le norme cittadine sono sospese ed
invertite: l’ordine del simposio aristocratico è negato; il confine con
l’aldilà s’infrange; Atene è ricondotta, con l’offerta ai morti del
diluvio, a un tempo aurorale in cui le norme comuni non erano ancora
state poste; ci si apre all’alterità, dando spazio a stranieri, schiavi,
donne e bambini. La sospensione e l’inversione si spiegano
unicamente in riferimento ai tratti propri del mito e del culto di
Dioniso, il dio sotto il cui segno si abbattono i confini tra divinità,
umanità e ferinità, tra mondo dei morti e dei vivi, tra il sé e l’altro da
sé. Dunque, sia dal punto di vista mitico, sia dal punto di vista rituale
vi è una stretta connessione tra Dioniso e la sfera della morte.
Come incisivamente sottolinea Capomacchia: «ritorno dei morti e
ritorno del “morto”: l’eroe. Nel teatro tragico torna l’eroe»167.
La tragedia è dionisiaca, tra le altre cose, anche per questo motivo:
una caratteristica che lega strettamente gli eroi alla loro dimensione di
alterità rispetto all’ordine attuale, oltre il fatto di agire nel tempo
mitico, un tempo caotico, aperto ad ogni possibilità, è anche la loro
connessione con la morte168. Se il culto eroico è strettamente associato
con la tomba dell’eroe, con i rituali di lamento e con veri e propri
complessi rituali di lutto, sottolinea Brelich, uno dei tratti salienti dei
miti eroici è proprio il fatto che l’eroe muore169.

167
Cfr. A. M. G. Capomacchia, La dimensione religiosa del teatro greco negli
scritti di Angelo Brelich, in M. G. Lancellotti, P. Xella (a cura di), Angelo Brelich
e la storia delle religioni. Temi, problemi e prospettive, Verona 2005, pgg. 107 –
114, in particolare pg. 113.
168
Per la quale cfr. A. Brelich, Gli eroi greci, pgg. 80 – 90.
169
Cfr. Ivi, pgg. 86 sgg.

262
L’illusione che è veicolata dalla tragedia, secondo Vernant, nasce
proprio dal fatto che gli eroi, attraverso la maschera tragica, sono
portati ad agire sulla scena, irrompono nella dimensione della realtà,
ma nello stesso tempo non posso essere lì dove lo spettatore li vede,
perché appartengono, non solo all’altrove, all’altro tempo, ma anche a
un invisibile aldilà170.
Dioniso stesso, quale dio della forma eroica e quale dio connesso
con l’alterità infera conosce, nel panorama greco, complessi rituali di
evocazione. Pausania171 ci parla della límnh Alcionia, attraverso la
quale Dioniso avrebbe tratto in salvo la madre Semele dall’Ade. In
questo luogo, sempre secondo il periegeta, sono svolti rituali annuali
notturni in onore del dio, coperti dal mistero iniziatico. La límnh
Alcionia è senza fondo e l’imperatore stesso non riuscì a trovare un
limite al suo abisso; l’acqua, che all’apparenza è calma e tranquilla,
risucchia nelle sue profondità chiunque osi nuotare al suo interno.
Essa è uno dei tanti accessi allo spazio oltremondano di cui parlavamo
sopra. La catabasi di Dioniso può essere comunque correlata al
complesso mitico relativo alla morte del dio: è noto il mito secondo il
quale Perseo uccide Dioniso gettandolo nella palude di Lerna,
probabilmente proprio il lago Alcionio172. Ulteriori particolari ci sono
forniti da Plutarco (Is. Os. XXXV 364 f) relativamente al rituale173:
presso gli Argivi Dioniso è chiamato Bougenes ed è evocato
(Þnakaléw) dalle acque con trombe nascoste nei tirsi, mentre è
170
Cfr. J. – P. Vernant, P. Vidal – Naquet, Mito e tragedia due, pg. 72.
171
Cfr. II 36 – 37.
172
Cfr. N. Spineto, op. cit., pg. 66; cfr. sull’argomento G. Arrigoni, Perseo contro
Dioniso a Lerna, in F. Conca (a cura di), Ricordando Raffaele Cantarella:
miscellanea di studi, Milano 1999, pgg. 9 – 70; cfr. schol. Hom. Il. XIV 319.
173
È ormai dimostrato che la situazione narrata è la medesima. A tal proposito cfr.
N. Spineto, op. cit., pg. 67; G. Casadio, Storia del culto di Dioniso in Argolide,
Roma 1994, pg. 231.

263
gettato nelle acque un agnello per il guardiano. Qui, sottolinea
Brelich, Dioniso non aveva una tomba come a Delfi, era localizzato
piuttosto in quel lago senza fondo, «ma anche a Delfi, dove la tomba
c’era, le Thyades ritualmente lo “svegliavano”»174. È stata avanza
anche l’ipotesi che, nel contesto degli Anthesteria, il tempio di
Dioniso en Limnais potesse rappresentare a livello mitico il luogo di
una catabasi del dio e che vi si svolgessero rituali di evocazione del
dio stesso dagli inferi175. Secondo la testimonianza di Fanodemo176, il
tempio è il centro dei riti della festa e vi si consacrano i boccali e le
corone dopo la gara di bevute. Ma, cosa ancora più eccezionale, è
l’unico tempio a rimanere aperto durante i giorni funesti degli
Anthesteria177, quando tutti gli altri templi vengono chiusi. Tale
particolarità è stata indagata e spiegata da Spineto facendo riferimento
alla figura di Dioniso e ai caratteri della límnh. La límnh, dunque, ha
come caratteristica precipua quella di essere un luogo preferenziale di
contatto con l’aldilà, una terra di margine, caotica ed aperta ad ogni
possibilità. In questo senso, ben si collega all’idea di un Dioniso che
pone la città in contatto con il mondo sotterraneo, e questo è
confortato da due indizi: sappiamo che durante i giorni degli
Anthesteria i morti tornano sulla terra e sappiamo che mentre tutti gli
altri templi sono chiusi, per paura di essere contaminati, il tempio en
Limnais rimane aperto e, per di più, esso rimane operativo solo
durante i giorni della festa. Non è soggetto a quella contaminazione e,
dunque, potrebbe essere in rapporto con i morti che ritornano. Nelle

174
Cfr. A. Brelich, Gli eroi greci, pg. 366.
175
Cfr. N. Spineto, op. cit., pg. 66.
176
Ath. X 437 b-e.
177
Demost. LIX 76; Phanod. FgrHist 325 F 11

264
Rane di Aristofane178, inoltre, proprio mentre il dio sta per iniziare la
sua discesa verso il mondo sotterraneo, le rane emettono il loro verso,
un canto simile a quello che diffondono durante i Chytroi, quando il
popolo va verso il tempio di Dioniso: è proprio in rapporto ai Chytroi
che è maggiormente attestata la presenza dei defunti. Sembrerebbe,
quindi, sussistere un qualche rapporto tra il tempio e il mondo
dell’oltretomba, un rapporto mediato, forse, dalla presenza del dio.
La considerazione che il tempio del dio ad Atene è “en Limnais” ci
permette un accostamento con il complesso mitico-rituale di Lerna
considerato nella sua interezza. Fanodemo stesso179, per indicare
l’invocazione rivolta dai partecipanti ai riti presso il tempio nelle
paludi, usa il termine tecnico Þnakaleîn, un termine molto preciso.
Nonostante queste analogie, peraltro molto significative, non
possediamo comunque sufficienti fonti sugli Anthesteria, che ci
permettano di affermare che il tempio en Limnais potesse essere il
luogo di una catabasi di Dioniso o di un eventuale rituale di
evocazione: allo stato delle fonti ci sfugge la precisa relazione tra il
tempio e i morti che ritornano.
Nella tragedia Persiani si assiste, proprio sulla scena, a un’irruzione
ritualizzata del mondo dei morti nel mondo dei vivi. Come abbiamo
visto sopra, la terminologia è particolarmente precisa e rimanda
semanticamente al campo di azione dello psicagogo e del goēs: i
lamenti del Coro sono Yucagwgoîj góoij180, vale a dire lamenti che
evocano le “anime” dei morti; Dario dice di essere salito da laggiù
cedendo ai lamenti (góoij, v. 697) dei Fedeli. Abbiamo notato, inoltre,

178
Cfr. vv. 211 – 219.
179
Phanod. FgrHist 325 F 12.
180
Cfr. v. 687.

265
che all’interno del canto di evocazione dell’ombra di Dario, l’antico
sovrano viene chiamato proprio per tre volte con il suo nome persiano
(ovviamente, quello che per Eschilo poteva essere il suo nome
persiano), con un’inversione del rito descritto dall’Odissea, ma con un
puntuale parallelo proprio con quanto ci dice il lessico Suda sulla
gohteía, essa «è il far salire (evocare) i morti (Þnágein nekròn)
attraverso l’invocazione del loro nome (æpiklÔsewj)». Anche
Þnakaleîsqe, l’imperativo usato da Atossa per comandare al Coro di
far salire Dario, è un termine che ha il significato tecnico di evocare i
morti181.
Al di là della tesi di Johnston che abbiamo richiamato nel paragrafo
precedente – il poeta cristallizzerebbe in un’unica scena la dinamica
del mutamento dell’arte femminile del lamento nell’arte maschile del
goēs – è più importante sottolineare, a nostro avviso, che qui è
riplasmata da Eschilo l’azione del goēs quale era vista nel V secolo,
soprattutto nella sua dimensione negativa di arte di seduzione, di
illusione e di imbroglio. Qui non c’è il goēs, ma vi è la sua arte.
Un’importante caratteristica del passo delle Leggi di Platone che
abbiamo citato sopra, sulla quale abbiamo allora glissato, è il gioco di
parole messo in atto da Platone182: coloro che ammaliano le anime dei
vivi (ψυχαγωγῶσι), asserendo di poter evocare (ψυχαγωγεῖν) le anime
dei morti, sono gli stessi che praticano la gohteía. Platone gioca
volutamente con il significato originale e su quello derivato della
radice yucagwg- e dei termini che da essa derivano. “Evocare le
anime”, letteralmente “condurre le anime” (yucÔ - \gw) è il
significato originale di yucagwgéw e dei termini correlati, ma il suo

181
Cfr. W. Burkert, op. cit., pg. 46.
182
Cfr. D. Ogden, op. cit., pg. 107 – 108.

266
campo semantico si estende a coprire una gamma di significati ben più
ampi183. Allora scopriamo che l’uso più diffuso del termine
yucagwgéw, nella maggior parte delle attestazioni che ci sono
rimaste, è quello di indurre in errore (i vivi), imbrogliare, sedurre,
ammaliare (i vivi)184, adescare, abbindolare gli ascoltatori185,
intrattenere, divertire, distrarre186 (i vivi) e anche incoraggiare e rapire
(i vivi). Il medesimo gioco tra i significati dei termini è alla base
anche del passaggio degli Uccelli di Aristofane187, parodia degli
Psicagoghi di Eschilo, in cui il commediografo ci presenta Socrate
che presso una limne è intento a yucagwgeî. Il paragone è metaforico
e nasce dall’idea aristofanea che Socrate manipolasse /
strumentalizzasse le anime, idea familiare anche a Platone, sebbene
con differente esito188. In modo non dissimile Euripide, nell’Alcesti189,
fa esclamare a Eracle: «o÷ yucagwgòn tónd’æpoiÔsw xénon».
Dato il contesto dell’esclamazione – Admeto, infatti, è preoccupato
che la donna che ha davanti possa essere solo un doppio, un’illusione
un phasma degli inferi – essa può avere il doppio significato di “il tuo
ospite non è uno psicagogo / imbroglione”. Aristotele, parlando della
capacità seduttiva della tragedia, della sua capacità di attrarre, usa
proprio il verbo yucagwgéw190. Lo stesso Segal, parlando della
dimensione metatragica delle Baccanti di Euripide, dove – attraverso
la figura di Dioniso, grazie al suo legame strutturale con il teatro, con
il mondo dell’illusorio, attraverso i suoi mascheramenti, attraverso le
183
Ibidem.
184
Cfr. Plat. Leggi, 909 a – b.
185
Cfr. Isocr. A Nicocle, 49.
186
Cfr. Alciphr. III 18.
187
Cfr. vv. 1553 – 1564.
188
Cfr., ad esempio, Plat. Apolog., 29d – 30b.
189
Cfr. vv. 1027 – 1028.
190
Cfr. Arist. Poet. 1450 a 33; 1450 b 17; cfr. anche Plat. Min. 321.

267
allusioni e le polisemie, attraverso lo “spettacolo” mortale che Dioniso
“mette in scena” per Penteo – la tragedia si fa metatragedia191, nota
che lo stesso Dioniso è chiamato goēs, incantatore. Un termine che in
quel contesto è polisemico, perché definisce Dioniso sia rispetto alle
sue qualità illusionistiche, sia rispetto alla dimensione più concreta del
goēs come imbroglione192.
Eschilo, ci pare, riplasma sulla scena l’arte della gohteía, ma non
nella sua dimensione reale (l’ombra di Dario appare ed è visibile a
tutti), ma nella sua potenzialità illusionistica, per metterla in diretto
paragone con la tragedia e con la sua capacità di indurre l’illusione, la
dimensione fittizia.
Il rito necromantico è, a nostro avviso, un simbolo metatragico.
Attraverso il rito necromantico e la dimensione fittizia che esso
instaura sulla scena, la tragedia parla di se stessa, svela i suoi
meccanismi, si fa metatragedia.
Dunque, da un punto di vista strutturale, il rito di evocazione messo
in scena ricopre, nel ricreato contesto persiano, le medesime funzioni
del rito tragico, ma invertite volutamente di segno. La tragedia,
attraverso l’irruzione fittizia dell’alterità eroica sulla scena, irruzione
che porta sullo stesso piano di realtà e di contemporaneità il mondo
del passato mitico e la città-spettatrice, mette letteralmente a paragone
quel mondo e i suoi valori, con i valori della contemporaneità del
pubblico della polis. Quel mondo deve volutamente essere un cosmo

191
Cfr. C. Segal, op. cit., pgg. 215 – 271: lo studioso, infatti, nota che nelle
Baccanti vi è una conscia riflessione del tragediografo, generata probabilmente
dalla consapevolezza di fine secolo intorno ad un genere che è ora vicino alla fine
della sua vita creativa, sulla teatralità, sul potere della sua opera di indurre
illusione, sulla gamma e sui limiti della verità che la finzione drammatica può
convogliare. Questa è la dimensione metatragica indagata dallo studioso.
192
Cfr. v. 234.

268
senza soluzione, affinché le problematiche e i contrasti che esso pone
sulla scena possano essere risolte solo attraverso la riaffermazione dei
valori del cosmo democratico ateniese. Il rito necromantico messo in
scena permette l’irrompere dell’alterità della morte sulla scena stessa:
il ritorno di Dario dagli inferi, nella focalizzazione completamente
persiana dell’azione e del contesto, mette a paragone, in senso
oppositivo, il passato di splendore con la desolazione del presente, i
valori del passato con i disvalori del presente. Ma Dario, non è un
morto qualsiasi, egli è il “dio persiano di Susa”, è l’unico tra i mortali
che può indicare una soluzione ai mali, egli è in rapporto genealogico
con Serse, con il Gran Re, ipostasi vivente dell’impero considerato
nella sua interezza, nella tipica dialettica uno/molti. Dario si pone,
inoltre, quale rappresentate dell’intera tradizione persiana con il
richiamo alla genealogia dei re precedenti, coloro che hanno garantito
“il farsi” del cosmo imperiale persiano. Il suo statuto divino non è un
vero problema per questa nostra lettura, in primo luogo, perché è uno
statuto ambiguo. Accanto alla caratterizzazione divina di Dario, più
volte richiamata, bisogna sottolineare che la sua condizione di morto
già lo pone in una dimensione eroica e alcuni attributi a lui conferiti
rimandano esplicitamente, come abbiamo visto, alla sfera eroica.
Inoltre, i riti a lui dedicati si svolgono presso la tomba ed è da qui che
egli emerge portando le insegne della regalità: «- fíloj ßnÔr,
fíloj 3cqoj» canta il coro durante l’evocazione. Neanche lo statuto
sovrumano di Serse e di Atossa sono un vero problema: questa
ambiguità, questa deformazione delle istanze religiose consuete si
chiarisce nella dimensione stessa dell’alterità per eccellenza e, inoltre,
si chiarisce nella dimensione della riflessione metatragica, perché,
affinché il gioco funzioni, geneticamente Dario e Serse devono partire

269
dai medesimi attributi, entrambi devono essere ipostasi della regalità e
dell’impero stesso, anche se in due dimensioni temporali distinte e con
esiti ben differenti. La funzione del rito tragico, in seno alla società
ateniese, è quella di riaffermare periodicamente i valori della polis
democratica, e funziona; la funzione del rito necromantico messo in
scena, in una dimensione volutamente metatragica, è quella di
riaffermare i valori della regalità, ma fallisce, perché essi sono
proiettati totalmente nel passato, nelle azioni di Dario e dei suoi
predecessori: il cosmo persiano, così come dipinto dal tragediografo, è
realmente un cosmo svuotato di valori. Finanche il contesto della
attuazione dei due riti può essere messo a paragone: la tragedia, come
rito, agisce nella contingenza storica e all’interno della festa, quel
periodo ben circoscritto in cui volutamente si induce una crisi
controllata nel cosmo sociale; il rito necromantico è messo in atto,
nella finzione scenica, in un momento di lutto, di crisi istituzionale
generata dalla sconfitta di Serse e dalla morte del fiore dei Persiani a
Salamina.
Abbiamo visto, nei capitoli precedenti, come Eschilo imprima
volutamente alla tragedia una focalizzazione drammatica orientata
completamente al contesto persiano, in cui l’elemento auto-celebrativo
ed encomiastico emerge a tratti, in maniera discontinua e, sebbene
presente, non rappresenta il centro nevralgico del conflitto tragico che,
invece, deve essere rintracciato pienamente nella dimensione persiana.
E abbiamo notato, inoltre, come la complessa lettura dell’altro
dipenda, in ultima analisi, dal medium della rappresentazione tragica.
È proprio questo nuovo “mezzo di comunicazione”, il cui fine è la
riaffermazione per contrasto dei valori comuni della polis
democratica, che condiziona il tragediografo nell’esprimere l’alterità:

270
il Persiano in Eschilo è primariamente uno strumento. Egli, in qualità
di poeta, costruisce un mondo simbolico, tragico, fittizio, in cui hanno
spazio scelte differenti, storiche, astoriche, segnate dal pregiudizio e
neutrali: si pensi all’operazione che Eschilo ha dovuto compiere per
ridurre ad opposizione il rapporto Dario/Serse.
È nella dimensione volutamente metatragica del dramma, nel suo
farsi consciamente meccanismo di auto-rappresentazione, nel suo farsi
dinamica di riflessione sui meccanismi stessi del teatro, che la tragedia
può dare asilo alla materia storica: Eschilo scientemente costruisce
questo cosmo fittizio, in una focalizzazione totalmente persiana,
affinché appaia, almeno fino alla comparsa dell’Ombra, il più aderente
possibile alla dimensione dell’attualità, della contemporaneità, della
storia. Ecco allora che si chiariscono i precisi riferimenti alla cronaca,
l’attenzione prestata nel ricostruire, anche con puntuali richiami ad
una dimensione reale del cosmo regale persiano e l’interesse per
«un’analisi in grado di svelare ai Greci i tratti caratterizzanti
dell’impero edificato dai Barbari»193. Egli vuole che i suoi Persiani
vivano la dimensione dell’attualità, della storia, la medesima del
pubblico-spettatore, affinché sia possibile creare una distanza tra
Dario e Serse, affinché sia possibile evocare il passato di grandezza e
opporlo al presente di disgrazia, affinché sia possibile, dunque, il
gioco metateatrale nel quale il rito necromantico diviene rito
disfunzionale all’interno del cosmo sociale che lo esegue e che ha
come esito ultimo, nella semantica del dramma, l’inattualità della
regalità persiana stessa.
È nella dimensione volutamente metatragica del dramma, nel suo
farsi consciamente meccanismo di auto-rappresentazione, è in questo
193
Cfr. L. Belloni, Eschilo. I Persiani, pg. XVIII.

271
edificio complesso, ancora, che si comprende il divario tra i
personaggi che animano la scena dei Persiani e quelli che agiscono
nelle tragedie di argomento mitico, divario di cui parlavamo
nell’introduzione. Lì, infatti, ragionavamo come segue: posto il
carattere religioso dell’evento teatrale, posto il carattere fittizio della
rappresentazione e nonostante la problematicizzazione del mito nel
contesto rituale della tragedia, resta sempre presente una
“sovrumanità” dell’eroe intesa in senso religioso; quelli posti sulla
scena sono, infatti, proprio gli eroi del culto pubblico che hanno una
grande importanza per la città: la tragedia, nell’ottica di Vernant
confronta i valori del mondo eroico con i modi nuovi di pensiero della
città, «le leggende eroiche si riallacciano infatti a stirpi regali, a gene
nobili che, sul piano dei valori, delle pratiche sociali, delle forme di
religiosità, dei comportamenti umani, rappresentano per la città
proprio ciò che essa ha dovuto condannare e rigettare, ciò contro cui
ha dovuto lottare per sorgere, ma anche ciò da cui è partita per
costituirsi e con cui resta profondamente solidale»194; poste queste
premesse, che dire di Dario, Serse e Atossa, personaggi che appaiono
completamente irrelati rispetto alla dimensione religiosa della città? È
dunque, a nostro avviso, proprio nella dimensione metatragica
individuata, in questo gioco di specchi, nella focalizzazione persiana
del dramma, che è possibile una equiparazione tra la sovrumanità
degli eroi della tragedia di argomento mitico e i personaggi dei
Persiani. Non è sufficiente dire, come fa Vernant, che i Persiani
agiscono sulla scena “come in un clima di legenda”, che le sventure
che costituiscono il nucleo del dramma non sono, per il pubblico

194
Cfr. J. – P. Vernant, P. Vidal – Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia, tr.
it., Torino 1976 (orig. Mythe et tragédie en Grèce ancienne, Paris 1972), pg. 6.

272
greco, le sue proprie, ma quelle di altri e che il poeta supplisce alla
abituale lontananza dei fatti leggendari con una distanza spaziale e
culturale che permette di assimilare i monarchi Persiani al mondo
degli eroi di un tempo: nonostante il cosmo di Serse, ad esempio, sia
segnato dall’eccesso e dalla hybris come quello di tanti eroi del mito,
ai personaggi eschilei mancano due requisiti fondamentali, vale a dire
il legame sacrale con la polis e lo statuto di “morti”, entrambe
fondamentali caratteristiche eroiche. Seguendo questo discorso,
ritorniamo al rito necromantico quale centro del dramma: solo l’ombra
di Dario, nell’economia della tragedia, possiede la seconda di queste
caratteristiche. Inoltre, se è corretta la nostra lettura di una conscia
riflessione del drammaturgo sulla funzione stessa della tragedia, in
questa dimensione metateatrale va collocato lo statuto di Dario morto
che è in relazione sacrale, non con il pubblico ateniese, ma con il
cosmo sociale barbaro (dio persiano di Susa). È l’intero costrutto
tragico, qui, ad essere analizzato e con riferimenti più che precisi. In
questo edificio complesso concepito da Eschilo, è il Persiano stesso,
nella sua hybris, che si confronta con il proprio passato, ma non è il
passato ad essere messo in dubbio, piuttosto è l’irrompere di questo
sulla scena a mettere in discussione il presente barbaro. Il
tragediografo invita il pubblico a seguirlo in questo arduo costrutto e a
constatare con lui, secondo molteplici livelli di lettura, quanto sia
“altro” e inattuale il modello persiano e come l’unico cosmo possibile
sia quello della contemporaneità ateniese. Ecco allora che Atene
nell’economia del dramma è soltanto un’indicazione che parla il
lessico del politico (si ricordi l’inchiesta di Atossa su Atene) ed è
funzionale anch’essa al costrutto metatragico.

273
A questo punto, bisogna procedere oltre e rammentare che,
nell’avanzare del nostro lavoro, abbiamo avuto modo di constatare sul
campo come, effettivamente, Eschilo “costruisca” un cosmo alieno
(cap. II) funzionale al suo scopo. Crea un mondo simbolico che è altra
cosa rispetto alla realtà storica, scava una distanza tra Ellade e Persia.
Ci sembra di poter affermare che effettivamente la distanza spazio-
culturale sia il dato su cui agisce il tragediografo per creare quel
distacco necessario all’esplicarsi dell’azione tragica. Tuttavia,
crediamo che sia la dimensione volutamente metatragica, così come
l’abbiamo tratteggiata, a rendere il persiano veramente inattuale tanto
quanto lo è l’eroe del mito e a permettere una equivalenza tra la
dimensione del mito agente nella tragedia e la materia “storica” del
dramma di Eschilo.
Abbiamo constatato, inoltre, che in alcune parti della tragedia c’è
un avvicinamento tra i valori massimi del cosmo greco e quelli
espressi dalla regalità persiana: la tematica Zeus – giustizia – hybris si
colora, nella figura di Dario, di riferimenti al cosmo regale persiano;
la legge, l’ordine creato da Zeus e la pace di Ciro, costruita con la
saggezza e il benestare divino, sono i massimi ideali espressi nella
tragedia. Ma questo avvicinamento è un’illusione, un inganno, perché
proprio quei valori e quegli ideali vengono riportati da Dario nella
tomba.
Che questa riflessione metatragica appartenga al sentire di Eschilo è
reso evidente anche dal gusto per l’autocitazione metateatrale195 che il
poeta dimostra in occasione della mancata psicagogia nelle Coefore,
dove l’episodio è costruito con precisi riferimenti ai Persiani sia a
livello lessicale, sia di sviluppo evenemenziale. L’azione (vv. 1 – 513)
195
Cfr. M. Centanni, Eschilo. Le tragedie, pg. 1045.

274
è costruita in parallelo alla scena del sacrificio per Dario nei Persiani,
si interrompe con la scena di riconoscimento per riprendere, poi, con
la partecipazione di Oreste: il motore dell’azione è in entrambi i casi il
sogno nefasto della regina e la spiegazione di esso da parte degli
interpreti dei sogni. Al centro della scena c’è la tomba di un re defunto
che potrebbe avvicinarsi allo statuto di Dario, ma non è così 196. Elettra
si fa coefora, proprio come Atossa, e si rivolge ad Ermes Ctonio per
attivare la comunicazione con gli inferi. Elettra sta officiando il rito
presso la tomba del re, versa nella terra offerte liquide e il Coro è
invitato dall’attore a innalzare inni per il re defunto. Vi sono
riferimenti all’ascolto che il morto deve prestare ai lamenti (góoj)197.
Il riferimento al qrÖnoj tombale198 cantato da Elettra e da Oreste
situa tutto il rito in una dimensione che oscilla tra un vero funerale ad
Agamennone e un tentativo di psicagogia. Ma qui non c’è il lessico
preciso che c’è nei Persiani: non ci sono Yucagwgoîj góoij; l’inno
di evocazione qui è innalzato da donne orientali e non da uomini; non
c’è la gohteía, l’arte tutta maschile del góes. Il defunto non appare, di
fatto il rituale non sortisce alcun effetto, se non sulla determinazione
di Oreste in relazione alle azioni future.
La complessità, infine, della costruzione che Eschilo ha dovuto
organizzare per inserire i Barbari sulla scena ci permette di dire, senza
paura di smentita, quanto l’equivalenza evoluzionista tratteggiata
talvolta dalla critica rispetto a questo dramma (antico = immaturo =
imperfetto) sia totalmente inadeguata a definire la dimensione

196
Cfr. vv. 355 – 362.
197
Cfr. v. 330.
198
Cfr. 335.

275
strutturale la grandezza e la geniale singolarità di un’opera come i
Persiani.

276
V - CONCLUSIONI

Il lavoro ha inteso analizzare, attraverso la metodologia storico-


religiosa, il “problema” della tragedia greca di argomento storico. La
scelta di affrontare sistematicamente una tale indagine è nata, lo
abbiamo visto, proprio dallo spazio lasciato aperto dalla storia degli
studi (cfr. Introduzione). Questo studio, dunque, ha inteso portare alla
luce le strutture normative del dramma storico, in relazione alle
strutture delle tragedie di argomento mitico per comprendere se tali
rappresentazioni possano essere interpretate o meno con i medesimi
criteri di analisi.
Ben presto è emersa la necessità di effettuare una puntuale analisi
storico-religiosa della tragedia Persiani, l’unica tragedia rimasta di
argomento storico. In primo luogo (cap. I), si è partiti dalla
discussione della bibliografia critica relativa alla tragedia in oggetto,
propedeutica a un’analisi sistematica del testo eschileo, da cui sono
emerse numerose e importanti questioni legate, soprattutto, alla
difficoltà di individuare la precipua dimensione del tragico nel testo
eschileo. Si ricorderà che i Persiani sono stati considerati dalla critica
moderna e contemporanea un’opera “anomala”, tanto da suscitare
giudizi talmente negativi che nell’opinione di alcuni studiosi –
Blomfield, Gravenhorst e, in parete, Murray – essa doveva essere
rimossa dalla categoria della genuina tragedia. Numerose sono state le
proposte avanzate per interpretare la tragedia. Da alcuni è stata
ritenuta una tragedia dell’“informazione” – della quale esempio
eminente è l’Edipo Re di Sofocle. Altri hanno tentato di scorgere nel
pensiero politico di Eschilo una propaganda filellenica e
specificamente ateniese o un sostegno ora a favore di Temistocle, ora
di Aristide. Altri ancora hanno ritenuto che il poeta avesse trattato –
per taluni contemporaneamente al tema della vittoria ateniese – il
motivo della sconfitta persiana, vero centro del dramma, per mostrare
alla propria città dove potessero condurre scelte prive di equilibrio.
Infine, alcuni studiosi sottolineano come il centro focale del dramma
sia da individuare nella dialettica Dario/Serse.
Si è poi proceduto all’analisi dell’opera (cap. II - III), partendo dal
ritratto eschileo dell’alterità barbara. Al fine di delineare la
rappresentazione che Eschilo vuole dare dei Persiani nella sua
tragedia, si sono discussi comparativamente i testi greci coevi e
posteriori che trattano dei Persiani – in primis, Erodoto, ma anche gli
altri tragici, la tradizione filosofica, Senofonte e Isocrate,
evidenziando il progressivo modificarsi della dialettica Greco /
Barbaro in senso sempre più aspro. Abbiamo sottolineato, in
particolare, che il contesto drammatico, nel quale Eschilo descrive
l’alterità, è scevro – a differenza, per esempio, di quello erodoteo – da
intenti puramente “etnografici” o “storici” intesi in senso
“scientifico”, in altre parole, lo scopo del poeta non è l’etnografia. La
tragedia è altra cosa, sviluppa tecniche e metodologie di
comunicazione differenti, manifesta altri propositi: la ricostruzione di
un mondo “altro” nei Persiani è mediatrice di senso ed è necessaria
alla semantica del dramma. Eschilo reinterpreta una materia rigida
come la storia, anche con consapevoli scelte di difformità, e analizza i
suoi personaggi, ricostruendo loro un ambiente. Questo non vuol
significare che non vi sia un’attenzione a una caratterizzazione
realmente orientale dei Persiani, anche oltre i tratti esteriori; Eschilo,

278
nella sua poesia, fa risaltare una diversità, un’alterità, senza impedirsi
un interesse che riveli ai suoi connazionali i tratti caratterizzanti dei
Barbari. La complessa lettura dell’altro, in Eschilo, dipende dal
medium della rappresentazione tragica. È proprio questo nuovo
“mezzo di comunicazione”, il cui fine è la riaffermazione dei valori
comuni della polis democratica, che condiziona il tragediografo
nell’esprimere l’alterità: vi è una grande differenza tra il tentativo
erodoteo di descrivere mondi alieni e quello eschileo. Il Persiano, in
Eschilo, è primariamente uno strumento. Egli, in qualità di poeta,
costruisce un mondo simbolico, tragico, in cui hanno spazio scelte
differenti: storiche, astoriche, segnate dal pregiudizio e neutrali.
D’altra parte, come dice Aristotele, la tragedia non guarda al vero, ma
al verisimile. La lettura dell’alterità persiana portata sulla scena da
Eschilo è stata analizzata comparativamente anche alla luce delle fonti
persiane coeve. Le fonti persiane ed orientali non possono essere
ignorate, soprattutto perché rappresentano un termine di paragone
attraverso il quale valutare le stesse fonti greche che hanno prodotto
determinati modelli. In questo contesto, abbiamo preso in
considerazione le fonti persiane ed il quadro che ne deriva, per poter
valutare comparativamente l’opera Eschilea.
Nei Persiani, e in particolare nelle parole dell’ombra di Dario, la
tematica eschilea di Zeus – giustizia – hybris si colora, come ha
sottolineato anche Ugo Bianchi, di riferimenti regali e alcune
assonanze sembrano essere particolarmente precise. Esse dimostrano
la volontà di Eschilo di inserire nella tragedia una focalizzazione
decisamente persiana delle vicende messe in scena.
Nella seconda parte dell’analisi, abbiamo messo in evidenza le
principali tematiche della tragedia, sottolineando come il mondo di

279
Serse sia votato all’eccesso. Le ricorrenti immagini della moltitudine e
della grandezza che si rivelano tratti decisamente caratterizzanti
l’impero Persiano, tanto da diventarne la connotazione espressiva
essenziale. La moltitudine di uomini e di mezzi, messi in campo da
Serse, la grande ricchezza e l’intera totalità dell’impero, amplificati
dal lessico del gigantismo che dipinge i Persiani sotto il segno
dell’abnorme numero e della potenza smisurata, rappresentano
simbolicamente il proprio opposto, il vuoto di una moltitudine,
l’assenza della totalità. L’immagine della moltitudine s’innesta, infatti,
nella più ampia sfera del “presagio di sventura” che connota tutta la
Parodo, sia la parte anapestica, sia la parte lirica. Già dal primo verso
della tragedia, infatti, il tema della partenza (oêcoménwn) – ripreso
anche al v. 13 con ¼cwken, dove si specifica in modo più forte il
vuoto lasciato dalla forza nata dall’Asia, e ai vv. 59 – 60: toiónd’
\nqoj Persídoj a#iaj / o#icetai ÞndrÏn – si carica di polisemie e
di ambiguità, fino a esprimere il “ritorno mancato” e il disperdersi del
plethos.
- La tematica della hybris colpevole di Serse espressa su
diversi piani e attraverso molteplici mezzi, uno per tutti il tema del
giogo che ritorna, a più riprese e su vari livelli, nel tessuto testuale.
- La tematica della distruzione dell’3lboj creato da Dario,
non senza l’aiuto di un dio.
- Le immagini della lacerazione delle vesti e della faretra
vuota.
Questo, dunque, lo scheletro formale in cui si innesta il conflitto
reale, quello che oppone Dario e Serse. L’episodio dell’Ombra,
infatti, rappresenta la vera katastrofÔ della tragedia.

280
Abbiamo notato che la contrapposizione cardine della tragedia, non
riguarda due presenze sceniche, ma paradossalmente due assenze: una
inerente alla morte, un’assenza fisica rappresentata dall’ombra del
sovrano che ascende alla sommità del tumulo; l’altra scenica, inerente
all’assenza prolungata di Serse, le cui caratteristiche e le cui azioni
sono continuamente richiamate dagli altri personaggi. A nostro avviso,
il cento nevralgico della tragedia è, dunque, la scena dell’Ombra che
si costruisce, non solo sull’opposizione Dario e Serse, ma anche sul
paragone tra passato e presente persiani che i due sovrani
rispettivamente incarnano. Quanto questo sia vero, è dimostrato, in
primo luogo, dalla complessa operazione che Eschilo ha effettuato per
convertire in opposizione il rapporto storico tra Dario e Serse. È
evidente che il Dario storico non poteva biasimare Serse per nulla di
quanto vien detto nella tragedia. In Eschilo, invece, la figura di Dario
è costruita a costo di forti caratterizzazioni antistoriche, proprio al fine
di una comparazione con il figlio e di una sanzione dell’operato di
Serse. L’idealizzazione di Dario ha, in definitiva, il fine di creare una
tensione tragica e, in tal senso è “funzionale” alla semantica del
dramma. Nel contrasto con Serse, già prefigurato dal sogno della
Regina, Dario risponde puntualmente agli atteggiamenti e alle
caratterizzazioni del figlio con modalità assolutamente contrarie e
opposte. I due sovrani partono dai medesimi privilegi e dagli stessi
attributi regali e, quando la hybris manifesta la sua negatività, una
diversa immagine mette in contrapposizione il re attuale e il re suo
predecessore. Dario, dall’alto dei sui attributi regali, si erge a pietra di
paragone dell’operato del figlio e si pone quale giudice della sua
empia condotta. Dunque, la costante diacronica che lega Dario a Serse
è l’esercizio del medesimo potere, partendo dagli stessi attributi:

281
l’esito differente è prova del fatto che Serse ha esercitato questo
potere in modo non consono, peccando di hybris e allontanandosi
dalla tradizione. In primo luogo, riconosciamo nella tragedia Persiani
l’esistenza simultanea di tre punti di riferimento spazio – temporali
che interagiscono tra loro:

• La dimensione persiana contemporanea a Serse.


• La dimensione persiana contemporanea all’Ombra di Dario e ai
re del passato.
• La dimensiona contemporanea degli spettatori Ateniesi.

Le prime due dimensioni sono messe in stretto paragone, attraverso


il confronto tra la figura di Dario e quella di Serse e tra i valori di cui
essi si fanno rispettivamente portatori: un cosmo di valori votato
all’eccesso in senso negativo, quello rappresentato da Serse; un cosmo
di valori, quello espresso dalla immagine di Dario, che aderisce a tutti
i crismi della tradizione, che custodisce tutti i tratti benefici e
favorevoli immaginabili per una monarchia, ma che, in ultima analisi,
appare votato a un eccesso opposto, in senso positivo, tanto “aureo”
da divenire cosmo impossibile, come impossibile è il ritorno all’epoca
aurea per i Greci. Nella loro unilateralità, nel loro essere personaggi a
“una sola dimensione”, i due sovrani ci mostrano, amplificata fino
all’esasperazione, una immagine univoca di se stessi, veicolo di idee e
valori talmente assoluti e opposti da divenire simboli esemplari.
Qui risiede, a nostro avviso, il vero conflitto tragico del dramma, in
un’antinomia che non trova soluzione, uno scontro di opposti valori
che si pongono come assoluti e inconciliabili, presupposti di una
situazione che non conosce compromessi: non il pathos, non l’intento

282
encomiastico, patriottico e auto-celebrativo, non lo scontro di civiltà,
non il messaggio etico intrinseco all’idea della hybris e della sua
punizione – per quanto tutti elementi ben presenti nel dramma –
rappresentano il tragico nei Persiani. La metabasis, il capovolgimento
di sorte fuori campo è costantemente attualizzato da tutti i personaggi
della tragedia, attraverso una continua comparazione tra l’attuale
mutamento di fortuna e un passato di grandezza e benessere. Quanto
più alto, bello e positivo è rappresentato il passato, tanto più tragica
appare la situazione presente. Il distanza tra le due dimensioni
temporali, per essere tragica, deve essere assoluta. Dario chiarisce,
infatti, l’entità del mutamento, attraverso il rimando alla tradizione e
lo sancisce come non ancora esaurito, preannunciando agli sconfitti
ulteriori sofferenze nella battaglia di Platea. Dunque, attraverso un
contrasto tutto interno alla regalità persiana, in una focalizzazione
drammatica decisamente aliena, possiamo individuare la vera
katastrofÔ del dramma: alla consapevolezza del rovesciamento nel
quale si consuma la hybris di Serse e la perdita dei suoi attributi regali,
fa da contrappunto il buon governo del re “impossibile” Dario, un
ombra, una psychḗ, un eídōlon, la cui presenza fa patire ancor più il
peso della sua reale assenza: il cosmo dei Persiani appare, in
definitiva, un cosmo svuotato di valori.
Ponendo mente alla tragedia quale strumento di riaffermazione del
sistema di valori della polis abbiamo considerato in maniera dialettica
la terza dimensione che è stata individuata: la contemporaneità del
pubblico ateniese. È conseguente che il poeta abbia voluto offrire uno
stimolo agli spettatori, per considerare il mondo persiano
dialetticamente e per prendere le distanze da esso.

283
Gli spettatori che hanno in mano, ora, tutti i fili del gioco
drammatico possono riconoscere per contrasto e riaffermare il giusto
sistema di valori. Tra i due estremi che abbiamo individuato – la
dimensione contemporanea di stasi della regalità persiana,
impersonata da Serse, e la dimensione positiva della regalità di Dario,
però relegata al passato del regno e che, evocata dal Coro, non può
che constatare l’effettività e la non conclusione dei mali – si situa il
termine mediano, il pubblico ateniese e la città di Atene che ha
relegato a livello mitico la sua esperienza monarchica e ha, invece,
adottato la democrazia come modo corretto di esplicarsi nella storia.
Nell’ultima parte della ricerca (cap. IV), con in mente le prime
sommarie conclusioni emerse, ci si è soffermati su un differente
livello di analisi della tragedia in questione, con lo scopo di
rintracciare le peculiari strutture normative della tragedia di
argomento storico e la modalità di funzionamento della dimensione
storica all’interno del teatro greco classico. Siamo partiti
dall’intenzione di rintracciare la funzione, nell’economia del dramma,
del rito necromantico che viene portato sulla scena da Eschilo.
Solitamente, anche se non univocamente, la critica scientifica è
concorde nel ritenere che la messa in scena di tale rito sia spiegabile
unicamente nell’orizzonte culturale greco, non riuscendo, tuttavia, a
giustificare la sua presenza, a valutare la sua funzione e a
comprenderne il valore. In effetti, non abbiamo notizie di rituali
necromantici nell’orizzonte religioso persiano, tuttavia il problema è
mal posto. È necessario piuttosto chiedersi perché Eschilo attribuisca
ai Persiani un rituale che non apparteneva loro e che sembra piuttosto
avere radici nelle pratiche rituali greche. La ricerca si è soffermata ad
analizzare, a questo punto, le fonti relative alla presenza di rituali di

284
tipo necromantico – le delicate arti di evocare gli spiriti dei morti per
apprendere il futuro da essi – in Grecia. Non è questa la sede per
rievocarle tutte. È sufficiente sottolineare il carattere altamente
marginale di una pratica che solo convenzionalmente definiamo
necromantica in Grecia. Ci siamo parallelamente soffermati a vagliare
le fonti relative alla necromanzia nel Vicino Oriente antico e in
particolare in Mesopotamia. La presenza in scena di un rituale
necromantico attribuito ai Persiani e il fatto che non si conosca
l’esistenza di tali rituali nel panorama religioso achemenide, ci ha
portato a valutare l’ipotesi che Eschilo riplasmi un complesso rituale
greco (la gohteía), non potendo, comunque, escludere del tutto
l’ipotesi che questa scelta sia mediata da una visione generica
dell’Orientale, appartenente alla cultura greca classica. In effetti, la
dimensione cosmopolita dell’impero Persiano e le evidenze relative
all’esistenza di tali rituali all’interno del mondo mesopotamico, in
contesti istituzionali e legati alla regalità, ma anche la stessa presenza
di questi nel Vicino Oriente antico (si pensi alla biblica Necromante di
Endor) danno valore a tale ipotesi. In definitiva, non potendo
dimostrare, ovviamente, una influenza diretta tra la necromanzia
orientale e quella eschilea, bisogna piuttosto considerare, a nostro
avviso, una deliberata scelta dell’autore nel pensare il rito di
evocazione messo in scena come Barbaro anche se rimane sempre un
punto interrogativo.
Infine, ci si è soffermati comparativamente sulla struttura dei
Persiani in relazione alle tragedie di argomento mitico. Al di là della
problematica relativa alla reale dimensione della materia della tragedia
eschilea – in molti si sono chiesti, infatti, se fosse effettivamente storia
o mito quel che viene messo in scena nei Persiani e le risposte sono

285
state molteplici: mito, equivalente simbolico del mito, storia, pseudo-
storia – ci si è chiesto: chi pone sulla scena la tragedia storica? E chi
pone sulla scena la tragedia di argomento mitico? Solitamente gli eroi,
i loro miti e le loro gesta. Ora, i protagonisti dei Persiani non sono
equiparabili perfettamente all’eroe del mito greco, tranne uno, Dario.
Così ritorniamo al rito necromantico. Se, come abbiamo detto, si
rintraccia il tragico dei Persiani nel confronto, instaurato dal ritorno
dell’Ombra, tra la dimensione persiana di Dario e quella di Serse, in
cui la dimensione contemporanea è privata di tutti i valori che
permettono l’esplicarsi della dimensione regale nella storia, allora il
rito necromantico diventa centrale e la sua presenza permette di
instaurare sulla scena una dimensione non solo di ribaltamento dei
valori (tipica per esempio delle Eumenidi di Eschilo), ma anche una
dimensione metatragica che dialoga direttamente con il pubblico
ateniese, dando cittadinanza anche alla materia storica che risulta
funzionale all’intento del tragediografo. Nei Persiani la tragedia parla
di se stessa e svela i suoi meccanismi (come accade anche nelle
Baccanti di Euripide). In conclusione, la tragedia storica sembrerebbe
rientrare a pieno titolo, anche da un punto di vista delle norme
strutturali, in un orizzonte di produzione di tragedie quasi
esclusivamente di argomento mitico. Tuttavia, l’impossibilità di
effettuare comparazioni dirette con i testi di altre tragedie di
argomento storico, l’incertezza sulla effettiva esistenza di altre
tragedie storiche nel V secolo, oltre a quelle di Frinico ed Eschilo, la
trasformazione del teatro dopo l’epoca classica, ci precludono
qualsiasi possibilità di ulteriori comparazioni, di approfondimenti e di
verifiche.

286
ABBREVIAZIONI

ACD Acta classica Universitatis Scientiarum Debreceniensis.


Debrecen : Debreceni Egyetem.
AFLC Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università
di Cagliari.
AfO Archiv für Orientforschung: Internationale Zeitschrift für
die Wissenschaft vom Vorderen Orient.
AION Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli.
AIV Atti / Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Classe di
Scienze Morali, Lettere ed Arti. Venezia: Istituto Veneto
di Scienze, Lettere ed Arti.
AJA American journal of archaeology: the journal of the
Archaeological Institute of America. Boston (Mass.):
Boston University, Archaeological Institute of America.
AJPh American Journal of Philology. Baltimore (Md.): Johns
Hopkins University Pr.
AOAT Alter Orient und Altes Testament. Veröffentlichungen zur
Kultur und Geschichte des Alten Orients und des Alten
Testaments.
BAB Bulletin de la Classe des lettres et des sciences morales et
politiques /Académie royale de Belgique. Bruxelles:
Académie royale de Belgique.
CDAFI Cahiers de la Délégation Archéologique Française en
Iran.
C&S Cultura e Scuola.

287
CJ The Classical journal. Ashland (Va.): Randolph-Macon
College, Department of Classics, Classical Association of
the Middle West and South.
CQ Classical quarterly. Oxford : Oxford University Pr.
CR Classical Review. Oxford: Oxford University Pr.
G&R Greece and Rome. Oxford: Clarendon Pr.
GIF Giornale italiano di filologia. Roma: Herder.
HThR Harvard theological review. Cambridge: Cambridge
University Pr.
JA Journal asiatique. Paris: Société asiatique; Leuven:
Peeters.
JCS Journal of Cuneiform Studies. American Schools of
Oriental Research.
JHS The Journal of Hellenic studies. London: Society for the
Promotion of Hellenic Studies.
JNES Journal of Near Eastern studies. Chicago (Ill.):
University of Chicago Pr.
JRAS Journal of the Royal Asiatic Society. Royal Asiatic
Society of Great Britain and Ireland. Cambridge:
Cambridge University Pr.
MH Museum Helveticum: schweizerische Zeitschrift für
klassische Altertumswissenschaft = revue suisse pour
l’étude de l’antiquité classique. asel: Schwabe.
NJAB Neue Jahrbücher für antike und deutsche Bildung.
PBA Proceedings of the British Academy. Oxford: Oxford
University Pr.
PP La Parola del passato: rivista di studi antichi. Napoli:
Macchiaroli.

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REA Revue des études anciennes. Pessac: Université Michel
de Montaigne, Maison de l’archéologie.
RhM Rheinisches Museum für Philologie. Frankfurt am Main :
Sauerländer.
RHR Revue de l'histoire des religions.
SO Symbolae Osloenses: Norwegian journal of Greek and
Latin studies. Basingstoke: Taylor & Francis.
UCP University of California Publications in Classical
Philology.
WS Wiener Studien: Zeitschrift für Klassische Philologie,
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