Riassunto Patota
Riassunto Patota
Riassunto Patota
Riassunto-Patota-Nuovi-lineamenti-di-grammatica-storica-dell
italiano
Storia della lingua italiana (Università degli Studi di Milano)
NUOVI LINEAMENTI
DI GRAMMATICA STORICA DELL’ITALIANO
- G. PATOTA
Il latino classico è il latino scritto che si trova nelle opere letterarie dell’età aurea di Roma (50 a.C. -
50 d.C.), esso è una lingua colta, espressione dei ceti socio-culturalmente più elevati.
Il latino volgare è una realtà linguistica variegata e complessa: è il latino parlato in ogni tempo, in
ogni luogo, in ogni circostanza e da ogni gruppo sociale della latinità: è da esso che sorsero le
lingue neolatine.
Poiché il latino volgare ha avuto il sopravvento su quello classico?
Si definisce una vocale un fono pronunciato senza che l’aria, uscendo dal canale orale, incontri
ostacoli e con la vibrazione delle corde vocali. I foni delle vocali sono sonori, in quanto nella loro
articolazione le corde vocali entrano in vibrazione.
Le vocali in posizione tonica sono sette mentre quelle in posizione atona cioè non accentata sono
cinque. (guarda il triangolo vocalico). Ricordiamo che l’apparato fonatorio è l’insieme degli organi
che intervengono nella produzione dei suoni linguistici e che questa produzione si realizza agendo
sulla colonna d’aria prodotta dai polmoni nel corso di un atto espiratorio.
La consonante è un fono prodotto dal passaggio non libero dell’aria attraverso il canale orale:
l’aria incontra un ostacolo o nella chiusura totale temporanea del canale orale, o nel suo forte
restringimento, in modo che si senta il rumore del passaggio forzato dell’aria.
Per quanto riguarda il modo di articolazione, le consonanti si dividono in:
occlusive, consonanti continue e consonanti affricate o semiocclusive. Le occlusive sono
chiamate anche esplosive o momentanee e sono quelle nella cui articolazione il canale
orale è in prima fase completamente chiuso, aprendosi successivamente per la fuoriuscita
dell’aria. Delle occlusive fanno parte le nasali (pronunciate emettendo l’aria dalle fosse
nasali). Le continue sono quelle consonanti pronunciate in modo continuo. Queste possono
essere suddivise ,considerando la pronuncia, in laterali (l’aria esce dalla parti laterali della
lingua protesa verso il palato), vibranti( articolate facendo vibrare la lingua sul palato),
fricative o spiranti (l’aria passa attraverso uno stretto canale emettendo una specie di
sibilo). Le nasali possono essere anche considerate continue. Le affricate infine sono le
consonanti la cui pronuncia inizia con un suono occlusivo, per poi lasciare posto a un suono
continuo, articolato nello stesso modo del precedente.
Per quanto riguarda il luogo di articolazione, le consonanti si dividono in:
bilabiali, labiodentali, dentali, alveolari ,velari e palatali. Le prime si pronunciano con
l’unione delle due labbra e poi la loro successiva apertura. Le seconde sono interessate al
labbro inferiore e i denti superiori. Le dentali pronunciate con la lingua a contatto con la
parte interna dell’arcata dentale superiore. Le alveolari invece sono articolate con la punta
della lingua contro gli alveoli degli incisivi superiori. Le velari con la chiusura del velo
palatino (la parte molle del palato) e infine le palatali articolate con la lingua che tocca il
palato.
Le semiconsonanti sono dei foni vicini alle due vocali corrispondenti, [i] e [u], di durata più
breve rispetto ad esse. Hanno dunque caratteristiche articolatorie intermedie. Le semiconsonanti
non sono mai accentate e si trovano nei dittonghi ascendenti composti da una semiconsonante e
da una vocale ex. Ieri. Il contrario corrisponde alle semivocali. Le semiconsonanti sono due: [j]
anteriore o palatale e [w] posteriore o velare.
Nel passaggio dal latino al volgare, la E(breve) e la O(breve) toniche in sillaba libera o aperta
(ossia che termina per vocale) hanno prodotto il dittongo iè e il dittongo uò
PEDEM > piede; BONUM > buono
Queste trasformazioni interessarono tutta la Romània, ma per quanto riguarda l’area italiana,
dobbiamo distinguere:
VOCALISMO TONICO SARDO, che non conosce le vocali aperte né accoglie il passaggio da “i
breve” > [e] e da “u breve” > [o]
VOCALISMO TONICO SICILIANO, per il quale “i lunga”, “i breve” ed “e lunga” toniche latine
diventano tutte [i]; analogamente “u lunga”, “u breve” ed “o lunga” diventano tutte [u]
Il latino classico aveva tre dittonghi: AU, AE, OE; una tendenza tipica del latino parlato era quella di
“monottongare” questi dittonghi, ossia pronunciarli come un’unica vocale lunga.
DITTONGO AU > O lunga con timbro aperto: AURUM > oro; CAUSAM > cosa
Mentre si trasformò in una O lunga con timbro chiuso solo in alcune parole, es. CAUDA >
coda; FAUCEM > foce
DITTONGO AE > E lunga con timbro aperto > dittongo [je] in sillaba aperta e [e] in sillaba
chiusa; es. LAETUM > lieto; QUAERO > chiedo; MAESTUM > mesto; PRAESTO > presto.
DITTONGAMENTO TOSCANO
Il dittonga mento di “E breve” ed “O breve” toniche in sillaba libera è detto toscano perché tipico
del fiorentino e dei dialetti toscani, poi passato nella lingua italiana.
In sillaba aperta, la e aperta derivata da “E breve” latina (e dal monottonga mento del dittongo AE)
si dittonga in [je]; la o aperta derivata da “O breve” latina di dittonga in [wo].
Il dittonga mento non si produce se “E breve” ed “O breve” toniche sono in sillaba chiusa, ossia
terminante per consonante.
Regola: il dittongamento si ha solo nelle forme rizotoniche (in cui l’accento è sulla radice) in
cui E ed O sono toniche, mentre non si ha dittonga mento sulle forme rizoatone (accento non
sulla radice) in cui E ed O sono atone.
Es.
DòLES > duoli PòTES > puoi
Ovviamente la regola del dittongo mobile non interessa solo i verbi, ma anche nomi, aggettivi,
etc., che derivano dalla stessa radice del verbo:
Es. piede-pedata; ruota-rotaia; vuole-volontà, etc.
Nell’italiano attuale il dittonga mento non compare nelle parole in cui [] ed [o] provenienti da
“E breve” (o da AE) ed “O breve” toniche latine seguono il gruppo di consonante + R:
Es.: BREVEM > breve; TREMO > tremo; PROBO > provo; TROPO > trovo
Nell’italiano antico, fino al Trecento, il dittonga mento era normale anche nei contesti citati
(es. brieve; triemo; pruovo; truovo); a metà Quattrocento si diffuse la riduzione di “iè” in “è”,
poi a metà Cinquecento si diffuse la riduzione di “uò” in “ò”. Ovviamente questo processo non
fu immediato, ma le forme dittongate rimasero nell’uso fino all’Ottocento, soprattutto da
scrittori tradizionalisti.
Nella lingua della poesia sono state frequenti, fino al secolo scorso, forme come còre, fòco, lòco,
nòvo, fèro senza dittongo anche se provenienti da basi latine con E ed O toniche: questo è dato
essenzialmente dall’influsso del siciliano antico! La lingua poetica italiana ha un consistente
fondo siciliano, poiché siciliana fu la prima esperienza poetica collettiva praticata sul suolo
italiano.
ANAFONESI
L’anafonesi (dal greco anà: sopra + fonè: suono = innalzamento di suono) è una trasformazione
che riguarda due vocali in posizione tonica: [e] (proveniente da “E lunga” ed “I breve” latine) ed
[o] (proveniente da “O lunga” ed “U breve”), che costituisce un innalzamento articolatorio del
suono ed avviene in questo modo:
é>i
ò>u
Il fenomeno dell’anafonesi è tipico di un’area ristretta della Toscana (Firenze, Prato, Pistoia, Lucca,
Pisa, Volterra) ed è, appunto, una delle prove più evidenti della fiorentinità dell’italiano.
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>e>i
O (aperta) > o (chiusa) > u
Es.
Dalla base latina EGO > EO > èo > éo > io
Dalla base latina DEUM > DEO > dèo > déo > dio
(e così anche con MEUM/MEAM)
Oppure:
dalla base latina TUAM/SUAM > tòa/sòa > tua/sua
DUAS > dòe > due
BOVEM > bòe > bue
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La e chiusa [e](che può provenire da E breve, E lunga, i breve, AE atoni) in posizione protonica
(prima di una sillaba accentata) tende a chiudersi in i.
Es.
DECEMBREM > dicembre
CICONIAM > cecogna > cicogna
DEFENDO > defendo > difendo
FENESTRAM > fenestra > finestra
TIMOREM > temore > timore
Questo fenomeno non è avvenuto nello stesso momento e per tutte le parole: ci sono vocaboli che
non l’hanno affatto subìto, come CEREBELLUM>cervello; FEBRUARIUM>febbraio; inoltre alcuni
termini hanno subito la chiusura della E in I già nel Trecento (megliore, nepote, segnore), mentre
altri nel corso del Quattrocento.
PROTONIA SINTATTICA La chiusura della E protonica è stato invece uniforme e generale nei
monosillabi con e, nei quali la E si trova in posizione protonica non all’interno di una parole, ma
all’interno di una frase:
Es.
DE > de > di
DE NOCTE > de notte > di notte
IN CASA > en casa > in casa
SE LAVAT > se lava > si lava.
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Le parole con quattro o più sillabe hanno due accenti: uno secondario e uno primario.
La vocale intertonica è quella posta tra i due accenti.
Nel fiorentino, in posizione intertonica, il gruppo latino “AR” è diventato “ER”.
Es. COMPARARE > comperare
MARGARITAM > margherita
Il gruppo AR diventa ER anche in posizione protonica, in questi casi:
- Parole con uscita in -erìa (< -ARìA latino) es. frutteria
- Parole con suffisso -arello: Es. vecchierello > vecchierello
- Parole con suffisso -areccio: Es. festareccio > festereccio
- Forme del futuro e condizionale dei verbi della prima coniugazione:
CANTARE HABEO > CANTARE AO > cantarò > canterò
CANTARE HEBUI > CANTARE EI > cantarei > canterei.
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D M N L R F
ASSIMILAZIONE CONSONANTICA
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Questo fenomeno interessò la pronuncia del latino fin dal V secolo d.C.
Originariamente la pronuncia della [k] e della [g] era indipendene dalla vocale che seguiva; nel
latino tardo queste consonanti si sono palatalizzate davanti alle vocali e ed i. Nel passaggio dal
latino all’italiano, questo processo ha interessato la [k] sia in posizione iniziale sia interna (es.
“ciglio” “macerare”), e la [g] solo in posizione iniziale (es. “gelo”).
LABIOVELARE
Labiovelare = velare (sorda [k] sonora [g]) + semiconsonante [w].
Nel latino, la labiovelare sorda [kw] poteva trovarsi sia all’inizio che all’interno della parola (es.
QUALIS; LIQUOR), mentre la labiovelare sonora [gw] soltanto in posizione interna (es. ANGUILLA;
LINGUA).
Le parole italiane che iniziano per [gw] hanno origine germanica: es. “GUERRA, GUIDA,
GUARDARE”.
In una parola italiana, la labiovelare può essere di due tipi:
A. PRIMARIA: esisteva già in latino; es. quale, quando, quattro, acqua < QUALEM, QUANDO,
QUATTUOR, AQUAM.
- Se seguita da A, la labiovelare in posizione iniziale si conserva; in posizione
intervocalica si rafforza la componente velare
- Se seguita da vocale diversa da A, la labiovelare perde la componente labiale [w] e
si riduce a velare, es. QUID>che; QUOMODO>come
B. SECONDARIA: si è prodotta nel passaggio da latino volgare a italiano; es. CORE > cuore;
ECCUM HIC > qui; ECCUM HAC > qua; ECCUM ISTUM > questo.
Essa si mantiene intatta con qualunque vocale seguente.
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1. LABIALE + JOD
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2. VELARE (K e G) + JOD
-KJ- e -GJ- > Affricata Palatale ______ e ______ > Raddoppiamento Dell’affricata >
Scomparsa Di Jod
Esempi:
3. DENTALE + JOD
BISOGNA FARE ATTENZIONE ALLA DIFFERENZA TRA PAROLA POPOLARE E PAROLA DOPPIA,
DERIVANTI DALLA STESSA RADICE LATINA:
Servigio (popolare)
SERVITIUM >
Servizio (dotta)
Mezzo (popolare)
MEDIUM >
Medio (dotta)
Vezzo (popolare)
VITIUM >
Vizio (dotta)
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4. NASALE + JOD
Nesso -NJ- > raddoppiamento della nasale precedente (-NNJ-) > trasformazione in una nasale
palatale(GN) intensa.
Es. TUNIUM > JUNNJUM > giugno
TINEAM > TINJA > TINNJA > tigna
5. LATERALE + JOD
Nesso -LJ- > raddoppiamento della laterale precedente (-LLJ-) > trasformazione in laterale palatale
(GL) intensa.
6. VIBRANTE + JOD
Mentre nel resto delle regioni d’Italia, la R si è mantenuta ed a cadere è stato lo jod: per esempio
MORJO > mòrò (Sicilia) / muoio (Toscana).
Fra le parole di origine non toscana con R conservata, vi sono:
- i suffissati in -ARO di provenienza settentrionale (es. “paninaro”), romana (es.
“benzinaro”) e meridionale (es. “palombaro; calamaro”)
Anticamente il plurale delle parole in -aio, anche in Toscana, era -ari e non -ai (es. granaio/granai;
notaio/notari). In un secondo tempo, l’uscita in -ari è stata soppiantata dall’uscita in -ai- per
analogia sul singolare.
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7. SIBILANTE + JOD
NESSI CONSONANTE + L
Nesso -SL-: era sconosciuto al latino classico, si è formato in seguito ad una fenomeno
proprio del latino volgare: la sincope di una U postonica interna alla sequenza -SUL-, e per
renderne più agevole la pronuncia si è evoluto in questo modo:
SL > -SKL- > skj
Es. SLAVUM > SKLAVU > schiavo
INSULAM > INSCLAM > Ischia
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Nesso -TL-: sconosciuto al latino classico; si è formato nel latino volgare in seguito alla
sincope di una U postonica o intertonica interna alla sequenza -TUL-, e si è evoluto in
questo modo, confondendosi con il nesso -CL-:
TL > kkj
Es. CAPITULUM > CAPITLU = CAPICLU > capecchio
VETULUM > VETLU = VECLU > vecchio
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I casi erano le diverse desinenze che una parole poteva avere a seconda della funzione
grammaticale e sintattica all’interno della frase. I casi in tutto erano sei: NOMINATIVO (soggetto),
GENITIVO (compl. Specificazione), DATIVO (compl. Di termine), ACCUSATIVO (oggetto), VOCATIVO
(invocazione), ABLATIVO (vari complementi, preceduto da preposizioni).
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Ancor prima dell’età classica, si affermò una forte tendenza a ridurre e semplificare il sistema dei
casi. Con il passare del tempo, da una parte i costrutti con preposizione si sostituirono ai casi
semplici, dall’altra molte funzioni svolte da casi diversi vennero trasferite all’accusativo.
Ad esempio:
DO PRAEMIUM ANCILLAE (do una ricompensa alla serva) DO PRAEMIUM AD ANCILLAM.
Divenuto il caso di tutti i complementi, l’accusativo sostituì anche il nominativo, ed è per questo
motivo che l’accusativo è il caso da cui derivano pressoché tutte le parole italiane.
Dunque le parole italiane derivano dal caso accusativo; tuttavia ci sono alcune eccezioni:
i pronomi “loro” e “coloro” derivano da ILLORUM e ECCUM ILLORUM : quindi dal genitivo;
il nome della città di Firenze deriva da FLORENTIAE, genitivo locativo;
sette parole derivano non dall’accusativo, ma dal nominativo del latino tardo:
Uomo < HOMO
Moglie < MULIER
Re < REX
Sarto < SARTOR
Ladro < LATRO
Drago < DRACO
Fiasco < FLASKO (origine gotica).
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a) I nomi maschili che al singolare escono in -o, al plurale escono in -i : deriva dal plurale della
2° declinazione;
b) I nomi femminili che al singolare escono in -a, al plurale escono in -e : deriva dall’uscita in -
AS dell’accusativo plurale, cui ha seguito la palatalizzazione della A in E, e la caduta della S
finale.
c) I nomi maschili e femminili che al singolare escono in -e, al plurale escono in -i : deriva dalla
desinenza -ES dell’accusativo plurale della 3° declinazione: la S finale, cadendo, ha
palatalizzato la E, che si è trasformata in -i.
I più antichi testi in lingua latina in cui si ritrova l’utilizzo di “unus, -a,- um” con significato vicino a
quello dell’articolo indeterminativo italiano sono le opere di Plauto e le epistole di Cicerone
ARTICOLO DETERMINATIVO
La più antica testimonianza in lingua latina dell’uso del pronome/aggettivo dimostrativo “ille, illa,
illud” con funzione simile a quella dell’articolo determinativo italiano è rappresentata dalla Vetus
Latina (II sec. d.C.), ossia dalla prima traduzione della Bibbia in un latino popolareggiante, in cui si
cercava di ricalcare il più possibile il testo originario: poiché il greco aveva l’articolo, in questa
traduzione latina si utilizzò il pronome dimostrativo con funzione di articolo.
Successivamente, nella lingua parlata, divenne importante il suono finale della parola che precede
l’articolo: se era una consonante, l’articolo rimaneva invariato; se invece era una vocale, l’articolo
si riduceva ad “ L “
Es. RIMIRAR LO SOLE / RIMIRARE L SOLE
Perciò la “L” fu fatta precedere da una vocale detta d’appoggio, diversa nei vari dialetti medievali.
In Toscana la vocale d’appoggio fu [e] oppure [i], perciò si ebbero gli articoli “el” ed “il”.
NORMA DI GROBER nell’italiano antico si aveva “lo” ad inizio di frase e dopo parola terminante
per consonante, mentre si aveva “il” dopo parola terminante per vocale.
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ILLAM > aferesi della sillaba iniziale IL + caduta della -M finale > la
ILLAS > aferesi della sillaba iniziale IL + palatalizzazione della A in [e] prodotta dalla
caduta della -S finale > le
L’aggettivo Qualificativo
In italiano gli aggettivi concordano in genere e numero con il sostantivo cui si riferiscono. In latino
gli aggettivi devono concordare con il nome in genere, numero e anche caso.
In latino esistono due classi di aggettivi:
- alla prima rientrano gli aggettivi maschili che seguono la 2° decl., e i nomi femminili che seguono
la 1° decl.
- alla seconda rientrano gli aggettivi che seguono la 3° coniugazione.
GRADI DI INTENSITA’
Nel latino classico, il comparativo di maggioranza era costituito da una sola parola, formata dalla
radice dell’aggettivo + suffisso di maggioranza (-IOR/-IUS) forma sintetica.
I comparativi di minoranza e uguaglianza, invece erano formati da più parole, ossia dall’aggettivo +
avverbi come TAM, ITA, AEQUE, etc. forma analitica.
Il superlativo poteva avere sia la forma sintetica, che analitica: poteva utilizzare la radice + suffisso
(-ISSIMUS/A/UM), oppure aggettivo + avverbi come MAXIME, MULTUM, etc.
Per quanto riguarda il superlativo, l’italiano ha continuato sia la forma sintetica che la forma
analitica del superlativo latino.
Pronomi Personali
Il sistema dei pronomi personali dell’italiano è vicinissimo a quello latino, da cui proviene.
EGO > EO > io
ME (accus./ablat.); TU (nom.); TE (acc./abl.) > me; tu ; te
NOS; VOS > noi; voi (palatalizzazione della -S).
Il latino non possedeva pronomi di terza persona, perciò l’italiano ha utilizzato i dimostrativi IS,
ILLE, IPSE per questa funzione.
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“elli” seguito da parola iniziante per vocale dava origine al nesso -LLJ-, che diventò una laterale
palatale intensa (GGL)
Elli > egli, che poi è rimasto anche davanti a consonante.
Le basi latine “TUI, SUI” avrebbero dovuto produrre “toi, soi”, mentre in realtà è avvenuto un
dittonga mento probabilmente per analogia al dittongo “ie” presente in “miei”.
“Nostro, nostra, nostri” derivano da “NOSTRUM, NOSTRAM, NOSTRAS”; e “Vostro, vostra, vostri”
derivano da “VOSTRUM, VOSTRAM, VOSTRAS”.
Vostrum è l’accusativo singolare di voster nel latino parlato, poiché nel latino classico si aveva
“vester”.
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(EC)CU(M) TIBI ISTU(M) > cote(v)sto > cotesto > codesto(x sonorizzazione)
I Pronomi Relativi
La lingua italiana utilizza due tipi di pronome relativo:
2. Invariabile: CHE/ CUI, utilizzati in funzione dei vari complementi. Nell’italiano antico il
“che” era accettato anche in funzione di complemento indiretto, e “cui” in funzione di
complemento oggetto.
CUI deriva dal dativo del pronome relativo latino “qui, quae, quod”;
CHE deriva dal pronome interrogativo indefinito neutro latino “quid”, con riduzione della
labiovelare a velare semplice, passaggio da “i” tonica ad [e] e raddoppiamento fono
sintattico della -D finale.
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IL VERBO
Il latino aveva quattro coniugazioni, distinguibili dalla desinenza del verbo all’infinito: -ARE; -ERE (E
lunga, es. TIMERE); -ERE (E breve, es. LEGERE); -IRE.
La lingua italiana, invece, possiede solo tre coniugazioni (-are; -ere; -ire) poiché ha fatto confluire
la 2° e la 3° coniugazione latina in una sola, dato che l’italiano non distingue tra “E breve” ed “E
lunga”.
Delle tre coniugazioni italiane, soltanto la prima e la terza sono produttive: quando si forma un
nuovo verbo, esso assume la desinenza della prima o della terza coniugazione, non quelle della
seconda.
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I verbi regolari di prima e quarta coniugazione avevano, in latino, l’uscita in -AVI e -IVI, e le
trasformazioni avvenute sono:
1° persona singolare: AMAVIT > amai; FINIVI > finii: caduta della -V- intervocalica (che si
pronunciava come una [w]).
2° persona singolare: AMAVISTI > amasti; FINIVISTI > finisti: sincope della sillaba VI e
ritrazione dell’accento.
3° persona singolare: AMAVIT > AMAUT > amò; FINIVIT > FINIUT > finiò > finì: caduta della
“i”, che determina la formazione del dittongo AU, che successivamente si monottonga in “o
aperta”.
1° persona plurale: AMAVIMUS > amammo; FINIVIMUS > finimmo: caduta della “i” per
sincope; il nesso -VM- diventa -mm- per assimilazione regressiva.
2° persona plurale: AMAVISTIS > amaste; FINIVISTIS > finiste: sincope della sillaba VI,
ritrazione dell’accento.
3° persona plurale: AMAVERTUNT > amaro > amarono; FINIVERUNT > finiro > finirono:
sincope della sillaba VE, caduta di -NT e ritrazione dell’accento + aggiunta regolare della
sillaba -no finale.
In alcuni verbi di seconda coniugazione si affermò una forma di passato remoto in -ei, -esti, -è, -
emmo, -este, -erono; queste desinenze si diffusero per analogia in alcune verbi di 1° e 4°
coniugazione con perfetto uscente in -EVI: essi presentano una forma parallela in -etti, -ette, -
ettero.
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Nei dialetti dell’Italia meridionale si registra un’altra forma di condizionale (oggi molto rara): es.
“amàra” (=amerei), “cantàra” (=canterei) che deriva direttamente dal picchueperfetto indicativo
latino: AMA(VE)RAM > amàra; CANTA(VE)RAM > cantàra.
Nella lingua dei poeti siciliani si incontra un’altra forma di condizionale, uscente in “-ia”: es. “avrìa”
(=avrei), “crederìa” (=crederei): questo tipo probabilmente deriva dal provenzale, ed è il risultato
delle perifrasi latina infinito + HABEBAM. Es. AMARE (HAB)E(B)AM > amarìa.
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L’ordine naturale di una frase italiana è il SVO (soggetto-verbo-oggetto), mentre in latino, pur
essendo molto libero, quello privilegiato dagli scrittori era il SOV.
In una frase come “Claudio saluta Marcello” in italiano si deve obbligatoriamente utilizzare il SVO
per comprendere chi è il soggetto e chi l’oggetto, mentre in latino la funzione grammaticale era
espressa dal caso.
Nel latino classico, quindi, si utilizzava il modello SOV, tuttavia si diffuse nel latino tardo (es. nella
Vulgata) il modello SVO, che poi si diffuse nell’italiano.
Bisogna comunque ricordare che molti autori italiani (es. Boccaccio, Alfieri, Verri, Bembo)
utilizzarono nella loro prosa la sequenza SOV per imitazione del modello latino, e in particolare
questa tendenza è stata ancora più forte nella poesia, per la necessità di allontanarsi dalla
comunicazione quotidiana.
Nella comunicazione quotidiana, la sequenza SVO non è utilizzata nei costrutti marcati, ossia nelle
frasi in cui viene messo in rilievo un elemento diverso dal soggetto, posto in posizione iniziale.
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La Legge “Tobler-Mussafia”
Per quanto riguarda l’italiano antico, i criteri di distribuzione dell’enclisi e della proclisi dei
pronomi atoni sono descritti dalla legge “Tobler-Mussafia”.
Nell’italiano antico (dalle origini al primo Quattrocento) l’enclisi era OBBLIGATORIA in questi casi:
o dopo una pausa, all’inizio di un periodo. Es. “Domandollo allora l’ammiraglio…” Boccaccio
o dopo la congiunzione “e”. Es. “Il re si rivolse al duca di Surazzo e dissegli...” Villani
o dopo la congiunzione “ma”. Es. “[..], ma maravigliomi forte” Boccaccio
o all’inizio di una proposizione principale successiva ad una proposizione subordinata.
In tutti gli altri casi, l’enclisi era libera, ossia poteva essere utilizzata in qualsiasi contesto, a
seconda del gusto e della disposizione di chi scriveva/parlava.
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Il Milanese Antico
Il milanese appartiene ai dialetti gallo-italici, ossia ai dialetti dell’Italia settentrionale che, prima
della dominazione romana, fu abitata dai Galli; essi sono caratteristici di tutto il settentrione, ad
eccezione della zona veneta.
Le condizioni linguistiche generali dei dialetti gallo-italici sono le seguenti:
1) Scempiamento delle consonanti doppie in posizione intervocalica, ossia il passaggio da una
consonante di grado intenso ad una di grado tenue.
Es. MAMMAM > mama; CATTAM > gata.
2) Sonorizzazione delle consonanti sorde intervocaliche, che successivamente possono
spirantizzarsi, cioè trasformarsi da occlusive in costrittive e poi eventualmente cadere.
Es. dal latino AMITA (“zia”) > milanese “àmeda”; veneto “àmia”.
3) Passaggio dalle affricate palatali alle affricate alveolari, cioè dai fonemi [ ]e[ ] ai
fonemi [ ]e[ ]. Es. CIMICEM > bolognese “zemza”; veneto “sìmize”.
4) Caduta delle vocali finali e debolezza delle vocali atone, tranne “a”.
5) Presenza di vocali anteriori (o “miste”). Es. lombardo /’lyna/ (luna) e /’foera/ (fuori).
6) Esiti di -CT- difformi dal risultato toscano, in Piemone e Liguria -CT- > -it- come in francese(
es. LACTEM > làit), mentre in gran parte dei dialetti lombardi -CT- passa a [ ] come in
spagnolo (es. LACTEM > leche)
Il Veneziano Antico
I dialetti veneti costituiscono un gruppo autonomi dagli altri dialetti settentrionali, e le loro
caratteristiche peculiari sono:
a) Conservazione delle vocali finali, tranne dopo liquida e nasale, e resistenza delle vocali
atone.
b) Assenza delle vocali anteriori o miste.
c) Presenza di dittonghi “ie” ed “uo” in sillaba libera, come nel toscano. Questi dittonghi si
diffondono solo verso la metà del Trecento, e possono trovarsi anche in latinismi (es.
MODUM > muodo), o che presentano una E o una O lunghe (Es. DEBEAT > diebia).
Il Romanesco Antico
Fino al Cinquecento, il dialetto parlato a Roma apparteneva al sistema dei dialetti meridionali, ma
dal Cinquecento in poi iniziò ad avvicinarsi progressivamente al toscano. Questo avvenne
probabilmente per la presenza di numerosi fiorentini trasferitisi a Roma con il pontificato di papi
fiorentini (Leone X e Clemente VII), e per lo spopolamento dopo il sacco di Roma del 1527.
Tutti i fenomeni linguistici tipici del romanesco medievale erano presenti negli altri dialetti
meridionali, alcuni sono addirittura panitaliani. Rientrano in questa categoria tre fenomeni:
- Mancanza di anafonesi, ma presenza del dittongo metafonetico.
- Conservazione della “e” atona protonica; es. “entorno; medecina”
- Conservazione di “ar” postonico ed intertonico; es. “zuccaro; cavallaria”.
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Il Napoletano Antico
Il napoletano è espressione della più ricca e vivace tradizione letteraria dialettale in Italia, e la sua
fisionomia, a differenza del romanesco, è caratterizzata da una notevole continuità.
I tratti peculiari del napoletano sono:
1. Metafonesi e dittonga mento metafonetico;
2. Sviluppo della vocale atona finale in vocale indistinta;
3. Epentesi della dentale nei gruppi di nasale p liquida+sibilante;
4. Spirantizzazione della labiale sonora intervocalica;
5. Conservazione della iod [j] latina, es. IAM > ià; GENTEM > iente.
6. Nesso -PJ- diventa affricata palatale sorda di grado intenso [ ]; Es. SAPIO > saccio;
LUPIAE > Lecce; SAPIENTEM > saccente;
7. Nesso -CJ- diventa affricata dentale sorda di grado intenso [ ]; es. FACIO > fazzo;
8. Nesso -SJ- diventa una sibilante sorda [s]; es. BASIUM > vaso;
9. Nesso -PL- diventa occlusiva velare + iod; es. PLUS > chiù; PLANGIT > chiagne;
10. Raddoppiamento di -m- intervocalica: Es. CAMISIAM > cammisa;
11. Sistema tripartito fra i pronomi dimostrativi sulla base latina: “chistu” per vicinanza a chi
parla; “chillu” per lontananza a chi parla e chi ascolta; “chissu” per vicinanza a chi ascolta.
Il Siciliano Antico
Il siciliano è l’unico dialetto italiano ad aver lasciato un’importante impronta nella lingua poetica
nazionale, soprattutto grazie alla poesia siciliana della corte di Federico II; nella lingua poetica
italiana, originari sicilianismi sono: le forme senza dittongo, come “loco ; novo” e il condizionale in
“-ia” (avrìa; sarìa).
La differenza fondamentale tra il siciliano e gli altri dialetti italiani riguarda il sistema vocalico:
rispetto al toscano, mancano la “e” e la “o” chiuse, e la A si continua di consueto come “a” senza
tener conto della quantità latina; inoltre non esistono i dittonghi “ie” ed “uo”. Nel vocalismo atono
le vocali si riducono a tre: “a”; “i”i; “u”.
Ovviamente, il siciliano presenta tratti in comune con gli altri dialetti meridionali:
- L’assenza di metafonesi, dal momento che non esistono le vocali medio-alte;
- La rarità del dittongamento;
- L’assenza di vocali indistinte;
- La mancanza di apocope sillabica negli infiniti (VIDERE > vidiri).
Le Koinè Extra-Toscane
Per koinè si intende una lingua sovra regionale, che si affianca o si sostituisce nell’uso scritto o
parlato ai singoli idiomi in uno in una certa area geografica. Il termine deriva dal greco “koinè
dialektos”, cioè la lingua parlata nelle varie regione della Grecia in erà ellenistica.
Per quanto riguarda l’area italiana, la koinè si sviluppa esclusivamente nell’uso scritto, soprattutto
nelle corti quattrocentesche, e si identifica con una serie di tendenze che si manifestano in modo
simile in aree diverse.
Il volgare di koinè presentava tra tratti peculiari:
a. Il fondo regionale locale, con eliminazione o attenuazione dei tratti linguistici troppo
marcatamente regionali;
b. La forte presenza di latinismi;
c. L’uso del toscano letterario, diffuso grazie alle tre corone.