Abramo Nostro Padre Nella Fede
Abramo Nostro Padre Nella Fede
Abramo Nostro Padre Nella Fede
Prima parte
Meditazioni
prima meditazione
Introduzione
Ho pensato per questa sera di proporvi qualche riflessione su alcune annotazioni degli
Esercizi ignaziani: la seconda annotazione, qualcosa della ventesima e, prima di tutto,
qualcosa sul titolo degli Esercizi [21] , che si trova prima del Praesupponendum.
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* I numeri tra parentesi quadre si riferiscono ai paragrafi degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio.
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miglior modo di servire Dio nella mia vita? adesso cosa scegliere, cosa lasciare per avere il
miglior servizio? È il livello categoriale delle scelte.
Un terzo livello, che chiamerei trascendentale, è quello che non si vede, che non si
tocca, ma che è la radice di tutto, cioè giungere a Dio, conoscerlo, toccarlo, sentirlo,
percepirlo in maniera misteriosa, ma realissima e aprirsi a lui. Livello trascendentale, che
non è il livello ultimo nel senso che vi si arriva alla fine, è il livello di inizio, che però
rappresenta anche la fine – l’unione mistica, cioè la quarta settimana degli Esercizi – ma che
per me significa vincere me stesso. Perché vincere me Stesso? Che cosa significa questo
“vincere me stesso” visto nella sua radice, nella sua profondità? Che cosa c’è da vincere in
noi come uomini divisi? Qual è, secondo la Scrittura, la realtà che in noi contrasta con la
realtà positiva e che quindi fa sì che dobbiamo vincerci? La realtà fondamentale che in noi
contrasta con la realtà positiva è la “timidezza”, cioè non credere, non sperare, non essere
aperti a credere a Dio, agli altri, alle cose. Vincere se stesso vuol dire credere, sperare,
affidarsi. L’uomo si apre a Dio e Dio si apre a lui e in questa apertura ritrova sia il livello
morale che il livello dell’esperienza delle scelte.
Ma il livello trascendentale è quello che domina tutto, è l’inizio, la radice, il punto
finale, è il quadro di quanto gli Esercizi vanno operando. Vincere se stesso è superare la
paura, la morte, la disillusione, tutto ciò che in noi è diffidenza, chiusura, amarezza; è aprirsi
alla pienezza di Dio ed essere inondati da lui nella verità della nostra vita morale, della
nostra vita di scelta, del nostro miglior servizio a maggiore gloria di Dio.
La ventesima annotazione
Ecco come io vedrei collegata col titolo degli Esercizi la ventesima annotazione,
questo triplice livello, questo triplice frutto degli Esercizi. Ciascuno dovrà esaminarsi se il
Signore lo spinge di più ad approfondire il livello della qualificazione morale ascetica;
oppure il livello delle scelte portanti di beni migliori, più elevati, invece di beni più facili che
operiamo in seno alla Chiesa, ma che non sono ciò che di meglio Dio chiede da noi, oppure
il livello più profondo, cioè della fede diretta; livello quest’ultimo che non si misura mai:
nessuno di noi sa che misura ha di fede, se veramente crede in Dio fino in fondo, fin dove
non ci crede.
Tutto questo lo si può verificare sia nell’esperienza morale che nell’esperienza delle
scelte. Però il terzo livello è il livello fondamentale, senza di esso non esiste niente.
Attraverso tutti i simboli, attraverso le cose che facciamo, attraverso tutto ciò che operiamo
negli Esercizi, noi tocchiamo continuamente questo livello più profondo in noi, che è la
nostra realtà nuda e cruda, di persone davanti a Dio; è il livello della vittoria di sé, della
vittoria della paura, della morte, vittoria sulla diffidenza per aprirsi alla parola di Dio che ci
chiama.
Potremo riferire tutto questo alla domanda che fanno i Giudei a Gesù in Gv 6, 28: “Che
cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?”, e che noi potremo parafrasare: “Che
cosa dobbiamo fare per compiere negli Esercizi, questo o quello, per ottenere un
miglioramento in questa o in quella cosa?” La risposta di Gesù ci manda immediatamente al
livello trascendente: “L’opera di Dio è questa: credere in colui che mi ha mandato”.
Da questa riflessione deriva anche la materia delle meditazioni, che mi sono proposto
di sviluppare, prendendo a nostro compagno di viaggio il pellegrino Abramo: cioè cercare
Dio, toccare Dio, che cosa significa per noi, come in noi si verifica? Così il titolo di questi
Esercizi sarà: “Abramo, nostro padre nella fede”.
ma che conosceva così poco. Anche noi siamo chiamati a camminare nella fede. Mi viene
qui di applicare a questo cammino di Abramo e al nostro ciò che il Concilio Vaticano II,
nella costituzione sulla Chiesa, nel capitolo sulla Madonna, dice di Maria: in peregrinatione
fidei processit, avanzò nel pellegrinaggio della fede (LG 58). La Madonna ha camminato nel
pellegrinaggio della fede; quindi è andata avanti anche lei conoscendo sempre più Dio.
Chiediamo l’aiuto di Dio per avanzare anche noi in questo pellegrinaggio.
Come vinciamo noi stessi? Come possiamo vincere in noi la diffidenza radicale che ci
chiude ogni giorno a Dio e agli altri, a tutto ciò che è nuovo ed è vero, per incapsularci nella
nostra torre di abitudini, di sicurezze acquisite? Come vinciamo tutto questo? Con la parola
di Dio. La parola di Dio è ciò che vince in noi la battaglia della fede. E qui mi richiamo alla
seconda annotazione degli Esercizi, che dice: “dobbiamo lasciarci penetrare dalla parola di
Dio”. Colui che dà gli Esercizi non deve dare di sé, o convincere, ma dare la storia, narrare
fideliter historiam, storia che dobbiamo applicare a noi prendendo il testo e chiedendoci: che
cosa dice il testo a noi, a me? ciascuno poi interiorizzandolo in modo da lasciarsi vincere
dalla parola. Questo testo sarà per noi principalmente Genesi, capp. 12-25, ed anche altri, di
cui alcuni del Nuovo Testamento, che si riferiscono più particolarmente ad Abramo, come
Rm 4, Gal 3, Eb 11.
È l’annuncio della parola di Dio, il kerigma, che opera questa vittoria. Noi vinciamo
noi stessi, se ci lasciamo penetrare dalla parola come parola di Dio, cioè come forza del
Cristo presente, risorto, che opera adesso in questa situazione. E qui ritorno al punto della
ventesima annotazione, che riguarda la segregazione, la separazione, il ritirarsi. Voglio
specificarne due aspetti: non tanto quello dei frutti a cui ho già accennato, ma piuttosto
l’aspetto, diciamo più contenutistico. Da che cosa noi ci ritiriamo? Ci ritiriamo da tante cose,
e anzitutto da tutti i pensieri molesti.
seconda meditazione
Chi era Abramo?
Ti chiediamo, o Signore,
di cercarti così come ti ha cercato Abramo
e di desiderarti come lui,
di attendere con fiducia
la manifestazione della tua Parola,
che è Gesù Cristo, nostro Signore,
crocifisso per noi e risorto,
che vive e regna per tutti i secoli dei secoli.
Amen.
Il momento biblico di questa mattina sarà forzatamente un po’ più lungo. Dovrò offrire
alcune informazioni introduttive, che ci serviranno per la riflessione e la lettura di questi
giorni, prima di proporre la meditazione propriamente detta.
Le informazioni introduttive riguardano i primi due punti: il primo è una spiegazione
del titolo di questo ritiro: “Abramo, nostro padre nella fede”; il secondo è una breve rassegna
delle fonti da cui traiamo la nostra conoscenza di Abramo sul quale mediteremo. Infine, il
terzo punto è la meditazione propriamente detta, che si può esprimere così: da dove, unde,
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Ma il nostro legame con Abramo come padre non è soltanto nel senso genealogico, è
anche nel senso esemplare. Infatti quando la liturgia parla di “nostro padre nella fede” vuol
dire che Abramo ci precede come un vero padre, ci insegna la via, ci dà la tradizione, ci
indica le forme di vita secondo le quali dobbiamo comportarci. Quindi le vicende, le paure,
le solitudini, la grazia di Abramo, sono segno, simbolo, esemplare delle vicende, paure,
solitudini, delle grazie dell’uomo davanti a Dio, di ciascuno di noi. Abramo nostro padre nel-
l’esemplarità è ciò che rende possibile queste nostre meditazioni sull’Antico Testamento,
perché in lui si è giocato il nostro destino ed egli è esemplare di questo nostro destino
davanti alla parola, davanti a Dio.
religiosa della figura di Abramo; erano uomini che se lo sentivano vicino e quasi lo facevano
parlare. Sono documenti di prim’ordine, anche se talora, come vedremo, un po’
semplicistici, puerili, ma nella loro apparente puerilità i rabbini dicevano cose strabilianti,
avevano l’arte di dire cose profonde col fatterello, col raccontino, la piccola ipotesi lanciata
così per aria, e dicevano cose che ci fanno riflettere.
Due fonti del giudaismo ellenistico: Filone, che ha molti trattati su Abramo e Giuseppe
Flavio, che nelle sue Storie giudaiche racconta a suo modo tutta la storia di Abramo. In
queste fonti si può leggere con interesse come gli autori si sono rappresentati Abramo,
facendo ciò che noi facciamo e faremo: cercare di capire Abramo a partire dalla propria
situazione religiosa. Questo evidentemente sarebbe sbagliato, se gli si attribuisse un valore
storico, ma diventa legittimo se gli si dà un valore religioso, cioè: che cosa dice Abramo a
me adesso? Abramo sono io! Questo fa Filone, il quale legge Abramo nell’ottica della sua
visuale religiosa, lo fa Giuseppe Flavio e lo fanno, in forma molto più frammentaria, ma
forse più acuta, le fonti del giudaismo rabbinico, le Haggadah, i racconti rabbinici
sull’infanzia e sulle diverse vicende di Abramo.
Le fonti islamiche, come ho detto, sono abbastanza numerose. L’Islam sente
moltissimo la figura di Abramo. Vi sono dei testi molto belli, di cui, se ci sarà tempo,
vedremo qualcosa.
Non so come sia venuto fuori questo “48 anni”, comunque i rabbini non sono d’accor-
do nemmeno loro. Ma perché i rabbini nominano queste tre età, un anno, tre anni, 48 anni e
non oltre? Cosa hanno voluto dire? Che cosa c’è dietro la loro intuizione? È quello che ho
chiamato il “quando”.
limiti, che portiamo evidentemente con noi per tutta la vita, delle quali – ecco il sottotema
del terzo punto – ha dei valori e dei limiti. Ed è importante che noi ci esaminiamo sui valori
e sui limiti, che portiamo evidentemente con noi per tutta la vita, delle nostre prime
esperienze religiose, del nostro primo modo – un primo modo che può durare anche anni,
decenni – di avvicinarci a Dio, considerandolo rispetto al mondo che dà il primato alla
parola, al modo evangelico; il quale però conserva sempre in noi rimanenze, spesso
pesantezze, del primo modo; ed è per questo che è importante questo esame su di noi.
Le tre possibilità
Prendiamo le tre date rabbiniche nel loro senso simbolico: un anno, tre anni, 48 anni.
Un anno, cosa vuol dire? È il primo tempo, Dio si rivela immediatamente all’anima nella sua
pienezza e chiarezza. Così con la Madonna, con alcune persone privilegiate, forse con alcuni
di noi, cioè fin dall’inizio. Una conoscenza infusa di Dio veramente profonda, radicata
interiormente, una grazia limpida, immensa, rara.
Tre anni: cosa vuol dire? Nella famiglia, cioè la famiglia comincia a insegnare le prime
preghiere, il nome di Dio; comincia ad abituarci ai simboli religiosi, al segno della croce, al
crocifisso; è quell’educazione familiare, direi in certo senso normale, che è stata quella di
tanti di noi. Si nasce in una famiglia che, senza che noi avessimo nessuna predisposizione
speciale – come si racconta di san Stanislao, di san Luigi – ci ha portato a prendere questi
segni, a farli nostri, ci ha fatto entrare in una comunità di preghiera, in chiesa, accanto alla
mamma, con i genitori, vedendoli pregare, fare la comunione. Così ha inizio veramente un
profondo processo religioso.
Invece 48 anni; cosa vuol dire? È l’itinerario faticoso, spesso aberrante, che passa
attraverso tutte le possibili aberrazioni del pensiero, vagando un po’ come sant’Agostino di
qua e di là, cercando a destra e a sinistra. Forse a questo punto possiamo ringraziare Dio se ci
ha dato l’esperienza infusa iniziale, dobbiamo ringraziarlo per tutta l’esperienza di
maturazione familiare che ci ha dato. Però dobbiamo porci anche la domanda: è possibile
che si duri 48 anni prima di conoscere il vero Dio? Eppure questo avviene, almeno a certi
livelli, anche nel mondo cristiano.
Mi ha colpito qualche tempo fa ciò che ho sentito raccontare di un prete che aveva
assistito ad una catechesi neocatecumenale, ed è andato dal vescovo tutto sorpreso a dire:
“Finalmente ho capito il kerigma!” Il vescovo: “Possibile? Lei che da tanti anni lo predica in
chiesa e lo insegna in seminario”? Voglio dire che effettivamente si può vivere molti anni in
un’esperienza religiosa generica, senza coglierne profondamente il senso, restandone
abbastanza estraneo, quasi ateo. E questo penso sia più frequente di quanto si creda: un’espe-
rienza religiosa che non entra in profondità. Non è da dire che sia un male, è un fatto, però,
che Dio ci chiama dopo, Dio ci aspetta dopo. Come è certo che i modi con cui giungiamo a
una vera esperienza religiosa, alla purificazione di una precedente esperienza, sono
molteplici e imprevedibili, non hanno tempo, possono durare decenni. Di qui l’importanza di
interrogarci: quali sono stati gli inizi, i “quando”, di precisare questo tempo, questi anni,
questo periodo, oppure questa lunga difficoltà, questa luce e ombra che si succedono con
prove di desolazione, assenza di Dio, Dio non c’è, e poi la ripresa. Tutto questo periodo
dovremmo richiamarlo brevemente, metterlo davanti a Dio, pensando all’esperienza
originaria di Abramo.
La parola di Dio
Infine la quarta esperienza, l’unica veramente valida, definitiva, reale: Abramo che
viene convertito dall’esperienza della parola. Quando capisce che Dio è l’Assoluto, il
Diverso, il Luminoso, il Fascinoso, che parla, agisce liberamente, irrompe nella sua vita
come vuole, non come Abramo si immagina, non a misura cosmica, ma in maniera
imprevedibile, inconoscibile, perché Dio è l’inconoscibile, l’inconoscibile che agisce. E qui,
come vedremo, nasce tutto un tumulto nuovo nell’anima di Abramo.
Credo che quest’ultima esperienza è possibile intravederla – come molti dicono,
basandosi un po’ sull’archeologia e su qualche interpretazione dei testi antichi – nel
passaggio che fa Abramo da El a Jahvé. El: il grande Dio del firmamento, pacifico, che tiene
tutto sotto di sé, che regola i corsi delle cose, delle stagioni, degli astri, a cui ci si accomoda
e anche che si accomoda a noi, al nostro ritmo di pastori, di agricoltori; quindi una religiosità
naturale, semplice. Jahvé: il Dio, che se è un Dio tribale, come farebbero pensare alcune
descrizioni di Ebla, è un Dio che, per così dire, esce dalla montagna con violenza, si
precipita, coinvolge, mette in lotta, cambia, esige e insieme è misterioso, è l’Altissimo,
l’Assoluto, l’Inaccessibile.
Questo passaggio di Abramo segnerà il ritmo di tutta la sua vita, in cui inciamperà
continuamente, come vedremo. Ma è l’apertura alla parola, alla parola imprevedibile,
inconoscibile nella fonte da cui proviene, perché Dio non lo conosciamo, non l’abbiamo mai
visto, non sappiamo chi è; ma sappiamo che agisce in noi e noi ci fidiamo di lui, senza
conoscerlo a fondo, coinvolti come siamo in questo cammino.
È l’esperienza di conversione-vocazione, che a un certo punto ha avuto Abramo, ma
che ha sempre dovuto perfezionarsi, ripetersi. E noi? C’è stata per noi questa esperienza?
quando è stata, quando si è ripetuta? come avviene? qual è ora? in che maniera mi trovo ora
di fronte al mistero di Dio? Qui le maniere sono molte: conoscenza, rifiuto, negligenza,
adesione ambigua, adesione sempre più chiara; tutte maniere possibili anche nella vita
religiosa, credo anzi proprio nella vita religiosa, in cui tutto ciò che divide l’uomo da Dio
viene fuori molto di più. L’odio di Dio, il disprezzo, il rifiuto, l’incapacità a riconoscerlo, il
risentimento, tutti questi atteggiamenti emergono molto più fortemente, proprio perché Dio
diventa il “partner” dell’esistenza e quindi si attua la lotta con Dio. È importante riconoscere
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questa lotta che è in noi, come è stata la lotta in Abramo, e lasciare che emerga davanti al
mistero della parola. Ripetiamo quindi questa ricerca che Abramo ha fatto di Dio, recitando
per conto nostro qualche brano del salmo 119:
Ti cerco, Signore,
aspetto la tua parola,
desidero conoscerti
fa’ che io ti conosca,
fa’ che la tua verità sia aperta a me.
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terza meditazione
Le paure di Abramo
Nei capitoli del Genesi in cui si parla di Abramo si incontrano una quindicina di
episodi, di cui cinque si possono ritenere fondamentali per il suo rapporto con Dio. Sono i
seguenti: la vocazione, cap. 12 (Jahvista); la promessa e l’Alleanza, cap. 15 (con tracce di
Elohista); la nuova Alleanza e circoncisione di Abramo a 99 anni, cap. 17; l’episodio di
Sodoma e la potenza della preghiera di Abramo, cap. 18; infine il sacrificio di Isacco, cap.
22. Mi sembra che siano cinque grossi episodi molto interessanti, anche se gli altri non sono
meno significativi.
Questa mattina però mi propongo di parlare di tre episodi, diciamo, minori, cioè:
Abramo e gli Egiziani, cap. 12, 10-20; Abramo a Gerar, cap. 20, 1-18 (che è un doppione del
precedente e li tratteremo insieme); il problema familiare di Abramo con Sara e Agar, cap.
16, 1-16. Tre episodi che si riducono a due: primo, la paura di Abramo per ciò che lo
circonda; secondo, la paura di Abramo per la sua sopravvivenza familiare. Questi due
episodi li raduniamo sotto un solo titolo: “Le paure di Abramo”, sulle quali mediteremo alla
maniera della prima settimana, indagando su ciò che c’è nell’uomo sotto la parola di Dio.
La fragilità di Abramo
A differenza di ieri, quando dovevamo arrampicarci sui vetri con i rabbini, con le
Haggadah, per poter capire cosa c’era in Abramo in Ur dei Caldei, qui invece possiamo
seguire il testo biblico. Abramo è già all’ascolto delle promesse e dunque a fortiori già aperto
al kerigma e alle rivelazioni successive della parola di Dio. Di fatto però le riceve in parte e
solo parzialmente mette a frutto l’accresciuta conoscenza di Dio. Non fa circolare
sufficientemente la parola, in lui la parola ogni tanto si arresta, e allora ecco che la fragilità
di Abramo emerge.
Questa fragilità di Abramo, come vedremo, è attenuata, è una fragilità che gioca
nell’ambiguità. E proprio per questo motivo ci è utile. Perché ordinariamente la fragilità
dell’uomo nei grandi peccati – chi uccide, chi ruba – è facile a riconoscersi e ciascuno
l’ammette; ma quando è fragilità attenuata, che gioca nell’ambiguità, allora le cose sono
molto più difficili da percepire.
È ciò che sant’Ignazio domanda di approfondire nel triplice colloquio che segue alla
ripetizione della seconda meditazione sui peccati, nel quale mi fa chiedere di conoscere
l’intero disordine delle mie azioni, perché possa ordinarmi; conoscere la vanità del mondo,
perché possa aborrirla. Le grazie che si chiedono vanno, al di là della conoscenza dei peccati,
verso la conoscenza di ciò che nel nostro vivere è meno ordinato, che è sottoposto a
pressioni, a misure di compromesso, a raggiri appena appena accennati, che però fanno parte
dell’esistenza di chi non cammina pienamente alla luce della parola, di cui non si è ancora
lasciato coinvolgere pienamente dalla promessa.
Questo testo è una geniale interpretazione della schiavitù dell’uomo sotto l’ambiguità,
vittima delle potenze del mondo, che sono poi le potenze dell’ambiente, della pubblica
opinione, per ciò che gli altri si aspettano da noi, delle cose di cui temiamo di essere criticati,
malvisti, messi da parte, non considerati. Tutta questa schiavitù ha la sua radice, dice Paolo,
in quel timore fondamentale, che è il timore della morte, inteso in senso lato; cioè il timore
di essere diminuiti, di essere divisi, di perderci, di far brutta figura, di non essere più nel giro
delle cose che vanno, di essere scartati. Questo timore, riferito all’oggetto ultimo che è la
morte, cioè lo scomparire della gara dell’esistenza, soggiace a tutte le ansietà dell’uomo
nella lotta quotidiana, e quindi è all’origine di tutte le conflittualità, nelle quali l’uomo tenta
di prevalere, di resistere, di non essere messo da parte, addirittura di farla agli altri, di
scavalcarli, di non farsi prendere in fallo, di riuscire a crearsi una via sicura. Tutta questa
realtà è quella che ci viene descritta nella lettera agli Ebrei 2, 14-15, e noi con molta
semplicità possiamo leggervi ciò che di questa realtà appare nei due episodi di Abramo.
presentano. Che cosa fa l’uomo? Si lascia prendere dall’ansia, comincia a dire come
l’amministratore infedele di Luca 16: che farò, come andrò avanti, come supererò questa
situazione? E allora si cercano degli espedienti per resistere.
E Dio che cosa fa? Mi pare che Dio fa lo stesso che con Abramo, cioè Dio ha un’im-
mensa compassione per queste situazioni di ambiguità e di fragilità, in cui l’uomo
istintivamente cade; cerca di non cadere, potrebbe non cadere, vorrebbe non cadere, ma ut in
pluribus, come si dice, succede che ci casca, perché le pressioni esteriori sono tante, il
desiderio di non morire, di non essere svilito, di non essere diminuito, di non perdere, di non
deludere altri attraverso la propria perdita, è così grande che l’ambiguità sorge ed entra nel
tessuto della vita.
Ora una domanda finale riguardo a questo episodio. È vero: Abramo ha cercato di fare
quello che poteva, è andato avanti a tastoni, ha preso la prima via che gli veniva, anche se
sentiva certamente che non era la più bella, ma di fatto non poteva fare diversamente, e Dio
non lo rimprovera, Dio ha compassione di Abramo. Però domandiamoci: può Abramo
conoscere veramente Dio in questo stato? cioè può arrivare alla perfetta conoscenza del Dio
che si rivela, dandogli piena fiducia in tutte le sue cose? Certamente no, proprio perché è
roso da queste ambiguità, paure, timori. Quindi queste ambiguità, paure, timori, anche se non
sempre moralmente negative, in realtà portano l’uomo alla non capacità di conoscere
pienamente quel Dio che si rivela solo nella piena fiducia in lui, nella totale adesione, nel
totale abbandono delle paure e delle ansietà. Abramo rimane lì, non progredisce, la sua
conoscenza di Dio si blocca. E allora, bloccandosi la conoscenza di Dio, che succede?
Succede quello che vediamo nel cap. 16 nei versetti 1-6.
disse ad Abram: Ecco, il Signore mi ha impedito di avere prole; unisciti alla mia schiava:
forse da lei potrò avere figli. Abram ascoltò la voce di Sarai”. Curioso! Cap. 15: Abramo
ascoltò la voce di Dio e credette, e gli fu computato a giustizia; cap. 16: Abramo ascoltò la
voce di Sara. Ecco la fragilità, la paura del nostro grande padre nella fede, che aveva
ricevuto non soltanto la promessa del cap. 12 chiaramente indicante il figlio: “farò di te un
grande popolo, ti benedirò”, non soltanto la promessa del cap. 13: “questo paese lo darò a
* Fino al cap. 17 del libro della Genesi, Abramo e Sara si chiamavano Abram e Sarai. Ma nel cap. 17
Dio dice: “Non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abramo perché padre di una moltitudine di popoli ti
renderò... Quanto a Sarai tua moglie, non la chiamerai più Sarai, ma Sara” (vv. 5-16).
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te”, ma anche la grande alleanza del cap. 15; ed eccolo di nuovo rapidamente riguadagnato
dal timore.
Questo il contesto del racconto, la vicenda di Abramo come la Scrittura ce la presenta,
che io suddivido in tre parti. La prima riguarda la paura di Sara: “Il Signore mi ha impedito
di avere prole; unisciti alla mia schiava; forse da lei potrò avere figli”. La seconda è la paura
di Sara che si trasmette ad Abramo: “Abram ascoltò la voce di Sarai”. La terza è Abramo
che, a causa delle proteste di Sara per il comportamento altezzoso di Agar, le restituisce
quasi con disprezzo la schiava: “Ecco la tua schiava, è in tuo potere, falle ciò che ti pare”.
Abramo, l’uomo della promessa, è bloccato, la sua conoscenza di Dio viene erosa, diminuita,
non riesce veramente a vivere la sua realtà, la sua vita col Dio della promessa.
Le cose mi vanno male, sarei tentato di uscirne con qualche atto personale di
autodifesa, qualunque esso sia, “ma in te mi rifugio, Signore”.
quarta meditazione
I Vangeli per Abramo
Non è senza una qualche difficoltà che mi accosto questa mattina ai testi fondamentali
della esperienza di Abramo – sono cinque in Gn 12-15 – per cercare di capirli insieme con
voi. La difficoltà viene, da una parte, dal fatto che questi testi sono fondamentali per
l’esperienza cristiana, sono i testi a cui i primi cristiani hanno fatto riferimento per
inquadrare Gesù Cristo nella storia della salvezza, per rendersi conto di ciò che egli era per
loro, per il mondo; d’altra parte, questi testi sono molto distanti da noi, e quindi c’è il rischio,
avvicinandoli, quasi di restare delusi.
Di che cosa parlano questi testi? si possono veramente paragonare al Vangelo?
Cerchiamo di meditarli, avendo presente non solo la difficoltà, ma anche, a mio avviso, il
valore che ha il fatto di considerarli in riferimento, per esempio ad At 2, 39, dove, al termine
del suo discorso, Pietro dice: “Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli, e per tutti
quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro”. Dunque, la promessa fatta
ad Abramo è anche per i lontani, per noi che eravamo lontani, chiamati dal Signore Dio
nostro. C’è un legame diretto tra la promessa ad Abramo e ciò che il Nuovo Testamento ha
vissuto. Del resto nel “Benedictus” si dice che il Signore “si è ricordato del giuramento” –
che ora si è avverato – “fatto ad Abramo, nostro padre”. In questo spirito vogliamo riflettere
su alcuni testi del Genesi in cui si parla di Abramo, ai quali altri passi di Paolo anche si
riferiscono.
annunciando per città e villaggi” [91]. Ci mettiamo direttamente di fronte ai “vangeli per
Abramo”, agli annunci di salvezza dati ad Abramo, che ci aiutano a capire gli annunci di
salvezza che Gesù ci proclama.
Questo il processo dinamico della meditazione, che propongo in quattro punti: primo
punto: i testi nella loro struttura; secondo punto: tre domande che porremo ad Abramo
tenendo presenti questi testi; terzo punto: una domanda che faremo noi: quali sono le affinità
e le diversità tra questi “vangeli” e il Vangelo del Nuovo Testamento; infine quarto punto:
quali sono le affinità, diversità e rapporti tra questi annunci e quello che ci viene dato nella
meditazione del Regno.
tanto l’ordine in se stesso di andare, ma quest’ordine collegato con una pienezza di promesse
e di prospettive, non al singolare, ma globale: è un grande popolo che si profila, un’umanità
nuova.
Le parole: “in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” possono apparire un
po’ scure. Alcuni vi danno un’interpretazione più semplice, intendendo che le famiglie della
terra un giorno si benediranno l’un l’altra dicendosi a vicenda: benedetta sei tu come
Abramo; cioè sarà un modo di benedirsi, e Abramo sarà felice che se lo diranno. Però già
nell’Antico Testamento il Siracide, poi i Settanta, poi il Nuovo Testamento le hanno
interpretate in modo più forte, pregnante: in te tutti saranno benedetti, cioè tu sarai causa di
benedizione per tutti. Così le interpreta anche Paolo nella lettera ai Galati ed altri. Quindi c’è
la visuale di un grande popolo, di una unità di tutti gli uomini che si farà in Abramo. Ecco il
messaggio, ecco il kerigma, il vangelo per Abramo.
Terzo elemento di questa scena: “Allora Abram partì”. Partì con tutti i suoi, un
particolare questo che ci servirà per capire qualcosa del Nuovo Testamento. “Abram dunque
prese la moglie Sarai, e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che avevano acquistato in
Carran, e tutte le persone che lì si erano procurate e si incamminarono verso il paese di
Canaan”. Abramo non parte povero, parte con tutto ciò che ha, con tutto il seguito; però
parte con un atto di totale fiducia, e, come dice la lettera agli Ebrei, non sapendo dove
andare, ma fidandosi totalmente della parola di Dio.
Terra e discendenza
Questo il primo annuncio. Il secondo è espresso nel versetto 7: Abramo arriva al paese
di Canaan, lo attraversa fino a Sichem, presso la Quercia di More. “Nel paese si trovavano
allora i Cananei. Il Signore apparve ad Abram e gli disse: Alla tua discendenza io darò
questo paese”.
Qui si specifica questo paese. Ma notate anche il contrasto: i Cananei abitavano la
terra, cioè la possedevano con armi, con potenza, con pienezza di poteri; ma il Signore dice
ad Abramo, che vi è entrato da emigrante, senza potere, che la darà a lui e alla sua
discendenza. Ecco un nuovo kerigma per Abramo, un nuovo annuncio che riprende il
precedente e lo specifica.
Inoltre, dopo che Abramo ha fatto il gran gesto di generosità, lasciando a Lot la parte
di terra che diventerà poi la peggiore, ma che in quel momento era la migliore, il Signore
dice di nuovo ad Abramo, in 13, 14-18: “Alza gli occhi e dal luogo dove stai spingi lo
sguardo verso il settentrione e il mezzogiorno, verso l’oriente e l’occidente (cioè un giro
completo d’orizzonte). Tutto il paese che tu vedi io lo darò a te e alla tua discendenza per
sempre. Renderò la tua discendenza come la polvere della terra; se uno può contare la
polvere della terra, potrà contare anche i tuoi discendenti. Alzati, percorri il paese in lungo e
in largo perché io lo darò a te. Poi Abram si spostò con le sue tende e andò a stabilirsi alle
Querce di Mamre, che sono ad Ebron e ivi costruì un altare al Signore”.
Qui dei tre elementi precedenti ne troviamo soltanto due; non c’è più il “lascia”, ma
c’è il kerigma: questo paese, guardalo, è tuo e della tua discendenza. Vengono cioè spe-
cificati i due termini che ormai saranno termini chiave: la terra e la discendenza. Tutti e due
ci vogliono per Abramo, perché gli importa poco avere la discendenza se non ha la terra, né
gli importa avere la terra se non c’è la discendenza. Questa globalità di discendenza e di terra
specificano la promessa, che viene ampliata per così dire senza limiti: una discendenza
“come la polvere della terra”. Ma è una promessa per il futuro, ed è commovente vedere
come Abramo accoglie nella sua fede l’invito a percorrere il paese, un paese non suo, in
lungo e in largo, per rendersi conto di ciò che il Signore gli darà. Questo atto di fiducia che
Abramo fa alla parola di Dio: “alzati, percorri il paese in lungo e in largo, perché io lo darò a
te” (13, 17), si potrebbe mettere a confronto col primo elemento di 12, 1-5: “lascia, vattene”.
Questo futuro: “darò” tuttavia sembra un po’ ridicolo: perché non è presente: te lo do subito?
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No, te lo darò, intanto percorrilo, prendine conoscenza, gustalo nella fede, nella fiducia, nella
speranza; non è tuo ancora, però va’ ad informarti com’è questo paese. Abramo si spostò con
le sue tende, andò a stabilirsi “presso le Querce di Mamre che sono ad Ebron e costruì un
altare al Signore”. Questa esecuzione mostra la fede di Abramo, il quale mette qua e là degli
altari, cioè delle pietre, per dire: ecco, il Signore è qui; così prima a Sichem, così a Mamre,
quasi per prendere possesso, almeno idealmente, in primizia, in figura, di questo paese che è
già suo; una presa di possesso nella fede. Veniamo infine al cap. 15, che di solito si presenta
come un capitolo unico, ma che io divido in due parti (1-6; 7-18), perché mi sembra l’ac-
costamento di due episodi, che possono essere strutturati separatamente.
Il sacrificio di alleanza
Ultimo testo, che segue immediatamente, cap. 15, 7ss: il sacrificio di alleanza. Qui la
promessa, il kerigma è dato in un’altra forma e in un altro contesto, cioè quello del sacrificio:
“E gli disse: io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso
questo paese. Rispose: Signore mio Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso? Gli
disse: prendi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora
e un piccione. Li andò a prendere ..., li divise in due, collocò ogni metà di fronte all’altra ...
Gli uccelli rapaci calavano su quei cadaveri, ma Abram li scacciava.
Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram ed ecco un oscuro
terrore lo assalì. Allora il Signore disse ad Abram: Sappi che i tuoi discendenti saranno
forestieri in un paese non loro, saranno fatti schiavi e saranno oppressi per quattrocento anni.
Ma la nazione che essi avranno servito la giudicherò io; dopo essi usciranno con grandi
ricchezze. Quanto a te, andrai in pace presso i tuoi padri, sarai sepolto dopo una vecchiaia
felice. Alla quarta generazione torneranno qui, perché l’iniquità degli Amorrei non ha ancora
raggiunto il colmo.
Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un forno fumante e una fiaccola
ardente passarono in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse questa
alleanza con Abram: Alla tua discendenza io do questo paese dal fiume d’Egitto al grande
fiume, il fiume Eufrate”.
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La struttura qui è complessa, vi entrano diversi altri elementi. Comincia con una
autopresentazione: “Io sono il Signore che ti ha fatto uscire da Ur dei Caldei”. Dio si
richiama al suo primo intervento, alla sua primitiva iniziativa con Abramo. Ma la risposta di
Abramo è lamentosa: come potrò sapere? Abramo fa delle difficoltà, tentenna, fa fatica ad
accettare il kerigma. Non è come la prima volta che obbedisce subito. Ed allora segue la
scena del sacrificio con la rivelazione del sogno. Una scena ricca di simboli misteriosi.
Alcuni dicono che gli uccelli rapaci rappresentano il cattivo augurio di ciò che avverrà, cioè
la discesa in Egitto. In ogni caso siamo in una situazione di timore, di spavento, che viene
poi chiarita con questa rivelazione nel sogno, che non è per nulla una buona notizia: tu devi
morire, andranno in Egitto, però io prenderò cura del tuo popolo.
Il kerigma qui da generale diventa più specifico: prenderò cura di te in alcune
circostanze concrete della tua vita, non spaventarti se le cose non andranno subito così come
tu immagini. Dio adatta continuamente l’annuncio, lo chiarisce per le singole situazioni, lo
specifica secondo i momenti diversi della vita di Abramo. Purtroppo la rivelazione nel sogno
non è molto piacevole: c’è ancora da aspettare molto; ma io sarò col tuo popolo. E infine,
l’ultimo momento di questo kerigma, la torcia, il forno che passa in mezzo al fuoco a
significare l’alleanza e la promessa: “alla tua discendenza io do questo paese”. Qui ritornano
i due aspetti: discendenza e paese. Ecco brevemente questi cinque passi kerigmatici, che ci
presentano ciò che Dio ha detto ad Abramo.
che Abramo era della discendenza di Sem, figlio di Terach, fratello di Nacor e Aran. “Abram
e Nacor presero delle mogli; la moglie di Abram si chiamava Sarai; la moglie di Nacor,
Milca, che era figlia di Aran, padre di Milca e padre di Isca. Sarai era sterile e non aveva
figli” (29s).
Prima che Abramo entri in scena, come destinatario della parola di Dio, è già designato
come uomo senza figli. La sua situazione dal punto di vista sodale era di essere non solo
nomade, senza una propria terra, ma anche senza avvenire. Perciò che cosa si aspettava
Abramo? Abramo può dire: mi aspettavo ciò che si aspettava a quel tempo un uomo senza
terra e senza figli, un destino quanto mai triste, cioè praticamente un finire nel nulla: le
ricchezze andranno ad altri, altri le trasmetteranno, ma io, Abramo, non avrò avvenire, la mia
vita non ha futuro. Ecco che cosa poteva ragionevolmente attendersi Abramo.
E il kerigma che cosa gli dà, cosa gli dice? Il kerigma gli dice tutto il contrario di
questo, cioè una terra e un popolo: una terra che non ha e un popolo al quale non ha diritto, e
tutto questo in misura illimitata, come le stelle del cielo, come la sabbia sulla riva del mare.
Ecco dunque il kerigma per Abramo, la promessa, ciò che riempie la sua vita e che, accolto
nella fede, gli permette di lasciare, camminare, peregrinare, pur non avendo in quel momento
ciò che aspetta, perché il suo cuore è pieno della grande parola di Dio, che ha riempito la sua
vita e che è il principio, il punto di riferimento di tutte le altre prese di posizione. È l’unico
punto che permette di definire il perché di Abramo: perché egli agisce, perché fa così, perché
è capace di fare queste cose? È perché ha già ricevuto nella fede la partecipazione alla
pienezza di Dio.
quinta meditazione
Il comportamento sociale di Abramo:
Abramo e la giustizia sociale
Argomento della meditazione oggi sono alcuni piccoli episodi della vita di Abramo,
teologicamente poco significativi e lasciati un po’ da parte, come raccontini, oppure racconti
di saghe; però visti nel contesto generale della promessa – tutto nell’Abramo storico si
svolge a partire dalla promessa di Dio, così come nell’Abramo tipo che siamo noi, illuminati
e arricchiti da questa promessa – mi sembra che anche questi episodietti, in parte marginali,
prendono un significato e ci fanno vedere come Abramo illuminato dal kerigma si comporta
in diverse circostanze della vita. Potremmo forse dare alla meditazione questo titolo: Il
comportamento sociale di Abramo: Abramo e la giustizia sociale. Come cioè il kerigma
porta Abramo a regolarsi verso gli altri, verso le cose, le situazioni, i diritti altrui.
Questi episodi si collegano con altri che abbiamo già letto, in Gn 12: la vocazione di
Abramo e Abramo in Egitto.
È interessante notare nella vocazione di Abramo l’altezza della chiamata; poi in
Abramo in Egitto la sua ambiguità; a cui segue nel cap. 13, che leggeremo, l’episodio della
generosità di Abramo. Quindi la vita di Abramo va un po’ come la nostra, cioè momenti di
luce, momenti di debolezza, poi di nuovo momenti di ripresa; e così cresce lentamente verso
la pienezza della conoscenza di Dio.
Un’offerta generosa
Seconda parte: la proposta di Abramo ai versetti 8-9. “Abram disse a Lot: non vi sia
discordia tra me e te, tra i miei mandriani e i tuoi, perché noi siamo fratelli. Non sta forse
davanti a te tutto il paese? Separati da me. Se tu vai a sinistra, io andrò a destra; se tu vai a
destra, io andrò a sinistra”. Ecco quindi la proposta di Abramo, generosissima, veramente
eccezionale.
E infine la scelta di Lot, descritta con molta ampiezza. Come bene fa notare von Rad
nel suo commento, si descrive in maniera corporea, visiva, il processo interiore decisionale
di Lot: “Lot alzò gli occhi e vide che tutta la valle del Giordano era un luogo irrigato da ogni
parte”. L’aveva vista già prima, ma qui lo si sottolinea per mostrare come Lot si va
decidendo, quali sono i motivi della sua decisione. Guardando da Betel, in basso verso
oriente, vide che il luogo “– prima che il Signore distruggesse Sodoma e Gomorra – era
come il giardino del Signore, come il paese di Egitto, fino ai pressi di Zoar. Lot scelse per sé
tutta la valle del Giordano e trasportò le tende verso oriente” (vv. 10-11).
Dopo la scelta di Lot l’esecuzione: “così si separarono l’uno dall’altro. Abram si stabilì
nel paese di Canaan (alla sinistra, ad ovest) e Lot si stabilì nelle città della valle e piantò le
tende vicino a Sodoma. Ora gli uomini di Sodoma erano perversi, peccavano molto contro il
Signore”. Questa è una noticina che prepara ciò che verrà poi nel cap. 19, ma fa già intuire
qual è la realtà. Lot crede di aver scelto il meglio, e non sa dove si è buttato, in quale
difficoltà lo metterà la sua avidità. Abbiamo quindi da una parte la scelta di Lot e dall’altra
l’accettazione tranquilla di Abramo.
L’ultima parte dell’episodio l’abbiamo già meditata: è la seconda promessa. “Allora il
Signore disse ad Abram, dopo che Lot si era separato da lui: Alza gli occhi” – Abramo
poteva essere rimasto un po’ deluso: adesso l’altro se ne va nel luogo più bello, e io che
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farò? – “e dal luogo da dove tu stai spingi lo sguardo verso il settentrione e il mezzogiorno,
verso l’oriente e l’occidente. Tutto il paese che tu vedi lo darò a te e alla tua discendenza per
sempre. Renderò la tua discendenza come la polvere della terra ecc.”. È la conclusione
dell’episodio.
Dunque questi sono i momenti del testo: Abramo e Lot troppo ricchi, lotta tra i
mandriani, proposta conciliativa di Abramo, accettazione di Lot e sua scelta della parte
migliore, Abramo accetta tranquillamente ciò che gli rimane, ma Dio ripromette ad Abramo,
in una visione grandiosa, molto più grande della precedente, la terra in tutta l’estensione dei
quattro punti cardinali.
Ed ora meditiamo su questo brano così ricco di spunti anche psicologici: cioè come
l’animo umano si comporta, come si può comportare nelle situazioni conflittuali. Io
suggerisco queste riflessioni molto semplici.
La generosità di Abramo
Primo: Abramo poteva pretendere molte cose da Lot. Lot era il piccolo orfano che
Abramo aveva adottato, portato su con amore, curato, fatto crescere, forse gli ha insegnato
lui l’arte della pastorizia, e quindi, se era diventato ricco, probabilmente lo doveva alla
protezione, all’interesse, all’insegnamento di Abramo. Abramo poteva aspettarsi da Lot
soggezione, umiltà, accettazione, sottomissione. Invece Abramo non solo lo tratta come suo
pari, ciò che già colpisce, ma lo tratta come un fratello, non come un nipote di cui lui si è
occupato gratuitamente e che dovrebbe cedergli, perché gli deve tutto, non dovrebbe
disturbare i suoi pascoli, come sarebbe stato giusto se Abramo avesse voluto insistere sul suo
diritto. No, lo tratta come un fratello, con cui non bisogna litigare, ma cercare un accordo;
anzi, cosa inaudita, lo tratta come se fosse il primogenito. Abramo avrebbe potuto dire:
cerchiamo di dividere la terra da fratelli, in maniera equa, giusta, tenendo conto che hai
avuto già molto da me, tutte le cose che hai le devi a me; quindi adesso accontentati di
questo. Questo sarebbe stato giusto tra fratelli. Abramo invece gli dà il diritto di
primogenito, quasi di capo-famiglia: “va’ dove vuoi; non sta forse davanti a te tutto il
paese?”; io sceglierò quello che tu non vuoi.
Veramente, trattandosi di un Ebreo, avido o almeno contento di un certo possesso che
si è fatto con le sue mani, siamo di fronte a un culmine di generosità. Veramente ci
sorprende questa eccezionale liberalità, umiltà, distacco di Abramo. Ma quello che più
sorprende è che Abramo accetta la scelta di Lot e si stabilisce nel paese di Canaan. Quando
noi facciamo di queste proposte generose, è sempre per mettere l’altro in difficoltà; cioè
crediamo che l’altro capirà che deve scegliere quello che gli spetta e non di più; e siamo
fortemente irritati quando l’altro, non capendo la situazione, ci prende il nostro; infatti, se
mettiamo la decisione nelle mani altrui, è proprio perché l’altro sia ridotto ai suoi giusti
limiti. Invece Abramo non fa una grinza, accetta liberamente ciò che l’altro rifiuta e lo
prende con estrema tranquillità. Questo sorprende al massimo; la sua non era una finta, non
era quell’arte abilissima di avere il meglio facendo il generoso; era espressione sincera della
semplicità del suo cuore, cosa così rara tra gli uomini.
E che sia così, anche se il testo non lo dice direttamente, lo ricavo dal contesto, in cui
tutto va interpretato nella linea della ricchezza della promessa. Il testo però ce ne da qualche
appiglio, come qualche esegeta sottolinea. Se paragoniamo le parole di Abramo a Lot
(versetto 9): “Non sta forse davanti a te tutto il paese?”, con le parole di Dio ad Abramo:
“Tutto il paese che vedi, alza gli occhi, spingi lo sguardo, lo darò a te” (vv. 14s), noi vi
vediamo una singolare corrispondenza; cioè se Abramo ha saputo dire a Lot: ecco tutto il
paese, scegli! è perché Dio ha detto ad Abramo: ecco io do a te, non una porzione di terra,
ma tutto il paese, da oriente ad occidente, da settentrione a mezzogiorno, e renderò la tua
discendenza come la polvere della terra. C’è, mi sembra, una corrispondenza fra la
generosità di Abramo e la promessa di Dio, la cui presenza è continua nella sua vita. Cioè
Abramo ha una grande ricchezza, che è il kerigma, e questa grande ricchezza lo rende libero,
tranquillo, disponibile, pacifico, pronto.
Abram seppe che il suo parente era stato preso prigioniero, organizzò i suoi uomini esperti
nelle armi, schiavi nati nella sua casa, in numero di trecentodiciotto e si diede
all’inseguimento fino a Dan. Piombò sopra di essi – gli invasori – di notte, lui con i suoi
servi, li sconfisse e proseguì l’inseguimento fino a Coba, a settentrione di Damasco (quindi
centinaia di chilometri percorsi da questi uomini). Ricuperò così tutta la roba e anche Lot suo
parente, i suoi beni, con le donne e il popolo”. Qui abbiamo, evidentemente una descrizione
grandiosa, voluta-mente esagerata, ma che ci impone anch’essa delle riflessioni.
Le riflessioni che io propongo sul testo sono queste:
Tre riflessioni
La prima riflessione è che Abramo sembra che non ragioni; affronta un pericolo
sproporzionato, 318 uomini contro i quattro più grandi sovrani del Nord. Veramente la
sproporzione è tale da farci pensare a un significato teologico profondo, senza il quale
storicamente non si vede quale significato darle. I quattro grandi sovrani avevano sconfitto
tribù molto più potenti: Amaleciti, Amorrei, devastato tutto il centro della Palestina, per cui
si potrebbe concludere – secondo quanto si dice nella contemplazione del Regno, dopo il
programma di Cristo “Re eterno”: “considerare che tutti coloro che hanno giudizio e ragione
si offriranno totalmente al lavoro” – che Abramo qui non ha né giudizio né ragione; se
avesse avuto un minimo di giudizio non si sarebbe messo con 318 uomini contro una
sterminata moltitudine.
Ma qui il racconto mette in risalto un secondo aspetto della stranezza di Abramo. Per
chi Abramo si getta allo sbaraglio, con un’azione di audacia quasi insana, a rischio di morire
lui e tutti i suoi? Lo fa per colui che gli aveva soffiato la terra migliore, per colui che l’aveva
un po’ giocato, che se avesse agito con onestà avrebbe dovuto dire ad Abramo: tu sei il
maggiore, ti ringrazio di questa offerta, scegli tu e io starò a ciò che mi darai. Questo è lo
scambio di cortesie che ci si aspetta normalmente in queste situazioni. Lot invece aveva
approfittato di quel momento di generosità ed aveva preso il terreno migliore. E adesso
Abramo butta tutto se stesso allo sbaraglio per questo ragazzo, che in fondo ha un po’
abusato della sua bontà. E si butta allo sbaraglio in maniera tale che ricupera lui con tutti i
suoi beni e, come appare dal testo, senza esigere niente da lui. Non disse: ora vieni a servirmi
di nuovo e non fare più come prima, non separarti, facciamo un unico gruppo, in cui
comando io: vedi che non sei capace a fare da solo! Gli ridà tutto, lo rimette in piena libertà
come prima.
Se leggiamo tutto il capitolo, veniamo a sapere anche dai versetti seguenti che Abramo
ha liberato non soltanto Lot, ma anche il re di Sodoma, presso cui Lot viveva, e anche col re
di Sodoma Abramo ha una generosità incredibile. È il famoso passo che è interpretato spesso
malamente secondo la volgata: “da mihi animas et cetera tolle”, dammi le anime e prenditi
tutti il resto. Il re di Sodoma disse ad Abramo: “Dammi le persone, i beni prendili per te”.
Cioè tu hai fatto immensamente per noi, dunque dividiamo il bottino secondo giustizia. Ma
Abramo disse al re di Sodoma: “Alzo te mani davanti al Signore, il Dio altissimo, creatore
del cielo e della terra: né un filo, né un legaccio di sandalo, niente io prenderò di ciò che è
tuo, non potrai dire: io ho arricchito Abram”.
Il testo non lo dice, ma il contesto lo fa capire, soprattutto nei versetti 22-23, in cui
Abramo esclama: “Alzo le mani davanti al Signore, il Dio altissimo, creatore del cielo e
della terra... non potrai dire: io ho arricchito Abram”. Per Abramo la sua ricchezza è Jahvè, è
la promessa, è il kerigma, ha una tale ricchezza di terra, di avvenire, di presenza di Jahvè
amico – come sapete, Abramo è chiamato in tutta la tradizione islamica: l’amico, el khalil,
l’amico per eccellenza; anche la città di Ebron dove Abramo è sepolto è chiamata: la città
dell’amico – che di fronte a questa amicizia tutto il resto gli è poco. Preferisce questa
ricchezza a tutti i legami un po’ ambigui che avrebbero potuto legarlo con Sodoma. Il testo
probabilmente vuol far notare che Abramo non ha niente a che fare con ciò che avverrà dopo
in Sodoma e che questa sua indipendenza gli sarà poi molto utile, perché farà sì che lui non
perda niente nella distruzione di Sodoma; si è tenuto le mani libere, quando forse tutti gli
dicevano: prenditi una parte almeno, un minimo, qualcosa per i tuoi alleati.
Abramo però è un uomo con i piedi per terra, perché subito dopo dice: “per me niente,
se non quello che i servi hanno mangiato; quanto a ciò che spetta agli uomini che sono
venuti con me: Escol, Aner e Mamre, essi stessi si prendano la loro parte”. La sua è una vera
rinuncia, ma con alcune giuste considerazioni per gli altri. Abramo non è uno sconsiderato,
pensa agli altri, ai giusti diritti altrui, per sé ha solo l’amicizia di Dio.
Ecco dunque alcuni effetti del kerigma in Abramo. Per questo, ricordando il significato
delle meditazioni della seconda settimana, ho sottolineato che l’esercitante, arricchito della
conoscenza di Cristo, si sente liberato gradualmente dall’impero determinante degli affetti
disordinati: risentimenti, paure, timore, avarizia, grettezze, meschinità, invidie, piccole
vendette, e se ne libera non attraverso una via purgativa, come nella prima settimana, ma
attraverso la ricchezza che Cristo induce interiormente.
che si vada avanti? il fatto che gli altri aspettano questo da me e non posso deluderli, o che
questo da me non si aspettano e quindi non posso farlo? oppure è la gioia del regno, cioè il
kerigma?
È chiaro che anche le altre motivazioni hanno un significato, ma lo hanno unicamente
nel quadro del kerigma; se si staccano da esso possono diventare ipocrisia, bisogno di
piacere, timore di dispiacere, desiderio di un certo “standing”, di un certo stato sociale, di
non deludere l’aspettativa altrui. Ecco il significato fondamentale chiaro e determinante del
kerigma: la gioia del vangelo è alla radice di tutto.
Ma domandiamoci ancora: di che tipo è questa gioia? Lo sappiamo bene: non è per
nulla una gioia artificiale, rumorosa; anzi talora è appena percepibile, cioè può essere
immersa nell’amarezza, però nel fondo c’è, perché se non ci fosse non saremmo più noi,
come cristiani. Per questo è importante capire qual è il mio kerigma, che cosa è, dove lo
vedo, dove lo sento, perché è la radice di tutto, di tutte le altre azioni, di tutte le altre cose, di
tutte le altre scelte; è il luogo dove Dio ci tocca nella fede, è la rivelazione che Dio fa di sé a
noi nell’intimo di noi, nel suo mistero trinitario, del Padre che ci dà il Figlio, che è il kerigma
per eccellenza. Per questo sant’Ignazio ci orienta sempre più verso Cristo Figlio del Padre,
che è il kerigma fondamentale, in modo da rendere possibili le altre scelte senza lasciarsi
determinare da ciò che è negativo, egoista, pesante, o addirittura insensato, negativo.
Ancora una domanda: qual è la forza che mi permette di agire nelle circostanze
difficili? di che tipo è questa gioia del vangelo? È compatibile questa gioia del vangelo con
la saggezza secondo Qoelet? Questa domanda me la sono già fatta e ancora non ho trovato
alcuna risposta.
Qual è la saggezza secondo Qoelet? È quella di colui che dice: Non c’è niente di nuovo
sulla terra, tutto andrà come prima, le cose vanno, le cose vengono, quindi a che pro
affaticarsi tanto? Una generazione va, una generazione viene, ma la terra resta sempre la
stessa; il sole sorge, il sole tramonta, si affretta verso il luogo da dove risorgerà; il vento gira
e rigira e poi ritorna. Cioè l’esperienza di chi, avendo visto molte cose, in fondo trova che
non c’è molto di nuovo.
Che relazione ha tutto questo con la gioia del vangelo? Anche questo Qoelet è un libro
ispirato: come mettiamo d’accordo le due cose? Certamente è un problema serio, in quanto
penso che ciascuno di noi, mano a mano che cresce nella vita, sempre più si avvicina a
queste costatazioni del Qoelet. Le cose non cambiano molto, e a che pro prendersela tanto?
Allora che significato ha la gioia del vangelo, la novità, l’impegno, il rischio? È una
domanda che dobbiamo farci.
E infine un’ultima riflessione che potrebbe sembrare un po’ strana: gli effetti del
kerigma in Gesù. È chiaro che non si può parlare propriamente di effetti del kerigma in
Gesù; Gesù è il kerigma. Ma possiamo chiedere: Gesù come mostra il kerigma in se stesso?
Per rispondere alla domanda propongo due passi, che è interessante avvicinare ai testi di
Abramo. Uno è Fil 2, 5s: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il
quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con
Dio”. Facciamo il paragone con Abramo. Abramo, pur essendo molto ricco, superiore a Lot,
ed in più potendo in qualche maniera disporre di lui, non considerò un tesoro inalienabile la
sua ricchezza e la sua superiorità, ma se ne spogliò e lasciò che Lot facesse la sua scelta.
Gesù come kerigma, come vangelo, si dimostra come disponibilità gioiosa a donarsi. Non
possiamo pensare che il donarsi sia stato un sacrificio per Gesù, un dovere pesante. È la
ricchezza pienamente disponibile del Padre che si dona, è il vangelo totalmente vissuto – il
vangelo per eccellenza, la quintessenza del vangelo –, il dono di amore del Padre, Dio come
amore dato.
Anzi io qui vorrei andare avanti e fare una certa critica al testo di san Paolo nella
versione citata, là dove dice: “pur essendo di natura divina”; quel “pur” non c’è nel greco,
c’è solo: “essendo di natura divina”. Perché mettere un contrasto tra il fatto di essere di
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natura divina e quello di spogliarsi di questa natura? Io direi piuttosto: essendo così ricco,
trovò in questa sua ricchezza la gioia e la pienezza di donare. Evidentemente un certo
contrasto c’è nella frase: “non considerò un tesoro geloso questa uguaglianza”. Ma ciò che
va sottolineato è che poté fare questo grazie alla sua ricchezza. Quindi il kerigma dà una
ricchezza, è la ricchezza di Dio come amore che si dona.
sempre. Allora non esisterà mai una unità cristiana? No, dice Gesù; ne esisterà una ancora
più perfetta – e questa è la sua promessa –, sulla base dell’ascolto della parola e della sua
messa in pratica; cioè il dinamismo della parola di Dio: la parola non solo ascoltata o
risuonata, ma portata alle decisioni e alle scelte, crea legami di affinità, di fraternità molto
più grandi di quelli fra Gesù e i suoi fratelli, fra Gesù e addirittura sua Madre.
Questo concetto in altra forma lo troviamo nel Corano. Qualche anno fa, uno dei
dignitari islamici detti “mufti”, parlando dello studio della Bibbia, mi disse: “Ecco il Profeta
dice: la scienza rende amici coloro che la praticano”, intendendo la scienza del Corano. Cioè
la conoscenza profonda della parola induce l’amicizia e la fraternità tra tutti coloro che
vivono di questa parola. Questo dunque è il fondamento unico, reale della comunità
cristiana. Ciascuno su questa base potrà paragonare idee, pensieri, mentalità, culture, che ci
arricchiscono mutuamente; ma la radice di questa comunità è il kerigma.
sesta meditazione
Stati di preghiera di Abramo:
preghiera, lotta, teologia
Cercando tra gli aspetti della vita pubblica di Abramo qualcuno che corrisponda ad
aspetti della vita pubblica di Gesù, non ho trovato molto. È vero che Abramo più di una volta
è chiamato profeta; così nel salmo 105, 15: “Non toccate i miei consacrati, non fate alcun
male ai miei profeti” alludendo anche ad Abramo; e poi nell’episodio di Abimelech, re di
Gerar, Gn 20, 7, a cui Dio dice: “Restituisci la donna (Sara) di quest’uomo, egli è un profeta;
preghi egli per te e tu vivrai” – qui Abramo è presentato come profeta e la sua funzione di
profeta è la preghiera.
Di fatto però, se cerchiamo altre indicazioni di profetismo nella vita di Abramo, come
le troviamo nella vita di Gesù, “profeta grande in opere e parole”, noi troviamo che Abramo
non è grande né in opere né in parole. Non è grande in opere: nessun miracolo. Non è grande
in parole, perché non parla quasi mai; nessuna predica di Abramo ci è stata tramandata; non
ha dato delle risposte nelle controversie come Gesù, parole sapienziali, appuntite, pronte.
1. La preghiera di ascolto
Con queste premesse vengo dunque a esaminare tre stati tipici di preghiera di Abramo.
Sul primo non mi fermo perché è troppo evidente, anche se lo si può qualificare come
preghiera in senso largo. Come abbiamo detto, Abramo non parla quasi mai, anche nella
preghiera le sue parole sono per lo più poche, eccetto un caso che vedremo. Cioè Abramo
ascolta. Quindi la prima grande attività di Abramo orante è l’ascolto. Dio parla, ripete, e lui
ascolta e va, ascolta e si muove, ascolta e cammina. Questa è, penso, la situazione tipica,
fondamentale che spiega anche le altre. Se Abramo può essere così ardito, quasi sfacciato,
petulante, addirittura apparentemente mercantile nelle sue preghiere, è perché prima di tutto
è un riverentissimo ascoltatore della parola; cioè un uomo che ha buttato la sua vita sulla
parola e vive di essa. Ascolta la parola di Dio e la mette in pratica; è l’ideale evangelico di
chi fonda rapporti di familiarità con Gesù; i veri figli di Abramo sono coloro che ascoltano la
parola di Dio e la mettono in pratica. Su questo non mi fermo, perché è tutta la vita di
Abramo.
2. Preghiera di lamentazione
Mi fermo su altri due tipi di preghiera, più specifici, che troviamo in alcuni passi
particolari. Il secondo stato di preghiera è quello che chiamo, tra virgolette, di
“lamentazione”. Lo chiamo così perché ha molte affinità coi salmi detti di lamentazione, che
prendono questo tema e lo sviluppano a lungo. Questa preghiera di lamentazione la
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chiamerei anche preghiera di interrogazione, perché è basata spesso su una domanda: perché,
Signore, perché fai questo? perché non vieni in mio soccorso? perché mi abbandoni? Come
mai?
Due domande tipiche: perché? come? La prima si trova in Gn 15, 2: “Non temere,
Abram, io sono il tuo scudo, la tua ricompensa sarà molto grande. Rispose Abram: Mio
Signore, che mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di
Damasco”. Cioè: cosa dici, Signore, spiegami, perché mi parli così, se la mia vita continua
ad andare in questo modo?
Appare ancora meglio al versetto 8 nella domanda: Signore, mio Dio – tu continui a
parlarmi di questa terra – “ma come potrò sapere che ne avrò il possesso?” Notiamo che la
sua preghiera è quella di uno che ha accolto la parola di Dio; non è la parola dell’incredulo,
che dice: come può avvenire questo? È il “come può avvenire” nella linea di Maria, e non in
quella di Zaccaria. La stessa domanda può essere fatta da diversi punti di vista e avere
diverse risonanze. Tuttavia è certamente una domanda, una doglianza che nasce dall’interno
e quindi dolorosa. Abbiamo poi nel cap. 17, 16ss una domanda dolorosa e un po’ amara,
quando Dio dice ad Abramo: “Da lei (Sara) ti darò un figlio; la benedirò e diventerà nazioni,
re di popoli nasceranno da lei. Allora Abramo si prostrò con la faccia a terra e rise e pensò:
Ad uno di cento anni può nascere un figlio, e Sara all’età di novanta anni potrà partorire?
Abramo disse a Dio: Se almeno Ismaele potesse vivere davanti a te!” Ecco la preghiera di
lamentazione, di querela: Signore, non andare così in là, mi accontento di meno; tu prometti
mari e monti, piuttosto lasciami così, dammi un po’ di salute, un po’ di forze, di questo ho
bisogno adesso, aiutami in questa situazione.
Ecco la preghiera di lamentazione, la preghiera dell’uomo nella prova, e Abramo è
l’uomo nella prova, che lotta con Dio, l’uomo che non capisce che cosa succede né a sé né
agli altri. Questa preghiera possiamo farla tante volte anche noi: Signore, perché quella
situazione va così, perché ci sforziamo apostolicamente di costruire qualcosa e sembra che
tutto vada a catafascio? È la grande domanda che i salmi allargano alla storia di Israele:
perché i malvagi trionfano, perché i buoni sono oppressi? Questa preghiera di lamentazione
può essere fraintesa come preghiera di principiante, può essere la preghiera della poca fede.
In Abramo invece è, a mio avviso, la preghiera di chi sente il bisogno, l’impulso, di
penetrare meglio il piano di Dio. È il “come avverrà questo?” di Maria, che in Maria ha un
livello altissimo di affinità con Dio, ma in Abramo ha già un livello di amicizia.
meglio: Mio Dio, chi sei? siccome la tua promessa è vera e non posso dubitarne, siccome la
realtà è meschina e ne ho l’evidenza, allora vuol dire che il rapporto tra queste due cose lo
troverò in una nuova conoscenza di te; vuol dire che io non ti ho capito, che ti devo capire di
più, e prego per capirti di più, e ti offro la mia sofferenza di non capirti abbastanza. Perché se
tu fossi a mio modo, avresti già realizzato la promessa, avresti già fatto quello che ti chiedo
per quella persona, per quella situazione, per il mondo, per la giustizia ... Invece non lo fai,
mentre prometti di farlo; vuol dire che non ti ho capito ancora. E allora, fammiti capire di
più.
3. La preghiera di intercessione
Vengo alla terza caratteristica, al terzo stato, quello che chiamo, tra virgolette,
“preghiera di intercessione”. Sotto questa etichetta intendo porre la famosa contrattazione su
Sodoma, del cap. 18: il lungo dialogo di Dio con Abramo rimasto sotto le querce di Mamre a
debita distanza da Sodoma. Pagina difficile, che ho fatto fatica per penetrare. Mi ha aiutato
molto, come ho detto, il commento di von Rad, di cui leggerò qualche cosa. Anche io credo,
come dice von Rad, che è troppo poco chiamarla preghiera di intercessione, quasi che, di
fronte a Sodoma, che sta per essere distrutta, Abramo intercede però senza riuscirvi: Abramo
sarebbe un grande intercessore, anche se in questo caso gli è mancata la materia sufficiente
per poter intercedere.
Questa preghiera, nel contesto Jahvista, è un’aggiunta posteriore, una riflessione
teologica sulla vicenda. Notano gli autori che qui il redattore è molto più libero, non è legato
a delle tradizioni, non dà semplicemente il racconto di una tradizione passata, ma teologizza;
è la sua teologia, elabora un certo concetto di Dio, è lo sforzo per un nuovo concetto di Dio,
per conoscerlo meglio, per passare da una cognizione del Dio di Ur dei Caldei alla
cognizione del Dio della salvezza.
Quindi è una preghiera che si dovrebbe piuttosto chiamare, e la chiamerei, preghiera di
penetrazione teologica. In fondo dice bene qui von Rad: È una pagina teologica detta in
forma drammatica di preghiera, quasi di poema; preghiera di penetrazione teologica del
mistero della vicenda umana così come Dio lo giudica; quindi una preghiera sul mondo,
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Abramo”, espressione questa che evidentemente è sembrata poco dignitosa – stare davanti a
un altro vuol dire quasi servirlo – e quindi è stata mutata nel contrario: “Abramo stava
davanti a Jahvé”. Tuttavia, fa notare bene von Rad: “Jahvé davanti ad Abramo” è quasi un
Jahvé che vuol essere interrogato, un Jahvé che desidera che Abramo gli dica qualcosa, che
gli chieda di entrare a far parte dei suoi disegni, ed è là, in silenzio, pronto a ricevere la
parola di Abramo, il quale interroga Dio, perché Dio stesso desidera manifestarsi.
Ed ecco il principio giuridico che precede la contrattazione: “Abramo gli si avvicinò e
gli disse: Davvero sterminerai il giusto con l’empio?” Lo stesso principio viene ripreso
anche dopo: “Lungi da te far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come
l’empio, lungi da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?” Abramo si
richiama ad un concetto di giustizia che – come vedremo – ha già un significato di forte
superamento rispetto alle concezioni ordinarie del tempo.
E poi la contrattazione
Forte di questo principio, Abramo prende Dio di petto: “Forse ci sono nella città
cinquanta giusti; davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai
cinquanta giusti che vi si trovano?” Abramo parla concitatamente, mai ha parlato tanto come
qui. “Rispose il Signore: se a Sodoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per
riguardo a loro perdonerò a tutta la città”. C’è un salto di qualità formidabile in questa
risposta rispetto alla mentalità del tempo. Avendo Dio accettato il criterio giuridico basato
sul numero, Abramo è sicuro adesso di questo punto di partenza e scende, scende in cinque
momenti successivi da 50 a 45, da 45 a 40, da 40 a 30, da 30 a 20, da 20 a 10.
È interessante il passaggio tra questi momenti, perché eccetto il caso dei 40, tutti gli
altri sono sempre preceduti da una affermazione di umiltà. “Vedi come ardisco parlare al
mio Signore, io che sono polvere e cenere. Forse ai 50 giusti ne mancheranno cinque; per
questi cinque tu distruggerai tutta la città? Rispose: non la distruggerò se ne trovo 45”.
Uguale risposta se saranno 40. Poi di nuovo la stessa domanda: “Riprese: Non si adiri il mio
Signore se parlo ancora, forse là se ne troveranno 30. Rispose: non lo farò se ne troverò 30”.
E così fino a 10: “Non la distruggerò per riguardo a quei 10”. E qui il dialogo si ferma: “Poi
il Signore, come ebbe finito di parlare con Abramo ritornò alla sua abitazione”. E noi
restiamo così un po’ incuriositi: ma perché si è fermato a 10, cosa è successo? La realtà è che
Sodoma è distrutta.
umana, sulla quale gli occhi di Jahvé si volgono per giudicarla. È un caso tipico di come
Jahvé giudica il mondo, di come avviene il giudizio di Jahvé sul mondo.
settima meditazione
La prova di Abramo e le nostre prove
pare che Lutero diceva: Io ne capisco meno di quanto ne capiva la zampa dell’asino di
Abramo che si fermò sotto il monte: l’asino non salì sul monte e non vide neppure ciò che
succedeva.
Più delicatamente Kierkegaard parla di un uomo che sentì narrare da un bambino
questo racconto, se lo ripeteva sempre in mente con un entusiasmo che diveniva sempre più
grande, e tuttavia la comprensione del racconto gli diveniva sempre più difficile; e conclude
con la sua consueta ironia:
Quell’uomo non era un dotto, un esegeta, non capiva l’ebraico; se avesse capito
l’ebraico, forse la storia di Abramo gli sarebbe diventata facile. In realtà anche chi capisce
l’ebraico trova questa storia ugualmente difficile. Che cosa fare? Faremo molto
semplicemente ciò che sant’Ignazio dice: proporre la storia così com’è “cum brevi vel
summaria declaratione” [2], con qualche indicazione di lettura. Quindi faremo prima una
breve analisi del testo, della sua struttura, poi diremo qualcosa ; sulle molteplici
interpretazioni di questa storia e finiremo con qualche riflessione conclusiva.
duro per diversi giorni, quando sarebbe stato più facile fare tutto subito; invece no:
preparativi, viaggio silenzioso, atmosfera plumbea, nessuno osa domandare: dove andiamo?
Tutto questo è indirettamente descritto dal narratore rallentando i tempi: “Abramo si alzò di
buon mattino (quindi non esitò un istante a mettere in atto il comando del Signore, ricevuto
probabilmente nella notte), sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la
legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato”. Notate i
particolari: sellare l’asino, spaccare la legna, prendere i servi. L’autore insiste su particolari
minimi, quasi banali, in contrasto col dramma che si sta svolgendo e di cui nessuno dei
protagonisti osa parlare. I commentatori si sono sbizzarriti: Ma Sara l’avrà saputo, non l’avrà
saputo, avrà capito? Alcuni descrivono Sara dalla finestra che guarda. Nulla di tutto questo
nel racconto, tutto ciò che è sentimento viene scartato.
“Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo”. Qui
implicitamente si dice che il viaggio è durato tre giorni e tre notti: quindi ogni volta alla sera
mettere su l’accampamento, alzarsi al mattino e di nuovo in cammino ecc. “Allora Abramo
disse ai suoi servi: Fermatevi qui con l’asino, io e il ragazzo andremo fin lassù, ci
prostreremo e poi ritorneremo da voi”. Abramo capisce che qualcosa di inaudito si deve
svolgere solo tra lui e Dio, non vuole testimoni, neanche l’asino; nessuno dev’essere
presente, nessuno deve poter avere negli occhi il riflesso di ciò che accadrà. (vv. 7-8) Il
colloquio. Segue poi il colloquio tra Abramo e Isacco. È il momento culminante dell’azione
drammatica, come quando entrano in gioco legami più intimi di famiglia: “Isacco si rivolse
al padre Abramo e disse: Padre mio! Rispose: Eccomi, figlio mio. Riprese: Ecco qui il fuoco
e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto? Abramo rispose: Dio stesso provvederà
l’agnello per l’olocausto, figlio mio!” È un capolavoro di dialogo, dove c’è tanto di
sottinteso, ma dove la semplicità di Isacco, che va alle cose essenziali, si confronta con
l’imbarazzo di Abramo, che anche lui va alle cose essenziali: Dio provvederà! Finalmente
(versetti 9-10) la preparazione per il sacrificio: “Proseguirono tutti e due insieme; così
arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato”. E qui di nuovo l’azione si rallenta: “Qui
Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare sopra la
legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare il suo figlio”. La
preparazione per il sacrificio è descritta nei minimi particolari.
(vv. 11-14) Siamo ora al terzo momento dell’intervento divino: “Ma l’angelo del
Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: Abramo, Abramo! Rispose: Eccomi! L’angelo disse:
non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male. Ora so che tu temi Dio e non
mi hai rifiutato il tuo figlio, il tuo unico figlio”. L’intervento divino si specifica nel versetto
seguente: “Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un
cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. Abramo
chiamò quel luogo: Il Signore provvede. Perciò oggi si dice: sul monte il Signore provvede”.
(vv. 15-18) Il giuramento ripetuto. Nell’ultima parte del testo di nuovo il giuramento:
“Poi l’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e gli disse: Giuro
per me stesso, oracolo del Signore, perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato il tuo
figlio, il tuo unico figlio (per la terza volta si insiste: il tuo unico figlio) io ti benedirò con
ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e
come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei
nemici. Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai
obbedito alla mia voce”.
“Poi Abramo tomo dai suoi servi, insieme si misero in cammino verso Bersabea e
Abramo abitò a Bersabea” (v. 19).
Fa notare un commentatore: nessuna parola di gioia, di esultanza, di entusiasmo, tutto
in un tono velato. Un commentatore rabbinico dice che quando Isacco tomo a casa, raccontò
tutto alla madre Sara, la quale lanciò sei grandi gridi e poi morì. Sempre i commentatori
amano ampliare, vedere cosa c’è, dietro, quali sentimenti hanno agitato l’animo delle
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persone. Ma il testo non lo dice. Considerando il testo nel suo insieme vediamo che tutto è
messo sotto una cornice teologica molto chiara; versetto 1: “Dio mise alla prova Abramo”;
versetto 12b: “Ora so che temi Dio, non hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio”. È la
cornice teologica della prova, dell’esperimento, quasi la prova di carico di una costruzione
per vedere se resiste.
In questa cornice teologica si inserisce il racconto, nel quale sono strettamente legati
due comandi contraddittori. Versetto 2: “Offri in olocausto il tuo unico figlio, che ami”;
versetto 12: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli del male”. Il centro della
narrazione è compreso tra questi due comandi. C’è poi una frase che si ripete due volte, in
due sensi diversi, ma che si compenetrano: al versetto 8: “Dio stesso provvederà l’agnello
per l’olocausto, figlio mio”; poi di nuovo al versetto 14: “Abramo chiamò quel luogo: il
Signore provvede. Perciò oggi si dice: sul monte il Signore provvede”. Questa frase detta
prima nella confusione, nell’amarezza, poi nella chiarezza, mi sembra esprima il momento
cruciale sul quale si organizzano gli altri temi della prova di Abramo.
Interpretazioni sarcastiche
Interpretazioni intermedie fra le morbide e le dure sono quelle sarcastiche. Von Rad
riporta quella di Kolacowski, un marxista, polacco che vive a Londra, il quale racconta la
storia in tono umoristico, sarcastico, anche se con profondità. Per lui Abramo rappresenta
l’obbedienza alla ragione di Stato. Abramo fa benissimo: non si deve mai domandare il
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perché di un ordine, l’ordine dev’essere eseguito in ogni caso. Quindi Abramo è il modello
del perfetto cittadino, che sempre obbedisce alle leggi. Abramo si è tenuto perfettamente a
ciò che gli era stato comandato, e quindi non ha peccato, né volendo uccidere Isacco né
ritraendosi indietro. In fondo, dietro a questo racconto c’è una parodia dell’obbedienza alla
ragione di Stato, che poi alla fine diventa una parodia del concetto di Dio.
Questo per mostrare come il racconto ha tutta una gamma di applicazioni e può essere
anche un punto di forza per l’incredulo, che di fronte a questo racconto trova il concetto di
Dio inammissibile, un Dio che fa paura, cioè dà un po’ i brividi. È una storia di cui non
riusciamo mai a esaurire. del tutto il significato, non possiamo mai dire di averla interamente
capita. Ogni volta bisogna cercare di vedere che cosa il narratore ha voluto dire.
L’interpretazione di essa è stata sempre più approfondita, soprattutto nell’età moderna, nei
suoi aspetti individualistici, etici, psicologici; si è cercato di capire cosa ha pensato Abramo,
cosa ha detto a Isacco, se gli ha parlato di ciò che si apprestava a fare, se non gliene ha
parlato.
Su questi interrogativi riferisco un’altra osservazione di Kierkegaard: Abramo non ne
ha parlato a Isacco, ha preferito essere considerato assassino del figlio piuttosto che il figlio
perdesse la fede; perché se glielo avesse spiegato, il figlio non avrebbe capito. È una delle
tante complicazioni psicologiche in cui si entra quando si va al di là del testo, che di per sé
rimane molto semplice, distaccato.
quando offrì Isacco suo figlio, sull’altare?” Giacomo sottolinea il fatto di obbedire in se
stesso, l’esecuzione come tale dell’obbedienza, mentre in Ebrei, mi pare, si sottolinea
l’intenzione con cui Abramo obbedisce. Il libro della Sapienza 10, 5 sottolinea la fortezza di
Abramo, quindi una tentazione sulle virtù cardinali: “La Sapienza lo mantenne forte
nonostante la sua tenerezza per il figlio”.
Come vedete, ci sono nella Scrittura varie sfumature, vari accenti che si colgono di
queste prove. Che cosa dobbiamo dire noi? Semplicemente, senza voler fare una esegesi
molto approfondita, dobbiamo escludere come non perfettamente pertinenti al testo le
interpretazioni moderne, soprattutto a partire da Kierkegaard, di per sé molto affascinanti,
che si richiamano al concetto del superamento dell’etico e del conflitto dei doveri: l’uomo
schiacciato fra due doveri, il dovere di conservare il figlio e il dovere di obbedire alla voce di
Dio che gli dice di sopprimerlo. Questo conflitto di doveri, che turba estremamente noi
moderni, mi sembra che non si affacciasse come tale alla mente dell’Israelita. Ricordiamo
che nelle civiltà antiche, anche al tempo romano, si riteneva che il padre avesse diritto di vita
e di morte sul figlio. Però questo conflitto etico non mi sembra che appaia dal testo, non è
sottolineato dalla mentalità del testo; è nella nostra mentalità. Si insiste piuttosto su un
conflitto di tenerezza, di amore, ma non tra due leggi contrarie, tra due cose opposte volute
da Dio, per cui l’anima è lacerata. Non mi sembra che il superamento del piano etico
corrisponda alla teologia dell’autore, proprio perché non si pone un problema etico di base.
Le nostre prove
Dopo questa prima riflessione ne propongo una seconda sulle nostre prove. Certamente
questa prova è data ad Abramo per tutto il popolo d’Israele, il quale guarderà per sempre
questa prova come data per tutti gli uomini che si richiamano ad Abramo e sono in lui
contenuti. La prova di Abramo è in qualche maniera anche la nostra. E allora per prima cosa
propongo di domandarci come premessa: quali sono le mie prove? per poi suggerire tre brevi
pensieri sulle nostre prove, partendo dal tema di Abramo.
Riflettiamo anzitutto un po’ sulle nostre prove; “nostre” vuol dire individuali,
comunitarie, collettive, sociali, ecclesiastiche. Tutte queste prove ci toccano. Non abbiamo
soltanto prove personali misteriose, nascoste, ma anche prove in cui siamo associati con altri
più vicini a noi per motivi di apostolato, di vocazione, di missione apostolica, di affetto, ecc.;
come anche siamo associati con tutta l’umanità. Invito a riflettere su queste prove, così come
abbiamo riflettuto sui nostri kerigmi, sui nostri vangeli; a riflettere soprattutto su quelle
prove che toccano in noi l’atteggiamento più profondo, che quindi sono le prove di Gn 22.
Anche noi abbiamo delle prove del tipo di Gn 12 o Gn 22, che non toccano l’atteg -
giamento profondo davanti a Dio, l’immagine di Dio, se non indirettamente. Per esempio, un
dovere un po’ ingrato da compiere può essere faticoso, ma non è ancora una prova che tocca
l’intimo dell’uomo; così pure una malattia molesta, faticosa, bisogna avere un po’ di forza
per superare, ma non tocca ancora il quadro fondamentale; ovvero una circostanza
spiacevole, una brutta figura, uno sbaglio che ci è costato; tutte prove, che però toccano le
virtù cardinali, toccano la fortezza, la giustizia, la prudenza, la temperanza; prove contro la
castità, tentazioni di vario tipo, che toccano questa virtù, ma non toccano ancora l’intimo del
nostro atteggiamento verso Dio.
efficacia, la Chiesa piena della forza di Cristo, e la realtà delle cose, fatta di tristezza,
stagnazione, frustrazione, stanchezza, meschinità, avarizia: come mai tutto questo di fronte a
ciò che ci avevano promesso? E allora la stessa fede di Dio, così come lo si era conosciuto,
viene meno.
Possono essere cose anche più semplici, personali: lo scarto tra il mio sforzo
apostolico, ciò che faccio per l’apostolato, e il risultato deludente che ne ottengo e che
prolungato, dopo un certo tempo, crea un certo disagio, incertezza, scoraggiamento,
frustrazioni; ma dunque, non sono a posto? ma Dio mi vuole veramente qui? e allora perché
non mi aiuta? se sono nell’obbedienza perché le cose non mi vanno bene? allora
l’obbedienza mi ha ingannato? perché Dio ha permesso questo inganno? Similmente per
l’apparente inutilità della preghiera; sappiamo come le prove della preghiera, per chi prega
davvero, possono essere terribili, possono essere prove di fede formidabili, le più spaventose
che esistono, come sono descritte da coloro che le hanno provate. E in generale tutto ciò che
denota mancanza di senso, mancanza di significato in ciò che si fa. Allora, questa mancanza
di senso produce una depressione morale, psichica, che fa dubitare anche del fondamento
ultimo che dà significato a tutto, cioè la promessa di Dio. Ecco alcuni esempi di queste prove
che ciascuno potrà moltiplicare secondo le proprie esperienze. Grazie a Dio, generalmente le
prove, che non mancano mai, sono soprattutto sulle virtù cardinali: prudenza, giustizia,
fortezza, temperanza, che ci impegnano a essere forti, mortificati, prudenti, onesti,
coraggiosi; non toccano il fondo, ma vi possono essere casi in cui toccano più o meno il
fondo.
3. Riflessioni conclusive
Su queste prove, a partire dalla prova di Abramo, propongo alcune riflessioni molto
semplici come proposta conclusiva.
prova è questo: ma perché Dio non mi aiuta? O Dio non l’ho capito o non c’è! Ecco allora la
prova: una scelta fra queste due cose. La prova c’è; la prova ci attende. Direi ancora: la
prova è prova: cioè si cade anche. Per questo la prova è pericolosa, perché si può cadere, e
c’è chi cade, anche nella fede, e anche noi possiamo ogni giorno cadere nella fede, come
dice san Paolo: il tale (Alessandro) e il tale altro naufragarono nella fede. Si può naufragare
nella fede in qualunque situazione, anche da papa. Come dice bene sant’Ignazio: il demonio
non risparmia nessuno stato o condizione di persone, non si salva nessuno: la prova c’è per
tutti. Anzi direi che più una persona è impegnata nelle cose di Dio, più è tentata rispetto
all’immagine di Dio, perché più ha bisogno di purificare questa immagine. Finanche i cedri
del Libano cadono; che sarà di noi che non siamo cedri del Libano?
È ciò che sant’Ignazio suggerisce nella regola settima sul discernimento [320]: “Chi si
trova nella desolazione consideri come il Signore lo lasci nella prova affidato alle sue forze
naturali perché resista...; infatti ciò può fare con l’aiuto divino che gli resta sempre”. Bisogna
saper capire che è Dio che prova, anche se questo spesso è difficilissimo da capire. Lo
capiamo per gli altri, non così facilmente per noi; per noi rappresenta un guaio che ci è
venuto addosso, una situazione drammatica da cui non si esce; e allora mancano tutte le
energie per chiarirla.
Possiamo domandarci ancora: dove va, dove termina il vangelo della prova di
Abramo? La risposta ce la dà la lettera ai Romani 8, 32: “Se Dio è per noi chi sarà contro di
noi? Egli che non ha risparmiato il proprio figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci
donerà ogni cosa insieme con lui?”, che va letto in parallelo immediato con Gn 22, 12: “Ora
so che tu temi Dio. Non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio”.
La tradizione neotestamentaria ha letto nella storia di Abramo l’amore di Dio che,
dandoci il Figlio, ci assicura che nessuna prova, di nessun tipo, potrà mai andare al di là di
una prova, cioè separarci come tale dall’amore di Dio. La prova da parte di Dio rimarrà
prova e non diverrà scandalo. “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? forse la
tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio
come sta scritto: per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore
da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha
amati. Io infatti sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né
avvenire” – tutto ciò che potrebbe essere per me una prova nel cielo e sulla terra – “né
potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di
Dio in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8, 35-39). La prova è prova di un Dio che ci tiene
saldamente in mano.
ottava meditazione
Le prove di Gesù
Entriamo con questa meditazione nello spirito della terza settimana, che ha come
frutto, secondo sant’Ignazio, la con-passione con Cristo: essere addolorato con Cristo
addolorato, sofferente con Cristo sofferente, cioè entrare nel mistero della sua passione. Si
tratta di una grazia contemplativa, almeno in senso largo, e intimamente affettiva, nel senso
che coinvolge tutto l’interno della persona, più che le sue facoltà puramente razionali. Una
grazia che non è possibile spiegare e neppure proporre, se non da lontano; c’è il rischio di
dire solo parole, senza riuscire a varcare la soglia del contatto reale col mistero.
Dopo aver contemplato la storia di Abramo, nostro padre nella fede, contempleremo
alcune scene della vita di Cristo, capo e consumatore della nostra fede – archegòs kai
teleiotés tes pìsteos. Propongo tre contemplazioni: Luca 4, Gesù nel deserto; Luca 22, Gesù
nell’orto del Getsemani; Luca 23, Gesù sulla croce. Le propongo insieme perché mi pare di
vedere un certo nesso contemplativo tra queste tre scene. Evidentemente questo nesso
contemplativo è di carattere logico; dipende poi dalla grazia della preghiera passare alla
contemplazione affettiva propriamente detta, che in parole non può essere espressa.
disse loro: pregate per non entrare in tentazione”; e ancora al versetto 46: “Alzatevi e pregate
per non entrare in tentazione”. Dunque la tentazione è vicina, è imminente, siamo nello
stesso contesto, e quindi possiamo per analogia riflettere sulla situazione di Gesù nel
giardino del Getsemani come situazione di prova, immedesimandoci noi stessi in essa, come
se ci fossimo stati dentro.
La terza scena, quella degli insulti sotto la croce, non è di per sé espressa
esplicitamente come tentazione, ma mi sembra che alla luce delle altre due ne abbia il
carattere, sia per la forma letteraria con cui è presentata, sia soprattutto per il contenuto. Mi
riferisco a Lc 23, 35ss: Gesù è crocifisso: “il popolo stava a vedere. I capi invece lo
schernivano dicendo: ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto.
Anche i soldati lo schernivano e gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: se tu
sei il re dei Giudei, salva te stesso. C’era una scritta sopra il suo capo: Questi è il re dei
Giudei. Uno dei malfattori appeso alla croce lo insultava: Non sei tu il Cristo? Salva te stesso
e anche noi”.
Avendo presenti queste tre scene, facciamoci delle domande. La prima è questa: chi
sono i tentatori nelle tre situazioni? La seconda: qual è la struttura letteraria, formale, e qual
è l’oggetto della tentazione nei singoli casi? La terza domanda: dove sta la vittoria sulla
tentazione in questi tre casi? Infine un momento di riflessione per noi: che cosa è in gioco
per Gesù nel deserto, sulla croce e nell’orto del Getsemani e che cosa è in gioco per noi nelle
situazioni analoghe della nostra vita?
tutti si aspettano che tu agisca secondo questo privilegio. Se veramente vuoi ottenere
qualcosa, tieni conto delle forze che operano, sappi guardare chi sono coloro che ti possono
aiutare e possono impedire che tu sia schiacciato dalla conflittualità umana.
Oggetto della prima tentazione è anche un certo modo di essere Messia, il quale a sua
volta implica una certa immagine di Dio che manda questo Messia: come potrai
rappresentare Dio, il grande, il potente, il Shaddai, colui che fa saltare i monti come capretti,
che schianta i cedri del Libano, se non compi qualche opera di potenza? È in gioco la
maniera con cui Gesù deve presentare il concetto di Dio, le sue prerogative, il suo prestigio.
Qual è l’oggetto della tentazione nell’orto del Getsemani? Evidentemente è molto
diversa dalla precedente, tuttavia vi leggo una certa affinità, delle analogie. Esaminiamo la
preghiera di Gesù, che è anche essa al condizionale. In Luca: “se vuoi”; in Matteo: “se è
possibile, passi da me quésto calice”. Cosa vuol dire: se vuoi, se è possibile? Vuol dire: se
rientra nel tuo piano di salvezza, mi piacerebbe, o Dio, nella mia debolezza, non berne
l’amarezza.
Nel deserto si trattava del prestigio del Figlio di Dio; qui si tratta della debolezza
umana dello stesso Figlio. C’è un diretto collegamento tra la scelta che fa nel deserto, di non
usare del prestigio del Figlio, e quella nell’orto che lo porta necessariamente a sottoporsi alle
conseguenze della debolezza. Se nel deserto avrebbe potuto scegliere di moltiplicare le pietre
in pani, nell’orto, sentendosi triste fino a morire, potrebbe usare i mezzi per uscire da questa
tristezza. Invece dicendo: sono triste fino a morire, non ne posso più, la mia debolezza è
giunta al limite, al limite delle mie forze psichiche, fisiche, Gesù mostra di voler vivere
questo momento terribile, così difficile da capire, un po’ come la nuvola che avvolge il
monte Moria, in cui non è possibile entrare fino in fondo. Gesù fa nell’orto la scelta della
debolezza, così come ha fatto quella del rifiuto dei privilegi nel deserto; ne sente però tutta
l’amarezza. Dio non ha fatto il miracolo di dargli un messianismo felice; per questo Gesù ha
scelto la via del messianismo umile e deve portare le conseguenze fino in fondo, fino a dire:
non ne posso più.
ridicolo nella sua logicità, ma drammatico nella sua realtà: se scendi dalla croce, ti
crederanno, diranno che il Dio di Israele ha mandato il salvatore.
amore, il più perfetto dei quali giunge ad accettare per amore l’immagine di Dio che si rivela
nel Cristo spogliato dei suoi privilegi. La radice ultima di tutto questo ce la dice Gesù in
Giovanni e Paolo nella lettera ai Galati. Gv 15, 15ss: “Nessuno ha un amore più grande di
questo: dare la vita per i propri amici ... Vi ho chiamato amici”; Gal 2, 20: “Mi ha amato e ha
dato se stesso per me”.
È vero, Abramo eccelle per la fede; la parola “amore” non appare nella sua storia, però
tutta la sua vita è vita di amico. Dio lo ritiene amico, si fida. Amore e fede nel Nuovo
Testamento appaiono chiaramente collegati, specialmente in Rm 5, 1, con cui si chiude
l’episodio di Abramo (cap. 4): “Giustificati per la fede, abbiamo pace con Dio ... perché
l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato
dato”.
Il tema dell’amore di Dio che è in noi si chiarifica nel tema dell’obbedienza, dell’ab-
bandono, della dedizione, nel tema della fede, che è la vittoria che vince la tentazione, vince
il mondo.
nona meditazione
La consolazione di Abramo e Cristo consolatore
Questa meditazione si svolge tutta su Gn 23: l’acquisto che fa Abramo della grotta
Macpela, l’acquisto della tomba.
Non abbiamo mai fatto finora una composizione di luogo – “videndo locum” dice
sant’Ignazio –, cioè un ricorso ai sensi, alla fantasia aiutata dalla memoria, per vedere il
luogo, come qui si potrebbe fare, almeno per chi ci è stato, considerando da vicino o da
lontano il santuario di Ebron, la grotta dei patriarchi, dove la tradizione musulmana
custodisce gelosamente il sepolcro di Abramo, Sara, Isacco, Giacobbe, Rebecca; e lo fa con
tale ardentissima devozione da raggiungere punti di fanatismo nelle lotte tra Arabi ed Ebrei,
che anche lì hanno una piccola sinagoga. Questo luogo così evocativo, così affascinante e
misterioso, che veduto da lontano appare come una specie di cava di pietra addossata alla
montagna, noi potremmo collegarlo nella nostra visuale con la tomba di Cristo a
Gerusalemme. Vedere insieme queste due realtà, collegarle. La grazia che chiediamo sarà di
comprendere qualcosa della consolazione di Abramo, per comprendere a fondo la potenza di
Cristo consolatore.
I punti della meditazione saranno, il primo: una lettura e una riflessione su Gn 23; il
secondo: solo una breve riflessione su Lc 24, cioè il capitolo di Gesù che consola i discepoli
di Emmaus, che in qualche maniera fa da “pendant”, da punto di riferimento, alla storia della
tomba di Abramo.
1. La tomba di Abramo
Ho detto nel titolo: “La consolazione di Abramo”. Il libro del Genesi non descrive a
lungo la morte di Abramo, come forse sarebbe stato giusto per un patriarca e come fa la
letteratura apocrifa soprattutto quando narra la morte dei 12 patriarchi successivi, con grande
abbondanza di particolari, di testamenti, di raccomandazioni al figlio ecc. Il Genesi è molto
sobrio nel descrivere la morte di Abramo. Al cap. 25, versetti 7-10 si dice che “la durata
della vita di Abramo fu di 175 anni. Poi Abramo spirò e morì in felice canizie, vecchio e
sazio di giorni, e si riunì ai suoi antenati. Lo seppellirono i suoi figli Isacco e Ismaele, nella
caverna di Macpela, nel campo di Efron figlio di Zocar, l’Hittita, di fronte a Mamre. È
appunto il campo che Abramo aveva comperato dagli Hittiti; ivi furono sepolti Abramo e sua
moglie Sara”. Come si vede, qui più che la morte importa la tomba, ci si ferma sulla tomba;
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la tomba comprata, la tomba comprata da Efron, la tomba vicino a Mamre ecc. Sembra che il
ciclo del racconto di Abramo dia un certo significato a questa tomba. La cosa appare poi
evidente se prendiamo l’intero capitolo 23, uno dei capitoli più gustosi, più belli di questo
ciclo, più ricco di folklore popolare, dedicato tutto all’acquisto della tomba. Uno si domanda:
ma perché un racconto così essenziale come quello di Abramo, che si incentra tutto sui
grandi problemi fondamentali: la chiamata, la promessa di Dio, la risposta, la fede di
Abramo, qui spreca tante parole per descrivere come avvengono i contratti tra gli orientali: la
furberia, le varie manovre, le piccole mosse; perché? È appunto quello che cercheremo di
vedere brevemente, prima con la lettura del cap. 23 – narrare fedelmente la storia, dice
sant’Ignazio –, poi studiando il brano nella sua strutturazione, nelle sue varie parti; e infine
qualche riflessione.
Qual è l’importanza di questo brano? perché tanta cura nel descrivere l’acquisto della
tomba? Il racconto comincia con una promessa: la morte di Sara, il lutto per Sara; poi passa
alla contrattazione per la tomba in quattro tempi, ben ritmati, molto ben divisi tra loro. Morte
di Sara: “Gli anni della vita di Sara furono 127; questi furono gli anni della vita di Sara”. Il
racconto è Sacerdotale, ma utilizza un documento più antico, come dice anche la Bibbia di
Gerusalemme. “Sara morì a Kiriat-Arba, cioè Ebron – viene riportato l’antico nome della
città – nel paese di Canaan – notate la citazione dolorosa: Canaan, un paese straniero, e
Abramo – forse era lontano a pascolare il gregge – venne a fare il lamento per Sara e a
piangerla”. Questa la premessa: Sara muore in terra straniera; per lei la promessa non si è
avverata. Poi comincia la contrattazione, divisa, come dicevo, in quattro parti. La prima parte
la domanda, la seconda l’insistenza, la terza la trattativa del prezzo, la quarta infine la
conclusione e il contratto.
La domanda
Dice il testo: “Poi Abramo si staccò dal cadavere di lei – questa è una delle poche note
sentimentali del testo; Abramo piange, poi ad un certo punto si stacca; bisogna pure
compiere certi doveri e quindi lascia il pianto – e parlò agli Hittiti” (v. 3). Hittiti è il nome
generico che veniva dato alla popolazione locale; non penso che abbia relazione con gli
Hittiti storici, di cui sono state ritrovate tracce negli scavi di Turchia; è un nome divenuto
comune per varie vicende storiche precedenti. Il discorso di Abramo nel quadro della
promessa è certamente un discorso dolorante: “Io sono forestiero e di passaggio in mezzo a
voi – Abramo è lì in terra straniera, lui depositario della promessa della terra non può che
dire; sono forestiero e di passaggio in mezzo a voi – datemi la proprietà di un sepolcro in
mezzo a voi perché io possa portar via la salma e seppellirla”. Una domanda quanto mai
umile: datemi la possibilità di seppellire chi mi è morto. È da supporre che Abramo vivesse
come nomade, però in buon accordo con la popolazione locale; aveva il permesso di pascolo,
che otteneva volta per volta, e la popolazione lo stimava; quindi le relazioni sociali erano
buone. Tuttavia Abramo era ritenuto un forestiero e per compiere questo atto importante di
proprietà, di seppellire un morto in un terreno preciso, visibile, da potersi poi riconoscere e
venerare, c’era bisogno del consenso della gente. La gente capiva che con questo atto aveva
inizio una proprietà, un certo passaggio di condizioni giuridiche di Abramo; e dunque
Abramo parla, come si vede da ciò che segue, di fronte all’assemblea presso la porta del
villaggio.
“Allora gli Hittiti risposero: Ascolta noi, piuttosto, signore: tu sei un principe di Dio in
mezzo a noi – lo stile è elevato, come si addice a una persona a cui si dà un onore altissimo;
notare la differenza tra ciò che significa per la gente “principe di Dio”, una forma adulatoria
per un uomo che ha mostrato di essere favorito da Dio, e ciò che significa nel quadro della
promessa: Abramo depositario della promessa di Dio – “seppellisci il tuo morto nel migliore
dei nostri sepolcri. Nessuno di noi ti proibirà di seppellire la tua defunta nel suo sepolcro”.
La risposta è chiaramente negativa, nonostante l’effusione della cortesia: cioè tutti i nostri
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sepolcri sono a tua disposizione per i tuoi morti, ma tu non avrai un sepolcro; sì, ti vogliamo
bene, ma rimani ospite, rimani forestiero.
L’insistenza
Ed ecco allora l’insistenza. Questo secondo momento è coniato, come anche gli altri,
da atti profondi di umiltà di Abramo: “Abramo si alzò, si prostrò davanti alla gente del
paese, davanti agli Hittiti – vediamo questo vecchio uomo, che si prostra, con la fronte tocca
la terra e intanto tutti lo guardano, poi si rialza – e parlò loro: Se è secondo il vostro
desiderio che io porti via il mio morto e lo seppellisca, ascoltatemi e insistete per me presso
Efron, figlio di Zocar, perché mi dia la sua caverna di Macpela, che è all’estremità del suo
campo. Me la ceda per il suo prezzo intero come proprietà sepolcrale in mezzo a voi” (vv. 7-
9).
Abramo non demorde, anzi passa all’attacco e indica con precisione ciò che vuole,
mentre prima aveva parlato in generale, anche se già aveva un’intenzione ben precisa, che
viene fuori dopo il suo atto di riverenza e di omaggio: voglio quella grotta al confine di quel
campo, C’è già un suo chiaro disegno che vuole mettere in atto. Efron si sente colpito,
sorpreso, non si aspettava; forse aveva sentito qualche rumore della cosa, ma fa finta di non
sapere nulla. Dice il testo: “Ora Efron stava seduto in mezzo agli Hittiti. Efron l’Hittita
ripose ad Abramo mentre lo ascoltavano gli Hittiti, quanti entravano per la porta della città –
il contratto sarà discusso alla Porta della città come un atto pubblico, di fronte all’assemblea
– e disse: Ascolta me, piuttosto, mio signore: ti cedo il campo con la caverna che vi si trova,
in presenza dei figli del mio popolo te la cedo; seppellisci il tuo morto” (vv. 10-11). Che
cosa capì Abramo? Capì dalle parole di Efron che la cosa gli è carissima e però la dà a lui
che è un amico; Abramo si rende conto che la persona vuol trattare e chiederà un prezzo
molto alto, che bisognerà prima stabilire.
fronte a Mamre, cioè Ebron, nel paese di Canaan. Il campo e la caverna che vi si trovava
passarono dagli Hittiti ad Abramo in proprietà sepolcrale” (vv. 19-20). Qui finisce il testo,
che si conclude sottolineando che finalmente questo piccolo possesso nella terra di Canaan
appartiene ad Abramo.
per mezzo del suo Spirito che abita in noi”; e infine nella lettera ai Colossesi 1, 27: Voi già
abitate con Cristo in Dio, “avete in voi Cristo, speranza della gloria”; quindi, avete tutto,
anche se avete poco apparentemente. La gente dice: ma cos’è un cristiano, di che cosa si
rallegra, che cosa ha di diverso? Apparentemente poco, però in realtà ha il pegno della
promessa piena, ha il tutto, che è il dono del Cristo anticipato e la presenza dello Spirito.
Che cosa ci dice dunque questa prima riflessione? Ci dice: lasciamoci anche noi
consolare dai segni, dalle anticipazioni, dai pegni della promessa! È vero, dobbiamo
guardare alla pienezza della promessa, ma dobbiamo anche guardare alla gioia del presente,
a tutte quelle indicazioni che nel presente già ci danno la certezza che l’amore di Dio è
diffuso nei nostri cuori.
Dio, ma non è un uomo capace di aiutare altri, creare comunità; aspetta tutto da Dio, non è
un consolatore.
Invece Gesù è tutto il contrario; non è un solitario, è di natura sua un consolatore, uno
che ama stare insieme, va a cercare la gente, corre dietro ai discepoli di Emmaus, li
raggiunge nel cammino, crea in loro di nuovo l’entusiasmo, fa sì che anche essi corrano a
dare notizia, a cercare altri; Gesù è colui che fa comunità. Mentre Abramo si contenta di
essere fedele alla parola, di tenerla nel cuore, di convincere per quanto può nell’ambito
familiare, per esempio Sara, ma senza troppo riuscirci: Sara rideva della promessa di Dio.
Gesù è colui che diffonde intorno a sé consolazione, comunione, fiducia, che riesce a
ricreare rapidamente, da una massa di sfiduciati, un gruppo di uomini pieni di gioia, pieni di
pace, che si rallegrano per la sua presenza, che ricevono le sue parole e col suo spirito
porteranno ovunque il suo nome e saranno a loro volta consolatori.
E qui potremo ripensare all’esclamazione di Paolo in 1 Cor 13, 13: Grande è la fede,
grande la speranza, “ma più grande la carità”: Grande, certamente, immensa la fede di
Abramo, però più grande la carità di Cristo, che riesce a formare una comunità a partire da
uomini senza fiducia, dando loro lo slancio, l’entusiasmo, il senso della pienezza di Dio.
fa essere ciò che sono, ossia persona chiamata da lui per nome; e questo Dio, proprio in virtù
di questa intimità primordiale, mi può chiamare figlio, dandomi la promessa che si è
realizzata nel suo stesso Figlio, o se vogliamo usare le parole di sant’Ignazio, “mettendomi
col Figlio”. La contemplazione di questa promessa di Dio in Cristo ci permette di capire
come la storia di Abramo è la storia dell’opera di Dio in me, di Dio che mi mette col Figlio,
che è la radice di ciò che io sono. Ed in questa radice ultima di ciò che io sono, io ricevo una
nuova parola creatrice dell’amore di Dio, che mi immette nella sua stessa vita divina.
Parte II
Istruzioni
prima istruzione
Il dinamismo delta parola di Dio
seconda istruzione
Riforma della vita, orazione prolungata,
spirito penitenziale e vita comunitaria
b) La ‘confessio fidei’
Cos’è la confessio fidei? È l’immediata preparazione a ricevere la parola e l’aiuto di
Dio. Cioè, credo, Signore, che la tua potenza mi salva. Credo, Signore, che la potenza del
Cristo, morto e risorto, è su di me per salvarmi da queste situazioni negative e pesanti da cui
io non vedo come uscire. Ci sono situazioni di peccato da cui sappiamo bene come
guardarci; ma ci sono anche situazioni di pesantezza, di difficoltà, che possono trasformarsi
in resistenze a Dio e da cui non sappiamo in quel momento come liberarci. Ci sono per
esempio, antipatie che ci pesano e di cui non possiamo liberarci, e allora le metto davanti a
Dio: Tu, Signore, mi libererai; la tua potenza mi libererà; io non riesco a togliermele.
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Ecco la confessio fidei di chi rivede la propria vita fragile di fronte alla potenza
salvifica di Dio e invoca, nel sacramento della penitenza, la grazia della Chiesa sulla propria
fragilità per il perdono dei peccati formali, per la purificazione di quelle cose che sono al
limite del peccato, anche senza essere veramente colpevoli, per la liberazione da quei pesi
che ci impediscono di correre verso Dio. Così, è chiaro, il sacramento della penitenza si
trasforma in “colloquio penitenziale”, diventa un po’ più lungo; invece di durare tre minuti,
può durare dieci minuti, venti minuti, mezz’ora, un’ora. Tuttavia credo che sia molto più
ristoratore dello spirito, specialmente se si è aiutati da un fratello che magari ci conosce, che
può fare qualche domanda, può dare qualche indicazione. Così, mettendoci davanti a Dio
con piena libertà, le proprie paure, timori, disagi, sofferenze, ripugnanze, vengono espressi,
vengono chiariti alla luce della misericordia di Dio.
terza istruzione
Qoelet, gioia del vangelo, e il rosario
Chi è Qoelet? Cosa rappresenta? Rappresenta evidentemente, almeno per noi, il tipo di
quella saggezza disincarnata, non direi proprio scettica, ma tendente allo scetticismo
elegante, che è capace di Sorvolare sopra le vicende umane con un certo sorriso, sapendo che
non c’è molto di buono da sperare. Per citare un esempio, prendo così a caso qualche brano
tipico: “Ciò che è storto non si può raddrizzare, su quel che manca non si può contare” (Qo
1, 15). È certo che con queste sentenze non si va molto avanti; d’altra parte è anche vero che
se una certa cosa non c’è, è inutile fare progetti; se qualcosa è storto, come si fa a
raddrizzarlo?
Un’altra sentenza mi viene a tiro riflettendo su due colpi di Stato, recentemente
avvenuti in un paese dell’Africa, uno dopo l’altro; l’ultimo, quello di un sottufficiale, che era
stato messo in prigione e uscito di prigione ne ha fatto un secondo e ha preso in mano tutto.
E allora apro Qoelet e trovo: “Meglio un ragazzo povero, ma accorto, che un re vecchio e
stolto che non sa ascoltare i consigli. Il ragazzo infatti può uscir di prigione ed esser
proclamato re, anche se mentre quegli regnava, è nato povero” (Qo 4, 13s). Poi descrive la
situazione: “Ho visto tutti i viventi che si muovono sotto il sole stare con quel ragazzo, il
secondo, cioè l’usurpatore. Era una folla immensa quella di cui egli era alla testa. Ma –
continua il nostro Qoelet – coloro che verranno dopo non avranno da rallegrarsi di lui” (vv.
15-16). Ecco un modo di giudicare le cose umane; sembra che sia avvenuto chissà che cosa,
ma sappiamo come si andrà a finire.
utili, però ... finché non risuoni la parola di Dio: Giovanni Battista, Gesù, che annuncia che il
Regno è vicino. Abbiamo qui il vero anticlimax del libro, che sembra in certo senso il più
vicino alla manifestazione della rivelazione della potenza di Dio e della novità di vita nel
Signore.
Il rosario
Un aiuto che ci può venire per la contemplazione amorosa dei misteri della vita del
Signore, in un clima di preghiera meditativa e cordiale, è il rosario. Tutti sappiamo che
siamo in un momento di decadenza di questa preghiera, anche se non così grave come per la
penitenza. È una pratica che può essere sostituita da mille altre. Tuttavia può essere
interessante riflettere perché questa pratica ha avuto tanto influsso per secoli in Occidente. Io
parto da un prima costatazione: il rosario non è una preghiera facile e credo che lo sbaglio
che è stato fatto è quello di dire che è un modo facile di preghiera, per i momenti di
stanchezza, una preghiera che non richiede troppo impegno. A me è successo che, essendo
appunto considerata la preghiera dei tempi di stanchezza, in cui non si sa come pregare, era
diventata un po’ come il ripostiglio di tutte le distrazioni della giornata; durante il rosario
della sera istintivamente affioravano e mi venivano in mente tutte le cose fatte o da fare; per
cui a un certo punto mi sono detto: ma se veramente è così, lascio da parte il rosario, prendo
in mano l’agenda e vedo quello che ho fatto o c’è da fare. Mi sembrava più logico. Finché
non ho riflettuto un pochino di più e ho trovato che il rosario richiede una maggiore
presenza.
orientale è questa: “Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”. La si può ritenere
in tutti quattro i termini, a ritmo quaternario, o anche con variazioni in altri modi, ripetendola
tante volte, finché passa dalla mente nel cuore. Certamente è una preghiera che ha una sua
grande storia, che ha avuto un immenso influsso, come sappiamo dal libro Il racconto di un
pellegrino russo. C’è tutta una letteratura relativa a questa preghiera.
La preghiera occidentale è un po’ complessa ed è questo forse che fa difficoltà. L’Ave
Maria ha 10 parti, non 4, e quindi è una preghiera un po’ più lunga e richiede una mente un
po’ più sintetica. Per questo forse non ha i vantaggi della preghiera di Gesù degli orientali,
anche se ne ha la struttura, in quanto è una certa forma ripetitiva, con al centro il nome di
Gesù, nella cornice di un episodio evangelico, e con una invocazione per noi peccatori,
riferita sia al momento presente che al momento escatologico. Il momento presente è
considerato anche momento escatologico: siamo sempre nell’ora della morte, di fronte a
questa pienezza del giudizio di Dio che ci sovrasta e che viene anticipato in questa preghiera.
Veramente è una formula ricchissima, forse troppo ricca, e quindi per questo può non avere
quell’influsso, quella capacità interiorizzatrice, che ha invece la più semplice preghiera
orientale.
quarta istruzione
Discernimento degli spiriti
Siamo nel momento degli Esercizi in cui si comincia a raccogliere un po’ i vari
movimenti interiori – desideri, proposte, propositi, programmi – per vagliarli in vista di
quella che sant’Ignazio chiama “la riforma della vita”; la quale può essere anche
semplicissima, ma deve scaturire da un certo collegamento e risonanza con quanto avviene
dentro di noi, a mano a mano che meditiamo e preghiamo. Sant’Ignazio suppone che le
meditazioni ordinarie continuano, ma che a un certo punto si introduca anche il pensiero di
scelte particolari, oppure di una più chiara presa di coscienza delle cose che emergono in noi:
orientamenti da promuovere, decisioni da prendere, cose da cambiare.
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carità. Non tocca di per sé direttamente l’interiorità della fede, ma la sua espressione nei
movimenti affettivi, che possono essere molto ricchi: desideri, affetti, slanci, sentimenti,
emozioni, tutto ciò che appartiene a questo campo dell’interiorità conoscitiva, affettiva,
integrata nella persona vivente.
Tutti questi movimenti, collegati sempre per qualche aspetto alla corporeità, possono
essere evidentemente di segno positivo, e allora sono portatori di gioia, pace, consolazione,
entusiasmo, conforto, trasporto, desiderio di fare, di darsi a tutti, di buttarsi, di martirio ecc.;
o di segno negativo: ripulsa, disgusto, rabbia, risentimento, senso di distanza da tutto ciò che
in qualche modo ricorda o rappresenta il mondo divino ecc.; cioè tutta la gamma delle
risonanze affettive, intendendo la parola in senso vasto, sia conoscitivo che volitivo, di segno
positivo e di segno negativo.
quinta istruzione
Esercizi e vita quotidiana
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E vengo qui a una riflessione che potrebbe sembrare un po’ un pensiero del Qoelet,
piuttosto pessimistico; tuttavia è qualcosa che sento molto e mi sembra utile proporla. Cioè
qual è il vero legame, il giusto legame tra Esercizi e vita quotidiana?
Qual è dunque la differenza principale fra gli Esercizi – e quindi la comunione di vita
che vige negli Esercizi: l’Eucarestia, il trovarsi insieme, un certo scambio personale ecc. – e
una vita comunitaria che cerchi di riprodurre in qualche maniera questo clima degli Esercizi?
Qui mi pare che talora si sbagli, quando pensiamo che questo clima possa diventare un
modello ed essere trasportato anche nella vita quotidiana. Ci si stupisce che persone che
hanno pregato così bene insieme si trovino poi divise, con diversità di pensieri, in urto, nella
vita quotidiana. Ma questa divisione è più che normale e vorrei spiegare perché. Il motivo è
che negli Esercizi giocano i valori trascendentali, le scelte di fondo a livello di virtù
teologali; le mediazioni sono tutte a breve termine, si va immediatamente alle realtà finali,
quelle sulle quali l’accordo è più facile e il sentire comune è più rapido; una certa atmosfera
di preghiera prolungata, di silenzio, di calma, porta a far emergere gradualmente l’unità di
comunione su questi grandi valori finali.
gridato continuamente, dall’altra forti conflittualità. Forse non esistono conflittualità così
forti come nelle comunità pentecostali, le quali d’altra parte sono specialiste dell’abbraccio,
della gioia, dell’alleluia cantato ecc. Tutto questo, secondo Padre Godin, talora cresce
proprio perché la conflittualità sia in qualche maniera velata; ma questa esiste concretamente
e a un certo punto deve venir fuori, e sarebbe strano se non fosse così. Qualcuno si
scandalizza: ma come? queste comunità che parlano tanto di amore, di fratellanza, eccole
divise su punti di prestigio, di direzione di questo o quel gruppo, di chi ha il diritto ecc.
Sono cose che succedono. È soltanto la confusione dei due ordini che fa scandalizzare.
E dobbiamo dire che proprio per questo il decreto 11 insiste tanto sui due ordini, cioè
l’ordine delle verità trascendenti e l’ordine della prassi, perché si influenzino e si benefichino
a vicenda. È chiaro che l’ordine degli Esercizi, come l’abbiamo vissuto noi, con la
concentrazione sulla promessa e sulla fede, dà ispirazione, gioia, pace anche in ordine alla
vita quotidiana, e quindi tende a ricondurre i conflitti nell’ambito della ragione, del dialogo,
della sensatezza, dell’umiltà, dell’accettazione, della concretezza, come altrimenti sarebbe
forse impossibile. Dal canto suo l’ordine pragmatico delle cose quotidiane toglie all’ordine
degli Esercizi il rischio di rimanere semplice parola, parola proclamata, ma non veramente
incarnata, luce che non riscalda, parola che non circola. Quindi è necessario lo shock della
vita quotidiana con le sue limitatezze, con le sue apparenti meschinità, con le sue banalità,
perché quella parola contemplata sia veramente vissuta nella carne; né c’è altro modo di
viverla se non nella quotidianità. Per cui concluderei così.
1. Non dobbiamo farci nessun illusione, perché la vita quotidiana è difficile e lo sarà
sempre; è una macina inesorabile che frantuma molte belle idee, molti bei propositi.
2. Tuttavia lo sbaglio sarebbe di non avere speranza, perché la fede vince il mondo e il
seme della parola anche macinato e macerato porta frutto. Proprio questa macinazione e
macerazione, che il seme della parola riceve nella vita quotidiana, con le piccole esperienze
di difficoltà, di incomprensione, di cose che non vanno, di problemi irrisolti, di frustrazioni,
e che ci lasciano un po’ angosciati, proprio questo mi sembra che incarni il seme della parola
nella realtà di ogni giorno e ci permette di sentire la forza, la potenza di questa parola.
Preghiamo quindi a vicenda gli uni per gli altri, affinché possiamo veramente vivere nella
vita quotidiana la potenza della parola di Dio.