Pen Tamer One
Pen Tamer One
Pen Tamer One
Facezie e novelle
del Rinascimento
A cura di
Edoardo Mori
Testi originali trascritti o trascrizioni del 1800 restaurate
www.mori.bz.it
GIAMBATTISTA BASILE
Il Pentamerone
ossia
La Fiaba delle Fiabe
Traduzione di Benedetto Croce
Testo trascritto
Bolzano – 2017
Ho creato questa collana di libri per il mio interesse per la sto-
ria della facezia e per riproporre il tesoro novellistico del Ri-
nascimento italiano. Molte opere sono note e reperibili, altre
sono note solo agli specialisti e difficilmente accessibili in te-
sti non maltrattati dal tempo. Inoltre mi hanno sempre di-
sturbato le edizioni ad usum Delphini, adattate a gusti bigotti,
o le antologie in cui il raccoglitore offre un florilegio di ciò
che piace a lui, più attento all'aspetto letterario che a quello
umoristico. Un libro va sempre affrontato nella sua interezza
se si vuole comprendere appieno l'autore. Perciò le opere pro-
poste sono sempre complete; se non le ho trascritte, stante la
difficoltà di fa comprendere ai programmi di OCR il lessico e
l'ortografia di un tempo, ho sempre provveduto a restaurare il
testo originario per aumentarne la leggibilità.
Edoardo Mori
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Benedetto Croce
GIAMBATTISTA BASILE
E L’ELABORAZIONE ARTISTICA DELLE FIABE POPOLARI
DISCORSO
L’Italia possiede nel Cunto de li cunti o Pentamerone del Ba-
sile il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di
fiabe popolari; com’è giudizio concorde dei critici stranieri
conoscitori di questa materia, e, per primo, di Iacopo Grimm,
colui che, insieme col fratello Guglielmo, donò alla Germania
la raccolta dei Kinder und Hausmärchen più volte ristampata.
Eppure l’Italia è come se non possedesse quel libro, perché,
scritto in un antico e non facile dialetto, è noto solo di titolo, e
quasi nessuno più lo legge, nonché nelle altre regioni, nem-
meno nel suo luogo d’origine, Napoli. Più facilmente lo leg-
gono i tedeschi, che fin dal 1846 ne hanno a lor uso la tradu-
zione del Liebrecht, e gl’inglesi, che fin dal 1848 ne hanno la
copiosa scelta del Taylor, anch’essa più volte ristampata, e dal
1893 la traduzione completa del Burton. Intento di questa mia
nuova fatica è di far entrare l’opera del Basile nella nostra let-
teratura nazionale, togliendola dall’angusta cerchia in cui ora
è relegata (che non è più neanche quella dialettale e municipa-
le, ma addirittura il circoletto degli eruditi, degli specialisti e
dei curiosi), e di acquistare all’Italia il suo gran libro di fiabe.
Giambattista Basile nacque in Napoli circa il 1575 e mori
presso Napoli nel 1632. Egli fu dei tanti italiani che a quel
tempo, veri «avventurieri onorati», trassero la vita ora mili-
tando, ora prestando, nelle corti principesche o baronali, opera
di segretari, di amministratori, di giudici, di agenti diplomati-
ci, e, insieme, di letterati, abili e pronti a fornire versi per le
varie cerimonie e ricorrenze, e a disporre feste e spettacoli. Da
giovane si arrolò, tra l’altro, ai servigi di Venezia, e rimase
per alcun tempo di guarnigione a Candia, e nel 16o7 fu im-
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barcato sulla flotta di Giovanni Bembo, quando pareva che
stesse per iscoppiare la guerra tra la Serenissima e la Spagna.
Poi fece ritorno a Napoli, ed entrò nella corte del principe di
Stigliano Carafa; e, dopo essersi recato, insieme con quasi tut-
ti gli altri della sua famiglia, a Mantova, nel 1613, in qualità
di gentiluomo e familiare del duca Vincenzo Gonzaga, e rice-
vutivi molti onori, di nuovo si ridusse in patria, frequentando
le corti dei Caracciolo principi di Avellino e del viceré duca
d’Alba. Esercitava di volta in volta l’ufficio di governatore
regio o feudale; e in questa qualità dimorò a Montemarano, a
Zungoli, a Lagonegro, ad Aversa, e in ultimo, per parte del
duca di Acerenza Galeazzo Pinelli, a Giugliano, dove chiuse i
suoi giorni, come si è detto, nel 1632, il 23 febbraio, e colà fu
sepolto. Anche i suoi parecchi fratelli seguirono il suo tenore
di vita, quale nel regno di Napoli, quale a Mantova, quale nel-
le Fiandre e in Ispagna. Ma non meno praticavano nelle corti
le sue sorelle, tutte e tre cantatrici, e tra esse la famosa Adria-
na, che tenne il primato del canto in Italia, in quel tempo in
cui sorse per la prima volta la figura della «virtuosa» o «ar-
monica», come si diceva, o della «cantante», come diciamo
noi, tra furori d’entusiasmo del pubblico e terrore dei morali-
sti. Per l’Adriana fu composto, anzi «edificato», dalle con-
giunte forze dei letterati d’allora il Teatro delle glorie ed essa
allevò una famiglia tutta musicale, e, tra le figliuole, la sua e-
rede in quel primato, Leonora Baroni, a cui similmente venne
dedicato un volume di Applausi poetici e che tra i suoi ammira-
tori ed esaltatori ebbe Giovanni Milton, il quale, tra il 1638 e
il 1639, la conobbe in Roma e la udì cantare, mentre la madre
l’accompagnava sulla cetra. Era, per altro, cotesta famiglia di
cortigiani e di artisti, gente assai per bene e costumata, e gelo-
sa dell’onor suo e del decoro: l’Adriana non volle recarsi a
Mantova presso il duca se non quando direttamente le rivolse
invito e premure la duchessa, e a Napoli non portava il suo
canto nelle case signorili se le dame napoletane non la visita-
vano prima a casa sua. E nella società signorile procuravano
di sollevarsi e mantenersi, sia facendo valere la bontà dei loro
natali, sia fregiandosi di titoli; e l’Adriana fu baronessa di
Piancerreto nel Monferrato, e Giambattista, cavaliere e conte
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palatino, e, ottenuto di trasferire quest'ultima qualità su alcune
terre, s’intitolò conte di Castelrampa e, piu spesso, conte di
Torone.
Della sua opera letteraria è presto detto quando è detto che
consiste in odi e altre composizioni di argomento cortigiano,
scritte nella forma tesa e contorta, che era di moda. Verseg-
giava in italiano per Luigi Carafa, principe di Stigliano:
Musa, di’ tu il valore
del gran Luigi, e s’ei tien forse a vile
che con mortai onore
adombri il suo splendor caduco stile,
gradirà ben che le sue lodi e ’l vanto
spieghi d’eterna Dea celeste canto...
o, in ispagnuolo, pel duca d’Alba:
Senor, quien Alba te llamas,
menga ya tus resplandores,
pues en efecto mayores
son las obras de tu fama...
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E compose anche, come tutti gli altri del suo tempo, quasi per
dovere di letterato che si rispetti, un dramma pastorale o piut-
tosto marinaresco, le Avventurose disavventure, e un lungo poe-
ma in ottave, il Teagene, nel quale rielaborò, conformandolo
agli schemi consueti e frusti, il romanzo di Eliodoro. Il conte
Maiolino Bisaccioni (per molti rispetti a lui simile nella vita
di «avventuriere onorato»), che lo incontrò circa il 162o in
Avellino alla corte dei Caracciolo e lo ebbe compagno nel di-
sporre mascherate e recite di commedie, ricordava, negli anni
dipoi, «il cavalier Basile, di venerabile memoria nelle buone
lettere ed ottimi costumi», che era «si pronto nelle prose e ne’
versi, che bene e spesso rendea stupore il vedere che in poche
ore grande e buona faragine di cose operava»’.
In questa letteratura convenzionale, pratica e meccanica,
niente o quasi niente egli metteva dell’anima sua, come se ad-
dirittura non avesse un’anima. Eppure era uomo di cuore e di
cervello, un brav’uomo, come si sente nelle impressioni che
di lui ci hanno lasciate i contemporanei, e più particolarmente
negli scritti suoi in dialetto, dei quali ora veniamo a parlare: di
grande rettitudine e bontà e sete di giustizia, ricco di affetti, di
rimpianti e di nostalgie, con una tendenza alla tristezza che
giungeva fino al pessimismo e al fastidio delle umane cose.
Costretto ad aggirarsi nelle corti, provava continue punture e
trafitture alla vista della meschina e spesso cattiva lotta per la
vita che in quelle si combatteva, e che spingeva sempre avanti
i più audaci nel mentire, nell’intrigare e nel mal fare. Gover-
natore feudale, assisteva alle estorsioni che si esercitavano sui
miseri vassalli, dai baroni in primo luogo, e, sul loro esempio,
dai loro ministri; e, sollecito da sua parte di serbare netta la
coscienza, tornava da quegli uffici povero come v’era andato,
sostenendo poi i sorrisi di compassione degli uomini accorti
circa la sua dabbenaggine, che sempre gl’impediva di appro-
fittare delle buone occasioni offertegli dalla fortuna. Con que-
sto abito di osservare e riflettere sui casi che gli occorrevano,
era a poco a poco diventato un moralista, pronto a prorompere
all’invettiva, a sbozzare ritratti satirici, ad ammonire e mettere
in guardia; e pur nondimeno, in quest’asprezza di rampogna,
portava sempre in fondo al cuore l’adorazione per la bontà,
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per la probità, per l’ingenuo candore, e l’affetto per la città na-
tale e per le vecchie sue costumanze, e l’amore per le antiche
canzoni, e l’interessamento tra sentimentale e curioso per le
fiabe che raccontavano le donne del popolo, e pei proverbi e i
motti in cui dicevano la loro sapienza sulla vita; e, soprattutto,
aveva l’anima musicale, e nella musica gli appariva l’armonia
delle cose e in essa ritrovava la bellezza e la sanità dell’uomo
Fu certamente singolare ventura che, in quel tempo, un
suo amico, un suo quasi fratello, col quale era stato compagno
sin da quando andava a scuola fanciullo, Giulio Cesare Corte-
se — anch’esso una bell’anima e uno spirito schietto di poeta,
— prendesse a innalzare a serietà di arte il dialetto napoleta-
no, adoperato fin allora solamente da verseggiatori plebei di
storie, canzoni e contrasti, alcuni dei quali non privi certa-
mente di lampi d’ingegno, com’è il cantastorie noto col nome
di Velardiniello. Il Basile dove dapprima provarsi nel nuovo
modo di letteratura per gusto di giocosa bizzarria verbale,
come fece in alcune lettere in prosa e in verso che aggiunse a
uno dei poemi dell’amico, la Vaiasseide; ma poi via via si senti
a suo agio in quel patrio dialetto, che non gl’imponeva obbli-
ghi letterari e non gli dava suggezione, e gli permetteva di ef-
fondere quel che chiudeva in petto, troppo bassa materia forse
per le forme dell’aulica letteratura, riserbata da lui alle lodi
degli «eroi», ossia del viceré e dei principi e duchi. Gli venne-
ro fatti cosi nove dialoghi in verso, che chiamò «egloghe», e
ciascuna iscrisse col nome di una Musa, e tutte insieme intito-
lò le Muse napolitani, ma che sono, in realtà, vivacissimi quadri
di costume popolano, disegnati con la guida di uno schietto
sentimento morale. Si aprono con la scena di due che giocano
e litigano e dalle ingiurie passano alle armi, e un vecchio li
spartisce e, nell’ammonirli ed esortarli, ritmicamente loro in-
culca, con solenne accento che viene dal profondo: «Bella co-
sa è la pace!». Si avanza poi un giovane che è avvolto nei lac-
ci di una cortigiana, e un altro gli analizza e gli fa toccar con
mano la fallacia e il pericolo e la tristezza di quella passione,
senza riuscire a rimuovernelo, perché nell’altro è senno ed e-
sperienza, ma nel giovane bollore di sangue e di fantasia, che
acceca e trascina. E segue la pittura di un luogo di perdizione
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della Napoli di quei tempi, l’osteria del Cerriglio, dove si an-
dava a sguazzare con amici e con baldracche, e vi avevano il
loro ritrovo ladri, falsari e sicari; e quella di una rissa di don-
nicciuole, con dionisiache scariche d’improperi; e, come con-
trasto, l’idillio di una bella e innocente giovinetta, che va a
nozze, covata dagli sguardi amorosi dello sposo, circondata
dalla tenerezza dei parenti che accumulano sopra di lei doni e
benedizioni. E poi ancora la satira del vecchio che, contro le
sacre leggi della natura, sta per isposare una giovinetta; e
l’amara considerazione del lusso di equivoca origine che talu-
ni sfoggiano, laddove si vede la buona e onesta gente custodi-
re con ogni cura l’unico e annoso vestito col quale copre di
decenza la povertà; e, infine, il dialogo sulla musica, tutto e-
cheggiante di antichi accenti e di antiche arie, in lode della
semplice musica che va al cuore, eseguita su semplici e rozzi
strumenti, contro quella raffinata e artificiosa, venuta in voga
nelle corti e nei palagi.
Dopo queste Muse napolitane, o ad una con esse, il Basile
disegnò più vasta tela, che fu di raccogliere in una sorta di de-
camerone il tesoro delle fiabe popolari che si narravano a Na-
poli: un «pentamerone», veramente, perché le fiabe sarebbero
state cinquanta e divise in cinque giornate; al quale dié per ti-
tolo Lo cunto de lì cuntì overo lo trattenemiento de’ peccerille, il
che non voleva dire (come alcuni, e tra questi il Grimm, han-
no creduto, prendendo alla lettera il titolo giocoso) che fosse
composto per bambini. Era, per contrario, composto per uo-
mini, e per uomini letterati ed esperti e navigati, che sapevano
intendere e gustare le cose complicate e ingegnose; e forse
nelle accademie napoletane e specie nella maggiore di esse,
l’accademia degli Oziosi, alla quale il Basile fu ascritto col
nome di «Pigro» (che era lo stesso nome già da lui assunto
nell’accademia degli Stravaganti di Candia), dovè leggere al-
cune delle «egloghe» e dei «cunti»; e certo in quei circoli era
noto il lavoro al quale egli attendeva da più anni, tantoché
Francisco de Quevedo, che frequentò i letterati napoletani e fu
degli Oziosi, trasportò nel 1626 il titolo di Cuento de los cuentos
a una sua raccolta di parole e frasi volgari della lingua spa-
gnuola. L’una e l’altra opera del Basile, le Muse e il Cunto de li
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cunti, non videro la luce se non dopo la morte del loro autore,
dal 1634 al 1636, compiuta e già pronta per le stampe la pri-
ma, ancora imperfetta e manchevole di sviluppo e di finitura
in parecchie novelle, specie delle ultime giornate, e di una ge-
nerale revisione, la seconda.
Con la disposizione d’animo che abbiamo accennata di
sopra, col moralismo satirico che già si era espresso nelle Mu-
se napolitane, e per di più con la superiorità del letterato di me-
stiere che foggia una materia in cui si compiace bensì ma di
cui ha sempre presente la tenuità e l’umiltà, e perciò vi scher-
za intorno, adornandola capricciosamente e poi a un tratto
svelandola nella sua povertà o nudità, il Basile si dié a narrare
le fiabe tradizionali del popolo. E questa permeante soggetti-
vità era la condizione necessaria perché la materia di quelle
fiabe diventasse cosa d’arte. Così com’esse sono d’ordinario
narrate dal popolo, hanno smarrito, quando pur l’ebbero, la
loro vita poetica originaria, l’afflato che potè dar loro chi pri-
ma immaginò e compose questa o quella di esse; e somigliano
agli scialbi e materiali riassunti, coi quali si espone il «fatto»
di una novella o di un romanzo. Da ciò l’insipidezza ordinaria
delle fiabe stenograficamente raccolte dai folkloristi o demop-
sicologi: documento bensì di dialetti, di costumi, e, se si vuo-
le, di miti, ma ben di rado opere di poesia; e, in effetto, quelle
raccolte non sono diventate mai libri di lettura, salvo che non
siano state più o meno rielaborate o ritoccate con artistico sen-
timento.
A questo giudizio si oppone, a dir vero, il pregiudizio che
potrebbe denominarsi romantico, circa la poesia e la novelli-
stica popolare, onde si postula un’«anima popolare», o uno
«spirito ingenuo», di cui le fiabe sarebbero prodotto e a cui
bisognerebbe saperle ricondurre quando ne sono state allonta-
nate per alterazione e corruzione. Ma quello «spirito ingenuo»
e quell’«anima popolare» o fan tutt’uno con la già detta acci-
dentalità e materialità della tradizione, cioè con la mancanza
di spirito, o, quando vengono messi in opera da ingegni arti-
stici, si ritrovano nient’al- tro che quel «der Herren eigner
Geist», di cui parlava Faust, nel quale le fiabe «sich bespie-
geln». Sta di fatto che nessun ingegno artistico si è mai atte-
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nuto all’oggettività delle fiabe popolari; e, sessantanni dopo il
Basile, Charles Perrault, scrivendo i Contes de ma mère l’Oye,
assai vi mise di francese del gran secolo, e i critici francesi
percepiscono in quei Chaperon rouge e Chat botté e Petit Poucet
e Cendrillon e negli altri, cosi candidi all’apparenza, il raziona-
lismo cartesiano, e l’esperienza, e altresi la malizia, dell’uomo
di mondo, e taluno vi ha visto perfino una lieve caricatura del-
la materia semplice e popolare: il che non diminuisce, e anzi
concorre a formare, il loro particolare incanto. Similmente il
drammaturgo delle fiabe, Carlo Gozzi, vi portò dentro il suo
amore per il pittoresco, che stringeva in unico abbraccio i per-
sonaggi fiabeschi e le maschere della commedia dell’arte, e
qua e là v’introdusse la sua polemica letteraria e politica con-
tro novatori ed enciclopedisti. Allo stesso modo si comporta-
rono il Tieck, il Platen e gli altri imitatori tedeschi del Gozzi,
le cui opere, discutibili, come certamente sono, al pari di quel-
le del veneziano, non vengono per altro all’onore della discus-
sione se non appunto per le prove che tenta in esse la sogget-
tività poetica dei loro autori. Del resto, queste cose, che i cri-
tici hanno talvolta dimenticate o ignorate, non ignora il popo-
lo, che chiede che le fiabe gli siano rimesse a nuovo dai suoi
rapsodi, e dice per proverbio: «La novella non è bella, se so-
pra non ci si rappella».
E per questo il Cunto de li curiti è un libro vivo e non ha
che vedere con una mera raccolta di fiabe siciliane, toscane o
veneziane, come se ne hanno ora tante, e piuttosto si ricon-
giunge idealmente alla letteratura italiana d’arte che aveva col
Pulci, col magnifico Lorenzo, col Folengo, e per alcuni rispet-
ti col Boiardo e con l’Ariosto, preso a rifoggiare celiando, la
materia dei romanzi cavallereschi e della letteratura popolare,
e, in certo senso, è l’ultima opera schietta di questa linea, ve-
nuta fuori in ritardo a Napoli, non più nell’ambiente della Ri-
nascenza, ma in quello del seicento e del barocco. Il barocco
vi entra dappertutto; e il Basile non si sta pago a dignificare i
curiti degli orchi e delle fate presentandoli nella disposizione
diventata classica mercé il classico Decamerone, e dando il po-
sto, che già tennero Pampinea e. Fiammetta e Neifile ed Elisa,
alle sue Zeze e Ciulle e Pope e Ciommetelle, ma li cosparge
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tutti dei più forti olezzi della letteratura secentesca. Non sorge
l’Alba e non tramonta il Sole, in quei racconti, che egli non
trovi un nuovo e bizzarro modo di metaforeggiare quelle fasi
del giorno con perifrasi di questo genere: «All’alba, non ap-
pena gli uccelli gridarono: Viva il Sole!»; «quando il Sole u-
sci a sciorinarsi per mandar fuori l’umido assorbito nel fiume
dell’India»; «quando il Sole con le ginestre d’oro dei raggi
spazza le immondizie della Notte dai campi innaffiati
dall’Alba»; «quando l’Alba esce a cercare uova fresche per
confortare il vecchierello amante suo» ovvero: «all’ora in cui
le palle indorate, con le quali il Sole gioca pei campi del Cie-
lo, prendevano la corsa inclinata verso l’occaso»; «quando il
Sole, come dama genovese, si mette il taffettà nero attorno al-
la faccia»; «quando la Notte si leva ad accendere le candele al
catafalco del cielo per le pompe funerali del Sole»; «quando
la Terra spande un gran cartone nero per raccogliere la cera
che gocciola dalle torce della Notte»; e via. Di tali immagini
se ne contano molte decine; e altre similmente, sempre varie,
di cupi boschi e di rumoreggianti ruscelli e fiumi e di zampil-
lanti fontane. I suoi re, le sue regine, e i principi e le princi-
pessine, e i suoi rustici e massari e contadinelle, esprimono i
loro affetti con introduzioni, progressioni, reiterazioni, pero-
razioni, con acutezze e bisticci e richiami eruditi, conformi al-
le regole e ai modelli dei trattati di rettorica fiorita. «Or va,
t’inforna, dea Ciprigna! — esclama il principe, ammirando la
bellezza della fata che gli è venuta a dormire accanto. — Va’
t’impicca, o Elena! Tornatene a casa tua, o Fiorella! Le bel-
lezze vostre sono inezie a fronte di questa bellezza a doppia
suola, bellezza compita, intera, assodata, massiccia, ben pian-
tata; di questa grazia meravigliosa, grazia di Siviglia, eccel-
lente, incantevole, solenne... O sonno, o dolce sonno, versa
altri papaveri sugli occhi di questa bella gioia! Non mi guasta-
re il gusto di contemplare, a lungo quanto io desidero, questo
trionfo di bellezza! O bella treccia, che m’annoda! O begli oc-
chi, che mi scaldano! O belle labbra, che mi ristorano! O bel
petto, che mi consola! O bella mano, che mi trafigge! Dove,
dove, in quale officina delle meraviglie della natura si scolpi
questa viva statua? Quale India forni l’oro per lavorare questi
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capelli? Quale Etiopia l’avorio per fabbricare questa fronte?
Quali maremme i carbonchi per comporre questi occhi? Quale
Tiro la porpora da invermigliar questa faccia?...». E l’altro
principe, che ha tra le sue mani la leggiadra pianella, sfuggita
a Cenerentola: «Se il fondamento e cosi bello, che sarà mai la
casa? O bel candeliere, dove è stata infissa la candela che mi
consuma! O treppiede della bella caldaia, dove bolle la mia
vita! O bei sugheri, attaccati alla lenza d’amore, con la quale
ha pescato quest’anima! Ecco, io vi abbraccio e vi stringo, e,
se non posso giungere alla pianta, adoro le radici; e, se non
posso attingere i capitelli, bacio le basi! Voi già foste ceppi di
un bianco piede, e ora siete tagliuola di un cuore addolorato!
Per virtù vostra, colei, che tiranneggia la mia vita, era alta un
palmo e mezzo di più; e per voi cresce altrettanto in dolcezza
questa mia vita, mentre vi guardo e vi possiedo!». Talvolta il
personaggio non trascura nemmeno di collocarsi nel luogo
adatto, nella scena ben disposta per l’effusione dei suoi senti-
menti, e, come la principessa Renza, se ne va sotto un gelso, e
all’ombra di quelle foglie recita il suo stilizzato lamento. Ab-
bondano le iperboli, spinte a tal estremo che svaporano
nell’indicibile e nell’ineffabile; e le particolareggiate descri-
zioni di bellezze e di bruttezze, che hanno l’aria d’inventari,
ostinata- mente riempiti con la ricerca di quanto si possa con-
cepire e dire di più attraente o di più ripugnante. Le metafore,
ora stravaganti ora sottili, si susseguono senza tregua. Il prin-
cipe e il finto fraticello s’incontrano, attaccano discorso e pro-
seguono insieme il cammino, discorrendo: «col ventaglio del-
le chiacchiere sventolandosi pel caldo della via». Il gatto che
ha beneficato Gagliuso e ne scopre ora la gelida ingratitudine,
lo rimbrotta aspramente e gli volta le spalle; e quello gli va
dietro, procurando di rabbonirlo «col polmone dell’umiltà»:
col polmone, che è il cibo che nelle case napoletane si dà ai
domestici gatti e che essi attendono bramosi e impazienti.
Penta, scacciata in esilio col bambinello, «si toglie in braccio
il suo cetriuolo, che innaffia di latte e di lacrime». E non me-
no frequenti sono le voltate scherzose, e la regina morente
raccomanda al marito di prendere in moglie la buona fanciulla
monca, e il marito, pur commosso com’è, alla proposta della
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moglie è attraversato da un’immagine buffa e pensa senza dir-
lo: «Sta bene: se dovrò riammogliarmi, prenderò volentieri la
monca, perché delle cose tristi, come sono le donne, giova
prendere il meno che si può».
Volle il Basile fare, con questi modi, la satira della lettera-
tura barocca dei suoi tempi? Cosi fu creduto e sostenuto nel
settecento da Luigi Serio; ma è un’intenzione da escludere af-
fatto, come comprovano altresì le opere del Basile in lingua
italiana, che il Serio certo non conosceva, del più goffo stile
barocco. Il Basile non disistimava, e anzi altamente pregiava,
le forme della letteratura del suo tempo, egli, satellite del gran
Marino; ma, nel raccontar le sue fiabe, se ne valeva a fin di
giuoco, al modo stesso che, vezzeggiando e giocherellando
con un bimbo, e procurando di farlo ridere e gioire, gli si cal-
ca sulla testolina un cappello a staio o gli si pone sul naso un
paio d’occhiali: il che non vuol dire disprezzo e satira dei
cappelli a staio o degli occhiali, e molto meno dei bimbi. E,
tuttavia, egli riesce con ciò, inconsapevolmente e artistica-
mente, a un ironizzamento del barocco, il quale, checché ne
dicano i suoi odierni esaltatori, è insopportabile quando è fatto
sul serio, pesante e vacuo al tempo stesso, e diventa non solo
tollerabile, ma piacente e festoso, quando è percorso da un
lampo di malizia, avvivato da una fontanella di buon umore.
Sotto questo rispetto, si potrebbe persino affermare che il Pen-
tamerone del Basile sia il più bel libro italiano barocco, quale
non è certo il verboso e gonfio Adone: il più bello, appunto,
perché il barocco vi esegue una sua danza allegra e vi appare
per dissolversi: fu già torbido barocco, ed è ora diventato lim-
pida gaiezza.
Questo barocco gaio vale a tener lo spirito dell’autore e
dei lettori al disopra della materia delle fiabe, in una continua
distinzione tra cultura e incultura, tra mente evoluta e mente
rozza, tra letterato e volgo: metodo che sarà debitamente inte-
so e particolarmente gustato da chi conosce e disama le sman-
cerie e le affettazioni della letteratura popolareggiante, nella
quale gli adulti procurano invano di rifarsi bambini e riescono
solo a scontraffarsi in piagnolosi pedantuzzi del semplice e
dell’ingenuo. Ma non impedisce, quel metodo, l’umana com-
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partecipazione ai casi narrati nelle fiabe, che il Basile presenta
con plastica fantasia, tutta concreta e particolareggiata (susci-
tando anche qui il ricordo dei Pulci e dei Folen- ghi), e insie-
me con sentimenti di trepidazione, di compassione, di ammi-
razione, di aborrimento. Egli vi fa vedere un fascio di legna,
che, montatovi a cavalcioni l’uomo fortunato a cui ogni desi-
derio diventa realtà, si mette in moto come un cavallo, trotta,
caracolla, fa salti e corvette, seguito dallo schiamazzo dei
monelli, mentre le donne si affacciano curiose alle finestre: o
l’accolta di tutta la pezzenteria, che il re chiama a banchetto
nel suo palagio, e che si assidono gravi e contenti alla mensa,
«come altrettanti bei conti»; o, alla cottura del cuore del dra-
gone marino e all’odore che esso tramanda, il prodigioso in-
gravidarsi della cuoca e di tutti gli arredi della stanza, che par-
toriscono i loro simili e piccini, la tavola un tavolino, la tra-
bacca un lettuccio, le sedie le sedioline, e perfino il càntero un
bel canterello verniciato, che era una delizia; o le operazioni
di perforate trincee e gli stratagemmi che il topo e lo scara-
faggio compiono per giungere fino al corpo del grosso signore
tedesco, di cui vogliono impedire le nozze; o Forteschiena,
che si carica sul resistente dorso tutte le ricchezze dello stato e
dei privati; o Parmetella, che corre, gridante e smarrita, dietro
gli strumenti musicali, che ha lasciati sfuggire dalla cassetta, e
che ora volano e suonano per l’aria. E talora vi consola con
una fresca scena campestre e boschiva, come di Nella che,
nella notte silenziosa, arrampicata sull’albero, sta ad ascoltare
la conversazione che si svolge nell’erma casa dell’orco; o del-
la principessina che esce dalla porta della città, nella notte, ri-
schiarata dalla luna, e si accompagna con una volpe, e insieme
con la volpe dorme sotto una tenda di foglie, sopra un mate-
rasso di tenera erbetta, presso una fontana gorgogliante, e
all’alba, svegliandosi, indugia ad ascoltare il canto degli in-
numeri uccelli che posano sugli alberi, e si diletta del loro
cinguettio.
Ma altresì il Basile vi fa sentire la schiva onestà delle sue
fanciulle, perseguitate dalla cattiveria e rimunerate dalla buo-
na fortuna: come di Viola che, messa a pericolo dalla zia
mezzana e salvata dalla sua risolutezza, va difilata alla vec-
14
chia e le taglia gli orecchi per castigo; e di Penta, che si fa
troncare le belle mani, a cagion delle quali il fratello si era ac-
ceso di mala passione per lei, e gliele manda in dono in un ba-
cile; e di Sapia, che sfugge a tutte le insidie con cui le sorelle
procurano di farla cadere dov’esse erano cadute. Vi fa ammi-
rare il coraggio della intelligente figliuola della baronessa,
che, col dare uno schiaffo al figlio del re, lo sveglia a vergo-
gna della sua ostinata ignoranza e lo redime, e poi ne sostiene
imperterrita le vendette, e, sagace, lo lega infine a sé. Vi rin-
nova con grazia la cara commedia dei due che si amano e
sempre si cercano per battibeccare come nemici, con motti e
tiri dispettosi, simili al Benedick e alla Beatrice shakespearia-
ni. Vi riempie di tenerezza per le sue bambine poverelle, che
si levano di bocca la ciambella per darla alla vecchia cenciosa
che l’ha chiesta, e che, messe innanzi alla fortuna e alla ric-
chezza, si contengono modeste e gentili. Di mezzo a un grup-
po di femmine disoneste e feroci, egli vi distacca a un tratto
una di esse, la più giovane, che prova pietà e si ritrae
dall’uccisione della bella fanciulla, loro rivale negli amori del
principe. Vi dà un brivido di terrore per la vecchia mendican-
te, a cui uno scherzo crudele manda in frantumi la pignatta di
fagiuoli a stento accattati, e che muore di fame, e ricompare a
un tratto, ombra infesta, al principe spensierato nel mezzo del
suo festino di nozze. Vi rappresenta in Corvetto la feroce im-
placabile invidia dei cortigiani pel favorito del re e le sempre
nuove invenzioni che escogitano e mettono in opera per per-
derlo. Vi ritrae la gioia di Penta, che ha riavuto il marito e gli
gira attorno come una cagnolina che scodinzola per avere ri-
trovato il padrone. Vi presenta quasi il miracolo della materni-
tà, nel racconto della bella dormente nel bosco, resa madre nel
sonno, e alla quale, sempre dormente, i due bambini, che met-
te al mondo, Sole e Luna, vengono attaccati al petto, ed essi,
cercando il capezzolo, le suggono invece il dito e ne traggono
la lisca fatale, che l’aveva fatta cadere in letargo, e la ridesta-
no alla vita. Vi adombra il misterioso fascino della poesia in
quel principe, che ha perso la memoria della donna amata e
sente dalla bocca di lei, non riconosciuta e travestita, la can-
zone del «bianco viso», e, non sa esso stesso perché, ne è tutto
15
penetrato di dolcezza e di una vaga bramosia aspettante, e non
si stanca mai di farsi ripetere quel canto.
Sono questi alcuni tra i molti motivi sentimentali che ri-
suonano in queste fiabe, sia che il Basile li prenda dal popolo
e li ravvivi, sia che ve li introduca di proprio, sempre appro-
fondendo e rendendo umano il nudo e schematico fiabesco. E
all’uopo ravvicina il fiabesco alla vita vissuta, alla vita ordina-
ria, e a quella particolare del suo tempo o della sua Napoli; e
l’orca vi si configura a volte come una contadina gelosa del
suo orto, feroce nel proteggere la sua proprietà, vendicativa
contro chi ha messo le mani nel suo; o altre volte la si ascolta,
a sera, a chiacchierare durante la cena col marito che torna
dalle quotidiane faccende e al quale essa domanda che cosa si
dice e che cosa accade nel mondo; e Cenerentola, fastosamen-
te abbigliata nel fastoso cocchio fornitole dalla fata, col suo
codazzo di servitori e paggi, è somigliata a una bella cortigia-
na napoletana al proibito passeggio di Chiaia, che gli sbirri
hanno sorpresa e attorniata e conducono al carcere; e Cienzo
va in esilio da Napoli per avere involontariamente fracassato
la testa al figlio del re in una delle sfide a sassi o «petriate»,
che si usavano all’Arenacela; e le schiave more hanno i mo-
vimenti e il parlare delle tante schiave, che si vedevano allora
nelle case di Napoli, per effetto dei corseggi contro i barbare-
schi; e Rosella, la figliuola del Gran Turco, che amore ha
condotta in terra di cristiani, è corteggiata come una bella av-
venturiera dai baroni napoletani, i quali, per farle i doni che
essa chiede, s’indebitano con gli usurai e tolgono a prestito e a
scrocco; e le sorelle di Sapia, che non si rassegnano alla clau-
sura imposta loro dal padre, sono due indemoniate «fenestre-
re» o «finestraiuole», appunto come le irrequiete ragazze dei
paesi meridionali, e, poiché le finestre sono state inchiodate,
si arrampicano agli abbaini, per sporgere la testa, dialogare e
civettare.
Gli affetti e il sentimento morale del Basile, che traspaio-
no nel modo in cui sono toccati i personaggi e i casi, prendo-
no altresì forma riflessiva nelle introduzioni e nelle conclu-
sioni di ciascuna fiaba, piene di sentenze sull’ingratitudine, la
gelosia, l’invidia, l’incoercibile curiosità delle donne, la loro
16
astuzia, la fortuna che predilige gl’ignoranti e i poltroni, e nei
motti che sottolineano i racconti o che sono messi in bocca ai
personaggi. Ma il Basile ha tanto da dire in proposito che que-
sti accenni occasionali e sparsi non gli bastano, e sente il bi-
sogno di riversare la sovrabbondanza del suo animo in quattro
dialoghi o «egloghe», che seguono ciascuna a ciascuna delle
prime quattro giornate, e nelle quali satireggia la diversità tra
l’apparenza e la realtà (La coppella), il lenocinlo di parole con
cui si presenta il male come bene e il bene come male (La tin-
tura), il fastidio a cui viene ogni umana ambizione e ogni di-
letto (La stufa), e la cupidigia universale, per cui tutti rapineg-
giano e profittano (La volpara o L’uncino). Sono ritratti morali e
quadri di costume, in istile tra iperbolico e grottesco, ma dise-
gnati con vigore, che fanno pensare ai rami di Giacomo Cal-
lot. Vi passano sott’occhi il gran signore, il militare, il nobile
che vanta la prosapia, il borioso, il cortigiano, il bravaccio,
l’adulatore, la donna di piacere, il poeta, l’innamorato,
l’astrologo, l’alchimista; e l’avaro, che dalla gente è lodato
per economo, e il vigliacco, che è lumeggiato come prudente,
e chi vive a spese della moglie che vien festeggiato uomo di
garbo, e, per contro, l’uomo di cuore e di onore, che è scredi-
tato per scavezzacollo, e il disdegnoso delle cose plebee, che è
biasimato per selvatico; e il barone oppressore e i suoi agenti
che vendono la giustizia, e il mercante e il sarto e l’oste e i lo-
ro imbrogli; e tante e tante altre figure e tipi, e, infine, la delu-
sione che si trova nell’amore, nelle armi, nei divertimenti, ne-
gli spettacoli, nelle arti, salvandosi solo dalla generale svalu-
tazione la virtù e la ricchezza o potenza, che danno all’uomo
le sole vere soddisfazioni nel mondo.
Al Cunto de li curiti, come libro da far ridere e quasi teso-
retto di curiosi vocaboli e locuzioni plebee, non mancò qual-
che fortuna nel seicento, testimoniata dalle sei ristampe che
seguirono l’edizione originale, dalla imitazione che ne tentò il
Sarnelli nella Posilecheata; e, fuori Napoli, dalle parecchie sue
parti che il Lippi adoprò nel Malmantile riacquistato, dalle ispi-
razioni che ne trassero il Rosa e il Menzini per le loro satire, e
dalle non infrequenti citazioni, specie delle egloghe, che
s’incontrano negli scrittori e, tra gli altri, nel Redi. Anche nel
17
settecento fu ristampato quattro volte nel testo dialettale, ebbe
nel 1754 una cosiddetta traduzione o riduzione italiana, inde-
gna pur d’essere ricordata, ma altresì una leggiadra riduzione
in bolognese nel 1713 per opera delle due sorelle Manfredi e
delle due Zanotti, sotto il titolo La ciaqlira dia banzola, e porse
materia a Carlo Gozzi per alcune delle sue fiabe drammatiche,
e, indirettamente, attraverso alcuni estratti inseritine nella Bi-
bliothèque des romans, a un poemetto fiabesco-filosofico del
Wieland. La critica, per altro, non era più, o non era ancora, in
grado d’intenderne lo spirito, come può vedersi dalla stronca-
tura che ne fece il Galiani nel suo libro Del dialetto napoletano,
non meno che dalla stessa apologia che, contro il Galiani, ne
tessè il Serio; e la sua originalità e il suo particolare carattere
artistico vennero riconosciuti solamente (ed è questo un altro
caso della benefica efficacia esercitata dalla critica germanica
e romantica per il migliore giudizio dei nostri scrittori) da Ia-
copo Grimm, nel 1822, nell’appendice critica alla raccolta dei
Kinder und Hausmärchen. Clemente Brentano, circa quel tem-
po, tradusse o imitò parecchie di quelle fiabe. La lode del
Grimm generò poi la traduzione tedesca del Liebrecht e quella
inglese del Taylor, e stabili la riputazione che il libro del Basi-
le ha acquistata presso gli studiosi di novellistica e letteratura
popolare. Intanto, in Italia, esso era sempre piu negletto, e i
lettori, che ancora nel settecento aveva avuti in Napoli, veni-
vano meno coi nuovi gusti e con l’antiquarsi del dialetto nel
quale il libro era scritto; sicché non fu più ristampato. Perdurò
alcun tempo di più la riduzione bolognese, che ebbe quattro
ristampe nel corso dell’ottocento, l’ultima nel 1883; ma, infi-
ne, cedette anch’essa al mutamento dei gusti e del dialetto, ed
ora è uscita dal novero dei libri che si leggono.
Ben nel 1875 l’Imbriani, ingegno per taluni rispetti affine
a quello del Basile e compositore di bizzarre fiabe grottesco-
satiriche, scrisse uno studio sull’autore del Pentamerone, nel
quale mostrò di avere inteso il carattere e il pregio di
quest’opera singolare. Ma né le industrie dell’Imbriani, né
quelle mie, che nel 1892 ne intrapresi una nuova e più genui-
na edizione, illustrata nel dialetto e nel costume, valsero
all’effetto desiderato; e il mio tentativo di riedizione ottenne
18
scarsa fortuna e si arrestò al primo volume, e io mi udii dire
da amici, non solo di altre regioni ma napoletani, che essi, no-
nostante le mie note, non riuscivano a intendere o a leggere
quel testo con qualche facilità.
Ed ecco per quale ragione io, dalle mie indagini sulla let-
teratura secentesca ricondotto ora innanzi all’opera del Basile
e ripreso per essa dal giovanile affetto, non ho stimato oppor-
tuno di compiere o di rifare, almeno per ora, l’edizione del te-
sto dialettale, ma ho pensato che convenisse invece ridurlo a
forma italiana, come finora non era stato fatto, non potendosi
tenere in alcun conto la già accennata pseudotraduzione sette-
centesca ed essendo la versione del Ferri, pubblicata nel 1889
a uso dei fanciulli, un compendio e adattamento di solo diciot-
to fiabe, spogliate del loro carattere originale. Il Basile, come
si è detto, era un letterato aulico, e finanche uno studioso di
lingua e stile, che procurò edizioni delle rime del Bembo e del
Casa e di quelle inedite di Galeazzo da Tarsia, e compilò un
volume di annotazioni sui primi due di questi autori; e in ita-
liano mentalmente concepiva, e poi traduceva in dialetto per
vaghezza dell’in- sueto e per isfoggiare la ricchezza del ser-
mone partenopeo; onde il mettere in forma italiana la sua ope-
ra non è tanto darle una nuova veste, quanto ridarle quella
primitiva e connaturata, e (fatta la doverosa eccezione per le
eventuali deficienze del traduttore) in italiano essa accresce e
non perde virtù. Ho tradotto sulla rarissima edizione originale
del 1634- 36, spesso scorretta ma non alterata ad arbitrio co-
me accadde di quella del 1674, riveduta dal Sarnelli, e delle
altre che la esemplarono; e sono stato fedelissimo alle parole
del testo, cercando di non scemare la quantità, e di alterare il
meno possibile la qualità, delle immagini che contengono; ma
mi son condotto con piena libertà di rifacimento verso la sin-
tassi, che nel Basile è difettosa e spesse volte pessima, forse
principalmente perché l’opera fu stampata ancora incondita e
in molte parti quasi in abbozzo. Ho resistito alla tentazione,
alla quale altri sarebbe soggiaciuto, di sostituire per equiva-
lenza agli idiotismi napoletani vocaboli e frasi dell’uso fioren-
tino vivo; e mi sono studiato di lasciare al libro, non solo tutti
i suoi ornati barocchi, ma anche un certo sapore napoletane-
19
sco. E poiché il testo ha frequenti accenni e allusioni a cose e
costumi del tempo e paese suo, nelle note ho chiarito questi
riferimenti, si da far intravedere ai lettori, di là dal racconto
fiabesco, gli aspetti della realtà storica che il Basile aveva
nell’imma- ginazione.
Ho tralasciato, invece, affatto l’illustrazione comparativi-
stica delle fiabe, quantunque mi sarebbe stato agevole dar
compimento per lo meno alla «tavola dei riscontri», che ag-
giunsi alle due prime giornate nella mia edizione del 1892.
Con siffatta sorta di illustrazioni si sarebbe trasferita
l’attenzione all’astratta materia del libro del Basile, trattando-
lo come documento di demopsicologia, e non più nel suo in-
trinseco carattere di opera d’arte. Che cosa può importare al
lettore, al quale io indirizzo questa traduzione, di sapere, per
esempio, che la Mortella del Basile risponde alla Rosmarino
delle fiabe siciliane del Pitré e alla Mela delle fiabe toscane
dello stesso, e a Die Nelke della raccolta dei Grimm? o che
Vardiello è il Giufà e il Giucca delle dette raccolte del Pitré, e in
parte il n. 49 delle Novellae et Pabulae del Moriino, e un certo
capitolo del Bertoldino di Giulio Cesare Croce? o che la Vec-
chia scorticata è Donna Peppa e Donna Tura del Pitré, e tutte
quelle altre fiabe di simile argomento, siciliane, veneziane,
abruzzesi e tirolesi, che il Pitré ricorda? Non solo non può
importar nulla, ma servirebbe solo a infastidirlo, tirandolo i-
nopportunamente or di qua or di là, fuori del suo punto di
contemplazione. Del resto (si consenta che apra per un mo-
mento sul proposito il mio pensiero), io credo che il motivo
animatore di quelle comparazioni, che era di determinare
l’«origine delle fiabe popolari», sia non poco fantastico, e di
conseguenza abbia messo capo a teorie affatto arbitrarie, co-
me son quelle dell’origine indiana, o dell’origine primitiva e
selvaggia in quanto riflesso del costume di età remote, o della
origine mitologico-naturalistica: metodi e teorie sorti ai tempi
del fanatismo per la linguistica comparata e per la sua genea-
logia dei linguaggi e per la congiunta ricerca della prima sca-
turigine storica del linguaggio, e che dovrebbero andar sog-
getti a una crisi di revisione e di dissolvimento ora che la filo-
sofia e la scienza del linguaggio hanno preso nuovo avvia-
20
mento e si è a giusta ragione dichiarato il fallimento
dell’etimologismo fonetico e la vanità di ricercare nel campo
storico l’origine del linguaggio. Anche la questione
dell’origine delle fiabe è da convertire ormai nella storia di
ciascuna di esse, che è poi, a ogni suo passo, quella di una
creazione a nuovo. Certo, sarebbe talvolta attraente seguire
questa varia e intricata storia nei particolari; ma la cosa è assai
difficile e mal sicura, trattandosi di processi fantastici che si
svolgono quasi sempre fuori d’ogni osservazione e documen-
tazione, e che ebbero forse il loro periodo intenso in tempi
lontani, se non addirittura preistorici. I risultati, dunque, a cui
per questa parte si mette capo, di rado sono cosi concludenti
da compensare la fatica; e poi, fatica o non fatica, hanno sem-
pre piccola o niuna importanza. Dico piccola o niuna per chi
chiede quel che veramente interessa dell’uomo e della sua sto-
ria; che per l’erudito, si sa, come per il collezionista, tutto è
importante, che rientri nella sua collezione e nelle sue schede.
Ma pensino i lettori quel che stimano meglio su
quest’ultimo punto. A me importa che essi siano d’accordo
ora con me nel leggere il libro del Basile semplicemente come
opera d’arte.
18 dicembre 1924.
BENEDETTO CROCE
21
22
INTRODUZIONE
1
Giuoco che si fa dai fanciulli, tenendosi l’un l’altro per mano in cerchio,
e respingendo col moto dei piedi uno di loro che si sforza di entrare: chi lo
lascia entrare, va lui fuori del cerchio.
2
Giocolieri e saltatori mascherati, che, dice il CARO (Apologia, in Opere,
ediz. Le Monnier, p. 2o1), «per far meglio ridere vanno con quella camicia
pendente e con le calze aperte, facendo delle berte».
3
Cantante popolare e capo di suonatori, ricordato anche dal Del Tufo, dal
Cortese e dallo Sgruttendio. Dié il nome a una sorta di ballo.
4
Giuochi ginnastici
5
Cosi si chiamava la scimmia ammaestrata, che i giocolieri esibivano in
piazza.
6 II ballo della «Lucia» o della «Sfessania», introdotto a Napoli e che si
diceva proveniente da Malta.
1
Fu molte volte ristampata l’Opera nuova piacevole et da ridere de un
23
stoccata nel diaframma le avrebbe increspato al più leggiero
sorriso la bocca. Il povero padre, non sapendo che cos’altro
tentare, per un’ultima prova dié ordine che si aprisse dinanzi
alla porta della reggia una grande fontana d’olio, con questo
pensiero che la gente, che per quella strada passava in viavai
come formiche, allo schizzar dell’olio, per non ungersi i vesti-
ti, avrebbe fatto salti di grillo, sbalzi di caprio e corse di lepre,
scivolando e urtandosi, e a questo modo qualche caso sarebbe
nato da eccitare la figliuola a uno scoppio di riso.
Aperta dunque questa fontana, e stando Zoza alla finestra,
cosi ben composta che pareva tutta aceto1, venne per avventu-
ra una vecchia, che assorbendo con una spugna l’olio, lo
spremeva in un suo orciuolo. E mentre, dandosi un gran da fa-
re, eseguiva intenta questa operazione, un diavoletto di paggio
della corte tirò un sassolino cosi a segno che, colpito
l’orciuolo, lo ridusse in frantumi. La vecchia, che non aveva
peli sulla lingua, nè era usa a portare alcuno in groppa, rivol-
tasi al paggio, prese a dirgli: «Ah, moccicoso, frasca, merdo-
so, piscialetto, salterello di cembalo, falda al culo2, cappio
d’impiccato, mulo bastardo! Ecco che anche le pulci hanno la
tosse! Va’ che possa coglierti il parietico! Che tua madre ne
riceva la mala notizia! Che tu non veda il primo di maggio!3
Che ti sia data una lanciata catalana!4, o una strozzatura di fu-
ne, che non ne scorra sangue! Che ti vengano mille malanni a
vele gonfie! Che se ne disperda la semenza, furfante, guitto,
figlio di donna ingabellata5, mariuolo!».
1
Allusione alla favola di Argo e della vacca Io, furatagli da Mercurio.
27
sciva di vedere l’idolo del suo cuore, contemplava almeno le
mura del tempio in cui si chiudeva il bene da lei desiderato.
Ma un giorno, avendola notata Taddeo, il quale, come pipi-
strello, volava sempre attorno a quella nera notte della schia-
va, divenne aquila a guardar sempre fiso nella persona di Zo-
za, che era l’eccesso dei privilegi della natura e il «mi chiamo
fuori» 1 dai termini della bellezza. Di ciò avvedutasi la schia-
va, fece un chiasso di casa del diavolo, e, incinta com’era,
minacciò il marito con dirgli: «Se finestra non levare, mi pu-
gni a ventre dare e Giorgetiello acciaccare!». Taddeo, tenero
della sua prole, tremando come giunco per timore di darle al-
cun disgusto, si strappò, come anima dal corpo, dalla vista di
Zoza.
Costei, venendole meno anche quel po’ di ristoro alla de-
bolezza delle sue speranze, non sapendo alla prima qual parti-
to prendere, in tale estrema necessità si sovvenne dei doni del-
le fate. Apri la noce, e ne usci un nanetto grande quanto un
bamboccetto, la più graziosa figurina mai vista al mondo, che
si pose alla finestra e cantò con tanti trilli, gargarismi e passa-
volanti da sembrare un compar Biondo, da superare Pezzillo e
da lasciarsi addietro il Cieco di Potenza e il Re degli uccelli.
Per caso lo vide e lo udì la schiava, e se ne invaghi di maniera
che, chiamato Taddeo, gli disse: «Se non avere quel piccoletto
che cantare, mi pugni a ventre dare e Giorgetiello acciacca-
re!». Il principe, che s’era fatto metter la barda da bernagual-
là2, mandò subito a chiedere a Zoza se glielo voleva vendere;
e Zoza rispose che non era mercantessa, ma che, se lo accetta-
va in dono, lo prendesse pure, ché ben volentieri gliene faceva
presente. Taddeo, che era sempre in affanno per tener conten-
ta la moglie affinché portasse a luce il parto, accettò l’offerta.
Di là a quattro giorni, Zoza apri la castagna e ne venne
fuori una chioccia con dodici pulcini d’oro, che, posta sopra la
stessa finestra e vista dalla schiava, la trafisse di una voglia
1
La figura è tolta da certi giuochi di carte, in cui chi ha raggiunto i punti
richiesti per vincere, getta sul tavolino le carte che gli restano, dicendo:
«Mi chiamo fuori».
2
Cioè, dalla schiava moresca «Bernaguallà» era uno degli epiteti dati alla
Lucia nel ballo della «Sfessania», di costume barbaresco.
28
acutissima; onde, chiamato
Taddeo e additandogli quella cosa cosi bella, gli disse: «Se
quella chioccia non pigliare, mi pugni a ventre dare e Giorge-
tiello acciaccare!». E Taddeo, che si lasciava intimorire e do-
minare da cotesta cagna turchesca, mandò di nuovo a Zoza a
offrirle quel che le piacesse domandare per prezzo di cosi bel-
la chioccia. E ne ebbe la stessa risposta dell’altra volta, che se
l’avesse pure presa in dono, perché, a trattare in termini di
compravendita, sarebbero state parole al vento. E lui, che di
meno non poteva farne, lasciò che necessità scacciasse discre-
zione, e, portandosi via questo bel boccone, rimase stupito
della liberalità di una femmina, sesso di natura cosi avido che
non gli basterebbero tutte le verghe d’oro che vengono dalle
Indie.
Passarono altrettanti giorni e Zoza apri la nocciuola, dalla
quale usci una bambola che filava oro, cosa veramente da
strasecolare, che non appena fu posta alla medesima finestra e
dié nell’occhio alla schiava, questa chiamò ancora Taddeo e
gli ripetè la solita musica: «Se bambola non comprare, mi pu-
gni a ventre dare e Giorgetiello acciaccare». E Taddeo, che si
faceva girare come arcolaio e menar pel naso dalla superbia
della moglie, da cui si era lasciato cavalcare, non avendo ani-
mo di mandare a Zoza per la bambola, volle andarvi di perso-
na, ricordando i motti: «Non c’è miglior messo di te stesso»;
«Chi vuole vada e chi non vuole mandi»; e «Chi pesce vuol
mangiare, la coda si vuol bagnare». E, pregandola grande-
mente di perdonare l’impertinenza ai desideri di un’incinta,
Zoza, che se ne andava in solluchero alla presenza della ca-
gione dei suoi travagli, fece forza a sé stessa e si lasciò prega-
re e strapregare per trattenere la voga della barca e godere
maggior tempo della vista del signor suo, furatogli da una
brutta schiava. Alla fine, concedendogli la bambola come a-
veva fatto delle altre cose, prima di consegnargliela, soffiò a
quella figurina che avesse messo in petto alla schiava la vo-
glia di udire raccontar fiabe. Taddeo, che si vide la bambola
in mano, senza sborsare nemmeno un callo1, restò interdetto
1
«Uno dei centoventi a carlino»: cioè un callo, uno dei centoventi calli, o
29
per tanta cortesia, le offri stato e vita in cambio di quel favore
e, tornato al palagio, porse la bambola alla moglie.
La schiava se la recò in grembo per prenderne trastullo; ed
ecco che subito quella parve Amore in forma di Ascanio in
grembo a Didone, che le accese il fuoco in petto 1 ; perché cosi
caldo desiderio sorse nella schiava di udire fiabe che, non po-
tendo resistere e dubitando di toccarsi la bocca e fare figli cosi
queruli da infastidire un’intera nave di pezzenti2, chiamò al
solito il marito e gli ripetette ancora: «Se non venire gente e
fiabe contare, mi pugni a ventre dare e Giorgetiello acciacca-
re!».
Taddeo, per togliersi dattorno questa molestia3, ordinò di
gettare un bando, che tutte le donne del paese fossero venute a
lui in un dato giorno. E in quel giorno, allo spuntar della stella
Diana, che sveglia l’Alba ad ornare le strade per cui deve pas-
seggiare il Sole, tutte si trovarono al luogo destinato. Ma, non
piacendogli di tenere impedita tutta quella marmaglia per un
gusto particolare della moglie, oltre che soffocava a vedere
tanta folla, scelse in essa solamente dieci, le migliori della cit-
tà, che gli parvero le più svelte e chiacchierine; e furono Zeza
sciancata, Cecca storta, Meneca gozzosa, Tolla nasuta, Popa
gobba, Antonella bavosa, Ciulla musuta, Paola scerpellata,
Ciommetella tignosa e Iacova squarquoia4. E, scritti questi
nomi su una carta e licenziate le altre, egli e la schiava si leva-
rono di sotto al baldacchino e s’avviarono con passo misurato
1
Aristotele: ma la citazione è certamente burlesca.
2
«Avvisi» si dicevano allora i giornali manoscritti, e talora anche i
dispacci degli agenti diplomatici; e «gazzette» i giornali a stampa, che
allora cominciavano ad apparire.
3
Cioè, domestici. Ai servitori si davano a principio di settimana sette pani
(il pane si coceva il sabato e tale distribuzione aveva luogo la domenica)
per sette giorni; donde l’altro loro nome di «settepanelle».
31
A queste parole tutte accettarono con un cenno del capo il
comando di Taddeo; e intanto, poste le tavole e venuto il cibo,
si misero a mangiare, e, finito d’ingozzare, il principe fece
cenno a Zeza sciancata, che desse fuoco al pezzo. Zeza, fatto
un grande inchino al principe e alla moglie, cosi incominciò a
parlare.
32
GIORNATA PRIMA
LA FIABA DELL’ORCO
1
Cerretano o cantastorie popolare, per il quale vedi, in fine, nelle Note e
illustrazioni.
2
Tanto sono miserabili. Si può forse qui richiamare per analogia la frase
proverbiale, che si legge in testi fiorentini: «andar per la fava», che voleva
dire: «essere in grande povertà».
3
Comune in Terra di Lavoro (prov. di Caserta, circondario di Nola).
4
Par che sia da intendere: al piu facile dei giuochi, com’è quello di tirar
palle di neve.
33
Vedendo che non c’era speranza che Antuono1 (cosi si
chiamava il figlio) volgesse la testa a far bene, un giorno fra
gli altri, avendogli ben lavato la zucca senza sapone, dié di
mano a un matterello e cominciò a prendergli la misura del
giubbone.
Antuono, che, quando meno se l’aspettava, si vide stecco-
nare, pettinare e foderare, non appena che le potè sfuggir dalle
mani, girò le calcagna. E tanto camminò che, verso le venti-
quattro ore, quando per le botteghe di Cinzia cominciavano ad
accendersi le lucernette, giunse ai piedi di una montagna cosi
alta che cozzava con le nuvole.
Colà, sulla radice di un pioppo, presso una grotta lavorata
di pietra pomice, era seduto un orco: o mamma mia, quanto
era brutto! Era nano e sconcio di corpo, aveva il capo più
grosso d’una zucca d’india, la fronte bernoccoluta, le soprac-
ciglia congiunte, gli occhi stravolti, il naso schiacciato, con
due narici che parevano due chiaviche maestre; una bocca
quanto un palmento, dalla quale uscivano due zanne che gli
giungevano ai malleoli; il petto peloso, le braccia di aspo, le
gambe piegate a vòlta, e i piedi larghi di papera. Insomma, pa-
reva un diavolo, un parasacco, un brutto pezzente e una
mal’ombra spiccicata, che avrebbe sbigottito un Orlando, at-
territo uno Scannarebecco2, e fatto cadere in deliquio il più
abile schermitore3.
Ma Antuono, che non si moveva a giro di fionda, fatto un
inchino col capo, gli disse: «Addio, messere, che si fa? Come
stai? Vuoi niente? Quanto c’è da qui al luogo dove debbo an-
dare?». L’orco, che senti questo discorso di palo in frasca, si
mise a ridere, e, poiché gli piacque l’umore della bestia, gli
disse: «Vuoi stare a padrone?». Antuono rispose: «Quanto ne
1
«Sant’Antuono» è, nel dialetto napoletano, non il santo di Padova, ma
sant’Antonio abate. Il nome si usava anche al traslato in senso di «scioc-
co».
2
In questa forma correva il nome del famoso Giorgio Castriota, detto lo
Skanderbeg, popolare assai nella tradizione napoletana pei rapporti che
aveva avuti col re di Napoli, Ferrante I d’Aragona.
3
Letteralmente: «una falsa pedata», cioè uno schermitore o lottatore che
sapeva dare il gambetto.
34
vuoi al mese?». E l’orco: «Attendi a servirmi onoratamente,
che saremo d’accordo e farai buona vita».
Cosi, conchiuso questo parentado, Antuono rimase a ser-
vir l’orco, a casa del quale il mangiare si gettava per la faccia
e, quanto al faticare, si stava da poltrone; di modo che, in
quattro giorni, si fece grasso come un turco, tondo come un
bove, ardito come un gallo, rosso come un gambero, verde
come un aglio e grosso come una balena, e cosi tarchiato e
con la pelle tesa che quasi non poteva più aprire gli occhi.
Non erano passati due anni, quando, venutagli in fastidio
tanta grascia, gli nacque voglia e desiderio grande di fare una
corsa a Marigliano1; e, pensando alla casetta sua, si consuma-
va ed era quasi tornato all’aspetto di prima. L’orco, che gli
vedeva fin nelle viscere e conosceva il prurito che lo faceva
stare come sposa malcontenta, se lo chiamò da parte e gli dis-
se: «Antuono mio, io so che hai grande struggimento di rive-
dere le carni tue; e perciò, amandoti come le mie pupille, son
contento che faccia una gita e appaghi il tuo gusto. Prendi,
dunque, quest’asino che ti toglierà la fatica del viaggio; ma
sta’ attento a non dir mai: Arri, cacauro!, ché te ne pentiresti
per l’anima di mio nonno».
Antuono, preso il ciuco, senza dire buon vespro, vi sali
sopra e parti di trotto. Ma non aveva fatto un centinaio di pas-
si che, smontato dal somaro, si dié a gridare: Arri, cacamo! E
aveva appena aperto la bocca che quel sardagnuolo cominciò
a evacuare perle, rubini, smeraldi, zaffiri e diamanti, grosso
ognuno quanto una noce. Antuono, con un palmo di gola a-
perta, guardava a quelle belle uscite di corpo, a quelle superbe
scariche, a quelle ricche dissenterie dell’asinelio; e, con giubi-
lo grande, riempita una bisaccia di quelle gioie, rimontò in
groppa e, toccando coi piedi di buona lena, giunse a
un’osteria.
Smontato, la prima cosa che disse all’oste fu: «Lega
quest’asino alla mangiatoia; dagli da mangiare con abbondan-
za; ma bada, non dire: Arri, cacamo!, ché te ne pentiresti. E
1
Il testo dice: «a Pascarola» che è un casale nel territorio aversano. Ma è
chiaramente una svista per «Marigliano», indicato prima.
35
conservami queste cosette in luogo sicuro». L’oste, che era
dei quattro dell’arte1 e maestro di malizia, udita questa avver-
tenza inaspettata, e vedute le gioie che valevano migliaia,
venne in curiosità di conoscere quale effetto facessero quelle
parole. E perciò, messo innanzi ad Antuono un buon pranzo e
datogli da bere quanto più potè, lo fece ficcare tra un saccone
e una schiavina; e non appena gli vide calar le palpebre e rus-
sare a tutto spiano, corse alla stalla e disse all’asino: Arri, ca-
camo! E l’asino, con la medicina di queste parole, esegui la
solita operazione, dando la stura al corpo con diarree d’oro e
torbidi di gemme.
Al vedere questa evacuazione preziosa, l’oste formò dise-
gno di scambiare l’asino e d’impastocchiare quel pacchiano
d’Antuono, stimando facile cosa d’accecare, legare, inganna-
re, imbrogliare, infinocchiare, mettere in sacco e dare a vedere
vesciche per lanterne a un maialone, marrone, maccarone, pe-
corone, semplicione, com’era costui venutogli tra le mani.
Antuono, svegliato che fu la mattina, quando l’Aurora esce a
gettare il pitale del vecchio suo, pieno di arenella rossa, alla
finestra d’oriente, stropicciatisi gli occhi con le mani, stirate
le braccia per mezz’ora, fatta una sessantina di sbadigli e di
scoregge in forma di dialogo, chiamò l’oste, dicendogli:
«Vieni qua, camerata: conti spessi e amicizia lunga; amici noi
e guerra tra le borse: fammi il conto e pagati». E cosi, tanto
per pane, tanto per vino, questo di minestra, quello di carne,
cinque di stallaggio, dieci di letto e quindici di mancia, sborsò
i quattrini; e, presosi l’asino falsario con un sacchetto di pietre
pomici in cambio delle pietre da anello, parti di buon passo
verso il suo paese.
Giunto a Marigliano, innanzi di metter piede alla sua casa,
cominciò a gridare, come scottato dalle ortiche: «Corri,
mamma, corri; ché siamo ricchi! Spiega asciugamani, stendi
lenzuola, spandi coperte, ché vedrai tesori!». La mamma, con
grande allegrezza, aperto un cassone, dove serbava il corredo
delle figlie, ne trasse lenzuola fini che se soffiavi volavano,
1
Nell’ordinamento delle corporazioni d’arti e mestieri c’erano a capo i
consoli e i «quattro delle arti».
36
tovaglie odorose di bucato, coperte di colori che ti saltavano
in faccia, e ne fece una bella distesa. E Antuono vi condusse
sopra l’asino e cominciò a intonare: Arri, cacauro! Ma, per
Arri cacauro che dicesse, l’asino faceva tanto conto di quelle
parole quanto ne fa del suono della lira1. Pure, tornando a re-
plicarle tre o quattro volte, e tutte gittate al vento, dié di piglio
a un grosso randello e si mise a battere la malcapitata bestia; e
bastonò e bastonò tanto che il povero animale si senti scio-
gliere il corpo e fece una bella scodellata gialla su quei panni
bianchi.
La misera Masella, che vide questo successo, e, quando
faceva fondamento di arricchire la povertà sua, si trovò innan-
zi un ben altro fondamento, cosi liberale da ammorbarle tutta
la casa, afferrò un legno, e, non dando tempo ad Antuono di
mostrarle le pietre pomici, gli somministrò una buona basto-
natura. E quello subito spulezzò alla volta dell’orco.
L’orco lo scorse che s’avvicinava più di trotto che di passo; e,
poiché, come fatato, sapeva quanto gli era accaduto, lo rim-
proverò ben bene di essersi lasciato beffare da un oste, chia-
mandolo scioccone, «mamma mia, mettimi in bocca», bab-
bione, allocco, semplicione, minchione, villanzone e scimuni-
to, che, in cambio di un asino lubrico di tesoro, si era fatto da-
re un bestia feconda di escrementi ordinari. Antuono, inghiot-
tendo questa pillola, giurò che mai- più, mai più non si sareb-
be lasciato gabbare e burlare da persona vivente.
Ma, dopo un anno, gli si rinnovò il medesimo dolor di ca-
po, languendo pel desiderio di rivedere i suoi. L’orco, ch’era
brutto di faccia e bello di cuore, gli accordò anche questa vol-
ta la licenza, e gli fece dono di un bel tovagliuolo, dicendogli:
«Porta questo a tua madre; ma avverti, non ti condurre da ciu-
co come facesti con l’asino; e, fintanto che non arrivi a casa
tua, non dire né Apriti né Serrati, tovagliuolo, perché, se ti ac-
cade qualche altra disgrazia, il danno è tuo. Orsù, va’ col buon
anno e torna presto».
Antuono parti: ma si era di poco allontanato dalla grotta
che pose il tovagliuolo a terra e disse: Apriti tovagliuolo! E
1
«Asinus ad lyram»: proverbio latino.
37
quello s’apri e subito vi si videro sopra, in folla, oggetti di
lusso, galanterie, preziosità, cose bellissime e stramirabili. E
allora Antuono pronunciò: Serrati, tovagliuolo!, e, chiusa
dentro ogni cosa, si avviò alla medesima osteria dell’altra vol-
ta. Dove giunto, disse all’oste: «Prendi, conservami questo
tovagliuolo, e bada a non dire: Apriti e sérrati tovagliuolo!».
Colui, ch’era un furbo raffinato, rispose: «Lascia fare a me»;
e, datogli assai da mangiare e fattagli afferrare la bertuccia per
la coda ", lo mandò a dormire. Poi prese il tovagliuolo, pro-
nunciò le parole, e si vide innanzi tante cose preziose da stupi-
re. Perciò, trovato un altro tovagliuolo simile, lo sostituì a
pennello.
Antuono, svegliatosi e cavalcando di buon trotto, giunse
alla casa della madre, e gridò: «Ora si che daremo un calcio in
faccia alla pezzenteria! Ora si che porremo rimedio a cenci,
stracci e brandelli!». E, steso il tovagliuolo a terra, disse: «A-
priti, tovagliuolo!». Ma poteva dirlo da oggi a domani, che ci
perdeva il tempo, e quello non dava il minimo segno di aprir-
si. Allora, vedendo che la faccenda andava al contrario, disse
alla madre: «Che il Cielo sia benedetto! L’oste me l’ha fatta
un’altra volta. Ma va’, ché lui ed io siamo due. Meglio che
non fosse nato! Meglio che fosse caduto sotto le ruote d’un
carro! Che io possa perdere il miglior mobile di casa mia, se,
quando passo da quella taverna, per pagarmi delle gioie e
dell’asino rubato non gli riduco in cocci vasi, scodelle e bic-
chieri!» Ma la madre, che udì questa nuova asineria, schiz-
zando fuoco, lo rimproverò: «Fiaccati il collo, figlio scomuni-
cato! Rompiti la catena delle spalle! Levamiti dinanzi! ché io
vedo le viscere mie e non posso digerirti, e mi si gonfia
l’ernia e metto il gozzo sempre che mi vieni tra i piedi! 1
Finiscila presto, e che questa casa ti scotti come fuoco! Io di
te mi scuoto i panni, e fo conto di non averti mai cacato al
mondo».
Lo sciagurato Antuono, che vide il lampo, non volle a-
spettare il tuono; e, come uno che ha rubato i panni di un bu-
cato, abbassando il capo e alzando i talloni, dileguò alla volta
1
Cioè ubbriacare, perché la bertuccia è «inuus ecaudatus.
38
dell’orco. E l’orco, allo scorgerlo che entrava lemme lemme e
mogio mogio, gli fece un’altra sonata di cembalo, dicendo:
«Non so chi mi tenga che non ti ammacchi un occhio, ciarlo-
ne, bocca da scoreggia, carne fracida, culo di gallina, taratatà,
trombetta della Vicaria1, che d’ogni cosa getti il bando, che
vomiti tutto quanto hai in corpo, e non puoi ritenere i ceci! Se
stavi zitto all’osteria, non ti accadeva quello che ti è accaduto;
ma tu hai la lingua come il legnetto del mulino, e hai macina-
to la felicità che t’era venuta nelle mani!».
Il disgraziato Antuono mise la coda tra le gambe e si sorbi
questa musica; e stette oltre tre anni tranquillo ai servigi
dell’orco, pensando alla casa sua quanto a diventar conte. Pu-
re, dopo questo tempo, gli tornò l’accesso della terzana, gli
rinacque il capriccio di fare una gita alla sua casa, e ridoman-
dò licenza all’orco. E l’orco, premuto dalle sue insistenze, si
contentò che partisse, e gli dette una bella mazza lavorata, con
l’avvertenza: «Porta con te questa mazza per mia memoria;
ma guardati di non dire: Alzati, mazza! nè Coricati, mazza!,
perché io con te non voglio averci che spartire». Antuono, ri-
cevendola, rispose: «Va’ che ora ho messo il dente del senno
e conosco quante paia facciano tre buoi: non sono piu un ra-
gazzo, e chi vuol gabbare Antuono si vuol baciare il gomito».
Replicò l’orco: «L’opera loda il maestro: le parole sono fem-
mine e i fatti sono maschi: staremo a vedere! Tu m’hai udito
più di un sordo: uomo avvisato, mezzo salvato».
L’orco seguitava a parlare, e già Antuono s’affrettava ver-
so casa. Ma non fu discosto mezzo miglio che disse: Alzati,
mazza! Non fu parola, fu arte d’incanto: la mazza, subito, co-
me se avesse farfarello dentro al midollo, cominciò a lavorar
di tornio sulle spalle del misero Antuono; e le mazzate piove-
vano a cielo aperto, e l’un colpo non aspettava l’altro. Il po-
ver’uomo, che si vide pestato e conciato come pelle di cordo-
vano, gridò: Coricati, mazza!-, e la mazza cessò di fare con-
trappunti sul pentagramma della schiena. Cosi, istruito a pro-
prie spese, disse: «Zoppo chi fugge! Affé, che questa volta
1
II banditore della gran Corte della Vicaria di Napoli, che pubblicava i
bandi a suon di tromba.
39
non me la lascio scappare! Ancora non è andato a letto chi
deve vedere la mala sera!».
Con questi pensieri giunse alla taverna solita, e vi fu rice-
vuto con le maggiori accoglienze del mondo, perché l’oste sa-
peva quale sugo si ricavava da quella cotenna. Antuono gli
disse: «Prendi, conservami questa mazza; ma bada a non dire:
Alzati, mazza!, che passi pericolo. Ascoltami bene; non ti la-
mentare più d’Antuono, perché io me ne protesto e fo il letto
innanzi»1
L’oste, tutto allegro di questa terza ventura, lo rimpinzò
bene di minestra e gli fece vedere il fondo dell’orciuolo; e,
come l’ebbe messo, cascante di sonno, in un letticciuolo, cor-
se a prendere la mazza, e, chiamando la moglie ad assistere
alla bella festa, disse: Alzati, mazza! La quale cominciò a tro-
vare la stiva degli osti2, e tiffe di qua e taffe di là, fece
un’andata e venuta di prim’ordine; talché, vedendosi a mal
partito, corsero marito e moglie, inseguiti dalla mazza, a sve-
gliare Antuono, chiedendogli misericordia.
Antuono, che vide che la cosa era riuscita al punto e il
maccarone caduto nel cacio e i broccoli nel lardo, disse: «Non
c’è rimedio! Voi morirete crepati di mazzate, se non mi resti-
tuite le cose mie». E l’oste, ch’era tutto pésto: «Prenditi tutto
ciò che ho, ma toglimi questo fastidio maledetto dalle spal-
le!»; e, per dar sicurezza ad Antuono, gli fece venire innanzi
tutto quello che gli aveva sottratto. Antuono, quando ebbe tut-
to nelle mani, disse: «Coricati, mazza!»-, e quella s’accosciò e
stese da un canto.
Cosi, preso il somaro e le altre cose, se ne andò alla casa della
madre, dove, fatto cimento regale del deretano dell’asino e
prova sicura del tovagliuolo, raccolse grandi quattrini, maritò
le sorelle, arricchì la madre, e attestò la verità del detto:
I pazzi ed i ragazzi Dio li aiuta.
1
Cioè, preparo con le parole il concetto che segue. I vocabolari italiani
recano l’esempio del Salvini: «e senza fare, come si dice, il letto, passa a
narrare un fatto, ecc.».
2
Cioè la disposizione del carico, che renda bene stivata la nave; e, per
traslato, il modo acconcio di trattare gli osti.
40
LA MORTELLA
1
Traslato per «rubare».
2
Bisticcio tra «pubblica» moneta che valeva tre tornesi, e «donna pubbli-
ca».
3
Pillole, dette cosi perché giovavano a diversi mali.
41
Furono già al casale di Miano1 un marito e una moglie,
che, non avendo germoglio di figliuoli, desideravano con tutta
l’anima un erede; e la moglie particolarmente sospirava sem-
pre: «Oh Dio, partorissi qualcosa al mondo, e non
m’importerebbe che fosse una frasca di mortella!». E tanto
disse questa canzone e tanto infastidì il Cielo, che, ingrossata-
sele la pancia, le si fece il ventre rotondo, e, a capo di nove
mesi, invece di partorire in braccio alla mammana qualche
maschietto o femminuccia, mise fuori dai campi elisi del ven-
tre una bella frasca di mortella.
Questa, con suo piacere grande, piantò in un vaso da fiori,
lavorato con tanti bei mascheroni, e la collocò sul davanzale
della finestra, governandola mattina e sera con maggior dili-
genza che non fa il contadino2 un quadro di broccoli3, dal qua-
le spera di ricavare il fitto dell’orto. Ma, passando per quella
casa il figlio del re, che andava a caccia, s’incapricciò fuor di
misura di questa bella frasca, e mandò a chiedere alla padrona
di vendergliela, ché l’avrebbe pagata un occhio. La quale, do-
po molti no e molti contrasti, all’ultimo, presa da ingordigia
per le offerte, uncinata dalle promesse, sbigottita dalle minac-
ce, vinta dalle preghiere, gli dié il vaso con la mortella, pre-
gandolo di tenerla cara perché l’amava piu che figlia e la sti-
mava come se fosse uscita dalle sue reni.
Il principe, col maggior giubilo del mondo, fatta portare la
mortella nel proprio appartamento, la pose a una terrazza e
con le proprie mani la zappettava e l’innaffiava.
Ora accadde che, andato una sera questo principe a letto e
spente le candele, quando il silenzio si fu steso tutt’intorno e
la gente era nel primo sonno, senti stropiccio di scarpe per la
casa e una persona venire a tentone verso il letto. Pensò subito
che fosse o qualche mozzo di camera4, che voleva alleggerir-
gli la borsa, o qualche monachetto5, che gli voleva togliere di
1
Villaggio, e una volta casale (borgo), di Napoli.
2
Lo parzonaro», dice il testo, che è il «partionarius» romano.
3
Un quadro, ossia un compartimento, di «torze», che sono varietà dei
broccoli di cavolo o «brassica oleracea».
4
Cioè un servitorello, un piccolo cameriere; spagn. «mozo de càmara».
5
Per il «monaciello», spirito familiare. Vedi le Note e illustrazioni in fine.
42
dosso le coperte; pure, com’uomo ardito che neanche il brutto
inferno gli metteva paura, fece la gatta morta, aspettando
l’esito del negozio. Ma quando senti presso di sé quella per-
sona, e, tastando, s’accorse del morbido, e dove pensava di
toccar pungoli di istrice, trovò cosa più sottile e molle della
lana barbaresca1, più pastosa e soffice della coda di martora,
più delicata e tenera delle piume del cardellino, si lanciò ad
abbracciarla, e stimandola (qual’era in effetto) una fata, le si
attaccò come polpo e, giocando a «passera muta», fecero a
«pietra in grembo»2. Se nonché, innanzi che il Sole uscisse
come protomedico a passar la visita ai fiori che la Notte aveva
resi malati e languidi, l’amica si levò e se la svignò, lasciando
il principe pieno di dolcezza, pregno di curiosità, carco di me-
raviglia.
Continuò questo traffico per sette giorni e il principe si
struggeva e scioglieva dalla voglia di conoscere quale era
questo bene che gli pioveva dalle stelle, e quale nave, ricca
delle più care gioie dell’amore, veniva a gettar l’àncora nel
letto suo. Onde una notte, che la bella nenna3 faceva la nanna,
legatasi una delle trecce di lei al braccio, perché non potesse
svignarsela, chiamò un cameriere, e, fatte accendere le cande-
le, vide il fiore delle belle, lo stupore delle donne, lo specchio,
il cocco pinto di Venere4, l’incanto d’Amore; vide una bam-
boletta, una leggiadra colombella, una fata Morgana, un gon-
falone splendente, un ramoscello d’oro; vide una feritrice di
cuori, un occhio di falcone, una luna in quintadecima5, un
piccioncello, un boccone da re, un gioiello; vide, a dir breve,
uno spettacolo da mandare in visibilio.
E, mirandola e rimirandola, egli esclamò: «Ora, va’ t’ in-
1
Lana di Tunisi, oggi ancora reputata per la sua morbidezza.
2
«A passera muta» e «a preta nsino»: due giuochi fanciulleschi, i cui nomi
sono qui adoperati in senso lubrico.
3
Dialettale per «fanciulla».
4
Di Cupido dice il PINO (Ragionamento del padre Arculano sovra del asi-
no, s.l.a., ma Napoli, circa 1530): «Costui era il figlio caro, costui era
l’uovo pinto di sua mamma Venerella». Uova dipinte con vari colori si so-
levano mandare in dono nelle feste.
5
Luna piena.
43
forna, dea Ciprigna! Va’ t’impicca, o Elena! Tornatene a casa
tua, o Fiorella! 1 Le bellezze vostre sono inezie a fronte di
questa bellezza a doppia suola, bellezza compita, intera, asso-
data, massiccia, ben piantata; di questa grazia meravigliosa,
grazia di Siviglia2 eccellente, incantevole, solenne, dove non
trovi pecca alcuna, non da correggere un sol punto! O sonno,
o dolce sonno, versa altri papaveri sugli occhi di questa bella
gioia! Non mi guastare il gusto di contemplare, a lungo quan-
to io desidero, questo trionfo di bellezza! O bella treccia, che
mi annoda! O begli occhi, che mi scaldano! O belle labbra,
che mi ristorano! O bel petto, che mi consola! O bella mano,
che mi trafigge! Dove, dove, in quale officina delle meravi-
glie della natura si scolpi questa viva statua? Quale India forni
l’oro per lavorare questi capelli? Quale Etiopia l’avorio per
fabbricare questa fronte? Quale maremma i carbonchi per
comporre questi occhi? Quale Tiro la porpora da invermigliar
questa faccia? Quale Oriente le perle per formare questi denti?
E da quali montagne si prese la neve da spargere su questo
petto? Neve contro natura, che mantiene i fiori e scalda i cuo-
ri!».
Cosi dicendo, le fe’ vite delle braccia per consolare la vi-
ta. E, nel cingerle il collo, essa si sciolse dal sonno, rispon-
dendo con un grazioso sbadiglio a un sospiro del principe in-
namorato. Ed egli, vedendola desta, le disse: «O bene mio, se
io, guardando senza candela questo tempio d’amore, stavo
quasi per morire, che sarà della vita mia ora che vi hai acceso
due lampade? O begli occhi, che con un trionfetto di luce fate
giocare a banco fallito le stelle3, voi soli, voi, avete traforato
questo cuore, voi soli potete come uova fresche comporgli
una stoppata! 4 E tu, bella medichessa mia, muoviti a compas-
1
Marco e Fiorella: famosi amanti sui quali v. le Note e illustrazioni in fi-
ne.
2
Molte le cose squisite di Siviglia: il tabacco, le calze, le donne, e via
dicendo.
3
Noti giuochi. Il GARZONI, Piazza universale (Venezia, 1592), p. 564, an-
novera, tra i giuochi di tarocchi, «a trionfitti» e «a banco fallito».
58 La «stoppata» era stoppa intrisa di uova, olio rosato e trementina, che
si poneva sulle ferite, come dice il FASANO, nelle note alla sua traduzione
44
sione di un malato d’amore, che, per aver cangiato aria dal fo-
sco della notte alla luce di questa bellezza, si è guadagnata
una febbre! Mettimi la mano al petto, tocccami il polso, ordi-
nami la ricetta! Ma quale ricetta cerco, anima mia? Gettami
cinque ventose alle labbra con la tua bella bocca; non voglio
altra frizione che una passata di questa manina, ché io son cer-
to che, con l’acqua cordiale di questa bella grazia e con la ra-
dice di questa linguabova, mi rifarò libero e sano».
A tali detti, rossa come vampa di fuoco, la bella fata ri-
spose: «Non tante lodi, signor principe; io ti sono serva, e, per
servire questa faccia di re, volentieri andrei perfino a vuotare
il necessario1; e stimo gran fortuna che da ramo di mortella,
piantato in un testo di creta, sia diventata frasca di lauro attac-
cata all’osteria di un cuore di carne, e di un cuore dov’è tanta
grandezza e tanta virtù».
Il principe, liquefacendosi come candela di sego, e tor-
nando ad abbracciarla e suggellando la lettera con un bacio, le
porse la mano, dicendo: «Eccoti la fede, tu sarai mia moglie,
tu sarai padrona dello scettro, tu avrai la chiave di questo cuo-
re, come già tieni il timone di questa vita». E dopo queste e
cento altre amorevolezze e discorsi, levatisi di letto, si accer-
tarono che le budella erano sempre in buon ordine2; e a questo
modo se la goderono per un certo numero di giorni.
Ma, perché la fortuna, guastafeste e spartimatrimoni, è
sempre intoppo ai passi di Amore, è sempre cane nero che va
a insudiciare i diletti di chi vuol bene, accadde che il principe
fu chiamato alla caccia di un gran porco selvaggio, che deva-
stava quel paese. Fu costretto perciò a lasciar la moglie, anzi
due terzi del suo cuore; e poiché l’amava più della vita, e la
vedeva bella sopra tutte le cose belle, da quest’amore e da
questa bellezza germogliò quella terza specie3, che è una tem-
pesta al mare dei piaceri amorosi, una pioggia al bucato delle
gioie d’amore, una fuliggine che casca dentro alla pignatta
1
Allusione al campanello attaccato alle reti per le quaglie.
47
ciò a fare un gran piagnisteo, gridando, strillando, vociando:
«Oh amaro me, o scuro me, o tristo me! e chi mi ha fatto que-
sta barba di stoppa? e chi mi ha fatto questo trionfo di cop-
pe? 1 Oh rovinato, sconquassato, sprofondato principe! Oh
mortella mia sfrondata, oh fata mia perduta, oh vita mia do-
lente, oh gusti miei andati in fumo, oh piaceri miei andati in
aceto! Che farai, oh Cola
Marchionne sventurato? 2 Che farai, infelice? Salta ora
questo fosso; strappati da questa morsa! Sei scaduto da ogni
bene, e non ti scanni? Sei alleggerito di ogni tuo tesoro, e non
ti sveni? Sei abbandonato dalla vita, e non dai di volta? Dove
sei, dove sei, mortella mia? E quale anima piu dura di un pi-
perno mi ha devastato questo bel testo? O maledetta caccia,
che mi hai cacciato da ogni contento! Oimè, sono spedito, son
distrutto, son morto, ho finito i giorni miei! Non è possibile
che io campi per sperimentare questa sorta di vita senza la
mia vita! È forza che stenda i piedi, perché senza il mio bene
il sonno mi sarà tribolo, il mangiare tossico, il piacere stitico,
la vita acerba!».
Queste e altrettali parole, da impietosire le pietre della
strada, diceva il principe; e, dopo lunga nenia e amaro pianto,
pieno di angoscia e di rabbia, non chiudendo mai occhio per
dormire, né aprendo mai bocca per mangiare, tanto si lasciò
invadere dal dolore, che la sua faccia, prima di minio orienta-
le, diventò d’orpimento, e il roseo prosciutto delle labbra si
fece rancida sugna. La fata, che da quegli avanzi raccolti nel
vaso era tornata a germogliare, vedendo il povero innamorato
che si dibatteva, si strappava i capelli ed era diventato piccino
e meschino con un colore di spagnuolo malato3, di lucertola
verminara4, di succo di cavolo, d’itterizia, di melo pero1, di
1
Cattivo punto nel giuoco delle carte.
2
Nicola Melchiorre. È il nome del principe.
3
II colore di spagnuolo malato era notato come caratteristico e andava in
proverbio. Perfino la tinta di una sorta di stoffa fu chiamata: «color di spa-
gnuolo malato».
4
II Boccaccio (che potrebbe aver appreso questo traslato a Napoli, dove
ancor oggi si usa) chiama (Decameron, II, io) «lucertole verminare» cioè
secche e verdi, le donne di Pisa.
48
culo di beccafico e di scoreggia di lupo, si mosse a compas-
sione; e, uscita di balzo dal testo, come raggio di candela da
una lanterna cieca2, apparve agli occhi di Cola Marchionne, e,
stringendolo tra le braccia, gli disse: «Su, su, principe mio,
basta! Cessa questa nenia, asciugati questi occhi, lascia la col-
lera, spiana questo volto contratto! Eccomi viva e bella, a di-
spetto di quelle male femmine, che, spaccatomi il cranio, fe-
cero delle mie carni quel che Tifone del povero fratello!»3.
Il principe, a questa vicenda che accadeva quanto meno si
pensava, risuscitò da morte a vita, e, tornandogli il colore alle
guance, il calore al sangue, lo spirito al petto, dopo averle fat-
to mille carezze, vezzi e tenerezze4, volle sapere per filo e per
segno come era andato il caso. E, appreso che il cameriere
non ci aveva alcuna colpa, lo fece richiamare e, ordinato un
gran convito, col buon consenso del padre sposò la fata. Al
convito, oltre che tutti i principali del regno, volle che, in pri-
ma linea, fossero presenti le sette arpie, che avevano fatto ma-
cello di quella vitelluzza di latte.
Sparecchiate le mense, il principe interrogò uno per uno
tutti i convitati: «Che cosa meriterebbe chi facesse male a
questa bella giovinetta?», indicando col dito la fata, cosi bella
che saettava i cuori come folgore, tirava le anime come arga-
no e trascinava le voglie come carro. E tutti quelli che sede-
1
«Pirus malus».
2
Testo: «lanterna a bota». «Quella sorta di lanternini, inventati dai bre-
sciani, che chiudono e scoprono il lume quando si vuole, benché oggi sia-
no proibiti quasi da per tutto», dice il GARZONI, op. cit., p. 460. Infatti, le
nostre prammatiche ne permettevano l’uso solo agli sbirri.
3
Tifone congiurò contro il fratello Osiride e riusci, con astuzia a farlo
entrare in una cassa, sulla quale i congiurati si precipitarono, premendo il
coperchio, conficcandovi chiodi, colando piombo dai fori, e poi la
gettarono a mare. Si veda PLUTARCO, De Iside et Osiride. XII. Il PENZER
(The Pentameron of G. Basile, translation from thè Italian of B. Croce,
London, John Lane, 1932, I, p. 31) aggiunge la citazione dal libro di E.
WALLIS BUDGE, Osiris and thè Egyptian Resurrection.
4
«Carizze, vierre, gnuóccole e vruóccole». «Gnuóccole» sono gli gnocchi;
«vruóccole», broccoli, e, per traslato, carezze; onde in Napoli i venditori di
broccoli, gaiamente bisticciando, danno la voce: «Broccoli, che son buoni
a letto!».
49
vano a mensa, a cominciar dal re, dissero uno che meritava la
forca, un altro che era degno di ruota, chi di tenaglia, chi di
precipizio, chi di una pena e chi di un’altra. In ultimo, toccò
di parlare alle sette cernie1 alle quali, sebbene questo discorso
non troppo andasse a sangue e già si sognavano la mala notte,
tuttavia, poiché la verità sta sempre dove tresca il vino, rispo-
sero: che chi avesse animo di solo toccare quella delizia dei
gusti d’amore, sarebbe stato meritevole di esser sepolto vivo
in una chiavica.
A questa sentenza, pronunziata dalla propria loro bocca, il
principe disse: «Voi stesse vi siete fatto il processo, voi stesse
avete firmato il decreto. Resta che io faccia eseguire l’ordine
vostro, perché voi siete quelle che, con un cuore di Nerone,
con una crudeltà di Medea, faceste una frittata di questa bella
testolina e trinciaste come carne da salsiccia queste belle
membra. Dunque, su, presto, non si perda tempo: che siano
gittate sul momento in una chiavica maestra, dove finiscano
miseramente la vita».
Posta la cosa subito a effetto, il principe maritò la più
giovane sorella di queste sgualdrine col cameriere, dandole
buona dote. E, fornendo da vivere comodamente al padre e al-
la madre della mortella, egli visse lieto con la fata; e quelle
figlie dell’inferno, chiudendo con amaro stento la vita loro,
avverarono il proverbio degli antichi savi:
Passa la capra zoppa,
se non trova chi la intoppa.2
1
Traslato per indicare persona brutta: qui in senso morale. Il muso della
cernia («perca gigas») è bruttissimo. E anche di Peruonto il Basile (cfr.
trattenimento seguente) dirà che aveva la la bocca di cernia.
2
È uno dei proverbi citati da Farinata degli Uberti, quando difese Fiorenza
a viso aperto.
50
PERUONTO
1
La mestruazione.
2
La pasta velenosa, come quella che si dà ai topi e ad altri animali.
" Il corno per farne calamai, come si usava.
53
sti, vi ha armato il corno destro e il corno manco; per inse-
gnarvi la politica di Tiberio, vi ha posto dinanzi un Cornelio
Tacito; per rappresentarvi un vero sonno d’infamia, lo ha fatto
uscire dalla porta di corno1. Aspettiamo dunque che il parto
venga in porto; scopriamo quale fu la radice di questo vitupe-
rio; e poi penseremo e risolveremo con grano di sale che cosa
si dovrà fare di lei».
Accolse il re questo consiglio, perché vide che essi parla-
vano con aggiustatezza e saggezza; e perciò ritenne la mano e
concluse: «Aspettiamo l’esito del negozio».
Come volle il Cielo, giunse l’ora del parto, e con quattro
doglie, leggiere leggiere, al primo soffiare nella bocca
dell’ampolla2, alla prima voce della mammana, alla prima
premuta di corpo, Vastolla gettò in grembo alla comare due
grossi figli maschi, simili a due pomi di oro.
Il re, che era gravido anch’esso ma di rabbia, chiamò i
consiglieri per figliare a sua volta, e disse: «Ecco, mia figlia
ha figliato: ora è tempo di assestare il colpo». «No (risposero
quei vecchi saggi, ed era sempre, il loro, un pretesto per dare
tempo al tempo): no, aspettiamo che i bimbi si facciano gran-
di per essere in grado di venire in cognizione della fisionomia
del padre». E il re, che non scriveva una riga senza la falsariga
del Consiglio per paura di scrivere a sghimbescio, si strinse
nelle spalle, ebbe pazienza ed aspettò.
Pervenuti i figliuoli ai sette anni, stimolò di nuovo i con-
siglieri a dar l’accetta al tronco e a colpire il punto giusto a
cui si lega il sostegno. E uno di loro avvisò: «Giacché non a-
vete potuto scandagliare vostra figlia e prender lingua intorno
al falso monetario che all’immagine vostra ha alterato la co-
rona, faremo noi salire a luce la macchia. Vi piaccia, dunque,
ordinare che si apparecchi un gran convito, al quale debba ve-
nire ogni titolato e gentiluomo di questa città; e stiamo vigili,
con gli occhi sul tagliere, per vedere a chi i fanciulli inclinano
più volentieri, spinti dalla natura; perché quegli sarà
1
«Sunt geminae Somni portaa; quarum altera fertur Cornea, qua veris fa-
cilis datur exitus umbris...». VERG., Aen., VI, 893-4.
2
Vedi nelle Note e illustrazioni, in fine.
54
senz’altro il padre, e noi subito lo leveremo via come sterco di
gazza».
Il parere piacque al re. Pertanto fu ordinato il banchetto,
furono convitate tutte le persone di grado e di condizione, e,
dopo il pranzo, vennero poste in fila e davanti a loro si fecero
passeggiare i due fanciulli. Ma questi ne fecero quel conto che
il cane di Alessandro dei conigli; tanto che il re tempestava e
si mordeva le labbra, e, benché certo non gli mancassero cal-
zatoi1, tuttavia, perché gli era stretta questa scarpa dolorosa,
batteva i piedi in terra. Senonché i consiglieri gli dissero: «Pi-
ano, Maestà, frenate la stizza: facciamo domani un altro ban-
chetto, non più di gente di alto grado, ma di bassa estrazione.
Forse, poiché la femmina si attacca sempre al peggio, trove-
remo tra i coltellinai, i venditori di paternostri e i mercanti di
pettini la semenza della collera vostra, che non abbiamo tro-
vata tra i cavalieri».
Questa ragione persuase il re, il quale comandò che si fa-
cesse il
secondo banchetto; dove, per bando, gettato, vennero tutti i
guitti, sbricchi, ghiottoni, cialtroni, mascalzoni, ragazzi, piaz-
zesi, facchini, scalzacani, spogliamorti2 e gente di grembiule e
zoccoli, che erano nella città. I quali, come se fossero altret-
tanti nobili conti, si assisero a una mensa lunga lunga, e co-
minciarono a macinare a due palmenti. Ora Ceccarella, che
udì questo bando, si die a sollecitare il figlio che andasse an-
che lui al festino; e tanto insiste che Peruonto s’avviò al ma-
sticatorio. Ma, non appena egli comparve, quei bei fanciulli
gli si appiccicarono attorno e gli fecero vezzi e carezze da non
dire.
Il re, che vide questa scena, si strappò tutta la barba, sco-
prendo che la fava di questa focaccia, il nome di questa bene-
ficiata3, era toccato a un brutto goffo, che faceva stomaco e
disgusto solo a guardarlo: il quale, oltre ad avere la testa di
1
Sottintendi: di corno
2
«Spogliamorti», o anche «spogliampisi» (spogliaimpiccati) si chiamava-
no i venditori di panni vecchi.
88 Antico giuoco, che precedette quello della lotteria. A Napoli è stato di
recente cangiato nome al «vico della Beneficiata vecchia».
55
nero velluto, gli occhi di civetta, il naso di pappagallo, la boc-
ca di cernia, era scalzo e cencioso a segno che, senza leggere
il Fioravanti, potevi prender notizia dei segreti 1. E, tratto dal
petto un cupo sospiro, esclamò: «Quale gusto può avere avuto
questa scrofetta della mia figliuola a incapricciarsi di
quest’orco marino? Quale gusto a darsi alla fuga con questo
piede peloso? Ah infame, falsa cieca, quali metamorfosi son
queste? Diventar vacca per un porco, per far che io diventassi
montone! Ma che si aspetta? Perché si va indugiando? Abbia
il castigo che merita; abbia la pena che sarà stabilita da voi, e
toglietemela dinanzi, perché io non posso più digerirla!».
I consiglieri si adunarono, dunque, per considerare il caso,
e conclusero che tanto essa quanto il malfattore e i figli fosse-
ro cacciati in una botte e gettati a mare, affinché ponessero un
punto fermo alla loro vita, senza che il re si bruttasse le mani
col sangue proprio. E tosto che fu pronunziata la sentenza, si
trovò pronta la botte, in cui vennero ficcati tutti e quattro. Ma,
prima che vi s’inchiodasse il coperchio, alcune damigelle di
Vastolla vi misero dentro un barile di uva passa e fichi secchi,
perché quei meschini potessero mantenersi per un po’ di tem-
po. Poi la botte fu chiusa, e portata e gettata al mare, sul quale
andò nuotando secondo la menava il vento.
In quel travaglio Vastolla, piangendo e facendo scorrere
due torrenti dagli occhi, disse a Peruonto: «Quale grande di-
sgrazia è la nostra di aver per sepoltura di morte la culla di
Bacco! Oh sapessi almeno chi ha tramenato questo corpo per
farlo rinserrare alla fine in una carrata! 2 Oimè! Io mi trovo
spillata senza saper come! Dimmi, dimmi, o crudele, e quale
incantamento facesti, e con quale verga, per chiudermi entro i
cerchi di questa botte? Dimmi, dimmi, quale diavolo ti tentò a
mettermi le cannelle invisibili, affinché io non avessi poi altro
spiraglio che un nero cocchiume?».
Peruonto, che per un pezzo aveva fatto orecchie di mer-
cante, finalmente rispose: «Se vuoi che io te lo dica, dammi
1
Cioè, che si vedevano, attraverso gli stracci, le parti segrete del corpo.
Per il Fioravanti vedi, in fine, le Note e illustrazioni.
2
Carrata, grossa botte.
56
passole e fichi». Vastolla, per cavargli di corpo qualche cosa,
gli mise in bocca una manata delle une e degli altri. E quello,
poi che si fu riempito il gorgozzule, le raccontò punto per
punto quanto gli era accaduto coi tre giovinetti, e poi con la
fascina, e in ultimo con lei alla finestra, che lo trattò da pancia
piena ed egli, in cambio, le fece empire la pancia.
La povera signorella, udito ciò, prese animo e disse a Pe-
ruonto: «Fratello mio, e vogliamo crepare dentro questa bot-
te? Perché non fai in modo che questo legno diventi una bella
nave, che ci tragga dal pericolo e ci conduca a buon porto?».
Peruonto replicò: «Dammi passole e fichi, se vuoi che io lo
dica!». E Vastolla subito, svelta, gli riempi le canne, e, come
pescatrice di carnevale1, con l’uva passa e i fichi secchi gli
pescava le parole fresche fresche dal corpo.
Ed ecco che, dicendo Peruonto quel che Vastolla deside-
rava, la botte si converti in nave, con tutti gli attrezzi necessa-
ri al navigare e con tutti i marinai che bisognavano pel servi-
zio. E qui tu vedesti chi tirare la scotta, chi avvolgere le sartie,
chi mettere mano al timone, chi far vela, chi salire alla gaggia,
chi gridare «ad orza», chi «a poggia», chi suonare una tromba,
chi dare fuoco ai pezzi, e chi fare una cosa e chi un’altra. Di-
talché Vastolla era dentro la nave e nuotava in un mare di dol-
cezza. Ma, essendo già l’ora che la Luna voleva giocare col
Sole a «posto lasciato e posto perduto»2, ella disse a Peruonto:
«Bel giovane mio, fa’ diventare questa nave un bel palazzo,
dove staremo più sicuri. Sai come si suol dire? Loda
11 mare e tieniti alla terra». E Peruonto, al solito: «Se
vuoi che io te lo dica, tu dammi passole e fichi!». E Vastolla
subito gli porse l’occorrente, e quello, tirato dalla gola, do-
mandò il favore. E, senz’altro, la nave approdò, e si trasformò
in un bellissimo palazzo, ammobiliato di tutto punto, e cosi
pieno di lusso e sfoggi che non c’era nulla da desiderare.
Per tal modo Vastolla, che prima era disposta a dar la vita
1
Donne mascherate da pescatrici, che, durante il carnevale, gettano ami
con dolciumi, e fanno altrettali giuochi.
2
«A ghiste e veniste e lo luoco perdiste»: motto dei fanciulli in giuoco, e,
in generale, quando uno occupa il posto lasciato vuoto dall’altro, e l’altro
torna e lo trova occupato.
57
per tre calli, non l’avrebbe ora scambiata con quella della
prima signora del mondo, vedendosi trattata e servita come
regina. Solo, per suggello di tutta la sua buona fortuna, pregò
Peruonto di chieder la grazia di diventar bello e pulito, affin-
ché si fossero potuti sposare; ché, quantunque il proverbio di-
ca: «Meglio marito straccione che amico imperatore», nondi-
meno, se egli avesse cangiato aspetto, questa sarebbe stata te-
nuta da lei come la più grande felicità al mondo. Peruonto ri-
spose col porre il medesimo patto: «Dammi passole e fichi, se
vuoi che io lo dica». E Vastolla, pronta, rimediò alla stitichez-
za delle parole di lui con la cura dei fichi1; e quello disse il
suo desiderio, e in un attimo si trasformò da uccellaccio in
cardellino, da orco in Narciso, da mascherone in bel fantocci-
no. Vastolla sali al settimo cielo per la gioia, e, premendolo
tra le braccia, ne distillò succo di piacere.
In questo stesso tempo il re che, dal giorno che era acca-
duta tanta rovina in casa sua, era stato sempre pieno fino alla
gola di «lasciami stare», fu dai suoi cortigiani condotto per ri-
creazione a una caccia. La caccia andò lontano; e il re, còlto
dalla notte e vedendo rilucere una lucernetta a una finestra di
quel palazzo, mandò un servitore a vedere se volessero dargli
alloggio; ed ebbe per risposta che egli vi poteva non solo
rompere un bicchiere, ma spezzare un cantero2.
Il re vi andò, e, aggirandosi per le stanze, non vide perso-
na vivente, salvo due giovinetti, che gli andavano attorno, di-
cendo: «Nonno! nonno!». Stupefatto, strasecolato e attonito,
rimase come fosse incantato; e, sedendosi stracco presso una
tavola, vide da mano invisibile stendere tovaglie di Fiandra e
venire piatti pieni di «va e resta»3, tanto che mangiò e bevve
veramente da re, servito da quei bei giovinetti, non cessando,
mentre stette a tavola, una musica di colascioni e tamburelli,
che gli scendeva dolce fino ai malleoli. Quando fu terminata
la cena, comparve un letto tutto schiuma d’oro, nel quale, fat-
1
«Con le fiche iedetelle»: fichi piccoli e gentili, dei quali (bisogna ag-
giungere) le donnicciuole si valevano per supposta.
2
’ Cioè, non solo trovarvi da cenare, ma anche da dormire.
3
Termini di giuoco: cfr. Giornata III, 5. Forse qui piatti che andavano e
venivano con sempre nuovi cibi.
58
tosi cavare gli stivali, si buttò a coricare; come fece anche tut-
ta la sua corte, dopo avere ben divorato a cento altre tavole,
apparecchiate per le altre stanze.
Venuta la mattina e disponendosi a partire, il re voleva
menare con sé i due giovinetti; ma qui comparve Vastolla col
marito, e, gettatasi ai suoi piedi, gli chiese perdono, raccon-
tandogli tutte le sue fortune. Il re, che vide di aver guadagnato
due nipoti che erano due gioie, e un genero che era bello co-
me un fato, abbracciò l’uno e gli altri e se li portò di peso alla
città, facendo feste grandissime che durarono molti giorni e
confessando a suo dispetto che:
Propone l’uomo, ma dispone Dio.
59
60
VARDIELLO
1
Aprano, vicino ad Aversa.
61
vrai nè cocchi nè pittini». «Lascia fare a quest’uomo, — ri-
spose Var diello, — perché non hai parlato a sordo». «Ancora
— aggiunse la mamma, — vedi, figlio benedetto, che dentro
quell’armadio c’è un vaso verniciato con certa roba velenosa.
Guarda che il tentatore non ti metta in capo di andarla a tocca-
re, perché tu stenderesti i piedi!». «Non sia mai! — rispose
Vardiello: — veleno non mi pigli! E tu, savia con la testa paz-
za, che me lo hai avvisato; perché, veramente, potevo capitar-
ci e non c’era né spina né osso che m’impedisse di farlo scen-
dere nello stomaco».
Volte che ebbe le spalle la mamma, rimase Vardiello, il
quale, per non perder tempo, andò nell’orto a scavare certi
fossetti coperti di fuscelli e terra da farvi cader dentro i fan-
ciulli; quando, nel meglio del lavoro, s’accorse che la chioccia
se ne andava spasseggiando fuori della camera. Ed egli subito
a gridare: «Sciò, sciò, — via di qua, passa là!». Ma la chioccia
non si ritirava; e Vardiello, vedendo che quella gallina aveva
dell’asino, dopo lo «sciò, sciò» si mise a battere i piedi; dopo
lo sbattimento dei piedi, a gettarle dietro il suo berretto; e, do-
po il berretto, le scagliò un matterello, che, colpitala in pieno,
la fece cadere in agonia e irrigidire le zampe.
La mala disgrazia era ormai avvenuta e Vardiello pensò di
portar rimedio al danno: onde, facendo di necessità virtù, af-
finché le uova non si raffreddassero, si sbracò subito e si se-
dette sulla covata; ma, premendola col deretano, la ridusse a
frittata. Visto che egli l’aveva fatta doppia di figura1, fu sul
punto di dar la testa nelle mura. Ma poiché, infine, ogni dolo-
re torna a boccone, sentendo uno sfinimento allo stomaco, si
risolse a cacciarvi dentro la chioccia. E perciò, spiumatala e
infilzatala a un bello spiedo, accese un gran fuoco e cominciò
ad arrostirla; e, quando vide che era quasi cotta, affinché tutto
fosse pronto a tempo, stese un bel canavaccio di bucato sopra
un vecchio cassone, e, preso un orciuolo, scese in cantina a
spillare un caratello2 di vino<. Ma, nel meglio del versare il
1
Che aveva raddoppiato il danno: traslato dal giuoco delle carte. «No
quartarulo»: il quarto d’un barile napoletano (undici litri).
2
«No quartarulo»: il quarto d’un barile napoletano (undici litri).
62
vino, udì un rumore, un fracasso, uno scompiglio per la casa,
che pareva un passaggio di cavalli armati; e, tutto sbigottito,
voltati gli occhi, scorse un gattone, che aveva arraffato la
chioccia con tutto lo spiedo, e un altro gatto gli era dietro, gri-
dando per avere la sua parte. Vardiello, per impedire questo
danno, si lanciò come leone scatenato sul gatto; e, per la fret-
ta, lasciò sturato il caratello. Dopo aver giocato a «corrimi
dietro» per tutti gli angoli della casa, ricuperò la gallina; ma,
intanto, il vino del caratello scorse tutto a terra. Tornando alla
cantina e visto di averla fatta grossa, spillò anch’esso la botte
dell’anima pei cannelli degli occhi suoi. Ma, poiché il giudi-
zio lo aiutava, per rimediare al danno e per far che la madre
non si avvedesse di tanta rovina, prese un sacco pieno pieno,
colmo colmo, raso raso di farina e lo andò spargendo sul ba-
gnato. Con tutto ciò, facendo il conto sulle dita dei disastri ac-
caduti, pensando che, per aver commesso eccessi di asineria,
perdeva il giuoco della grazia di Grannonia, prese ferma riso-
luzione di non lasciarsi trovar vivo dalla madre. Tolse dunque
dall’armadio il vaso con le noci conciate, che quella gli aveva
detto esser veleno, e non ne levò la mano fintanto che non ne
scoperse la patina lustra1. E, riempitasi bene la pancia, si ficcò
dentro il forno.
Intanto, tornò la madre e, dopo aver picchiato per un pez-
zo, non sentendo alcuno muoversi, dette un calcio alla porta
ed entrò. E si mise a chiamare a gran voce il figlio e, poiché
nessuno rispondeva, immaginò una disgrazia, e, crescendo
l’ambascia, levò più forti le grida: «O Vardiello, o Vardiello,
sei diventato sordo, che non odi? Hai le giarde, che non corri?
Hai la pipita, che non rispondi? Dove sei, viso da forca? Dove
sei squagliato, mala razza? Che ti avessi affogato in foce,
quando ti feci!».
Vardiello, che udì questo gridio, finalmente, con una vo-
cina pietosa pietosa, disse: «Eccomi qui, sto dentro al forno, e
non mi vedrete più, mamma mia!». «Perché?», — domandò la
povera madre. «Perché mi sono avvelenato», replicò il figlio.
1
II CARO, Gli Straccioni, II, i: «Questa mi par quella del Giucca, che si
mangiò un alberello di noci conce per attossicarsi».
63
«Oimè! — soggiunse Grannonia, — e come hai fatto? e che
motivo hai avuto di fare quest’omicidio, e chi ti ha dato il ve-
leno?». E Vardiello le raccontò a una a una tutte le belle prove
che aveva compiute, e per le quali voleva morire e non restare
più al mondo, bersaglio di mala fortuna.
Udendo queste cose, la madre, scura si vide, amara si vi-
de, ed ebbe da fare e da dire per levare di capo a Vardiello
quell’umore malinconico. E, poiché gli portava tenerezza
grande, con dargli alcune altre cose sciroppate gli tolse dal
cervello la paura delle noci conciate, che non erano veleno,
ma acconciamento di stomaco. Cosi, calmatolo con buone pa-
role, e fattegli mille dolci carezzette, lo tirò fuori dal forno.
Pensò poi, per quietarlo del tutto, di affidargli un bel toc-
co di tela affinché lo portasse a vendere, ammonendolo di non
trattare il negozio con persone di troppe parole. «Bravo! —
disse Vardiello, — ti servirò profumatamente, non dubitare».
E, presa sotto il braccio la tela, si avviò alla città.
Andava in giro con la sua mercanzia per le strade e le
piazze di Napoli, gettando il grido: «Tela, tela!». Ma a tutti
quelli che gli si avvicinavano, domandando: «Che tela è?»,
subito rispondeva:
«Non fai per la casa mia, ché hai troppe parole». E, se un
altro gli domandava: «A quanto la vendi?», lo chiamava
chiacchierone, e che lo aveva stordito e gli aveva rotto le tem-
pie.
In ultimo, scoprendo nel cortile di una casa, disabitata
perché frequentata dal monachetto, una statua di stucco, il po-
verino, spedato e stracco dal tanto andare in giro, si sedette
sopra un muricciuolo; e, non vedendo entrare e uscire nessuno
da quella casa, che pareva un villaggio saccheggiato, pieno di
maraviglia, disse alla statua: «Di’ su, camerata, abita alcuno
in questa casa?». E, poiché quella non rispondeva, gli parve
persona di poche parole, e subito le propose: «Vuoi comprare
questa tela? Io te la darò a buon mercato». E la statua zitto, e
lui: «Affé, ho trovato quello che andavo cercando! Prendila e
falla esaminare, e dammene il prezzo che ti piace: domani
torno pei quattrini». Ciò detto, lasciò la tela sul muricciuolo,
al quale s’era seduto; e il primo che si trovò a passare e che
64
entrò in quel cortile per qualche suo atto necessario, trovata
quella bella ventura, se la portò via.
Quando Vardiello fu tornato alla madre senza tela, ed eb-
be raccontato il caso, la povera donna si senti scoppiare il
cuore. E cominciò a rimbrottarlo: «Quando metterai il cervel-
lo a sesto? Vedi quante me ne hai fatte? Ricordatene! Ma la
colpa è, prima di tutto, mia, che, per essere troppo tenera di
polmone, non t’ho fin dal primo momento raddrizzato con una
buona bastonatura: e ora m’avvedo che medico pietoso fa la
piaga incurabile! Ma tante me ne fai che alla fine c’ incappe-
rai; e allora i conti saranno lunghi!».
Vardiello, dal canto suo, badava a dire: «Zitto, mamma
mia, ché non sarà quel che tu dici. Avrai ben altro che tornesi
coniati nuovi! .Credi forse che vengo da Ioio1, e che non sap-
pia il conto mio? Ha da venir domani! Di qui a Belvedere2
non c’è molto, e vedrai se so mettere il manico a questa pa-
la!».
Al mattino, quando le ombre della Notte, perseguitate da-
gli sbirri del Sole, sfrattano il paese, Vardiello si portò al cor-
tile dov’era la statua, e le parlò: «Buon di, messere! Non
t’incomoda di darmi quei quattro spiccioli? Orsù, pagami la
tela!». Ma, poiché la statua se ne rimaneva muta, egli raccattò
un sasso e lo scagliò di tutta forza proprio in mezzo allo ster-
no di quella, tanto che le ruppe una vena; e questa fu la salute
della sua casa. Perché, ruinati certi ammassi d’intonaco, gli
apparve all’occhio una pignatta piena di scudi d’oro, che egli
levò con le due mani, e si dié a una corsa a scavezzacollo ver-
so casa sua.
Entrò gridando: «Mamma, mamma, vedi quanti lupini
rossi! Quanti, neh! quanti!». Ma la madre, nell'accogliere la
fortuna di quegli scudi, cosi impensatamente guadagnati, ri-
fletté subito che il figlio sarebbe andato pubblicando il caso, e
provvide al rischio. Disse, dunque, a Vardiello che si fosse
1
«Ioio» o «Ioi» (ora Gioi), terra della provincia di Salerno e del circonda-
rio di Vallo della Lucania.
2
Bisticcio tra «Belvedere» e «un bel vedere». Belvedere era un castello a
breve distanza da Pozzuoli.
65
messo innanzi alla porta per vedere quando passava il ricotta-
ro, perché le bisognava comprare un tornese di latte.
Vardiello, che era un gran bonaccione, subito si sedette
alla porta; e la madre, dalla finestra di sopra, gli fece grandi-
nare addosso, per oltre mezz’ora, più di sei rotoli d’uva passa
e di fichi secchi. Ed egli li raccoglieva, gridando: «Mamma, o
mamma, prendi conche, porta tinozze, porgi canestri, che, se
dura questa pioggia, ci faremo ricchi!». E, quando se ne fu
ben riempito il ventre, sali in camera e si buttò a dormire.
Avvenne che un giorno, litigando due del popolo, gente di
mala vita1, per la pretesa di uno scudo d’oro che avevano tro-
vato a terra, capitò in quel punto Vardiello, che disse: «Come
siete arciasini a far tante chiacchiere per un lupino rosso di
questa sorta! Io non ne faccio nessuna stima, perché ne ho
trovato per mio conto una pignatta piena piena!».
La corte, informata del detto e messa in sospetto, lo man-
dò a chiamare e lo sottopose a disamina per saper come,
quando e con chi avesse trovato gli scudi, dei quali aveva par-
lato. Vardiello rispose: «Li ho trovati in un palazzo, nel corpo
di un uomo muto, in quel giorno che ci fu pioggia di uva pas-
sa e di fichi secchi». Il giudice, che senti lo sbalzo di questa
quinta nel vuoto2, odorò il negozio e decretò che fosse manda-
to allo spedale3 che era il suo giudice competente.
Così l’ignoranza del figlio fece ricca la madre, e il buon
giudizio della madre riparò all’asinità del figlio, per la qual
cosa si vede chiaramente che
nave, da buon pilota governata,
è strano caso che si rompa a scoglio.
1
Testo: «esche de corte»: gente che ha da far sempre con gli sbirri e i tri-
bunali.
2
Testo: «sbauzo de quinta nmacante»: o, come si dice oggi nei trattati di
armonia, un «intervallo di quinta minore». Intervallo inaspettato
all’orecchio (che normalmente attenderebbe una «quinta giusta»); cosi
come inaspettata pel giudice fu la risposta di Vardiello.
3
Allo spedale (e, in Napoli, a quello degl’incurabili), dove allora erano
ricoverati anche i matti.
66
LA PULCE
1
Cioè, che l’aveva indovinata ottimamente.
2
Letteralmente: «o re o scorza di pioppo»: o re o travicello.
3
Cioè: la difesa è di poca resistenza.
68
gli occhi chi è la luce degli occhi tuoi? O padre, o padre cru-
dele, per certo non sei nato da carne umana: le orche marine ti
dettero il sangue, le gatte selvatiche ti porsero il latte.1 Ma che
parlo degli animali di mare e di terra? Ogni animale ama i
propri nati. Tu solo hai in avversione e fastidio la semenza
tua; tu solo hai sullo stomaco tua figlia! Meglio se mamma mi
avesse soffocata, se la culla mi fosse stata catafalco, la mam-
mella della nutrice vescica di tossico, le fasce cappi e il fi-
schietto, che mi attaccarono al collo, màzzera da tirarmi al
fondo del mare; giacché era destinato che corressi la mala sor-
te di vedermi a fianco questo mostro, di sentirmi accarezzata
da una mano di arpia, abbracciata da due branche d’orso, ba-
ciata da due zanne di porco!».
E più avrebbe detto se il re, montatogli il fumo alla testa,
non l’avesse interrotta: «Bando alla collera, che lo zucchero
costa caro; piano, che il brocchiere è di pioppo; tura, che esce
feccia; zitto, lascia di mormorare, ché sei troppo mordace,
linguacciuta e forcelluta! Quel che fo io, è ben fatto. Non vo-
ler insegnare al padre come deve fare i figli. Finiscila e ficcati
questa lingua dietro; e non far che mi salga la senapa al naso,
perché, se ti metto le unghie addosso, non ti lascio in capo una
sola ciocca e ti faccio mordere la terra coi denti. Guarda un
po’: una scoreggia del mio deretano vuol far l’uomo, e dettar
legge al padre! Da quando in qua una, che ancora le puzza la
bocca di latte, osa contrastare alla mia volontà? Presto, tocca
la mano al tuo sposo, e, nello stesso momento, parti alla vòlta
della casa sua, ché questa faccia sfrontata e presuntuosa non la
voglio avere innanzi agli occhi nemmeno un quarto d’ora!».
La sventurata Porziella, che si vide a tali estremi, con una
céra di condannato a morte, con occhi da spiritata, con una
bocca di chi ha preso il domine Agostino2 , con un cuore di
chi sta tra la mannaia e il ceppo, porse la mano all’orco. E
l’orco se la trascinò, soletta, a un bosco dove gli alberi face-
vano riparo al prato affinché non fosse scoperto dal Sole; i
1
«...duris genuit te cautibus horrens Caucasus, Hyrcanaeque admorunt
ubera ti- gres»: VERG., Aen., IV, 366-7.
2
medico e filosofo Agostino Nifo.
69
fiumi si lagnavano che, camminando all’oscuro, urtavano
contro le pietre; e gli animali selvatici, senza pagare fida1, go-
devano un Benevento2 e andavano sicuri per entro le macchie,
dove non capitava mai uomo se non aveva smarrito la strada.
In questo luogo nero come un camino otturato, spaventoso
come la faccia dell’inferno, era la casa dell’orco, tutta tappez-
zata di ossa d’uomini, che egli aveva mangiati. Consideri ora
chi è cristiano il tremito, lo sbigottimento, l’assottigliamento
di cuore, il commovimento viscerale, lo spavento, il cumulo
di vermi e la diarrea, che provò la povera giovane: fa’ conto
che non le rimase sangue nelle vene.
Ma questo fu meno che niente a paragone del resto del
carlino, perché prima del pasto ebbe ceci e, dopo, fave sec-
che3. L’orco, andato a caccia, ne tornò tutto carico di quarti di
uomini da lui ammazzati, e le disse: «Non potrai lamentarti,
moglie mia, che io non abbia cura di te. Eccoti una buona
munizione di companatico, prendi e sguazza, e voglimi bene,
ché potrà cadere il cielo, ma io non ti farò mancar mai da
mangiare».
La misera Porziella, sputando come donna incinta, torse il
viso dall’altro lato. L’orco, che notò questo movimento, e-
sclamò: «Questo significa dar confetti ai porci! Ma non im-
porta: abbi un po’ di flemma fino a domattina, ché sono stato
invitato a una caccia di cignali: te ne porterò un paio, e fare-
mo nozze coi parenti per consumare con più gusto il matri-
monio».
Ciò detto, si cacciò nel bosco, ed essa rimase a piagnuco-
lare alla finestra; quando, per ventura, passò dinanzi alla casa
una vecchietta, che, tormentata dalla fame, le chiese qualche
ristoro. La disgraziata giovane le rispose: «O mia buona don-
na, Dio vede il mio cuore, che sto in potere di un demonio
dell’inferno, il quale non mi porta altro a casa che quarti
d’uomini e pezzi di ammazzati, che non so come mi regga lo
1
II diritto di «fida» o «affidatura» si pagava da coloro che menavano gli
animali a pascolo nelle terre d'altrui proprietà, o anche regie e comunali.
2
Benevento apparteneva allora allo Stato pontificio, ed era perciò pei fuo-
rusciti napoletani un vicino e agevole «luogo di asilo».
3
Vuol dire: prima provò la tortura, poi la vita di galera.
70
stomaco soltanto a vedere questo laidume, tanto che meno la
più triste vita che toccasse mai ad anima battezzata. Eppure
son figlia di re, eppure sono stata cresciuta a pappardelle, ep-
pure mi son vista nel grasso!». E, nel dir cosi, si mise a pian-
gere, come una bambina che si è vista portar via la merenda.
A questo, inteneritasi la vecchia, le rispose: «Pensa alla
salute, bella giovane mia; non consumare questa bellezza
piangendo, ché tu hai trovato la tua buona fortuna, e qui son
io per aiutarti a barda e a sella. Ora ascolta: io ho sette figli
maschi, che vedi sette gioie, sette cerri, sette giganti: Mase,
Nardo, Cola, Micco, Petrullo, Ascadeo e Ceccone, che hanno
maggiori virtù del rosmarino. Mase, basta che porga
l’orecchio a terra perché senta e ascolti tutto quello che si fa
trenta miglia discosto; Nardo, ogni volta che sputa, forma un
gran mare di sapone; Cola quando gitta un ferruzzo, fa nasce-
re un campo di rasoi affilati; Micco, con uno stecco, un bosco
intricato; Petrullo, quando schizza in terra una stilla d’acqua,
produce un fiume terribile; Ascadeo quando scaglia un sasso,
fa sorgere una torre fortissima; e Ceccone acceca cosi bene
con una balestra, che colpisce un miglio di lontano l’occhio di
una gallina. Con l’aiuto di questi, che sono tutti cortesi, tutti
amorevoli, e avranno compassione dello stato tuo, voglio pro-
vare di toglierti dalle branche dell’orco, ché un bocconcino
cosi ghiotto non è per la gola di quel brutto demonio».
«Non c’è momento migliore di questo — disse Porziella,
— ché quella malombra di mio marito è fuori e stasera non
torna, e avremmo tempo di svignarcela e fuggir via».
«Stasera non può essere — replicò la vecchia, — perché
abito un po’ lontano. Ma domattina io e i figli miei saremo
qui a toglierti di pena». Cosi detto, parti, e Porziella, che ave-
va fatto un cuore largo largo, riposò la notte.
All’alba, non appena gli uccelli gridarono: «Viva il So-
le!», eccoti venire la vecchia coi sette figli, che si misero Por-
ziella in mezzo e s’avviarono alla città. Ma non furono andati
mezzo miglio, che Mase, affisso l’orecchio a terra, gridò:
«All’erta! olà! a noi! ché c’è la volpe! Già l’orco è tornato a
casa, e non ha trovato la giovane e se ne viene col berretto
71
sotto l’ascella1 a raggiungerci».
Udito ciò, Nardo sputò in terra e formò il mare di sapone;
dove pervenuto l’orco, e vedendo questa saponata, gli con-
venne tornare a casa, prendere un sacco di crusca, e tante vol-
te intridervi dentro i piedi che alla fine, a gran fatica, superò
l’intoppo.
Mase origliò di nuovo e avverti: «A te, compagno! sta per
raggiungerci». E Cola gettò il ferruzzo e ne germogliò il cam-
po di rasoi. L’orco, vistosi precluso un’altra volta il passo,
tornò a casa, si vesti di ferro da capo a piede, e scavalcò quel
fosso.
Origliato ancora, Mase gridò: «Su, su! all’armi! ché pre-
sto l’orco sarà qua con una corsa che è un volo». E Micco, le-
sto, con lo stecco, fece sorgere un bosco terribilissimo, che
era assai difficile a passare. Ma l’orco mette mano a un coltel-
laccio che portava a fianco, e comincia a far cadere di qua un
pioppo, di là un cerro, da una parte a far capitombolare un
corniolo, dall’altra un corbezzolo; tanto che, in quattro o cin-
que colpi, stese a terra il bosco e usci libero dall’intrico.
Tornò Mase, dopo aver affisso l’orecchio, a levar la voce:
«Non ce ne stiamo come se ci radessimo la barba, ché l’orco
ha messo le ali, e ora te lo vedi alle nostre spalle!». E Petrullo,
attinto un sorso d’acqua da una fontana che piscettava a goc-
cia a goccia da una conchiglia di pietra, lo sbruffò in terra, e
subito scorse un grosso fiume. L’orco, che vide questo nuovo
impedimento, e che non si presto esso apriva buchi c’era chi li
otturava, si spogliò nudo nudo e, con le vesti sul capo, passò
nuotando all’altra banda.
Sentì Mase lo stropiccìo delle calcagna, e disse: «Questo
negozio nostro va in rancido, e già l’orco fa un batter di tallo-
ni che il Cielo lo dica per me. Stiamo in cervello e ripariamo a
questa tempesta: se no, siamo andati!». «Non dubitare — ri-
spose Ascadeo, — ché con questo brutto maligno me la vedo
io». E scagliò un sasso e fece apparire una torre, dove subito
si cacciarono tutti, asserragliando la porta. L’orco, visto che
s’erano messi in salvo, volta correndo a casa e, presa una sca-
1
Per la fretta l’orco non si era messo nemmeno il berretto in capo.
72
la da vendemmiatore, se la carica addosso e, correndo, torna
verso la torre.
Mase, che stava con gli orecchi tesi, sentì di lontano la venuta
e disse: «Ora siamo all’ultimo della candela delle speranze
nostre: in Cec- cone è l’ultimo rifugio della nostra vita, perché
l’orco torna con furia grande. Oimè! mi batte il cuore, e già
vedo la rovina!». «Come sei cacone! — rispose il più giovane
fratello: — lascia fare a me, e guarda se colgo giusto con le
verrette». Mentre così diceva, ecco che l’orco appoggia la sca-
la e comincia ad arrampicarsi. Ma Ceccone, toltolo di mira,
gli cavò una delle lanterne e lo fece cadere lungo lungo a terra
come un pero; e poi, uscito dalla torre, col coltellaccio stesso
che quello portava, gli tagliò il collo come se fosse di ricotta.
E, con allegrezza grande, portarono quella testa al re, il
quale, giubilando di avere ricuperato la figlia, giacché si era
cento volte pentito d’averla data a un orco, in pochi giorni le
trovò un bel marito, facendo ricchi i sette figli e la madre, che
l’avevano liberata da vita così infelice.
E mille volte poi si chiamò in colpa con Porziella d’averla
messa per un capriccio ventoso a tanto pericolo, senza consi-
derare quanto errore commette chi va cercando
uova di lupo e pettini di quindici1.
1
Modo di dire d’oscura derivazione per indicare cose assurde. Il Basile
l’adopera anche nelle Muse napolitane, egloga I; e si trova nel PORTA, Ta-
bemarìa, III, 15. Si allude probabilmente ai pettini da cardare, i cui denti
erano sempre di numero molto inferiore ai quindici, in guisa che un pettine
da quindici denti sarebbe stata quasi cosa contro natura al pari di un uovo
di lupo.
73
74
LA GATTA CENERENTOLA
1
Merletto di punto ad ago, assai pregiato nel seicento: comunemente detto
«punto di Venezia».
75
Stava per continuare in questo prologo, quando Zezolla (che
cosi si chiamava la giovane) la interruppe: «Perdonami se ti
rompo la parola in bocca. So che mi vuoi bene; perciò zitto e
sufficit-, insegnami l’arte, che io sono vengo da fuori: tu scrivi
e io firmo». «Orsù! — replicò la maestra, — ascolta bene, a-
pri gli orecchi, e godrai sempre pane bianco di fior di farina.
Quando tuo padre va fuori di casa, di’ alla tua matrigna che
vuoi un vestito di quei vecchi, che stanno nel cassone grande
del ripostiglio, per risparmiare questo che porti addosso. Essa,
che ti vuol vedere tutta cenci e brandelli, aprirà il cassone e
dirà: — Tieni il coperchio. — E tu, tenendolo, mentr’essa an-
drà rovistando là dentro, lascialo cader di colpo, che le fiac-
cherà il collo. Dopo di ciò, sai bene che tuo padre farebbe
moneta falsa per amor tuo; e tu, quando egli ti carezza, prega-
lo di prendermi per moglie, ché, te beata, sarai la padrona del-
la mia vita».
Udito il disegno, a Zezolla ogni ora parve mille anni; e,
messo in atto punto per punto il consiglio della maestra,
quando fu trascorso il tempo del lutto per la morte della ma-
trigna, cominciò a toccare i tasti al padre affinché
s’ammogliasse con la sua maestra. Dapprima, il principe prese
la cosa in celia; ma tante volte Zezolla tirò di piatto, che, infi-
ne, colpi di punta, ed egli si piegò alle persuasioni della fi-
gliuola. Cosi si sposò con la maestra Carmosina, e si fece una
festa grande.
Ora, mentre gli sposi stavano in gaudio, Zezolla si affac-
ciò a un gaifo1 della sua casa; e in quel punto una colombella
volò sopra un muro e le disse: «Quando ti vien desio di qual-
che cosa, manda a dimandarla alla colombella delle fate
dell’isola di Sardegna, ché tu l’avrai subito».
Per cinque o sei giorni la nuova matrigna incensò con o-
gni sorta di carezze Zezolla, facendola sedere al miglior luogo
della tavola, dandole i migliori bocconi e adornandola con le
migliori vesti. Ma, corso pochissimo tempo, mandò a monte e
scordò affatto il servigio ricevuto (oh trista l’anima, che ha
1
Cosi si chiamava in Napoli una sorta di terrazzino pensile che sporgeva
dai primi.
76
cattiva padrona!), e cominciò a mettere in iscranna sei figlie
sue, che fin allora aveva tenute segrete; e tanto fece che il ma-
rito, presele in grazia, si lasciò cascar dal cuore la figlia sua
propria. E Zezolla, scapita oggi, manca domani, fini col ridur-
si a tal punto che dalla camera passò alla cucina, dal baldac-
chino al focolare, dagli sfoggi di seta e oro agli strofinaccioli,
dagli scettri agli spiedi. Né solo cangiò stato, ma anche nome,
e non più Zezolla, ma fu chiamata «Gatta cenerentola».
Ora segui che, dovendo il principe andare in Sardegna per
cose necessarie al suo stato, prima di partire domandò a una a
una, a Imperia, Calamita, Fiorella, Diamante, Colombina e
Pascarella, che erano le sei figliastre, che cosa volevano che
portasse loro al ritorno. E chi gli chiese un abito di lusso, chi
galanterie pel capo, chi belletti per la faccia, chi giocattoli per
passare il tempo; e chi una cosa e chi un’altra. In ultimo, e
quasi per dileggio, egli disse alla figlia: «E tu, che cosa vorre-
sti?». Ed essa: «Nient’altro se non che mi raccomandi alla co-
lomba delle fate, che mi mandi qualcosa; e, se ti dimentichi,
che tu non possa andare né innanzi né indietro. Tieni bene a
mente quel che ti dico: arma tua, manica tua»1.
Parti il principe, sbrigò le sue faccende in Sardegna, com-
prò quanto gli avevano chiesto le figliastre, e Zezolla gli usci
di mente. Ma, quando si fu imbarcato e già erano state spiega-
te le vele, non fu possibile far che il vascello si staccasse dal
porto: pareva che ne fosse impedito dalla remora. Il padrone
della nave, ch’era quasi disperato, si mise a dormire per la
stanchezza, e in sogno gli apparve una fata, che gli annunziò:
«Sai perché non potete staccarvi dal porto? Perché il principe,
che vien con voi, ha mancato alla promessa verso la figlia, ri-
cordandosi di tutti, fuorché del sangue proprio». Appena sve-
gliato, il capitano raccontò il sogno al principe, che, confuso
per la mancanza commessa, andò alla grotta delle fate, e, rac-
comandata loro la figliuola, le pregò di mandarle qualche do-
no.
Ed ecco uscir fuori dalla spelonca una bella giovane, che
pareva un gonfalone, e gli disse di ringraziar la figliuola della
1
Modo di dire proverbiale: «se manchi alla parola, peggio per te».
77
buona memoria, e che se la passasse lieta per amor suo. Con
queste parole, gli porse un dattero, una zappa, un secchietto
d’oro e un asciugatoio di seta: il dattero da esser piantato, e le
altre cose per coltivarlo e curarlo.
Il principe, meravigliato di questo regalo, si accommiatò
dalla fata, volgendosi al suo paese; dove, giunto, distribuì alle
figliastre le cose che avevano desiderate, e in ultimo consegnò
alla figlia il dono della fata. Zezolla, con giubilo grande da
non stare nella pelle, piantò il dattero in un bel vaso; e mattina
e sera lo zappettava, lo innaffiava e lo asciugava col tova-
gliuolo di seta.
Con queste cure, il dattero crebbe in quattro giorni alla
statura di una donna, e ne venne fuori una fata, che domandò
alla fanciulla: «Che cosa desideri?». Zezolla rispose che desi-
derava uscir qualche volta di casa, e che le sorelle non lo sa-
pessero. Rispose la fata: «Ogni volta che ti piaccia, vieni alla
pianta e le di’:
Dattero mio dorato, con la zappetta d’oro t’ho zappato;
con il secchietto d’oro, innaffiato; con la fascia di seta t’ho
asciugato.
Spoglia te e vesti me!
Quando poi vorrai spogliarti, cangia l’ultimo verso e di’:
— Spoglia me e vesti te».
Venne un giorno di festa, e le figliuole della maestra era-
no andate in processione fuor di casa, tutte spampanate1, stri-
gliate e imbiaccate, tutte nastrini, sonaglini e fronzellini, tutte
fiori e odori, rose e cose. Zezolla corse allora alla sua pianta,
pronunziò le parole insegnatele dalla fata e subito fu posta in
assetto di regina, sopra una chinea, con dodici paggi attillati e
azzimati, e andò anche lei dove erano le sorelle, che non la ri-
conobbero, ma si sentirono venir l’acquolina in bocca per le
bellezze di questa vaga colomba.
Volle fortuna che nello stesso luogo capitasse il re, che,
alla vista della straordinaria bellezza di Zezolla, rimase incan-
tato, e ordinò a un servitore suo più intrinseco che
s’informasse nel miglior modo di quella bellissima creatura,
1
Come fiore che ha aperto tutti i petali.
78
chi fosse e dove abitasse. Il servitore si mise subito a pedinar-
la. Ma essa, che s’accorse dell’agguato, gettò una manata di
scudi ricci, che s’era fatti dare dal dattero a quest’effetto; e il
servitore, acceso di brama a quei pezzi luccicanti, si scordò di
seguire la chinea, fermandosi a raccogliere i danari. Ed essa di
balzo entrò in casa, si spogliò rapidamente nel modo come la
fata la aveva istruita; e sopraggiunsero poi le sei arpie delle
sorelle, che, per pungerla e mortificarla, le descrissero a lungo
le tante cose belle, che avevano viste alla festa.
Il servitore, intanto, era tornato al re e gli aveva racconta-
to il fatto degli scudi. Si adirò il re e con stizza grande gli dis-
se che, per quattro vili monetuzze, aveva venduto il gusto suo,
e che, per ogni conto, avesse procurato nella ventura festa di
appurare chi fosse quella bella giovane, e dove s’annidasse
cosi leggiadro uccello.
Venne l’altra festa e le sorelle, uscendo tutte adorne e ga-
lanti, lasciarono la disprezzata Zezolla al focolare. Ma im-
mantinente essa corse al dattero, disse le parole solite, ed ecco
proromperne una schiera di damigelle, chi con lo specchio,
chi con la. boccetta d’acqua di cucuzza, chi col ferro per ar-
ricciare, chi col pezzo di rossetto, chi col pettine, chi con gli
spilli, chi con le vesti, chi con collane e pendenti. E tutte si
misero attorno a lei, e la fecero bella come un sole, e la collo-
carono in un cocchio a sei cavalli, accompagnato da staffieri e
paggi in livrea. E si recò al medesimo luogo dell’altra volta, e
aggiunse meraviglia nel cuore delle sorelle e fuoco nel petto
del re.
Anche questa volta, al ritorno, il servitore le andò dietro;
ma essa, per non farsi arrivare, gettò una manata di perle e
gioielli, che quel dabben uomo non potè non chinarsi a becca-
re, perché non erano cose da lasciar perdere; e cosi Zezolla
ebbe tempo di ridursi a casa sua e spogliarsi conforme al soli-
to. Tornò il servitore, tutto sbalordito, al re, che gli disse: «Per
l’anima dei morti tuoi, se tu non mi ritrovi quella giovane, ti
do una solenne bastonatura, e tanti calci nel sedere quanti hai
peli alla barba!».
Al nuovo giorno di festa, e quando già le sorelle s’erano
messe in via, Zezolla tornò al dattero; e, ripetendo la canzone
79
fatata, fu vestita superbamente e collocata in una carrozza
d’oro con tanti servitori attorno, che pareva una cortigiana ar-
restata al pubblico passeggio e attorniata dagli sbirri. E, dopo
aver eccitato la meraviglia e l’invidia delle sorelle, si parti se-
guita dal servitore del re, che questa volta si cuci a filo doppio
alla carrozza. Vedendo che sempre le era alle coste, Zezolla
gridò: «Tócca, cocchiere!»; e la carrozza si mise in corsa con
tanta furia, che a lei, in quell’agitazione, cadde dal piede una
pianella1, che non si poteva vedere cosa più ricca e gentile.
Il servitore, non potendo raggiunger la carrozza che ormai
volava, raccattò la pianella e la portò al re, narrandogli quanto
gli era accaduto. Il re la tolse tra le mani ed usci in questi det-
ti: «Se il fondamento è cosi bello,, che sarà mai la casa? O bel
candeliere, dove è stata infissa la candela che mi consuma! O
treppiede della bella caldaia, dove bolle la mia vita! O bei su-
gheri2, attaccati alla lenza d’amore, con la quale ha pescato
quest’anima! Ecco, io vi abbraccio e vi stringo, e, se non pos-
so giungere alla pianta, adoro le radici; se non posso attingere
i capitelli, bacio le basi! Voi già foste ceppi di un bianco pie-
de, e ora siete tagliuola d’un cuore addolorato. Per virtù vo-
stra, colei, che tiranneggia la mia vita, era alta un palmo e
mezzo di più3 ; e per voi cresce altrettanto in dolcezza questa
mia vita, mentre vi guardo e vi possiedo!».
Ciò detto, il re chiama lo scrivano, comanda ai trombetti,
e tu-tu-tu, fa gettare un bando che tutte le donne del paese
vengano a una festa e a un banchetto che ha determinato di
dare. Nel giorno stabilito, oh bene mio! quale masticatorio e
quale fiera fu quella! Donde uscirono tante pastiere e casatel-
li? Donde gli stufati e le polpette? Donde i maccheroni e gra-
viuoli, che poteva saziarvisi un esercito intero? Le femmine
c’erano tutte e di ogni qualità, e nobili e ignobili, e ricche e
pezzenti, e vecchie e giovani, e belle e brutte; e, poiché ebbe-
ro ben lavorato coi denti, il re, fatto il profizio4, si mise a pro-
1
Le pianelle si sovrappongono alle scarpette.
2
I sugheri delle pianelle
3
Le pianelle erano fornite di tacchi altissimi o caleagnini, quasi trampoli.
Si veda l’egloga posta in fine di questa prima Giornata, vv. 645-7.
4
Cosi popolarmente si diceva il «proficiat» o «prosit»
80
vare la pianella a una a una a tutte le invitate per vedere a chi
di esse andasse a capello e bene assestata, tanto che egli po-
tesse dalla forma della pianella conoscer quella che andava
cercando. Ma non trovò alcun piede a cui andasse a sesto, e fu
sul punto di disperare.
Nondimeno, imposto generale silenzio, disse: «Tornate
domani a far penitenza con me; ma, se mi volete bene, non la-
sciate nessuna femmina a casa, e sia quale sia!». Parlò allora
il principe: «Io ho una figlia, ma sta sempre a guardare il fo-
colare, perché è una creatura disgraziata e dappoco, non meri-
tevole di sedere dove mangiate voi». Replicò il re: «Questa
sia a capo di lista, perché l’ho caro».
Cosi partirono, e il giorno dopo tornarono tutte, e, insieme
con le figlie di Carmosina, Zezolla, la quale, come il re la vi-
de, gli dié l’impressione di quella che desiderava; e nondime-
no dissimulò. Ma, finito il desinare, si venne alla prova della
pianella, che, non appena fu appressata al piede di Zezolla, si
lanciò di per sé stessa, come il ferro corre alla calamita, a cal-
zare quel cocco pinto d'Amore. Il re allora strinse Zezolla tra
le sue braccia, e, condottala sotto il suo baldacchino, le mise
la corona sul capo, ordinando a tutti di farle inchini e riveren-
ze come a loro regina. Le sorelle, livide d’invidia, non poten-
do reggere allo schianto dei loro cuori, filarono moge moge
verso la casa della madre, confessando a lor dispetto che
pazzo è chi contrasta con le stelle.
81
82
I DUE FIGLI DEL MERCANTE
1
Tacquero, dallo spagn.: «callar».
83
vo, l’hai fatta bella! Scrivine al paese! Vantati, sacco; se no, ti
scucio! Mettila su una pertica, perché tutti la vedano! Va’, che
hai rotto quella cosa che vale sei grani!1 Al figlio del re hai
fracassato la coccia? E non avevi la mezzacanna per misurar-
ti2, figlio di caprone? Ora, che sarà dei casi tuoi? Hai fatto tale
cattiva cucina, che io per te non scommetterei tre calli. Anche
se tu rientrassi donde sei uscito3, non ti assicurerei dalle mani
del re, perché tu sai che sono lunghe e arrivano dappertutto; e
farà cose terribili!».
Cienzo, dopo che il padre ebbe detto e detto, rispose:
«Messere mio, sempre ho udito dire che è meglio la corte4 che
il medico in casa. Non era peggio se esso rompeva la testa a
me? Sono stato provocato, siamo giovani, si tratta di rissa, è
primo delitto; il re è uomo ragionevole; infine, che mi può fa-
re? Chi non mi vuol dare la mamma, mi dia la figlia; quello
che non mi vuol mandare cotto, me lo mandi crudo; tutto il
mondo è paese, e chi ha paura, si faccia sbirro».
«Che ti può fare? — replicò Antoniello. — Ti può caccia-
re da questo mondo, farti andare a mutar aria. Ti può far mae-
stro di scuola, con una sferza di ventiquattro palmi, a dare il
cavallo ai pesci perché imparino a parlare5. Ti può mandare
con un collare di tre palmi, inamidato di sapone6, a stringer le
nozze con la vedova7, e, invece di farti toccare la mano alla
sposa, farti toccare i piedi del padrino8. Perciò non startene, a
rischio della vita, tra il panno e il cimatore; ma parti in questo
momento stesso, che non si sappia cosa né nuova né vecchia
dei fatti tuoi, se non vuoi restar preso pel piede. Meglio uccel-
1
Il vaso da notte, del quale quello era il prezzo corrente.
2
Cioè, per misurare la distanza che era fra te e il figlio del re. La
mezzacanna è una misura di quattro palmi, usuale in Napoli.
3
Intendi: nel ventre di tua madre.
4
La polizia
5
Vuol dire: ti può mandare a remare sulle galere. Le metafore sono prese
da usanze di scuola, come la sferza, il cavallo (castigo scolaresco), e via.
6
Con una corda insaponata al collo.
7
La forca
8
Il boia montava sulle spalle dell’impiccato per finirlo piu rapidamente:
«lesto come un daino, salta ben sulle spalle di colui che è appeso, come fa
mastro Ioseffo da Ravenna» (GARZONI, Piazza universale, p. 756).
84
lo di campagna che di gabbia. Eccoti danaro, prendi un caval-
lo, dei due fatati che ho nella stalla, e una cagna, che è anche
fatata; e non indugiare più. Meglio toccar di calcagna che es-
ser toccato da talloni1; meglio mettersi le gambe sulle spalle2
che avere il collo sotto due gambe3; meglio fare mille passi
che restare con tre passi4 di fune. Se non prendi subito le bér-
tole5, non ti aiuterà né Baldo né Bartolo»6.
Cienzo domandò la benedizione al padre, montò a cavallo
e, portando in braccio la cagnuola, s’incamminò fuori della
città. Ma, come fu uscito da porta Capuana7, volse indietro la
testa e incominciò a dire: «Eccomi che ti lascio, bella Napoli
mia! Chi sa se mi sarà dato vedervi più, mattoni di zucchero e
mura di pastareale, dove le pietre sono di manna, le travi di
cannamele, le porte e le finestre di pasta sfogliata? Oimè! che,
dividendomi da te, mio bel Pennino, mi sembra di andar col
pennone; scostandomi da te, Piazza Larga, mi si stringe lo spi-
rito; allontanandomi da te, Piazza dell’Olmo, mi sento spartire
l’alma; separandomi da voi, Lancieri, mi trapassa una lanciata
catalana; staccandomi da te, Forcella, mi si stacca lo spirito
dalla forcella dell’anima!8 Dove troverò un altro Porto, dolce
porto di tutto il bene del mondo? Dove altri Gelsi, in cui i ba-
chi d’amore9 formano di continuo bozzoli di piaceri? Dove un
un altro Pertuso, nido di tutti gli uomini virtuosi? Dove
un’altra Loggia, dove alloggia il grasso e s’affina il gusto?
Oimè, che non posso dilungarmi da te, Lavinaro mio, senza
che una lava mi scorra dagli occhi! Non ti posso lasciare, o
Mercato, senza andarmene marcato di doglia! Non posso far
divorzio da te, bella Piaggia, senza che mille piaghe mi
1
Intendi come sopra: dai talloni del boia.
2
Cioè: fuggire.
3
Altra variante dell’immagine di cui nelle note precedenti.
4
«Passo» in senso della misura del «passo».
5
Dialettale: «bisacce», in bisticcio con «Bartolo», che vien dopo.
6
I due famosi giureconsulti.
7
Per questo, e per tutti gli altri luoghi di Napoli qui ricordati, v., in fine, le
Note e illustrazioni.
8
La «forcella» dello stomaco.
9
Per questo, e per tutti gli altri luoghi di Napoli qui ricordati, v., in fine, le
Note e illustrazioni.
85
s’aprano nel cuore! Addio, pastinache e foglie molli1; addio,
zéppole2 e migliacci; addio, cavoli e tarantello3; addio,
caionze e centofigliuole4; addio, piccatigli e ingratinati!5
Addio, fiore di tutte le città, sfarzo d’Italia, cocco pinto
dell’Europa, specchio del mondo; addio, Napoli non plus ul-
tra, dove ha posto i suoi termini la Virtù e i suoi confini la
Grazia! Me ne parto e rimarrò vedovo delle tue pignatte mari-
tate; sfratto da questo bel casale6; broccoli miei, vi lascio ad-
dietro!».
Cosi dicendo e facendo un inverno di pianto dentro un
solleone di sospiri, tanto andò che la prima sera giunse verso
Cascano7, a un bosco che si faceva tener la mula dal Sole
fuori dei suoi confini mentre se la godeva col silenzio e con
l’ombra. Colà era una casa vecchia a piè d’una torre; ed egli
vi picchiò, ma il padrone, che stava in sospetto di fuorusciti8,
poiché era già notte, non volle aprire. Cosicché il povero
Cienzo fu costretto a starsene in quella casa diroccata; e, dopo
aver impastoiato il cavallo in mezzo ad un prato, si buttò, con
la cagnuola a fianco, a dormire sopra un po’ di paglia, che
trovò là dentro.
Non cosi presto aveva calato le palpebre assopendosi, che
fu svegliato dall’abbaiare della cagnuola e senti rumore di
ciabatte per quella casaccia. Cienzo, ch’era animoso e arrisi-
cato, mise mano alla carruba9 e cominciò a tirare di gran colpi
pi nello scuro. Ma, accorgendosi che non coglieva nessuno e
che tirava al vento, si distese di nuovo sulla paglia.
Dopo un po’, si senti tirare pel piede piano piano; ed egli,
tornato a por mano alla squarcina, si levò un’altra volta, gri-
1
Carote e bietole.
2>
Frittelle con miele.
3
Salume fatto con ventre di tonno.
4
Sacco intestinale e interiora d’animali da macello: cfr. per la seconda pa-
rola il lat. «centipellio».
5
Piccatigli», manicaretti di carne minuzzata.
6
«Casale» valeva «villaggio»; e Napoli, scherzosamente e
affettuosamente, era detta «il casalone».
7
Uno dei casali di Sessa Aurunca.
8
Briganti
9
Spregiativamente, per «spada»: dalla forma del frutto del carrubo.
86
dando: «Olà, che adesso mi hai rotto la scatole! Ma non giova
stare a fare questi giochetti. Se hai buono stomaco, lasciati
vedere e scapricciamoci pure, ché hai trovata la scarpa pel tuo
piede!».
A questo parlare risuonò una risata a crepapelle, e poi una
voce cupa che disse: «Vien giù di qua, ché ti dirò chi sono».
Cienzo, senza perdersi d’animo, rispose: «Aspetta, ché ora
vengo». E tanto brancolò a tentoni che infilò una scala che
menava a una cantina, dove, quando fu disceso, trovò una lu-
cernetta accesa, e tre, che parevano tre spiriti folletti, i quali
facevano un amaro piagnisteo, lamentandosi: «Tesoro mio
bello, come ti perdo!».
Cienzo stimò bene di mettersi anch’esso a piangere per
conversazione; e, dopo aver durato cosi un buon tratto, poiché
la Luna ormai tagliava per lo mezzo con l’accettullo1 dei suoi
raggi la zéppola del cielo2, quei tre, che facevano la nenia, gli
dissero: «Ora va, prenditi questo tesoro, che è destinato a te
solo, e sappi conservartelo». E subito dileguarono, proprio
come se fossero colui che mai non possiate vedere!3
Cienzo, quando per certo pertugio vide il sole, volle risali-
re, ma non trovò più la scala. Si mise allora a gridare, e tanto
gridò che il padrone della torre, che era entrato tra quelle mu-
ra in rovina per orinare, lo udì, e, domandatogli che cosa fa-
cesse, e saputo come la cosa era passata, andò a prendere una
scala, e scese dov’era Cienzo. Appena messo piede nella can-
tina, gli dié nell’occhio un gran tesoro, del quale
s’impossessò, non senza offrire a Cienzo la parte che gli toc-
cava; ma Cienzo la rifiutò, e, ripigliata tra le braccia la ca-
gnuola e rimontato a cavallo, si rimise in via.
Arrivò dopo alcune ore, a un bosco, ermo e deserto, che ti
1
L’«Accettullo» era tra le armi da taglio proibite, come può vedersi nella
prammatica del 30 settembre 1557, e in altre (Raccolta cit., vol. II, tit.
XXV, De armis, 5).
2
Allude a un giuoco che, a quel che dice il D’AMBRA nel suo Vocabolario
napoletano, si faceva tra due, e consisteva nel cercar di partire la zéppola
in modo eguale, e dei due giocatori, alternativamente, l’uno dava il colpo e
l’altro aveva il diritto di scegliere tra le parti divise.
3
Il demonio.
87
faceva torcere la bocca dallo spavento, tanto era scuro; e qui
incontrò una fata alla sponda di un fiume, il quale, per dar gu-
sto all’ombra di cui era innamorato, faceva la biscia1 nei prati
e le corvette sui sassi; e la fata era alle prese con una banda di
malandrini che le volevano togliere l’onore. Cienzo, non ap-
pena ebbe visto la villania di quei mascalzoni, mise mano alla
salacca e fece un macello di quella torma. La fata, a questa
impresa compiuta in sua difesa, lo colmò di ringraziamenti e
complimenti, e lo invitò a un palagio poco discosto, perché
desiderava dargli il ricambio del servigio che aveva ricevuto.
Ma Cienzo, ripetendo: «Non c’è di che, mille grazie, un’altra
volta profitterò dei vostri favori, perché ora vado in fretta per
cosa che importa», si accommiatò.
Camminato ancora un altro buon tratto, si trovò innanzi al
palazzo di un re, tutt’addobbato a lutto, che faceva buio il
cuore di chi lo vedeva.
Domandò Cienzo la ragione di questo lutto; e gli fu rispo-
sto che a quella terra era comparso un dragone con sette teste,
il più terribile che si fosse mai veduto al mondo, con le creste
di gallo, la testa di gatto, gli occhi di fuoco, le fauci di cane
corso, le ali di pipistrello, le branche d’orso, la coda di serpen-
te. «Ora questo si divora un cristiano al giorno, ed essendo
durata la cosa fino al giorno d’oggi, la beneficiata è toccata
adesso a Menechella, figliuola del re, Questa è la ragione del
corruccio e del trambusto che si fa alla casa reale, perché la
più vaga creatura del nostro paese dev’essere ingoiata e tran-
gugiata da un brutto animale».
Cienzo, avute queste informazioni, si trasse in disparte e
vide venire Menechella con la gramaglia, accompagnata dalle
damigelle di corte e da tutte le donne di quella terra, che, bat-
tendo le mani e strappandosi le chiome a ciocca a ciocca,
piangevano la mala sorte della sventurata principessa, escla-
mando: «Chi glielo avrebbe detto a questa giovane di dover
far cessione dei beni della vita nel corpo di quella mala be-
stia? Chi glielo avrebbe detto a questo bel cardellino che a-
vrebbe avuto per gabbia il ventre di un dragone? Chi glielo
1
Sorta di danza.
88
avrebbe detto a questo bel bacherello che avrebbe lasciato la
semenza dello stame vitale in un nero bozzolo?». E, mentre
cosi dicevano, ecco, dal fondo di una cavernaccia, uscire il
dragone: oh mamma mia, com’era brutto! Fa’ conto che il so-
le si rimpiattò per paura dentro le nuvole, il cielo s’intorbidò e
il cuore di tutta quella gente si mummificò; e tale fu il tremito
che non le si sarebbe potuto infilare per clistere nemmeno un
pelo di porco.
Cienzo, a questa vista, si lanciò innanzi, e con un colpo di
sciabola, taci, gli fece cascare a terra una delle teste. Ma il
dragone, stropicciato il collo a un’erba poco lontano, subito se
la riappiccicò, come lucertola quando si riattacca alla coda.
Cienzo pensò: «Chi non insiste, non figlia»; e, stretti i denti,
menò un colpo cosi smisurato che gli tagliò a tondo tutte e
sette le teste, le quali saltarono dal collo come i ceci dal me-
stolo. Strappò di poi le lingue e se le mise in serbo, scagliando
le teste un miglio lontano dal corpo, affinché non si fossero
un’altra volta incastrate con esso; e tolse una manata di
quell’erba, con la quale il dragone aveva riappiccicato il collo.
Fatto questo, rinviò Menechella alla casa del padre, ed egli
andò a riposarsi a una taverna.
Quando il re rivide la figliuola, non ci sono parole per di-
re il giubilo che ne fece. E, udito del modo in cui era stata li-
berata, comandò di gettare subito un bando: che chi aveva uc-
ciso il dragone, venisse a prendersi la figliuola per moglie.
Sparsosi il bando, un villano malizioso raccolse le teste
del dragone, andò dal re e gli disse: «Per opera di quest’uomo
che vi vedete dinanzi è salva Menechella; queste mani hanno
liberato il paese da tanta rovina.
Ecco le teste che son testimoni del valor mio. Perciò, ogni
promessa è debito!». E il re si tolse la corona dal capo e la po-
se sulla zucca del villano, che parve testa di fuoruscito in cima
a una colonna1.
1
Giustiziato o altrimenti ammazzato un fuoriuscito o brigante, se ne
soleva esporre la testa in una gabbia sopra una colonna o pendente da una
porta, e spesso cinta di una mitria o corona di carta dorata, della quale era
stato già insignito nell’esser condotto al supplizio.
89
Corse subito la voce di questo fatto per tutta la terra e
giunse all’orecchio di Cienzo, che disse tra sé e sé: «Vera-
mente sono una grande bestia! Ebbi la fortuna pei capelli e me
la lasciai sfuggir di mano. Uno mi vuol dare metà di un teso-
ro, e io ne fo quel conto che il tedesco dell’acqua fresca1.
Un’altra mi vuol fare bene al suo palazzo, e io ne fo quel con-
to che l’asino della musica. E ora sono chiamato alla corona, e
me ne sto come l’ubbriaca del fuso, tollerando che mi metta
piede innanzi un piede peloso, e mi levi di mano questo bel
trentanove un giocatore biscazziere e di vantaggio».
Con queste riflessioni, dié di mano a un calamaio, prese la
penna, stese la carta e cominciò a scrivere: «Alla bellissima
gioia delle donne tutte, Menechella, infanta di Perdisenno. —
Avendoti per grazia del solleone salvata la vita, apprendo che
un altro si fa bello delle mie fatiche e fa valere il servigio che
io ti ho reso. Perciò tu, che fosti presente alla zuffa, puoi far
fede al re del vero e non consentire che altri guadagni la piaz-
za morta2, mentre io ho menato le mani. Sarà codesto il debito
effetto della tua bella grazia di regina e meritato premio di
questa forte mano di Scannarebecco3. E, per fine, ti bacio le
delicate manine. — Dall’osteria dell’Orinale, oggi, domeni-
ca».
Scritta questa lettera e sigillatala con pane masticato,
Cienzo la mise in bocca alla cagnuola, comandando: «Va’,
corri corri, e portala alla figlia del re, e non darla se non nelle
mani proprie di quel viso d’argento». La cagnuola, quasi vo-
lando, giunse al palazzo reale; e, salita la scala, trovò il re che
faceva ancora complimenti con lo sposo; e quello, vedendola
entrare con la lettera in bocca, ordinò che le fosse tolta. Ma la
cagnuola non volle darla a nessuno, e, saltando in grembo a
1
Era già da secoli proverbiale l’amore dei tedeschi pel vino, e correvano
in proposito svariati motti e modi di dire, dei quali questo è uno.
2
Per istituzione del viceré don Pietro di Toledo, in ogni compagnia di
soldati spagnuoli o italiani era lasciato vuoto un posto, che provvedeva
alla sussistenza di tre soldati invalidi, fornendo all’un d’essi
l’alloggiamento e agli altri due il soldo. Questo posto, che valeva una
pensione, si chiamava «piazza morta», ossia «posto vuoto».
3
Skanderberg: v. sopra
90
Menechella, a lei la pose nelle mani. Menechella si levò da
sedere, e, fatta riverenza al re, gliela porse affinché la legges-
se.
Letta la lettera, subito il re ordinò che si andasse dietro al-
la cagnuola per vedere dove entrava e gli si facesse venire di-
nanzi senz’altro il padrone di quella. E due cortigiani la segui-
rono, pervennero all’osteria, vi trovarono Cienzo, e, fattagli
l’imbasciata, lo menarono al palazzo.
Giunto alla presenza reale, il re gli domandò come mai
ardisse vantarsi di aver ammazzato il dragone, se le teste le
aveva portate l’uomo, che ora vedeva al suo fianco con la co-
rona sul capo. E Cienzo rispose: «Questo villano meriterebbe
una mitria di carta reale piuttosto che una corona, perché è
stato cosi sfacciato da farti vedere vesciche per lanterne. E che
sia vero che io ho compiuto l’impresa e non questa barba di
caprone1 fate che siano qui recate le teste del drago, nessuna
delle quali vi può far da testimonio, perché priva di lingua. Le
lingue, perché vi facciano fede, le ho portate io in giudizio».
E mostrò le lingue, e il villano rimase allibito, e non sape-
va che cosa gli fosse accaduto. Tanto più che Menechella
soggiunse: «Questi è lui! Ah, villano cane, come me l’avevi
fatta!». E subito il re tolse la corona dalla testa di quel rustico
cotennone e la collocò su quella di Cienzo. Voleva anche
mandarlo alle galere; ma Cienzo, per confondere con termini
di cortesia l’indiscrezione, domandò e ottenne grazia per lui.
Cosi si apparecchiarono le tavole, si banchettò da gran signo-
ri, e gli sposi andarono a coricarsi in un bel letto, odoroso di
bucato, dove Cienzo, alzando i trofei della vittoria sul drago-
ne, entrò trionfando nel Campidoglio d’Amore.
La mattina dopo, quando il Sole, giocando a due mani con
lo spadone della luce in mezzo alle stelle, grida: «Indietro, ca-
naglia!», Cienzo, mentre si rivestiva innanzi a una finestra,
vide alla casa di fronte una giovane, e, voltosi a Menechella,
disse: «Che bella cosa è quella giovane che sta dirimpetto a
questa casa!». «Che vuoi farne di cotesta roba? — rispose la
moglie: — ci hai messi gli occhi sopra? Ti fosse venuto qual-
1
Veramente il testo dice «barba d’annecchia», cioè di giovenca.
91
che malo umore? O t’è a stufo il grasso? Non ti basta la carne
che hai a casa?».
Cienzo, col capo chino, come un gatto che ha fatto qual-
che danno, non disse verbo; ma, fingendo di andare per un
certo affare, usci dal palazzo e infilò la casa di quella giovane.
Era quella veramente un bocconcino prelibato: tu vedevi una
tenera giuncata, una pasta di zucchero! Non mai volgeva i
bottoni degli occhi suoi che non facesse, con marchio di fuo-
co, un emissario amoroso al cuori; non apriva mai la conca
delle labbra, che non desse una bollitura alle anime; non mo-
veva pianta di piede, che non calcasse forte le spalle di chi
pendeva dalla corda delle speranze. E, oltre tante bellezze che
ammaliavano, aveva la virtù che, sempre che voleva, incanta-
va, legava, attaccava, annodava, incatenava e avviluppava gli
uomini coi capelli; come fece di Cienzo, il quale, appena mise
piede dov’essa stava, rimase impastoiato a mo’ di poliedro.
Intanto, Meo, il minor fratello, non avendo alcuna nuova
di Cienzo, entrò in pensiero di andarlo cercando; e, chiestane
licenza al padre, ebbe anch’esso un cavallo e una cagnuola fa-
tati. Nel viaggio, capitò una sera alla torre dov’era stato Cien-
zo, e il padrone, togliendolo in scambio col fratello, gli usò le
maggiori carezze del mondo e voleva dargli un gruzzolo di
monete, che egli non accettò; ma questi complimenti gli fece-
ro pensare che il fratello fosse stato colà e ne prese speranza
di ritrovarlo. Tostoché la Luna, nemica dei poeti, volse le
spalle al Sole, si rimise in cammino, e giunse dove dimorava
la fata, la quale anch’essa lo credette Cienzo e lo accolse a fe-
sta, salutandolo: «Sii il benvenuto, giovane mio, che mi salva-
sti la vita!». Meo la ringrazip di tanta amorevolezza, e le dis-
se: «Perdonami se non mi trattengo, ché ho fretta. A rivederci
al ritorno». Lieto di trovare sempre orme del fratello, continuò
la strada, finché arrivò al palazzo del re, giusto in quel giorno
che Cienzo era stato sequestrato dai capelli della maliarda. Ed
entrato, fu ricevuto dai servitori con grande onore e abbraccia-
to dalla sposa con grande affetto, la quale gli disse: «Ben ven-
ga il mio marito! La mattina va e la sera viene; e, quando ogni
uccello va a pascere, il gufo rientra a casa. Come hai tardato
tanto, Cienzo mio? Come puoi star lontano da Menechella?
92
Tu mi hai tolta di bocca al dragone, e mi gitti in gola al so-
spetto, perché non mi fai sempre specchio degli occhi tuoi!».
Meo, ch’era furbo, immaginò subito che costei era la moglie
del fratello; e si scusò del ritardo, e l’abbracciò, e insieme si
misero a cena.
E quando la Luna, come chioccia, chiama le stelle a bec-
care le rugiade, i due andarono a letto; ma Meo, che portava
rispetto all’onore del fratello, sparti le lenzuola, prendendone
uno per sé e lasciando l’altro a Menechella, per non avere oc-
casione di toccare la cognata. La donna, a questa novità, con
una cera brusca e una faccia da matrigna, gli disse: «Bene mi-
o, da quando in qua? A che giuoco giochiamo? E che scherzi
sono questi? Siamo forse una masseria di due contadini liti-
giosi, che ci apponi i termini? Siamo eserciti di nemici, che
scavi innanzi la trincea? Siamo cavalli selvatici, che vi metti
di mezzo uno steccone?». Meo, che sapeva numerare fino a
tredici, rispose: «Non ti lamentare di me, bene mio, ma del
medico, che volendomi purgare, mi ha ordinato la dieta; e ag-
giungi che, per la stanchezza di una giornata intera di caccia,
torno scodato». Meneca, che non sapeva intorbidare l’acqua1
ingoiò questa storiella e prese sonno.
Ma quando poi alla Notte, assillata dal Sole, sono asse-
gnati di tempo i crepuscoli per fare le bisacce, vestendosi Meo
alla stessa finestra davanti a cui s’era vestito il fratello, vide
quella stessa bella giovane, che acchiappò Cienzo; e, poiché
anche a lui assai piacque, dimandò a Menechella: «Chi è quel-
la civetta che sta alla finestra?». Ed essa con grande stizza:
«Torniamo da capo! Anche ieri m’intonasti la canzone di co-
testa cernia, e ho paura che là va la lingua dove il dente duole.
Dovresti portarmi rispetto, perché, infine, sono figlia di re, e
ogni sterco ha il suo fumo. Non senza perché questa notte hai
fatto l’aquila imperiale, spalla contro spalla!2 Non senza per-
ché ti eri ritirato coi tuoi capitali! T’ho inteso: la dieta del let-
to mio vuol dire banchetto in casa d’altri. Ma, se m’accerto di
questo, voglio far cose da pazza e che le schegge vadano per
1
Cioè: che era molto ingenua e credula.
2
L’aquila a due teste dello stemma asburgico.
93
l’aria». Meo, che aveva mangiato il pane di molti forni, la
quetò con buone parole, e le disse e giurò che, per la piu bella
cortigiana del mondo, non avrebbe cambiato la casa sua, e che
essa era la pupilla del suo cuore. E Menechella, tutta consola-
ta, andò nel suo gabinetto per farsi passare dalle damigelle il
vetro per' la fronte1 intrecciarsi i capelli, tingersi le ciglia,
metter il rossetto sulla faccia, e tutta azzimarsi, e cosi parere
più bella a costui che essa credeva il suo marito.
Intanto, Meo, per le parole di Menechella venuto in so-
spetto che Cienzo si trovasse nella casa di quella giovane, tol-
se con se la cagnuola. E, uscito dal palazzo, entrò nella casa di
fronte, dove, non si tosto fu giunto, la bella maga disse: «Ca-
pelli miei, legate costui!». E Meo, pronto: «Cagnuola mia,
mangiati costei!». E la cagnuola, d’un balzo, se la ingoiò co-
me un torlo d’uovo. Andò poi dentro Meo e trovò il fratello
suo incantato; ma con due peli della cagnuoia, che gli pose sul
corpo, parve come se si svegliasse da un gran sonno.
E subito piese a raccontargli quanto gli era accaduto nel
viaggio e, in ultimo, nel palazzo reale, e come, tolto in iscam-
bio da Menechella, avesse dormito con lei. E voleva seguitare
a dire delle lenzuola divise, quando Cienzo, istigato dal de-
monio, mise mano a una lama di vecchia lupa2 e gli tagliò il
collo come cetriuolo. Al rumore, s’affacciò la figlia del re, e,
visto che Cienzo aveva ucciso un altro affatto a lui simile, lo
richiese del motivo. Cienzo rispose: «Domandalo a te stessa,
tu, che hai dormito con mio fratello, credendo di dormire con
me; e per questo l’ho spacciato». «Deh, quanti sono uccisi a
torto! — esclamò Menechella: — bella prova hai fatta! Tu
non meritavi questo fratello dabbene, perché sappi che egli,
trovandosi con me nello stesso letto, divise con grande mode-
stia le lenzuola, facendo: — Tu stai da te e io sto da me».
Cienzo, preso da pentimento per cosi grosso errore, figlio
1
Per rendere liscia la fronte, si adoperava in quel tempo dalle donne una
palla di vetro.
2
II testo: «na lopa vecchia». Il TASSONI {Secchia rapita, VI, 37): «Non
ferma qui la furibonda spada, Ch’era una lama da la lupa antica», spiegan-
do nella nota: «In Ispagna, saranno circa due secoli, si fabbricavano bellis-
sime lame da spada e molto buone: si vede in esse l’impronta d’una lupa».
94
di un giudizio temerario e padre di un’asineria, si graffiò
mezza la faccia. Ma in questo si sovvenne dell’erba insegna-
tagli dal drago e la stropicciò al fratello sul collo, che subito si
riappiccò alla testa, e quegli risorse in piede, intero e vivo. Ed
egli lo abbracciò con grande allegrezza e gli chiese perdono
dell’esser corso in furia e mal informato a cacciarlo dal mon-
do; e poi, in coppia, se ne andarono al palazzo reale. Di là
mandarono a chiamare Antoniello con tutta la famiglia, il qua-
le diventò assai caro al re e vide nella persona del figlio avve-
rato il proverbio:
La barca storta va diritta al porto.
95
96
LA FACCIA DI CAPRA
1
Il rotolo era una misura di peso, equivalente a trentasei
once, ossia a circa 900 grammi.
2
II pataccone era una moneta equivalente a circa cinque
carlini, cioè a poco piu di due lire.
99
Ora avvenne che, andando a caccia il re per quei boschi,
lo colse la notte, e, non sapendo dove dar di capo, vide un lu-
me splendere dal palazzo, e mandò un suo servitore per prega-
re il padrone di dargli ricovero. Al servitore si fece incontro la
lucertola in forma di una giovane bellissima; la quale, udita
l’imbasciata, rispose che fosse mille volte il benvenuto, ché
non gli sarebbe mancato né pane nè coltello. Il re entrò e fu
ricevuto da cavaliere, uscendogli incontro cento paggi con le
torce accese, che pareva la gran pompa funerale di un uomo
ricco; cento altri paggi portavano le vivande a tavola, che pa-
revano altrettanti garzoni di speziale che portano i piattelli ai
malati; cento altri, con strumenti o stordimenti, musicheggia-
vano. Sopra tutti, Renzolla servi il re da bere, con tanta grazia
che egli bevve più amore che vino. E quando, finito il pranzo,
si ritirò per coricarsi, Renzolla stessa gli cavò le calze dai pie-
di e il cuore dal petto, con tanta amabilità che, toccato da
quella bella mano, senti su dai malleoli salire il veleno amoro-
so a rendergli inferma l’anima.
Per rimediare alla morte, che già gli appariva ineluttabile,
procurò dunque il re di ottenere l’orvietano1 di quelle bellez-
ze; e, indirizzatosi alla fata, che ne aveva la tutela, gliela do-
mandò in moglie. Quella, che non cercava altro che il bene di
Renzolla, non solo gliela dié liberamente, ma la dotò anche di
sette milioni d’oro2. E il re, tutto gioioso per questa ventura,
se ne parti con Renzolla.
Ma Renzolla, scontrosa e sconoscente a tutto quanto ave-
va fatto per lei la fata, andò via col marito senza dirle una pa-
rola, nemmeno una parola sola, di ringraziamento e di affetto.
A tanta brutta ingratitudine, la fata le mandò la maledizione,
che le si trasformasse la faccia a somiglianza di quella di una
capra. E, nel punto stesso, la bocca della giovane si distese in
muso con un palmo di barba, le mascelle le si restrinsero, la
pelle le s’induri, la faccia le si copri di pelo, e le trecce a pa-
nierino3 si cangiarono in corna puntute.
1
Famoso antidoto.
2
«Cunte d’oro»: spagn. «cuento».
«A canestrelle»: pettinatura delle trecce avvoltolate in cima al capo.
100
A questa trasformazione il disgraziato re si fece piccino
piccino, tutto sbalordito di quel ch’era accaduto, vedendo
quella mirabile bellezza cosi bruttamente scontraffatta. E so-
spirò e pianse a tutto pasto: «Dove sono le chiome, che
m’annodavano? Dove gli occhi, che mi trapassavano? Dove la
bocca, che fu tagliuola di quest’anima, trappola di questi spi-
riti, uccellatoio1 di questo cuore? Ma che? Dovrò esser marito
di una capra e acquistarmi il titolo di caprone?
Debbo di questa foggia esser ridotto a fidarmi a Foggia?2
No, no; non voglio che il mio cuore crepi per una faccia di
capra, che mi porterà guerra, deponendo olive»3 .
Con questi lamenti, giunto che fu al suo palazzo, mise
Renzolla con una cameriera in cucina, dando all’una e
all’altra una decina4 di lino affinché lo filassero e assegnando
loro il termine di una settimana a eseguire tale lavoro. La ca-
meriera, obbedendo al comando del re, cominciò a pettinare il
lino, a fare i lucignoli, a metterli alla conocchia, a torcere il
fuso, a formare le matasse, faticando come cane; tanto che il
sabato aveva bello e finito. Ma Renzolla, che pensava di esser
sempre quella che era a casa della fata, perché non ancora si
era guardata allo specchio, gittò il lino dalla finestra, dicendo:
«Ha buon tempo il re a darmi questi impicci! Se vuole cami-
cie, se le compri, e non si creda di avermi trovata alla lava!5
Si ricordi che gli ho portato in dote sette milioni d’oro, e che
gli sono moglie e non serva; e mi pare che abbia dell’asino a
trattarmi a questo modo!».
Con tutto ciò, il sabato mattina, vedendo che la cameriera
aveva filato tutta la parte sua del lino, ebbe gran paura di
qualche scardassatura di lana; e perciò si avviò al palazzo del-
la fata e le raccontò la sua disgrazia. La fata, dopo averla ab-
1
«Codavattolo» o «coravattolo»: congegno per prendere uccelli.
2
Per la «fida» e Diffidarsi» si veda sopra, p. 45, n. 7. Per Foggia si veda, in
fine, nelle Note e illustrazioni.
" Forma dello sterco della capra, con annesso bisticcio con l’ulivo, simbo-
lo di pace.
17
Cioè, nella vecchia misura napoletana, quattro rotoli.
5
«Lave» si chiamano a Napoli i torrenti di acqua piovana, i quali un
tempo correvano impetuosi per la città. Maggiori notizie sulle Note e
illustrazioni in fine.
101
bracciata con grande amore, le dié un sacco pieno di filato af-
finché lo presentasse al marito per mostrare di essere stata
buona massaia e donna di casa. E Renzolla prese il sacco, e,
senza dirle «gran mercé del servizio!», le volse le spalle; e
quella non sapeva darsi pace del cattivo comportamento della
giovane disamorata.
Ricevuto il filato, il re consegnò due cani, uno a lei e
l’altro alla cameriera, affinché li allevassero e crescessero. La
cameriera crebbe il suo con ogni delicatezza e lo trattava co-
me figlio. Ma Renzolla, strepitando: «Si, proprio questo pen-
siero mi lasciò mio nonno! Sono venuta in mano dei turchi?
Devo stare a pettinare i cani e portarli a far la cacca?», lo sca-
gliò dalla finestra, che fu altro che saltare attraverso il cerchio.
Ma, dopo alcuni mesi, il re domandò dei cani, e Renzolla,
presa da paura, corse di nuovo dalla fata.
Trovò alla porta della fata un vecchierello, che faceva da
portiere, il quale le chiese: «Chi sei tu, e che cosa vuoi?».
Renzolla, a questa domanda inaspettata, proruppe: «Non mi
conosci, barba di capra?». «A me col coltello? — rispose il
vecchio; — il mariuolo insegue lo sbirro; ‘scostati, che mi
tingi’, disse il calderaio; gittati innanzi per non cadere! Io,
barba di capra? Sei tu barba di capra e mezza, ché, per la tua
presuntuosità, meriti questo e peggio; e aspetta un po’, sfac-
ciata arrogante, ché ora ti chiarisco, e vedrai a che ti ha ridotto
il fumo della tua superbia». E corse dentro un camerino e,
preso uno specchio, lo mise dinanzi a Renzolla.
Quando essa vide quella brutta céra pelosa, ebbe a scop-
piare di spasimo, ché non provò tanta angoscia Rinaldo mi-
randosi allo scudo incantato e vedendosi tanto diverso da quel
che già era, quanto essa senti dolore nel ritrovarsi cosi defor-
mata che non ravvisava se stessa. Il vecchio ripigliò: «Ti do-
vevi ricordare, o Renzolla, che tu sei figlia di un villano e che
la fata ti aveva trattata con tanta bontà che di te aveva fatto
una regina. Ma tu, sciocca, tu, scortese e ingrata, non portan-
dole alcuna riconoscenza per tanti favori, l’hai proprio tenuta
a quella camera che sta nel mezzo1 e non le hai mostrato un
1
Intendi: «nell’ano», e cioè, in nessun conto.
102
segno solo di amore. Perciò, ora prendi e spendi; abbiti questo
e torna pel resto. Ti è riuscita bene la cosa! Vedi che faccia è
ora la tua, vedi a quali termini sei ridotta per la ingratitudine
tua: la maledizione della fata ti ha fatto cangiare non solo fac-
cia, ma anche stato. Pure, se vuoi fare a modo di questa barba
bianca, entra da lei, buttati ai suoi piedi, strappati le ciocche,
graffiati la faccia, picchiati il petto, e chiedile perdono dei cat-
tivi comportamenti che le hai usati. Essa è di polmone teneri-
no, e si moverà a compassione delle disgrazie che ti hanno
colpita».
Renzolla, che si senti ben toccare i tasti e battere bene sul
chiodo, si comportò secondo il consiglio del vecchio. E la fata
la abbracciò e la baciò e le ridette la forma di prima. Poi, le
mise una veste tutta d’oro, la fece entrare in una carrozza che
era una meraviglia, accompagnata da una frotta di servitori, e
la ricondusse al re. E il re, vedendola cosi bella e pomposa,
l’ebbe cara quanto la vita, e si dié grandi pugni al petto per le
pene che le aveva inflitte, scusandosi, a causa di quella male-
detta faccia di capra, di averla tenuta tra le cose vili .
Cosi Renzolla se ne stette contenta, amando il marito,
onorando la fata e mostrandosi grata al vecchio, perché essa
aveva conosciuto a proprie spese:
che giova sempre l’essere cortese.
103
104
TRATTENIMENTO OTTAVO
LA CERVA FATATA
1
Nomi napoletaneschi di varie ipecie di reti e di altri arnesi da pesca.
106
Cotto il cuore, la regina lo assaggiò appena, e sull’istante
si senti gonfiare la pancia; e, a capo di quattro giorni, essa e la
damigella a un tempo partorirono ciascuna un bel maschione,
cosi perfettamente simili l’uno all’altro, che non si discerneva
questo da quello.
I due crebbero insieme con tanto amore che non sapeva-
no stare l’uno senza l’altro; ed era tanto sviscerato il bene che
si volevano, che la regina incominciò ad aver qualche invidia
che il figlio suo mostrasse maggior affetto al figlio di una ser-
va che a lei, e non sapeva in qual modo togliersi questo pruno
dagli occhi.
Un giorno, volendo il principe andare a caccia col suo
compagno, fece accendere il fuoco nel camino della sua ca-
mera, e cominciò a fondere il piombo per fare pallottoline. Ma
si accorse che gli mancava non so che cosa, e si mosse di per-
sona per cercarla. In questo, sopravvenne la regina per vedere
che cosa faceva il figlio, e, trovato solo Canneloro, il figlio
della damigella, e pensando di levarlo da questo mondo, gli
scagliò in faccia una pallottoliera rovente. Il giovinetto si chi-
nò e il colpo lo colse sopra il ciglio e gli produsse un grave in-
tacco. E avrebbe la regina rinnovato il colpo, quando giunse il
figlio suo, Fonzo; ed essa, allora, facendo finta d’esser venuta
a vedere come stava, gli somministrò quattro carezzette insi-
pide, e andò via.
Canneloro, che intanto s’era calcato un cappello sulla
fronte per non lasciar avvedere l’altro dell’accaduto, stette
fermo e saldo, sebbene la ferita gli bruciasse. E, quand’ebbe
finito di avvoltolare pallottole come se fosse uno scarafaggio,
chiese licenza al principe di partirsene dal paese; cosa che me-
ravigliò Fonzo, al quale egli non ne aveva mai fatto cenno
prima e che gli domandò il perché di questa risoluzione. Can-
neloro rispose: «Non cercar altro, Fonzo mio: ti basti sapere
solamente che sono sforzato a partire; e sa il Cielo, se, parten-
do da te, che sei il mio cuore, l’anima si spartisce da questo
petto, lo spirito naviga fuori del corpo, e il sangue si dilegua
dalle vene. Ma, poiché altro non si può, sta’ sano e ricordati di
me».
Cosi, tra abbracci e pianti, si avviò Canneloro alla sua
107
camera, indossò un’armatura e una spada, anch’essa partorita
da un’altra arma nel tempo che si coceva il cuore del drago, e
prese un cavallo dalla scuderia. E stava per mettere il piede
nella staffa, quando Fonzo lo raggiunse piangendo e gli disse
che, poiché era risoluto ad abbandonarlo, almeno gli lasciasse
alcun segno dell’amor suo, per temperare l’affanno della sua
assenza. Canneloro mise mano al pugnale e, conficcatolo a
terra, subito ne scaturì una bella fontana; ed: «Ecco — disse,
— questa è la migliore memoria che ti possa lasciare, perché
dal corso di questa fontana conoscerai il corso della mia vita.
Se la vedrai scorrere chiara, vorrà dire che sarò anch’io chiaro
e tranquillo nel mio stato; se torbida, pensa che soffro trava-
gli; se secca (e non voglia il Cielo), fa’ conto che l’olio della
mia lucerna sarà finito ed io sarò giunto al punto di pagare il
dazio dovuto alla natura». Mise poi mano alla spada, détte un
colpo in terra e fece nascere una pianta di mortella: «E sempre
che vedrai verde questa, sarò verde come aglio; se la vedi flo-
scia, pensa che le mie fortune non stanno troppo diritte; se del
tutto secca, puoi dire per Canneloro tuo requie, scarpe e zoc-
coli» 1. E, abbracciatolo di nuovo, partì.
Cammina e cammina, dopo che gl'intervennero molti casi
che sarebbe lungo raccontare, come contrasti con vetturini,
imbrogli di osti, assassinamenti di gabellotti, pericoli di mali
passi, terrori di mariuoli2, giunse a Vignafiorita3, nel tempo
che si celebrava una bellissima giostra, premio la figlia del re
al mantenitore. E Canneloro, presentatosi per prendervi parte,
vi si comportò così bravamente che mandp a terra tutti i cava-
lieri che erano venuti da diverse parti per guadagnarsi nome, e
perciò gli fu data in moglie Fenizia, la figlia del re, e fu fatta
una festa grande.
Per qualche mese gli sposi vissero in santa pace, finché a
1
Storpiatura di «requiescat in pace» dove la sillaba «scat» diventa «scar-
pe», e, per logico compimento di enumerazione associativa, si aggiunge:
«e zoccoli». Si veda la nota del Minucci al luogo del Malmatttile, II, 27:
«per farmi dare il requie, scarpe e zoccoli».
2
Gl’incidenti soliti del viaggiare a quei tempi.
3
Testo: «a Lungapergola», che invece è stato dato, in principio, come il
luogo di nascita di Canneloro e di Fonzo. Si è sostituito, nella traduzione,
un altro nome qualsiasi.
108
Canneloro non venne l’umore malinconico di recarsi a caccia.
Il re gli disse: «Guarda la gamba1, genero mio! Bada che non
t’acciechi il maligno! Sta’ in cervello! Apri l’uscio2, messere!
Per questi boschi passeggia un orco del demonio, che ogni
giorno cangia forma, ora leone, ora cervo, ora asino, e ora una
cosa e ora un’altra; e, con mille stratagemmi, trascina i di-
sgraziati che s’incontrano con lui in una grotta, dove se li
mangia. Non mettere, dunque, figlio mio, a rischio la tua salu-
te, perché vi lascerai gli stracci».
Canneloro, che aveva lasciato la paura nel ventre della
madre, non curò i consigli del suocero; e non cosi presto il
Sole con la scopa di rusco dei suoi raggi ebbe spazzato le fu-
liggini della Notte, andò a caccia. E, giunto a un bosco, dove
sotto la tettoia3 delle fronde si congregavano le Ombre a far
monopolio e congiurare contro il Sole, l’orco, che lo vide da
lungi, si trasformò in una bella cerva. Canneloro prese a inse-
guirla; ma la cerva tanto lo tenne a bada e lo trabalzò di luogo
in luogo che lo attirò nel cuore del bosco. Qui l’orco fece ve-
nir giù un rovescione di pioggia e di neve da parere che il cie-
lo cascasse; onde Canneloro, trovandosi davanti alla grotta di
colui, vi entrò per ripararsi. Aggranchiato com’era dal freddo,
raccolse certe legna che erano nella grotta, e, cavato dalla sac-
coccia il focile, accese un gran fuoco.
Mentre cosi si scaldava e rasciugava i panni, si presentò
alla bocca della caverna la cerva e lo implorò: «O signor cava-
liere, dammi licenza che io mi possa prendere un po’ di tepo-
re, perché sono intirizzita dal freddo». Canneloro, che era cor-
tese, le disse: «Accostati, sii la benvenuta». «Vengo — rispo-
se la cerva, — ma ho paura che tu poi mi ammazzi». «Non
dubitare — replicò Canneloro, — vieni sulla parola mia». «Se
vuoi che io venga — tornò a dire la cerva, — lega cotesti ca-
ni, che non mi facciano male, e attacca il cavallo, che non mi
1
La frase è anche toscana, dall’uso di toccar la gamba a coloro che veni-
vano imprigionati per debiti: donde il grido caritatevole degli astanti:
«Guarda la gamba!».
2
Apri l’occhio.
3
«Pennata»: che era una tettoia o riparo, anche di legno, che usava nelle
strade e nei palazzi.
109
dia calci». E Canneloro legò i cani e mise le pastoie al caval-
lo. «Si, che sono mezza rassicurata; ma, se non leghi la spada,
io, per l’anima di mio nonno non entro». E Canneloro, a cui
piaceva di addomesticarsi con la cerva, legò la spada, come fa
il contadino, quando la porta dentro la città, per paura degli
sbirri.
L’orco, quando vide Canneloro senza difese, ripigliò la
forma sua propria; e, abbrancatolo, lo calò dentro una fossa
che era in fondo alla grotta, e lo coperse con una pietra, per
mangiarselo a suo tempo.
Ora Fonzo, che non trascurava mai di fare, mattina e se-
ra, una visita alla fontana e alla mortella per aver notizia dello
stato di Canneloro, trovata l’una floscia e l’altra torbida, pen-
sò subito che il suo amico del cuore sosteneva travagli. Riso-
luto a dargli soccorso, non chiese licenza né al padre né alla
madre e montò a cavallo, bene armato, con due cani fatati e
s’avviò pel mondo. Girò e girò, andò di qua e di là, finché
giunse a Vignafiorita, che trovò tutta parata a lutto per la cre-
duta morte di Canneloro. Ma, com’egli apparve, tanta era la
somiglianza sua con Canneloro, che tutti della corte lo scam-
biarono pel genero del re, e molti corsero a chiedere a Fenizia
il beveraggio per la buona notizia che le portavano.
Fenizia si precipitò per le scale e cadde nelle braccia di
Fonzo, dicendogli: «Marito mio, cuore mio, dove sei stato
tanti giorni?». Al che egli entrò subito in sospetto che Canne-
loro fosse venuto a questa terra e ne fosse partito, e formò di-
segno d’interrogare destramente la principessa per coglierla in
parola e intendere dove mai l’amico potesse trovarsi. E, uden-
dole dire che «per questa maledetta caccia si era messo a
troppo pericolo, massimamente se incontrava l’orco, che è
tanto crudele con gli uomini» trasse la conseguenza che là
fosse rimasto impigliato l’amico suo. Ma non disse nulla, e,
sopraggiunta la notte, andò a letto; nel quale, fingendo di aver
fatto voto a Diana di non toccare la moglie quella notte, mise
in mezzo, tra lui e Fenizia, una spada sfoderata, quasi stecco-
ne; e impaziente attese che il Sole uscisse a somministrare al
Cielo le pillole dorate per purgarlo dell’ombra.
Al mattino, levatosi di letto, non valsero né le preghiere
110
di Fenizia né i comandi del re a tenerlo dall’andare a caccia. E
a cavallo, coi due cani fatati, entrò nel bosco, dove gli accad-
de a puntino il medesimo che era accaduto a Canneloro. Nella
grotta, gli dettero subito all’occhio l’armi di Canneloro, e i
cani e il cavallo legati; e tenne per certo che colà fosse incap-
pato l’amico. Ma, quando la cerva lo pregò di legare armi, ca-
valli e cani, egli invece le aizzò contro i cani, che la ridussero
in brandelli. E, cercando dove potesse essere il suo amico,
senti un lamentio giù dal fosso, sollevò la pietra e ne trasse
Canneloro con tutti quegli altri che l’orco teneva a ingrassare,
sotterrati vivi. Poi si abbracciarono con gioia grande, e anda-
rono alla casa.
Fenizia, al veder comparire questi due simili, non sapeva
scegliere tra i due il marito suo. Ma, quando Canneloro si tol-
se il cappello ed essa vide la cicatrice, lo riconobbe e
l’abbracciò.
Fonzo rimase a quella corte un mese, prendendosi gran
diletto; ma poi volle rimpatriare e tornare al suo nido. Per suo
mezzo, Canneloro mandò una lettera alla madre affinché ve-
nisse a partecipare alle sue grandezze, come quella fece; e
d’allora in poi non volle più sapere né di cani né di caccia, ri-
cordandosi la sentenza:
Amaro chi a sue spese si castiga.
111
112
LA VECCHIA SCORTICATA
1
«Bassi» si chiamano a Napoli le abitazioni terrene del popolino.
* «Absinthi genera plura... Ponticum, e Ponto, ubi pecora pinguescunt ilio,
et ob id sine felle reperiuntur». PUN., Nat. Hist., XXVII, 7,
114
pensiero e martellare dal maglio del tormento amoroso, per
lavorare una chiave che potesse aprire il cofanetto di quelle
gioie che lo facevano morire di voglia, non détte indietro, ma
seguitò a mandar suppliche e a rinforzare assalti senza tregua.
Le vecchie, che s’erano messe in tono e ringalluzzite per
le offerte e promesse del re, presero consiglio di non lasciar
perdere l’occasione di acchiappare quest’uccello, che da se
stesso veniva a posarsi sulla pania. E un giorno che il re dalla
finestra rinnovava il suo delirio amoroso, esse, dalla serratura
della porta, gli dissero, con una vocina sottile: che il più gran
favore che potessero fargli sarebbe stato di mostrargli, fra otto
giorni, solo un dito della mano.
Il re, che, come soldato esperto, sapeva che a palmo a
palmo si prendono le fortezze, non ricusò questo partito, spe-
rando di guadagnare a dito a dito la piazza forte, che stringeva
d’assedio; e ricordava l’antico motto: «Prendi e chiedi». E poi
che egli ebbe accettato quel termine perentorio dell’ottavo
giorno per vedere l’ottava meraviglia del mondo, le vecchie
non fecero altro esercizio che, come speziale che ha versato lo
sciroppo, succhiarsi le dita, col concerto che, giunto il giorno
stabilito, quella di loro che avesse il dito più liscio, lo mostre-
rebbe al re. Il quale, intanto, stava sulla corda, aspettando
l’ora fissata per saziare la sua brama: contava i giorni, nume-
rava le notti, pesava le ore, misurava i momenti, notava i punti
e scandagliava gli attimi, che gli erano stati assegnati
nell’attesa del bene desiderato. E ora pregava il Sole che
prendesse qualche scorciatoia pei campi celesti, affinché, a-
vanzando cammino, arrivasse prima dell’ora usata a sciogliere
il carro infocato e ad abbeverare i cavalli, stracchi per tanto
viaggio; ora scongiurava la Notte, affinché, sprofondando le
tenebre, gli lasciasse vedere quella luce che, non vista ancora,
lo costringeva a bruciare nella calcara delle fiamme d’amore;
ora se la prendeva col Tempo, che, per fargli dispetto, s’era
poste le grucce e le scarpe di piombo per ritardare l’ora di li-
quidare lo strumento alla cosa amata e soddisfare Pobbliga-
zione stipulata tra loro.
Come piacque al solleone, giunse l’ora, ed egli, andato di
persona nel giardino, picchiò alla porta, dicendo: «Vieni, vie-
115
ni!»1. E qui una delle vecchie, la più carica d’anni, visto alla
pietra del paragone che il dito suo era di miglior carato di
quello della sorella, introdottolo pel buco della serratura, lo
mostrò al re.
Ma non fu dito quello: fu uno stecco aguzzo, che gli tra-
fisse il cuore! Anzi non fu stecco, ma randello, che gl’intronò
la zucca. Che dico «stecco» e «randello»? Fu uno zolfanello,
acceso per l’esca delle voglie sue; fu una miccia infocata per
la munizione dei desideri suoi. Che dico «stecco», «randello»,
«zolfanello» e «miccia»? Fu una spina sotto la coda dei suoi
pensieri, fu cura di fichi dolci, che gli trasse fuori il fiato del
mal d’amore con un diluvio di sospiri. E, stringendo con la
mano e baciando quel dito, che da lima di calzolaio era diven-
tato brunitoio d’indoratore, prese a dire: «O archivio delle
dolcezze, o repertorio delle gioie, o registro dei privilegi
d’Amore, per cui son diventato fondaco di affanno, magazzi-
no d’angoscia e dogana di tormenti2, è mai possibile che vo-
glia dimostrarti cosi ostinata e dura, che non t’abbiano a muo-
vere i lamenti miei? Deh, cuore mio bello, se hai mostrato pel
pertugio la coda, sporgi ora codesto muso, e facciamo una ge-
latina di piaceri!3 Se hai mostrato il cannolicchio, o mare di
bellezza, mostrami anche il carnume4 ; scoprimi cotesti occhi
di falcone pellegrino e lasciali pascere di questo cuore. Chi
sequestra il tesoro di cotesta bella faccia dentro un cesso? Chi
fa fare la quarantena a cotesta bella mercanzia dentro un covi-
le? Chi tiene in prigione la potenza d’amore dentro un porci-
le? Togliti da cotesto fosso, scapola dalla stalla, esci dal per-
tugio, ‘salta, maruzza e da’ la mano a Cola’, e spendimi per
quanto valgo! Sai pure che sono re, e non sono un cetriuolo, e
posso fare e sfare. Ma quel falso cieco, figlio di uno sciancato
1
«Vieni, vieni, cuccipanella». Parole del giuoco del nascondino. Si veda
Giornata II, a principio.
2
Traslati presi anch’essi dalle carte e registri di un’amministrazione;
traslati dagli edifizi addetti a usi commerciali.
3
Bisticcio col muso di porco, che si prepara in gelatina
4
Altro mollusco, l’«ascidia rustica», che in italiano si dice anche «uova di
mare». Bisticcio con «carni».
116
e di una sgualdrina1, che ha piena autorità sugli scettri, vuole
che io ti sia soggetto, e che ti chieda per grazia quello che po-
trei strappare di proprio arbitrio; e so ancora, come disse co-
lui, che con le carezze, non con le bravate, si adesca Venere».
La vecchia, che sapeva dove il diavolo tenesse la coda,
volpe maestra, gattone vecchio, trincata, astuta e ciurmata2,
riflettendo che il superiore, quando prega, proprio allora co-
manda, e che l’ostinazione del vassallo muove gli umori col-
lerici nel corpo del padrone, che rompono poi in cacasangui di
rovine, mostrò di arrendersi, e, con una vocina di gatta scorti-
cata, rispose: «Signor mio, giacché inclinate a sottomettervi a
chi è sotto di voi, degnandovi di discendere dallo scettro alla
conocchia, dalla sala reale a una stalla, dagli sfarzi ai cenci,
dalla grandezza alla miseria, dalla terrazza alla cantina e dal
cavallo all’asino, non posso, non devo, non voglio replicare
alla volontà di un re cosi grande. Eccomi dunque, giacché vo-
lete fare questa lega di principe e di serva, questo intarsio
d’avorio e di pioppo, questo incastro di diamanti e di vetruzzi,
eccomi pronta e parata alle voglie vostre, solo supplicandovi
una grazia per primo segno dell’affetto che mi portate: ch’io
sia ricevuta nel letto vostro di notte e senza candela, perché
non mi sostiene il cuore di esser vista nuda!».
Il re, tutto gallonando dalla gioia, le giurò con una mano
sopra l’altra che avrebbe fatto volentieri come essa desidera-
va. E, inviato un bacio di zucchero a una bocca d’assa fetida,
si parti; né vedeva l’ora che il Sole avesse terminato di arare e
i campi del cielo fossero seminati di stelle, per seminare a sua
volta il campo dove disegnava di raccogliere le gioie a tomoli
e i piaceri a cantari.
Quando scese la Notte, che, al vedersi attorno tanti pe-
scatori di botteghe e di ferraiuoli3, aveva, come seppia, sparso
il suo nero, la vecchia, spianatesi tutte le grinze della persona
1
Amore, figlio di Vulcano e di Venere
2
«Ecciacorvessa»: cfr. lo spagnuolo «echacuervos».
3
Scassinatori di botteghe e ladri di ferraiuoli, che era un furto allora co-
munissimo e del quale, in Italia, si attribuiva il primato agli spagnuoli. Si
veda CROCE, La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza 4 (Bari,
1949), p. 242.
117
e, tirandole, fattone un nodo dietro le spalle, che legò stretto
con un capo di spago, se ne venne al buio, condotta per mano
da un cameriere, nella camera del re. E là, toltisi di dosso gli
stracci, si ficcò nel letto.
Il re, che stava, impaziente, con la miccia alla serpentina,
e che s’era cosparso tutto di muschio e zibetto e stropicciatosi
le carni con acqua odorosa, non appena la senti venir a cori-
carsi, si lanciò come cane corso nel letto. E fu ventura della
vecchia che egli portasse addosso tanto profumo, che non gli
fece sentire il fetore della bocca, il lezzo delle ascelle e la mo-
feta di quella brutta cosa. Ma non cosi presto fu coricato, che,
venuto al tastare, s’accorse, palpando, dell’imbroglio dietro le
spalle e delle pelli aggrinzite e delle vesciche flosce che pen-
devano dalla bottega della malcapitata vecchia. Rimase di
sasso; ma non volle, intanto, dir parola per accertarsi meglio
del fatto. E, facendosi forza, dié fondo in un Mandracchio 1,
mentre credeva di trovarsi alla spiaggia di Posilipo2; e navigò
con una polmonara3, quando pensava di andare in corso con
una galea fiorentina4. Ma, non cosi presto la vecchia si assopì
nel primo sonno, il re, cavato fuori da uno scrigno d’ebano e
d’argento una borsa di camoscio con un focile dentro, accese
una lucerna. E, fatta perquisizione tra le lenzuola, e trovata
un’arpia invece di una ninfa, una Furia invece di una Grazia,
una Gorgona per una Ciprigna, montò in tanto furore che vol-
le tagliare la gomena che aveva dato capo a questa nave. E,
sbuffando d’ira, chiamò tutti i servitori, che, a sentir gridare:
«Al l’armi!», fecero subito un’incamiciata5 e salirono alla
camera nuziale.
Il re, sbattendo come polpo, disse: «Vedete che bella bef-
fa mi ha giocata quest’avola di Parasacco! che io, che credevo
1
Mandracchio o Molo piccolo di Napoli presso la Dogana.
2
“ La deliziosa collina e spiaggia presso Napoli.
3
Navi vecchie e di scarto, che si tenevano nelle darsene per alloggio di
ciurme, prigionieri e per altri usi, come può leggersi nel Vocabolario ma-
rittimo del Guglielmotti.
111
Le belle galee fiorentine, che tante volte a quei tempi scorrevano il Me-
diterraneo, insieme con le napoletane, contro i barbareschi.
5
Eletta di soldati per un assalto notturno, i quali, per riconoscersi nel buio,
mettevano sopra l’armatura una camicia.
118
di trangugiarmi una vitelluzza lattante, mi son trovato ai denti
una placenta di bufala; mi pensavo di avere acchiappato una
vaga colombella, e mi son trovato in mano questa coccoveg-
gia; m’immaginavo di avere un boccone da re, e mi trovo sot-
to il naso questa sudiceria mastica-e-sputa! Questo e peggio
merita chi compra la gatta nel sacco! Ma essa mi ha fatto
l’affronto, ed essa ne pagherà la penitenza. Presto! pigliatela
come si trova e sbalzatela da quella finestra!».
La vecchia a queste parole si cominciò a difendere a calci
e a morsi, gridando che metteva appello alla sentenza, perché
il re stesso l’aveva tirata con un carro a venire al suo letto; ol-
treché allegherebbe cento dottori a sua difesa, e sopra tutto
quel testo: «gallina vecchia fa buon brodo», e quell’altro che:
«non si deve lasciare la via vecchia per la nuova». Ma, con
tutto ciò, fu levata di pieno peso e buttata nel giardino.
E fu questa la sua fortuna. Essa non si ruppe il collo, per-
ché rimase impigliata e sospesa a un ramo di fico. E accadde
che di buon mattino, innanzi che il Sole prendesse possesso
dei territori cedutigli dalla Notte, passarono di colà sette fate,
che per un certo interno dispetto non avevano mai parlato né
riso; e, al veder penzolare dall’albero quella mala ombra che
aveva fatto prima del tempo dileguare le ombre, furono so-
vrapprese da un riso cosi violento che stettero per scoppiare.
E, mettendo in moto la lingua, per un pezzo non chiusero
bocca intorno all’allegro spettacolo. A segno che, per ripagare
lo spasso e il gusto provati, ciascuna le dié la propria fatagio-
ne, dicendo, l’una dopo l’altra, che diventasse tutt’insieme
giovane, bella, ricca, nobile, virtuosa, amata e fortunata.
Partite le fate, la vecchia si ritrovò a terra, seduta a una
sedia di velluto in quaranta con frangia d’oro, sotto l’albero
stesso che s’era convertito in un baldacchino di velluto verde
con fondo d’oro. La sua faccia era ridiventata quella d’una
giovinetta di quindici anni, cosi bella che tutte le altre bellez-
ze sarebbero sembrate scarponi scalcagnati accanto a una
scarpetta attillata e calzante; a paragone di questa grazia di
seggio, tutte le altre grazie si sarebbero stimate dei Ferrivec-
119
chi e del Lavinaro1; dove questa giocava a trionfetto di vezzi e
moine, tutte le altre avrebbero giocato a banco fallito. Era poi
cosi agghindata, azzimata e sfarzosa, che vedevi una maestà:
l’oro abbagliava, le gioie stralu- cevano, i fiori ti si avventa-
vano al viso: attorno aveva servitori e damigelle, che pareva
che ci fosse la perdonanza2.
In questo il re, postosi una coperta addosso e un paio di
pantofole ai piedi, s’affacciò alla finestra per vedere che cosa
era accaduto della vecchia. E gli si presentò agli occhi quel
che mai più non immaginava; e restò con un palmo di bocca
aperta, e, come incantato, squadrò per lungo tempo dal capo
al piede quella meraviglia di creatura, ora mirando i capelli,
parte sparsi per le spalle, parte impastoiati entro un laccio
d’oro, che facevano invidia al sole; ora affisando le ciglia, ba-
lestre a bolzone che saettavano i cuori; ora guardando gli oc-
chi, lanterna a volta della guardia d’Amore3; ora contemplan-
do la bocca, palmento amoroso dove le Grazie pigiavano con-
tentezze4 e ne spremevano greco dolce e mangiaguerra deli-
zioso5. Dall’altra parte, si girava come un regolo di balcone,
fuor di senno, ai gingilli e fronzoli che quella portava sospesi
attorno al collo, e alle ricche vesti che aveva addosso. E, par-
lando tra se stesso, diceva: «Fo il primo sonno o sto sveglio?
Sono in cervello o vaneggio? Son io o non sono io? Da quale
trucco6 è venuta cosi bella palla a toccare il re di maniera che
son andato in rovina? Sono finito, sono subissato, se non mi
rifò. Come è spuntato questo sole? Come è sbocciato questo
fiore? Come si è schiuso quest’uccello per tirare a guisa
1
La via dei Ferrivecchi, poco lontano dalla Sellaria, e il già ricordato Lavi-
naro, erano abitati a Napoli dall’infima plebe.
2
Tansillo, Capitoli, ed. Volpicella, p. 173: «Entrar ci vedo gli uomini a
drappello, come si dice a Napoli, al perdono». Cioè, a prendere le indul-
genze.
2>
Si veda sopra p. 26, n. 28.
4
Metafora tratta dal pestare l’uva per farne vino.
5
Tutti sanno quanto fosse pregiato il «vin greco». Quanto all’altro vino
detto «mangiaguerra» 0 «mangiaguerra d’Angri», si veda il DEL TUFO, Ri-
tratto dì Napoli nel 1588, ms., ff. 21-22, che ne vanta le virtù. Il Basile
continua nella metafora, di cui nella nota precedente.
6
Allusione al giuoco del trucco.
120
d’uncino le voglie mie? Quale barca l’ha portato a questo pae-
se? Quale nuvola l’ha piovuto? Quale torrente di bellezza mi
spinge dentro a un mare d’affanni?».
Cosi dicendo, si rotolò per le scale, corse al giardino, si
buttò in ginocchi dinanzi alla vecchia rinnovellata e, quasi
strascicandosi per terra, prese a parlare: «Oh beccuccio di pic-
cioncello mio, o bamboletta delle Grazie, oh vaga colomba
del carro di Venere, cocchio trionfale d’A more, se non hai
posto a bagno cotesto cuore nel fiume Sarno1, se non ti sono
entrate dentro gli orecchi le semenze della canna2, se non ti è
caduto sugli occhi lo sterco di rondine3, son sicuro che senti-
rai e vedrai le pene e i tormenti che al primo tocco mi hanno
suscitato nel petto le bellezze tue; e, se il ceneracciolo di que-
sta faccia non ti è indizio della lisciva che mi bolle in seno, se
le fiamme dei sospiri non ti dimostrano la calcara che arde
dentro queste vene, come intendente e giudiziosa puoi da co-
testi capelli d’oro argomentare quale fune mi stringe, da code-
sti occhi neri quali carboni mi cuociono, e dagli archi rossi di
coteste labbra quale freccia mi s’è confitta in cuore. Deh! non
sprangare la porta della pietà, non levare il ponte della miseri-
cordia, non otturare il condotto della compassione! E se non
mi giudichi meritevole di ricevere indulto da cotesta tua bella
faccia, dammi almeno una salvaguardia di buone parole, un
guidatico4 di qualche promessa o una carta aspettativa di
buona speranza, perché, altrimenti, io mi porto via gli scarpo-
ni5 e tu ne perdi la forma!».
Queste e mille altre parole gli uscirono dal profondo del
petto, che toccarono al vivo la vecchia rinnovellata, la quale,
in ultimo, l’accettò per marito. E cosi, levatasi in piedi e pre-
solo per mano, se ne andarono in coppia al palazzo reale. Qui,
in un attimo, fu apparecchiato un grandissimo banchetto, e vi
1
Del quale si credeva che impietrisse gli oggetti che vi s’immergevano.
2
Sulla canna e la sua efficacia perniciosa, vedi PITRÉ, Biblioteca, XVI,
225-6.
3
Reputato scottante: Tobia, dormendo, restò accecato dallo sterco caldo,
che gli cadde sugli occhi da un nido di rondine (Libro di Tobia, II, 17).
4
Salvacondotto.
5
Frase nap., che vuol dire: «me ne vado all’altro mondo».
121
furono invitate tutte le gentildonne del paese.
La vecchia sposina volle che, tra le altre, venisse anche
sua sorella. E ci fu da fare e da dire per trovarla e trascinarla
al convito, perché, per la paura grande, si era rintanata e rim-
bucata cosi bene che non se ne vedeva traccia. Finalmente,
venuta, come Dio volle, e sedutasi accanto alla sorella, che
durò grande fatica a riconoscere, si misero tutti a far gaudea-
mus.
Ma la misera vecchia aveva ben diversa fame che la ro-
deva, perché schiattava d’invidia a vedere cosi lucente il pelo
della sorella. E, a ogni po’, la tirava per la manica e le do-
mandava: «Che cosa ci hai fatto, sorella mia, che cosa ci hai
fatto? Beata te! Beata te!». E la sorella rispondeva: «Bada a
mangiare, ché ne discorreremo poi». E il re domandava che
cosa quella desiderasse, e la sposa, correndo al riparo, rispon-
deva che desiderava un po’ di salsa verde; e il re fece subito
venire agliata, mostarda e pepata, e cento altre salsettine da
stuzzicare l’appetito. Ma la vecchia, alla quale la salsa di mo-
stacciuolo pareva fiele di vacca, tornò a tirare la sorella, ripe-
tendo: «Che ci hai fatto, sorella mia, che ci hai fatto? ché ti
voglio far le fiche sotto il mantello»1. E la sorella rispondeva:
«Zitto, ché abbiamo più tempo che danari; mangia mò, che ti
faccia fuoco, e poi parleremo!». E il re, curioso, domandava
che cosa occorresse alla sorella; e la sposa, che era impacciata
come un pulcino nella stoppa e avrebbe voluto far cessare
quel rompimento di testa, rispose che desiderava qualcosa di
dolce. E subito fioccarono le pasti- delie, affluirono le cialde e
le ciambellette, diluviò il biancomangiare, piovvero a cielo
aperto i franfellicchi. Ma la vecchia, che aveva il granchio in
corpo e le viscere in rivolta, tornò alla stessa musica. E allora
la sposa, non potendo piu resistere, per togliersela di dosso, le
rispose: «Mi sono scorticata, sorella mia!».
Subito che l’invidiosa senti queste parole, disse tra sé:
«Va’, che non l’hai detta a un sordo! Voglio tentare anch’io la
1
Uno dei tanti scongiuri contro il malocchio o iettatura. Cfr. Pitré, Bibl.,
XVII, 244-5.
122
fortuna mia, perché ogni spirito ha lo stomaco. E, se la cosa
mi riesce, non sarai tu sola a godere: ne voglio anch’io la par-
te mia fino a un finocchio!». E, poiché in questo si levarono le
tavole, essa, fingendo di andare per cosa necessaria, corse di-
filato a una barbieria.
Entrò e, visto il principale, lo tirò nella retrobottega e gli
disse: «Eccoti cinquanta ducati, e scorticami da capo a piede».
Il barbiere, giudicandola pazza, le rispose: «Va’, sorella mia,
tu non parli a sesto, e certamente verrai accompagnata»1. E la
vecchia, con una faccia di piperno, replicò: «Pazzo sei tu, che
non conosci la fortuna tua, perché, oltre i cinquanta ducati, se
la cosa mi riesce pari, ti farò tenere il bacile alla barba della
Fortuna. Perciò, metti mano ai ferri, non perder tempo, ché sa-
rà la tua ventura!».
Il barbiere, dopo aver contrastato, litigato e protestato un
bel pezzo, in ultimo, tirato pel naso, si risolse conforme al det-
to: «Lega l’asino dove vuole il padrone». E, postala a sedere a
uno sgabello, cominciò a far macello di quella nera corteccia,
che piovigginava e piscettava tutta sangue; e, di tanto in tanto,
salda come se si radesse, diceva: «Uh! chi bella vuol parere,
pena vuol sostenere!». Ma, continuando colui a mandarla a
distruzione, ed essa seguitando questa canzone, se ne andaro-
no contrappuntando il colascione di quel corpo fino alla rosa
del bellico, dove, essendole mancata col sangue la forza, spa-
rò dal di dietro una cannonata di partenza, e provò con suo
dardo il verso del Sannazaro:
L’invidia, figliuol mio, se stessa macera.
Finìn questo racconto nel tempo in cui al Sole si era dato
il termine di un’ora affinché, come studente incomodo, sfrat-
tasse i quartieri dell’aria; quando il principe fece chiamare
Fabiello e Iacovuccio, l’uno guardaroba e l’altro dispensiere
della casa, perché venissero a dare il sopratavola2 a questa
giornata. Ed essi si trovarono lesti come sergenti, l’uno vestito
con calze alla martingala di friso3 nero e la casacca a campa-
1
Accompagnata da un infermiere come matta.
2
Ciò che si mangia e si beve a pasto compiuto.
3
Sorta di tessuto.
123
na, con bottoni grandi quanto una palla, di camoscio; l’altro
con berretta a tagliere, casacca con la pancetta e calza a braca
di tarantola1 bianca. E uscirono di dietro una spalliera di mor-
tella, quasi da una scena, cosi dissero:
(Si omette il lungo testo dell' Egloga La Coppella)
Furono le parole di quest’egloga accompagnate da ge-
sti cosi graziosi e mimica cosi bella, che tutti quelli che la
udirono stettero a bocca spalancata, uscendo di tanto in
tanto in risa. E poiché i grilli invitavano la gente a ritirarsi,
il principe dié licenza alle donne, con l’intesa che sarebbe-
ro venute la mattina dopo a continuare i racconti; ed egli
con la schiava sali alle sue stanze.
ricordati a principio della Giornata IV; e tutti essi e non pochi altri nelle
lettere del Basile che fan séguito alla Vaiasseide del Cortese. Anche nella
favola drammatica La pescatrice di M.A. PERILLO (Napoli, 1630) si legge
un simile e lungo catalogo. Vedi, in fine, là Note e illustrazioni.
125
comportata da valente donna col cominciare il suo racconto.
Essa, che ne aveva cosi piena la testa che ne riboccava, li riunì
tutti a capitolo, e scelse come il migliore questo che segue.
126
TRATTENIMENTO PRIMO
PETROSINELLA
127
ed esclamò: «Mi si possa rompere il collo se scopro
quest’uccello di rapina e non lo fo pentire, in modo che ognu-
no apprenda a mangiare al suo tagliere e a non andare scuc-
chiaiando nelle pentole degli altri!».
La povera incinta continuò a scendere di volta in volta
nel giardino, finché una mattina intoppò nell’orca. La quale,
arrabbiata e invelenita, le disse: «Ti ci ho còlta, ladra, mariuo-
la! E che? paghi forse l’affitto di quest’orto che vieni, con co-
si poca discrezione, a menare il rastrello nelle erbe mie? Affé,
non ti manderò a Roma per la penitenza!».
La povera Pascadozia prese a scusarsi, che non per golo-
sità o per voracità il diavolo l’aveva indotta a quell’errore, ma
perché era incinta e temeva che la faccia del bambino le na-
scesse disseminata di prezzemolo; e che essa, anzi, avrebbe
dovuto saperle grado che non le avesse mandato qualche or-
zaiuolo.
«Altro che parole vuole la sposa! — rispose l’orca: — tu
non mi pigli con coteste chiacchiere. Tu hai terminato l’opera
della vita tua, se non prometti di darmi il bambino che partori-
rai, maschio o femmina che si sia».
La misera, per isfuggire al pericolo in cui si trovava, giu-
rò con una mano sopra l’altra; e cosi l’orca la lasciò andare.
Venuta l’ora del parto, essa dié alla luce una bambina,
cosi bella che era una gioia, la quale, perché portava segnata
nel petto una bella cima di prezzemolo, chiamò Petrosinella.
La figlioletta ogni giorno cresceva di un palmo, e a sette
anni cominciò ad andare a maestra. Ma ogni giorno,
nell’attraversare la strada, si scontrava con l’orca, che le dice-
va: «Di a tua madre che si ricordi della promessa!».
Tante volte ripetè questa molestia, che la sventurata ma-
dre, non avendo più cervello da resistere alla musica, disse in-
fine alla fanciulletta: «Se t’incontri con la solita vecchia, ed
essa ti domanda quella maledetta promessa, rispondi: — E tu
pigliatela!».
Petrosinella, che era ignara di tutto, incontrata l’orca, le
rispose innocentemente come la madre le aveva suggerito. E,
subito, l’orca la afferrò pei capelli e se la tirò in un bosco, nel
128
quale non mai entravano i cavalli del Sole perché non aveva-
no la fida nei pascoli di quelle ombre; e la mise in una torre
che fece nascere magicamente, nuda di porte e di scale, con
solo un finestrino. E da quel finestrino essa saliva e scendeva,
scivolando per la capigliatura di Petrosinella, che era lunga
lunga, al modo che un mozzo di bastimento va e viene per le
sartie dell’albero.
Ora avvenne che un giorno che l’orca non c’era, e Petro-
sinella aveva sciorinate le sue trecce al sole, passò dinanzi alla
torre il figlio di un principe. E questi, non appena ebbe veduto
quelle due bandiere d’oro, che chiamavano l’anima a iscriver-
si al ruolo d’Amore1, e mirato in mezzo a quelle onde prezio-
se un viso da sirena che incantava i cuori, si accese dismisura-
tamente di tanta bellezza. E le inviò un memoriale di sospiri,
domandando che gli concedesse la piazza alla grazia sua6; e
riuscì così bene che il principe ebbe in risposta ai suoi baci di
mano cenni di capo, alle sue riverenze occhiate dolci, alle sue
offerte ringraziamenti, alle sue promesse speranze, e alle sue
lusinghe buone parole.
La cosa continuò per più giorni e i due finirono con
l’addomesticarsi a tal segno che presero appuntamento di tro-
varsi insieme. Ciò doveva accadere la notte, quando la Luna
giuoca a passera muta7 con le stelle, e Petrosinella avrebbe
dato l’oppio all’orca e avrebbe tirato lui su con la corda dei
capelli.
All’ora concertata il principe si presentò dinanzi alla tor-
re, e, fatto un fischio per segnale, le trecce scorsero giù per le
mura, ed esso vi si appigliò a due mani e disse: «Su!»; e, tira-
to da Petrosinella, pel finestrino balzò nella camera, dove fece
una bella cena con quel prezzemolo della salsa d’amore. E,
prima che il Sole prendesse a istruire i suoi cavalli a saltare
pel cerchio dello zodiaco, se ne calò per la medesima scala
d’oro e se ne andò alle sue faccende.
Poiché la pratica si ripetette più volte, se ne avvide una
comare dell’orca e, prendendosi gl’impicci del Rosso, volle
1
Immagini prese dagli arrolamenti dei soldati.
129
intrigarsi in quel che non la riguardava, e ammonì l’orca che
stesse in guardia, perché Petrosinella faceva all’amore con un
giovinotto, ed essa sospettava che le cose fossero andate assai
oltre, udendo il ronzio di quel moscone e vedendo il suo anda-
re e venire; e dubitava che, portandosi via tutto quanto era
nella casa, quei due sarebbero sfrattati prima del maggio1.
L’orca ringraziò la comare del buon avvertimento e disse
che sarebbe cura sua d’impedire la via a Petrosinella; ma che,
del resto, era del tutto impossibile che fuggisse, per un incanto
che le aveva fatto, in forza delquale, se essa non avesse in
mano tre ghiande nascoste in una trave della cucina, non po-
teva staccarsi dalla casa.
Mentre cosi tra loro parlottavano, Petrosinella, che, a-
vendo concepito qualche sospetto della comare, stava con le
orecchie tese, senti tutto il discorso. E, quando la Notte diste-
se pel cielo le sue nere vesti per arieggiarle e preservarle dai
tarli, e il principe venne secondo il solito, lo fece salire sulle
travi, dove furono presto ritrovate le ghiande, che essa, che
era stata fatata dall’orca, sapeva già in qual modo si dovessero
adoperare. Dopo di ciò, intrecciata una scala di corda, si cala-
rono tutti e due ai piedi della torre, e cominciarono a batter di
calcagna verso la città.
Li vide, all’uscita, la comare, che si mise a gittare grida,
chiamando l’orca; e tanto forte fu il suo strillare che quella si
svegliò, e, udito che Petrosinella se n’era fuggita, discese per
la stessa scala, ch’era rimasta legata al finestrino, e si dié a
correre dietro agli innamorati.
Questi, che la videro venire alla loro volta, galoppando
più di un cavallo scapolato, si tennero perduti. Ma Petrosinel-
la si ricordò delle ghiande, e ne gettò una. Ed ecco venirne
fuori un cane corso, cosi terribile, che oh mamma mia! e quel-
lo, abbaiando, con una golaccia aperta, si mosse incontro
all’orca per trangugiarla in un boccone. Ma l’orca, che era più
maliziosa del diavolo, si cercò nella tasca, ne trasse un pane,
1 Cioè, prima del quattro di maggio, che è ancor oggi in Napoli, per
130
e, buttatolo al cane, gli fece abbassare la coda e afflosciare la
furia. E riprese la corsa dietro i due che fuggivano. Al vederla
di nuovo avvicinare, Petrosinella gettò la seconda ghianda; e
ne usci un feroce leone, che, battendo a terra la coda e scoten-
do la criniera, con due palmi di fauci spalancate, s’era già po-
sto in ordine di schiacciare tra esse, in un attimo, l’orca. Ma
costei tornò indietro, scorticò un asino che pascolava pel pra-
to, se ne mise addosso la pelle, e corse contro il leone; il qua-
le, scambiandola per un asino, ne ebbe tanta paura che ancora
fugge. Saltato a cotesto modo il secondo fosso, l’orca fu di
nuovo dietro a quei poveri giovani, che, sentendo il rumore
degli stivaloni e vedendo il nuvolo di polvere che s’alzava al
cielo, argomentarono che fosse vicina. Petrosinella gettò la
terza ghianda e ne usci un lupo; il quale, vedendo l’orca anco-
ra avvolta nella pelle dell’asino, non gettata da lei per sospetto
che il leone la inseguisse, non le dié tempo di prendere nuovo
partito e, in veste d’asino, se la inghiottì tutta.
Cosi gl’innamorati uscirono d’impaccio e a lor agio si re-
carono al regno del principe, dove, con la debita licenza del
padre, egli tolse Petrosinella per moglie, e provò, dopo tanti
travagli,
che un’ora di buon porto fa
scordare cent’anni di tempesta.
131
132
TRATTENIMENTO SECONDO
IL PRINCIPE VERDEPRATO
1
II testo dice «ruina» forse dallo spagnuolo «ruin».
1
Qualche donna famosa a quei tempi per dissolutezza o delitti. Il cognome
«Pa- paro» esisteva in Napoli, e a persone di questa famiglia si deve, tra
l’altro, il conservatorio posto nel vicolo, che, dal nome loro, prese quello
di «vico Paparelle» (v. CELANO, Notìzie, ed. Chiarini, III, 208, 781).
133
dovi di tre figlie di una madre, delle quali vedrete la diversità
di costumi, che spinse le malvage in un fosso e la figliuola da
bene sopra la ruota della fortuna.
C’era una volta una madre, che aveva tre figlie, due delle
quali cosi sciagurate che mai cosa alcuna loro riusciva a mo-
do: tutti i disegni per traverso, tutte le speranze in crusca. La
più piccola, invece, Nella, portò dal ventre della madre la
buona ventura, perché, quand’essa nacque, tutte le cose si
concertarono a darle il meglio dei megli che poterono: Vene-
re, il primo taglio1 della bellezza; Amore, il primo bollore del-
la forza sua; Natura, il fior fiore dei costumi. Non faceva la-
voro in casa che non fosse ben fatto; non si metteva a impresa
che non ne venisse a buon porto; non si moveva a ballo che
non ne traesse onore. Per tutto ciò, non tanto era da quelle er-
niose delle sorelle invidiata, quanto da ogni altra amata e ben
vista; non tanto esse l’avrebbero voluta mettere sotto terra,
quanto le altre genti la portavano in palma di mano.
In quel paese era un principe fatato, che, andando pel ma-
re della bellezza, tante volte gittò l’amo della servitù amorosa
a questa bella orata fintanto che la uncinò per le branchie
dell’affetto e la fece sua. E perché potessero, senza sospetto
della mamma, ch’era una fiera femmina, trovarsi insieme, il
principe le dié una polvere e costruì un condotto di cristallo,
che rispondeva dal palazzo reale fin sotto il letto di Nella,
quantunque ci fossero otto miglia di lontananza. «Ogni volta
— le disse — che tu mi vuoi cibare, come passero, della bella
grazia tua, metti un po’ di questa polvere sul fuoco; ed io su-
bito, per entro al condotto, me ne verrò al richiamo, correndo
per una strada di cristallo a godere cotesto viso d’argento».
Con questo accordo, non c’era notte che egli non facesse
l’entra-ed-esci e il via-vai per quel condotto.
Le sorelle, che stavano a spiare le faccende di Nella, av-
vedutesi della fortuna che godeva, fecero consiglio
d’impedirle il buon boccone; e, per arruffare la matassa di
quegli amori, andarono a rompere in molti punti il condotto.
1
La carne di prima scelta, che vende il beccaio: e parimente, i traslati che
seguono sono da cose di cucina.
134
Ne seguì che, spargendo la sventurata giovane la polvere nel
fuoco per dar segno all’innamorato di venire, questi, che sole-
va correre a furia, si conciò di maniera, tra quei vetri fracassa-
ti, che faceva pietà a vedere. E, non potendo procedere più in-
nanzi, se ne tornò indietro tutto tagliuzzato, simile a un braco-
ne tedesco1.
Rientrato cosi nel palazzo reale, si mise a letto e mandò a
chiamare tutti i medici della città; ma, poiché il cristallo era
incantato, le ferite furono cosi mortali che non vi giovava ri-
medio umano. Onde il re, disperato del caso del figliuolo, fece
gettare un bando, che qualunque persona lo avesse risanato
dal male, se era femmina, gliel’avrebbe dato in isposo, e, se
maschio, gli avrebbe donato metà del regno.
All’udir gridare questo bando, Nella, che spasimava pel
suo principe, si tinse la faccia, si travesti, e, nascondendosi al-
le sorelle, parti di casa per andare a rivederlo innanzi che mo-
risse. Ma, poiché era già nell’ora in cui le palle indorate, con
le quali il Sole gioca pei campi del cielo, prendevano la corsa
inclinata verso l’occaso, fu sopraggiunta dalla notte in un bo-
sco, presso la casa di un orco. Timorosa di qualche pericolo,
essa si arrampicò allora sulla cima di un albero e se ne stette li
rannicchiata. L’orco era a tavola con la moglie e teneva aperte
le finestre per mangiare al fresco; e, quando i due ebbero fini-
to di vuotare orciuoli e spegnere lampade2, cominciarono a
chiacchierare del più e del meno; e Nella, per la prossimità in
cui si trovava, come dal naso alla bocca, udiva ogni cosa.
Diceva, tra l’altro, l’orca al marito: «Bello peloso mio,
che s’intende, che si dice pel mondo?». E quello rispondeva:
«Fa’ conto che non c’è un palmo di netto e tutte le cose vanno
al rovescio e col culo in aria». «Ma, pure, che cosa c’è?», re-
1
Per intendere la similitudine, bisogna ricordare che i «signori tedeschi»
costumavano portare (come dice il VECELLIO, Habiti antichi e moderni,
Venezia, 1590, f. 299, e relativa fig.) «alcuni braconi con tagli lunghi fino
al ginocchio, di velluto fatto ad opera, riccamati tutti di oro overo di argen-
to in tutte le liste, e sono foderati di ermesino verde, con calzette di seta
fatte all’aco, le quali portano molto ben tirate sopra le gambe».
2
Bisticcio: «lampa» o «lampada» significava anche una misura di due ca-
raffe, usata pel vino in alcuni luoghi del Regno.
135
plicò la moglie. E l’orco: «Troppo ci sarebbe da dire
degl’imbrogli che corrono, perché s’odono cose da strabiliare.
Buffoni regalati, furfanti stimati, poltroni onorati, assassini
spalleggiati, zannettari patrocinati1 e uomini da bene poco
pregiati e niente stimati. Ma, perché mi ci arrabbierei troppo,
ti dirò solamente quello che è accaduto al figlio del re. Sappi
che egli si era costruito una strada di cristallo, per la quale
passava nudo andando a godersi in segreto una bella ragazza;
e ora, non si sa come, è stata rotta la conduttura, ed entrandovi
il principe e procurando di passare, si è trinciato in guisa che,
prima che possa turare tanti pertugi, gli si sturerà il tubo della
vita. E quantunque il re abbia fatto gettare un bando con pro-
messe grandi a chi lo risanerà, è fatica persa, ché se ne può
nettare i denti; e il meglio sarà che tenga pronto il lutto e ap-
parecchi le esequie».
Nella, apprendendo la cagione del male del principe, sin-
ghiozzando chetamente, disse tra sé: «Chi sarà stata
quest’anima maledetta che ha spezzato il canale per dove pas-
sava il vago uccello mio, per spezzare insieme il condotto per
dove passavano gli spiriti miei?». Ma l’orca riprese il discor-
so, ed essa fu di nuovo zitta e muta in ascolto. «Ed è possibile
— diceva quella — che sia perduto il mondo per quel povero
signore? e che non s’abbia da trovare rimedio al suo male?
Di’ alla medicina che vada a infornarsi! Di’ ai medici che si
girino una corda al collo! Di’ a Galeno e a Mesoè che restitui-
scano il danaro al padrone, giacché non sanno trovare ricette
adatte alla salute di questo principe!». «Ascolta, vezzosetta
mia2, — rispose l’orco: — non son obbligati i medici a rimedi
che passino i confini della natura. Cotesta non è colica, che vi
basti un bagno d’olio; non è flatolenza che si cacci con suppo-
ste di fichi e sterco di topi; non febbre, che se ne vada per
mezzo di farmachi e diete; e neppure ferite ordinarie, che ci
1
«Zannettari», erano i tosatori di monete, e propriamente di quelle di mez-
zo carlino, che, appunto perché tosate, presero il nome di «zannette». E v.
in fine, le Note e illustrazioni.
2
Propriamente: «vavosella mia», che è il bavaglino che si lega al collo dei
bimbi.
136
voglia stoppata od olio d’ipperico. L’incanto, ch’era nel vetro
frantumato, opera quell’effetto stesso che il sugo di cipolla al
ferro della freccia1, onde si fa la piaga incurabile. Solo una
cosa sarebbe efficace a salvargli la vita; ma non me la far dire,
perché è cosa che importa assai». «Dimmela, sannuto mio, —
replicò l’orca, — dimmela, che tu non mi veda morta!». E
l’orco: «Te la dirò; ma promettimi di non confidarla a persona
vivente, perché sarebbe la distruzione della casa nostra e la
rovina della vita». «Non dubitare, marituccio bello bello, —
rispose l’orca, — perché prima si vedranno i porci con le cor-
na, le bertucce con la coda e le talpe con gli occhi, che me ne
scappi mai una parola dalla bocca». E giurò con una mano
sull’altra. «Ora sappi — l’orco disse — che non è cosa sotto il
cielo e sopra la terra che possa salvare il principe dagli sbirri
della morte, altro che il nostro grasso, col quale, ungendogli le
piaghe, si metterebbe il sequestro a quell’anima, che vuole
sfrattare dalla casa del corpo suo».
Nella, ascoltando tutto questo dialogo, dié tempo al tem-
po che finissero d’ingozzare; e poi si calò dall’albero, si fece
animo, e picchiò alla porta dell’orco, gridando: «Deh, signori
miei Orchissimi, una carità, una limosina, un segno di com-
passione per una povera meschina, tapina, che, subissata dalla
fortuna, lontana dalla patria, spogliata di ogni aiuto umano, è
stata còlta dalla notte in questi boschi e si muore di fame». E
tic toc!
L’orca, sentendo questi lamenti fastidiosi, voleva gittarle
un mezzo pane e rimandarla. Ma l’orco, che era goloso di car-
ne di cristiano più che non sia il lucherino della noce, l’orso
del miele, il gatto dei pesciolini, la pecora del sale e l’asino
della cruscata, disse alla moglie: «Lasciala entrare, la poveret-
ta, ché, se dorme nel bosco, potrebbe essere divorata da qual-
che lupo». E tanto disse che la moglie apri la porta ed esso,
con questa carità pelosa, fece disegno di mandarla giù in quat-
tro bocconi.
Ma un conto fa il ghiotto e un altro il tavernaro. Perché,
1
Sulla virtù irritante della cipolla, v. PITRÉ, Bibl. XIV, 232.
137
essendosi bene ubbriacato e buttatosi a dormire, Nella, con un
coltellaccio che prese da un riposto, scannò lui e la moglie; e,
trattone il grasso, lo mise tutto in un vasetto e si avviò alla
volta della corte.
Il re, al quale essa si presentò offrendosi di risanare il
principe, la fece subito, con grande allegrezza, entrare nella
camera del figlio; e questi, non appena ebbe ricevuto una co-
piosa unzione di quel grasso, detto fatto, come se si fosse get-
tata l’acqua sul fuoco, vide chiudersi le ferite e tornò sano
come un pesce.
Il re disse allora al figlio: «Questa buona donna merite-
rebbe la rimunerazione promessa col bando, e che tu te la
prendessi per moglie». Ma il principe subito si rivoltò: «Dille
che fin da ora può divertirsi con lo stuzzicadenti!1 Non credo
di avere in corpo una dispensa di cuori da poterne dare a tan-
te: il mio cuore è accaparrato e un’altra donna ne è padrona».
Nella gli osservò: «Tu non dovresti più pensare a colei, che è
stata cagione di tutto il male tuo». «Il male me l’hanno fatto le
sorelle — replicò il principe, — ed esse sole devono pagarne
la penitenza». «Tanto le vuoi proprio bene?», tornò a dire
Nella. E il principe: «Più di queste pupille». «Se è cosi — ri-
prese Nella, — abbracciami, stringimi, perché son io il fuoco
del tuo cuore». Ma il principe, guardandola com’era tutta nera
di faccia, rispose: «Sarai piuttosto carbone che fuoco; perciò
scostati, ché mi tingi!».
Nella, vedendo che non la riconosceva, chiese che le si
portasse un bacile d’acqua fresca, si lavò la faccia, e, tolta
quella nube di fuliggine, apparve il sole; e il principe, che al-
lora la riconobbe, si avviticchiò a lei come polpo. E la prese
subito per moglie, e fece murare in un focolare le sorelle, af-
finché, come sanguisughe, purgassero nella cenere il sangue
corrotto dall’invidia2 rendendo vero il motto:
Nessun male fu mai senza il castigo.
VIOLA
139
passata liscia, e ne avrebbe patito il giusto pel peccatore.
Colaniello, ch’era uomo di giudizio, per togliere
l’occasione, mandò Viola presso una zia di lei, che si chiama-
va Cuccivannella, affinché le insegnasse a lavorare. Ma il
principe, che, passando per quella casa, non vedeva più il ber-
saglio dei desideri suoi, fece per più giorni come il rosignuolo
che non trova i figli al nido, che va di fronda in fronda, cer-
cando e lamentandosi del danno suo. E tanto mise le orecchie
ai pertugi, che ebbe alfine sentore della casa dove essa ora
dimorava.
Andò allora a far visita a quella zia e le disse: «Madama
mia, tu sai chi io sono, e se posso e valgo. Perciò, da me a te,
zitti e muti. Fammi un piacere, e poi spendimi per la moneta
che vuoi». «Per quel che posso — rispose la vecchia, — sono
tutta intera al comando vostro». E il principe: «Non voglio al-
tro da te, che mi faccia baciare Viola, e prenditi le pupille dei
miei occhi!». La vecchia replicò: «Io, per servirvi, non posso
far altro che guardare i panni di chi va a nuotare. Ma non vo-
glio che Viola entri in sospetto che io lavori il manico a
quest’anfora e tenga mano a cose poco belle; sicché io ne ri-
porti, al termine dei giorni miei, titolo di garzone di ferraio,
che tira i mantici. Perciò, quel che posso fare per darvi piacere
è che voi andiate a nascondervi nella stanza terrena dell’orto,
dove, con qualche pretesto, vi manderò Viola. E, quando a-
vrete nelle mani il panno e la forbice, e non ve ne saprete ser-
vire, la colpa sarà vostra». Il principe la ringraziò del buon af-
fetto che gli mostrava e si mise dentro quella stanza.
La vecchia, col pretesto di tagliare non so che tela, disse
alla nipote: «Viola, va’, se mi vuoi bene, alla stanza di giù, e
prendimi la mezzacanna». E Viola, entrando nella camera per
servire la zia, si avvide dell’agguato, e, presa la mezzacanna,
destra come una gatta, saltò fuori, lasciando il principe col na-
so lungo per la vergogna e tutto gonfio per la rabbia.
La vecchia, che la vide tornare cosi di corsa, sospettò che
la miccia del principe non aveva preso fuoco; e, di li a un po-
co, disse alla giovane: «Va’, nipote mia, alla stanza giù, e
prendimi il gomitolo di filo brescianello di sopra
140
quell’armadio». E Viola, prendendo il filo e correndo, sguizzò
come anguilla dalle mani del principe.
Ma poco stette che la vecchia le tornò a dire: «Viola mia,
se non mi prendi le forbici nella stanza, io non so come fare».
E Viola, scesa colà, ebbe il terzo assalto, ma, fatta una forza
da cane, sfuggi alla tagliuola. E, tornata di sopra, tagliò con le
forbici stesse gli orecchi della zia, dicendole: «Abbiti questo
buon beveraggio per la senseria: ogni fatica ricerca premio;
sfregiate d’onore, strappate d’orecchi; e, se non ti taglio anche
il naso, è perché tu possa sentire il cattivo odore della fama
tua: ruffiana, accorda-messere, porta-pollastri, mangia-
mangia, ammalizia-bambini!». E, cosi dicendo, in tre salti, se
ne andò alla casa sua, lasciando la zia scarsa d’orecchi e il
principe pieno di stizza.
Riprese tuttavia il principe a passare dinanzi la casa del
padre, e, rivedendola al luogo solito, tornò alla solita musica:
«Buon di, buon di, Viola!». Ed essa, da bravo diacono1:
«Buon di, figlio del re, io ne so più di te!».
Le sorelle, non poterono più oltre tollerare questa sua
baldanza, e fecero concerto tra loro di mandarla a morte. Una
finestra della loro casa rispondeva nel giardino di un orco; ed
esse si proposero di disfarsi della sorella per questa via che
loro si offriva. Si lasciarono, dunque, cadere una matassina di
filo, col quale lavoravano una tenda per la regina, e gridarono:
«Oh, povere noi! Siamo rovinate, e non possiamo terminare il
lavoro in tempo, se Viola, che di noi è la più piccola e la più
leggiera, non si lascia calare con una corda per riprendere il
filo che ci è caduto!». E Viola, per non vederle cosi addolora-
te, si offri subito di scendere, e si lasciò legare; ma, quando fu
calata, quelle lasciarono andare la corda.
In quel momento stesso l’orco entrò per dare uno sguardo
al giardino, e, avendo assorbito grande umidità dal terreno, si
lasciò scappare una scoreggia cosi smisurata, e con tanto ru-
more e strepito, che Viola, per la paura, strillò: «O mamma
mia, aiutami!». L’orco si voltò, e, vistasi dietro questa bella
142
ra cangiare ora materasso e ora lenzuola, tutta la notte trascor-
se in questo traffico, finché, recata nuova all’Aurora che il So-
le era stato ritrovato vivo, furono tolti i panni di lutto stesi pel
cielo.
Fatto giorno, il principe, passeggiando per la casa, vide la
giovane sulla porta della sua camera e le disse: «Buon dì,
buon dì, Viola!». E, rispondendo Viola: «Buon dì, figlio del
re, io ne so più di te», egli replicò: «O tata, quante pulci!».
Ciò udendo, essa fece subito pensiero che la molestia della
notte scorsa fosse stata un dispetto del principe; e andò subito
a ritrovare le fate, che le volevano bene, e raccontò loro
l’accaduto.
«Se la cosa sta così — le dissero le fate, — e noi faccia-
mola da corsaro a corsaro e da marinaio a galeotto; e se ti ha
morso questo cane e noi cerchiamo di averne il pelo: esso te
ne ha fatta una, e noi gliene faremo una e mezza. Di’, dunque,
all’orco che ti lavori un paio di pianelle tutte piene di campa-
nelli, che vogliamo ripagarlo di buona moneta».
Viola, ansiosa di vendetta, si fece fare subito subito
dall’orco le pianelle. E, aspettato che il Sole, come donna ge-
novese1, si mettesse il taffettà nero attorno alla faccia, se ne
andarono tutte e quattro di conserva alla casa del principe; e,
quando questi cominciò a lasciar cadere le palpebre sugli oc-
chi addormentandosi, le fate fecero un gran parapiglia, e Vio-
la si mise a battere tanto i piedi che, al rumore delle calcagna
e al tintinnìo dei campanelli, il principe si riscosse con grande
sbigottimento e gridò: «O mamma, o mamma, aiutami!». E,
ripetuta la cosa due o tre volte, se la svignarono alla casa loro.
Il principe, dopo aver preso la mattina agro di limone e
semenzina2 per la paura provata, fece una passeggiata nel
giardino, perché non poteva stare un momento senza la vista
di quella Viola, che era intelligenza3 ai suoi garofani. E, scor-
gendola sull’uscio, le disse: «Buon di, buon di, Viola!» e Vio-
1
Giovane nubile.
144
TRATTENIMENTO QUARTO
GAGLIUSO
145
lito e senza una maglia1, netti come bacile di barbiere, lesti
come sergenti, asciutti come osso di prugna, che avete quanto
porta nel piede una mosca e, se correte cento miglia, non vi
cade un picciolo. La sorte mi ha ridotto dove i tre cani cacano;
e non ho se non la vita, e come mi vedi cosi mi scrivi; perché
sempre, come sapete, ho fatto sbadigli e crocette e sempre mi
sono coricato senza candela. Con tutto ciò, voglio pure, alla
morte mia, lasciarvi qualche segno di amore. Perciò tu, Ora
ziello, che sei il primogenito mio, pigliati quel crivello che sta
appeso al muro, col quale puoi guadagnarti il pane; e tu, che
sei casalingo, pigliati il gatto, e ricordatevi del padre vostro».
Cosi parlando, ruppe in pianto, e, poco di poi, disse: «Addio,
ché è notte».
Oraziello, provveduto a seppellire il padre per limosina,
si tolse il crivello e andò cernendo di qua e di là per guada-
gnarsi la vita; e quanto più cerneva, più guadagnava. Ma Ga-
gliuso, toltosi il gatto, si lamentò: «Ora vedi che sorta di ere-
dità mi ha lasciata mio padre! Non ho da campare per me, e
ora dovrò fare le spese a due. Perché questo triste lascito?
Meglio se ne avesse fatto di meno!».
Il gatto, che udì questa fastidiosa querela, gli disse: «Tu ti
lamenti del troppo, ed hai più fortuna che senno! Non conosci
la tua sorte, ché io sono buono a farti ricco, se mi ci metto».
Gagliuso, a questa speranza, ringraziò la gatteria sua, e,
lisciandole tre o quattro volte la schiena, le si raccomandò
caldamente.
Compassionevole di lui, il gatto, ogni mattina, quando il
Sole con l’esca della luce posta nell’amo d’oro pesca le ombre
della Notte, prese a recarsi o alla marina di Chiaia o alla Pie-
tra del pesce, e, adocchiando qualche grosso cefalo o qualche
buona orata, se l’arraffava e la portava al re. Al quale nel pre-
sentarla, diceva: «Il signor Gagliuso, schiavo devotissimo di
Vostra Altezza, vi manda questo pesce, con riverenza e do-
1
Nome antico di moneta piccolissima: nello stesso uso, frane, maille. Le
frasi: «non vale una maglia», «non peggiorò d’una maglia», e simili, si
leggono in testi del trecento (per esempio nel Viaggio di Carlo Magno in
Ispagna, Bologna, 1871).
146
mandando indulgenza. A gran signore, piccolo presente». E il
re, con volto allegro, come si usa a chi porta doni, rispondeva:
«Di’ a questo signore, che io non conosco, che lo ringazio a
gran mercé».
Qualche altra volta, il gatto correva ai luoghi dove c’era
la caccia, alle Paludi o agli Astroni; e, come i cacciatori face-
vano cadere qualche rigogolo o cinciallegra o capinera, la rac-
coglieva e la portava al re con imbasciata dello stesso tenore.
E tante volte usò quest’artificio, finché il re, un giorno, gli
disse: «Io mi sento cosi obbligato a cotesto signor Gagliuso,
che desidero conoscerlo per rendergli il contraccambio
dell’amorevolezza che m’ha mostrata». Il gatto rispose: «Il
desiderio del signor Gagliuso é di metter la vita e il sangue
per la vostra corona; e, domattina, senz’altro, quando il Sole
avrà dato fuoco alle ristoppie dei campi dell’aria, verrà a farvi
riverenza».
Ma, venuta la mattina, il gatto si ripresentò al re: «Signor
mio, il signor Gagliuso si manda a scusare se non viene, per-
ché questa notte certi suoi camerieri lo hanno derubato e sono
fuggiti, lasciandolo senza nemmeno una camicia». Il re, udito
ciò, fece prendere subito dalla sua guardaroba vestiti e bian-
cheria, e li mandò a Gagliuso, che, due ore dopo, venne al pa-
lazzo, guidato dal gatto.
Il re gli fece mille complimenti, volle che gli sedesse ac-
canto, e gli dié un banchetto magnifico. Ma, mentre si man-
giava, Gagliuso di tanto in tanto si voltava al gatto, dicendo-
gli: «Micio mio, ti siano raccomandati quei miei quattro strac-
ci, che non vadano alla malora!». E il gatto rispondeva: «Sta’
zitto, tura, non parlare di queste pezzenterie!». E, volendo il re
sapere se gli bisognava qualche cosa, il gatto rispondeva per
lui che gli era venuta voglia di un piccolo limoncello; e il re
mandò subito al giardino a prenderne un cestino. Gagliuso,
dopo un po’, tornò alla stessa musica dei panni e cenci suoi; e
il gatto tornò a dire che turasse la bocca e il re domandò di
nuovo quel che gli occorresse; e il gatto, pronto con un’altra
scusa, per rimediare alla viltà di Gagliuso. Alla fine, dopo che
si fu mangiato e discorso per un pezzo di questo e di quello,
147
Gagliuso si accommiatò.
Il gatto, rimasto solo col re, si fece a descrivere il valore,
l’ingegno, il giudizio e, soprattutto, la gran ricchezza che Ga-
gliuso si trovava di possedere nelle campagne di Roma e di
Lombardia, e per la quale meritava d’imparentarsi con un re
di corona. Il re domandò a quanto potesse ascendere quella
ricchezza; e il gatto rispose che non era possibile fare il conto
dei mobili, degli stabili e delle suppellettili di questo riccone,
che non sapeva lui stesso quel che possedeva; e che, se il re
voleva informarsene, mandasse con lui gente sua fuori del re-
gno, che gli avrebbe fatto conoscere per prova che non c’era
ricchezza al mondo pari a quella.
Il re comandò ad alcune persone sue fide che avessero
preso minuta informazione del fatto, le quali andarono sulle
orme del gatto. E questo, col pretesto di far loro trovare rin-
fresco per la strada di posta in posta, come fu uscito dai con-
fini del regno, correva innanzi, e, quante greggi di pecore,
mandare di buoi, razze di cavalli incontrava, diceva ai pastori
e guardiani: «Olà, state all’erta, ché una banda di briganti vo-
gliono mettere a sacco quanto si trova in questa campagna;
ma, se volete salvarvi dalla loro furia e che vi sia portato ri-
spetto, dite che è roba del signor Gagliuso, e non vi sarà toc-
cato un pelo». Il simile diceva per le masserie per le quali
passava; cosicché, dovunque le persone del re arrivavano, tro-
vavano una zampogna accordata e si sentivano dire che tutte
le cose, che vedevano, erano del signor Gagliuso. E, stanchi di
più domandare e di udire la medesima risposta, se ne tornaro-
no al re, riportandogli mari e monti della ricchezza sterminata
del signor Gagliuso.
A questa relazione, il re promise una buona mancia al
gatto se trattava il matrimonio della sua figliuola col signor
Gagliuso. E il gatto, fatta la spola di qua e di là, all’ultimo
concluse il parentado. Venne Gagliuso, il re gli consegnò la
figliuola e una grossa dote: e, dopo un mese intero di festeg-
giamenti, quegli disse che voleva condurre la sposa alle terre
sue, e, accompagnato dal re sino ai confini, parti per la Lom-
bardia, dove, per consiglio del gatto, comprò territori e terre, e
148
divenne barone.
Ora Gagliuso, vedendosi ricco sfondolato, rese grazie al
gatto che non si potevano maggiori, dicendogli che da esso e
dai suoi buoni uffici riconosceva la vita e la grandezza sua, e
che l’arte di un gatto gli aveva recato maggior giovamento
che non l’ingegno del padre. Perciò esso poteva fare e disfare
e disporre a piacimento della roba e della vita sua; e gli dié
parola che, quando fosse morto, di là a cento anni!, l’avrebbe
fatto imbalsamare e porre dentro una gabbia d’oro nella stessa
camera sua.
Non passarono tre giorni da questa millanteria, che il gat-
to, fingendosi morto, si lasciò trovare steso lungo lungo per
terra1. Lo vide la moglie di Gagliuso e gridò: «O marito mio,
quale grande sventura! Il gatto è morto!». «Si porti con sé o-
gni male! — rispose Gagliuso: — meglio a lui che a noi».
«Che cosa ne faremo?», replicò la moglie. E quello: «Prendilo
pel piede e buttalo dalla finestra!».
Il gatto, che udì questo bel rimeritamento, che mai si sa-
rebbe immaginato, saltò sulle quattro zampe e disse: «Questa
è la gran mercé dei pidocchi che ti ho tolti dalla persona?
Questo è il ‘mille grazie’ pei cenci che t’ho levati di dosso, ai
quali si potevano sospendere i fusi? Questo è il ricambio di
averti posto in forma di ragno, e di averti sfamato, pezzente,
straccione? che eri sbrindellato, strappato, sfilacciato, cencio-
so e pidocchioso! Cosi accade a chi lava la testa all’asino!
Va’, che ti sia maledetto quanto ti ho fatto, che non meriti che
ti sia sputato in gola! Bella gabbia d’oro, che mi avevi appa-
recchiata! Bella tomba, che mi avevi assegnata! Servi tu, sten-
ta, fatica, suda; ed ecco il bel premio! Oh misero chi mette la
pentola a speranza d’altri! Disse bene quel filosofo: chi ciuco
si corica, ciuco si trova! In breve, chi più fa, meno aspetti. Ma
buone parole e tristi fatti ingannano savi e matti!».
Cosi parlando e scotendo il capo, infilò la via dell’uscio;
1
II testo dice: «nel giardino»; ma è un altro scorso di penna, in contradi-
zione con
quel che segue.
149
e, per quanto Gagliuso, col polmone1 dell’umiltà, cercasse di
rabbonirlo, non vi fu rimedio che tornasse indietro. Ma, sem-
pre correndo, senza voltare la testa, borbottava:
Dio ti guardi da ricco impoverito,
e da pezzente, quando è risalito!
1
Cibo pei gatti, che un venditore ambulante, detto appunto il «polmonaro»,
reca per le case di Napoli la mattina, e tutti i gatti del vicinato si agitano e
miagolano, sentendo da lontano l’approssimarsi del loro benefattore.
150
TRATTENIMENTO QUINTO
IL SERPENTE
151
del procaccio. Ma, sebbene il marito zappasse alla giornata, a
lei non riusciva vedere la fertilità che desiderava.
Un giorno il pover’uomo, avendo riportato a casa una fa-
scina che era andato a tagliare alla montagna, nello scioglier-
la, trovò in mezzo alle frasche un bel serpentello. A questa vi-
sta, Sapatella (ché cosi si chiamava la forese) trasse un gran
sospiro e disse: «Ecco che persino le serpi fanno i serpicini; e
io nacqui disavventurata a questo mondo, con un ernioso di
marito, che, quantunque sia ortolano, non è da tanto da fare un
innesto!». Il serpentello, ciò udendo, favellò: «Poiché non
puoi aver figli, e tu prenditi me, che sarà un buon affare, e io
ti vorrò bene più che a mia madre». Sapatella, all’uscita ina-
spettata del serpente che parlava, ebbe a spiritare; pure, fatto
animo, gli rispose: «Non fosse per altro, per cotesta amorevo-
lezza tua io mi contento di accettarti come se fossi uscito dal
mio ginocchio». E cosi, indicandogli un buco della casa da
servire come culla, gli dava da mangiare di quel che aveva,
con la più grande affezione del mondo.
Crescendo il serpentello di giorno in giorno, quando fu
fatto assai grande, disse a Cola Matteo, il marito, che egli te-
neva per messere1: «O tata, mi voglio ammogliare!». «Di gra-
zia, — rispose Cola Matteo — troveremo una serpe come te, e
faremo questa lega di botteghe». «Che serpe! — disse il ser-
pente: — come se fossimo tutt’una cosa con le vipere e con
gli scorzoni! Ben si vede che sei un Antuono, e fai d’ogni er-
ba fascio. Io voglio la figlia del re; e perciò va’ in questo mo-
mento stesso, e domanda al re la figlia, e di’ che la vuole un
serpente».
Cola Matteo, che era uomo alla buona e non s’intendeva
troppo di cerimonie, andò semplicemente dal re e gli fece
l’imbasciata: «Ambasciatore non porta pena; se no, mazze
quante l’arena2. Or sappi che un serpente vuole tua figlia per
moglie; perciò io vengo come ortolano a vedere se potessi fa-
re l’innesto di un serpente con una colombella». Il re, che co-
nobbe al fiuto che colui era un babbione, per toglierselo dat-
1
Per padre e capo della casa.
2
Detto proverbiale.
152
torno, rispose: «Va’, di’ a cotesto serpente che, se mi farà i
frutti, che sono in questo parco, tutti d’oro, io gli darò mia fi-
glia». E, con una grande risata, lo congedò.
Riportata che ebbe Cola Matteo la risposta al serpente,
questi gli disse: «Va’ domattina e raccogli tutti gli ossi di frut-
ti che trovi per la città e seminali nel parco, ché vedrai perle
infilate al giunco». Cola Matteo, che era condiscendente e non
sapeva né replicare né contraddire, non appena che il Sole con
le ginestre d’oro ebbe spazzato le immondizie delle ombre dai
campi innaffiati dall’Alba, infilzatosi una sporta al braccio,
andò di piazza in piazza raccattando a terra tutti gli ossi di
persiche, di crisòmele1, di alberge2, di viscide, e quanti nòc-
cioli e granelli trovò per la strada. E poi andò al parco e ve li
seminò, come gli aveva detto il serpente; e quelli, d’un subito,
germogliarono e crebbero in piante coi tronchi, le foglie, i fio-
ri e i frutti tutti oro lampante. Il re, a questo spettacolo, andò
in estasi per la meraviglia ed esultò per la gioia.
Dopo di che, il serpente rimandò Cola Matteo al re affin-
ché gli tenesse la promessa. «Piano! — disse il re: — ch’io
voglio un’altra cosa, se egli vuol avere mia figlia; ed è che
faccia le mura e il suolo del parco tutto di pietre preziose».
Riferita dall’ortolano la nuova richiesta al serpente, questi gli
disse: «Va’ domattina a raccogliere tutti i cocci che troverai
per la terra e gettali nei viali e contro le mura del parco: ché
vogliamo arrivare questo zoppo!».
Cola Matteo, allorché la Notte, per aver favoreggiato i
mariuoli, ha l’esilio e va raccogliendo i fagotti dei crepuscoli
dal cielo, preso un corbello sotto il braccio, cominciò ad anda-
re raccattando cocci di orciuoli, rottami di coperchi e coper-
chietti, fondi di pignatta e di tegami, orli di catini, manichi
d’anfore, labbri di canteri, portandosi via quante lucer- nette
rotte, testi spezzati, boccali fessi, e quanti frantumi di vasel-
lame trovò per le strade. Ed, eseguite le istruzioni del serpen-
te, si vide il parco selciato di smeraldi e calcedoni, incrostato
di rubini e carbonchi; il cui fulgore sequestrava la vista nei
1
Albicocca.
2
Varietà di persica: prunus armeniaca
153
magazzini degli occhi e piantava la meraviglia nei territori dei
cuori. Il re restò li come una statua e non sapeva che cosa gli
fosse accaduto.
Il serpente gli fece dire un’altra volta che mantenesse la
parola; ma il re mise ancora una nuova condizione: «Quanto
si è fatto, è niente, se egli non mi fa diventare questo palazzo
tutto d’oro». E Cola Matteo, avendo riportato quest’altro ca-
priccio del re, il serpente gli disse: «Va’, e prendi un fascio
d’erbe diverse e ungine le fondamenta del palazzo: ché ve-
dremo di contentare questo bambino piagnoloso». E il forese
andò raccogliendo un gran fastello di bietole, ramolacci, a-
glietti, erba porcellana, ruca e cerfoglio; e, fatta l’unzione al
palazzo, lo si vide subito tutto rilucere come pillola dorata9 da
far evacuare la povertà a cento case rese stitiche dalla sfortu-
na.
Quando il forese tornò, in nome del serpente, a fare i-
stanza per la promessa, il re, vedendosi chiusa ogni sfuggita,
chiamò la figliuola: «Grannonia mia, io, per beffare uno che ti
chiedeva in moglie, ho proposto tali patti che mi pareva im-
possibile che si potessero mai adempiere. Ma ora, vedendomi,
non so come, raggiunto e stretto dall’obbligo, ti prego, se sei
una figliuola benedetta, di farmi mantener la fede e di conten-
tarti di quello che il Cielo vuole ed io sono sforzato di fare».
«Fa’ quel che ti piace, tata e signore mio, — rispose Granno-
nia, — poiché non uscirò una linea dalla volontà tua». E il re
disse a Cola Matteo, che facesse venire il serpente.
Questi, avuta la chiamata, sali sopra un carro tutto d’oro,
tirato da quattro elefanti d’oro, e si diresse verso la corte. Ma,
per dovunque passava, la gente dileguava atterrita al vedere
un serpente cosi grande e spaventoso, che faceva la passeggia-
ta per la città. E, quando giunse al palazzo reale, tremarono
come giunchi e fuggirono tutti i cortigiani, che non restarono
neppure i guatteri in cucina. Anche il re e la regina si tapparo-
no, per la tremarella, in una loro camera. Sola Grannonia ri-
mase ferma e salda; e, benché il padre e la madre gridassero:
«Fuggi, svigna, sàlvati, Grannonia!», essa non volle rimuo-
versi di un passo, dicendo con calma: «Perché dovrei fuggire
154
il marito che voi mi avete dato?».
Il serpente entrò nella camera, afferrò con la coda Gran-
nonia a mezza vita, e le diede una folla di baci, che il re, a ve-
dere, fece un quarto di tomolo di vermi, e, se in quel punto lo
salassavi, non ne sarebbe venuta fuori una stilla sola di san-
gue. Poi se la portò in un’altra camera, e, fatta ben serrare la
porta, scosse a terra la pelle serpentina e apparve bellissimo
giovane, con la testa tutta riccioli d’oro e con gli occhi che af-
fatturavano. E, abbracciata la sposa, colse i primi frutti
dell’amor suo.
Il re, che vide il serpente appartarsi con la figliuola e
chiudere la porta, disse alla moglie: «Il Cielo dia pace a quella
buon’anima di nostra figlia, che è andata senz’altro; e quel
maledetto serpente se la sarà inghiottita come un torlo
d’uovo!». E mise l’occhio al buco della chiave per vedere che
cosa era accaduto. Ma, quando vide invece la stupenda1 grazia
di quel giovane e la spoglia di serpente che aveva lasciata a
terra, dette un calcio alla porta, ed esso e la madre entrarono.
E, andati difilati a quella pelle, la presero e la gettarono nel
fuoco.
«Ah! cani rinnegati! — gridò quel giovane, — me l’avete
fatta!». E, subito, si trasformò in una colomba, e, incontrate,
nel fuggire, le vetrate delle finestre, tanto vi urtò col capo che
le ruppe, ma ne usci conciato di maniera che non gli restò sa-
na parte alcuna della testa.
Grannonia, che si vide in un punto solo contenta e triste,
felice e sventurata, ricca e pezzente, graffiandosi la faccia, si
lamentò col padre e con la madre di questo turbamento del
suo piacere, di questo avvelenamento della sua dolcezza e di
questo sviamento della sua buona fortuna. Si scusarono essi
che non avevano pensato di far male; ma Grannonia, sempre
gemendo, aspettò che la Notte si fosse levata ad accendere le
candele al catafalco2 del cielo per le pompe funerali del Sole;
1
Testo: «stremata»: spagn. «extremada».
2
I catafalchi pei funerali si facevano pomposi in quel secolo pomposo,
come si può vedere dalle molte descrizioni a stampa e dalle figure, che ne
restano.
155
e, vedendo allora che tutti dormivano, tolse i gioielli che ser-
bava in uno scrigno e se ne usci per una porta segreta, deter-
minata a cercar tanto e dappertutto, finché ritrovasse il bene
che aveva perduto.
Passate le porte della città, col raggio della luna che la
guidava, incontrò una volpe, che le domandò se desiderasse
compagnia. «Mi fai piacere, comare mia, — le rispose Gran-
nonia, — ché io non sono troppo pratica del paese». Cosi,
camminando insieme, giunsero a un bosco, dove gli alberi, nel
loro giuoco a rimpiattino, simili a fanciulli, facevano casette
per nascondervi le ombre. E, poiché i due si sentivano ormai
stracchi pel molto camminare e cercavano di riposarsi, si riti-
rarono sotto una copertura di foglie, dove una fontana giocava
anch’essa a carnevale con l’erba fresca, versandole addosso
acqua ad anfore. Coricatisi colà sopra un materasso di tenera
erbetta, pagarono cosi il dazio di riposo che dovevano alla na-
tura per la mercanzia della vita; nè si destarono finché il Sole,
col solito suo fuoco, non dié segno ai marinai e ai corrieri di
riprendere il loro cammino. E, al risveglio, s’intrattennero an-
cora alquanto a sentire il canto di svariati uccelli, che erano in
quel bosco, e Grannonia mostrò gran diletto al loro cinguetta-
re.
A questo, la volpe le disse: «Ben altro piacere proveresti,
se intendessi quello che essi dicono, come lo intendo io!».
Grannonia, curiosa, perché curiosità e chiacchiera sono pro-
prie delle femmine per natura, pregò la volpe di dirle quel che
aveva appreso dalla conversazione di quegli uccelli. Ed essa,
fattasi pregare a lungo per preparare maggiore curiosità a
quanto stava per raccontare, le comunicò che quegli uccelli
discorrevano tra loro di una disgrazia accaduta a un figlio di
re, il quale, bello come un fato, per non aver voluto soddisfare
le sfrenate voglie di un’orca maledetta, era stato trasformato
in serpente per sette anni, ed era già vicino a terminare il tem-
po prefisso, quando, innamoratosi della figlia di un altro re, e
stando con la sposa in una camera, il padre e la madre di lei
gli avevano bruciato la spoglia; e, fuggendo allora in forma di
colomba, al rompere una vetrata per uscir dalla finestra, si era
156
fracassato in modo cosi orrendo che i medici lo davano per
disperato.
Grannonia, che sentì che si parlava dei guai suoi, doman-
dò anzitutto di chi cotesto principe era figlio, e se c’era spe-
ranza di rimedio al suo male. E la volpe la informò che quegli
uccelli avevano detto che il padre di lui era il re di Vallone-
grosso, e che non c’era altro segreto per otturare i buchi della
sua testa, affinché non ne uscisse l’anima, che di ungere le fe-
rite col sangue degli uccelli stessi, che avevano raccontato il
caso.
A queste parole Grannonia si buttò in ginocchio dinanzi
alla volpe, supplicandola di farle quest’utile di prendere que-
gli uccelli, ché avrebbero spartito da buoni compagni il gua-
dagno. «Piano! — disse la volpe, — aspettiamo la notte; e,
quando gli uccelli si saranno appollaiati, lascia fare a mamma
tua, ché io mi arrampico sugli alberi e li aggranfio a uno a u-
no».
Passarono così tutto il giorno, ora parlando della bellezza
del giovane, ora dell’errore commesso dal padre della sposa,
ora della disgrazia accaduta, e di discorso in discorso giunsero
all’ora in cui la Terra spande un gran cartone nero per racco-
gliere la cera che sgocciola dalle torce della Notte1. La volpe,
non appena vide gli uccelli appisolarsi sui rami, se ne salì
quatta quatta, e, a uno a uno, chiappò quanti rigogoli, cardelli,
scriccioli, fringuelli, beccacce, civette, upupe, tordi, lucarini,
strigi, pappamosche erano sugli alberi. E li uccisero e misero
il sangue in un fiaschetto, che la volpe portava con sé per ri-
storarsi per via.
Grannonia, per l’allegrezza, non toccava la terra coi pie-
di, ma la volpe la interruppe: «Oh, quale allegrezza in sogno,
figlia mia! Tu non hai fatto niente, se non hai ancora il mio
sangue per miscela con quello degli uccelli». E, ciò detto, pre-
se la fuga.
Ma quella, che vedeva rovinate le sue speranze, ricorse
all’arte delle femmine, che è l’astuzia e la lusinga: «Comare
1
Come usava la povera gente, che, nelle feste e nelle cerimonie delle chie-
se, raccoglieva con un pezzo di cartone la cera che scorreva dalle candele.
157
volpe, tu avresti ragione di salvarti la pelle, se io non ti fossi
tanto obbligata e se non si trovassero altre volpi pel mondo;
ma, poiché sai quanto ti debbo, e sai che non mancano pari
tue per queste campagne, ti puoi assicurare della mia fede e
non fare come la vacca, col rovesciare con le zampe la tina
ora che l’hai riempita di latte: hai fatto, ed ora ti perdi al me-
glio! Férmati, credimi, e accompagnami alla città di questo re,
ché, così facendo, sarà come mi comprassi per tua schiava».
La volpe, che non immaginava che ci fosse in qualche
parte del mondo quintessenza volpina, si trovò volpinata da
una femmina; perché, accordatasi con Grannonia, e proceden-
do oltre insieme, non avevano dato cinquanta passi, che essa
le assestò una mazzata col bastone che portava, e la colpi alla
testa con tanta forza che subito stese i piedi. E non mise tem-
po in mezzo a scannarla, prenderne il sangue e aggiungerlo
nel fiaschetto. Poi, si mise la via tra le gambe, e arrivò in bre-
ve tempo a Vallonegrosso, e cercò subito il palazzo reale, e
mandò a dire al re che essa era venuta per risanare il principe.
Il re la fece venire alla sua presenza e si meravigliò a ve-
dere che una giovane prometteva quello che non avevano po-
tuto fare i migliori medici del regno suo; pure, poiché il tenta-
re non nuoce, le disse che con grande ansia aspettava di ve-
derne l’esperienza. Ma Grannonia replicò: «Se io vi farò ve-
dere l’effetto che bramate, voglio che mi promettiate di darmi
il principe per marito». Il re, che considerava il principe per
morto, rispose: «Quando tu me lo darai libero e sano, io te lo
darò sano e libero, ché non è gran cosa dare un marito a chi
mi dà un figlio».
Cosi, andati nella camera del principe, non appena Gran-
nonia l’ebbe unto con quel sangue, quegli si levò come se non
avesse mai avuto alcun male. E la giovane, vedendo il princi-
pe tornato forte e gagliardo, disse al re di attenerle la promes-
sa.
Il re si rivolse al figlio: «Figlio mio, ti ho visto morto e
ora ti vedo vivo, e non ancora lo credo! Ma io ho promesso a
questa giovane, che, se ti guariva, tu le saresti stato marito: il
Cielo ti ha fatto la grazia, e tu fammi compiere la promessa,
158
per quanto amore mi porti, perché è necessità di gratitudine
pagare questo debito».
Rispose il principe: «Signor mio, vorrei avere tanta liber-
tà delle voglie mie da darvi soddisfazione pari all’amore che
vi porto; ma io sono impegnato di parola con un’altra, né voi
consentirete ch’io rompa la fede, né questa giovane mi consi-
glierà ch’io faccia questo torto a quella a cui voglio bene, né
io posso cangiar pensiero».
All’udire questa dichiarazione, Grannonia provò un inti-
mo gusto da non dire, sentendosi viva nella memoria del prin-
cipe. E, tingendosi in volto di carminio, prese a interrogarlo:
«Quando io trovassi il modo di contentare questa giovane a-
mata da voi, che mi cedesse la partita, non vi pieghereste alle
voglie mie?». «Non sarà mai — esclamò il principe, — che io
scacci la bella immagine dell’amata mia da questo petto! O
che essa mi faccia dolce conserva dell’amor suo o mi dia la
cassia trattal3, sempre sarò di una stessa voglia e di uno stesso
pensiero; e potrei vedermi di nuovo a pericolo di perdere il
giuoco alla tavola della vita, che io non farei mai né
quest’inganno, né questo cambio».1
Allora Grannonia, non potendo stare più nelle pastoie
dell’infingimento, gli si scoperse tutta; ché la buia camera
d’infermo, con le finestre ancora chiuse, e l’essere lei travesti-
ta, non gliel’avevano fatta riconoscere a primo tratto. E il
principe subito l’abbracciò con una gioia da stordire, dicendo
al padre chi essa era, e quello che già per lei aveva fatto e pa-
tito. Cosi, mandati a chiamare il re e la regina di Starzalunga,
di buon’intesa celebrarono il matrimonio, assai sollazzandosi
al pensiero del tiro giocato alla volpe e concludendo
all’ultimo degli ultimi che:
al piacere d’amore
condimento sarà, sempre, il dolore.
1
La cassia, tratta dalle canne; e qui in bisticcio con «conserva». «Dare la
cassia tratta» vale, anche in italiano, «dar congedo».
159
160
L’ORSA
Il re di Roccaspra vuol prendere per moglie la propria figlia;
e questa, mercé l’astuzia di una vecchia, si trasforma in orsa
e fugge alle selve. Qui, in una caccia, viene in possesso di un
principe, il quale poi un giorno la vede nel suo aspetto natu-
rale in un giardino, dove si stava a pettinare, e s’innamora di
lei. Dopo vari casi, scoperta per donna, diventa moglie del
principe.
1
La candela accesa nei pubblici incanti era di uso generale
161
donna bella come sono stata io. Altrimenti ti lascio una male-
dizione, spremuta con tutte le forze dalle mie mammelle1 e te
ne porterò odio perfino nell’altro mondo».
Il re, che l’amava al più alto segno2, ascoltando
quest’ultima volontà, scoppiò a piangere e per un pezzo non
potè pronunciare parola. Infine, frenando i singulti, le disse:
«Se io voglio saper più di moglie, piuttosto mi venga una
goccia, piuttosto mi sia data una lanciata catalana, piuttosto
sia trattato come Starace!3 Bene mio, non pensarci neppure,
non credere a sogni, ch’io possa porre amore in altra donna.
Tu, per la prima, vestisti l’affezione mia; tu porterai teco gli
ultimi stracci delle mie voglie!». E, mentre diceva queste pa-
role, la povera giovane, che già aveva il rantolo, travolse gli
occhi e stese i piedi.
Il re, che vide sturata Patria4, sturò i canali degli occhi
suoi, con grida e battiture che fecero correre tutta la corte,
chiamando a gran voce per nome quella buona anima, be-
stemmiando la fortuna, che gliel’aveva rapita, strappandosi la
barba, accusando le stelle, che gli avevano mandato tanta di-
sgrazia. Ma anche lui fece poi come suona quel detto: «doglia
di gomito e di moglie duole assai e dura poco», e quell’altro:
«due, una alla fossa e un’altra alla coscia»5; e non ancora la
Notte era uscita alla piazza d’armi del Cielo a passare in rivi-
sta i pipistrelli, ch’egli cominciò a fare i conti sulle dita: «Ec-
co perduta mia moglie per me, ed io resto vedovo e afflitto,
senz’altra speranza di erede che la sventurata figlia che m’ha
1
Testo: «a zizze spremute».
2
Il testo: «fin sopra l’astrico», cioè alla copertura delle case che in Napoli
è di solito
«ad astrico», come si dice, cioè piana e fatta di un battuto di lapilli e calci-
na.
3
Sullo Starace v., in fine, nelle Note e illustrazioni.
4
Patria, la Litema palus, presso Napoli. Per ordinamento allora e poi in vi-
gore, finché la foce stava chiusa («appilata», in dialetto), non era lecito
entrare nel lago per la caccia delle folaghe e degli altri uccelli acquatici;
nel novembre, si apriva la foce (si «spilava»), ed era tolta la riserva della
caccia.
5
Cioè, accanto a sé.
162
lasciata. Perciò sarà necessario trovare un partito per avere un
figlio maschio. Ma dove mi rivolgerò? dove troverò una
femmina pari di bellezza a mia moglie, se ogni altra sembra
un’arpia al confronto? Qui ti voglio! Dove ne trovi un’altra a
frugare col fuscellino, dove andrai cercandola col campanello,
se natura fece Nardella (che sia in gloria!), e poi ruppe la
stampa?1 Oimè, in quale labirinto, in quali strettoie mi ha po-
sto la promessa che le ho fatta! Ma che? Io ancora non ho vi-
sto il lupo, e già fuggo: cerchiamo, vediamo e ascoltiamo! È
possibile che non ci sia altra asina alla stalla, fuori di Nardel-
la? E possibile che voglia essere perduto il mondo per me?
Forse c’è stata la moria e la distruzione delle femmine? O se
n’è persa la semenza?».
Con queste riflessioni, fece subito gettare un bando e
comandamento da parte di mastro Chiomento2: che tutte le
donne belle del mondo venissero alla pietra di paragone della
bellezza, perché voleva prendersi per moglie la piu bella e do-
tarla di un regno. Ed essendosi il grido sparso dappertutto,
non ci fu femmina in ogni parte della terra che non venisse a
tentar la sorte, non ci restò donnaccola, per scontraffatta che
fosse, che non si facesse innanzi, perché, quando si tocca que-
sto tasto della bellezza, non c’è canchero che si dia per vinto,
non c’è orca marina, che ceda: ognuna si picca, ognuna si cre-
de la più bella; e, se lo specchio le mostra il vero, dà colpa al
vetro che non rende l’immagine al naturale, all’argento vivo,
che è stato spianato male.
Quando il paese fu tutto pieno di femmine, il re le fece
mettere in fila e prese a passeggiare davanti a loro, come fa il
gran Turco quando entra al serraglio, col fine di scegliere la
migliore pietra di Genovap per affilare il coltello damaschino.
E, andando e venendo, di su e di giù, come scimmia che non
sta mai ferma, e affisando e squadrando ora questa ora quella,,
una le pareva storta di fronte, un’altra lunga di naso, chi larga
di bocca, chi grossa di labbra, questa spilungona, quella pic-
cola e mal tagliata, questa troppo rigonfia, quella troppo
1
«Natura il fece e poi roppe la stampa» (ARIOSTO, Furioso, X, 84).
2 Formola iniziale dei bandi, accomodata in modo scherzoso.
163
smunta; la spagnuola non gli piaceva pel colore smorto1; la
napoletana non gli andava all’umore per le stampelle con le
quali cammina2; la tedesca gli pareva fredda e gelida; la fran-
cese, di cervello troppo sventato; la veneziana, una conocchia
di lino, coi capelli cosi bianchicci3. In conclusione, quale per
una ragione e quale per un’altra, le rimandò tutte con una ma-
no avanti e un’altra dietro.
Poiché tante belle facce non gli erano andate a gusto, ed
egli tuttavia istava risoluto a strangolarsi4, fini col volgersi al-
la sua propria figlia, riflettendo: «Perché vado cercando Maria
per Ravenna 5, se Preziosa, mia figlia, è fatta a una medesima
stampa con la madre? Ho questo bel viso in casa, e corro per
ritrovarlo a capo del mondo!». E fece intendere il suo pensie-
ro alla figlia, la quale gli sgranò un rabbuffo e una ramanzina,
che il Cielo te li dica per me. Ma egli montò in furia: «Abbas-
sa la voce e mettiti la lingua di dietro; e risolviti questa sera
stessa a stringere il nodo matrimoniale: altrimenti, il maggior
pezzo sarà l’orecchio!».
Preziosa, udita questa risoluzione paterna, si ritirò nella
camera sua, e, lamentando la sua mala sorte, non si lasciò in-
tatta neppure una ciocca. E, mentre proseguiva in questa triste
doglianza, capitò una vecchia, che soleva servirla di argenta-
ta6, la quale, trovandola più di quel mondo che di questo, udi-
ta la cagione del suo affanno, la confortò: «Sta’ di buon ani-
mo, figlia mia, non disperarti, ché a ogni male c’è rimedio,
1
Che si trasferisce da una parte all’altra della città per trovare nuovi clien-
ti, stufi ormai i vecchi.
2
Sorta d’istrumento musicale, e per esso i suonatori di quell’istrumento.
3
Cioè di ballo della Sfessania e della Lucia, dove ritornavano le parole:
«tubba catubba».
165
ce mettere in un giardino accanto al palazzo reale per poterla
guardare, sempre che gli piacesse, da una finestra.
Ora, un giorno che tutte le genti di casa erano andate fuo-
ri, rimasto solo, s’affacciò per vedere l’orsa. E vide, invece
dell’orsa, Preziosa, che, per ravviarsi i capelli, toltosi di bocca
il fuscello, si pettinava le trecce d’oro. Allo spettacolo di quel-
la bellezza strepitosa il principe ebbe a strabiliare; e, precipi-
tandosi per le scale, corse verso il giardino. Senonché Prezio-
sa, avvedutasi dell’agguato, subito si rificcò il fuscello in boc-
ca e tornò come prima.
Il principe, entrato nel giardino e non trovato più quello
che aveva visto di sopra, restò cosi interdetto dalla delusione,
che cadde in una grande melanconia e in quattro giorni venne
malato, chiamando sempre: «Orsa mia, orsa mia!». La madre,
che udì questo lamento, immaginò che l’orsa gli avesse fatto
qualche cattivo tratto e dié ordine che fosse uccisa. Ma i servi-
tori, che tutti quanti erano innamorati della domestichezza di
quell’animale, che si faceva amare fin dalle pietre della strada,
ebbero pietà di ammazzarla e la menarono al bosco, riferendo
alla regina di averla sventrata.
Quando la cosa giunse all’orecchio del principe, egli en-
trò in un furore da non dire; e, gettatosi, malato com’era, dal
letto, volle fare carne affumicata1 dei servitori. Ma, poiché
ebbe appreso come la faccenda era andata, si mise mezzo
morto a cavallo, e tanto cercò e girò che, ritrovata l’orsa, la
ricondusse a casa. Qui, la pose in una camera, e prese a invo-
carla affannosamente: «O bel boccone da re, che stai rintanata
in questa pelle! o candela d’amore, che stai chiusa in questa
lanterna pelosa! a qual fine farmi questi giochetti? Per veder-
mi spasimare e andarmene lentamente consunto? Io muoio af-
famato, abbramato e allucignato2 per cotesta bellezza, e tu ne
vedi le chiare prove, ché io sono ridotto a un terzo come vin
cotto, e non ho se non ossa e pelle, poiché la febbre si è cucita
a filo doppio alle mie vene! Perciò, leva la tela di questa pelle
setolosa e lasciami vedere l’apparato delle tue bellezze! Leva,
1
«Mesesca»: carne tagliata a pezzetti e seccata al vento e al fumo.
2
Come lucignolo.
166
leva, le fronde di sopra a cotesto canestro, e fammi dare una
guardata alle belle frutta! Alza cotesta portiera e fa’ entrare gli
occhi a contemplare la pompa delle meraviglie! Chi ha posto
in una carcere, tessuta di peli, un’opera cosi liscia? Chi ha ser-
rato in uno scrigno di cuoio cosi bel tesoro? Lascia che io ve-
da cotesto mostro di grazie e prenditi per pagamento tutte le
voglie mie; ché, solo il grasso di quest’orsa può rimediare
all’attrazione di nervi da cui sono afflitto!».
Ma, dopo aver detto e ridetto, avvedutosi che gittava a
perdita le sue parole, tornò a buttarsi sul letto e gli sopravven-
ne cosi disperato accidente che i medici fecero cattivo pro-
gnostico dei casi suoi. Allora la madre, che non aveva altro
bene al mondo, si sedette a un lato del letto e gli disse: «Figlio
mio, da che cosa nasce questo crepacuore?
Qual umore malinconico ti ha preso? Tu sei giovane, tu
sei amato, tu sei grande, tu sei ricco: che cosa ti manca, figlio
mio? Parla: pezzente vergognoso rimane a saccoccia vuota.
Se vuoi moglie, tu scegli e io do la caparra; tu prendi ed io
pago. Non vedi tu che il male tuo è male mio? A te batte il
polso, a me il cuore1; tu con la febbre nel sangue, io con la
gocciola al cervello; perché io non ho altro puntello alla vec-
chiaia mia che te, figlio caro! Perciò stammi allegro per ren-
dere allegro questo cuore, e perché non si vegga disgraziato
questo regno, sprofondata questa casa e desolata2 questa ma-
dre!».
Il principe alle dolci parole materne rispose: «Nessuna
cosa può confortarmi se non la vista di quell’orsa; e perciò, se
volete vedermi risanare, fatela stare in questa camera: né vo-
glio altri che mi governi e mi faccia il letto e mi cucini se non
essa sola, ché, con questo piacere, in breve tempo guarirò».
1
Espressione che si ritrova a un dipresso in un sonetto dello SGRUTTEN-
DIO (Tiorba, c. I, 50): «A te sbatte lo pietto, a me lo core».
2
Testo: «carosa», tosata, cioè, propriamente, vedova: il costume di
tagliarsi i e di non rimaritarsi se non dopo che fossero ricresciuti i capelli
tosati, durava ancora in alcune parti del Regno.e di non rimaritarsi se non
dopo che fossero ricresciuti i capelli tosati, durava ancora in alcune parti
del Regno.
167
La madre, quantunque le sembrasse uno sproposito che
l’orsa dovesse fare da cuoco e da cameriere e dubitasse che il
figlio avesse il farnetico, nondimeno, per accontentarlo, ordi-
nò che l’orsa fosse introdotta. E quella, avvicinatasi al letto
del principe, levò la zampa e toccò il polso dell’infermo, cosa
che sbigottì la regina, temendo che da un momento all’altro
gli strappasse il naso. Ma, dicendo il principe: «Chiappino1
mio, non mi vuoi cucinare e darmi a mangiare e avermi cu-
ra?», l’orsa abbassò il capo, mostrando di accettare la propo-
sta.
La madre, allora, mandò a prendere una coppia di galline
e fece accendere un fornellino nella stessa camera, e mettervi
sopra una pentola d’acqua a bollire. E l’orsa, afferrata una
gallina, la tuffò nell’acqua bollente, la spennò destramente, e,
sventratala, parte ne conficcò allo spiedo e parte acconciò in
un bello ingratinato, che il principe, che prima non poteva in-
ghiottire nemmeno l’acqua zuccherata, se ne leccò le dita. Fi-
nito ch’egli ebbe di mangiare, l’orsa gli dié da bere con tanta
grazia che la regina volle baciarla in fronte. Ciò adempiuto, ed
essendo il principe sceso dal letto per formare la pietra di pa-
ragone del giudizio dei medici2, l’orsa rifece il letto; e poi,
andata di corsa al giardino, colse un bel fascio di rose e di fio-
ri di cedrangolo, e ve li sparse sopra: tanto che la regina disse
che quest’orsa valeva un tesoro e che aveva un cantaio di ra-
gione il figlio a volerle bene.
Il principe, seguendo con gli occhi questo bel garbo, ag-
giunse esca al fuoco, e se prima si consumava a dramme, ora
si struggeva a rotoli; di tal che supplicò la regina: «Mamma
signora mia, se io non do un bacio a quest’orsa, lo spirito mi
fugge dal petto!». La regina, che lo vedeva sul punto di cadere
in deliquio, si rivolse all’orsa: «Bacialo, bacia, bell’animale
mio; non volere che questo povero mio figlio muoia di deside-
rio!»,
L’orsa si accostò, e il principe, presala per le due gote,
non si saziò di baciarla. E, mentre stavano muso a muso, cad-
1
Nome che si dà agli orsi.
2
Cioè, per orinare.
168
de non so come il fuscello dalla bocca di Preziosa, che rimase,
tra le braccia del principe, bellissima creatura umana. Gridò il
principe, mentre la stringeva con le tenaglie amorose delle
braccia: «Ci sei incappata, pispola, e non mi scappi più senza
ragion veduta!». Preziosa, spargendo il colore della vergogna
sul quadro della bellezza naturale, rispose: «Già sono nelle tue
mani; ti sia raccomandato l’onor mio, e spacca e pesa e rivol-
gimi come ti piace!».
Prese la parola la regina, e interrogò la bella giovane per
sapere chi ella fosse e che cosa l’avesse ridotta a quella vita
selvatica; e Preziosa le raccontò per filo e per segno la storia
delle sue sventure. La regina la lodò per buona e onorata fi-
gliuola, e disse al principe che si contentava che gli fosse mo-
glie. Il principe, che non bramava altra cosa in questa vita, le
dié subito la fede. E la madre, benedicendo la coppia, ordinò
di celebrare questo bell’incastro con festeggiamenti e lumina-
rie stupende. E Preziosa fu scandaglio alla bilancia del giudi-
zio degli uomini, che dice:
Quei che fa bene, sempre bene aspetta.
169
170
LA COLOMBA
1
Cioè al termine. Alla fine dei vecchi abecedari si solevano segnare le
quattro sigle di abbreviature: et, cum, rum, e bus; onde gli scolari d’un
tempo avevano, tra i loro motti scherzosi, questo: «Et con rum e busso,
Quando cade, te rumpe ’u musso».
1
II testo dice che «happe li cruosche», cioè aveva gli estri equini, quei
vermi che s’ingenerano nell’intestino dei cavalli e li rendono eccitabili e
talvolta irrefrenabili.ì
2
II testo dice che «happe li cruosche», cioè aveva gli estri equini, quei
vermi che s’ingenerano nell’intestino dei cavalli e li rendono eccitabili e
talvolta irrefrenabili.
3
Testo: «mborzavano»; ma par da leggere invece: «mbozzavano».
171
Aveva cento grinze alla faccia, ma era totalmente liscia nella
borsa; aveva la testa tutta argento, ma non possedeva neppure
uno di quei centoventi che compongono il carlino1 per poter
dare qualche ristoro allo spirito. Tanto che andava pei pagliai
del contorno, accattando qualche limosina per tirare innanzi la
vita.
Ma, poiché ai tempi d’oggi si darebbe più facilmente una
borsa di tornesi a uno spione ghiottone che non un treccalli a
un povero bisognoso, la misera vecchia dovè stentare tutto il
tempo della trebbiatura per mettere insieme una scodella di
fagiuoli, in una stagione in cui tanta abbondanza ce n’era stata
in quei paesi che poche case non ne conservavano le tomola.
Portati, dunque, a casa quei pochi fagiuoli, li nettò e li versò
in una pignatta; e poi pose la pignatta sul davanzale fuori la
finestra, mentre essa usci di nuovo per cercare quattro brusco-
li nel bosco per cuocerli. Si suol dire: «A caldaia vecchia,
ammaccatura o buco»; e anche: «a cavallo magro Dio manda
le mosche»; e ancora: «ad albero caduto accetta accetta». Cosi
accadde che in quel frattempo passò per di là il figlio del re,
Nardaniello2, che andava a caccia; e, veduta la pignatta sul fi-
nestrino, ebbe voglia di fare un bel colpo e provarsi con quelli
del suo séguito a chi, mirando più diritto, l’avesse colpita nel
bel mezzo con un sasso; e, in effetto, prendendola a bersaglia-
re, dopo tre o quattro tiri, il principe colse a segno e la mandò
in frantumi.
In quel punto stesso sopraggiunse la vecchia, che, allo
spettacolo di quell’amaro disastro, cominciò a dibattersi fuor
di sé per la rabbia, e a gridare: «Di’ che si stropicci le mani e
che si vada vantando quel caprone di Foggia3, che ha cozzato
contro questa pignatta! il figlio di strega, che ha rotto la fossa
delle carni sue! il villano zoticone, che ha seminato contro
stagione i fagiuoli miei! E pure, se non ha avuto una stilla di
compassione per le miserie mie, avrebbe dovuto avere qual-
1
Centoventi calli, ossia un carlino.
2
E chiamato, nel corso della novella, anche «Masaniello», per una delle
solite sviste; ma, in questa traduzione, restituiamo sempre il primo nome.
3
Vedi Note e illustrazioni, p. 431.
172
che rispetto al proprio interesse, e non gettare per terra le armi
della sua casata, né fare andare sotto i piedi le cose, che si
tengono sulla testa1. Ma va’, ch’io prego il Cielo a ginocchi
scoperti e con le viscere del cuore, che costui si possa inna-
morare della figlia di un’orca, che lo faccia bollire e mala-
mente cuocere: la suocera gliene dia tante e tante che si veda
vivo e si pianga morto; ed esso, trovandosi allacciato dalle
bellezze della figlia e dagli incanti della madre, non possa mai
far le sue bisacce2, ma stia, ancorché ne crepi, soggetto agli
strazi di quella brutta arpia, la quale gli comandi i servizi a
bacchetta e gli largisca il pane con la balestra, tanto che piu
d’una volta debba sospirare i fagiuoli miei, che ha sparsi per
terra».
Le maledizioni di questa vecchia misero le ali e salirono
subito al Cielo; tanto che, quantunque si usi dire: «bestemmie
di femmina, dietro te le semina», e «a cavallo bestemmiato ri-
luce il pelo», questa volta esse colpirono diritto il principe,
che stette per lasciarvi la pelle. Ché, non passarono due ore, e,
smarritosi egli nel bosco, lontano dalle genti sue, incontrò una
bellissima giovane la quale andava raccogliendo maruzze3, e,
per diletto, cantava:
Esci, esci corna,
che màmmata ti scorna;
ti scorna sopra l’astrico,
che fa il figlio mascolo!...
Il principe, che si vide innanzi questo scrigno delle cose
più preziose della natura, questo banco dei più ricchi depositi
del Cielo, questo arsenale delle più strapossenti forze
d’Amore, si senti girare la testa; e, trapassando da quella ton-
da faccia di cristallo i raggi degli occhi all’esca del suo cuore,
si accese tutto, in modo che diventò una fornace, in cui si co-
cevano le pietre dei disegni per fabbricare la casa della spe-
ranza.
1
Allusione al proverbio, che cita più oltre: «Chi semina fagiuoli, gli
nascono corna».
’ Partire, andar via.
3
Chiocciole.
173
Neppure Filadoro (tale era il nome di quella giovane)
perse tempo ché, per essere il principe un bel mostaccio, subi-
to le trafisse da parte a parte il cuore; tanto che l’uno all’altro
chiedeva misericordia con gli occhi; e, mentre le lingue loro
avevano la pipita, gli sguardi erano trombette di banditore,
che pubblicavano il segreto dell’anima.
Stati cosi un buon pezzo l’uno e l’altra con l’aridezza alla
gola1 che non potevano stillarne una maledetta parola, infine
il principe sturò il condotto della voce e prese a dire: «Da qual
prato è germogliato questo fiore di bellezza? Da qual cielo è
piovuta questa rugiada di grazia? Da quale miniera è provenu-
to questo tesoro di cose stupende? Oh felici selve, oh boschi
fortunati, abitati da questo sfoggio trionfante, irradiati da que-
sta luminaria delle feste d’Amore, oh boschi e selve, dove non
si tagliano manici per le scope, traverse per le forche, né co-
perchi di quei tali vasi, ma solo porte pel tempio della bellez-
za, travi per la casa delle Grazie e aste per le frecce
d’Amore!»
«Abbassa il tono, cavaliere mio! — rispose Filadoro; —
non tanto di grazia! ché le virtù vostre, e non i meriti miei,
formano l’epitaffio di lode, che mi avete fatto: io sono donna
che mi misuro, e non voglio che altri mi serva di mezzacanna.
Ma, tale quale sono, bella o brutta, nera o bianca, magra 0
grassa, snella o pesante, cernia o fata, bamboletta o caprone
sono tutta al comando vostro; perché questo bel taglio d’uomo
mi ha tagliato a fette il cuore, questa bella faccia di conte mi
ha trapassato dall’una all’altra parte; e mi ti do per schiavotto-
la tua incatenata, da ora a sempre».
Queste parole furono suono di tromba, che gli gridò il
«tutti a tavola!» dei piaceri amorosi, anzi lo svegliò con un
«tutti a cavallo!» alla battaglia d’amore. E, vedendosi offerto
un dito di amorosanza, egli prese tutta la mano e baciò
l’uncino d’avorio che gli aveva agganciato il cuore. Filadoro,
a questa cerimonia da principe, fece un viso da marchesa 2, an-
1
Letteralmente: «con l’arenella al gorgozzule».
2 C’è un bisticcio tra «marchesa» e «marchese»,
174
zi da tavolozza di pittore, in cui si vide un miscuglio di minio
della vergogna, di ciliegio della paura, di verderame della spe-
ranza, di cinabro del desiderio.
Nardaniello avrebbe voluto continuare in quel dolce col-
loquio, quando gli fu spezzato il dire, perché, in questa infeli-
ce vita umana, non c’è vino di soddisfazione senza feccia di
disgusto, non c’è brodo grasso di contentezza senza schiuma
di disgrazia. Mentre egli stava sul miglior punto delle sue
gioie, eccoti d’un tratto la mamma di Filadoro, che era
un’orca cosi brutta che la natura la fece come modello delle
mostruosità. Aveva i capelli come una scopa di rusco, non già
per rinettare di fuliggine e ragnatele le case, ma per annerire e
affumicare i cuori; la fronte era di pietra cote per affilare il
coltello della paura che squarciava i petti; gli occhi erano co-
mete, che predicevano tremiti di gambe, verminare di cuore,
geli di spiriti, torbidi di anime e sciolte di corpo; ché portava
il terrore nella faccia, lo spavento nello sguardo, lo schianto
nei passi, la cacaiola nelle parole; la bocca era sannuta come
di porco, grande come quella dello scrofano, storta come di
chi patisce la convulsione, bavosa come quella di una mula:
insomma, da capo a piede, vedevi uno stillato di bruttezza,
uno spedale di storpi.
Certo, il principe doveva portare cucita al giubbone qual-
che storia di Marco e Fiorella1, se non spiritò a questa vista.
L’orca lo agguantò pel farsetto, e gli disse: «Alza la corte, uc-
cello, uccello, manica di ferro!»2. «Testimonianza vostra!3 —
rispose il principe: — indietro, canaglia!»; e volle metter ma-
no alla spada, che era di buona lama4. Ma rimase come una
1
Altra allusione alla storia dei due fedeli amanti, Marco e Fiorella, per la
quale vedi Note e illustrazioni, p. 425.
2
«Alza la corte» era formola delle persone della polizia per imporre: «state
fermi»: qui, scherzosamente compiuta dalle parole di un giuoco, pel quale
vedi Note e illustrazioni, P- 439-
3
«Testemonia vostra»; altra formola con cui s’invoca la testimonianza de-
gli astanti all’ingiuria che si sta soffrendo. Il CORTESE, a chi gli domanda
se sia fuoruscito: «Te- stemmonia vostra! — io le rispose, — Arrassosia,
che dice, o cammarata?» (Viaggio di Parnaso, III, 7).
4
Letteralmente: «una lupa vecchia», v. p. 65, n. 47.
175
pecora che ha visto il lupo, e non potè, più né muoversi né fia-
tare: sicché fu trascinato alla casa dell’orca, come un ciuco
preso alla cavezza.
Colà, appena giunto, l’orca lo ammoni: «Attendi a ben
faticare, come un cane, se non vuoi morire come un porco. E,
per primo servizio, fa’ che per la giornata d’oggi sia zappato e
seminato questo moggio di terra, che è in piano con questa
camera; e sta’ in cervello che, se torno stasera e non trovo fi-
nito il lavoro, io t’inghiotto!». E, detto alla figlia di attendere
alla casa, se ne andò a conversazione con le altre orche nel
bosco.
Nardaniello, che si vide ridotto a questi termini, cominciò
a bagnare il petto con torrenti di lacrime, maledicendo la sua
fortuna che l’aveva tirato a questo cattivo passo. Filadoro,
dall’altra parte, lo confortava, che stesse di buon animo, per-
ché essa avrebbe posto il proprio sangue per aiutarlo, e che
non doveva chiamare malvagia la sorte se l’aveva condotto a
quella casa, dov’era cosi svisceratamente amato da lei, e che
dimostrava poco ricambio a quell’amore con lo starsene cosi
disperato di quanto era accaduto.
Il principe le rispose: «Non mi dispiace di essere sceso
dal cavallo all’asino, né d’aver cangiato il palazzo reale con
questo tugurio, i conviti banditi con un tozzo di pane, il cor-
teggio dei servitori col servire a estaglio1, lo scettro con una
zappa, il far atterrire gli eserciti col vedermi atterrito io da una
brutta sporcacciona; perché tutte le mie disgrazie terrei a ven-
tura per esservi tu presente e poterti mirare con questi occhi.
Ma quello che mi trafigge il cuore, è che ho da zappare e spu-
tarmi cento volte nelle mani dove sdegnavo di togliere con lo
sputo una pellicola; e, quod peio2 debbo far tanto che non vi
basterebbe un paio di buoi; e, se non finisco stasera il lavoro,
sarò mangiato da tua madre; ed io non tanto avrò tormento di
staccarmi da questo misero corpo, quanto di allontanarmi da
cotesta bella persona tua!». E, cosi, parlando, mandava sin-
ghiozzi a secchi e lacrime a conche.
1
Qui vuol dire quel che poi si disse «cottimo».
2
«Quod peius».
176
Filadoro gli rasciugò gli occhi e gli disse: «Non credere,
vita mia, che abbi da lavorare altro territorio che l’orto di a-
more né temere che màmmama ti tocchi un pelo solo della
persona. Hai Filadoro e non dubitare, perché se non lo sai, io
sono fatata e posso quagliare l’acqua e oscurare il sole. Basta
e sufficit! Perciò, stiamo allegri, che il terreno si troverà zap-
pato e seminato questa sera, senza che tu vi abbi messo un
colpo».
«Ma, se tu, come dici, sei fatata, o bellezza del mondo,
perché non sfrattiamo da questo paese? ché io ti vorrò tenere
come regina alla casa di mio padre».
«Un certo imbroglio di stelle impedisce questo giuoco;
ma passerà tra breve l’influsso e saremo felici».
Tra questi e mille altri ragionamenti scorse la giornata; e
venne l’orca dal bosco, e chiamò dalla strada la figlia: «Fila-
doro, cala i capelli!». (La casa era senza scale, ed essa vi sali-
va sempre pei capelli della figlia). E Filadoro, alla voce della
madre, si disfece la pettinatura e calò i capelli, fornendo una
scala d’oro a un cuore di ferro. Quella, subito entrata, corse
all’orto, e, trovandolo lavorato, rimase fuor dei panni per la
meraviglia, sembrandole impossibile che un giovane, uso alle
delicatezze, avesse compiuto quella fatica da cane.
La mattina seguente, uscito il Sole a sciorinarsi per man-
dar fuori l’umido assorbito al fiume dell’India, la vecchia tor-
nò a scendere e andare al bosco, non senza aver detto prima a
Nardaniello che le facesse trovare, alla sera, spaccate a quattro
per pezzo sette canne di legna, che erano accatastate in uno
stanzone: altrimenti, l’avrebbe battuto a modo di lardo e fatto
di lui un piccadiglio1 per la refezione della sera.
Filadoro, che lo vide pallido e smorto all’intimazione di
questo decreto, lo rimproverò: «Pauroso che sei! Benedetto
uomo! Tu ti spaventeresti dell’ombra tua!». «E ti pare cosa da
nulla — rispose Nardaniello — spaccare sette canne di legna,
a quattro per pezzo, di qui a stasera? Oimè, prima mi sarò
spaccato io in due metà, per riempire le fauci della trista vec-
1
Spagn.: «picadillo», carne tagliata in piccoli pezzi e condita con spezie e
uova battute.
177
chia!». «Non dubitare — replicò Filadoro, — ché, senza
prenderti alcuna fatica, le legna si troveranno belle e spaccate.
Ma, per intanto, sta’ di buona voglia, e non spaccarmi l’anima
con tanti lamenti!».
La vecchia, al suo ritorno a casa, nell’ora in cui il Sole
chiude la bottega dei raggi per non vendere luce alle Ombre,
trovò spaccate le legna; ed entrò in sospetto che la figlia non
le desse scacco matto. E il terzo giorno, perché il caso non si
ripetesse, ordinò a Nardaniello che gli avesse ripulito una ci-
sterna piena di mille botti d’acqua, e che tutto fosse a fine per
la sera; altrimenti, di lui avrebbe fatto scapece o mesesca23.
Nardaniello ricominciò il solito lamento, e Filadoro, che
vedeva che le doglie incalzavano e che la vecchia era bestiale
a voler caricare il pover’uomo di guai e guai, uno più grosso
dell’altro, gli disse: «Sta’ zitto, ché è passato il punto che se-
questrava l’arte mia; e noi oggi, prima che il Sole dica: ‘Fo
riverenza1 vogliamo dire a questa casa: ‘Stai bene’. Basta:
questa sera màmmama troverà sgombro il paese, ed io me ne
verrò con te, viva o morta». A questa nuova, il principe, che
era quasi morto, respirò, e abbracciò Filadoro: «Tu sei la tra-
montana di questa travagliata barca, anima mia! Tu sei il pun-
tello delle mie speranze!».
Cosi, verso sera, per un buco che Filadoro aveva fatto
sotto l’orto e che riusciva in un gran condotto, i due fuggirono
trottando verso Napoli. Ma, giunti che furono alla grotta di
Pozzuoli, Nardaniello disse a Filadoro: «Bene mio, non è de-
coroso farti entrare al mio palazzo a piedi e vestita come ti
trovi. Perciò, aspetta in questa osteria, ché io torno presto con
cavalli, carrozze, genti e vestiti, e altri amminnicoli». E Fila-
doro restò ed egli prese la via verso la città.
Intanto l’orca, tornata dalla campagna e non rispondendo
Filadoro alla solita chiamata, entrò in sospetto, e subito corse
al bosco, tagliò una lunga pertica, l’appoggiò alla finestra del-
la casa e, arrampicandosi come gatto, sali. E, cercando dentro
1
«M’arrequaquiglio» letteralmente: «rientro nel nicchio, mi raggomitolo»;
e si usava anche alla fine delle lettere.
178
e fuori, su e giù, e non trovando nessuno, alla fine si avvide
del pertugio e, osservato che andava a sboccare in una piazza,
si strappò le ciocche, bestemmiando la figlia e il principe e
pregando il Cielo che, al primo bacio che il suo innamorato
ricevesse da chiunque, si scordasse di lei. Ma lasciamo la vec-
chia a recitare questi paternostri selvatici e torniamo al princi-
pe.
Quando il principe entrò nel palazzo, dove era tenuto per
morto, tutta la casa andò a rumore e gli corse all’incontro con
gridi: «Alla buon’ora! Sii il ben arrivato! Eccoti a salvamen-
to! Come ci sembri bello in questo paese!»; e mille altre paro-
le amorevoli. Ma, mentre saliva la gradinata per andare
all’appartamento del re, a mezza scala si scontrò con la ma-
dre, che gli gittò le braccia al collo e lo baciò: «Figlio mio,
gioiello mio, pupilla degli occhi miei, e dove sei stato? E co-
me hai tardato tanto, tenendoci tutti in palpito?».
Il principe non sapeva che cosa rispondere, perché a-
vrebbe bensì raccontato le sue disgrazie, ma, non si tosto la
madre l’ebbe baciato con labbra di papavero, che, per effetto
della maledizione dell’orca, gli uscì dalla memoria tutto quan-
to gli era accaduto. E, anzi, aggiungendo la regina che, per
torgli quest’occasione di andare alla caccia e consumare la vi-
ta nei boschi, l’avrebbe ammogliato: «Sia con la buon’ora! —
egli rispose: — eccomi pronto e parato a fare tutto quello che
vuole la mamma e signora mia». «Così fanno i figli benedet-
ti!», concluse, tutta contenta, la regina.
Fu stabilito che fra quattro giorni sarebbe stata condotta
alla casa la sposa, la quale era una signora di alta nobiltà1 che
dalle parti di Fiandra era capitata in quella città; e furono or-
dinate feste e banchetti. Ma, in questo mezzo, Filadoro, ch’era
rimasta all’osteria, vedendo che il marito troppo tardava a tor-
nare e ronzandole non so come all’orecchio la voce di questa
festa che si andava divulgando dappertutto, deliberò di recarsi
a vedere quel che stava accadendo. E, avendo adocchiato i ve-
stiti del garzone dell’oste, che, nel coricarsi la sera, li aveva
1
Testo: «segnora de ciappa» propr. «di fibbia» o «di borchia»; e si dice an-
che «ommo de ciappa», per dire ragguardevole e di alto grado.
179
lasciati a piè del saccone1, li sottrasse, mise in cambio i suoi,
e, travestitasi da uomo, se ne venne alla corte del re.
I cuochi della corte, che in quei giorni avevano un gran
da fare e abbisognavano di aiuti, essendosi loro offerto questo
giovane, lo presero per guattero. E la mattina dopo, quando il
Sole sul banco del cielo mostra i privilegi rilasciatigli dalla
Natura e muniti del suggello della luce, e vende segreti per
schiarire la vista2, giunse la sposa a suono di cennamelle e di
cornette.
Le mense erano apparecchiate, tutti si posero a sedere; e,
mentre fioccavano le più prelibate vivande, lo scalco tagliò
una grossa impanata all’inglese, che Filadoro aveva lavorata
di sua mano; e dall’impanata volò una colomba. Era cosi leg-
giadra, quella colomba, che i convitati, scordandosi di man-
giare, rimasero stupiti ad ammirarne la bellezza. Ma la co-
lomba, con una voce pietosa pietosa, s’indirizzò al principe e
gli disse: «Hai mangiato forse cervello di gatto, o principe,
che ti sei, detto fatto, dimenticato dell’amore di Filadoro? Co-
si ti sono usciti di memoria i servigi che ti ha resi, o scono-
scente? Cosi ripaghi i benefici, o ingrato? l’averti strappato
alle branche dell’orca, l’averti dato la vita e se stessa? E que-
sta la gran mercé, che rendi a quella sfortunata giovane dello
sviscerato amore che t’ha dimostrato? Di’ che si levi e che se
ne vada via; di’ che spolpi l’osso finché verrà l’arrosto! Oh
sventurata quella donna che troppo accoglie parole d’uomini,
che portano sempre con le parole l’ingratitudine, coi benefici
la sconoscenza e coi debiti la dimenticanza! Ecco, la sciagura-
ta s’immaginava di far con te la focaccia nel Donato3, e ora si
vede giocata a sparticiambella4; credeva di fare con te ‘serra
serra’, e ora tu fai ‘salva salva’5; pensava di potere rompere
1
Cioè, del pagliericcio.
2
A mo’ di cerretani e cavadenti, che mostravano, allora, i «privilegi» otte-
nuti, come ora i «certificati».
3
Cioè, nel libro di grammatica di Elio Donato: deve alludere a qualche uso
o scherzo scolaresco.
4
Testo: «a sparte casatello»: pel «casatiello», vedi sopra, p. 54, n. 12.
50
«Serra serra» e «salva salva», gridi di tumulti popolari.
180
un bicchiere con te, e ora ha rotto il pitale!1 Va’, non curarti di
lei, faccia di negadebiti, che ti colgano per diritto le bestem-
mie di tutto cuore che ti manda quella poveretta! Tu ti avve-
drai quel che importa burlare una fanciulla, impastocchiare
una povera innocente, facendole questo bel trucco-mucco2,
portandola ‘folio a tergo’, mentre essa ti portava ‘intus vero’ 3
; mettendola sotto la codola, mentre essa ti metteva sopra il
capo; e, mentre essa ti prestava tanta servitù, tenerla dove si
fanno i serviziali! Ma se il Cielo non s’è messo la benda agli
occhi, se gli dèi non si son posti il tappo alle orecchie, ve-
dranno il torto che le hai fatto, e, quando meno ti credi, ti ver-
rà la vigilia e la festa, il lampo e il tuono, la febbre e la caca-
rella! Basta, attendi a mangiar bene, datti spasso a voglia tua,
sguazza e trionfa con la sposa novella; ché la misera Filadoro,
filando sottile, romperà il filo della vita e ti lascerà campo
franco di goderti la nuova moglie!».
Dette queste parole, si levò a volo fuori della finestra, ché
se la prese il vento.
Il principe, udita questa intemerata colombesca, rimase
interdetto per un pezzo. In ultimo, domandò donde era venuta
l’impanata; e, avendo appreso dallo scalco che l’aveva lavora-
ta uno sguattero di cucina, impegnato per l’occasione, coman-
dò che gli fosse condotto innanzi.
E venne Filadoro, che si gettò ai piedi di Nardaniello e,
versando un torrente di pianto, altro non diceva se non: «Che
t’ho io fatto, cuore di cane? Che t’ho io fatto?». Il principe,
che, per la forza della bellezza di Filadoro e della fatagione da
lei posseduta, venne a rammentarsi dell’ob bligazione stipula-
ta alla curia di Amore, subito la fece alzare e sedere accanto a
sé, raccontando alla madre quanto doveva a questa bella gio-
vane, quanto essa aveva fatto per lui, e la parola che le aveva
data e che bisognava mantenere.
1
Bisticcio fondato su due frasi, delle quali è stato spiegato di sopra il signi-
ficato: v. p. 35, n. 23.
2
«Trucco mucco» colpo dato in modo, nel bigliardo, che la propria palla
resti nel luogo, donde si scaccia quella dell’avversario.
3
Metafore prese dalle formole delle citazioni di libri.
181
La madre, che non aveva altro bene che questo figlio, gli
disse: «Fa’ quello che ti piace, purché ci sia l’onore e il gusto
di questa signorella, che hai presa per moglie». «Non vi date
questa pena — intervenne la sposa — perché io, per dirvi la
cosa come sta, rimaneva di mala voglia in questo paese. Ma,
poiché il Cielo me l’ha mandata buona, con vostra licenza me
ne voglio tornare alla volta della Fiandra mia, a ritrovare gli
avoli dei bicchieri che si usano a Napoli, dove, pensando di
accendere una lampada1, s’era quasi spenta la lucerna della
mia vita».
Il principe, assai lieto, le offri vascello e compagnia. E
fece vestire da principessa Filadoro; e, intanto, levate le men-
se, vennero i buttafuochi e si dié principio al ballo, che durò
fino alla sera. La terra si era coperta a lutto per le esequie del
Sole; e perciò nella gran sala furono accese le torce.
Ed ecco si senti per le scale un gran tintinnio di campa-
nelli; e il principe disse alla madre: «Sarà qualche bella ma-
scherata per onorare questa festa. Affé, che i cavalieri napole-
tani sono assai compiti, e, quando occorre, spendono senza
guardare!». Ma, mentre faceva questo giudizio, comparve in
mezzo alla sala una brutta figura, che non passava tre palmi
d’altezza, ma era grossa piu di una botte; la quale si fermò di-
nanzi al principe e gli disse: «Sappi, Nardaniello, che i capric-
ci e il malo procedere tuo t’hanno ridotto alle tante disgrazie
che hai sofferte. Io sono l’ombra di quella vecchia, alla quale
rompesti la pignatta, che sono morta di fame. Ti mandai la be-
stemmia che fossi incappato nei tormenti di un’orca, e le mie
preghiere furono esaudite. Ma, per virtù di cotesta bella fata,
scampasti da quell’inferno. E avesti un’altra maledizione
dall’orca: che al primo bacio, che ti fosse dato, ti scordassi di
Filadoro: ti baciò tua madre e Filadoro ti usci di mente. Ma,
per quell’arte medesima, ora te la trovi al fianco. Io ora ti tor-
no a maledire che, per memoria del danno che mi facesti, ti
possa trovare sempre dinanzi i fagiuoli che mi gittasti, e si
faccia vero il proverbio: Chi semina fagiuoli, gli nascono cor-
1
Cioè, di bere una bottiglia.
182
na».
Ciò detto, squagliò come argento vivo, ché non se ne vi-
de il fumo.
La fata, che vide il principe impallidire, gli fece animo:
«Non dubitare, marito mio: ‘sciatola e màtola, se è fattura non
vaglia, ché io ti scaccio dal fuoco!’». E, terminato il festino,
andarono a letto; e il principe, per confermare il rogito della
nuova fede promessa, volle che fosse firmato da due testimo-
ni1, e i travagli passati fecero più saporiti i gusti presenti, ve-
dendosi alla coppella dei successi del mondo che
chi incespica e non cade
avanza nel cammino.
1
Doppio senso
183
184
TRATTENIMENTO OTTAVO
LA SCHIAVOTTA
sono accoppiati.
185
una foglia, guadagnerebbe un tanto. E, saltandovi molte di
quelle ragazze a cavalcioni di sopra, tutte vi urtavano e nessu-
no la scavalcava netta. Ma, quando fu la volta di Lilla, che era
la sorella del barone, essa, tolto un po’ di vantaggio, prese tale
rincorsa che saltò di peso di là dalla rosa. Pure una foglia cad-
de, ed essa fu cosi accorta e destra, che, cogliendola di terra,
senza lasciarsi scorgere, la inghiottì e guadagnò la scommes-
sa.
Non passarono tre giorni e Lilla si senti incinta: per la
qual cosa ebbe a morir dal dolore, ben sapendo di non aver
fatto né imbrogli né disonestà e non comprendendo perciò
come le si fosse potuta gonfiare la pancia. Corse, dunque, a
certe fate sue amiche, le quali, udito il caso, le dissero che
stesse tranquilla, perché la causa n’era stata la foglia di rosa,
che aveva ingoiata.
Lilla, saputo ciò, attese a celare quanto più potè la sua
condizione e, giunta l’ora di sgravarsi del peso, partorì in se-
greto una bella bambina, alla quale pose nome Lisa, e la man-
dò alle fate. Tutte esse, allora, le dettero la loro fatagione; ma
l’ultima, accorrendo a vedere questa bambina, si slogò cosi
malamente il piede che, per l’acuto dolore, le gettò la be-
stemmia che, ai sette anni, la madre, nel pettinarla, dimenti-
casse il pettine nei capelli, ficcato nella testa, e di ciò la fan-
ciulla morisse.
Al compiersi dei sette anni, accadde la disgrazia, e la di-
sperata madre dopo fatto un amaro lamento, la chiuse in sette
casse di cristallo, l’una dentro l’altra, e la collocò nella stanza
estrema del palazzo, mettendosi in tasca la chiave. Sennon-
ché, dopo qualche tempo, consumata a morte dal dolore, sen-
tendosi presso alla fine, chiamò il fratello e gli disse: «Fratello
mio, io mi sento a poco a poco tirare dall’uncino della morte.
Ti lascio tutte le carabattole mie, che ne sii signore e padrone;
ma mi devi dar la parola che non aprirai mai l’ultima stanza di
questa casa, serbandone gelosamente la chiave nello scrigno».
Il fratello, che svisceratamente l’amava, gliene fe’ promessa;
e, nello stesso momento, essa soffiò: «Addio, ché le fave sono
186
piene!»1.
In capo ad alcuni anni questo signore, che intanto aveva
preso moglie, fu invitato a una caccia e, nel raccomandare alla
moglie la cura della casa, la pregò soprattutto di non aprire
quella stanza, della quale serbava la chiave nello scrigno. Ma,
non cosi presto ebbe volte le spalle, che quella, tirata dal so-
spetto, sospinta dalla gelosia e scannata dalla curiosità, che è
la prima dote della donna, prese la chiave e andò ad aprirla. E,
vedendo dalle casse di cristallo trasparire la giovinetta, le di-
schiuse a una a una, e trovò che quella pareva che dormisse.
Essa era cresciuta come ogni altra donna, e con lei s’erano in-
grandite le casse, man mano che cresceva.
Al vedere questa bella creatura, la femmina gelosa pensò
subito: «Bravo, per la vita mia! Chiave in cintura e corna in
natura!2 Questa era tutta la diligenza di non lasciar aprire la
camera, per non far vedere il Maometto, che adorava dentro le
casse!»3. E, nel cosi dire, la afferrò pei capelli, traendola fuo-
ri; e, in quello sforzo, il pettine cadde a terra e l’assopita si ri-
senti, strillando: «Mamma, mamma mia!».
«Va’, che ti voglio dare mamma e tata!», esclamò la ba-
ronessa; e, tutta fiele come schiava, rabbiosa come cagna che
ha partorito, velenosa come serpe, le tagliò subito i capelli, le
aggiustò una bastonatura coi fiocchi, le mise un vestito strac-
ciato, e ogni giorno le scaricava bernoccoli alla testa, melen-
zane agli occhi, marchi alla faccia, facendole la bocca come
se avesse mangiato piccioni crudi4.
Quando il marito tornò dalla partita di caccia e vide que-
sta giovinetta cosi maltrattata, domandò chi ella fosse. E la
moglie rispose che era una schiava, mandatale dalla zia,
1
Intende: «è venuto il tempo di coglierle».
2
Testo: «Chiave ncinto e Martino drinto» («martino» il becco): mentre si
crede di
esser sicuri con la chiave in tasca la moglie (o il marito) trova modo di ac-
cogliere l’amante.
3
Il corpo di Maometto, che, secondo una favola che correva per l’Europa,
era
serbato a Medina in una cassa sospesa in aria dalla forza di un magnete.
4
Cioè, tutta lorda di sangue.
187
un’esca di bastonate, e che bisognava sempre castigarla.
Ora una volta che il signore ebbe occasione di andare a
una fiera, domandò a tutti di casa, persino ai gatti, che cosa
desideravano che comprasse per loro. E, quando ognuno ave-
va chiesto chi una cosa chi un’altra, in ultimo si volse alla
schiavotta. Ma la moglie montò sulle furie e fece cose non da
cristiana: «Metti pure su, al paro degli altri, questa schiava
musuta1 e riduciamo tutti allo stesso livello, pisciamo tutti
all’orinale! 2 Lasciala stare alla malora, e non diamo tanta pre-
sunzione a una brutta cagna!». Ma il signore, che era cortese,
volle, per ogni costo, che anche la schiavotta chiedesse qual-
che cosa. Ed essa gli disse: «Io non voglio altro che una bam-
bola, un coltello e una pietra pomice; e, se tu te ne dimentichi,
non possa mai passare il primo fiume che trovi per la strada!».
Il barone comprò tutte le altre cose, e si scordò appunto
di quelle che gli aveva chieste la nipote: e, quando fu a passa-
re un fiume, che portava pietre e alberi alla marina per gettar
fondamenta di paure e alzar mura di stupore, non gli fu possi-
bile guadarlo. Gli sovvenne allora della bestemmia gittatagli
dalla schiavotta, e tornò indietro e comprò puntualmente Ì tre
oggetti, e, al ritorno a casa, distribuì a ciascuno quello che gli
aveva chiesto.
Avute le sue cosette, Lisa se n’entrò in cucina, e, postasi
dinanzi la bambola, cominciò a piangere e lamentarsi, raccon-
tando a quell’involto di stracci tutta la storia dei suoi travagli,
come se parlasse a persona viva. E, poiché quella non le ri-
spondeva, prendeva il coltello, e, affilandolo con la pietra
pomice, diceva: «Bada, che, se non mi rispondi, t’infilo, e fi-
niamo la festa!». E la bambola, gonfiandosi a mo’ di sampo-
gna quando le si dà fiato, in ultimo rispondeva: «Sì, che t’ho
intesa più d’un sordo!».
Durava questa musica da un paio di giorni, quando il ba-
rone, che aveva una sua stanzetta a muro con la cucina, sentì
una volta questo repetìo; e, messo l’occhio al buco della serra-
tura, vide Lisa che raccontava alla bambola il salto della
1
Dalle grosse labbra.
2
Ricordo del tempo in cui l’uso di quell’arnese si considerava raffinatezza.
188
mamma sulla rosa, la foglia inghiottita, il parto, la fatagione,
la bestemmia dell’ultima fata, il pettine rimasto nella capiglia-
tura, la morte, la chiusura nelle sette casse, il collocamento
nella camera, la morte della mamma, la chiave affidata al fra-
tello, la partenza per la caccia, la gelosia della moglie,
l’entrata nella stanza contro l’ordine del marito, il taglio dei
capelli, il trattamento da schiava, con tanti e tanti strazi che le
aveva inflitti. E, così dicendo e piangendo, diceva: «Rispon-
dimi, bambola; se no, mi uccido con questo coltello!». E, affi-
landolo con la pietra pomice, si voleva trapassare; quando il
barone, spalancata con un calcio la porta, le tolse il coltello di
mano.
Fattosi meglio raccontare la storia, egli abbracciò la nipo-
te e la portò via dalla casa, affidandola a una sua parente, a ri-
farsi un po’, che era diventata magra e smunta per effetto dei
mali trattamenti di quel cuore di Medea. E, dopo alcuni mesi,
che era venuta bella come una dea, la richiamò a casa, dicen-
do a tutti che era una sua nipote. E, ordinato un gran banchet-
to, al levar delle mense, volle che Lisa raccontasse la storia
degli affanni durati e della crudeltà della moglie, cose che fe-
cero lacrimare i convitati; e allora egli scacciò la moglie, rin-
viandola ai parenti, e dette alla nipote un bel marito, secondo
il suo cuore. E Lisa toccò con mano
che, quando l’uomo meno se ’aspetta,
sopra gli piove le sue grazie il Cielo.
189
190
TRATTENIMENTO NONO
IL CATENACCIO
192
palazzo.
E rimase tranquilla per altri mesi, finché le venne di nuo-
vo quell’uzzolo, e, con lo stesso donativo e con le stesse rac-
comandazioni, fu rimandata a visitare la madre.
Ciò si ripeté tre o quattro volte, sempre più gonfiando
con nuove sciroccate d’invidia l’ernia delle sorelle; le quali,
brutte arpie, tanto andarono frugando e domandando che, per
mezzo di un’orca, seppero tutto il fatto come andava. E,
quando Luciella tornò per la solita visita, le dissero: «Sebbene
non hai voluto metterci a parte di nulla intorno ai piaceri tuoi,
sappi che sappiamo ogni cosa, e che ogni notte ti si dà l’oppio
e tu non puoi accorgerti che dorme con te un giovane bellis-
simo. Ma tu starai sempre con questa allegrezza a ufo, se non
ti risolvi a seguire il consiglio di chi ti vuol bene. Infine, sei
sangue nostro e desideriamo l’utile e il piacere tuo. Perciò,
quando la sera vai a coricarti, e viene lo schiavo che ti porta la
bevanda del dopopranzo \ tu, dicendo che ti dia un tovagliuolo
per forbirti la bocca, getta destramente il vino dal bicchiere; e
cosi resterai sveglia nella notte. E, quando sentirai addormen-
tato tuo marito, apri questo catenaccio, che ti diamo, e, a di-
spetto suo, converrà che l’incanto si disfaccia e tu diventerai
la più felice donna del mondo».
La povera Luciella, che non sapeva che sotto questa sella
di velluto c’era il guidalesco, tra questi fiori la serpe e nel ba-
cile d’oro il veleno, credette alle parole delle sorelle; e, torna-
ta alla grotta, esegui punto per punto quello che le avevano
consigliato quelle malvage. E, quando tutte le cose stavano
zitte e mute, accese col focile una candela, e si vide accanto
un fiore di bellezza, un giovane tutto gigli e rose.
Alla vista di cosi bella persona, essa disse tra sé: «Affé,
che non mi scappi più dalle mani!». E, preso il catenaccio, lo
apri. E le passò dinanzi agli occhi una frotta di donne, che
portavano sul capo una bella quantità di filato; e a una di esse
ne cascava una matassa; e allora Luciella, che era assai tenera
e compassionevole, non ricordandosi del luogo dove stava,
levò la voce: «Raccatta, madama, il filato!».
A questo grido il giovane si svegliò, ed ebbe tanta contra-
193
rietà di essere stato scoperto da Luciella, che, in quell’istante
stesso, chiamato lo schiavo, le fece rinfagottare addosso gli
stracci di prima e la rimandò. E malamente la poveretta fu ac-
colta dalle sorelle, perché, tornata a casa col colore di chi esce
da uno spedale, da quelle, con tristi parole e peggiori fatti, fu
scacciata.
Fu costretta perciò ad andare pel mondo limosinando,
finché, dopo mille stenti, la sventurata, che era incinta, arrivò
alla città di Torrelunga. Colà, recatasi al palazzo reale, chiese
un luogo con un po’ di paglia per riposarsi; e una damigella di
corte, ch’era di buon cuore, la raccolse. E, venuta l’ora di
sgravarsi del suo peso partorì un bambino così bello, che pa-
reva un ramoscello d’oro.
La prima notte dopo il parto, mentre tutti dormivano, en-
trò un bel giovane in quella stanza, dicendo:
O figlio bello mio,
se sapesse mamma mia!
Ti laverebbe in conca d’oro,
ti fascerebbe in fascia d’oro.
Se del gallo tacesse il canto,
starei sempre a te daccanto!
E, al primo canto del gallo, dileguò come argento vivo.
La damigella si avvide di ciò, e notò che ogni notte veni-
va lo stesso giovane a ripetere la stessa canzone; onde ne vol-
le informare la regina. La quale, tosto che il Sole come medi-
co ebbe congedato dall’ospedale del Cielo tutte le stelle, gittò
un bando severissimo che si ammazzassero tutti i galli di
quella città, rendendo, in un sol tratto, vedove sconsolate tutte
le galline. E quando, alla sera, quel giovane tornò, la regina,
che stava in agguato e non badava a nettare lenticchie, rico-
nobbe ch’era suo figlio e l’abbracciò stretto. E poiché la ma-
ledizione datagli da un’orca era che sempre andasse errando,
lontano da casa sua, finché la mamma non l’avesse abbraccia-
to e il gallo non avesse più cantato, subito che si trovò tra le
braccia materne si disfece l’incanto e quel triste influsso ebbe
fine.
Cosi la madre si trovò di aver acquistato un nipote,
194
ch’era una gioia; Luciella, un marito che era un fato; e le so-
relle, a cui pervenne notizia delle grandezze sue, si presenta-
rono con una faccia di piperno a farle visita. Ma loro fu resa
focaccia per pane, ebbero pagamento della stessa moneta, e
conobbero con grande loro rabbia
che frutto dell’invidia è l’anticuore1.
1
Propriamente: mal di stomaco, accompagnato da nausea e sfinimento.
195
196
TRATTENIMENTO DECIMO
IL COMPARE
1
Modi burleschi di significare abbondanza di beni.
197
praggiungesse, per sua disgrazia, un canchero di compare, che
non lo lasciava mai di piede, e, come se avesse l’orologio in
corpo e l’ampolletta1 nei denti, si presentava sempre al mo-
mento del masticatorio, per accompagnarsi coi due coniugi. E,
con una fronte dura da pestello, si appiccicava di tal maniera
ai panni che non l’avresti potuto staccare a forza di piccone. E
tanto contava loro i bocconi che mettevano in bocca, e tanti
mottetti gettava e tante aste scagliava, finché gli era detto: «Se
ti piacesse!». Allora, senza farsi troppo pregare, cacciandosi
in mezzo tra il marito e la moglie, abbramato, affamato, am-
molato come un rasoio, aizzato come un cane da presa, col
mal della lupa in corpo, con una corsa che volava: «Donde
viene? dal mulino!»2, menava le mani come suonatore di pif-
fero, torceva gli occhi come gatto selvatico e operava coi den-
ti come con la pietra da macinare; e, trangugiando senza ma-
sticare, e l’un boccone non aspettando l’altro, quando s’era
ben piene le mascelle, caricato lo stomaco e fatta la pancia
come un tamburo, quando aveva vista la patina delle scodelle
e spazzato il paese, si alzava e senza dire: «Statevi bene», dato
di mano a un orcio di vino, e soffiatolo, tracannatolo, vuotato-
lo, scolatolo e rasciugatolo tutto d’un fiato, prendeva la strada
per le faccende sue, lasciando Cola Iacovo e Masella con un
palmo di naso!
Essi, vedendo la poca discrezione del compare, che, co-
me sacco scucito, ingurgitava, trangugiava, pappava, dipana-
va, pettinava, scuffiava, ciancolava, divorava, diluviava, pi-
luccava, sgranocchiava, maciullava, imbudellava, grufava,
sgombrava e sfrattava tutto quanto si trovava sulla tavola, non
sapevano che cosa fare per staccarsi dalla pelle questa mignat-
ta, questa pittima cordiale, questo imbrattamento di brache,
questa cura d’agosto3, questa mosca fastidiosa, questa zecca
cavallina, questa legaccia dolorosa, questo soprosso, questa
pigione, questo censo perpetuo, questo polpo, questa finestra
1
Clessidra, orologio a polvere.
2
Lo stesso detto proverbiale è nella prima egloga delle Muse napolitane.
3
Male che viene ai cavalli, e, per traslato, «molestia».
198
di suggezione1, questo peso, questo mal di capo. E sospirava-
no l’ora in cui potessero, una volta tanto, mangiare da soli,
senza tale aiuto di costa, senza tanta grascia divoratrice2.
Una mattina, che avevano saputo che il compare era an-
dato per assistenza di un commissario fuori della terra, Cola
Iacovo disse alla moglie: «Oh che sia lodato il sole leone, che
una volta, a capo di cento anni, ci tocca di menare le mascelle,
di dare il portante alle ganasce e di mettere sotto il naso senza
quel rompimento! Perciò, giacché la corte mi vuol rovinare,
rovinare mi voglio!3 Da questo mondo di feccia tanto hai
quanto ne strappi coi denti! Presto, accendi il fuoco, che, ora
che c’è concessa mazza franca4 di fare una bella mangiata,
vogliamo cavarci il gusto di qualche cosetta saporita e di
qualche boccone ghiotto». E corse in piazza a comperare una
grossa anguilla, un rotolo di fior di farina e un fiasco di man-
giaguerra; e, al ritorno, mentre la moglie, tutta in faccende,
preparava una bella schiacciata, egli provvide a friggere
l’anguilla.
Quando ogni cosa fu in ordine, sedettero a tavola; ma
non s'erano ancora accomodati sulle sedie, che ecco quello
sanguisuga del compare picchiare alla porta. Affacciatasi Ma-
sella, e visto il guastafeste dei loro gusti, si rivolse al marito:
«Cola Iacovo mio, non si potè mai avere un rotolo di carne
dalla beccheria degli umani piaceri senza la giunta dell’osso
del dispiacere; non mai si dormi nelle lenzuola bianche della
soddisfazione senza qualche cimice di travaglio; non si fece
mai bucato di gioia senza che non sopravvenisse qualche
pioggia di contrarietà. Eccoci interrotto questo mangiare di-
sgraziato, ecco che ci rimane in bocca questo boccone ama-
1
Testo: «sasina»: spiraglio o feritoia, che, guardando nella sottoposta casa
d’altri, è causa di suggezione.
2
Letteralmente: «senza questa grascia di sughero», che e, come dire: «gra-
scia di magro».
3
Allusione ai baroni, che, andati o chiamati dalle loro terre alla corte del
principe, si davano a grandi spese di lusso e sfoggio, e si dissestavano; che
era allora caso frequente e lamentato nel baronaggio napoletano.
" Allusione al giuoco detto «mazza e piuzo», nel quale la sospensione del
giocare si chiede con le parole: «mazza franca».
199
ro!». Subito Cola Iacovo rispose: «Chiudi queste cose che so-
no in tavola, falle squagliare e sparire, ficcale dove non si ve-
dano; e poi apri la porta, ché, trovando saccheggiato il villag-
gio, forse avrà la discrezione di andarsene via presto, e ci la-
scerà in pace a trangugiare questo po’ di veleno!».
Masella, mentre il compare suonava ad armi e scampa-
nava a gloria, cacciò l’anguilla dentro un riposto, il fiasco sot-
to il letto e la schiacciata tra le materasse. E Cola Iacovo si
nascose sotto la tavola, mirando per un buco del tappeto che
penzolava fino a terra. Il compare, attraverso la serratura della
porta, vide tutto quest’armeggio; e, quando alfine gli fu aper-
to, entrò nella stanza con una faccia d’occasione, tutto sbalor-
dito e sbigottito. E, avendogli Masella domandato che cosa gli
fosse accaduto, rispose: «Mentre mi hai fatto stentare con tan-
ti spasimi e ponzamenti fuori della porta, aspettando il ritorno
del corvo che ti movessi ad aprirmi, mi è venuta tra i piedi
una serpe; oh! mamma mia, che cosa smisurata e brutta! Fa’
conto che era quanto l’anguilla che hai chiusa nell’armadio.
Io, che mi vidi a mal partito, tremando come giunco, avendo
le viscere in subbuglio per l’orrore, la verminara per la paura,
il tremolio per lo schianto, raccatto una pietra da terra, grossa
quanto il fiasco che è sotto il letto, e tuffete! gliela scaglio sul-
la testa e ne faccio una schiacciata, come quella che è tra le
materasse. E, mentre moriva e sobbalzava, vedevo che mi
guardava, come fa il compare di sotto alla tavola. Non m’è re-
stata una goccia di sangue in corpo, tanto sono sbattuto e at-
territo!».
A queste parole, Cola Iacovo, che non poteva in niun
modo inghiottirle, non stette più saldo, e, cacciata la testa fuo-
ri del tappeto, come Trastullo1 che si affaccia alla scena prese
a dire: «Se è cosi, è pasticcio! Ora si, che abbiamo pieno il fu-
so, ve’! Ora si, che abbiamo fatto il pane, ve’! Ora si che ab-
biamo vinto la lite, ve’! Se ti dobbiamo qualcosa, accusaci al-
la Bagliva; se ti abbiamo fatto dispiacere, muovici una querela
alla Zecca; se ti senti offeso, legami a corto 2; se hai qualche
1
Vedi Note e illustrazioni.
2
Come si fa con un animale, al quale si vuole impedire di avventarsi.
200
capriccio, usa una cura con l’imbutino1; se pretendi qualcosa,
perseguitaci con una coda di volpe2; o schiaffaci il naso a Na-
poli! Che termini, che modo di procedere è il tuo? Pare che sii
soldato a discrezione3 e che ti serva della roba nostra senza
complimenti! Ti doveva bastare il dito e non prenderti tutta la
mano; che, ormai, ci vuoi scacciar da questa casa con le tante
vessazioni che ci fai! Per chi ha poca discrezione, tutto il
mondo è suo; ma chi non si misura è poi misurato, e, se tu non
hai mezzacanna, noi abbiamo aspi e matterelli. In fine, sai che
si dice: a buona fronte, buon prestatoio. Perciò ogni riccio al
suo pagliariccio, e lasciaci ai malanni nostri. Se credi d’oggi
innanzi di continuare questa musica, ci perdi le pedate, e non
ne fai niente; ci perdi gli apparecchi, perché niente ti riesce
più a segno. Se t’immagini di coricarti sempre su questo letto
morbido, hai buon tempo, va’ che l’hai! Marzo te ne ha priva-
to4, e puoi masticare lo steccadenti! Se pensi che questa sia
taverna aperta alla tua gola fracida, te ne avvedrai: corri e infi-
la5. Scordatene, levatelo dalla testa, è opera persa, è casa di
vento; e per te non c’è più né esca né taglio! Avevi sbirciato i
faciloni e i piccioni; avevi adocchiato i pupilli; avevi scanda-
gliato gli asini; avevi trovato la cuccagna! Ora tornatene, ché
non ti viene più fatto, e a questa casa puoi mettere nome pen-
na, ché non attingi più acqua con la secchia mia; e, se sei uno
spiapranzi, un divorapani, uno sparecchiatavole, uno spazza-
cucine, un leccapignatte, un nettascodelle, una golaccia, un
condotto di chiavica, se hai la divoraggine, la lupa, il diluvio e
lo sfondolamento nelle budella, che faresti sparire un asino e
divoreresti una nave, che ti cacceresti in bocca l’orso del prin-
cipe6, ti scialacqueresti il Sangradale1, e non ti basterebbero il
1
Cioè, col clistere.
2
Come fanno i ragazzi, perseguitando un gatto o altro animale per la casa,
con quell’arnese che serve per togliere la polvere.
5
Allude alle vessazioni che facevano i soldati nel prendere gli alloggia-
menti nelle case dei privati.
4
Anche questa frase si riferisce ai danni del mese di marzo.
5
Allusione al giuoco dell’anello (o della «sortija», come dicevano gli spa-
gnuoli), che consisteva nell’infilzare un anello, correndo.
6
L’«orso del principe» è ricordato anche in Giornata III, 7.
201
Tevere e l’Arno, e ti mangeresti le brache di Mariaccio2, va’
per altre chiese, va’ a tirare la sciabica, va’ raccogliendo cenci
tra le spazzature, va’ cercando chiodi nella lava, va’ buscando
cera nelle esequie3, va’ sturando condotti di latrine per empire
questo gorgozzule! e questa casa ti sembri fuoco; ché ciascu-
no ha i guai suoi, ciascuno sa quel che nasconde sotto i panni,
ciascuno sa che cosa gli pesa sullo stomaco, e non abbiamo
bisogno di coteste ditte rovinate, di cotesti clienti falliti e di
coteste lance spezzate! Chi si può salvare, si salvi: e conviene
che tu ti spoppi da questa mammelletta! Uccello perdigiorno,
disutile, poltrone, lavora, lavora! Méttiti all’arte, trovati un
padrone!».
Lo sciagurato compare, sentendosi fare questo discorso
fuor dei denti, questa crepata di postema, questa cardata senza
pettine, tutto freddo e gelato, come ladro còlto in flagrante,
come pellegrino che ha sperduto la strada, come marinaio che
ha rotto la barca, come meretrice che ha perso i clienti, come
bambino che ha sporcato il letto, con la lingua tra i denti, la
testa bassa, la barba confitta al petto, gli occhi in lacrime, il
naso muffito, i denti gelati, le mani vuote, il cuore assottiglia-
to, la coda tra le gambe, mogio mogio, quatto quatto, adagio
adagio, zitto e muto, spulezzò, senza volger mai il capo indie-
tro, venendogli a sesto quella onorata sentenza:
Cane, che a nozze va non invitato,
s’aspetti di tornarne bastonato.
2>
Che è né più né meno che il «Saint-Graal» del Perceval e di altri ro-
manzi del ciclo brettone: cioè, la preziosissima coppa, nella quale Giusep-
pe d’Arimatea aveva raccolto il sangue di Cristo. Già il BURCHIELLO:
«Ma non mi curo, si sono avviato, Che s’io avessi in mano il Sangradale,
In picciol’ora si saria fondato» (Sonetti, ediz. con la data di Londra, 1757,
p. 115).
2
Modo di dire proverbiale, del quale non mi sovviene ora altro esempio.
3
A coloro che si prestavano ad accompagnare coi ceri le esequie, si rila-
sciava quel che avanzava dei ceri, finita la cerimonia.
202
.
GIORNATA TERZA
Trattenimento primo
CANNETELLA
1
Bisticcio lubrico.
2 Veramente il nome di Cannetella esisteva nel dialetto napoletano, come
diminutivo di «Cànneta», ossia «Candida».
203
resti. Quale sorta d’uomo tiandrebbe a genio? Lo vuoi lette-
rato o spadaccino? garzoncello o attempato? brunetto o bianco
e rosso? lungo della persona o bassottino?1 stretto nei fianchi
o tondo come un bue? Tu scegli ed io metto la firma».
Cannetella, che senti queste larghe offerte, ringraziò il
padre e gli dichiarò dapprima che essa aveva consacrato la sua
verginità a Diana, né voleva per niun conto andarsi a perdere
con un marito. Per altro, alle preghiere insistenti del re, fini
col rispondere: «Per non mostrarmi sconoscente a tanto amo-
re, mi contento di fare la volontà vostra; ma a patto che mi sia
dato un uomo tale che non vi sia l’altro al mondo».
Lieto di questa risposta, il padre si pose dalla mattina alla
sera alla finestra, squadrando, misurando e scandagliando tutti
quelli che passavano per la piazza dinanzi al palazzo reale.
Passò, finalmente, un uomo di assai buon garbo, ed egli disse
alla figlia: «Corri, affacciati, Cannetella; e vedi se costui è a
misura delle voglie tue». Ed essa lo fece venir su, e gli offer-
sero un bellissimo banchetto, dove c’era quanto si possa mai
desiderare. Senonché, nel mangiare, cadde dalla bocca al fi-
danzato una mandorla; ed egli, chinatosi, la ripigliò destra-
mente e la pose sotto la tovaglia, e, finito il desinare, se ne
andò. Il re disse a Cannetella: «Come ti piace il fidanzato, vita
mia?». Ed essa: «Toglimelo dinanzi cotesto goffo 2, perché un
uomo grande e grosso come lui non doveva lasciarsi sdruccio-
lare una mandorla dalla bocca».
Il re, udito questo, andò ad affacciarsi un’altra volta; e,
passando un altro giovane di buon taglio, chiamò la figlia per
sapere se trovasse grazia presso di lei. Come la prima volta,
Cannetella volle che salisse, e gli fu dato un banchetto; e,
quando si fini di mangiare e quello si accommiatò, il re chiese
alla figlia come gli piacesse. «Che ne voglio fare — essa ri-
spose — di quello sgraziato? che doveva condurre con sé per
lo meno due servitori, che gli levassero dalle spalle il ferra-
iuolo».
«Se è cosi — disse il re, — è pasticcio: coteste sono scu-
1
Testo: «lungo ciavane o streppone de féscena».
’ Testo: «sto grisolaffio».
204
se da cattivo pagatore, e tu vai cercando peli per non darmi il
gusto che ti chiedo. Risolviti, perché io ti voglio maritare, e
trovare radice valida a far germogliare la successione della
mia casa».
A queste parole stizzose, Cannetella parlò aperto: «Per
dirvela, tata e signore, chiaro e come la sento, voi vangate nel
mare e fate male il conto con le dita, perché io non mi assog-
getterò ad uomo vivente, se non sarà tale che abbia il capo e i
denti d’oro». E il travagliato re, sentendo che quella testa era
dura, fece gettare un bando che chi nei suoi domini si trovasse
conforme al desiderio della figliuola, si facesse avanti perché
gliela darebbe in moglie insieme col regno.
Aveva questo re un gran nemico, chiamato Fioravante,
tanto da lui aborrito che non poteva vederlo neppur dipinto su
un muro; il quale, udito il bando, poiché era un bravo necro-
mante, chiamò una frotta di quelli che lontani siano, e coman-
dò che gli facessero subito la testa e i denti d’oro. Risposero
quelli che solo grandemente sforzati gli avrebbero reso questo
servigio, per essere cosa assai strana nel mondo, laddove piut-
tosto gli avrebbero fornito le corna d’oro, come più usitate al
tempo d’oggi. Ma egli li costrinse con scongiuri e incanta-
menti, e, infine, ne venne soddisfatto; e, quando si vide testa e
denti di ventiquattro carati, andò a spasseggiare sotto le fine-
stre del re.
Il re, a cui venne sott’occhio proprio quello che cercava,
chiamò la figlia, la quale, guardando, subito disse: «Questo è
quello: non potrebbe essere migliore, se lo avessi impastato
con le mani mie stesse». E, quando Fioravante stava per le-
varsi e andar via, il re gli disse: «Aspetta un po’, fratello: co-
me sei caldo di reni! Sembra che stii col pegno presso il giu-
deo, e che abbi l’argento vivo dietro e il pungolo sotto la co-
dola. Piano, ché ora ti do bagagli e gente per accompagnare te
e mia figlia, che voglio che ti sia moglie».
«Vi ringrazio — rispose Fioravante: — non ce n’è biso-
gno. Basta solo un cavallo, perché me la metto in groppa e me
la porto a casa mia, dove non mancano servitori e mobili
quanti l’arena».
205
Contrastarono per un pezzo, ma, in fine, Fioravante la
vinse, e, alzatala sul cavallo, parti.
Alla sera, quando dal mulino del cielo si distaccano i ca-
valli rossi e vi si mettono i bovi bianchi, giunsero a una stalla,
dove alcuni cavalli stavano alla mangiatoia. Lo sposo vi fece
entrare Cannetella e le disse: «Bada bene! debbo fare una cor-
sa fino alla mia casa, che ci vogliono sette anni per giungervi.
Aspettami in questa stalla, e non venirne fuori, non lasciarti
vedere da alcuno; perché, altrimenti, farò che te ne ricordi fi-
no a quando sarai viva e verde». Cannetella rispose: «Io ti son
soggetta ed eseguirò il tuo comando in ogni puntino; ma vor-
rei sapere che cosa mi lasci per mantenermi in vita durante
questo tempo». Replicò Fioravante: «Quel che rimane di bia-
da a questi cavalli, basterà per te».
Considera ora che cuore fece la misera Cannetella, e se
bestemmiò l’ora e il punto che aveva impegnato la volontà
sua! Rimase fredda e gelata, e tanto largo pasto fece di lacri-
me quanto scarso di cibo, maledicendo la sorte e accusando le
stelle di averla ridotta dal palazzo reale alla stalla, dai profumi
al puzzo del letame, dalle materasse di lana barbaresca alla
paglia, e dai buoni bocconi saporiti agli avanzi dei cavalli.
Passarono tuttavia un paio di mesi di questa vita stentata, in
cui ogni giorno si versava biada ai cavalli e non si vedeva da
chi, ed essa, coi rilievi di quella mensa, sostentava il corpo
suo.
In capo a quel tempo, affacciandosi a un pertugio, ammi-
rò un giardino bellissimo, dov’erano tante spalliere di cedran-
goli, tante grotte di cedri, tanti quadri di fiori e tanti alberi da
frutta e pergole d’uva, che formavano una gioia agli occhi. E
a lei venne voglia di un grappolo d’uva anzolia, che aveva a-
docchiato, e disse tra sé: «Voglio uscire piano piano a strap-
parlo, e avvenga quel che voglia, e caschi il cielo! Che può
accadere mai, di qua a cento anni? Chi glielo vuol dire, a mio
marito? E, se anche lo venisse a sapere per disgrazia,
che cosa mi può fare, infine? Questa è uva anzolia, e non uva
cornicella!». Cosi usci dalla stalla, e si ricreò lo spirito, assot-
tigliato dalla fame.
206
Di li a poco, prima del tempo stabilito, tornò il marito; e
un cavallo, di quelli che erano nella stalla, accusò Cannetella
di aver preso l’uva. Fioravante, sdegnato, cavò di tra i calzoni
un coltello e voleva ucciderla. Ma essa si gettò a terra in gi-
nocchi, e lo pregò di arrestare la mano, perché la fame caccia
il lupo dal bosco; e tante cose aggiunse che Fioravante si pla-
cò. «Per questa volta — le disse, — ti perdono, e ti concedo la
vita per limosina; ma, se un’altra volta il diavolo ti tenta, e io
vengo a sapere che tu ti lasci vedere al sole, ti taglierò a mi-
nuzzoli. Dunque, sta’ in cervello, ché vado fuori un’altra vol-
ta, e veramente vi resterò sette anni; e solca diritto, ché non te
la caveresti franca, ed io ti farei scontare il nuovo e il vec-
chio».
Riparti, e Cannetella versò una fontana di lacrime, e, bat-
tendo le mani e percotendosi il petto e strappandosi i capelli,
si lamentava: «Oh che non fossi stata mai generata al mondo,
giacché mi doveva toccare questa sorte acerba! Oh, padre mi-
o, come mi hai affogata! Ma perché mi dolgo di mio padre, se
io stessa mi son fatta il danno, io stessa mi sono fabbricata la
mia sventura? Ho desiderato la testa d’oro per cader di piom-
bo e morir di ferro. Oh, come mi sta bene che, per aver voluto
d’oro i denti, fo adesso il dente d’oro! E castigo del Cielo: io
doveva ubbidire alla volontà di mio padre, e non aver tanti
ruzzi e capricci. Chi non ascolta madre e padre, fa la via che
non sa». Non c’era giorno che non ripetesse questo lamento,
sicché gli. occhi suoi erano diventati due fontane e la faccia
cascante e gialliccia, che moveva a pietà. Dove erano più
quegli sguardi saettanti? dove quelle mele vermiglione? dove
il risolino di quella bocca? Neppur il padre l’avrebbe più rico-
nosciuta.
Ora, a capo d’un anno, per caso, passò dinanzi alla stalla
il votacessi di corte, che Cannetella conobbe e chiamò, ve-
nendo fuori. Colui, che s’udi chiamare per nome, non ravvi-
sando la povera giovane, tanto era mutata, ebbe a stupire. Ma,
quando seppe chi essa era, e per qual modo si trovasse cosi
cangiata dalPesser suo, in parte per pietà, in parte per guada-
gnarsi la grazia del re, la mise in una botte vuota che portava
207
con sé, sopra una soma, e trottò alla volta di Bellopoggio.
Arrivarono al palazzo del re verso le quattro di notte, e,
avendo picchiato alla porta, i servitori si affacciarono, e,
quando sentirono che era il votacessi, gli scaricarono una
doppia soma d’improperi, chiamandolo animale senza discre-
zione, che veniva a quell’ora a disturbare il sonno a tutti, e
che se la cavava a buon mercato se non gli facevano piombare
qualche sasso o macigno sulla zucca. Ma il re, destatosi al
rumore, e avendogli un cameriere detto chi era che bussava,
ordinò di farlo subito entrare, considerando che, se a un’ora
cosi insolita si era presa la confidenza di recarsi a palazzo,
qualche gran cosa doveva essere accaduta.
Alla presenza del re, il votacessi, scaricata la soma, apri
la botte, dalla quale usci Cannetella, che ci volle altro che pa-
role per farsi riconoscere dal padre; e, se non fosse stato per
una verruca che essa aveva al braccio destro, poteva tornarse-
ne indietro. Ma, poiché si fu accertato del fatto, il re
l’abbracciò e la baciò mille volte; e le fece preparare subito
una lavanda calda, e, quando si fu ripulita e rassettata, le dié
da colazione, ché essa veniva meno dalla fame. «Chi me
l’avesse detto, figlia mia — andava esclamando il padre, — di
rivederti in questo stato! E che faccia è questa? Chi t’ha ridot-
ta in questi mali termini?».
La figlia gli rispose: «Cosi sta la cosa, signore mio bello!
Quel turco di Barberia m’ha fatto patire strazi da cane, e mi
son visto ognora lo spirito ai denti. Ma non vo’ dirti quello
che ho sofferto, perché è cosa che, quanto supera il sopporta-
mento umano, altrettanto passa la credenza degli uomini. Ba-
sta, ora son qui, padre mio; e non voglio più partire dai piedi
tuoi: voglio piuttosto esser serva alla casa tua che regina in
casa d’altri; piuttosto strofinaccio dove tu stai, che manto
d’oro, lontana da te; voglio piuttosto girare uno spiedo alla tua
cucina, che tenere uno scettro sotto il baldacchino altrui».
In questo mezzo, Fioravante tornò dal suo viaggio, e i
cavalli gli riferirono che il votacessi aveva trafugato Cannetel-
la in una botte. Ed esso, subito, tutto scornato per la vergogna,
tutto acceso di sdegno, corse difilato a Bellopoggio, e, trovata
208
una vecchia che abitava di fronte al palazzo reale, le disse:
«Chiedimi la somma che vuoi, madama mia, e lasciami vede-
re la figlia del re». Quella gli chiese cento ducati; e Fioravan-
te, messa mano alla cintura, glieli contò subito l’un sull’altro.
La vecchia lo fece salire sul battuto della sua casa, dal quale
vide Cannetella in una terrazza che s’asciugava i capelli.
Cannetella, come se il cuore le avesse parlato, si girò nel
punto stesso dall’altra parte, e, avvedutasi dell’agguato, si
precipitò per le scale al padre, gridando: «Signore mio, se non
mi fate, in questo momento stesso, una camera con sette porte
di ferro, io sono andata». «Per cosi poco ti vorrò perdere —
disse il re. — Si spenda un occhio e si dia soddisfazione a
questa bella figlia mia!».
E subito — una toccata, una giocata, — furono fabbricate
le porte. Fioravante, saputo ciò, tornò alla vecchia, e le disse:
«Che cos’altro vuoi da me? Ti darò quel che chiedi. Ma va’
alla casa del re col pretesto di vendere qualche scodellino di
rossetto; e, entrando nella camera della figlia, mettile questa
cartina tra le materasse, pronunziando, nel metterela, le paro-
le: — Tutta la gente resti addormentata, e Cannetella sola stia
svegliata». La vecchia, per altri cento ducati, lo servi con ogni
zelo. O misero chi lascia praticare in casa sua coteste brutte
streghe, che, sotto specie di portar conci1, ti conciano in cor-
dovano l’onore e la vita!
Eseguito che ebbe la vecchia il suo buon ufficio, cascò
tale sonno straordinariamente pesante su quelli della casa, che
tutti dormivano come se fossero scannati; e solo Cannetella
rimase con gli occhi aperti. Sentendo, dunque, scassinare le
porte di casa, si die a gridare come bruciata dal fuoco; ma non
era chi accorresse alle sue strida, di guisa che Fioravante potè
gettare a terra tutte e sette le porte, e, saltato in camera, affer-
rare Cannetella, involta nelle materasse, per portarsela via. Ma
volle la sorte sua che, in quell’atto, scivolasse a terra la cartel-
lina messa dalla vecchia, e, sparsa la polvere che conteneva,
l’intera famiglia si risvegliò, e, udendo gli strilli di Cannetella,
1
Belletti
209
corsero tutti, perfino i cani e i gatti della casa, e si scagliarono
addosso al necromante e ne fecero macello. Cosi colui restò
preso alla medesima tagliuola, che aveva preparata per la
sventurata Cannetella, provando con suo danno che
non v’ha peggior dolore
di chi con l'armi sue, ferito muore.
.
210
LA BELLA DALLE MANI MOZZE
211
quest’incastro, questa lega di botteghe1, questo uniantur acta 2
questo misce et fiat potum3 ché condurremo l’uno e l’altra una
vita serena».
Penta, al sentire questo sbalzo di quinta 4, rimase fuor di
sé, e un colore le usciva e un altro le entrava; perché non a-
vrebbe potuto mai immaginare che il fratello venisse a siffatte
stravaganze e cercasse di dare a lei un paio d’uova barlacce,
mentre esso proprio aveva bisogno, per suo conto, di cento
uova fresche Stette, per un pezzo, muta, pensando quale ri-
sposta potesse dare a domanda cosi impertinente e fuor di
proposito; ma, in ultimo, scaricando la soma della pazienza,
disse: «Se voi perdete il senno, io non voglio perdere la ver-
gogna: mi meraviglio di voi che vi fate scappare dalla bocca
proposte di cotesta sorta, che, se sono dette per celia, sono a-
sinerie, se sul serio, puzzano di caprone; e mi duole che, se
voi avete una lingua per dire di queste brutte cose, io abbia
orecchie per udirle. Io, moglie a voi? Dove avete il cervello?
Da quando in qua si fanno di coteste capriate5, di coteste olle
podride, di coteste mischianze? E dove stiamo? Al Ioio? Vi
sono sorella o cacio cotto con olio?6 Mettete la testa a segno,
per la vita vostra, e non vi fate più scivolare dalla bocca paro-
le come queste; se no, farò cose da non credere, e, se voi non
mi onorerete come sorella, io non vi tratterò da quello che mi
siete!». Ciò detto, corse in furia a chiudersi in una camera,
puntellandola di dentro, e non vide la faccia del fratello per
1
Società fra due negozianti.
2
Come nei processi, quando si riuniscono insieme gli atti di due o più
cause
3
Formula nelle ricette dei medici
4
Cioè, era venuto matto. La cura, alla quale in quei tempi erano sottomessi
i pazzi dello spedale degl’incurabili di Napoli, consisteva nel girare la ruo-
ta per attingere l’acqua dal pozzo, mangiare cento uova come cibo nutrien-
te e leggiero, e ricevere periodiche bastonature.
5
«Capriata», miscuglio di vino bianco e vino nero: cfr. lo spagn. «cala-
briada».
’ Testo: «o caso cuotto»: sottintendendo (come, in altri testi, si trova com-
piuta la frase) «con olio», ossia in guisa ripugnante al cacio. Vuol dire:
come se non fossimo in alcun modo parenti.
212
più di un mese, lasciando lo sciagurato re, che era andato con
una fronte da maglio a stancare le palle1, scornato come un
fanciullo che ha rotto l’orciuolo, e confuso come una cuoca
alla quale il gatto ha portato via il tocco di carne.
A capo di quei tanti giorni, Penta fu citata di nuovo dal re
alla gabella delle sue sfrenate voglie; ed essa volle appurare
esattamente di che cosa il fratello si fosse incapricciato nella
persona sua, e, uscita dalla camera, lo andò a trovare. «Fratel-
lo, mio, — gli disse — io mi sono vista e mirata allo specchio,
e non trovo in questo mio volto cosa che possa essere merite-
vole dell’amor vostro; ché, in verità, non sono un boccone co-
si goloso da far commettere pazzie alla gente». Il re le rispose:
«Penta mia, tu sei tutta bella e compita dal capo al piede; ma
la mano è quella che sopr’ogni cosa mi rapisce: la mano, for-
chettone che dalla pignatta di questo petto tira fuori le interio-
ra; la mano, uncino che dal pozzo di questa vita porta su la
secchia deU’anima; la mano, morsa che stringe questo spirito,
mentre Amore vi lavora di lima. O mano, o bella mano, che
sei mestolo che minestra dolcezza, tenaglia che strappa le vo-
glie, paletta che aggiunge carbone per far bollire il mio cuo-
re!».
E più voleva dire, quando Penta rispose: «Sta bene: v’ho
inteso. Aspettate un po’, non vi movete di qui, ché or ora tor-
no». E, rientrata nella sua camera, fece chiamare un suo
schiavo mezzo insensato, gli consegnò un coltellaccio con un
gruzzolo di patacche e gli disse: «Ali mio, tagliare mani mie,
volere fare bella secreta e diventare più bianca». Lo schiavo,
credendo di farle servigio, con due colpi gliele troncò nette; e
Penta, fattele mettere in un bacile di faenza, le inviò, coperte
di un tovagliuolo di seta, al fratello, con l’imbasciata che si
godesse quello che più gli piaceva con buona salute e figli
maschi.
Il re, vedendosi giocare questo tiro, montò in tanta colle-
ra che divenne furente, e ordinò di far subito una cassa tutta
impeciata, dentro la quale cacciò la sorella e la gettò in mare.
1
Traslato dal giuoco del pallone.
213
Dopo qualche giorno, la cassa, spinta dalle onde, die in una
spiaggia; e qui alcuni marinai, che tiravano la rete, la presero
e l’apersero, e vi trovarono Penta, bella più assai della Luna,
quando pare che abbia fatto la quaresima a Taranto1. E Ma-
siello, che era tra quella gente il principale e il più autorevole,
se la condusse a casa, raccomandando alla moglie, Nuccia, di
usarle carezze.
Ma costei, che era la mamma del sospetto e della gelosia,
non appena il marito ebbe ripassato la soglia, tornò a cacciare
Penta nella cassa, e la rigettò al mare. E qui, sbattuta dalle on-
de, tanto andò ballonzolando, finché fu scontrata da un va-
scello sul quale navigava il re di Terraverde. Veduto galleg-
giare qualcosa di strano, il re fece calar la vela e mettere il
battello a mare, e, tirata sù la cassa, l’aprirono e vi trovarono
dentro la sventurata giovane, in quella cassa di morto bellezza
viva. Sembrò al re di avere scoperto un gran tesoro, quantun-
que gli piangesse il cuore che uno scrigno, pieno delle gioie di
Amore, fosse privo di maniglie. E la condusse al suo regno,
assegnandola per damigella alla regina, alla quale essa prese a
rendere ogni sorta di servigi, fino a infilare l’ago e cucire, a
inamidare i collari e ravviare i capelli, tutto facendo coi piedi,
onde essa era tenuta cara come una figlia.
Qualche mese dopo, citata la regina a comparire alla ban-
ca della Parca a pagare il debito alla natura, chiamò presso il
suo letto il re. «Poco ancora può tardare — gli disse —
l’anima mia a sciogliere il nodo matrimoniale col corpo; per-
ciò sta’ sano, marito mio, e scriviamoci qualche volta. Ma, se
mi vuoi bene e se desideri che quest’anima se ne vada conso-
lata all’altro mondo, m’hai da fare una grazia». «Comandami,
muso mio dolce, — rispose il re; — ché se non ti posso dare
in vita i testimoni del mio cuore, ti darò pegno in morte del
bene che ti voglio». «Orsù — continuò la regina: — poiché
me lo prometti, ti prego quanto posso che, dopo che a causa
1
La luna piena. Poiché Taranto abbonda di pesci e crostacei squisiti (si
veda il poema dell’AQUiNO, Deliciae Tarentime, Napoli, 1771), vi si può
passare una quaresima, cioè mangiar di magro, pur soddisfacendo la gola e
diventando grassi e tondi.
214
della polvere avrò chiuso gli occhi, tu ti sposi Penta, la quale,
quantunque non sappiamo chi sia ne donde venga, pure, al
marco dei buoni costumi, si fa conoscere cavallo di razza.
«Campami di qui a cent’anni! — replicò il re; — ma, quando
tu avessi a dirmi buona notte per dare a me il cattivo giorno, ti
giuro che me la prenderò per moglie, e non importa che sia
priva di mani e scarsa di peso, perché delle cose tristi, come
sono le donne, giova prenderne sempre il meno che si può»
Ma queste ultime parole le borbottò nella lingua, perché la
moglie non se ne offendesse.
Spenta che ebbe la regina la candela dei giorni suoi, il re
prese Penta per moglie, e la prima notte la innestò a figlio ma-
schio. Poi, bisognandogli compiere un’altra veleggiata al pae-
se d’Altoscoglio, tolse licenza da lei e levò l’àncora. A capo
di nove mesi, Penta dié alla luce un vago bambino, e se ne fe-
cero luminarie per tutta la città, e subito il Consiglio spedi ap-
posta una feluca per l’annunzio al re.
La feluca corse cosi forte burrasca, che ora si vide man-
teata1 dalle onde e sbalzata alle stelle, ora rotolata in fondo al
mare; e, in ultimo, come volle il Cielo, dette in terra, a quella
marina stessa dove Penta era stata raccolta dalla compassione
di un uomo e donde era stata scacciata dalla crudeltà canina di
una donna. Per disgrazia, proprio allora quella stessa Nuccia
stava colà a lavare fasce e pannilini del suo fantoccio; e, cu-
riosa come solo le donne dei fatti altrui, domandò al padrone
della feluca di dove veniva, dov’era avviato, e per parte di chi.
Il padrone rispose: «Vengo da Terraverde e vado ad Altosco-
glio dal re, che è in quel paese, a dargli una lettera, per la qua-
le mi mandano apposta. Credo che gli scriva la moglie; ma
non ti saprei dire propriamente di che cosa si tratta». «E chi è
la moglie di cotesto re?» - insistè Nuccia. E il padrone: «Per
quel che intendo, dicono che è una bellissima giovane, chia-
mata Penta dalle mani mozze, perché le mancano tutte e due
1
Testo: «co lo triego». «Trevo» o «Triego» è (secondo il Guglielmotti)
«quella vela più quadra, più bassa e più grande, che è la prima delle tre,
spiegate sull’istesso albero».
2
Clientela: che getta un’ombra anche sulla condotta coniugale della mal-
vagia Nuccia.
3
Libeccio, che è chiamato «garbino» dai marinai della costa adriatica.
" Testo: «lo cosciale»
216
Allorché egli, giunto a Terraverde, presentò la lettera del
re, e il
Consiglio la lesse, fu un grande susurro tra quei saggi vec-
chioni, e, assai dibattendo quest’affare, conclusero che il re o
era diventato pazzo o era stato affatturato, perché avendo una
perla di moglie e un gioiello di erede, voleva fare di entrambi
polvere pei denti della Morte. Per questa considerazione, ven-
nero nell’avviso di prendere la via di mezzo, mandando la
giovane col figlio a errare pel mondo, che non se ne avesse
più nuova alcuna; e cosi, provvistala di una manata di torne-
setti per campare la vita, levarono dalla cassa reale un tesoro,
dalla città una lanterna splendente, dal marito due puntelli del-
le sue speranze.
La povera Penta, vedendosi dare lo sfratto, quantunque
non fosse nè femmina disonesta, nè parente di bandito, nè
studente fastidioso1, si prese in braccio il suo cetriuolo, che
innaffiava di latte e di lacrime, e s’avviò verso Lagotorbido.
Era di quel luogo signore un mago, che, ammirando questa
bella storpia che storpiava i cuori, costei che faceva più guerra
coi suoi moncherini che Briareo con le cento mani, volle sen-
tire tutt’intera la storia delle sventure che aveva sofferte da
quando il fratello, per essergli negato il pasto della carne, vol-
le farla pasto ai pesci, fino a quel giorno che aveva messo
piede nel suo regno.
Il mago, all’amaro racconto, versò lacrime senza fine, e
la compassione, che gli entrava pei pertugi delle orecchie, va-
porava in sospiri per lo spiraglio della bocca. Alla fine, la
confortò con buone parole: «Sta’ di buona voglia, figlia mia,
che, per infracidila che sia la casa di un’anima, si può reggere
tuttavia, se la puntella la speranza. Perciò, non lasciare smarri-
re l’animo; ché il Cielo tira talvolta le disgrazie umane
all’estremo della ruina par fare più mirabile l’opera sua. Non
dubitare, dunque, perché tu hai trovato in me mamma e padre,
e io t’aiuterò col mio sangue stesso».
1
Tre categorie di persone, che si soleva allora più di frequente rimuovere
dai luoghi dove abitavano o scacciare dal Regno. Per gli studenti vedi la
nota a p. 434.
217
La povera Penta lo ringraziò: «Non importa — gli disse
— che il Cielo piova disgrazie e grandini ruine, ora che sono
sotto la tettoia della grazia vostra, di voi che potete e valete; e
già questa vostra bella faccia m’incanta». E cosi, dopo mille
parole di cortesia da una parte e di ringraziamento dall’altra, il
mago le assegnò un ricco appartamento nel palazzo suo e la
fece governare come una figlia. E, la mattina dopo, ordinò di
pubblicare un bando: che alla persona che fosse venuta alla
sua corte a raccontare la più grande delle disgrazie, avrebbe
dato una corona e uno scettro d’oro: due belle cose, che vale-
vano più d’un regno.
Correndo questo grido per tutta l’Europa, vennero al pae-
se del mago più gente che non siano i broccoli, per guada-
gnarsi la ricchezza promessa. E chi raccontava che aveva ser-
vito in corte tutta la vita, e, dopo avervi perduto il ranno e il
sapone, la gioventù e la salute, era stato pagato con un cacio-
cavallo. Chi diceva che gli era stata fatta un’ingiustizia da un
superiore e non gli era concesso di lagnarsene, tanto che gli
bisognava inghiottire la pillola e non evacuare la collera. Uno
si lamentava di aver posto tutte le sue sostanze in una nave, e
che un po’ di vento contrario gli aveva tolto il cotto e il crudo.
Un altro si doleva di avere speso tutti gli anni suoi a esercitare
la penna, senza cavarne mai l’utile di una sola penna; e, so-
prattutto, si disperava che le fatiche della penna sua avevano
avuto cosi poca ventura, laddove le materie dei calamai1 erano
tanto fortunate al mondo.
In questo mezzo, il re di Terraverde tornò nel regno e,
trovata a casa quella dolce bevanda che non s’aspettava, pro-
ruppe in atti da leone scatenato, e avrebbe fatto scuoiare tutti i
consiglieri, se essi non gli avessero senz’altro posto sott’occhi
la lettera che avevano ricevuta da lui. Ma, quando la vide, e
conobbe la falsa mano di scrittura, chiamò a sé il corriere e gli
ordinò di raccontare tutto quanto gli era occorso nel viaggio.
Cosi, a poco a poco, venne a penetrare che la moglie di Ma-
siello gli aveva macchinato la rovina; onde, armata subito una
1
Cioè, il corno: vedi p. 31, n. 11.
218
galea, andò di persona a quella spiaggia. Ivi, ritrovata la fem-
mina, con bel modo le cavò di corpo tutto l’intrigo; e, avendo
inteso che causa del fatto era stata la gelosia volle che essa di-
ventasse di cera e, incerata e spalmata di sego, la fece mettere
sopra una grande catasta di legna secche, alla quale fu dato
fuoco.
Poiché ebbe assistito alla fiammata, e veduto che il fuo-
co, vibrando una lingua rossa rossa, s’era divorata la trista
femmina, fece vela; e, in alto mare, incontrò una nave, che
portava il re di Pietrasecca. Dopo molte cerimonie scambievo-
li, questi disse all’altro che navigava verso Lagotorbido a cau-
sa del bando pubblicato dal signore di quel luogo, per tentare
la sorte sua, come colui che non cedeva per mala fortuna al
più dolente uomo del mondo.
«Se è per questo disse il re di Terraverde, — io ti salto di
sopra a piedi giunti, e posso dare quindici e fallo1 al più sven-
turato che sia al mondo; e, dove gli altri misurano i dolori a
lucernette2, io li posso misurare a tomoli. Perciò voglio venire
con te, e facciamola tra noi da galantuomini, e chi di noi vin-
ce, spartirà da buon compagno esattamente la vincita». «Sia-
mo intesi», disse il re di Pietrasecca; e si dettero reciproca-
mente la fede.
Andarono cosi di conserva a Lagotorbido, dove, approda-
ti, si presentarono al mago, che li onorò di grandi accoglienze,
quali si convenivano a teste coronate, e li fece sedere sotto il
baldacchino, salutandoli mille volte benvenuti. E, poiché ebbe
udito che si presentavano alla prova degli uomini sventurati,
volle conoscere quale peso di dolore li rendesse soggetti agli
scirocchi dei sospiri.
Il re di Pietrasecca cominciò allora a narrare l’amore che
aveva posto al sangue suo, l’atto da donna onorata che fece
sua sorella, il fiero cuore che egli mostrò col chiuderla in una
cassa impeciata e gettarla a mare; per le quali cose, da una
parte, lo trafiggeva la coscienza del proprio errore, e
1
Termini di giuoco. Vedi sopra, p. in v. 829.
2
«A locernella»: sembra che fosse una piccolissima misura di capacità o
una metafora per designarla.
219
dall’altra, lo pungeva l’affanno della sorella perduta; di qua,
lo tormentava la vergogna, di là il danno; di guisa che tutti i
dolori delle più angosciate anime dell’inferno, posti a un lam-
bicco, non sgocciolerebbero una quintessenza di affanni come
quelli che provava il cuor suo.
Finito ch’ebbe questo re di parlare, incominciò l’altro:
«Oimè, che le doglie tue sono ciambellette inzuccherate, fran-
fellicchi e strùfoli a paragone del dolore che io sento, perché
quella Penta dalle cani mozze, che trovai nella cassa come
torcia di cera di Venezia per fare le mie esequie, io la presi
per moglie, ed essa mi partorì un bel bambino, e, per maligni-
tà di una brutta arpia, poco è mancato che non fossero l’una e
l’altro arsi dal fuoco. Nondimeno, oh chiodo del mio cuore!
oh dolore per cui non mi posso dar pace! li hanno scacciati
tutt’e due, mandandoli fuori del mio stato; di tal che, veden-
domi alleggerito di ogni piacere, non so come, sotto la soma
di tante pene, non caschi prostrato a terra l’asino della mia vi-
ta!».
Udito il mago l’altro re, conobbe al fiuto che l’uno era il
fratello e l’altro il marito di Penta; e, fatto chiamare Nufriello,
il fanciullo, gli disse: «Va’ e bacia i piedi a tata, signore tuo»;
e il fanciullo obbedì al mago. Il padre, vedendo la buona gra-
zia di quel marmocchietto, gli gettò una bella catena d’oro al
collo. Dopo di che, il mago tornò a parlare: «Bacia la mano
allo zio, bel ragazzo mio»; e quel bel pacioncello fece subito
l’ubbidienza; e l’altro re, ammirando la vivacità di quella fra-
schetta, gli dié un bel gioiello, e domandò al mago se gli era
figlio, e quegli rispose che ne domandasse la madre.
Penta, che, nascosta dietro una portiera, aveva ascoltato
tutto questo negozio, venne fuori; e, come cagnolina sperduta
che, ritrovando dopo tanti giorni il padrone, lo lecca, scondin-
zola, e fa mille segni di allegria, essa, ora correndo al fratello
ora al marito, ora tirata dall’affetto dell’uno, ora dalla carne
dell’altro, abbracciava ora questo ora quello, con tanto giubilo
che non si potrebbe immaginare. Fa’ conto che eseguivano un
concerto a tre di parole smozzicate e di sospiri interrotti.
Fatta pausa a questa musica, si ritornò a carezzare il fan-
220
ciullo, e ora il padre e ora lo zio a vicenda lo stringevano e lo
baciavano, e se ne andavano in brodo di giuggiole. E, dopo
che da questa parte e da quella fu fatto e fu detto, il mago
concluse con queste parole:
«Sa il Cielo quanto esulta il mio cuore a vedere consolata
la signora Penta, la quale per le sue belle qualità merita di es-
sere tenuta in palma di mano e per la quale ho cercato con tan-
ta industria di condurre a questo regno il marito e il fratello,
per darmi all’uno e all’altro schiavo incatenato1. Ma, poiché
l’uomo si lega con la parola e il bue con le corna, e la promes-
sa di un uomo dabbene è contratto, giudicando che il re di
Terraverde abbia sofferto dolore da morire, gli voglio mante-
nere la parola e dargli non solo la corona e lo scettro promessi
col bando, ma altresi il regno. Io non ho né figli né fastidi di
famiglia; e perciò, con buona grazia vostra, voglio per miei
figli adottivi questa bella coppia di marito e moglie, che mi
sarà cara quanto le pupille degli occhi. E perché non ci sia più
altro da desiderare alla felicità di tutti, orsù, Penta si metta i
moncherini sotto il grembiule, ché ne trarrà fuori le mani, più
belle che non erano prima».
Penta cosi fece, e la cosa riusci appuntino come il mago
aveva detto. E di ciò la gioia fu grandissima; e ne gongolaro-
no tutti, e particolarmente il marito, che stimò più assai questa
bella fortuna che il nuovo regno donatogli dal mago. Dopo
aver trascorso alcuni giorni in magnifiche feste, il re di Pietra-
secca se ne tornò al regno suo, e il re di Terraverde, mandato
il cognato al suo minor fratello perché da sua parte lo incari-
casse della cura dello stato, rimase col mago, scontando a
canne di diletto le dita di travaglio che aveva sofferte, e ren-
dendo testimonio al mondo che
non può il dolce aver caro
chi provato non ha, prima, l’amaro.
Renza, chiusa dal padre in una torre, per esserle stato predet-
to dagli astrologi che sarebbe morta a causa di un osso mae-
stro, s’innamora di un principe, e con un osso, portatole da
un cane, fora il muro e fugge. Ma, vedendo l’amante suo am-
mogliato baciare la sposa, muore di crepacuore, e il principe,
per l’angoscia, si ammazza.
224
Scoppiò in pianto Renza, al triste annunzio, e rispose:
«Oh sciagurata la mia sorte, come presto è calata alla feccia la
botte dei miei piaceri! Come è scesa al fondiglielo la pignatta
dei miei spassi! Com’è ridotta al rimasuglio la cesta delle mie
contentezze! Me misera, ché se ne scorrono con l’acqua le
mie speranze; mi vanno in crusca i disegni, e si risolve in fu-
mo ogni mia soddisfazione! Appena ho cominciato a gustare
questa salsa reale, che il boccone mi si è fermato in gola; ap-
pena ho appressato le labbra a questa fontana di dolcezza, che
mi si è intorbidato il diletto; appena ho visto spuntare il sole,
che posso dire: — Buonanotte, zio pagliericcio!»
Queste e altrettali parole uscivano dagli archi turcheschi
di quelle labbra a trafiggere l’anima di Cecio, quando questi
le disse: «Sta’ zitta, o bel palo della mia vita, o chiara lanterna
di questi occhi, o giacinto confortativo di questo cuore1, ché
presto sarò di ritorno. Le miglia di lontananza non potranno
fare ch’io mi scosti un palmo da questa bella persona; non po-
trà la forza del tempo sbalzar via l’immagine tua da questa te-
sta. Calmati, riposa il cervello, asciuga gli occhi, e serbami
nel cuore». Con queste parole, montò a cavallo e prese a ga-
loppare verso il suo regno.
Renza, che si vide piantata come un cetriuolo, s’avviò
appresso a lui, dietro le orme di lui; e, spastoiato un cavallo
che trovò a pascere in un prato, si mise a correre sulla via che
egli aveva percorsa. Nel cammino, si scontrò col garzone di
un romito; e subito scese da cavallo e fece cambio delle sue
vesti, che erano tutte guarnite d’oro, col sacco e con la corda
che quegli portava. Si gettò addosso il sacco, si cinse la corda,
essa che cingeva le anime col laccio d’amore, e tornò a caval-
care, spronando con le calcagna il cavallo, tanto che in poco
tempo raggiunse Cecio, e gli disse: «Ben trovato, gentiluomo
mio!». «Ben venuto, padricello mio, — rispose l’altro: —
donde si viene e dove siete avviato?» E Renza:
Vengo da parte dove sempre in pianto
si sta una donna, e dice: - Oh bianco viso!
1
Non è qui il fior di giacinto, ma la «gemma giacinto».
225
Deh, come ti perdei, che m’eri accanto!1
Cecio, che non la riconosceva e credeva che fosse un ra-
gazzo, esclamò: — o bel giovane mio, quanto mi è cara la tua
compagnia! Perciò fammi un piacere, e prenditi le mie pupil-
le: non ti partire mai dal mio fianco e, di volta in volta, ripe-
timi questi versi, ché, proprio, mi solletichi il cuore!».
Cosi, col ventaglio delle chiacchiere sventolandosi pel
caldo della via, giunsero insieme a Vignalarga. Colà trovaro-
no che la regina aveva dato moglie a Cecio, e per questo lo
aveva mandato a chiamare con un’astuzia; e la moglie già sta-
va in ordine e l’aspettava.
Cecio pregò la madre di tenere in casa e trattare come
suo fratello il giovane che l’aveva accompagnato; e, poiché la
madre acconsenti, lo fece stare sempre accanto a sé e mangia-
re a una stessa tavola con la sposa.
Considerate che cuore faceva la sventurata Renza e se
inghiottiva noce vomica! Con tutto ciò, essa di volta in volta
ripeteva i versi che tanto piacevano a Cecio. Ma, quando si fu
levata la mensa e la sposa si ritirò in una cameretta per parlare
da sola a solo con Cecio, Renza, per aver campo di sfogare la
passione del cuore, entrò in un orto che era in piano colla ca-
sa, e, postasi sotto un gelso, cosi prese a lamentarsi: «Oimè,
Cecio crudele, questo è il ‘mille grazie’ dell’amore che ti por-
to? Questa è la ‘gran mercé’ del bene che ti voglio? Questo è
il beveraggio dell’affezione che ti mostro? Ecco che ho pian-
tato mio padre, abbandonato la mia casa, calpestato il mio o-
nore, e mi son data in potere di un cane feroce per vedermi ta-
gliato il passo, serrata la porta in faccia e levato il ponte,
quando credevo di prender dominio di cotesta bella fortezza;
per vedermi scritta alla gabella dell’ingratitudine tua, mentre
mi pensavo di stare alla Duchesca della grazia tua2; per ve-
1
Sembra frammento di uno strambotto. Nel testo suona propriamente:
«Vengo da parte, dove sempre nchianto Stace na donna e dice: — O bian-
co viso! Deh, chi me t’ha levato da lo canto».
2
Si chiama cosi un luogo di Napoli (prossimo alla stazione centrale della
ferrovia), dove, circa il 1487, il duca di Calabria, Alfonso d’Aragona,
aveva costruito un palazzo e un giardino.
226
dermi fatto il giuoco di fanciullo: ‘Bando e comandamento da
parte di mastro Chiomento’, mentre immaginavo di giocare
con te ad ‘Anca Nicola’! Ne ho seminate, di speranze; e ora
raccolgo caciocavalli1; ne ho gittati, di razzi del desiderio, e
ora tiro dalla pesca arena d’ingratitudine; ne ho fatti, di castel-
li in aria, e, punfete, ho battuto col corpo in terra! Ecco il ri-
cambio che ricevo; ecco la pariglia che m’è data; ecco il pa-
gamento che ottengo! Ho calato la secchia nel pozzo delle vo-
glie amorose e m’è rimasto il manico in mano: ho steso il bu-
cato dei disegni miei e mi vi è piovuto sopra a cielo aperto; ho
messo a cucinare la pentola dei pensieri al fuoco del deside-
rio, e c’è cascata dentro la fuliggine delle disgrazie. Ma chi
credeva, o voltabandiera, che la fede tua dovesse scoprirsi ra-
me? che la botte delle promesse scendesse alla feccia? che il
pane della bontà prendesse muffa? Bel tratto d’uomo da bene!
Belle prove di persona onorata! Bei termini da figlio di re:
burlarmi, impastocchiarmi, imbrogliarmi, farmi larga la cappa
per darmi corto il giubbone, promettermi mari e monti per
gettarmi dentro un fosso, lavarmi la faccia, perché mi trovassi
il cuore nero! O promesse di vento, o parole di crusca, o giu-
ramento di milza soffritta! Ecco che tu hai detto quattro prima
che fosse nel sacco; ecco che sei cento miglia discosto, quan-
do credevi di essere arrivata a una casa di barone: ben si prova
che parole di sera il vento le mena! Oimè, quando pensavo di
essere carne ed unghia con questo crudele, sarò con lui come
cane e gatto; dove m’immaginavo di essere scodella e cuc-
chiaio con questo cane rabbioso, sarò con lui come biscia e
rospo2; perché non potrò sopportare che un altro, con un cin-
quantacinque di buona fortuna, mi tolga di mano la primiera
passante delle speranze mie3; non potrò sopportare che mi sia
dato scacco matto. O Renza male avviata, va’ e ti fida, va’ e ti
gonfia di parole d’uomini! uomini senza legge e senza fede,
povera chi vi si mescola, trista chi vi si attacca, sventurata chi
si corica al largo letto, che essi ti sogliono fare! Ma non ti cu-
1
Poco profitto: un semplice dono di caciocavalli
2
Testo: «cervone»: la biscia mangia il rospo.
” Traslati dal giuoco della primiera.
227
rare: tu sai che chi gabba fanciulli, fa la morte dei grilli; sai
che alla banca del Cielo non ci sono scrivani marranchini, che
imbroglino le carte; e, quando meno te l’aspetti, verrà la gior-
nata tua, tu che hai fatto questo giuoco di mano a chi ti ha da-
to se stessa in credenza per ricevere una mala azione in con-
tanti. Ma io non m’avvedo che dico le mie ragioni al vento e
sospiro al vuoto; sospiro in perdita, e mi lamento, ma sola.
Esso stasera salda i conti con la sposa e rompe la taglia; e io
faccio i conti con la Morte e pago il debito alla natura. Esso
starà ;n un letto bianco e odoroso di bucato; io dentro
un’oscura bara, che puzza d’ammazzato. Esso giocherà a ‘sca-
rica-la-botte’ con quella fortunata, ed io farò: ‘Compagno mi-
o, ferito sono’1, vibrandomi uno stecco appuntito alle costole
per dare fondo alla vita».
Dopo queste e altre parole di dolore e di rabbia, Renza,
venuta l’ora di lavorare coi denti, fu chiamata a tavola, dove
gl’ingratinati e gli spezzati le erano arsenico e titimallo2, a-
vendo altro pel capo che il pensiero di mangiare, altro andan-
dole per lo stomaco che l’appetito di riempirlo. Tanto che Ce-
do, a vederla cosi pensosa e avvilita, le disse: «Che cos’è che
non fai onore a queste vivande? Che hai? che pensi? che sen-
ti?». «Non mi sento niente bene — rispose Renza; — nè so se
è indigestione o vertigine». «Fai bene a lasciare il pranzo —
replicò l’altro, — perché la dieta è il miglior tabacco d’ogni
male; ma, se ti bisogna il medico, manderemo a chiamare un
tal dottore di urina che, alla sola faccia, senza toccare il polso,
conosce le malattie della gente». «Non è male da ricette —
disse Renza, — e nessuno sa i guai della pignatta fuori del
mestolo». «Esci un po’ a prender aria», aggiunse Cecio. E
Renza: «Quanto più muovo in giro gli occhi, più mi si rompe
il cuore».
Cosi parlando, terminò il pranzo e venne l’ora di dormi-
re; e Cecio, per udire sempre quella canzone, volle che il
compagno si ponesse in un lettuccio3 nella camera stessa in
2
Testo: «tutomaglio», che è l’«euphorbia helioscopia».
3
«Letto di riposo», dice il testo, che è quello che si chiamò poi canapé .
228
cui egli si doveva coricare con la sposa. E ad ora ad ora lo
chiamava a ripetere quei versi, che erano pugnalate al cuore di
Renza e intronamenti alla testa della sposa. La quale stette e
stette, e alla fine, scoppiando, disse: «Mi avete rotto tutto il di
dietro con cotesto ‘bianco viso’! Che trista musica è questa?
Oramai è una vera dissenteria, che non finisce più! Basta, pof-
far il mondo! E che cosa è? un dirizzone di testa, che replicate
sempre la stessa cosa? Io credevo, coricandomi con te, di sen-
tire musica di strumenti e non repetii di voce. E vedi come
l’hai presa meticolosa a toccare sempre lo stesso tasto! Di
grazia, non più, marito mio; e tu, caglia, ché senti d’aglio, e
lasciaci in pace un po’».
«Sta’ zitta, moglie mia! — rispose Cecio, — ché ora
spezziamo il filo del parlare». E, nel dir questo, le dette un
bacio cosi forte che se ne senti un miglio lontano lo schiocco.
Quel rumore di labbra fu tuono al petto di Renza, la quale ne
provò tanto dolore che, essendo corsi tutti gli spiriti a dar soc-
corso al cuore, accadde, come dice il proverbio, che il soper-
chio rompe il coperchio, perché tale e tanto fu il concorso del
sangue che, soffocatala, le fece stendere i piedi.
Cecio, somministrati che ebbe quattro vezzi alla sposa,
chiamò sottovoce Renza, perché gli ripetesse quelle parole
che gli piacevano tanto; e, non sentendosi rispondere come
aspettava, tornò a pregarla, che gli desse quel po’ di gusto; e,
vedendo che rimaneva in silenzio, levandosi pian piano, la ti-
rò per un braccio; e, poiché nemmeno rispondeva, le mise la
mano al volto: e, a toccare il naso freddo freddo, s’accorse che
era spento il fuoco del calore naturale di quel corpo. Sbigotti-
to, atterrito, chiamò subito le candele, e, scoprendo quel cor-
po, riconobbe Renza a un bel neo che aveva in mezzo al petto.
E allora alzò le strida: «Che cosa vedi, o sciagurato Cecio?
Che t’è accaduto, sventurato? Quale spettacolo ti sta dinanzi
agli occhi? Quale rovina ti cade sulle giunture? O fiore mio,
chi ti ha còlto? O lucerna mia, chi ti ha spenta? O pignatta dei
gusti d’amore, come ti sei rovesciata fuori? Chi ti ha abbattu-
ta, o bella casa delle mie contentezze? Chi ti ha stracciata, o
carta franca dei miei piaceri? Chi ti ha mandata a picco, o bel-
229
la nave degli spassi di questo cuore? O bene mio, che, al
chiudere dei tuoi begli occhi, è fallita la bottega della bellez-
za, sono state interrotte le faccende delle Grazie, e Amore è
andato a buttare le ossa al ponte!1 Al partire di questa
bell’anima si è persa la semenza delle belle, si è guastata la
stampa delle vezzose, e non si trova più la bussola pel mare
delle bellezze amorose. Oh danno senza riparo, oh strazio
senza comparazione, oh rovina senza misura! Va’ e vantati,
madre mia, che hai fatto una bella prova a maritarmi a forza,
perch’io perdessi questo bel tesoro! Che farò, disgraziato
scempio d’ogni piacere, netto di consolazione, nudo di spasso,
squattrinato di contentezza! Non credere, vita mia, ch’io vo-
glia senza di te restarmene in questo mondo, perché ti voglio
perseguitare e assediare dovunque vai, e, a dispetto del dispet-
to della morte, ci congiungeremo insieme; e, se ti aveva presa
a compagna di uffizio al mio letto, ti sarò caratario2 alla tom-
ba, e un solo epitaffio narrerà l’infortunio di entrambi noi!».
Disse e die di mano a un chiodo e si fece una cura scon-
fortativa: sotto la mammella mancina, per la quale lasciò scor-
rere col sangue la vita sua. La sposa restò atterrita e gelata; e,
quando le fu possibile sciogliere la lingua e mandar fuori la
voce, chiamò la regina, che accorse al rumore con tutta la cor-
te. Al vedere morti il figlio suo e Renza, e all’apprendere la
causa della sciagura, essa si strappò i capelli, e, dibattendosi
come un pesce fuor dell’acqua, gridò crudeli le stelle che ave-
vano piovuto alla casa sua tante disgrazie e maledisse la trista
vecchiezza, che l’aveva serbata a tanta rovina. Fatto cosi un
grande strillatorio, battitorio, strappatorio e schiamazzatorio,
fece collocare i due insieme in una stessa fossa e scrivervi so-
pra la storia delle loro fortune.
In quel tempo stesso arrivò il re, padre di Renza, il quale,
andando pel mondo in cerca della figlia fuggita, s’era incon-
1
Testo: «ed è iuto a votare ( = vottare) ossa a lo ponte Ammore». Mi par
da correggere nel modo in cui ho tradotto; e vorrebbe dire che Amore but-
ta le ossa al ponte Ricciardo o ponte della Maddalena, a Napoli, sul Sebeto
(per antonomasia il «ponte»):
2
Socio, o azionista, d’impresa commerciale.
230
trato col ragazzo del romito, che offriva in vendita le vesti di
quella e che lo informò del caso; e cosi, perseguitando il prin-
cipe ereditario di Vignalarga, giunse proprio nel punto che,
mietute le spighe degli anni suoi, si stava per calarle nella fos-
sa1. E, vedendo e conoscendo Renza sua, e piangendola e so-
spirandola, bestemmiò l’osso maestro, che aveva dato il gras-
so alla minestra delle sue rovine. Quell’osso egli aveva ritro-
vato a terra nella stanza della figliuola, e lo riconosceva ora
strumento del crudele caso, avverandosi a questo modo, in ge-
nere e in ispecie, il triste augurio di quei saltimbanchi, che a-
vevano predetto che Renza sarebbe morta per un osso mae-
stro, e dimostrandosi chiaramente che
quando un malanno c’è segnato in sorte,
entra per le fessure delle porte.
1
Allusione alle fosse in cui si conserva il grano. Anche a Napoli c’erano le
«fosse del grano» di proprietà della città, fuori le mura, al posto ove sono
ora le case a man destra della salita del Museo, luogo in cui si gettavano le ossa
dei giustiziati e suicidi, e le carcasse dei cavalli e di altri animali.
231
232
TRATTENIMENTO QUARTO
SAPIA LICCARDA
1
Cioè: «la savia Riccarda».
2
Testo: «cavallesse fenestrere»: «cavallesse» cavalle sfrenate;
«fenestrere» che stanno sempre alla finestra a civettare.
233
Si era appena il padre allontanato da Villaperta (cosi si
chiamava quella terra) che le due sorelle cominciarono a sca-
lare le finestre e ad affacciarsi agli abbaini; nonostante che
Sapia Liccarda, la più piccola, facesse cose dell’altro mondo,
e gridasse che la casa loro non era né i Gelsi, né la Duchesca,
né il fondaco del Cedrangolo, né il vico del Pisciatoio, da pra-
ticarvi coteste gherminelle e civetterie.
Proprio di fronte alla casa loro era il palazzo del re, e i tre
figli del re, Ceccariello, Grazullo e Tore1, adocchiate le tre
giovinette, che erano di bell’aspetto, cominciarono a far cenni
cogli occhi, dai cenni vennero ai baciamani, dai baciamani al-
le parole, dalle parole alle promesse, dalle promesse ai fatti. E
una sera, quando il Sole per non competere con la Notte si ri-
tira con le sue entrate2, scalarono tutti e tre la casa delle tre so-
relle; e, intesisi i due fratelli piu grandi con le due sorelle più
grandi, quando il terzo, Tore, volle dar di mano a Sapia Lic-
carda, questa gli sfuggi come un’anguilla, si chiuse in una
camera e la puntellò cosi saldamente che non fu possibile a-
prirla: tanto che il povero ragazzo stette a contare i bocconi ai
fratelli, e, mentre quelli caricavano i sacchi dal mulino, esso
tenne la mula.
Al mattino, quando gli uccelli, trombettieri dell’Alba,
suonano il «tutti a cavallo», affinché le ore del giorno si met-
tano in sella, quelli se ne partirono tutti lieti della soddisfazio-
ne ottenuta, e quest’altro, sconsolato per la cattiva notte. Le
due sorelle vennero subito incinte; ma fu mala gravidanza la
loro, tante ne disse loro la Sapia Liccarda; sicché, mentre esse
gonfiavano di giorno in giorno, quella sgonfiava d’ora in ora,
concludendo sempre che la pancia di ramarro3 doveva portare
loro guerra e rovina, e, quando il padre tornava, si sarebbero
1
Diminutivi di «Francesco» «Orazio» e «Salvatore».
2
L’immagine è presa dai baroni che venivano a corte a gareggiare di pom-
pe e sfoggi, e più particolarmente da quelli di essi che, a un certo punto,
per non rovinarsi affatto, si ritraevano dalla gara e tornavano a far vita par-
simoniosa nei loro feudi.
3
Per analogia, trovandosi negli scrittori «occhio di ramarro» per occhio
che civet- teggia e adesca.
234
viste ballare allegramente le pecore.
Intanto il desiderio, che Tore aveva concepito per Sapia
Liccarda, cresceva, in parte per la bellezza di lei, in parte per
averne ricevuto affronto e provato dispetto; e il giovane si
concertò con le sorelle maggiori per farla cadere nella trappo-
la, quando meno vi avrebbe pensato, e quelle presero impegno
di ridurla a tale che sarebbe andata a trovarlo nella casa sua
stessa. Onde, un giorno, chiamata Sapia, le dissero: «Sorella
nostra, il fatto è fatto: se i consigli si pagassero o costerebbero
più caro o sarebbero più stimati; se noi t’intendevamo dirit-
tamente, certo non avremmo afflosciato l’onore della casa e
tesa la pancia, come tu vedi. Ma quale rimedio a questo? Il
coltello è penetrato fino al manico, le cose (sono passate trop-
po innanzi, è fatto il becco all’oca. Perciò non possiamo cre-
dere che il tuo sdegno si spinga all’eccesso e ci voglia vedere
fuori di questo mondo; e pensiamo che, se non per noi, alme-
no per queste povere creature che portiamo nel ventre, ti mo-
verai a compassione del nostro stato».
«Sa il Cielo — rispose Sapia Liccarda — quanto mi
pianga il cuore per l’errore che avete commesso, pensando al-
la vergogna presente e alla pena che vi aspetta, quando tornerà
nostro padre e troverà tale offesa alla casa sua; e darei un dito
della mano perché questo brutto negozio non fosse accaduto.
Ma, poiché il diavolo vi ha tolto il lume dagli occhi, dite voi
che cosa posso fare, purché ci sia l’onor mio; giacché il san-
gue non è acqua1, e, all’ultimo degli ultimi, mi tira la carne, e
la pietà del caso vostro mi è pungolo, e metterei la mia vita
stessa per rimediare a quanto è accaduto».
Le sorelle la lasciarono parlare e poi le dissero: «Noi non
desideriamo altro segno dell’affezione tua se non che ci pro-
curi un po’ di pane di quello che mangia il re, perché ce n’è
venuta tanta voglia, che, se non ci leviamo questo desiderio,
c’è rischio che i bambini ci nascano con un pane sulla punta
del naso. Perciò, se sei cristiana, domani mattina facci questo
piacere: ti caleremo dalla finestra per la quale salirono i figli
1
Testo: «non se po fare lattenatte»; letteralmente, fior di latte.
235
del re, e ti vestiremo da pezzente, e non sarai conosciuta».
Sapia Liccarda, compassionevole pei poveri bambini che
dovevano venire al mondo, ravvoltasi in una veste tutta cen-
ciosa e postasi un pettine da lino ad armacollo, quando il Sole
alza trofei di luce per la vittoria guadagnata contro la Notte, si
recò al palazzo del re a pitoccare un tozzo di pane; e, mentre,
ottenuta la limosina, si moveva per andar via, Tore, che era
istrutto nella malizia dell’appuntamento, subito le fu sopra.
Ma, nel darle di mano, Sapia si voltò di schiena, e lo fece dare
nel pettine; sicché egli si graffiò assai bene e rimase per un
paio di giorni con la mano malconcia.
Avuto il pane le sorelle e cresciuta la fame al misero To-
re, quelle tornarono a confabulare, e, dopo due giorni, presero
di nuovo a sollecitar Sapia, dicendo ch’era loro venuta voglia
di due pere del giardino del re; e Sapia si mise addosso
un’altra veste e andò nel giardino. Qui trovò Tore che subito
riconobbe la pezzente e, udito che chiedeva le pere, volle di
persona salire su un albero, spiccò una coppia di pere e le git-
tò in grembo a Sapia. Ma, quando fece per scendere e afferrar-
la, quella pronta levò la scala e lo lasciò su tra il fogliame, a
gridare alle gazze1. Che, se non giungeva per caso un giardi-
niere a cogliere due lattughe inconocchiate 2, il quale lo aiutò
a discendere, esso restava là tutta la notte: per la qual cosa si
morse le mani e minacciò di fare gran risentimento.
Ora, come volle il Cielo, le sorelle diedero alla luce due
bei bambinelli; e dissero a Sapia: «Noi siamo rovinate affatto,
cara sorella nostra, se tu non ti risolvi ad aiutarci, perché poco
può tardare e tornerà il messere nostro, e, trovando questo cat-
tivo servizio alla casa, ci governerà in modo che il maggior
pezzo sarà l’orecchio. Perciò, va giù, e noi ti porgeremo in un
canestro questi due piccolini, e tu portali ai padri loro, ché ne
abbiano cura».
Sapia Liccarda, ch’era tutta amorevole, quantunque le
sapesse duro di dover sopportare questo travaglio per
l’asineria delle sorelle, si lasciò persuadere a scendere in i-
1
A servir da spauracchio agli uccelli.
2
Lattuga romana o lattugona, com’anche è detta.
236
strada; e, fattisi calare i bambini, li portò alle camere dei loro
genitori, che non v’erano, e li collocò ciascuno nel letto di
ciascuno, secondo che si era destramente informata. Entrata
poi nella camera di Tore, mise sotto le tende del letto una
grossa pietra; e se ne tornò a casa. E quando i principi rientra-
rono nelle loro camere e trovarono quei bei figlioletti coi no-
mi dei padri scritti sopra un cartellino e cuciti al petto, prova-
rono gioia grande; e Tore, indispettito e amareggiato, perché
lui solo non era stato degno di fare razza, nel buttarsi sul suo
letto, dié col cocuzzolo sulla pietra cosi fortemente che si fece
un grosso bernoccolo.
In questo tempo tornò il mercante dal viaggio, e subito
volle vedere gli anelli delle figlie, e, trovando quell delle due
maggiori tutto macchiati, fece un chiasso del diavolo; e già
voleva metter mano ai ferri e tormentarle e bastonarle per
scoprire la verità, quando i figli del re si presentarono a lui e
gli chiesero le tre figlie in moglie. Rimase il brav’uomo sba-
lordito e sulle prime credette che lo beffassero. Ma, saputo poi
della pratica passata tra loro e dei figli che n’erano stati il frut-
to, si tenne fortunato; e si appuntarono le nozze per quella se-
ra stessa.
Sapia, che si passava la mano sullo stomaco e ripensava
ai dispetti che aveva fatti a Tore, quantunque si sentisse ri-
chiedere al padre con tanta insistenza, nondimeno immaginò
che non ogni erba è menta, e che il mantello non era senza pe-
li. Provvide dunque, a lavorare subito una bella statua di pasta
di zucchero e, collocatala in una grande cesta, la coperse con
certi vestiti. La sera, tra le feste e i balli, mise innanzi il prete-
sto che le era venuto un soprassalto al cuore, e si ritirò per
prima in camera da letto, dove si fece portare la cesta per can-
giare (essa disse) i vestiti. Rimasta sola, tolse dalla cesta la
statua, la coricò e compose tra le lenzuola; e poi si appostò
dietro le cortine, aspettando l’esito del negozio.
Giunta l’ora che gli sposi andassero a letto, Tore, acco-
statosi al suo letto e credendo che Sapia vi fosse coricata, le
disse: «Ora mi pagherai, cagna crudele, i disgusti, che mi hai
dati; ora vedrai quel che sia a un grillo competere con un ele-
237
fante; ora, una volta le sconterà per tutte; e ti voglio ricordare
il pettine di lino, la scala tolta di sotto l’albero, e tutti gli altri
sfregi ", che m’hai fatti!». Nel cosi dire, mise mano a un pu-
gnale e la passò da banda a banda; e, non soddisfatto, aggiun-
se: «E ora mi voglio succhiare anche il sangue!»; e, sconficca-
to il pugnale dal petto della statua e leccatolo, senti il dolce e
il profumo del muschio, di cui la statua era cosparsa. E,
nell’atto stesso, si penti di avere trafitto e ammazzato una
giovinetta cosi inzuccherata e odorosa; e cominciò a lamen-
tarsi della sua furia, dicendo parole da intenerire i sassi, chia-
mando di fiele il suo cuore, di tossico il ferro, che avevano
potuto offendere una cosa tanto dolce e soave. E, dopo lunghi
gemiti, tirato dalla cavezza della disperazione, alzò la mano
con lo stesso pugnale per trafiggersi. Ma Sapia fu presta a
balzare dal luogo dove stava, e ritenergli la mano, dicendo:
«Ferma, Tore! Abbassa queste mani! Ecco un pezzo di quella
che tu piangi; eccomi sana e viva per vederti vivo e verde.
Non mi tenere per ostinata, per un cuoio di montone, se t’ho
maltrattato e fatto qualche dispiacere: ch’è stato solamente per
esperimento e scandaglio della costanza e della fede tua; e
quest’ultimo inganno l’ho posto in opera per dare riparo alle
furie di un cuore sdegnato». E così gli domandava perdono di
tutto quanto era passato.
Lo sposo l’abbracciò con grande affetto, e se la fece cori-
care a lato e si rappaciarono; e a lui, dopo tanti travagli, seppe
più dolce il gusto, e stimò assai più quel po’ di ritrosia della
moglie che non la tanta facilità delle cognate, perché, come
disse quel poeta:
Né nuda Citerea,
né Cinzia ammantellata:
la via di mezzo sempre fu pregiata.
238
LO SCARAFAGGIO, IL TOPO E IL GRILLO
241
aperta a contemplare i dainetti1, gli atteggiamenti, le capriole,
le puntate e le corse di quest’animale, ed ebbe a strasecolare;
e, infine, domandò alla fata se glielo vendeva, ché le avrebbe
dato cento ducati. La fata accettò la proposta, e, presi i pezzi
d’argento, gli consegnò il topo in una scatola; e Nardiello,
tornato a casa, mostrò la bella compra al disgraziato Miccone,
che fece cose d’inferno, sbattendosi come un polpo colpito,
sbuffando come un cavallo capriccioso; e, se non era per un
compare che si trovò presente allo scontro, gli avrebbe preso
bene la misura della gobba. In ultimo, il padre, che era arrab-
biato sul serio, gli consegnò altri cento ducati e gli disse:
«Avverti a non farne più delle tue, ché la terza volta non te la
cavi. Va’, dunque, a Salerno, e compra le giovenche, ché, per
l’anima dei morti miei, se tu la sbagli, povera la mamma che
ti ha messo al mondo!».
Nardiello, con la testa bassa, s’avviò alla volta di Saler-
no, e, pervenuto al luogo solito, trovò una terza fata, che si di-
vertiva con un grillo, il quale cantava cosi dolcemente che fa-
ceva addormentare la gente. All’ascoltare la nuova sorta
d’usignuolo, egli ebbe subito voglia di stringere mercato, e,
accordatisi per cento ducati, se lo mise in una gabbietta for-
mata di una zucca lunga vuotata e coperta di fuscelli, e se ne
tornò al padre. Il quale, quando vide questo terzo cattivo ser-
vizio, usci dai gangheri affatto, dié di mano a un randello e lo
conciò meglio di come avrebbe fatto Rodomonte.
Quando potè sguizzargli dalle branche, Nardiello prese le
tre bestiole e sfrattò dal paese, trottando alla volta di Lombar-
dia. Era colà un gran re, chiamato Cenzone, che aveva una fi-
glia unica, chiamata Milla, la quale, per una certa infermità,
era caduta in tanta malinconia, che per lo spazio di sette anni
continui non si era più veduta ridere. Disperato il padre, dopo
avere provato mille rimedi e speso il cotto e il crudo, fece git-
tare un bando che l’avrebbe data per moglie a chi avesse sapu-
to moverla a riso. E Nardiello, che udì questo bando, ebbe ca-
priccio di tentare la sua sorte, e, andato innanzi a Cenzone,
242
s’offerse di farla ridere. Quel signore gli disse: «Sta’ in cer-
vello, camerata, ché, se poi la cosa non ti riesce, ci andrà di
mezzo la forma del tuo cappuccio»1. «Vada la forma e la
scarpa — replicò Nardiello — ché io mi ci voglio provare, ac-
cada quel che voglia accadere».
Il re fece chiamare la figlia e, sedutisi entrambi sotto un
baldacchino, Nardiello cavò dalla scatola i tre animaletti, che
suonarono, ballarono e cantarono con tanta grazia e con tanti
vezzi che la principessa scoppiò a ridere. Ma pianse il re den-
tro il suo cuore, perché, in virtù del bando, si vedeva costretto
a dare il gioiello delle femmine a colui ch’era la feccia degli
uomini. Tuttavia, non potendo tirarsi indietro dalla promessa,
disse a Nardiello: «Io ti do mia figlia e lo stato per dote, ma
col patto, che se tu, fra tre giorni, non consumi il matrimonio,
io ti fo divorare dai leoni». «Non ho paura — disse Nardiello,
— ché in tre giorni son uomo da consumare il matrimonio, tua
figlia e tutta la casa tua. Adagio, ché andremo, come disse
Carcariello, alla prova si conoscono i cocomeri»2.
Celebrata la festa nuziale e venuta la sera, quando il Sole
è portato come mariuolo con la cappa sul capo alle carceri
dell’occidente, gli sposi andarono a letto. Ma il re maliziosa-
mente fece dar l’oppio a Nardiello, sicché egli russò tutta la
notte. Cosi fu gittato nel serraglio dei leoni.
In questo luogo Nardiello, vedendosi agli estremi, apri la
scatola degli animali, dicendo: «Poiché la sorte mia mi ha tra-
scinato con un triste carro a questo doloroso passo, non po-
tendo non lasciarvi, o belli animali miei, io vi fo franchi, af-
finché possiate andare dove vi pare e piace».
Gli animali, appena liberati, cominciarono a eseguire tan-
te bagattelle e giocherelli, che i leoni rimasero come statue. E
a Nardiello, che era già con lo spirito ai denti, il topo parlò
cosi: «Allegramente, padrone, che, sebbene tu ci abbi data la
libertà, noi ti vogliamo essere più schiavi che mai, perché ci
hai cibati con tanto amore e conservati con tanta affezione, e
1
Cioè, la testa.
2
I cocomeri si vendono «con la prova», cioè con un taglio sulla buccia,
per accertare che siano ben rossi e saporosi.
243
in ultimo ci hai dato segno di tanta tenerezza con l’affrancarci.
Non dubitare: chi bene fa, bene aspetta; fa’ bene e scordatene.
Ma sappi che noi siamo fatati; e, per mostrarti fino a qual gra-
do possiamo e valiamo, vienici dietro, ché esci da questo peri-
colo».
E, avviandosi Nardiello dietro di lui, il topo fece subito
un pertugio, grande che potesse passarvi un uomo, per il qua-
le, con una salita a scalini, lo condussero sopra in salvo. Di là
lo menarono a un pagliaio, dove gli dissero che comandasse
loro tutto quello che desiderava, perché non avrebbero lascia-
to cosa alcuna per dargli gusto. «Il mio gusto sarebbe — ri-
spose Nardiello — che, se il re ha dato un altro marito a Mil-
la, mi faceste il gran piacere di non far consumare il matrimo-
nio, perché sarebbe come consumare questa mia sventurata
vita». «Questo e niente è tutt’uno — risposero gli animali; —
sta’ di buon animo e aspettaci in questa capanna, ché ora trar-
remo fuori il fracido».
Andarono, dunque, alla corte, e là trovarono che il re a-
veva maritato la figlia a un gran signore tedesco, e che quella
sera stessa si manometteva la botte. Gli animali penetrarono
destramente nella camera degli sposi e attesero che, terminato
il banchetto, quando la Luna esce a pascere di rugiada le gal-
linelle1, essi venissero a coricarsi. E poiché lo sposo aveva ca-
ricato la balestra e preso carta soverchia2, appena si ficcò sotto
le lenzuola, si addormentò e parve che giacesse scannato. Lo
scarafaggio, che senti il russare dello sposo, se ne sali pian pi-
ano pel lembo del padiglione e s’introdusse lesto nell’ano del-
lo sposo, servendogli da supposta in tal forma, e sturandogli
in tal maniera il corpo, che potè dire col Petrarca:
d’amor trasse indi un liquido sottile3.
La sposa, che intese lo strepito di tale dissenteria,
l’aura, l’odore, il refrigerio e l’ombra4“,
1
Le Pleiadi.
2
Una delle tante immagini per significare «ubbriacarsi»: come lo sposo
non aveva mancato di fare, da buon tedesco.
3
Son. CLII (I, 133). Nel Petrarca: «tragge».
4
Son. CCLXXXIII (n, 55).
244
svegliò il marito, che visto con quale profumo aveva dato in-
censo all’idolo suo, ebbe a morir di vergogna e a scoppiare di
collera. E, levatosi dal letto e fatto un bucato a tutta la persona
mandò a chiamare i medici, che attribuirono la causa di tale
disgrazia al disordine commesso nel banchetto.
La sera dopo, si consigliò coi suoi camerieri, che furono
tutti di parere che, per rimediare a qualche nuovo inconve-
niente, s’imbragasse di buoni panni; e, ciò eseguito, s’andò a
coricare e di nuovo s’addormentò subito. Lo scarafaggio, che
si rimise al lavoro per fargli il secondo dispetto, questa volta
trovò serrati i passi; onde, malcontento, ritornò ai compagni,
informandoli che lo sposo s’era fatto riparo di bende, argine
di falde e trincee di stracci. Il topo, ciò udito, gli disse: «Vieni
con me, e vedrai se sono buon guastatore a farti la spianata».
E, giunto sulla faccia del luogo, cominciò a rosicchiare i panni
e a lavorare un buco a livello dell’altro, per dove, entrando lo
scarafaggio, gli somministrò un’altra cura medicinale, di ma-
niera che colui fece un mare di liquido topazio e gli arabici
fumi infettarono il palazzo. Si svegliò l’ammorbata sposa, e,
visto al lume della lampada il diluvio cedrino, che aveva can-
giato le lenzuola di Olanda in tabì di Venezia giallo ondato,
turandosi il naso, fuggi alla camera delle donzelle. E il misero
sposo, chiamando i camerieri, recitò una lunga lamentazione
della disgrazia sua, che con cosi lubrico fondamento aveva
cominciato a costruire le grandezze della sua casa. I familiari
lo confortarono, consigliandogli di stare bene attento la terza
notte e gli narrarono l’aneddoto del malato sparacoreggie e
del medico mordace, che, lasciandosi il malato sfuggire uno
sparo, gli disse, favellando da letterato: Sanitatibus; e, se-
guendone un altro, replicò: Ventositatibus; ma, continuando
con un terzo sparo, quegli spalancò grande la bocca, e disse:
Asinìtatibus. Perciò, se il primo lavoro di musaico, fatto nel
letto nuziale, era stato attribuito al disordine del mangiare, il
secondo al cattivo stato dello stomaco, pel quale gli si era
sommosso il corpo, il terzo sarebbe stato imputato a natura
cacaiola, ed egli sarebbe scacciato a puzzo e a vergogna.
«Non dubitate — disse lo sposo, — ché questa notte, dovessi
245
crepare, voglio star sempre vigile, non lasciandomi vincere
dal sonno; e, oltre di ciò, penseremo al rimedio che si può u-
sare per otturare il condotto maestro, affinché non mi si dica:
Tre volte cadde ed alla terza giacque!»1.
Con tale appuntamento, quando si fu alla terza notte,
cangiati camera e letto, lo sposo chiamò i camerieri, doman-
dando loro consiglio circa l’otturamento del corpo, che non
gli facesse la terza burla: perché, quanto allo stare sveglio,
non lo avrebbero addormentato tutti i papaveri che sono al
mondo. Era tra quei servitori un giovane che si dilettava
dell’arte del bombardiere; e, poiché ognuno tratta del mestiere
proprio, consigliò allo sposo di mettersi un tappo di legno
come si usa ai mortaretti. Fu foggiato l’oggetto e adattato sal-
do come andava; e lo sposo si coricò, non osando toccar la
sposa, per timore, in quello sforzo, di guastare l’invenzione, e
non chiuse occhio per tenersi pronto a ogni movimento dello
stomaco.
Lo scarafaggio, che non vedeva addormentarsi lo sposo,
disse ai compagni: «Oimè, questa è la volta che resteremo
scornati, e l’arte nostra non ci varrà a nulla: lo sposo non
dorme e non mi dà modo di continuare l’impresa». «Aspetta
— disse il grillo, — ché ora ti servo». E, prendendo a cantare
dolcemente, fece addormentare lo sposo. Corse allora lo sca-
rafaggio per praticare la solita siringa; ma, trovata chiusa la
porta e sbarrata la strada, tornò disperato e confuso ai compa-
gni, riferendo quel che gli era incontrato. Il topo, che non a-
veva altro fine che di favorire e contentare Nardiello, imme-
diatamente andò alla dispensa, e, odorando di vaso in vaso,
s’imbattette in un alberello di mostarda di senapa: vi stropic-
ciò la coda e, tornato di corsa, ne unse le narici dello sciagura-
to tedesco. Subito questi prese a starnutire, e cosi forte fu uno
starnuto che il tappo scattò via con violenza, e, trovandosi lo
sposo con la schiena rivolta alla sposa, la colpi in mezzo al
petto cosi furiosamente che l’ebbe ad ammazzare.
Alle strida della figliuola accorse il re, domandando che
1
È del Caro, nella traduzione dell 'Eneide, IV, 1 0 6 1 , e parafrasa il
«ter revoluta toro est» di Virgilio.
246
cosa fosse successo; ed essa disse che le era stato sparato un
petardo al petto. Si maravigliò il re di questa sciocchezza
marchiana, che con un petardo nel petto essa potesse parlare;
e, alzate le coperte e le lenzuola, trovò il getto di crusca e il
tappo del mortaretto, che aveva fatto un buon livido alla spo-
sa: sebbene non si possa dire che cosa le recasse maggior
danno, se il puzzo della polvere o il colpo della palla.
Il re, veduto il sudiciume e appreso che era la terza liqui-
dazione di strumento, da colui a quel modo eseguita, lo scac-
ciò dal territorio del suo regno; e, considerando che tutto que-
sto gli era accaduto per la crudeltà usata al povero Nardiello,
se ne dava pugni al petto. Ma, mentre, pentito del male che
aveva commesso, spargeva il suo lamento, gli si fece innanzi
lo scarafaggio e gli disse: «Non vi disperate, perché Nardiello
è vivo, e, per le sue buone qualità, merita di essere genero di
vostra magnificenza; e, se vi contentate che venga, lo mande-
remo a chiamare». «Oh sii il benvenuto per questa buona no-
vella che mi porti, bello animale mio! Tu mi hai dato la vita;
tu mi hai levato da un mare di affanni, perché mi sentivo un
rimorso al cuore pel torto fatto a quel povero giovane. Fam-
melo venire, ché voglio abbracciarlo come figlio e dargli mia
figlia per moglie».
Udito questo, il grillo saltellon saltellone andò alla ca-
panna ove si tratteneva Nardiello, e, raccontatogli tutto
l’accaduto, lo condusse al palazzo reale, dove fu incontrato e
baciato dal re, ed ebbe Milla per moglie. Nel tempo stesso,
per la fatagione che gli dettero quegli animali, diventò un bel
giovane; e, mandato a chiamare il padre dal Vomero, rimasero
insieme felici e contenti, provando, dopo mille stenti e mille
affanni, che
accade più in un’ora che in cent’anni.
247
248
BELLUCCIA
1
Testo: «Renzullo», che poi è divenuto sempre «Narduccio».
249
quattro maschi e tre femmine». «Se è cosi, — replicò Biasillo,
— mandami uno di cotesti figli tuoi a tener conversazione con
mio figlio, ché mi farai un piacere grande».
Ambruoso, che si vide preso in parola non seppe che co-
sa rispondere e si restrinse ad acconsentire con un cenno del
capo. Ma, tornato alla Barra, entrò in una malinconia da mori-
re, non scorgendo modo di adempiere all’impegno preso con
l’amico. In ultimo, chiamando una per una le figliuole, a co-
minciare dalla più grande scendendo alla più piccola, doman-
dò quale di loro si sarebbe contentata di tagliarsi i capelli, ve-
stirsi da uomo e fingersi maschio per tenere conversazione col
figlio di Biasillo, che stava ammalato.
Subito la figlia più grande, Annuccia, rispose: «O che
forse m’è morto il padre, che debbo tagliarmi le trecce?».
E Nora, la seconda: «Ancora non mi sono maritata, e già
mi vuoi vedere vedova rasa?».
E la terza, Sapatina: «Ho sempre udito dire che le donne
non debbono portar brache».
E Rosa, la quarta: «Marragnao! non mi ci peschi! Tu vai
in cerca di quel che gli speziali non hanno in bottega per trat-
tenimento di un malato».
La quinta, Cianna: «Di’ a cotesto malato che si metta una
supposta e si salassi, ché io non darei un capello dei miei per
cento fili della vita di un uomo».
La sesta, Leila: «Io sono nata femmina, vivo da femmina,
e non voglio, col travestirmi in uomo falso, perdere il nome di
buona femmina».
Ma l’ultima covacenere", che era Belluccia, vedendo che
il padre a ogni risposta delle sorelle gettava un dolente sospi-
ro, gli disse: «Se per renderti servigio non basta che io mi ma-
scheri da uomo, mi cambierò anche in animale, e voglio farmi
tra le due dita come un pizzico, pur di darti piacere».
«Oh, sii benedetta! — disse Ambruoso: — tu mi rendi la
vita in cambio del sangue che t’ho dato. Orsù, non perdiamo
tempo: al tornio si foggiano le trottole». — Cosi, tagliati quei
capelli, che erano funicelle dorate degli sbirri di amore, e pro-
cacciatole un abituccio strappato da uomo, la menò a Resina,
250
dove fu ricevuta da Biasillo e dal figlio, che giaceva a letto,
con le maggiori carezze del mondo.
Partito Ambruoso, Belluccia rimase a servire il malato, il
quale, vedendo tralucere da quegli stracci una bellezza da far
girare la testa, e mirandola e rimirandola e squadrandola tutta,
disse tra se stesso: «Se io non ho le traveggole agli occhi,
questa conviene che sia donna: la delicatezza del volto
l’accusa, il parlare lo conferma, il modo di camminare
l’attesta, il cuore me lo dice, Amore me lo rivela. E donna,
senz’altro; e sarà venuta con questo stratagemma dell’abito
maschile a tendere un’imboscata al mio cuore».
Profondandosi tutto in siffatto pensiero, la malinconia
crebbe tanto che gli aggravò la febbre e i medici lo ritrovaro-
no in tristi condizioni. Onde la madre, che ardeva d’amore per
lui, prese a dirgli: «Figlio mio, lanterna di questi occhi, gruc-
cia e molle1 della vecchiezza mia, che vuol dir questo che, in-
vece di riprendere forza, scàpiti in salute? E possibile che vo-
glia tenere sconsolata la povera mamma tua, senza dirle la
causa del tuo male perché possa apportarvi rimedio? Dunque,
gioiello mio, parla, apriti, sfoga, svapora, dimmi netto che co-
sa ti bisogna, quello che tu desideri; e lascia fare a Cola, che
non mancherò di darti tutti i gusti del mondo».
Narduccio, incoraggiato da queste buone parole, si lasciò
andare a effondere la passione dell’animo suo, dicendo come
teneva per certo che quel figlio d'Ambruoso fosse una donna,
e che, se non gli era data in moglie, era proprio risoluto a
troncare il corso della sua vita.
«Piano! — disse la mamma — ché, per dar pace al tuo
cervello, vogliamo fare qualche prova per iscoprire se è fem-
mina o maschio, se è campagna rasa o arbustata2. Facciamolo
scendere alla stalla e cavalcare qualche poliedro di quelli che
sono colà, il più selvaggio, perché, se sarà femmina, le fem-
mine sono di poco spirito e la vedremo filare sottile3, e subito
1
Testo: «molletta». Le molle per attizzare il fuoco e meglio riscaldarsi.
2
Alberata. Serbo la parola nella forma che è d’uso nella terminologia a-
gronomica meridionale.
251
avremo fatto scandaglio di cotesti pesi».
Piacque al figlio il pensiero e fece andar giù Beliuccia al-
la stalla, dove le consegnarono una mala bestia di poliedro.
Ma essa, insellatolo e saltatavi sopra, con un coraggio da leo-
ne, cominciò a fare passeggi da stupire, bisce da stordire, ruo-
te da maravigliare, salti da mandare in estasi, corvette
dell’altro mondo, carriere da uscir dai panni. E la madre disse
a Narduccio: «Togliti, figlio mio, cotesta frenesia dal capo!
Prova: vedi questo giovane più saldo a cavallo che non il più
vecchio consuma-selle di Porta Reale».
Non per questo Narduccio si tolse quel pensiero, ma per-
sistè a dire che quella, a ogni modo, era donna, e non
gliel’avrebbe levato di testa neppure Scannarebecco1. La ma-
dre, per calmare l’agitazione in cui lo vedeva, gli disse: «A-
dagio a’ mali passi! Passeremo alla seconda prova per chiarir-
ti». E, fatto venire uno schioppo, chiamarono Belluccia, e le
dissero di caricarlo e spararlo. Quella, togliendo in mano
l’arma, mise la polvere di archibugio nella canna dello
schioppo, e la polvere di zanni nel corpo di Narduccio; mise
la miccia alla serpentina e il fuoco al cuore dell’infermo; e,
scaricando il colpo, caricò il petto dello sventurato di desideri
amorosi.
La madre, che vide la grazia, la destrezza, l’attillatura
con cui quel giovane aveva sparato, disse a Narduccio: «Leva-
ti da quest’angoscia, e considera che una donna non può far
tanto». Ma Narduccio, litigando sempre, non si poteva dar pa-
ce e avrebbe messo pegno la vita che quella bella rosa era pri-
va di bottone, e diceva alla mamma: «Credimi, mamma mia,
che, se quel bell’albero della grazia d’amore darà solo un fico
a questo malato, il malato farà le fiche al medico. Perciò, ve-
diamo di venire con ogni mezzo, alla certezza; altrimenti, io
me ne andrò a distruzione, e, per non trovare la strada di una
fossa, me ne scenderò in un fosso».
La misera madre, che lo vide più che mai ostinato punta-
re i piedi e seguitare a battere con la lingua, gli disse: «Te ne
1
Skanderbeg
252
vuoi chiarire meglio? Menalo con te a nuotare; e qui si vedrà
se è Arco Felice o intruglio di Baia, se è Piazza Larga o For-
cella, se è Circo massimo o Colonna Traiana». «Bravo! — ri-
spose Narduccio: — non c’ è che dire; hai còlto nella punta.
Oggi si vedrà se è spiedo o padella, matterello o crivello, fu-
solo o bossolo»1.
Belluccia, che odorò la faccenda, andò a chiamar subito
un garzone del padre, che era assai furbo e astuto, al quale die
l’istruzione che, come la vedesse alla marina sul punto di sve-
stirsi, accorrendo le portasse la notizia, che il padre suo stava
gravemente ammalato e voleva rivederla prima che la trottola
della vita gli si arrestasse. Ciò fu eseguito puntualmente; ed
erano appena Narduccio e Belluccia giunti alla spiaggia e da-
vano mano a svestirsi, quando il garzone sopravvenne e fece
l’imbasciata, servendola del primo taglio. E Beliuccia, udito
quell’annunzio, chiese licenza a Narduccio e si avviò verso
Barra2.
Il malato tornò alla madre con la testa bassa, gli occhi
stravolti, il colore gialliccio e le labbra smorte, e le disse che
la cosa era andata contr’acqua, e, per la disgrazia accaduta,
non si era potuta fare l’ultima prova. «Non disperarti — ri-
spose la mamma, —ché bisogna prendere la lepre col carro2.
Andrai, dunque, per le corte alla casa d’Ambruoso, e, chia-
mando il figlio, secondo che scenderà presto o tarderà, ti av-
vedrai dell’insidia e scoprirai l’intrigo».
A queste parole, le guance di Narduccio, che s’erano im-
biancate, tornarono a colorirsi di rosso; e la mattina seguente,
quando il Sole mette mano ai raggi e scaccia con alterigia le
stelle, andò difilato alla casa d’Ambruoso, e, chiamato costui,
gli disse che gli bisognava parlare di cose importanti al figlio.
Ambruoso si vide a mal partito; tuttavia, rispose che aspettas-
se un momento, ché l’avrebbe fatto scendere subito. E intanto
1
Testo: «vosseta», coppa di legno, nel cui mezzo gira la coda di una
bacchettina di ferro con coperchio di legno, a uso d’incannare la seta.
2
Cioè, condurre le cose con ponderazione e (lemma. Risponde al latino:
«bove leporem venari» e si dice anche in italiano.
253
Belluccia, per non essere trovata col delitto in genere1 si spo-
gliò gonnella e corpetto, si mise il vestito da uomo, e si preci-
pitò per le scale; ma fu tanta la fretta, che dimenticò di levarsi
gli anelletti dalle orecchie.
Narduccio corse subito con lo sguardo a quegli anelletti,
e, come dalle orecchie dell’asino si conosce il cattivo tempo,
cosi egli dalle orecchie di Beliuccia ebbe indizio della serenità
che tanto desiderava. Onde l’afferrò forte, come cane corso, e
le disse: «Voglio che tu mi sii moglie, a dispetto dell’invidia,
a dispetto della fortuna, a dispetto anche della morte!».
Ambruoso, che udì questo buon volere, rispose: «Pur che
tuo padre sia contento, esso con una mano ed io con cento!».
E cosi tutti d’accordo andarono alla casa di Biasillo, dove
madre e padre, a vedere il figlio sano e contento, accolsero
con piacere fuor dell’ordinario la nuora. E, volendo sapere da
Ambruoso per quale ragione avesse fatto coteste gherminelle
di mandarla vestita da uomo, e appreso che era stato per rite-
gno di confessare che aveva messo al mondo sette figlie fem-
mine, Biasillo disse: «Poiché il Cielo ha dato a te tante figlie
femmine e a me altrettanti maschi, affé, vogliamo fare un vi-
aggio e sette servizi. Va’, conducile tutte in questa casa, e io
le voglio dotare, ché, grazie al Cielo, ho agresta 2 che basta per
tanta fragaglia»3.
Ambruoso, a queste parole, si mise l’ali per andar a pren-
dere le altre figlie e menarle a casa di Biasillo, dove si fece
una festa con sette sposalizi, e le musiche e i suoni andarono
fino al settimo cielo; e, restando tutti allegramente, si vide
chiaro che
non tardarono mai grazie divine.
1
Ora si direbbe, in linguaggio forense, «con la generica del delitto».
2
Salsa per condire il pesce.
3
Mescolanza di minuti pesciolini di vario genere.
254
TRATTENIMENTO SETTIMO
CORVETTO
1
Note maschere della commedia dell’arte.
255
Corvetto, il quale a danaro contante di buone azioni si compe-
rava la grazia del signore. Le aure dei favori, che gli largiva il
re, erano scirocco all’ernia di quegli schiattanti d’invidia; tal-
ché non facevano altro, per tutti i cantoni del palazzo e a tutte
le ore, che mormorare, susurrare, bisbigliare, brontolare, bor-
bottare e sforbiciare addosso a questo pover’uomo, dicendo:
«Quale fattucchieria ha gettata sul re quest’animalone, da farsi
cosi ben volere? Quale fortuna la sua, che non passa giorno
che non abbia qualche aggiunta di favori? E noi sempre an-
diamo indietro, come coloro che tirano la fune, e sempre sca-
pitiamo di condizione! Eppure serviamo come cani; eppure
sudiamo come zappatori e corriamo come daini per imbrocca-
re a perfezione il gusto del re. Veramente bisogna nascere for-
tunati a questo mondo, e chi non ha ventura si gitti a mare: in
ultimo, gli tocca vedere e crepare».
Queste e altre parole uscivano dall’arco della bocca loro,
ed erano frecce avvelenate, che andavano al bersaglio della
rovina di Corvetto. Oh misero chi è condannato all’inferno
della corte, dove le lusinghe si vendono a quadretti1 e i mali
uffici si misurano a tomoli e i tradimenti si pesano a cantari!
Ma chi può dire la quantità di bucce di cocomero, che gli po-
sero sotto i piedi per farlo sdrucciolare?2 Chi può descrivere il
sapone della falsità, che spanderono sulla scala delle orecchie
del re, affinché il povero giovane capitombolasse e si rompes-
se la nuca del collo? Chi può narrare le fosse d’inganni, sca-
vate dentro il cervello del padrone, coperte dalle frasche di
buon zelo, perché quegli vi precipitasse al fondo?
Ma Corvetto era fatato, e vedeva i tranelli e scopriva i
trabocchetti, e conosceva le matasse, e s’accorgeva
degl’imbrogli, delle insidie, delle trappole, delle tagliuole,
delle trame e delle furfanterie degli avversari; e stava sempre
con gli orecchi tesi e con gli occhi aperti per non smarrire il
filo, sapendo che la fortuna dei cortigiani è di vetro. Pure,
quanto più continuava questo giovane a salire, tanto maggiore
1
Nella forma in cui si esponeva la frutta in vendita
2
Come accadeva, e accade, per le vie di Napoli durante l’estate.
256
era la discesa di malumore1 negli altri, che, non sapendo in ul-
timo con qual mezzo levarselo dai piedi, dacché le maldicenze
intorno a lui non acquistavano fede, pensarono di condurlo
per la strada delle lodi a un precipizio e spinger- velo giù (arte
inventata a casa calda2 e perfezionata nella corte); e questo
tentarono nel modo che ora dirò.
Stava a dieci miglia dalla Scozia, che era la sede di que-
sto re, un orco, il più bestiale e selvatico che fosse mai
nell’orcheria. Perseguitato dal re, costui si era fortificato in un
bosco avviluppato sopra una montagna, che non vi volavano
nemmeno gli uccelli, e tanto intricato che non poteva mai ri-
cevere la visita del Sole. Aveva quest’orco un bellissimo ca-
vallo, che pareva fatto col pennello, e al quale, tra le altre bel-
lezze, non mancava neppure la parola, perché, per fatagione,
parlava come noi altri.
Ora i cortigiani, che sapevano quanto malvagio fosse
quell’orco, quant’aspro il bosco e quanto alto il monte, e
quanto difficile prendere il cavallo, si misero attorno al re,
contandogli minutamente le perfezioni di quest’animale, e che
era cosa degna di re, e perciò doveva procacciare per ogni via
e maniera di toglierlo dalle branche dell’orco; e che da questa
impresa Corvetto sarebbe stato capace di cavar le mani, come
giovane esperto e atto a tirarsi fuori dal fuoco. Il re, che non
sapeva che sotto i fiori di queste parole giaceva il serpente,
fece venire subito a sé Corvetto e gli disse: «Se mi vuoi bene,
vedi d’avere per ogni modo il cavallo dell’orco, mio nemico;
ché ti chiamerai contento e consolato d’avermi reso questo
servigio».
Corvetto, quantunque conoscesse che questo tamburo era
suonato da chi gli voleva male, pure, per obbedire al re,
s’avviò verso la montagna, e, penetrando quatto quatto nella
stalla dell’orco, sellò il cavallo, e, montatovi coi piedi forti
nella staffa, prese la via dell’uscio. Il cavallo, vedendosi spro-
nare fuori del palazzo, gridò: «All’erta, ché Corvetto mi porta
1
* Testo: «lo descenzo e la scesa», propriamente «convulsione e flussio-
ne», bisticcio con «discesa».
2
Inferno
257
via!». Al grido, scese l’orco con tutti gli animali che lo servi-
vano, e di qui vedevi un gatto mammone, di là un orso del
principe1, da questa parte un leone, da quella un lupo, da
quell’altra un lupo mannaro, per ridurlo a brani. Ma il giova-
ne, a forza di buone tirate di briglia, s’allontanò dalla monta-
gna, e, galoppando verso la città, giunse alla corte. Qui, al
presentare ch’egli fece il cavallo, il re lo abbracciò con mag-
giore tenerezza che se gli fosse stato figlio, e, posta la mano a
una borsa, gli empi le palme di patacconi. Fu questa una buo-
na giunta di rabbia al vestito dell’invidia dei cortigiani; e, do-
ve prima si gonfiavano con la cannella, ora crepavano a sof-
fiate di mantici, vedendo che i piccioni, coi quali si pensavano
di sfabbricare la buona sorte di Corvetto, servivano invece a
spianargli la strada per il maggior utile suo.
Tuttavolta, sapendo che non al primo urto di macchina
bellica si rompe la muraglia, vollero tentar la seconda fortuna,
e dissero al re: «Sia con la buon’ora il bel cavallo, che vera-
mente sarà l’onore della stalla reale! Cosi aveste voi il para-
mento dell’orco, che è una cosa che non si può dire: la fama
vostra potrebbe andare per le fiere! E nessun altro può accre-
scere di questa ricchezza il tesoro vostro, se non Corvetto, che
ha una mano fatta apposta per questa sorta di servigi».
Il re, che ballava a ogni suono, e di cotesti frutti, amari
bensì ma inzuccherati, mangiava solo la corteccia, chiamò
Corvetto e lo pregò di fargli avere il paramento dell’orco. E
Corvetto non replicò parola, ma in quattro salti fu alla monta-
gna dell’orco, ed entrato senz’esser visto nella camera in cui
quello dormiva, si nascose sotto il letto ed aspettò accovaccia-
to fin all’ora in cui la Notte, per dar da ridere alle stelle, fa un
libro di carnevale in faccia al Cielo. E, dopo che l’orco e la
moglie si furono coricati, egli staccò zitto zitto il paramento
della camera; e, volendo portarsi via anche la coltre, cominciò
a tirarla dal letto pian piano. Si svegliò l’orco e disse alla mo-
glie che non tirasse tanto perché lo scopriva tutto e gli avreb-
be fatto venire qualche mal di ventre. «Anzi tu scopri me, —
1
V. sopra.
258
rispose l’orca, — ché non mi è rimasto niente addosso». «Do-
ve diamine è andata la coperta?» — replicò l’orco, e, cercan-
do con la mano verso terra, toccò la faccia di Corvetto. «Il
monachetto, il monachetto! — si mise allora a gridare: —
genti, candele, accorrete!». A queste voci, tutta la casa fu sos-
sopra. Ma Corvetto, che aveva gettato i drappi dalla finestra,
si lasciò cadere sopr’essi, e, fattone un bel fardello, trottò alla
volta della città. E non si possono dire le carezze che gli usò il
re, e il dispetto che ne provarono i cortigiani, Ì quali scoppia-
vano dai fianchi.
Con tutto ciò, fecero pensiero di dare addosso a Corvetto
con la retroguardia delle loro bricconerie. Era il re tutto gioio-
so pel piacere di possedere quei paramenti, i quali, oltre ad es-
sere di seta ricamati d’oro, portavano istoriate più di millanta
imprese di vari capricci e pensieri; e, tra gli altri, se mal non
ricordo, un gallo in atto di cantare per l’Alba che sorgeva, con
un motto in toscano: «Sol ch’io ti miri»; e cosi anche un fiore
elitropio afflosciato, con un motto parimente toscano: «Al ca-
der del sole»1; e tanti e tanti altri, che ci vorrebbe assai più
memoria e assai più tempo a contarveli tutti. Avendo, dunque,
i cortigiani trovato il re lieto e giubilante, gli dissero: «Corvet-
to ha fatto tante e cosi belle imprese in vostro servigio, che
non sarebbe un granché se, per farvi un piacere segnalato, vi
facesse avere il palazzo stesso dell’orco, che è degna stanza
d’un imperatore, e, anzi, ha un numero cosi immenso di ca-
mere dentro e fuori, che può starvi un intero esercito, e non
riuscireste a immaginare quanti sono i cortili, i supportici, le
loggette, i gaifi2, le latrine a caracò3 e le ciminiere costruite in
tufo, con tanta architettura, che l’arte vi si picca, la natura ce-
de vinta e lo stupore vi sguazza».
Il re, che aveva cervello prolifico che subito
s’ingravidava, manifestò a Corvetto il desiderio che gli era na-
to del palazzo dell’orco, e che ai tanti gusti che gli aveva dati
1
In questa seconda impresa, allude forse a se stesso, alla sua poca fortuna
e al declinare della sua vita.
56 Pei «gaifi», v. sopra.
57 Con scale a chiocciola: spagn. «caraeoi».
259
facesse quest’aggiunta, che l’avrebbe scritta col carbone
dell’obbligo nell’osteria della memoria. E Corvetto, ch’era
uno zolfanello e taceva cento miglia l’ora, si mise subito le
gambe addosso e pervenne al palazzo dell’orco.
L’orca aveva allora partorito e aveva fatto un
bell’orchicello; e il marito era uscito a convitare i parenti,
mentre la puerpera, levatasi di letto, tutta si affaccendava a
preparare il pranzo. Corvetto, entrato con una faccia da mar-
tello, disse: «Ben trovata, magna femmina! Bella massara
mia, e perché rovinare cosi la tua salute? Ieri hai partorito, e
ora t’affatichi tanto, e non hai compassione delle carni
tue».«Che vuoi ch’io faccia, — rispose l’orca — se non ho
chi mi aiuta?». «Sono qua io — replicò Corvetto — per aiu-
tarti a calci e a morsi». «Sii il benvenuto — disse l’orca; — e,
giacché ti sei offerto con tanta amorevolezza, aiutami a spac-
care quattro pezzi di legna». «Di grazia, — replicò ancora
Corvetto, — se non bastano quattro, siano cinque». E, nel dir
cosi, prese un’accetta affilata di recente e, invece di dare sul
legno, dette sulla nuca dell’orca e la fece cadere a terra come
una pera. Corse poi presto all’entrata della porta, scavò un
fosso profondo e lo ricopri di frasche e di terra, e si mise a
spiare dietro la porta.
E, quando vide venire l’orco coi parenti, gridò dal cortile:
«Testimonianza vostra! 1 Alto là, e viva il re di Fiumelargo!».
L’orco, che senti questa bravata, si lanciò come una folgore
verso Corvetto per farne una salsa; ma, entrando a furia pel
supportico, lui e i parenti dettero tutt’insieme dei piedi nella
fossa e rotolarono al fondo, dove Corvetto, a colpi di pietra,
ne fece una schiacciata. Chiuse poi la porta e ne portò la chia-
ve al re.
Il quale, visto il valore e l’ingegno di questo giovane, a
sfida della fortuna, a dispetto dell’invidia, a crepacuore dei
cortigiani, gli dié la figlia per moglie; sicché a lui le traverse
oppostegli dall’invidia furono falanche2 per varare la barca
della vita sua al mare delle grandezze, e i suoi nemici, confusi
1
Testo: «testimonia vostra, strunzo mmiezo»: per questa formola v. sopra.
2
Pezzi di legno incavati e ingrassati ,usati per il varo di barche
260
e schiattati, furono costretti ad andare al cesso senza candela:
ché la debita pena del mal fare
tarda talvolta, ma non può mancare!
261
262
TRATTENIMENTO OTTAVO
L’IGNORANTE
263
pel Cairo 1. Dopo una buona giornata di cammino, trovò un
tale che stava fermo a piè di un pioppo, e gli domandò: «Co-
me ti chiami, giovane mio? Di dove sei, e quale arte è la
tua?». Quegli rispose: «Mi chiamo Folgore, sono di Saetta e
so correre come un lampo». «Vorrei vederne la prova», repli-
cò Moscione; e Folgore: «Aspetta un momento, e vedrai se si
tratta di polvere o di farina». E, dopo essere stati per un po’
sospesi, ecco per la campagna una cerva; e Folgore, lascian-
dola passare avanti per un pezzo per darle più vantaggio, si
mise a correre in modo cosi straordinario e con tanta legge-
rezza di piede che sarebbe andato sopra una via cosparsa di
farina senza lasciarvi la forma della scarpa; e, in quattro salti,
la raggiunse. Moscione, meravigliato, gli domandò se voleva
star con lui, che l’avrebbe pagato profumatamente; e Folgore
ne fu contento, e s’avviarono in compagnia.
Non avevano camminato altre quattro miglia quando tro-
varono un altro giovane, al quale Moscione disse: «Qual è il
tuo nome, camerata? quale il tuo paese? e quale l’arte tua?». E
quegli rispose: «Mi chiamo Orecchio di lepre, sono di Valle-
curiosa, e, mettendo l’orecchio a terra, senza muovermi di po-
sto, sento quanto si fa pel mondo: ascolto gli accordi e le
combriccole che gli artigiani stringono per alterare il prezzo
delle cose, i mali uffici dei cortigiani, i tristi consigli dei ruf-
fiani, gli appuntamenti degl’innamorati, i concerti dei mariuo-
li, i lamenti dei servitori, i riportamenti degli spioni, i borbot-
tii dei vecchi, le bestemmie dei marinai, che non vedevano al-
trettanto il gallo di Luciano2 e la lucerna del Franco3 quanto
sentono queste orecchie mie». «Se è vero questo, — rispose
Moscione — dimmi: che si dice nella casa mia?» E quegli,
posto un orecchio a terra, disse: «Un vecchio parla con la mo-
1
Manovale di muratore.
2
Debbono essere parole di qualche canto popolare.
’ Testo: «refole», che i lessicografi napoletani spiegano nel senso di «rifo-
lo» o «buffa di vento».
265
vedo» — disse Moscione; e Soffiarello soffiò prima soave che
pareva il vento che spira da Posilipo verso sera, e, subito do-
po, voltatosi verso un gruppo di alberi, mandò fuori tanta furia
di vento che sradicò un filare di querce. Vedendo questo, Mo-
scione se lo prese per compagno.
Camminarono un altro tanto, e incontrarono un altro gio-
vane, al quale egli disse: «Come ti chiami? Non ti sia detto
per comando. Di dove sei, se si può sapere? E quale è
l’arte.tua, se la domanda è lecita?». Quegli rispose: «Mi
chiamo Forteschiena, sono di Valentino, e ho tal virtù che mi
carico una montagna sulle spalle e mi sembra una piuma».
«Se fosse questo, — disse Moscione — tu meriteresti di esse-
re il re della dogana1 e saresti insignito del palio al primo di
maggio; ma ne vorrei vedere la prova». E Forteschiena si ca-
ricò di scheggioni di rupe, di tronchi d’albero, e di tanti altri
pesi, che non l’avrebbero portato mille grandi carrette; onde
Moscione strinse accordo perché venisse in sua compagnia.
Finalmente, giunsero nel paese di Belfiore, dov’era un re
che aveva una figlia, la quale correva come il vento e sarebbe
passata sui broccoli fioriti senza piegarne le cime. Il re aveva
pubblicato un bando che a chi l’avesse arrivata nella corsa
l’avrebbe data per moglie, ma a chi fosse rimasto indietro a-
vrebbe fatto tagliare il collo. Moscione si presentò al re e si
offerse di correre con la figlia, e fermarono i patti o di battere
con le calcagna o di lasciarvi la zucca. Ma la mattina dopo
mandò a dire al re che gli era venuto un malore improvviso e
che, non potendo correre in persona, avrebbe posto al suo
luogo un altro giovane.
«Venga chi vuole — rispose Ciannetella, che era la figlia
del re: — non me ne importa un fico, e qui ce n’è per tutti».
Cosi, essendo la piazza fitta di gente per assistere alla corsa, e
gli uomini facevano come formiche e le finestre e le terrazze
erano piene come un uovo, comparve Folgore, che si mise a
capo della piazza, aspettando le mosse. Ed ecco venire Cian-
netella, con la gonna rimboccata fino a mezza gamba e con
268
dire: «A chi ti fa guadagnare la ciambella e tu dagliene una
scheggia»; e li mandò consolati e contenti. Ed esso restò col
padre, ricco sfondato, e si vide un asino carico d’oro, che non
rese bugiardo il detto:
manda il Cielo i biscotti ai senza denti.
269
270
ROSELLA
1
Il canto del cuculo era tenuto di buon augurio, almeno nei modi di dire
degli scrittori dialettali napoletani; benché, nelle credenze popolari, valga,
in generale, per l’opposto: cfr. PITRÉ, Bibl., XVI, 392.
271
di grosse promesse, procurare d’aver tra le mani qualche prin-
cipe.
L’armata, costeggiando dalla parte di Fontechiaro, scon-
trò una barca, nella quale andava per diletto Paoluccio, figlio
del re di quel paese, che subito agguantarono, e portarono di
peso a Costantinopoli. Colà i medici, non tanto per compas-
sione di quel povero principe quanto per interesse loro, ché,
non producendo il bagno alcun giovamento, ne avrebbero pa-
gato essi la penitenza, vollero dar tempo al tempo e tirare in
lungo la cosa; onde persuasero il Gran Turco che il prigionie-
ro stava assai collerico per la libertà giocata al tressette, e che
il sangue intorpidito avrebbe recato a lui maggior danno che
beneficio, e perciò era necessario sospendere il rimedio finché
al principe fosse passato l’umore malinconico, e intanto tener-
lo allegro e dargli cibo sostanzioso, che gli facesse buon san-
gue.
Il Gran Turco, per procurargli vita allegra, lo chiuse in un
bel giardino, che la Primavera aveva preso a censo perpetuo,
dove le fontane gareggiavano con gli uccelli e coi freschi ven-
ti a chi sapesse meglio gorgheggiare e mormorare; e mise con
lui in quel luogo sua figlia, Rosella, facendogli credere che
volesse dargliela per moglie. Ma Rosella, tosto che vide le
bellezze del principe, fu annodata con una gomena d’amore,
e, formando una bella miscela delle voglie sue con quelle di
Paoluccio, s’incastrarono entrambi a un anello del medesimo
desiderio.
Venuto il tempo che i gatti vanno in caldo e che il Sole
piglia gusto a cozzare col montone celeste1, Rosella scopri
che i medici avevano risoluto, poiché di primavera il sangue è
meglio temperato, di scannare Paoluccio e preparare il bagno
al Gran Turco. Vero è che il padre le aveva nascosta la cosa;
ma essa, che aveva dalla madre la fatagione, conobbe il tra-
dimento che si tesseva al suo innamorato. E, senz’altro, prese
la sua risoluzione, e, consegnando al principe una bella spada,
gli disse: «Bocchino mio diletto, se vuoi salvare la libertà che
1
La costellazione dell’Ariete, nella quale il Sole si trova nel marzo.
272
è tanto cara e la vita che è tanto dolce, non perder tempo: abbi
i piedi della lepre, e fuggi alla marina, dove troverai una bar-
ca; saltaci dentro, e aspettami, ché, per virtù della spada in-
cantata, sarai ricevuto da quei marinai con l’onore che meriti,
come se tu fossi l’imperatore».
Paoluccio, che si vide aprire cosi buona strada alla salva-
zione, tolta la spada, s’avviò alla marina, dove trovò la barca e
fu accolto con grande riverenza da quelli che la guidavano.
Rosella, intanto, fatto un certo incantamento a una carta, la
ficcò, senz’esser vista né sentita, nella tasca della madre, la
quale subito cadde in un sonno profondo, che niente sarebbe
valso a scuotere; ed essa poi, preso un involto di gioielli, sce-
se in fretta alla barca, dov’era il principe, e insieme spiegaro-
no le vele.
In questo mezzo il Gran Turco andò nel giardino, e, non
trovandovi né la figlia né il principe, mise il mondo a rumore
e corse tutt’affannato alla moglie; ma non gli riuscì di destare
la dormiente, né con gridi né con tirate di naso; tanto che pen-
sò che qualche colpo improvviso le avesse tolto il sentimento,
e, chiamate le damigelle, dié ordine di svestirla. Nel toglierle
che queste fecero la gonna, cessò l’incanto, ed essa si svegliò,
gridando: «Oimè, quella traditora di tua figlia ce l’ha fatta: se
n’è fuggita col principe! Ma stia tranquilla: la concerò io per
le feste e le taglierò il passo».Così dicendo, scese in furia alla
marina, gettò una foglia d’albero a mare e fece nascere una
feluca sottile, con la quale prese a inseguire i giovani fuggiti-
vi. Rosella, che, sebbene la madre venisse invisibile, tuttavia
con gli occhi dell’arte magica vide la rovina che loro cascava
addosso, disse a Paoluccio: «Presto, cuor mio, cava fuori la
lama, mettiti a poppa, e, appena senti rumore di catene e di
uncini per aggraffare la barca, tira a occhi di porco, a chi cògli
cògli, e zara a chi tocca; se no, siamo perduti e ci è impedita
la fuga».
Il principe, che vide a repentaglio la pelle sua, stette
sull’avviso; e subito che la barca della Gran Turchessa, acco-
standosi, gettò Ì raffi, tirò un gran rovescio che, per buona
ventura, tagliò di colpo le mani della Soldana. La quale, get-
273
tando strida da anima dannata, scagliò alla figlia la maledizio-
ne: che il principe, al primo por piede alla terra sua, si fosse
scordato di lei.
E tornò indietro, in Turcheria, coi moncherini goccianti
sangue, e si presentò al marito, mostrandogli questo dolente
spettacolo, e gli disse: «Ecco, marito mio, che alla tavola della
fortuna ci siamo giuocati io e tu, tu la salute, e io la vita». Con
queste parole le uscì lo spirito e il fiato, e andò a pagare il sa-
lario delle lezioni al maestro che le aveva insegnato l’arte1. Il
Gran Turco, gettandosi dietro a lei, come caprone, nel mare
della disperazione, seguì le pedate della moglie e, freddo co-
me neve, se n’andò anch’esso a casa calda2.
Paoluccio, intanto, giunto a Fontechiaro, disse a Rosella
che avesse aspettato nella barca, perché egli andava a prende-
re genti e carrozze per portarla in trionfo a casa sua. Ma non
cosi presto ebbe posto piede a terra che Rosella gli usci di
mente; e, andato al palazzo reale, vi fu ricevuto con infinite
carezze dal padre e dalla madre, tra feste e luminarie da stor-
dire. Passati tre giorni, e aspettando invano il ritorno di Pao-
luccio, Rosella si ricordò della bestemmia lanciatale, e si mor-
se le labbra per non avere pensato in tempo a porvi riparo.
Perciò, come femmina disperata, smontata a terra, prese una
casa di fronte a quella del re, per cercare qualche modo di ri-
condurre alla memoria del principe l’obbligo che egli le ave-
va.
I signori della corte, che vogliono mettere il naso dapper-
tutto, adocchiato il nuovo uccello venuto in quella casa, e con-
templando una bellezza che usciva da ogni misura, trascorre-
va oltre i termini, dava nel nove delle meraviglie, faceva ec-
cesso di stupore e si chiamava fuori dello strasecolamento,
cominciarono a farle il moscerino attorno, e spasseggiavano e
corvettavano dinanzi alla sua casa. I sonetti andavano a furia,
le imbasciate a torrenti, le musiche a stordimento di testa, i
baciamani fino all’estremo fastidio; e, uno non sapendo
dell’altro, tutti tiravano a uno stesso bersaglio, e tutti cercava-
1
Al diavolo.
2
All'inferno.
274
no, ebbri d’amore, di spillare la bella botte.
Rosella, che sapeva come si dovessero legare coteste
barche, a tutti faceva buon viso, a tutti dava intrattenimento,
tutti manteneva in isperanza; e, volendo infine stringere i sac-
chi, si accordò secretamente con un cavaliere di alto grado,
che le desse mille ducati e un vestito di tutto punto, e venisse
quella notte, ché ella gli avrebbe rilasciato il deposito del suo
affetto. Il misero vagheggiatore di finestre, che aveva agli oc-
chi le bende della passione, tolse subito a interesse i tornesi, e
a credito si fece dare da un mercante un ricco taglio di brocca-
to riccio sopra riccio; e non vide l’ora che il Sole facesse
cambio e scambio con la Luna, per cogliere il frutto dei desi-
deri suoi. E, venuta la notte, andò segretamente alla casa di
Rosella, che trovò coricata in un bel letto, che pareva una Ve-
nere in mezzo a un prato di fiori; la quale, tutta tenera, gli dis-
se di non coricarsi senza prima serrare la porta. Il cavaliere, a
cui parve far poco con questo per servire una gioia cosi bella,
andò per chiudere la porta; ma quella non tante volte era chiu-
sa che si spalancava: egli la spingeva e quella s’apriva, di ma-
niera che stette a fare questo sega va e sega viene, e questo ti-
ra e molla, tutta la notte. E quando il Sole seminò di luce
d’oro i campi che l’Aurora aveva arati, egli aveva combattuto
una notte intera, quanto è grande e lunga, con una maledetta
porta, senza potere adoperare la chiave; e, per di più di questa
commissione, ebbe da Rosella una lunga ramanzina e fu
chiamato inetto, che non era stato da tanto di serrare una por-
ta, e pure aveva preteso di aprire lo scrigno dei gusti di Amo-
re. In ultimo, il meschino, indispettito, confuso e scornato, se
ne andò, caldo di testa e freddo di coda, ad attendere alle sue
faccende.
La seconda sera prese un appuntamento con un altro ba-
rone e chiese mille altri ducati e un altro vestito. E quegli an-
dò a impegnare tutti i suoi ori ed argenti agli ebrei per soddi-
sfare un desiderio che porta in cima al diletto il pentimento; e
tosto che la Notte, come povera vergognosa, si copri col man-
to la faccia per chiedere la elemosina del silenzio, si presentò
alla casa di Rosella. Ella, che s’era coricata, gli disse di spe-
275
gnere la candela e che poi entrasse nel letto; e il cavaliere, tol-
tasi la cappa e la spada, cominciò a soffiar la candela. Ma
quanto piu buffava, più raccendeva, perché le ventosità della
sua bocca facevano l’effetto del mantice al fuoco del fabbro; e
in questo soffiamento spese tutto il tempo, e, per spegnere una
candela, si consumò come candela. E quando la Notte, per
non vedere le diverse follie degli uomini, si nasconde, il mise-
ro beffato, con un altro dolce sorbetto d’ingiurie, andò via
come il primo.
Alla terza notte si fece innanzi il terzo innamorato con
mille altri ducati presi a usura e con un vestito ottenuto per i-
scrocco; e, salito quatto quatto all’appartamento di Rosella,
questa gli disse: «Io non mi voglio coricare se prima non mi
ravvio i capelli». «Lascia che ti pettini io», rispose il cavalie-
re; e la fece sedere con la testa nel suo seno, e, credendo di ar-
robbiare panno francese, cominciò a districare i capelli col
pettine d’avorio. Ma quanto più si sforzava di disgroppare
quella testa arruffata, più rendeva intricato il paese; tanto che
indugiò tutta la notte senza far cosa per diritto, e, per ordinare
una testa, disordinò la testa sua, che stette per batterla al mu-
ro. E, come il Sole fu uscito a sentire la lezione recitata dagli
uccelli e con la sferza dei raggi ebbe percosso i grilli che ave-
vano ammorbato la scuola dei campi, colui, con un’altra ma-
gnifica strapazzatura, se ne usci da quella casa, freddo e gela-
to.
In quei giorni, questo cavaliere si trovò alla conversazio-
ne nell’anticamera del re, dove si taglia e cuce, dove trista la
madre che ci ha la figlia, dove si agitano i mantici
dell’adulazione, si trama la tela degl’inganni, si toccano i tasti
della mormorazione, s’intaccano i cocomeri per la prova
dell’ignoranza. E, fra gli altri discorsi, il cavaliere raccontò
quanto gli era accaduto e il tiro che gli era stato giocato; e a
lui rispose il secondo, dicendo: «Sta’ zitto: s’Africa pianse,
Italia non ne rise: io pure sono passato per questa cruna d’ago,
e perciò danno comune, mezzo gaudio». A questo aggiunse il
terzo: «Vedi che tutti siamo macchiati d’una pece, e possiamo
toccarci la mano senza invidia da parte di nessuno, perché
276
questa traditora ci ha lavorati tutti a rovescio del pelo. Ma non
è bene inghiottire questa pillola senza qualche risentimento:
non siamo noi uomini da essere burlati e posti in un sacco.
Perciò facciamola pentire questa barbiera1, truffaragazzi». E
cosi andarono insieme tutti e tre davanti al re e gli raccontaro-
no il caso.
Il re mandò subito a chiamare Rosella e le disse: «Dove
hai appreso coteste arti di truffare i cortigiani miei? Non credi
forse che ti farò scrivere alla gabella, baldracca, sgualdrina,
scrofetta?». E Rosella, senza punto cangiar di colore, rispose:
«Quel ch’ho fatto, è stato per vendicarmi di un torto recatomi
da uno della vostra corte: sebbene non potrei far mai cosa al
mondo che fosse bastevole a sconto di quell’ingiuria». Il re le
comandò che dicesse quale offesa le era stata recata; ed essa
raccontò in terza persona quanto aveva operato in servigio del
principe, come l’aveva cavato dalla schiavitù, liberato dalla
morte, sottratto ai pericoli d’una maga e portato sano e salvo
al suo paese, per esserne poi ringraziata con una voltata di
schiena e con un caciocavallo: ch’era ingiuria allo stato suo,
per essere donna di alto grado e figlia di chi aveva sotto di sé
molti regni.
Quando il re ebbe udito questo racconto, la fece sedere
con grande onore e la pregò di rivelare chi fosse il disamorato
e l’ingrato che l’aveva cosi beffata. Ed essa, toltosi un anello
dal dito, disse: «Colui al quale andrà quest’anello, quegli sarà
il traditore e l’infedele, che mi ha piantata!». E gettò l’anello,
che andò a infilarsi al dito del principe, ch’era li presente,
immobile come uno stipite; e subito la virtù dell’anello risali a
lui alla testa, e gli tornò la memoria perduta, gli si aprirono gli
occhi, il sangue si risenti, gli spiriti si svegliarono, ed egli cor-
se ad abbracciare Rosella. E non si saziò di stringere la catena
dell’anima sua, non si stancò di baciare il vaso delle gioie sue;
e le chiese perdono del dolore che le aveva arrecato.
«Non occorre domandare perdono — essa rispose — di
errori che non sono prodotti dalla volontà. Io so la causa per
1
Pelatrice. La parola, in tal significato, è anche nel Boccaccio.
277
la quale ti eri scordato di Rosella tua, perché non mi è uscita
di mente la bestemmia che mi gettò quell’anima perduta di
mia madre. Ti scuso, dunque, e ti compatisco»; e aggiunse
mille altre parole affettuose.
Il re, conosciuta la stirpe di Rosella e l’obbligo che le do-
veva pel beneficio usato al figlio, ebbe caro che si congiun-
gessero, e, fatta fare cristiana Rosella, la dette al principe per
moglie; ed essi rimasero più soddisfatti di quanti altri mai por-
tassero il giogo del matrimonio, e videro alla fine che
la nespola, se è còlta acerba e dura,
col tempo e con la paglia si matura.
278
LE TRE FATE
280
giovane, sollecita e diligente, accudiva con gran premura, non
risparmiando fatica per dar nell’umore alla malvagia matri-
gna.
Volle la buona sorte che, andando la poveretta un giorno
a gettare l’immondizia fuori di casa a un luogo dov’era un
gran dirupo, le cadde giù il corbello; e, mentre essa ricercava
con l’occhio come potesse azzeccarlo da quel fondo, che è,
che non è? vide un coso scontraffatto, che non sapeva se era
l’originale di Esopo o la copia del brutto pezzente1. Era un or-
co che aveva i capelli come setole di porco, neri neri, che gli
ricadevano fino ai malleoli; la fronte grinzosa in cui ogni pie-
ga pareva un solco fatto dal vomero; le sopracciglia arruffate
e pelose, gli occhi infossati2 e pieni di quella tal cosa che pa-
revano botteghe sudice sotto due grandi sporgenti 3 di palpe-
bre; la bocca storta e bavosa, dalla quale spuntavano due zan-
ne come di cignale; il petto tutto bernoccoli in un bosco di pe-
lame da poterne riempire un materasso; e, soprattutto, alto di
gobba, grande di pancia, sottile di gamba, storto di piede; sic-
ché vi faceva scontorcere la bocca per lo spavento.
Cicella, tuttoché vedesse una mala ombra da spiritare, fa-
cendo buon animo, gli disse: «Uomo dabbene mio, porgimi
quel cestello che m’è caduto: ch’io ti possa veder prendere
una moglie ricca ricca!». L’orco rispose: «Vien qua, giovane
mia e prenditelo». E la buona ragazza, afferrandosi alle radici,
aggrappandosi ai sassi, tanto s’industriò che discese. E, in
fondo al precipizio, che cosa mai trovò? Tre fate: una più bel-
la dell’altra. Avevano i capelli d’oro filato, le facce di luna in
quintadecima, gli occhi che parlavano, le bocche che facevano
citazioni, a tenore di contratto, per essere soddisfatte di baci
inzuccherati. Che più? una gola delicata, un petto morbido,
una mano pastosa, un piede tenerino, e tale una grazia, in-
somma, che era onorata cornice a tante bellezze.
Le fate fecero a Cicella tante carezze e gentilezze che
non si potrebbero immaginare; e, presala per mano, la con-
1
II diavolo.
2
II testo aggiunge «gaize» (ediz. Sarnelli: «gazze»), che non s’intende.
3
«Pennate», tettoie.
281
dussero a casa loro, in quella grotta dove avrebbe potuto abi-
tare un re di corona, e la fecero sedere su tappeti turcheschi e
cuscini di velluto piano con fiocchi di canapa. Posero poi
l’una dopo l’altra le loro teste in grembo a Cicella e vollero
che le ravviasse; e mentre essa, con un pettine di corno di bu-
falo lucente, faceva l’opera sua, le domandarono: «Bella gio-
vane mia, che trovi in questa testolina?». Ed essa, con un bel
garbo, rispondeva: «Vi trovo lendinellie pidocchini, perle e
granatini».
Piacque alle fate la buona creanza di Cicella, e queste
magne femmine, intrecciatesi i capelli che s’erano disciolte, la
condussero in giro con loro, mostrandole a mano a mano tutte
le meraviglie che erano in quel palazzo fatato: scrigni con bel-
lissimi intarsi di castagno e di carpino, col coperchio di pelle
di cavallo e le piastre di stagno; tavole di noce, lucide da
specchiarvisi; riposti con castelletti di scodelle, che ti abba-
gliavano; tende di panno verde infiorato; sedie di cuoio con le
spalliere; e tanti e tanti altri sfoggi che ogni altro, al vederli,
sarebbe rimasto incantato. Ma Cicella, come non fosse il fatto
suo, mirava le grandezze di quella casa senza gridare al mira-
colo, e senza ah! e uh! da villano.
In ultimo, la fecero entrare in una guardaroba, piena zep-
pa di vestiti lussuosi, e le fecero vedere gamurre di teletta del-
lo spagnuolo, robe con maniche a prosciutto di velluto a fon-
do d’oro, coperte di cataluffo guarnite con puntini di smalto,
moncili1 di taffettà in tralice, frontali di fioretti naturali, e gin-
gilli a foglie di quercia, a conchiglia, a mezzaluna, a lingua di
serpente, grandiglie2 con puntali di vetri turchini e bianchi,
spighe di grano, gigli e pennacchiere da portare sul capo, gra-
natelle di smalto con incastri d’argento, e mille altre figurette
e cianciafruscole da portare appese alla gola; e le dissero di
scegliere a voglia sua e prendere a piene mani di quelle cose.
Ma Cicella, che era umile com’olio, lasciando stare le
cose di maggior valore, tolse una gonnella sfilacciata, che non
valeva tre calli. E le fate, a veder ciò, le domandarono: «Per
77
Sorta di sopravveste ampia e lunga: spagn. «monjil».
2
Gorgiera: spagn. «gargantilla».
282
quale porta vuoi uscire, grazietta cara?». Ed essa abbassandosi
a terra e quasi stropicciandovisi tutta, disse: «Mi basta uscire
per la stalla». Allora le fate, abbracciandola e mille volte ba-
ciandola, le misero un vestito magnifico, tutto ricamato d’oro;
le acconciarono la testa alla scozzese, a canestretta e con tanti
nastri e fettucce, che vedevi un prato di fiori, il tuppo1 a peri-
chitto2 con l’imbottitura e le treccette pendenti; e
l’accompagnarono fino alla porta, ch’era d’oro massiccio con
la cornice incrostata di carbonchi. Qui le dissero: «Va’, Cicel-
la cara, che ti possiamo vedere ben maritata; e, quando sei
sotto quella porta, alza gli occhi, e vedi che cosa vi è sopra».
La giovinetta, fatta una bella riverenza, si parti; e, come
fu sotto l’arco della porta, levò la testa e le cadde una stella
d’oro sulla fronte, ch’era una cosa bellissima. Stellata, dun-
que, come un cavallo, e linda e pinta, andò innanzi alla matri-
gna, raccontandole da cima a fondo quanto le era accaduto.
Ma il racconto fu una botta alla testa per quella femmina
invidiosa, la quale non ebbe requie, e presto presto, fattosi in-
dicare il luogo delle fate, vi avviò quella cernia di sua figlia.
La quale, giunta al palazzo incantato e trovate quelle tre gioie
di fate, quando le dettero a ravviare i capelli e le domandaro-
no che cosa vi trovasse, rispose: «Pidocchi, che ognuno è
quanto un cece, e lendini, che ognuno è grosso quanto una
cucchiara». Ebbero le fate stizza e dispetto pel modo zotico
della brutta villana, e, conoscendo dal mattino la mala giorna-
ta, pure dissimularono e la condussero nella stanza delle cose
di lusso, dicendole di scegliere il meglio. Grannizia, vedendo-
si offrire il dito, si prese tutta la mano, e afferrò la più bella
guarnacca che fosse in quegli armadi. Le fate, a queste villa-
nie Luna sull’altra, restarono interdette; ma tuttavia vollero
vedere fino a qual segno sapesse giungere, e le fecero la do-
manda: «Per quale porta hai piacere di uscire, o bella ragazza?
per la porta d’oro o per quella dell’orto?»; ed essa, con una
faccia da punteruolo, rispose: «Per la migliore che c’è». Le
284
gli ardeva il cuore. E l’altra, in quel mezzo, ficcò Cicella in
una botte e ve la chiuse con disegno di darle una bollitura; e,
giacché essa aveva abbandonato i porci, con l’acqua calda les-
sarla come si fa del porco.
L’aria era imbrunita e il cielo era diventato simile a boc-
ca di lupo, quando Cuosemo, che aveva il parosismo e moriva
dalla brama, per dare con una stretta alle amate bellezze un
po’ di largo all’appassionato cuore, avviandosi con grande e-
sultanza verso la casa di lei, diceva: «Questa è l’ora appunto
di andare a incidere l’albero, che Amore ha piantato in questo
petto, per farne sgorgare manna di dolcezze amorose! Questa
è l’ora appunto di scavare il tesoro, che la Fortuna mi ha pro-
messo! Perciò, non perder tempo, o Cuosemo: quando ti è of-
ferto il porcello, corri con la cordicella! O notte, O felice not-
te, o amica degli amanti, o anima e corpo, o pentola e mestolo
d'Amore, corri corri a precipizio, perché sotto la tenda delle
ombre tue io possa ripararmi dal calore che mi consuma!».
Giunse, con questi pensieri, alla casa di Caradonia, e, in
luogo di Cicella, trovò Grannizia, un barbagianni in cambio di
un cardellino, un’erba porcacchia in luogo di una rosa sboc-
ciata: la quale, sebbene si fosse messa le vesti di Cicella, e
sebbene si dica: «Vesti Ceppone, che pare barone», con tutto
ciò pareva uno scarafaggio in una tela d’oro; né i conci, gli
empiastri e gli stiramenti e lisciamenti, fattile dalla madre, a-
vevano potuto toglierle la forfora dalla testa, le cispe dagli oc-
chi, le lentiggini dalla faccia, il calcinaccio dai denti, i porri
dalla gola, le pustole dal petto e la sozzura dai talloni; e l’afa
putida della sentina si sentiva lontano un miglio.
Lo sposo, vedendo questa sembianza, non sapeva che co-
sa gli fosse accaduto; e, dato indietro come all’apparir del
diavolo, disse fra sé e sé: «Sono svegliato o mi sono calzato
gli occhi alla rovescia? Son io o non son io? Che cosa vedo?
Sciagurato Cuosemo, ti è stata rovinata la barca! Questa non è
la faccia che stamattina mi ha afferrato per la gola; questa non
è l’immagine che mi è rimasta dipinta nel cuore. Che vuol dir
ciò, o Fortuna? Dove, dov’è la bellezza, l’uncino che mi ag-
granfiò, l’argano che mi tirò, la freccia che mi trapassò? Sa-
285
pevo bene che né femmina né tela a lume di candela; ma que-
sta io me l’accaparrai a lume di sole. Oimè, che l’oro di sta-
mattina mi si è, stasera, mutato in rame e il diamante in ve-
tro!».
Queste altre parole mormorava tra i denti; pure, alla fine,
costretto dalla necessità, dié un bacio a Grannizia, ma come se
baciasse un vaso antico, ché avvicinò e scostò più di tre volte
le labbra prima di toccare il muso della sposa; alla quale acco-
statosi, gli parve di trovarsi alla marina di Chiaia, la sera,
quando quelle magne femmine portano tributo al mare d’altro
che di odori d’Arabia. E, poiché intanto il Cielo, per parer
giovane, si era fatta la tinta nera alla barba bianca, e la terra di
questo signore era molto distante, egli fu costretto a portarsi la
sposa a una casa poco lontana dai confini di Panicocoli, dove,
acconciato un saccone sopra due casse, si coricò con lei.
Ma chi può dire la mala notte che passarono l’uno e
l’altra? che, quantunque fosse di estate e non giungesse a otto
ore, pure parve loro più lunga della più lunga notte
dell’inverno. Dalla sua parte, la sposa, irrequieta, tossiva, si
spurgava, tirava qualche calcio, sospirava e, con parole mute,
chiedeva il censo della casa affittata; ma Cuosemo faceva fin-
ta di russare e tanto si ritirò sulla sponda del letto per non toc-
care Grannizia, che, mancatogli il saccone, cadde sopra un o-
rinale, e la cosa riuscì a puzzo e vergogna. Oh quante volte lo
sposo bestemmiò i morti del Sole, che indugiava tanto per te-
nerlo più lungo tempo sotto quel pressoio!
Quanto pregò che la Notte corresse a precipizio, rompen-
dosi il collo, e le stelle sprofondassero, per togliersi da canto,
con la venuta del giorno, quel brutto giorno!
Ma non così presto l’Alba uscì a cacciare le gallinelle e
svegliare i galli, egli saltò dal letto, a stento si appuntò le bra-
che e andò di corsa alla casa di Caradonia per rinunziarle la
figlia e pagamele l’assaggio con un manico di scopa. Non la
trovò nell’entrare, ché era andata al bosco per un fascio di le-
gna con l’intento di mettere al fuoco l’acqua per bollire la fi-
gliastra; la quale stava tappata dentro la tomba di Bacco, lad-
dove meritava di essere esposta nella culla d’Amore.
286
Cuosemo, cercando invano Caradonia per la casa, e ve-
dendo che era sparita, cominciò a gridare: «Olà, dove state?».
Ed ecco che un gatto soriano, che covava la cenere,
all’improvviso mandò una voce: «Gnao- gnao! tua moglie è
dentro la botte, chiusa e inchiodata: gnao-gnao!». Cuosemo si
accostò alla botte e senti un certo lamentio cupo e fioco; onde,
presa subito un’accetta che era appesa presso il focolare, sfa-
sciò la botte, e il cader giù delle doghe parve il cader della tela
di una scena, sulla quale una Dea si avanzi a recitare il prolo-
go.
Non saprei dir come, a tanto splendore, Cuosemo non ca-
scasse morto di colpo; ma stette per un certo tempo come chi
ha visto il monachetto, e poi, tornato in sé, corse ad abbraccia-
re Cicella, interrogandola affannosamente: «Chi ti aveva po-
sto in questo triste luogo, o gioiello del mio cuore? Chi mi ti
aveva nascosta, o speranza della mia vita? Che cosa è questa?
La leggiadra colombella in una gabbia di cerchi? e venire, in-
vece di lei, al fianco mio, l’uccello grifone? Come va questo
fatto? Parla, boccuccia mia bella; consola questo spirito, la-
scia sfogare questo petto!».
Cicella gli raccontò tutto l’accaduto, senza lasciarne un
iota, quanto aveva in passato sofferto in casa dal giorno che la
matrigna vi mise piede, via via fino al momento che, per to-
glierle la vita, l’aveva sotterrata in una botte. Udito ciò, Cuo-
semo la fece rimpiattare dietro la porta; e, rimessa insieme la
botte, andò a chiamare Grannizia e ve la ficcò dentro, dicen-
dole: «Sta’ qui un po’, tanto ch’io faccia eseguire un incanta-
mento, affinché i mali occhi non ti possano nuocere». Poi, ab-
bracciata Cicella, la levò su un cavallo e se la portò a Pascaro-
la, che era la terra sua.
Tornata Caradonia con una gran fascina, accese un gran
fuoco e vi pose sopra una grande caldaia d’acqua; e, quando
l’acqua cominciò a bollire, la versò attraverso il buco nella
botte e spolpò tutta la figlia, che digrignò i denti come se a-
vesse mangiato l’erba sardonica, e le si staccò la pelle come al
serpente, allorché getta la scoglia. E, quando giudicò che Ci-
cella avesse steso i piedi, ruppe la botte. Ma, trovando invece
287
(ahi, vista! ahi, conoscenza!) la propria figlia cotta da una
cruda madre, si strappò le ciocche, si graffiò la faccia, si pic-
chiò il petto, batté le mani, cozzò con la testa contro i muri,
pestò i piedi a terra, e fece tanto lutto e piagnisteo che vi ac-
corse tutto il casale. E, poi ch’ebbe fatto e detto cose dell’altro
mondo, che non bastarono conforti a consolarla né consigli a
mitigarla, andò di corsa a un pozzo, e colà zuffete, con la testa
in giù, si ruppe il collo, mostrando quanto sia vera quella sen-
tenza:
Chi sputa in cielo, gli ritorna in faccia.
288
GIORNATA QUARTA
e quell’altra
Vorria, crudel, tornare chianelletto,
1
Cioè il principe Taddeo con la moglie schiava moresca.
289
e po’ stare sotto a sso pede!
ma, si tu lo sapisse,
pe straziarme sempre corrarisse.
Seguitarono poi:
Iesce, iesce, Sole
scaglienta, mparatore!
Scanniello d’argento,
che vale quattociento;
cietocinquanta
tutta la notte canta.
Canta, Viola,
lo mastro de scola.
O mastro, mastro,
mannancenne priesto,
ca seenne mastro Tiesto
co lanze, co spate,
co l’aucielle accompagnato.
Sona, sona, zampognella,
ca t’accatto la gonnella,
la gonnella de scarlato;
si non suone, te rompo la capo.
290
LA PIETRA DEL GALLO
1
Con ogni delicatezza.
’ Anche in questa fiaba il nome è scritto in diverso modo: «Ia-
cov’Aniello», «Masaniello», e via.
291
vedo l’ora di scapezzare questo gallo per dare un calcio alla
pezzenteria e stirarmi1 la calza perché, in questo mondo, le
virtù senza tornesi sono tenute pezze per i piedi; e come vesti,
cosi sei considerato».
Mineco Aniello, che aveva viaggiato paesi e mangiato
pane di molti forni, inteso il gergo, quando fu a un vicoletto
stretto, voltò carena e truccò per la polverosa 2, diritto a casa
sua. Dove, torto il collo al gallo e apertagli la testa, trovò la
pietra, che subito fece legare in un anello di ottone. E, per fare
esperienza della sua virtù, disse: «Vorrei diventare un giovi-
notto di diciott’anni»; e, appena pronunziate queste parole, il
sangue gli tornò più vivo, i nervi più forti, le gambe più fer-
me, la carne più fresca, gli occhi più spiritosi, i capelli di ar-
gento si fecero d’oro; la bocca, che era un villaggio saccheg-
giato, si popolò di denti; la barba, che era luogo di caccia ri-
servata, si cangiò in terreno seminatorio; e, insomma, divenne
un bellissimo giovane. Allora passò a dire: «Desidererei un
palazzo magnifico e stringere parentado col re»; ed eccoti
sorgere un palazzo di bellezza incredibile, con statue meravi-
gliose, colonnati da stordire, pitture da strasecolare; l’argento
riluceva dappertutto, l’oro si calpestava per terra, le gioie a
profusione, i servitori brulicavano, cavalli e carrozze a bizzef-
fe. Tanto fu, in breve, lo splendore di ricchezze, che mise in
mostra, che il re vi rivolse gli occhi ed ebbe caro di dare in
moglie a Mineco Aniello la propria figlia, chiamata Natalizia.
I necromanti, che videro questa fortuna grande e ne co-
noscevano l’origine, fecero disegno di levarla di mano a Mi-
neco Aniello. Formarono perciò una bella bambola, che suo-
nava e ballava a forza di contrappesi3, e, travestiti da mercan-
ti, andarono da Pentella, figlia di lui, sotto specie di volerglie-
la vendere. La fanciulla, vista questa bella cosa, domandò: «A
quale prezzo la date?»; ed essi risposero che non c’era prezzo
1
Mettersi in sussiego.
’ Parole di gergo: «voltò strada e prese il largo».
3
In una commedia del Porta: «Mi pareva una di quelle donne di legno che
si muovono con i contrappesi, che portano i bagattellieri che vanno per lo
mondo» (La turca, I, i).
292
che potesse pagarla, ma che ne sarebbe stata padrona, se aves-
se fatto loro un piacere solo, che era di lasciar vedere la fattu-
ra dell’anello posseduto dal padre, per prenderne il modello e
farne un altro simile, e le avrebbero donato la bambola senza
alcun pagamento. Pentella, che non conosceva il proverbio:
«A buon mercato, pensaci», accettò subito la proposta, e disse
che fossero tornati la mattina dopo, perché se lo sarebbe fatto
prestare dal padre.
Ritiratisi i maghi e tornato il padre a casa, essa tante cose
dolci gli disse e tante carezze gli fece che lo tirò a consentire
di prestarle l’anello, col pretesto che si sentiva oppressa da
malinconia e cercava di allargarsi un po’ il cuore. E il giorno
seguente, nell’ora in cui il pagliaminuta del Sole fa spazzare
le immondizie delle ombre per le piazze del cielo, si presenta-
rono i maghi, che, non appena ebbero tra le mani l’anello,
squagliarono come quello che svanisce1, che non se ne vide il
fumo; e la disgraziata Pentella provò una stretta al cuore, che
stava per morirne.
I maghi si cacciarono in un bosco dove i rami degli albe-
ri parte ballavano l’imperticata e parte giocavano a pane cal-
do; e, soffermatisi in quel luogo, dissero all’anello di disfare
tutta l’invenzione del vecchio ringiovanito. Il quale, proprio in
quel punto, si trovava innanzi al re, e tutt’a un tratto, lo si vide
arruffare e imbiancare i capelli, increspare la fronte, insetolire
le sopracciglia, scerpellare gli occhi, aggrinzire la faccia,
sdentare la bocca, imboschire la barba, alzare la gobba, trema-
re le gambe, e, soprattutto, cangiare gli abiti fiammanti in
cenci e stracci.
II re, che vide questo brutto pezzente seduto in conversa-
zione con lui, lo fece subito scacciare con bastoni e male pa-
role; e quello, vedendosi a terra di piombo, andò piangendo
dalla figlia e le richiese l’anello per rimediare al disastro. Ma
qui apprese la burla fattagli dai mercanti e poco mancò che
non si precipitasse dalla finestra, bestemmiando mille volte la
ignoranza della figlia che per una stupida bambola l’aveva fat-
1
Il diavolo
293
to restare come un povero diavolo, per una cosa fatta di pezza
lo aveva ridotto a far cose da pazzi. Che egli era ben risoluto
di andare tanto errando e vagando, come il mal danaro, pel
mondo, finché avesse notizia di quei mercanti.
Cosi, postosi un zamberlucco addosso, grossi scarponi al-
lacciati ai piedi, una bisaccia di traverso alle spalle e una
mazza in mano, lasciando la figlia fredda e gelata, si mise per
disperato a camminare. E tanto menò i piedi, che giunse al re-
gno di Pertugiofondo, abitato dai topi; dove, appena giunto, fu
scambiato per uno spione inviato dai gatti e portato subito in-
nanzi a Rosicone, il re, il quale gli domandò chi fosse, donde
venisse e a qual fine fosse venuto a quei paesi.
Mineco Aniello, offerto anzitutto al re un pezzo di lardo
in segno di tributo, gli raccontò a una a una tutte le sue di-
sgrazie; e concluse che voleva tanto consumare il suo misero
corpo fin che avesse notizia di quelle anime dannate, che lo
avevano derubato di una gioia cosi cara, togliendogli
tutt’insieme il fiore della gioventù, la fonte della ricchezza, il
sostegno dell’onore.
A questo racconto Rosicone si senti rosicchiare dalla pie-
tà, e, desideroso di dare qualche consolazione al pover’uomo,
chiamò i topi più vecchi a consiglio, richiedendoli di parere
intorno alla disgrazia di Mineco Aniello e comandando loro di
far diligenza per avere qualche notizia dei falsi mercanti. Si
ritrovavano per ventura tra i consiglieri Rudolo e Saltarello,
topi pratici delle cose del mondo, che erano stati circa sei anni
a un’osteria di passo1; i quali dissero: «Sta’ di buon cuore,
camerata, ché le cose andranno meglio di come tu credi. Ora
sappi che, trovandoci un giorno in una stanza dell’osteria del
Corno, dove alloggiano e sguazzano allegramente gli uomini
più onorati del mondo, passarono di là due di Castel Rampino,
che, dopo mangiato, avendo visto il fondo dell’orcio, discor-
revano della burla fatta a un certo vecchio di Grottanera, a cui
avevano truffato una pietra di grande virtù, che quegli (disse
uno di loro che si chiamava Iennarone) non si sarebbe mai tol-
1
Osteria posta a una delle stazioni della strada percorsa dai viaggiatori e
dai procacci.
294
ta dal dito per timore di perderla, e che la figlia gliel’aveva
persa».
Nell’udire questo, Mineco Aniello disse ai due topi che,
se si sentivano di accompagnarlo al paese di quei mariuoli e
di fargli ricuperare l’anello, avrebbe donato loro una soma di
formaggio e di carne salata, affinché se la godessero insieme
col loro re e signore. I due, trattandosi di ungere le mani,
s’offersero di fare mari e monti, e, domandata licenza alla to-
pesca corona, partirono con lui.
Giunti, dopo lungo viaggio, a Castel Rampino, fecero
fermare Mineco Aniello sotto certi alberi alla riva di un fiu-
me, che, come sanguisuga, sorbiva il sangue dei lavoratori e
lo gettava al mare. I due topi ritrovarono la casa dei maghi, e
videro che Iennarone non si toglieva mai l’anello dal dito, on-
de si proposero di guadagnare la vittoria per stratagemma.
E quando la notte ebbe tinto d’inchiostro la faccia del
cielo ch’era cotta di sole1, e Iennarone giaceva disteso a dor-
mire, Rudolo gli cominciò a rodere il dito nel quale portava
l’anello; e colui, sentendosi dolere, si tolse l’anello e lo posò
sopra una tavola a capo del letto. Ciò veduto, Saltarello se lo
mise in bocca, e in quattro salti andarono a trovare Mineco
Aniello, che, con maggiore allegrezza di quanta ne prova chi
sta per essere impiccato al giungere della grazia, fece subito
diventare i necromanti due asini, e sopra uno dei due, steso il
ferraiuolo, cavalcò come un bel conte, e l’altro caricò di lardo
e cacio. Spronò cosi alla volta di Pertugiofondo, dove, offerto
il dono al re e ai consiglieri, li ringraziò di tutto il bene che
per opera loro aveva ricevuto, pregando il Cielo che mai trap-
pola facesse loro impedimento, mai gatto loro arrecasse dan-
no, mai arsenico fosse loro causa di dispiacere.
Partito da quel paese e giunto a Grottanera, e diventato
più bello di prima, fu accolto dal re e dalla principessa con le
migliori carezze del mondo; e, dopo aver fatto dirupare i due
asini da una montagna, rimase a godere con la moglie, e non
si tolse mai più l’anello dal dito per non tirarsi addosso qual-
1
Tra i rimedi popolari era l’applicazione dell’inchiostro sulle scottature.
295
che altra calamità, perché
il cane, che provò la scottatura,
anche dell’acqua fredda si spaura.
296
I DUE FRATELLI
1
Per lui è finita.
2
Quotquot autem receperunt eum», dell’Evangelo di san Giovanni, I, 12.
298
tura; quando è vuota, non hai da turare; mastica prima e poi
trangugia; la gatta per la fretta fece i figli ciechi; chi cammina
adagio, fa buon viaggio.
«Fuggite le contese e le brighe, non mettete il piede su
ogni pietra; ché a chi va saltando troppi pali, qualcuno gli si
ficca dietro; cavallo, che dà calci, più ne ha che non ne dà; chi
di graffio ferisce, di coltellaccio perisce; tanto va la secchia al
pozzo, che vi lascia il manico; la forca è fatta per lo sventura-
to.
«Non vi fate salire alla testa i fumi della superbia; ci vuol
altro che tovaglie bianche a mensa; abbassati e accomodati;
mai non fu buona casa che dà fumo; il buon alchimista passa
lo stillato per la cenere affinché non prenda di fumo, e l’uomo
dabbene deve passare per la memoria, che li fa diventar cene-
re, i suoi pensieri superbi, per non restare affumicato dalla
presunzione.
«Non vi prendete i pensieri del Rosso1: chi s’impiccia,
resta impacciato; è cosa da gentuccia andar mettendo l’assisa
ai cetriuoli2 e il sale alle pignatte3.
«Non v’impacciate con signori, e andate piuttosto a tirare
la sciabica che servire in corte. Amore di signore è vino di
fiasco, la sera è buono e la mattina è guasto; da essi non puoi
avere altro che buone parole e mele putride; in corte ti riesco-
no i servigi sterili, i disegni fracidi, le speranze spezzate; sudi
senza compassione, corri senza riposo, dormi senza quiete, fai
le tue necessità senza candela, e mangi senza sapore.
«Guardatevi da ricco impoverito e da villano risalito, da
pezzente disperato e da servitore ammaliziato, da principe i-
gnorante, da giudice interessato, da femmina gelosa, da uomo
di domani4, da malviventi, da uomo senza barba5 e da femmi-
na barbuta, da fiumi quieti, da camini fumosi, da cattivo vici-
no, da fanciullo piagnoloso e da uomo invidioso.
«Sforzatevi, in ultimo, di mettervi in mente che chi ha ar-
1
Vedi sopra.
2
Cioè il calmiere a cosa che non merita questo provvedimento.
3
Intendi: altrui.
4
Testo: «ommo de craie», che rimanda sempre le cose al domani.
’Testo: «ommo sbano», per il quale vedi, in fine, le Note e illustrazioni.
299
te ha parte, e quegli campa in mezzo a un bosco che ha sale in
zucca e ha posto il dente del senno e mutate le prime orecchie;
e che a buon cavallo non manca sella.
«Mille altre cose dovrei dirvi, ma comincia a venirmi
l’affanno della morte e mi manca il fiato».
Cosi dicendo, ebbe appena la forza di levare la mano per
benedirli, che, calate le vele della vita, entrò nel porto di tutti i
guai di questo mondo.
Marcuccio scolpi le parole del padre in mezzo al cuore, si
dié a studiare alla scuola, ad andare per le accademie, a dispu-
tare con gli studenti1, a discorrere di cose virtuose; tanto che,
in quattro e quattro, diventò il primo letterato di quel paese.
Ma poiché la pezzenteria è la zecca attaccaticcia della virtù, e
dall’uomo unto dell’olio di Minerva scivola via l’acqua della
buona fortuna, stava il pover’uomo sempre sbricio, sempre
asciutto, sempre di netto cuore e cruda voglia, e si trovava le
più volte sazio di voltare testi e bramoso di leccare tegami,
stanco di studiare consigli2 e stremato d’aiuti, lavorando sem-
pre sull’Indigesto e trovandosi sempre digiuno.
Parmiero, invece, si dette a vivere alla carlona e
all’avventura, da una parte giocando, dall’altra andando per le
taverne, e crescendo lungo lungo senza alcuna virtù al mondo.
Con tutto ciò, di ruffa in raffa, fece assai danari e si accomodò
bene.
Vedendo questo, Marcuccio si chiamò pentito che, per
seguire i consigli del padre, fosse uscito di strada; perché il
Donato3 niente gli aveva donato, il Cornucopia4 lo aveva po-
sto in si grande necessità, e Bartolo non gli aveva messo nulla
nelle bisacce5; laddove Parmiero, divertendosi con gli ossi1,
1
Ferula.
2
Cioè, di liberazione dell’alloggio di soldati, del quale prima si era ricevu-
ta la notificazione.
3
Continua nello stesso traslato.
302
mi chiamo pentito di essermi servito male delle armi, che tu
mi hai date; e ti prometto, da oggi in poi, di premunirmi cosi
bene col contravveleno tuo, che non ci potrà neanche il tuono
di marzo»1. E voleva baciarle i piedi, ma quella gli si dileguò
dalla vista, lasciandolo tutto consolato come un povero infer-
mo, al quale, passato che sia l’accidente, è data la radice2 con
l’acqua fresca.
Scivolato giù da quella montagna, Marcuccio si avviò a
Campolargo, e, arrivato al palazzo reale, mandò subito a dire
al re che voleva apportare rimedio alla infermità della figlia.
Fu condotto col palio3 nella camera della principessa, e trovò
quella sventurata giovane sopra un letto bucato4, cosi consun-
ta e color violaceo, che non aveva se non le ossa e la pelle. Gli
occhi erano cosi rincavati, che, per vedere le pupille, ci voleva
il cannocchiale di Galileo; il naso, cosi affilato che poteva u-
surpare l’uffizio del suppositorio in forma5; le guance, cosi
disseccate che parevano la Morte di Sorrento; il labbro infe-
riore cadeva sul mento; il petto pareva di pica; le braccia era-
no come stinchi di agnello spolpati; insomma, era cosi tra-
sformata che, col bicchiere della pietà, portava brindisi alla
compassione.
A Marcuccio, nel contemplarla in quello stato, spuntaro-
no le lacrime agli occhi, considerando la fiacchezza della na-
tura nostra, soggetta alle ferite del tempo, alle vicende della
complessione e ai mali della vita. Ma chiese un uovo fresco di
gallina primaiuola, lo tenne appena un po’ sul fuoco, vi mise
dentro la polvere; e poi lo fece sorbire a forza alla principessa,
che ricopri con quattro coperte. E non aveva ancora la Notte
occupato la piazza e piantato la sua tenda, quando l’inferma
chiamò le donzelle, affinché le mutassero il letto, che era in-
1
Vedi, al solito, Giornata V, 2.
21
Qualcuna delle radici che si adoperavano in medicina, come quelle «ape-
rienti», «confortative», e simili.
“ Con ogni onore.
” Testo: «lietto perciato», per infermi paralitici o altrimenti incapaci di le-
varsi.
,0
II telescopio, invenzione allora fresca, di un paio di decenni.
” Che fa per la prima volta le uova.
303
triso di sudore; e, asciugata che fu, e rivestita di altri panni,
chiese da mangiare: richiesta che in sette anni di malattia non
mai le era uscita di bocca. Di ciò presa buona speranza, le det-
tero un brodo: e, guadagnando ogni ora forza e ogni giorno
appetito, non passò una settimana che si ristabilì compieta-
mente, e si levò di letto. Il re onorò Marcuccio come re della
medicina, e lo creò non solo barone di una grossa terra, ma
primo consigliere della sua corte, ammogliandolo con la più
ricca signora di quel paese.
In questo mezzo Parmiero restò spogliato di quanto pos-
sedeva, perché danari di giuoco come vengono cosi se ne
vanno, e la fortuna del giocatore quanto sale altrettanto cala;
e, ritrovandosi pezzente e disgraziato, si risolse a camminare
tanto che o, cangiando luogo, cangiasse ventura, o cancellasse
il suo posto dal ruolo della vita. Dopo sei mesi di viaggi, capi-
tò in Campolargo cosi scodato e stracco che non si reggeva in
piedi. E, vedendo che non trovava dove buttarsi per morto, e
che la fame gli cresceva in proporzione, e i vestiti gli casca-
vano a brandelli, venne in tanta disperazione che entrò in una
casa vecchia fuori le mura della città, si tolse le legacce delle
calze che erano di canapa e bambagia e, annodatele, ne formò
un bel cappio, del quale attaccato un capo a una trave e salito
su un mucchio di pietre che esso stesso aveva radunate, spiccò
il salto.
Ma volle la sorte che la trave, che era tarlata e fracida, al-
la scossa che egli le dette si rompesse per mezzo: e
l’impiccato vivente batté col fianco sulle pietre, che se ne ri-
senti poi per un paio di giorni. E, spezzandosi quella trave,
piovvero a terra catene, collane e anelli d’oro, ch’erano stati
riposti là dentro nei cavi fatti dai tarli, e, tra le altre cose, una
borsa di cordovano, piena di scudi.
Parmiero, che vide di aver con un salto d’impiccato salta-
to il fosso della miseria, se prima era impeso per la dispera-
zione, ora era sospeso dall’allegrezza, che non toccava piede a
terra. E, raccolto quel dono della fortuna, se ne andò di corsa
all’osteria per ravvivare lo spirito che quasi gli era venuto
meno. Ora quelle robe erano state da certi mariuoli rapinate
proprio all’oste presso il quale Parmiero andò a mangiare; e
304
quelli le avevano riposte nella trave da loro conosciuta, per
andarsele a prendere e spenderle un po’ per volta. Quando
dunque Parmiero, dopo aver ben riempito lo stomaco, cavò la
borsa per pagare, l’oste la riconobbe, e, subito chiamati certi
sbirri, clienti dell’osteria, lo fece acciuffare.
Condotto con bel cerimoniale davanti al giudice, e fruga-
to e ritrovatagli addosso la prova del delitto, e fatto il confron-
to col derubato, non tardò la sentenza come di reo convinto, e
fu condannato a giuocare al tre, nel qual giuoco gli sarebbe
toccato far mulinelli coi piedi. Lo sciagurato, che si vide a
queste strette, che per lui alla vigilia di una legaccia doveva
seguire la festa di una fune, e al saggio di una trave fracida il
torneo alla sbarra di una forca nuova, cominciò a dimenarsi e
a gridare che era innocente, e che si appellava da questa sen-
tenza. E, mentre andava strillando e urlando per la strada, che
non c’era giustizia, che i poverelli non erano ascoltati, che i
decreti si facevano a casaccio, e che, per non aver unto la ma-
no al giudice, dato il boccone allo scrivano, la mancia al ma-
strodatti, la giunta al procuratore, era mandato a lavorare pun-
ti in aria alla maestra vedova1, s’incontrò per caso col fratello.
Questi, essendo consigliere e caporuota2, fece fermare il
corteo della giustizia per udire le ragioni del condannato; e,
quando costui le ebbe esposte, gli disse: «Sta’ zitto, che non
conosci la tua fortuna, perché, senza dubbio, tu che, nella
prima prova, hai trovato una catena d’oro di tre palmi, in que-
sta seconda ne troverai un’altra di tre passi. Va’ pure allegra-
mente, ché le forche ti sono sorelle carnali, e, dove gli altri vi
vuotano la vita, tu vi riempi la borsa».
Parmiero, che si senti dar la beffa, gli rispose: «Io vengo
per giustizia e non per essere dileggiato: e sappi che di questo
fatto, che mi hanno apposto, io ho le mani nette, perché son
uomo onorato, quantunque tu mi veda cosi stracciato e cen-
cioso, ché l’abito non fa il monaco. Ma, per non aver dato a-
1
La forca
2
Il tribunale della Vicaria di Napoli era diviso in quattro ruote, due civili e
due criminali, e a ciascuna di esse era preposto un consigliere e
«caporuota».
305
scolto a Marchionne mio padre, e a Marcuccio mio fratello,
passo per questa trafila e sto sul punto di cantare un madrigale
a tre sotto i piedi del boia».
Marcuccio, che udì mentovare il nome del padre e il suo,
si senti svegliare il sangue, e, mirando fiso Parmiero, gli parve
di conoscerlo; e infine, ravvisatolo pel suo fratello, si trovò
combattuto dalla vergogna e dall’affezione della carne e
dall’onore, dalla giustizia e dalla pietà. Si vergognava di sco-
prirsi fratello a una faccia d’impiccato, fremeva a vedere a
quello stremo il sangue suo; e la carne lo tirava com’uncino a
dar riparo a quel fatto, l’onore lo traeva indietro per non sver-
gognarsi col re, rivelandosi fratello di un inquisito de mena-
tìone uncini1 la giustizia voleva che si desse soddisfazione al-
la parte offesa; la pietà ricercava ch’egli procurasse la salute
del proprio fratello.
Mentre stava cosi in bilancia col cervello e a partito con
la testa, ecco un usciere del giudice, che correva con un palmo
di lingua fuori e gridava: «Ferma, ferma la giustizia! Sta’,
sta’, adagio, aspetta!». «Che cos’è?», disse il consigliere. E
quegli: «E accaduta una cosa grande, per buona fortuna di
questo giovane: perché, essendo andati due mariuoli a prende-
re cert’oro e certi danari, che avevano nascosto nella trave di
una casa vecchia, e non avendoveli ritrovati, pensando cia-
scuno dei due che il compagno gliel’avesse fatta, sono venuti
alle mani e si sono feriti a morte. Sopraggiunto il giudice, gli
hanno confessato la cosa; e cosi, essendo stata riconosciuta
l’innocenza di questo pover’uomo, sono stato mandato di cor-
sa a impedire l’esecuzione della sentenza e a liberare costui,
che è senza colpa».
Udito ciò, Parmiero crebbe di un palmo, laddove aveva
avuto paura di allungarsi di un braccio. E Marcuccio, che vide
restaurato l’onore del fratello, si tolse la maschera e si dette a
conoscere col dire all’altro: «Fratello mio, se hai veduto ormai
che i vizi e il giuoco sono stati le tue rovine, vedi parimente
che la virtù sola può darti il piacere e il bene. Vieni pure libe-
ramente a casa mia, dove godrai insieme con me i frutti della
1
Latino maccaronico: «di aver gettato l’uncino».
306
virtù, che tanto avesti in uggia, e io, dimentico dei dispregi
che mi usasti, ti terrò in queste pupille».
Cosi, dopo averlo abbracciato, lo condusse a casa sua, lo
rivesti da capo a piede e gli fece conoscere a tutta prova che
ogni altra cosa è vento e che
la virtù sola fa beato l’uomo.
307
308
I TRE RE ANIMALI
1
Testo: «lo sproviero», e cosi in tutto il brano per errore.
2
117 Si sente anche attraverso il guanto la stretta di mano di chi è innamo-
rato. «La man lor tocca ed amor passa il guanto» (nel poema di Fr. F. Fru-
goni, sotto il nome di FLAMINIO FILAURO, La guardinfanteide, Perugia,
1643, P- IO9)- [Lo SPERONI, Proverbs and provebìal phrases in Basile's
Pentameron (Berkeley, 1941), p. 189, cita la più compiuta spiegazione di
Passerini: che il costume fosse di togliere i guanti prima di stringere le
mani, ma quando per la fretta ciò non si faceva, si diceva: «.L’amore pas-
sa il guanto». La seconda parte: «E l’acqua gli stivali» dovette essere ag-
giunta posteriormente da qualche bello Passerini: che il costume fosse di
togliere i guanti prima di stringere le mani, ma quando per la fretta ciò non
si faceva, si diceva: «.L’amore passa il guanto». La seconda parte: «E
l’acqua gli stivali» dovette essere aggiunta posteriormente da qualche bel-
lo spirito].
311
na sua stessa.
Dopo che Tittone fu stato a quella montagna quindici
giorni, volle andare alla ricerca delle altre sorelle, e, preso
commiato da Fabiella e dal cognato, questi gli dié una penna
delle sue, dicendogli: «Pòrtati questa penna, Tittone mio, ed
abbila cara, perché ti puoi trovare in tal bisogno che la stime-
rai un tesoro. Conservala bene; e, se ti occorre cosa necessa-
ria, gettala in terra e di’: ‘Vieni, vieni’, ché mi loderai».
Tittone, avvolta la penna in una carta e ripostala nel bor-
sellino, dopo molte cerimonie, si parti. E camminò e camminò
tanto da non dire; finché giunse a quel bosco dove il cervo
dimorava con Vasta; e mentre, stimolato dalla fame, entrava
nel giardino per cogliere quattro frutti, fu visto dalla sorella e
riconosciuto allo stesso modo che dalla prima. Essa lo fece
conoscere al marito, che lo accolse a festa e lo trattò veramen-
te da principe; e quando, dopo altri quindici giorni, volle par-
tire per cercare la terza sorella, il cervo gli dette un pelo dei
suoi con le stesse parole che aveva usate il falcone per la pen-
na.
Ripreso il viaggio con un gruzzolo di scudi che gli aveva
dato il falcone e con altrettanti avuti dal cervo, tanto camminò
che giunse agli estremi della terra. Qui, non potendo procede-
re oltre a causa del mare, prese una nave con disegno di corre-
re per tutte le isole, se potesse aver notizia della sorella; e, da-
te le vele al vento, tanto girò che capitò all’isola dove stava il
delfino con Rita. Qui, appena smontato a terra, fu veduto dalla
sorella, e riconosciuto e ricevuto allo stesso modo come dalle
altre; e, quando volle partire per rivedere il padre e la madre,
ebbe dal delfino, con le stesse istruzioni degli altri, una sca-
glia.
Ritornato a terra, e salito su un cavallo, si era appena di-
lungato un mezzo miglio dalla marina, quando entrò in un bo-
sco che era scala franca della paura e delle ombre, dove si fa-
ceva una continua fiera di oscurità e di spavento. In quel bo-
sco Tittone trovò una grande torre, collocata in mezzo a un
lago, che baciava i piedi degli alberi affinché nascondesse al
Sole le proprie bruttezze; e a una finestra della torre c’era una
bellissima giovane ai piedi di un orrendo dragone, che dormi-
312
va. Subito colei, veduto Tittone, con voce sommessa e con to-
no pietoso gli disse: «O bel giovane mio, mandato forse dal
Cielo a conforto delle mie miserie in questo luogo dove non si
vede mai faccia di cristiano, toglimi dal potere di questo ser-
pente tiranno, che m’ha rapita al re di Chiaravalle mio padre,
e mi ha confinata in questa torre deserta, dove mi sono quasi
ammuffita e ho preso di rancido». «Oimè! — rispose Tittone
— che posso fare per servirti, bella giovane mia? Chi può
varcare questo lago? Chi può salire su cotesta torre? Chi può
accostarsi al brutto dragone, che ti atterrisce con la vista, che
semina paura e fa nascere tremarella? Ma piano, aspetta un
po’, ché vedremo di cacciare il serpente col manico di un al-
tro; a passo a passo, diceva Gradasso; or ora vedremo se è
cucco o vento!» 1
E gettò al tempo stesso la penna, il pelo e la scaglia che
gli avevano dati i cognati, dicendo: «Vieni, vieni!». E subito,
come se quegli oggetti fossero stille d’acqua estiva, che fa na-
scere le ranocchie, si videro comparire il falcone, il cervo e il
delfino, i quali tutti a una voce gridarono: «Eccoci! Che cosa
comandi?».
Tittone, a vederli li presenti, con grande gioia disse: «Al-
tro non vorrei che togliere quella povera giovane dalle bran-
che di quel dragone, e cavarla dalla torre, demolire ogni cosa,
e portarmi una bella moglie a casa mia». «Zitto! — rispose il
falcone, — chè, dove meno credi, cresce la fava: ora te lo fa-
remo voltare sopra un carlino 2 e vogliamo che abbia carestia
di terreno». «Non perdiamo tempo — replicò il cervo: — guai
e maccheroni si mangiano caldi».
Cosi dicendo, il falcone fece venire una schiera di uccelli
grifoni, che, volando alle finestre della torre, rapirono la gio-
vane e la portarono fuori del lago presso Tittone e i cognati.
E, se da lontano essa era parsa a Tittone una luna, da vicino la
stimò un sole, tanto era bella. Ma, mentre egli l’abbracciava e
1
Giuoco, pel quale vedi la nota a p. 457.
2
Si dice dei cavalli che si voltano in piccolo spazio: il «carlino», come si è
già avvertito, era una piccola moneta d’argento.
313
le diceva dolci parole, il drago si svegliò, e, lanciatosi dalla
finestra, correva per divorare Tittone; quando il cervo fece
apparire una squadra di leoni, tigri, pantere, orsi e gatti mam-
moni, che gli dettero addosso e con le unghie lo ridussero a
brandelli.
Dopo di ciò, Tittone voleva partire; ma il delfino gli dis-
se: «Anch’io voglio fare qualcosa per servirti». E, affinché
non restasse memoria di un luogo cosi tristo e maledetto, fece
crescere il mare, che, uscito dai suoi termini, venne a cozzare
con tanta furia contro la torre, che la spiantò dalle fondamen-
ta.
Ringraziò Tittone, quanto seppe e potè, i cognati, dicen-
do alla sposa di fare il medesimo, perché per opera loro era
uscita a salvamento da cosi gran pericolo. Ma gli animali ri-
sposero: «Anzi noi dobbiamo ringraziare questa bella signora,
perché essa è causa di farci tornare all’esser nostro. Noi, per
un dispiacere dato da nostra madre a una fata, avemmo una
maledizione da quando nascemmo, che fossimo stati sempre
in forma di animali, fintanto che non avessimo liberato la fi-
glia di un re da un gran travaglio. Ecco giunto il tempo da noi
desiderato; ecco maturata la sorba; e già sentiamo in questo
petto nuovo spirito, in queste vene nuovo sangue». E
sull’istante diventarono tre bellissimi giovani, i quali uno do-
po l’altro abbracciarono strettamente il cognato, e toccarono
la mano alla nuova parente, che era tutta rapita dalla gioia.
A tale spettacolo, Tittone trasse un gran sospiro: «O si-
gnore Iddio, e perché non hanno parte a questo gusto la
mammarella e il tata mio? i quali se ne andrebbero in brodet-
to, se si vedessero davanti tre generi cosi graziosi e cosi bel-
li». «Ancora non è notte — risposero i cognati: — la vergo-
gna di vederci cosi trasformati ci aveva ridotti a fuggire la vi-
sta degli uomini; ma ora che, per grazia del Cielo, possiamo
comparire fra le genti, vogliamo ritrovarci tutti a un tetto con
le mogliettine nostre e campare allegramente. Perciò cammi-
niamo svelti, ché, innanzi che il Sole domattina sballi la mer-
canzia dei raggi alla dogana dell’Oriente, saranno insieme con
noi le nostre mogli».
E perché non andassero a piedi, ché non ci era altro colà
314
che una giumenta scorticata sulla quale aveva viaggiato Titto-
ne, essi fecero comparire una bellissima carrozza, tirata da sei
leoni, nella quale si posero tutti e cinque. Dopo un’intera
giornata di viaggio, si trovarono la sera a un’osteria, dove,
mentre si apparecchiava da mangiare, passarono il tempo leg-
gendo tanti testimoni dell’ignoranza degli uomini, che si era-
no firmati sulle mura1. Venuta l’ora di andare a letto, i tre
giovani, fingendo di coricarsi, si affaccendarono tutta la notte,
di guisa che al mattino, quando le stelle, vergognose come
fanciulle zitelle, non vogliono esser viste dal Sole, si ritrova-
rono alla medesima osteria con le loro mogli. Grandi furono
gli abbracciamenti tra loro e indicibile la gioia che tutti prova-
rono, e poi si rimisero in otto nella stessa carrozza, e, dopo
lungo cammino, giunsero a Verdecolle, dove dal re e dalla re-
gina ebbero carezze incredibili, avendo essi guadagnato il ca-
pitale di quattro figli, che tenevano perduti, e l’usura di tre
generi e una nuora, che erano quattro colonne del Tempio del-
la bellezza. Ai re di Belprato e di Chiaravalle mandarono am-
basciatori a informarli dei casi occorsi ai loro figli; e quei due
vennero alle feste che si fecero con l’aggiungere grasso di al-
legria alla pignatta maritata delle loro contentezze, e compen-
sare a pieno tutti gli affanni passati:
ché un’ora di contento
fa scordare mill’anni di tormento.
1
Ancora sulle iscrizioni delle osterie.
315
316
LE SETTE COTENNUZZE
1
II proverbio, com’è noto, continua: «con inganno e con arte si vive l’altra parte».
317
raccattando per terra, le dié alla figlia, Saporita, dicendole di
porle sul fuoco, mentre essa tornava a limosinare qualche tor-
solo a certi ortolani per fare una minestretta.
Saporita prese le cotenne e, raschiatine i peli, le mise in
un pignattino e cominciò a farle cuocere. Ma non tanto quelle
bollivano dentro la pentola quanto bollivano a lei in gola, per-
ché l’odore che tramandavano era una disfida mortale nel
campo dell’appetito e una citatio ad informandum alla banca
della gola; tanto che, resisti e resisti, alla fine, provocata
dall’alito della pignatta, tirata dalla naturale golosità e presa
alle fauci dalla fame che la rodeva, si lasciò andare a saggiar-
ne un pezzetto. Le seppe cosi buono che disse tra se stessa:
«Chi ha paura, si faccia sbirro! Ora, ci sono! Mangiamo e av-
venga quel che vuole1. Si tratta forse d’altro che di una coten-
na? Che potrà mai accadere? Ho pelle da pagare coteste co-
tenne!».
Cosi, divorò la prima; e, sentendosi solleticare più forte lo
stomaco, dié di mano alla seconda; poi, pizzicò la terza; e, di
mano in mano, l’una dopo l’altra, se le sbrigò tutte e sette.
Fatto questo cattivo servizio, si mise a pensare all’errore
commesso e, immaginando che le cotenne le dovessero resta-
re in gola, pensò d’ingannare la madre; onde, presa una scarpa
vecchia, ne tagliò la suola in sette fette e le calò nella pignatta.
Sopravvenne in questo la madre con un fascetto di broccoli, e,
minuzzatili con tutti i torsi per non perderne briciolo, appena
vide che l’acqua bolliva dall’orlo al fondo, vi gettò dentro i
broccoli, e vi aggiunse un po’ di sugna, che aveva avuta per
elemosina da un cocchiere, al quale era avanzata dall’unzione
di una carrozza. Fece stendere poi dalla figliuola un canovac-
cio su due cassette di pioppo vecchio, cavò fuori da una bi-
saccia due tozzi di pane stantio, e, tolto da una rastrelliera un
tondo di legno, vi sbriciolò il pane e vi versò sopra i broccoli
coi pezzi di suola.
E cominciò a mettere in bocca; ma s’accorse subito che i
denti suoi non erano da calzolaio e che le cotenne di porco,
con nuova metamorfosi ovidiana, erano diventate ventresche
1
Testo: «e venga de creta e chiova».
318
di bufalo. Furiosa, si volse alla figlia: «Me l’hai fatta, scrofa
maledetta! Quale sporcizia hai messa in questa minestra? E
che forse la pancia mia è scarpone vecchio, che l’hai provve-
duta di tacchi? Presto, confessa subito com’è andata la cosa;
se no, meglio che non fossi nata, non ti voglio lasciar pezzo
d’osso sano!».
Saporita prese a negare; ma, incalzando la furia della vec-
chia, die colpa al fumo della pignatta, che l’aveva accecata e
indotta a commettere questo brutto sbaglio. La vecchia, che si
vide avvelenato il mangiare, afferrò un manico di scopa e co-
minciò di tal maniera a lavorare di tornio, che più di sette vol-
te la lasciò e la riprese, picchiando dove coglieva coglieva.
Alle grida della figliuola entrò un mercante che si trovò a
passare li dinanzi, e, veduta la ferocia della vecchia, le strappò
di mano la mazza e le disse: «Che ti ha fatto questa povera
giovane, che la vuoi uccidere? E questo un modo di castigare
o di togliere la vita? l’hai trovata forse a correre lance o a
rompere salvadanai? Non ti vergogni di trattare a questa ma-
niera una povera fanciulla?».
«Tu non sai che cosa mi ha fatto! — rispose la vecchia.
— La svergognata mi vede pezzente e non se ne briga, e mi
vuol rovinare coi medici e gli speziali; giacché, avendole or-
dinato, ora che fa caldo, di non lavorare troppo per non casca-
re malata, ché io non ho come curarla, la presuntuosa, a di-
spetto mio, ha voluto stamattina riempire sette fusi, a rischio
che le venga qualche infiammazione al cuore, e che mi stia
due mesi a letto».
Il mercante, che udì tal cosa, pensò che la massarizia di
questa giovane potesse essere la fata della casa sua: e disse al-
la vecchia: «Lascia la collera da banda, ché io ti voglio levare
questo pericolo dalla casa, prendendomi questa tua figlia per
moglie, e me la porterò a casa mia, dove la farò stare da prin-
cipessa, perché, per grazia del Cielo, io mi allevo le galline,
mi cresco il porco, ho i piccioni, e non posso girarmi per la
casa, tanto è piena. Mi benedica il Cielo e i mal’occhi non ci
possano: ma io ho botti di grano, casse di farina, orciuoli
d’olio, pignatte e vesciche di sugna, appese di lardo, rastrellie-
re di vasi, cataste di legna, mucchi di carbone, un cassone di
319
biancheria, un letto da sposo e, soprattutto, di pigioni e di cen-
si posso campare da signore; oltreché traffico per alcune deci-
ne di ducati nei mercati, e, se la cosa mi riesce a segno, diven-
to ricco».
La vecchia, che si vide piovere questa fortuna quando
meno si pensava, prese Saporita per mano e gliela concesse a
uso e costumanza di Napoli, dicendo: «Eccotela, sia la tua, da
qua a belli anni, con salute e belli eredi». E il mercante, cinta-
la con le braccia, se la portò a casa e non vide l’ora che fosse
giorno di mercato per fare le spese opportune.
Il lunedì si levò di buon mattino, e, recatosi dove le cam-
pagnole stavano con la loro merce, comprò venti decine 1 di
lino e le consegnò a Saporita, dicendole: «Ora puoi filare a
voglia tua, che non hai paura di trovare più un’altra pazza
rabbiosa come tua madre, che ti rompeva le ossa perché em-
pivi le fusa. Io, per ogni decina di fusi, ti voglio dare una de-
cina di baci e, per ogni lucignolo di lino che mi farai, ti darò
questo cuore. Lavora, dunque, di buon animo; e, quando torno
dalla fiera, che sarà tra venti giorni, fammi trovare queste ven-
ti decine di lino filate, che ti vorrò fare un bel paio di maniche
rosse, fasciate di velluto verde».
«Va’ che stai fresco! — borbottò tra sé e sé Saporita. —
Ora hai pieno il fuso! Si, quando corri e infili! Se aspetti ca-
micia dalle mani mie, ti puoi fin da ora provvedere di carta
straccia. L’hai trovata! E che? son io latte di capra nera da fi-
lare in venti giorni venti decine di lino? Maledetta la barca
che mi condusse a questo paese! Va’, ché hai bel tempo, e
troverai filato il lino quando il fegato avrà i peli e la bertuccia
la coda».
Partito il marito, essa, che era altrettanto ghiotta quanto
poltrona, non attese ad altro che a prendere sacchi di farina e
orciuoli d’olio, e a fare zeppole e pizze fritte; e da mattina a
sera rosicchiava come topo e diluviava come maiale. Ma, av-
vicinandosi il termine del ritorno, cominciò a inquietarsi e ad
aver la tremarella, pensando al rumore e al fracasso che sa-
1
Ogni decina, come si è detto, corrispondeva a quattro rotoli.
320
rebbe scoppiato, quando il mercante avesse trovato intatto il
lino, e vuote le casse e le anfore.
Che cosa fece allora? Prese una pertica lunga lunga, vi
avvolse una decina di lino con tutta la stoppa e le lische, ficcò
a una grossa forcina una zucca d’india, e legò la pertica a un
parapetto del terrazzo. Dopo di che, prese a calar giù questo
padre abate dei fusi, tenendo accanto una grande caldaia di
brodo di maccheroni come scodellino d’acqua; e, mentre fa-
ceva fili sottili quante le sartie delle navi, a ogni bagnata di
dito giocava a carnevale con quelli che passavano.
Passarono per caso li dinanzi certe fate, che presero tanto
gusto a questo strano spettacolo, che stettero per schiattare
dalle risa. E le dettero allora la fatagione che, quanto lino a-
vesse in casa, tutto si fosse trovato non solo filato, ma tessuto
in tela e biancheggiato. La qual cosa fu eseguita sull’istante;
tanto che Saporita nuotava nel grasso dell’allegrezza, veden-
dosi piovuta dal Cielo questa buona ventura.
Tuttavia, perché non le dovesse più accadere di ricevere
simile molestia dal marito, si fece trovare a letto, avendo mes-
so sotto le lenzuola una misura di nocciuole. Arrivato il mari-
to, essa cominciò a gemere e, voltandosi ora da una parte ora
dall’altra, faceva scricchiolare le nocciuole, che pareva che le
si scatenassero le ossa. Il marito le domandò come si sentiva,
ed essa rispose con una vocina afflitta afflitta: «Non posso
star peggio di come sto, ché non mi è restato osso sano. E che
ti pare poca erba per la pecora filare venti decine di lino in
venti giorni, e ridurlo altresì a tela? Va’, marito mio, ché non
hai speso per la levatrice, e la discrezione se l’è mangiata
l’asino. Quando io sarò morta, non stare a dire: — Uh, mam-
ma mia! — Perciò, non mi ci cogli più a queste fatiche da ca-
ne: io non voglio, per rimpinzarti fusi, vuotare il fuso della vi-
ta mia».
Il marito, facendole tenere carezze, le disse: «Stammi sa-
na, moglie mia, ché mi è più caro questo bel telaio amoroso
che tutte le tele del mondo; e ora conosco che aveva ragione
tua madre di castigarti perché lavoravi eccessivamente, giac-
ché vedo che ci perdi la salute. Ma sta’ di buon animo, io vo-
glio spenderci un occhio per risanarti, e aspetta, ché vado pel
321
medico». E di corsa andò a chiamar messer Catruopolo.
Frattanto, Saporita si mangiò le nocciuole e gettò dalla fi-
nestra i gusci; e, quando fu venuto il medico ed ebbe toccato
il polso, osservata la faccia, veduta l’orina e odorato il vaso,
concluse con Ippocrate e Galeno che il male suo era di troppo
sangue e di poca fatica. Il mercante, al quale parve di udire un
grosso sproposito, gli mise un carlino nelle mani e lo rimandò
caldo e puzzolente; e voleva andare a cercare un altro cerusi-
co. Ma Saporita gli disse che non ce n’era bisogno e che già
l’averlo riveduto l’aveva sanata.
Così il marito, abbracciandola, la ammonì che da allora in
poi si fosse regolata in modo da non affaticarsi, perché non si
può avere insieme vin greco e cavolo cappuccio1,
piena la botte e la schiava ubbriaca.
1
Perché, nei luoghi dove si coltivano i cavoli cappucci, non può allignare il generoso
vin greco: GAUANI, Del dialetto napoletano, ed. cit., p. 286.
322
IL DRAGONE
1
Testo: «Moniello»; nelle edizioni posteriori, «Meniello»: doveva essere locuzione po-
polare per dire: «che cosa sappia fare una persona abile come me».
327
due damigelle. Subito la rondine le si mise a perpendicolo su-
gli occhi, e, lasciandovi cascare dentro il suo sterco, le tolse la
vista. La maga, che vide a mezzogiorno la notte, e ben sapeva
che con quella serrata di dogana terminava la mercanzia del
suo regno, gettò strida da anima dannata e rinunziò allo scet-
tro, correndo a rintanarsi in certe grotte, dove tanto batté la te-
sta nella roccia, che fini i suoi giorni.
Andata via la maga, i consiglieri inviarono ambasciatori
al re, che venisse a godere la casa propria, perché
l’accecamento di quella gli aveva dato la luce del buon gior-
no; e, nello stesso punto che gli ambasciatori arrivarono,
giunse anche Miuccio, che, istruito dall’uccello, cosi disse:
«T’ho servito di buona moneta: la maga è accecata, il regno è
tuo; ma, se lo merito ricompensa per il servigio che ti ho reso,
non ne voglio altra se non che tu mi lasci stare coi miei ma-
lanni senza mettermi un’altra volta a pericoli». Il re, dopo a-
verlo abbracciato con grande amorevolezza, lo fece coprire1 e
sedere accanto a sé; e se la regina ne crepò di rabbia, ve lo di-
ca il Cielo, tanto che nell’arcobaleno di diversi colori, che si
mostrò sul suo volto, si conobbe il vento delle rovine, che
macchinava nel cuore contro il povero Miuccio.
Poco lungi dal castello, era un dragone ferocissimo, che
nacque allo stesso parto con la regina, e gli astrologi, chiamati
dal padre a strologare questo fatto, sentenziarono che tanto sa-
rebbe campata la figlia sua quanto campava il dragone, e che,
morendo l’uno, sarebbe morta necessariamente anche l’altra;
e solo una cosa avrebbe potuto risuscitarla, cioè se le avessero
unto le tempie, lo sterno, le nari e i polsi col sangue dello
stesso dragone. Ora la regina, che conosceva la forza e la furia
di quest’animale, pensò di mandargli Miuccio nelle granfie,
sicura che se ne sarebbe fatto un sol boccone, e gli sarebbe
stato come la fragola in bocca all’orso. Cominciò, dunque, a
dire al re: «Affé, che Miuccio è il tesoro della casa tua, e sare-
sti ingrato se non l’amassi: tanto più che ha lasciato intendere
di voler ammazzare il dragone, il quale, quantunque mi sia
fratello, ti è cosi nemico, che io voglio piuttosto un pelo di
1
Come un grande del regno.
328
mio marito che cento fratelli».
Il re, che odiava mortalmente il dragone e non sapeva
come liberarsene, subito chiamò di nuovo Miuccio: «So — gli
disse — che tu metti il manico dovunque vuoi; e perciò, a-
vendo fatto tanto e tanto per me, bisogna che mi faccia un al-
tro piacere, e poi disponi di me a tua voglia. Va’ in questo
punto stesso e ammazza il dragone, ché mi renderai un servi-
gio segnalato e io te ne darò buon merito».
Miuccio stava per uscire fuori di sé, e, appena potè spic-
cicare parola, rispose: «Cotesta, ora, è doglia di testa; ora, mi
avete preso a vessare; è forse, la mia vita, latte di capra nera,
che si può farne strapazzo? Non si tratta di una pera sbucciata,
che mi si metta dinanzi alla bocca: si tratta di un dragone, che
con le branche sbrana, con la testa sfonda, con la coda fracas-
sa, coi denti stritola, con gli occhi infetta, col fiato uccide. O-
ra, perché volete mandarmi a morte? E questa la provvisione
che mi è data per avervi dato un regno? Chi è quell’anima
dannata che ha gettato sulla tavola questo dado? Chi è stato il
figlio dell’inferno, che vi ha spinto a questi salti e gonfiato di
queste parole?».
Il re, che era leggiero come pallone a farsi balzare, ma du-
ro più d’una pietra a sostenere quello che aveva detto una vol-
ta, puntò i piedi e disse: «Hai fatto e fatto, e ora ti perdi al
meglio. Ma non più parole! Va’, togli questa peste dal regno
mio; se no, ti tolgo la vita».
Miuccio sventurato, che si sentiva fare ora un favore ora
una minaccia, ora una carezza alla faccia ora un calcio al de-
retano, ora una calda e ora una fredda, considerò quanto mu-
tevoli fossero le fortune delle corti, e avrebbe voluto esser più
che digiuno della conoscenza del re. Ma, sapendo che replica-
re agli uomini grandi è cosa da bestia, ed è come se si volesse
pelare la barba al leone, si ritirò in disparte, maledicendo la
sorte sua che l’aveva ridotto alla corte per fare corte le ore
della propria vita. E, mentre, seduto sul gradino di una porta,
con la faccia in mezzo alle ginocchia, lavava le scarpe col
pianto e scaldava i contrappesi1 coi sospiri, ecco l’uccello con
1
Testicoli.
329
in becco un’erba, che gli gettò in grembo, dicendogli: «Alzati,
Miuccio, e assicurati che non giocherai a scarica l’asino dei
giorni tuoi, ma a sbaraglino della vita del dragone1. Prendi
quest’erba e, arrivato alla grotta di quel brutto animale, getta-
vela dentro, ché subito gli verrà tal sonno sbardellato, che si
piegherà a dormire; e tu, con un bel coltellaccio sotto le an-
che, fagli subito la festa, e vieni via, ché le cose ti riusciranno
meglio che non pensi. Basta, io so bene quel che dico, e ab-
biamo più tempo che danaro, e chi ha tempo ha vita».
Miuccio si alzò e, postosi tra i panni un grosso coltello e
presa l’erba, si avviò alla grotta, la quale si apriva sotto una
montagna di cosi buona statura che i tre monti, che fecero sca-
la ai giganti, non le sarebbero arrivati alla cintura. E, quando
fu all’entrata, gettò l’erba e, appiccato il sonno al dragone,
cominciò a tagliare.
Nel tempo stesso che batteva col coltellaccio le carni
dell’animale, la regina si sentiva intaccare il cuore; e, vistasi a
mal termine, si accorse del suo errore, per essersi comprata a
danari contanti la morte. Chiamò allora il marito e gli disse
quello che avevano prognosticato gli astrologi, e che dalla vita
del dragone pendeva la vita sua, e come sospettava che Miuc-
cio avesse ucciso il dragone, giacché essa si sentiva mancare a
poco a poco.
«Se sapevi — le disse il re — che la vita del dragone era
puntello della tua e radice dei tuoi giorni, perché mi facesti
mandare Miuccio? Chi ne ha la colpa? Tu ti sei fatto il male e
tu lo piangi; tu hai rotto il gotto e tu lo paghi!».
«Non credevo mai — rispose la regina — che un min-
gherlino avesse tant’arte e tanta forza da gettare a terra un a-
nimale che faceva poca stima d’un esercito; e avevo in mente
che vi avrebbe lasciato gli stracci. Ma, poiché ho fatto il conto
senza l’oste e la barca dei miei disegni è andata a picco, fam-
mi un piacere, se mi vuoi bene. Appena sarò morta, prendi
una spugna, intrisa nel sangue del dragone, e ungimi tutte le
estremità della persona prima di seppellirmi».
«Questa è poca cosa all’amore che ti porto — disse il re;
1
Noti giuochi di dadi.
330
— e, se non basterà il sangue del dragone, vi metterò il mio
per darti soddisfazione».
La regina voleva ringraziarlo, ma gli usci lo spirito con le
parole, perché, in quel momento stesso, Miuccio aveva termi-
nato il macello del dragone.
Quando egli giunse innanzi al re per dargli l’annunzio
dell’opera eseguita, il re gli comandò che fosse tornato a rac-
cogliere il sangue del dragone; e, curioso di vedere da vicino
la prova che quello aveva compiuta con le mani, gli tenne die-
tro non visto. All’uscita dal palazzo, l’uccello si fece incontro
a Miuccio e gli domandò: — «Dove vai?». «Vado dove mi
manda il re, che mi fa andar su e giù come spola, e non mi la-
scia riposare un’ora». «A che fare?». «A prendere il sangue
del dragone». «Oh sciagurato te per cotesto sangue di drago-
ne, il quale sarà per te sangue di toro, che ti creperà dentro!
Con quel sangue rinascerà la mala semenza di tutti i tuoi tra-
vagli; ché colei ti ha posto sempre a nuovi pericoli affinché tu
vi lasci la vita; e il re, che si fa mettere la barda da una brutta
strega, ti manda, come un trovatello1, ad arrischiare la perso-
na, che pure è sangue suo, che pure è broccolo di quella pian-
ta. Lo scuso, perché non ti conosce; ma pure il moto del cuore
dovrebbe essere spia della parentela, e i servigi che gli hai re-
si, e il guadagno che ora egli farebbe di un bello erede, do-
vrebbero costringerlo a prendere in grazia quella sventurata di
Porziella, tua madre, che da quattordici anni oramai sta mura-
ta in una soffitta, dove sembra un tempio di bellezza, fabbri-
cato in un camerino».
Il re, che aveva ascoltato ogni cosa, si trasse subito innan-
zi per udire con più particolarità come il fatto era andato; e,
appreso che Miuccio era figlio di Porziella, rimasta incinta di
lui, e che Porziella era ancora viva nella soffitta, subito ordinò
che fosse smurata e condottagli davanti.
E, quando la vide più bella che mai per la buona cura che
ne aveva avuta l’uccello, l’abbracciò con amore grande e non
si saziava di stringere ora la madre ora il figlio, chiedendo
perdono a quella del crudele trattamento che le aveva usato, e
1
Testo: «comme a iettariello»: gettatello.
331
a questo dei pericoli a cui lo aveva posto. E fece subito rive-
stire Porziella con le più ricche vesti della regina morta, e la
prese per moglie.
Offerse poi lo stato e tutto se stesso all’uccello, che aveva
mantenuto in vita la povera giovane procurandole il cibo, e
che aveva col consiglio aiutato il figliuolo a uscire dai perico-
li. Ma l’uccello disse che non voleva altro premio che Miuc-
cio per marito, e si trasformò, nel dir cosi, in una bellissima
giovane.
La richiesta fu accolta con grande gioia dal re e da Por-
ziella, e, mentre la regina morta fu gettata in un tumulo, la
coppia degli sposi colse piaceri a tomoli; e, per celebrare in
modo più solenne le feste, si avviarono al loro regno, dove e-
rano aspettati con gran desiderio. E sempre riconobbero che la
loro buona fortuna era venuta dalla fata pel beneficio resole
da Porziella, perché alla fine delle fini:
Mai non si perde il bene che s’è fatto 1
1
«Una particolare attenzione — scrive Iacopo Grimm — merita la somiglianza che
questa fiaba del Basile ha con la saga di Siegfried. La nascita secreta di Miuccio e il suo
umile ufficio presso il cuoco ricordano la fanciullezza dell’eroe; l’uccello, che lo assiste
di aiuto, ricorda quegli uccelli, dei quali il nordico Sigurd intende il linguaggio e da cui
riceve e accetta consigli. La regina nemica si confronta con Brunhild, ed è insieme
Reigen, che eccita alla lotta col dragone. Il dragone è anche qui il fratello della regina,
la cui vita è legata alla sua. Essa vuole essere appunto spalmata col sangue di lui, al
modo stesso che Reigen aspira al sangue del cuore di Dafner» (Kinder und Hausmär-
chen, 3’ ediz., Göttingen 1856, 111, 292-3).
332
LE TRE CORONE
1
Allusione al modo cattivo di fabbricare allora gli archibugi: si ricordi che il Basile era
stato soldato.
333
o figlio che ti strugga?
Confuso a queste parole, il re non si seppe risolvere e
pensò di consigliarsi coi sapienti della corte. Rientrato, dun-
que, nella sua camera, chiamò i consiglieri, e ordinò loro di
discutere del caso. E chi rispose che si doveva far maggior
conto dell’onore che della vita; altri, che si doveva stimare più
la vita come bene intrinseco, laddove l’onore è cosa estrinse-
ca, e perciò da tenere in minor pregio; uno diceva che, essen-
do la vita acqua che passa, poco importava di perderla, e del
pari le ricchezze, che sono colonne della vita poste sopra la
ruota di vetro della fortuna, ma che l’onore, essendo cosa du-
revole, che lascia orme di fama e segni di gloria, si deve cu-
stodire gelosamente ed esserne tenerissimi; un altro argomen-
tava che la vita, per la quale si conserva la stirpe, e la roba,
per la quale si mantiene la grandezza della casa, si debbono
tener più care dell’onore, per esser l’onore opinione su ragio-
ne di virtù, e che perdere una figlia per colpa di fortuna, e non
per proprio difetto, non pregiudicava la virtù del padre, e non
imbrattava l’onore della casa. Ma, soprattutto, ci furono taluni
altri che conclusero che l’onore non consisteva nelle gonnelle
di una femmina; oltreché il re, come principe giusto, doveva
mirare piuttosto al beneficio comune che all’interesse partico-
lare, e che una figlia fuggitiva faceva un po’ di vergogna solo
alla casa paterna, ma un figlio tristo metteva fuoco, non solo
alla casa propria, ma a tutto il regno; e dunque, poiché brama-
va figli e gli erano proposti questi due partiti, chiedesse la
femmina, che non metteva a pericolo la vita e lo stato.
Questo parere piacque al re, che tornò al giardino, e, gri-
dato di nuovo come soleva e udita la stessa voce, rispose:
«Femmina, femmina!». E alla sera, quando il Sole invita le
ore del giorno a dare uno sguardo ai mostricciattoli degli An-
tipodi, si coricò con la moglie; e, a capo di nove mesi, ne ebbe
una bella figliuola.
Il re la fece subito chiudere in un palazzo fortificato, e
con buone guardie, per non lasciar dal canto suo tutte le dili-
genze possibili che valessero a rimediare al tristo influsso a
cui la figlia andava soggetta; e la educò a tutte le virtù che
stanno bene a regia prole. Giunta in età, trattò e concluse il
334
matrimonio di lei col re di Perdisenno, e allora la tolse da
quella casa, dalla quale non era mai uscita, per mandarla al
marito. Ma, nel momento che essa usciva, venne tal colpo di
vento, che la levò di peso e non la si vide più.
Il vento la portò lungo tratto per l’aria, e poi la lasciò di-
nanzi alla casa di un’orca, in mezzo a un bosco, il quale aveva
sbandito il Sole come appestato per avere ucciso l’infetto1 Pi-
tone. Colà trovò una vecchierella, che l’orca aveva lasciata a
custodia delle robe sue, la quale le disse: «Oh amara la vita
tua, e dove hai posto il piede? Misera te, che se rientra ora
l’orca, padrona di questa casa, non stimerei tre tornesi la pelle
tua, perché essa non si pasce d’altro che di carne umana; e in
tanto la mia vita è sicura, in quanto la necessità del mio servi-
zio la trattiene, e questo vecchio corpo, pieno di sincopi, di
anticori, di fiati e di renelle, è schifato dalle sue zanne. Ma sai
che devi fare? Eccoti le chiavi della casa: entra, rassetta le
stanze e ripulisci ogni cosa, e, quando verrà l’orca, nasconditi
che non ti veda, e io non ti farò mancare da sostentarti. Frat-
tanto, chi sa? il Cielo aiuta, il tempo può portare grandi cose.
Basta: abbi giudizio e pazienza, ché varcherai ogni golfo e
supererai ogni tempesta».
Marchetta (che cosi si chiamava la giovane), facendo di
necessità virtù, si prese la chiave, ed entrata nella camera
dell’orca, per primo dié di piglio a una scopa e fece la casa
cosi netta che potevi mangiare sul pavimento i maccheroni;
poi, con una cotenna di lardo, sfregò di maniera i cassoni di
noce e li fece cosi lustri, che ti ci specchiavi; e, rifatto il letto,
quando senti venire l’orca, si mise dentro una botte, in cui
prima era il grano.
L’orca, che trovò questa pulizia insolita, ne senti un gran
gusto, e, chiamata la vecchia, le disse: «Chi ha fatto questo
bel rassettamento?». E alla risposta della vecchia, che era stata
essa, replicò: «Chi ti fa quel che far non suole, o t’ha gabbato
o gabbare ti vuole. Veramente puoi ficcare uno stecco nel bu-
1
Testo: «nfierto», che è errore di stampa per «nfietto». Il Sole, cioè Apollo: il mito ha relazione con la
Primavera, che vince l’Inverno, il quale riempie la terra d’inondazioni ed esalazioni malsane.
335
co1, avendo fatto una cosa insolita, e meriti porzione grossa di
minestra». E mangiò e andò fuori di nuovo.
Al ritorno, trovò tolte tutte le fuliggini dalle travi, stropic-
ciati e lucidi tutti gli utensili di rame e appesi con bell’ordine
alle pareti, e messi nell’acqua calda tutti i panni sudici; e ne
provò un piacere indicibile e benedisse mille volte la vecchia.
«Il Cielo ti prosperi sempre, madama Pentarosa mia: che tu
possa sempre goder bene e meglio, perché mi rallegri il cuore
con questi bei rassettamenti, facendomi trovare una casa da
bambola e un letto da sposa».
La vecchia, con questa buona opinione guadagnata, se la
godeva e dava sempre buoni bocconi a Marchetta, rimpinzan-
dola come cappone da ingrasso. E, poiché l’orca andò ancora
fuori, essa le disse: «Sta’ zitta, ché voglio arrivare questo
zoppo e tentare la tua fortuna. Fa’ qualcosa di bello con le
mani tue, che vada a genio all’orca; e, se essa giurasse per tut-
ti i sette cieli \ tu non le credere; ma, se per caso giura per le
sue tre corone e tu lasciati vedere, ché la cosa ti riesce a se-
gno, e vedrai che il mio è stato consiglio di mamma».
Marchetta sgozzò una bella papera, e delle estremità fece
uno spezzatino, e, imbottitala bene con origano e aglio, la in-
filò allo spiedo; impastò poi quattro strangolapreti2 sopra un
canestro rovesciato, e preparò una tavola tutta infiorata di rose
e fronde di cedrangoli. L’orca, al trovare questo delicato appa-
recchio, stette per uscir dai panni, e, chiamata la vecchia, le
disse: «Chi ha fatto quel bel servigio?». «Mangia — le rispose
la vecchia, — e non cercare altro: basta che hai chi ti serva e ti
soddisfaccia».
E, mangiando e sentendosi scendere la dolcezza di quei
buoni bocconi fino ai malleoli, l’orca cominciò a mormorare:
«Io giuro per le tre parole di Napoli3 che, se sapessi chi è stato
il cuoco, gli vorrei dare le mie pupille». E poi seguitò: «Io
giuro pei tre archi e le tre frecce, che, se lo conosco, voglio
tenerlo dentro il cuore. Io giuro per le tre candele che
1 boia.
341
342
LE DUE PIZZELLE
1
II mercurio si adoprava contro i pidocchi, che, copiosi come erano in
quel caso, contrastavano alla sua azione, e, con un’operazione
alchimistica, la arrestavano.
345
Sali, dunque, su una nave, avendo con sé Marziella e Puc-
cia; ma, quando fu giunta in mezzo al mare, cogliendo il mo-
mento che i marinai dormivano, spinse Marziella nell’acqua.
E già la misera stava per affogare, quando una bellissima si-
rena la raccolse tra le braccia e se la portò via.
Giunta Troccola a Chiunzo, e ricevuta Puccia da Ciommo
come se fosse stata Marziella, giacché per la lunga separazio-
ne non ne ricordava le sembianze, la condusse subito innanzi
al re; il quale, facendole ravviare i capelli, ne vide piovere
quegli animali cosi mortali nemici della verità che sempre of-
fendono i testimoni1, e, consideratala in volto, osservò che,
alenando forte per la fatica del cammino, aveva fatto una sa-
ponata alla bocca, che pareva una gualchiera di panni; e, ab-
bassando gli occhi a terra, scorse un prato d’erbe fetide, che
gli misero stomaco a mirarle. Sdegnato, scacciò senz’altro
Puccia con la madre, e castigò Ciommo, mandandolo a guar-
dare le oche della corte.
Disperato Ciommo per questo affare, e non sapendo dar-
sene ragione, conduceva le oche pei campi, e lasciandole erra-
re a lor voglia lungo la marina, si ritirava in un pagliaio, dove,
fino a sera, quando era tempo di stendersi a dormire, piangeva
la sorte sua. Ma alle oche che scorrevano pel lido si affacciava
Marziella dalle acque, e le cibava di pasta reale e le abbevera-
va di acqua rosa, tanto che esse erano diventate ognuna quan-
to un castrato, cosi grasse che quasi non potevano aprire gli
occhi. E la sera si spingevano fin sotto un orticello, che ri-
spondeva sotto una finestra del re, e cominciavano a cantare:
Pire, pire, pire!
Il sole è bello ed è bella la luna;
assai più bella chi governa noi.
Il re, sentendo ogni sera questa musica ochesca, mandò
per Ciommo, e volle sapere dove e come e di che pascesse le
sue oche; e Ciommo rispose: «Non do loro altro a mangiare
che l’erba fresca dei campi». Ma il re, che non rimase persua-
so della risposta, gli mandò dietro segretamente un servo fida-
to perché osservasse dove esso menava le oche. Il servo, se-
1
Bisticcio sulle parole testimoni e testicoli, eguali in latino.
346
guendo le sue orme, lo vide entrare nel pagliaio e lasciare le
oche sole; le quali, volgendosi verso la marina, giunsero al li-
do, dove usci dal mare Marziella, che non credo cosi bella
sorgesse dalle onde la madre1 di quel cieco, che, come disse il
poeta, altra limosina non chiede che di pianto.
Il servitore del re, tutto meravigliato e incantato, corse dal
padrone, raccontandogli il bello spettacolo a cui aveva assisti-
to sulla scena della marina. E la curiosità del re, eccitata, lo
mosse a recarsi di persona a contemplarlo; e la mattina, quan-
do il gallo, capopopolo degli uccelli, li solleva tutti ad armare
i viventi contro la Notte, essendo andato Ciommo con le oche
al luogo solito, il re, non perdendolo mai di vista, gli tenne
dietro. Ciommo rimase nel pagliaio e le oche si avviarono alla
marina; e il re vide venir fuori Marziella, che, data a mangiare
una spasetta di paste dolci e da bere una caldaietta di acqua
rosa alle oche, si assise sopra una pietra a pettinarsi i capelli,
dai quali cadevano a manate le perle e i granatini, e intanto
dalla bocca le usciva un nugolo di fiori e sotto i piedi si mira-
va un tappeto soriano di gigli e viole.
Il re chiamò Ciommo e gli domandò se conosceva quella
bella giovane; e Ciommo la riconobbe e corse ad abbracciarla,
e in presenza del re udì tutto il tradimento fattole da Troccola,
e come l’invidia di quella brutta peste aveva ridotto questo bel
fuoco d’amore ad abitare nell’acqua del mare.
Non si può dire il piacere che prese il re per l’acquisto di
così bella gioia; e, voltosi al fratello di lei, gli disse che aveva
gran ragione di lodarla tanto, e che trovava due terzi e più di
quello che aveva descritto, e perciò la stimava più che degna
di essergli moglie, quando si contentasse di accettare lo scet-
tro del regno suo.
«Oh lo volesse il Sole leone — rispose Marziella, — e
potessi venire a servirti come schiava della tua corona! Ma
non vedi tu questa catena d’oro, che mi lega il piede e con la
quale la maga mi tiene prigione, e, quando prendo troppa aria
e troppo mi trattengo alla marina, mi tira dentro alla ricca ser-
vitù, incatenata d’oro?».
1
Venere
347
«Quale rimedio ci sarebbe — disse il re — a levarti dalle
branche di cotesta sirena?».
«Il rimedio sarebbe — rispose Marziella — di segare con
una lima sorda questa catena, e svignarmela».
«Aspettami domattina — replicò il re, — ché io me ne
verrò con l’ordigno pronto e mi ti porterò a casa, dove sarai il
mio occhio diritto, la pupilla del mio cuore e le viscere di
quest’anima».
E, datasi una caparra dell’amor loro col toccarsi le mani,
essa se ne andò in mezzo all’acqua ed egli in mezzo al fuoco,
e a un fuoco tale che non gli dié un momento di riposo tutto il
giorno. E, quando quella nera schiava della Notte usci a fare
tubba-catubba1 con le stelle, non chiuse occhio e andò rumi-
nando con le mascelle della memoria le bellezze di Marziella,
discorrendo col pensiero intorno alle meraviglie dei capelli, ai
miracoli della bocca e agli stupori del piede; e, toccando l’oro
delle grazie sue alla pietra del paragone del giudizio, le trova-
va di ventiquattro carati. E malediceva la Notte che tanto tar-
dasse a riposarsi dei ricami che va facendo di stelle, e be-
stemmiava il Sole che non arrivasse presto col carico della lu-
ce ad arricchire la casa sua del bene tanto desiderato, affin di
portare alla camera sua una miniera d’oro che gettava perle,
una conchiglia di perle che gettava fiori.
Ma, intanto che egli se n’andava per mare pensando a co-
lei che stava nel mare, ecco i guastatori del Sole spianare il
cammino pel quale doveva esso passare con l’esercito dei
raggi; e il re si vestì, e, in compagnia di Ciommo, si avviò alla
marina. E qui, uscita Marziella dalle onde, egli con la lima
che aveva portata segò di mano propria la catena dal piede
della persona amata, sebbene in quell’atto stesso ne fabbricas-
se un’altra più forte al proprio cuore. E si tolse in groppa al
cavallo colei che gli cavalcava il cuore, e trottò alla volta del
palazzo reale, dove Marziella trovò, per ordine del re, tutte le
belle donne del paese, che la ricevettero e l’onorarono come
padrona loro.
1
È ancora allusione al ballo della «Sfessania».
348
Quando il re la sposò, nella gran festa che segui, tra le
tante botti che si accesero per luminaria, fu inclusa come bot-
ticella anche la persona di Troccola, affinché scontasse
l’inganno che aveva fatto a Marziella. Lucida fu mandata a
chiamare e visse, insieme con Ciommo, da signora; ma Puc-
cia, scacciata dal quel regno, andò sempre pezzendo, e, per
non aver voluto seminare un pochetto di pizza, ebbe sempre
carestia di pane, perché:
chi non sente pietà, pietà non trova.
349
350
I SETTE COLOMBI
1
Cioè il cosiddetto Dionisio Catone, nei Dtsticha (III, 20): «Inter convivas
fac sis sermone modestus; Ne dicare loquax, dum vis urbanus haberi».
2
Casale, e ora comune, in provincia di Napoli, circondario di Casoria.
3
Detto scherzoso, già incontrato di sopra: quasi le orecchie si mutassero
nei fanciulli come i denti.
351
Avvicinatosi il tempo del parto, i figli le dichiararono:
«Noi ci ritiriamo a quella ripa che è di fronte: se partorisci
maschio, metti un calamaio e una penna alla finestra; e, se
femmina, metti un mestolo e una conocchia. A questo secon-
do segnale ce ne verremo alla casa a spendere il resto della
nostra vita sotto le tue ali; ma, se vediamo segnale di maschio,
scordati di noi: ci puoi metter nome penna».
Volle il Cielo che Iannetella desse alla luce una bella
bambinotta, e subito essa ordinò alla levatrice che facesse il
segno convenuto ai figliuoli; ma questa fu cosi stordita e di-
stratta che vi mise il calamaio e la penna. E i sette fratelli,
senz’altro, si misero la via tra le gambe, allontanandosi dal
paese.
Dopo tre anni di continuo viaggio, un giorno si trovarono
in un bosco, dove gli alberi al suono di una fiumana che face-
va contrappunto sulle pietre, danzavano l’imperticata1; e in
quel bosco era la casa di un orco, a cui mentre dormiva erano
stati cavati gli occhi da una femmina, e perciò colui era tanto
fiero contro questo sesso che quante femmine gli venivano tra
le granfie, tante ne divorava. Stanchi dal viaggio, languenti
per fame, i giovani gli chiesero se per compassione voleva dar
loro qualche boccone di pane; e l’orco rispose che avrebbe lo-
ro dato da vivere, se volevano mettersi al suo servizio, nel
quale non c’era da far altro di più faticoso che, un giorno per
ciascuno, guidarlo come un cagnolino.
Ai giovani parve di aver trovato la mamma e il padre, e,
conchiuso l’accordo, restarono al servizio dell’orco, il quale,
imparati i loro nomi, ora chiamava Giangrazio, ora Cecche-
tiello, ora Pascale, ora Nuccio, ora Pone, ora Pezillo e ora
Carcavecchia, come si denominavano i sette fratelli. Abitava-
no essi in una stanza terrena della casa, e avevano dall’orco
tanto da poter vivere.
Intanto, cresciuta la sorella e appreso che sette fratelli
suoi, per una distrazione in cui era incorsa la levatrice, s’erano
dati a errare pel mondo, e non se ne aveva più notizia, le ven-
ne pensiero di andarli cercando. E tanto fece e tanto disse alla
1
Vedi nelle Note e illustrazioni.
352
madre, che questa, rintronata da tante preghiere e insistenze,
la vesti da pellegrina e le dié licenza. Camminò e camminò la
giovane Cianna, domandando sempre di terra in terra chi a-
vesse visto sette fratelli; e tanto paese percorse che a una ta-
verna, finalmente, ne raccolse notizie. Si fece allora insegnare
la via per quel bosco; e una mattina, quando il Sole col tempe-
rino dei raggi rade gli scerpelloni che sulle carte del cielo ha
scritto la Notte, si ritrovò in quel luogo, e con grande gioia fu
riconosciuta dai fratelli, i quali maledissero quel calamaio e
quella penna che, con modo da falsario, avevano prescritto lo-
ro tanti travagli. Per altro, dopo averle fatto mille carezze, la
ammonirono di starsene ritirata nella camera loro, che l’orco
non la sentisse, e, oltre a ciò, che di qualunque cosa da man-
giare le venisse tra le mani, ne desse la parte a un gatto, che
stava in quella camera: altrimenti, quella bestia le avrebbe fat-
to qualche male.
Cianna scrisse questi consigli nel quaderno del cuore; e di
ogni cosa che aveva, faceva col gatto da buon compagno, di-
cendo: «Questo a me, questo a te, questo alla figlia del re», e
dividendo fino a un finocchio. Ma un giorno che i fratelli, per
servizio dell’orco, erano andati a caccia, le lasciarono un pa-
nierino di ceci perché li cuocesse; ed essa, nel nettarli, vi tro-
vò in mezzo, per caso, una nocciuola, la quale fu la pietra del-
lo scandalo della sua pace, perché, messala in bocca senza
darne la metà al gatto, questo, per dispetto, saltò sul focolare,
pisciò sul fuoco e lo spense.
Cianna, non sapendo come rimediare, usci di quella ca-
mera, ed, entrata nell’appartamento dell’orco, gli chiese un
po’ di fuoco. Sentita una voce di femmina, l’orco disse: «Ben
venga il mastro! Aspetta un po’, ché hai trovato quello che vai
cercando!». E, presa una cote e untala d’olio, cominciò ad af-
filare le zanne.
Vide Cianna che il carro era male avviato, e, afferrato un
tizzone, si rifugiò nella camera sua e puntellò la porta, non la-
sciando di gettarvi dietro stanghe, sedie, sgabelli di letto, cas-
settine, pietre, e quant’altro era nella stanza. L’orco, dato
ch’ebbe il filo ai denti, corse alla camera di giù, e, trovatala
serrata, cominciò a batterla a furia di calci per sfasciarla.
353
Tra quel fracasso, arrivarono i sette fratelli, e, al sentire il
rumore, e l’orco che strepitava rimbrottandoli come traditori
per aver fatto della loro camera l’asilo dei suoi nemici, Gian-
grazio, che era il maggiore e aveva maggior senno e avvertiva
che la cosa andava male, disse all’orco: «Noi non sappiamo
niente di questa faccenda, e potrebbe darsi che cote sta male-
detta femmina sia entrata nella nostra camera per disgrazia,
mentre eravamo alla caccia; ma, poiché si è fortificata di den-
tro, vieni con me, ché ti conduco in luogo dal quale le daremo
addosso senza che possa difendersi».
Così, preso l’orco per la mano, lo menò dov’era un fosso
profondo, e là i fratelli gli dettero una spinta, lo precipitarono
nel trabocco e con una pala, che si trovarono a mano, lo co-
persero di terra. Poi, fecero aprire la stanza dalla sorella e la
rimproverarono assai del fallo che aveva commesso e del ri-
schio, al quale s’era posta. «Per l’avvenire — le dissero —
sta’ più attenta, e, soprattutto, guardati dal raccogliere erba in-
torno al luogo nel quale è sepolto l’orco, perché, se questo tu
facessi, diventeremmo, tutti e sette, colombi». «Il Cielo mi
guardi — rispose Cianna — ch’io vi apporti questo danno!».
Così si posero nella roba dell’orco e, padroni della casa, sta-
vano allegramente, aspettando che passasse l’invernata, e,
quando il Sole avrebbe dato per strenna alla Terra della pos-
sessione presa nella casa del Tauro una gonnella verde rica-
mata di fiori, si sarebbero messi in viaggio per tornare alla ca-
sa loro.
Accadde che, trovandosi i fratelli alla montagna a far le-
gna da ardere per ripararsi dal freddo che diventava di giorno
in giorno più rigido, passò per quel bosco un povero pellegri-
no, il quale, avendo dato la baia a un gatto mammone, arram-
picato sopra un pino, era stato da quello colpito alla testa da
un frutto di quest’albero e ne aveva riportato un così enorme
bernoccolo, che lo sciagurato urlava come anima dannata.
Cianna, venuta fuori alle strida, impietosita, colse subito una
cima di rosmarino da un cespo che era nato sulla fossa
dell’orco e, cuocendola con pane masticato e sale, gli fece un
empiastro sulla ferita, e poi, datogli da colazione, lo accom-
miatò e si mise ad apparecchiare la tavola, aspettando i fratel-
354
li.
Ed ecco arrivare invece sette colombelli che le dissero:
«Oh tu, che sei causa di tutto il male nostro, meglio che ti si
fossero fatte cionche le mani, prima di cogliere quel maledetto
rosmarino, che ora ci fa andare per la marina! E che? hai
mangiato cervello di gatto1, o sorella, che ti sei lasciato scap-
pare dalla memoria l’avvertimento nostro? Per te, siamo di-
ventati uccelli, soggetti agli artigli dei nibbi, degli sparvieri e
degli astori: per te siamo fatti compagni di meropi, di capine-
re, di cardellini, di strigi, di gufi, di piche, di gazze, di col-
bianchi, di fanelli, di tarabusi, di verle, di allodole, di sciabi-
che, di beccacce, di lucherini, di fringuelli, di regoli, di cin-
ciallegre, di capirossi, di collitorti, di strisciaioli, di balie, di
tuffetti, di forasiepi, di ranocchiaie, di ballerine, di marzaiole,
di bubbole. Hai fatto la bella prova! Ora sì, che siamo tornati
al paese nostro per vederci tese reti e preparato vischio! Per
sanare la testa di un pellegrino, l’hai fracassata a sette fratelli!
E rimedio non c’è al male nostro, se tu non trovi la mamma
del Tempo, che t’insegni la via a cavarci da quest’affanno».
Cianna, come quaglia pelata per l’errore che aveva com-
messo, chiese perdono ai fratelli e s’offerse di tanto girare pel
mondo finché trovasse la casa della vecchia; e, pregandoli di
starsene sempre in casa per evitare qualche sciagura,
s’incamminò. E andò andò senza stancarsi mai, ché, quantun-
que camminasse a piedi, il desiderio di aiutare i fratelli le ser-
viva da mula di procaccio, con la quale faceva tre miglia
all’ora.
Giunta a un lido dove il mare, con la ferula delle onde,
batteva gli scogli che non rispondevano al compito di latino
da esso loro assegnato, vide una grossa balena, che le disse:
«Bella giovane mia, perché vai in giro?». E Cianna: «Vado
cercando la casa della mamma del Tempo». «Sai che devi fa-
re? — le rispose la balena. — Va’ sempre diritto per questa
marina, e al primo fiume che trovi, volgi in su, ché incontrerai
chi ti mostrerà il cammino. Ma fammi un piacere: quando sa-
rai da quella buona vecchia, domandale per grazia da mia par-
1
Vedi nelle Note e illustrazioni.
355
te che mi dia qualche rimedio che io possa camminare sicura
senza urtarmi tante volte agli scogli e dar tante volte
nell’arena». «Lascia fare a me», disse Cianna; e, ringraziatala
per le indicazioni che le aveva fornite, riprese a trottare per la
spiaggia.
Dopo lungo viaggio, giunta a quel fiume che, come com-
missario di fiscale, sborsava monete d’argento alla banca del
mare, si volse a risalirlo, e in una bella campagna, dove il pra-
to faceva la scimmia al cielo col mostrare stellato di fiori il
suo manto verde, trovò un topo, che le disse: «Dove vai cosi
sola, bella donna?». Ed essa: «Cerco la mamma del Tempo».
«Troppo hai da camminare — soggiunge il topo, — ma non
perderti d’animo: ogni cosa ha capo. Cammina pure verso
quelle montagne, che, come libere signore di questi campi, si
fanno dare il titolo d’altezza, e sempre avrai migliore notizia
intorno a quel che chiedi. Ma fammi un piacere: quando sarai
giunta alla casa che desideri, fatti dire da quella buona vec-
chierella qual rimedio potremmo trovare per liberarci dalla ti-
rannia dei gatti; e poi comandami, ché m’avrai comprato per
schiavo».
Cianna glielo promise e si avviò verso quelle montagne,
le quali, quantunque paressero vicine, non si arrivavano mai.
Alla fine pur vi giunse, e, stracca, si sedette sopra una pietra,
dove vide un esercito di formiche che trasportavano una gran
provvista di grano, e una di esse, volgendosi a Cianna, le dis-
se: «Chi sei? Dove vai?». E Cianna, ch’era cortese con tutti,
rispose: «Io sono una giovane sfortunata, che, per cosa che
m’importa, cerco la mamma del Tempo». «Vai più oltre —
disse la formica, — ché, allo sboccare di quelle montagne, in
una grande largura, te ne sarà data notizia; ma rendimi un
gran piacere. Vedi d’intendere da quella vecchia che cosa po-
tremmo fare noi altre formiche per campare qualche tempo;
ché mi sembra una grande pazzia delle cose terrene di dover
mettere insieme tanto cumulo e provvista di cose da mangiare
per una vita cosi breve, la quale, come candela per incanti, al-
la migliore offerta degli anni, si spegne». «Sta’ tranquilla —
disse Cianna, — ché ti voglio rendere la cortesia che mi hai
fatta».
356
Passate quelle montagne, si vide in una bella pianura, nel-
la quale, dopo aver camminato a lungo, trovò una grande
quercia, testimone dell’antichità, confetti di quella sposa che
stava contenta e boccone di dolcezze perdute, che non dà più
il Tempo a questo secolo amaro; e quell’albero, formando
labbra della scorza e lingua del midollo, disse a Cianna: «Do-
ve, dove vai cosi affannata, giovane mia? Vieni all’ombra mia
e riposati». Essa, dicendole gran mercé, si scusò perché anda-
va in fretta a trovare la mamma del Tempo. La quercia, udito
questo, le rispose: «Tu ne sei poco lontana, e non camminerai
un’altra giornata che vedrai sopra una montagna una casa, do-
ve troverai quello che cerchi. Ma, se hai tanta cortesia quanta
bellezza, procura di sapere che cosa potrei fare per ricuperare
l’onore perduto; perché da pasto di uomini grandi sono fatta
cibo di porci». «Lasciane il pensiero a Cianna — essa rispose,
— ché vedrò di servirti».
Cosi detto, parti e, camminando senza riposar mai, giunse
a piede di una montagna guastafeste, che andava col capo a
dar fastidio alle nuvole. Qui trovò un vecchietto, che, per
stanchezza del cammino, s’era coricato in mezzo al fieno; il
quale, allo scorgere Cianna, la riconobbe per quella che gli
aveva medicato il bernoccolo. E, quando udi quel che la gio-
vane andava cercando, le disse ch’esso portava il censo al
Tempo dell’affitto della terra che aveva seminata, e che il
Tempo era un tiranno, il quale s’era usurpate tutte le cose del
mondo e voleva tributo da tutti, e particolarmente da uomini
dell’età sua; e, poiché aveva ricevuto beneficio dalla mano di
Cianna, glielo voleva rendere a cento doppi col darle qualche
buon avvertimento circa la venuta sua a questa montagna, sul-
la quale gli spiaceva di non poterla accompagnare, perché
l’età sua, condannata piuttosto a scendere che a salire, lo co-
stringeva a restare alle falde di essa per saldare i suoi conti
con gli scrivani del tempo, che sono i travagli, i disgusti e le
infermità della vita, e pagare il debito alla natura. E perciò le
disse: «Ora ascolta bene, bella figlia mia senza peccato. Sappi
che sulla cima di quella montagna troverai una rovina di casa,
che non c’è memoria di quando fu fabbricata: le mura sono
screpolate, le fondamenta fracide, le porte tarlate, i mobili
357
muffiti, e, insomma, ogni cosa consumata e distrutta; e di qua
vedi colonne rotte, di là statue spezzate, non essendoci altro di
sano fuorché un’arma sopra la porta inquartata, dove vedrai
un serpente che si morde la coda, un cervo e una fenice1. Co-
me sarai entrata colà, vedrai per terra lime sorde, seghe, falci
e potatoi, e cento e cento caldaiette di cenere coi nomi scritti
come alberelli di speziali, dove si leggono Corinto, Sagunto,
Cartagine, Troia, e mille altre città andate a perdimento, le
quali esso conserva per memoria delle sue imprese. Ora,
quando sarai vicina a quella casa, tirati da parte e sta’ nascosta
fintanto che esce il Tempo, e allora ficcati là dentro e vi trove-
rai una vecchiona, che col mento tocca la terra e con la gobba
giunge al cielo; i capelli, come coda di cavallo leardo, le co-
prono i talloni; la faccia sembra un collare a lattughe2, con le
crespe rigide per l’amido degli anni; e se ne sta seduta sopra
un orologio conficcato nel muro, e, poiché le palpebre sono
cosi grosse che le coprono gli occhi, non ti potrà vedere. Tu,
appena entrata, togli senz’altro i contrappesi all’orologio, e
poi chiama la vecchia e pregala di soddisfarti di quel che de-
sideri. Essa darà subito una voce al figlio, che venga a man-
giarti; ma, poiché all’orologio, che la madre ha sotto di sé,
mancano i contrappesi, quello non potrà muovere passo, e co-
si sarà costretta a concederti quello che vuoi. Ma non credere
a nessun giuramento che ti faccia, se non giura per le ali del
figlio: allora, dàlle fede e fa’ quello che ti dice, perché sarai
contentata».
Nel dir ciò, quel poveretto restò disfatto come corpo mor-
to giacente in un ipogeo, quando è messo alla luce dell’aria. E
Cianna prese quella cenere e, mischiatovi un misurino di la-
crime, scavò una fossa e ve la seppellì, pregandole dal Cielo
quiete e riposo.
Ascesa poi la montagna, la quale le dié l’affanno, aspettò
che uscisse di casa il Tempo, che era un vecchio con una bar-
ba lunga lunga: portava un mantello vecchio vecchio, che era
tutto pieno di cartellini cuciti coi nomi di questo e di quello, e
1
Simboli del ritorno, della velocità e del risorgere.
” Testo: «a lattochiglia»; spagn. «citello de lechuguillas».
358
aveva l’ali grandi e correva cosi veloce, che essa lo perse su-
bito di vista. E, quando entrò nella casa della mamma, Cianna
ebbe a sbigottire a mirare quel tristo sfasciume; e, afferrati e
portati via i contrappesi, rivolse alla vecchia le sue domande.
Essa gittò un grido, chiamando il figlio; ma Cianna le disse:
«Puoi cozzare la testa nel muro, ma non vedrai tuo figlio, per-
ché ho io in mano i contrappesi». E allora la vecchia, veden-
dosi tagliati i passi, prese a lusingarla: «Lasciali andare, bene
mio, non impedire la corsa a mio figlio, cosa che non ha fatto
ancora uomo vivente al mondo. Lasciali andare, che Dio ti
guardi, e io ti prometto per l’acqua forte di mio figlio, con la
quale rode ogni cosa, che non ti farò male». «Perdi tempo —
rispose Cianna: — devi dir meglio, se vuoi che io li lasci».
«Ti giuro per quei denti, che rodono tutte le cose mortali, che
ti farò conoscere quanto desideri». «Non ne fai nulla — repli-
cò Cianna, — perché so che tu mi gabbi». E la vecchia: «Or-
sù, io ti giuro per quelle ali che volano dappertutto, che ti vo-
glio fare maggior piacere di quello che immagini». E Cianna,
lasciati andare i contrappesi, baciò la mano alla vecchia, che
sentiva di muffa e di tanfo.
La vecchia, vedendo la buona creanza della giovane, le
disse: «Nasconditi dietro questa porta, ché, quando il Tempo
sarà venuto, mi farò dire quel che vuoi sapere. E quando esso
torna a uscire, poiché non sta mai fermo in un posto, tu puoi
svignartela; ma non ti far sentire, perché è cosi mangione, che
non perdona neanche ai figli e, quando tutt’altro manca, si
mangia se stesso e poi torna a rigerminare».
Cianna fece quanto le disse la vecchia, e intanto soprav-
venne il Tempo, che, presto presto, svelto e leggiero, rosic-
chiò tutto ciò che gli venne tra mano, perfino il calcinaccio
delle mura; mentre stava per ripartire, la madre lo interrogò
intorno a tutte le cose chiestele da Cianna, pregandolo, pel lat-
te che gli aveva dato, di darle le risposte. Dopo mille preghie-
re, il figlio le rispose: «All’albero si può dire che non sarà mai
caro alle genti, finche tiene sotto le sue radici sepolti tesori.
Al topo, che non mai sarà libero dal gatto, se non gli attacca
un campanello alle gambe per sentire quando viene. Alla for-
mica, che camperà cento anni, se può astenersi dal volare,
359
ché, quando vuol morire, la formica mette le ali. Alla balena,
che faccia buona cera e si tenga per amico il topo marino, il
quale le servirà da guida, e cosi non andrà mai di traverso; e ai
colombelli, che, quando faranno il nido sulla colonna della
ricchezza, torneranno all’essere di prima». Ciò detto, riprese a
correre la solita posta.
Cianna, licenziatasi dalla vecchia, discese al basso della
montagna, nel tempo stesso che vi erano giunti, seguendo le
orme della sorella, i sette colombelli, i quali, stanchi dal tanto
volare, andarono tutti a posarsi sulle corna di un bue morto 1; e
non appena vi si erano fermati che diventarono bei giovani
come prima. Meravigliati di ciò, sentirono la risposta del
Tempo e compresero che il corno, come simbolo della copia2,
era la colonna della ricchezza, accennata dal Tempo.
Dopo aver fatto una grande festa con la sorella, tutti in-
sieme si avviarono per la via già percorsa da Cianna, e, giunti
presso l’albero di quercia e riferitogli il pensiero del Tempo,
l’albero li pregò di levargli di sotto il tesoro, che era causa che
la ghianda fosse scapitata di riputazione. I sette fratelli, presa
una zappa, ch’era in un orto, tanto scavarono finché scopriro-
no un grosso vaso pieno di monete d’oro, le quali divisero, in
otto parti, tra essi e la sorella, per poterle portare più como-
damente.
Il viaggio e il peso furono cagione che il sonno li vinces-
se, onde si stesero a dormire presso una siepe. Ma una banda
di malandrini, che capitò in quel luogo, vistili immersi nel
sonno, con la testa appoggiata agl’involti di tornesi, li legaro-
no con le mani e coi piedi agli alberi vicini, si presero i quat-
trini, e li lasciarono a far lamento, non solo del bene che, ap-
pena afferrato, era loro scappato di mano, ma anche della vita
loro, giacché, privi di ogni speranza di aiuto, stavano a rischio
o di morire consumati dalla fame o di placare la fame di qual-
che animale selvaggio. E, mentre si dolevano della loro atroce
sorte, giunse il topo, che, udita la risposta del Tempo, per ri-
meritare il servigio, rosicchiò le cordicelle con cui stavano le-
1
Uno dei tanti accenni e figurazioni satiriche del Basile circa le corna e i lucri che re-
cano a chi le sopporta.
'* Testo: «simmolo de la capra», che è evidente errore.
360
gati e li rimise in libertà.
Camminarono un altro buon tratto e per la strada incontra-
rono la formica, la quale, udito il consiglio del Tempo, do-
mandò a Cianna che cosa avesse che se ne stava cosi abbattu-
ta e gialliccia di colore; ed essa le narrò la disgrazia sofferta e
il tiro giocato loro dai ladri. «Zitto! — le rispose la formica,
— ché mi si presenta il modo di ricambiarvi il favore che ho
ricevuto da voi. Sappiate che, mentre trasportavo sotto terra
un carico di grano, ho visto il luogo ove cotesti cani assassini
nascondono i furti loro, certe grotticelle sotto una vecchia
fabbrica, nelle quali stivano le cose rubate; e, ora che essi so-
no in giro per qualche altra rapina, vi ci voglio accompagnare
e insegnarvi il posto, tanto che possiate ricuperare il vostro».
E s’avviò verso certe case in rovina e indicò ai sette fratelli
l’apertura di un sotterraneo, nel quale calatosi Giangrazio,
come più animoso degli altri, trovò tutti i danari che erano sta-
ti loro tolti, e se li ripresero.
Andarono, dopo di ciò, verso la marina, dove dissero alla
balena il buon avviso datole dal Tempo, che è padre di consi-
gli; e, mentre stavano discorrendo del viaggio che avevano
fatto e dei casi incontrati, videro spuntare quei bricconi, arma-
ti fino ai denti, che erano venuti sulla pista delle loro pedate.
«Oimè! — gridarono: — questa è la volta che non resterà nul-
la di noi sventurati, perché già ci sono addosso i ladroni arma-
ta mano, e ci toglieranno la vita!». «Non dubitate — disse la
balena, — ché io son buona a cavarvi dal fuoco per rendervi il
ricambio del buon amore che mi avete mostrato. Orsù, monta-
te sul mio dorso, ché subito vi trasporterò in luogo sicuro».
I meschini, che si vedevano i nemici alle spalle e l’acqua
davanti, salirono sulla balena, la quale, allontanandosi dagli
scogli, li portò alla volta di Napoli, dove, non confidando di
sbarcarli per esservi poco fondo, disse loro: «In qual punto
volete che vi lasci della costa di Amalfi?».
Giangrazio rispose: «Vedi se possiamo farne di meno, bel
pesce mio, perché in nessuno di cotesti luoghi approdo con-
tento. A Massa si dice salute e passa; a Sorrento, stringi i den-
ti; a Vico, porta pane con teco; a Castellamare, né amico né
compare».
361
La balena, per far loro gradimento, voltò carena verso lo
scoglio del Sale, dove li lasciò, e di là, dalla prima barca di
pescatori che si trovò a passare, si fecero mettere a terra.
Cosi tornarono al loro paese sani, belli e ricchi, e consola-
rono la madre e il padre, e godettero per la bontà di Cianna
una vita felice, la quale aggiunse una fede autentica all’antico
motto:
Sempre che puoi, fa’ bene e te ne scorda.
362
IL CORVO
1
«Non mihi si linguae Centura sint, oraque centum, Ferrea vox, etc.»:
VERG., Aen., VI, 625-7.
363
questa strada, che un giorno la fortuna lo portò a un bosco,
che aveva fatto uno squadrone fitto e serrato di alberi e di ter-
ra per non essere rotto dai cavalli del Sole. Ivi, sopra una bel-
lissima pietra di marmo, trovò un corvo, che era stato ucciso
di fresco. A quel vivo sangue, schizzato sopra la bianchissima
pietra, il re gettò un gran sospiro e disse: «Oh Cielo! e non po-
trei avere una moglie cosi bianca e rossa come questa pietra, e
che avesse i capelli e le sopracciglia cosi nere come le piume
di questo corvo!».
In tal pensiero Milluccio si sprofondò tanto, che per un
tratto formò il paio con quella pietra, e parve una statua di
marmo che facesse all’amore con un altro marmo. E, ficcatosi
quel doloroso capriccio nel cervello, e andandone in cerca col
vischio del desiderio, quello si fece in poco tempo da stecchi-
no, pertica, da melofioccolo zucca d’india, da caldaietta di
barbiere fornace di vetraio e da nanerottolo gigante: di guisa
che Milluccio non pensava ad altro che a quell’immagine in-
castrata nel suo cuore come pietra con pietra. Dovunque vol-
geva gli occhi sempre vedeva quella forma, che portava nel
petto; e, scordatosi di ogni altra faccenda, altro non aveva che
quel marmo nel capo; e si era assottigliato in modo su questa
pietra che se ne andava in consunzione. Gli era, quella pietra,
mulino che gli macinava la vita; porfido, dove si stemperava-
no i colori1 dei giorni suoi; focile, che metteva fuoco allo zol-
fanello dell’anima; calamita, che lo tirava; e, finalmente, pie-
tra radicata nella vescica, che non gli dava requie.
Iennariello, suo fratello, vedendolo cosi giallo e smorto,
gli disse: «Fratello mio, che cosa ti è accaduto che porti il do-
lore alloggiato negli occhi e la disperazione arrolata sotto
l’insegna pallida di questa faccia? Parla, sfogati con tuo fratel-
lo! Il puzzo del carbone in una camera chiusa appesta le per-
sone; la polvere, compressa in una montagna, fa volare le
schegge in aria; la rogna, rinserrata nelle vene, infracida il
sangue; la ventosità, ritenuta nel corpo, genera flati e coliche
violente. Perciò apri la bocca e dimmi quel che senti. In ulti-
mo, puoi assicurarti che, in quel che posso, metterò millanta
1
La pietra usata dai pittori per macinare i colori.
364
vite per giovarti».
Milluccio, masticando parole e sospiri, lo ringraziò del
buon amore, dicendogli che non dubitava del suo affetto, ma
che il male che sentiva non aveva rimedio, perché nasceva da
una pietra, dalla quale non aspettava neanche un fungo di pia-
cere; da una pietra di Sisifo, che, portata sul monte dei dise-
gni, toccando la cima, rotolava giù al piede. Pure, in ultimo,
dopo mille preghiere, gli disse tutto quel che era del suo stra-
no innamoramento.
Udito il caso, Iennariello lo consolò come meglio potè e
gli fece animo, che non si lasciasse trascinare dall’umore ma-
linconico; perché esso, per dargli qualche soddisfazione, era
deliberato di viaggiare tutto il mondo, finché trovasse una
donna che fosse l’originale di quella pietra.
Cosi fece armare subito una grossa nave piena di mercan-
zie e, vestitosi da mercante, tirò alla volta di Venezia, spec-
chio d’Italia, ricetto di virtuosi, libro maggiore delle meravi-
glie dell’arte e della natura, dove, fattosi dare un salvacondot-
to per passare in Levante, fece vela pel Cairo. Entrando in
questa città, si scontrò con uno che portava un bellissimo fal-
cone, e subito se lo comprò per portarlo al fratello, che era
cacciatore; e, poco più oltre, s’imbatté in un altro con un ca-
vallo stupendo, che pure comprò; e poi si fermò a una taverna,
per ristorarsi dei travagli passati in mare.
La mattina seguente, quando l’esercito delle stelle, pel
comando del generale della luce, leva le tende dallo steccato
del cielo e abbandona il posto, Iennariello cominciò a girare
per la città, mettendo, come lupo cerviero, gli occhi dappertut-
to, squadrando questa femmina e quella, per vedere se potesse
trovare in un volto di carne la somiglianza di una pietra. E,
mentre andava sbalestrato di qua e di là, guardando sempre
attorno come ladro che ha paura degli sbirri, incontrò un pez-
zente, che portava addosso uno spedale di empiastri e una
giudecca di cenci.
Costui gli disse: «Galantuomo mio, che cos’hai, che ti ve-
do cosi sbigottito?». «Debbo dire a te i fatti miei? — rispose
Iennariello. — Aspetta fin che finisca di fare il pane, e poi
conterò i fatti miei agli sbirri».«Piano! bel garzone mio — re-
365
plicò il pezzente, — ché la carne dell’uomo non si vende a
peso. Se Dario non raccontava i casi suoi a un mozzo di stal-
la1, non diventava re di Persia. Perciò non sarebbe cosa strana
che tu dicessi i fatti tuoi a un povero pezzente, perché non c’è
fuscello cosi sottile che non possa servire per nettare i denti».
Iennariello, che senti il parlare aggiustato e assennato di
questo poveretto, gli espose il motivo che l’aveva portato a
quel paese, e che cosa andasse con tanta diligenza cercando. Il
pezzente, dopo aver ascoltato, gli rispose: «Or vedi, figlio mi-
o, come bisogna far conto di ognuno; perché, sebbene io sia
spazzatura, pure sarò buono a ingrassare l’orto delle speranze
tue. Ascolta! Io, col pretesto di cercare la limosina, picchierò
alla porta di una bella giovane, figlia di un necromante. Apri
bene gli occhi, vedila, contemplala, squadrala, considerala,
misurala, che troverai la figura di quello che tuo fratello desi-
dera».
E picchiò alla porta, e la giovane, che si chiamava Luciel-
la, si affacciò per gettargli un tozzo di pane; e Iennariello, to-
sto che la vide, riconobbe che la fabbrica rispondeva proprio
al modello descrittogli da Milluccio. Data perciò una buona
limosina al pezzente, se ne andò alla taverna e si travesti da
venditore di lacci e spille, mettendo in due cassette tutto il be-
ne del mondo; e tornò dinanzi alla casa di Luciella, passando
e ripassando e dando la voce della merce che vendeva, finché
la giovane lo chiamò.
Luciella passò in rassegna quelle belle reticelle, veli pel
capo, nastri, filondenti, trine, pizzi, pannolini, fibbie, spille,
scodelline di rossetto e tocchi di regina, che portava; e dopo
aver visto e rivisto, in ultimo chiese che le mostrasse qualche
altra cosa di bello. Iennariello rispose: «Signora mia, dentro
questa cassetta io porto merci grossolane e di poca spesa; ma,
se vi degnaste di venire alla nave mia, vi farei vedere roba
dell’altro mondo, perché ho tesori di cose belle e degne di
gran signore». Quella, che, per non pregiudicare alla natura
delle donne, era piena di curiosità, gli disse: «Affé, che se mio
padre non fosse via, vorrei darvi una guardata». «Tanto me-
1
Oibare, custode dei cavalli, del quale narra ERODOTO, III, 85-87.
366
glio potreste venire — replicò l’altro, — perché forse vostro
padre non vi concederebbe questo piacere, e io vi prometto di
farvi vedere sfoggi da mandare in aria il cervello. Quali colla-
ne e orecchini! Quali cinture e busti! Quali lavori di merletto!
Insomma, vi vo’ fare strasecolare».
Non resistè Luciella alla descrizione di questo grande ap-
parato di cose belle; e, presa per compagnia una sua comare,
s’avviò alla nave. E là, mentre egli la teneva incantata, mo-
strandole tante ricchezze, fece destramente levar l’àncora e
tendere le vele; sicché, prima che Luciella alzasse gli occhi
dalle mercanzie e si vedesse allontanare dalla terra, già aveva
percorso più miglia.
Quando tardi s’avvide dell’inganno, cominciò a fare
l’Olimpia all’inverso1, perché, se quella si lamentò lasciata
com’era su uno scoglio, essa si lamentò di lasciare gli scogli.
Ma Iennariello le disse chi era, dove la portava e la fortuna
che l’aspettava, e le dipinse la bellezza di Milluccio, il valore,
la virtù, e finalmente l’amore col quale l’avrebbe ricevuta; e
tanto fece e tanto disse che essa s’acquetò, e anzi cominciò a
pregare il vento che l’avesse portata subito a veder colorito il
disegno che Iennariello le aveva delineato. Cosi navigando al-
legramente, a un tratto sentirono sotto la nave mormorare
l’onda, che, sebbene parlasse sottovoce, fu intesa dal padrone
della nave, il quale gridò: «Ogni uomo all’erta, ché ora viene
un temporale, che Dio ce la mandi buona!». A queste parole si
aggiunse la testimonianza di un fischiar di vento; e il cielo si
coverse di nuvole e il mare di cavalloni. E, poiché le onde cu-
riose di conoscere i fatti altrui, senz’essere invitate a nozze,
salivano sulla nave, chi raccoglieva l’acqua con le conche e la
versava in una tinozza, chi le dava lo sfratto con una tromba;
e, mentre ogni marinaio, poiché si trattava di causa propria,
attendeva chi al timone, chi alla vela, chi alla scotta, Iennariel-
lo salì sulla gaggia per mirare con un occhiale di lunga vista
se poteva scoprire terra, alla quale dar fondo.
Ed ecco, mentre superava cento miglia di distanza con
due palmi di cannello, vide passare un colombo e una colom-
370
cosa che in altro tempo avrebbe pagata a danaro contante1, e
ora gliene piangeva il cuore. Alla fine, venendo al fatto del
dragone, rimase tutto di pietra, come una statua, in mezzo a
quella sala.
Il re, sbalordito, udendo il discorso e assistendo a quella
improvvisa metamorfosi, apprese il proprio grande errore e il
temerario giudizio che aveva fatto di un fratello cosi amore-
vole; e ne fece lutto per più di un anno, e, ogni volta che ri-
pensava all’accaduto, gli scorreva un fiume di lacrime.
In questo tempo Luciella die alla luce due figli maschi,
che erano i più belli che si potessero vedere al mondo: e, un
giorno che la regina era andata per diletto alla campagna, e il
padre stava coi due bambini contemplando con gli occhi la-
crimosi quella statua, memoria dell’insensatezza sua, che gli
aveva fatto perdere il fiore degli uomini, entrò a un tratto nella
sala un gran vecchione, a cui la zazzera nascondeva le spalle e
la barba copriva il petto. Costui s’inchinò al re e gli disse:
«Quanto pagherebbe la Corona vostra, se questo bel fratello
ridiventasse com’era prima?». E il re rispose: «Tutto il mio
regno».
«Non è cosa questa — riprese il vecchio — che voglia
premio di ricchezza, perché si tratta di vita, e la vita si deve
pagare con altrettanta vita».
Rispose il re, tratto in parte dall’amore che portava a Ien-
nariello e in parte dal rimorso del male che gli aveva fatto:
«Credimi, messere mio, che io metterei la vita mia per la vita
sua; e, purché egli uscisse fuori da questa pietra, mi contente-
rei d’esserci messo dentro io».
«Senza mettere la vita vostra a questo cimento — disse il
vecchio, — perché si stenta tanto a tirar sù un uomo, baste-
rebbe il sangue dei bambini vostri, che, bagnandone il marmo,
lo farebbe subito tornare vivo».
Il re disse a sua volta: «I figli si fanno: c’è la stampa di
questi bambolotti; ne faremo degli altri; ma mi si ridia un fra-
tello, del quale non potrò mai avere altro pari».
1
Per intendere la lubrica allusione leggere, per esempio, la canzone del MARINO, Amo-
ri notturni (vedila nella Lira, ed. di Venezia, 1664, parte II, p. 269), al luogo: «Certo di
sasso sei», e via.
371
E, senz’altro, fece dinanzi a quell’idolo misero di pietra
sacrificare due agnelletti innocenti; e, non appena ebbe del lo-
ro sangue tinta la statua, questa diventò vivente, e il re Mil-
luccio riabbracciò Iennariello, e fecero tra loro un giubilo da
non dire.
I due corpicini furono messi in una cassa per seppellirli
con l’onore che si doveva; quando tornò la regina dalla cam-
pagna. Il re nascose il fratello, e disse alla moglie: «Che cosa
pagheresti, cuor mio, se mio fratello tornasse vivo?». «Lo pa-
gherei — rispose Luciella — con tutto questo regno». «E gli
daresti il sangue dei figli tuoi?», domandò il re. «Cotesto no
— replicò la regina, — ché non sarei cosi crudele da cavarmi
con le mie mani stesse le pupille degli occhi miei». «Oimè! —
continuò il re — che, per veder vivo il fratello, ho scannato i
figli. Ed ecco appunto il prezzo della vita di Iennariello!».
E le mostrò i figli nella cassa; e Luciella, all’orrendo spet-
tacolo, si dié a gridare come pazza: «O figli, figli miei, o pun-
telli di questa vita, o pupille di questo cuore, o fontane del
sangue mio! Chi ha fatto questa macriata alle finestre del So-
le? Chi ha salassato, senza licenza di medico, la vena princi-
pale della vita mia? Oimè, figli miei, speranza mia distrutta,
luce intorbidata, dolcezza avvelenata, gruccia perduta! Voi
siete pertugiati di ferro, io trafitta dal dolore; voi, affogati nel
sangue, io, annegata nelle lacrime! Oimè, che per dar vita a
uno zio, avete ucciso una mamma; perché io non posso tesse-
re piu la tela dei giorni miei senza di voi, contrappesi belli del
telaio di questa misera vita: conviene che sfiati l’organo delle
voci mie, ora che gli sono tolti i mantici! O figli, o figli! Per-
ché non rispondete alla mammarella vostra, che già v’infuse il
suo sangue nel corpo, e ora ve lo versa dagli occhi! Ma, poi-
ché la sventura mia mi fa vedere seccata la fonte dei miei di-
letti, non voglio piu restare perpetua afflizione a questo mon-
do. Ora me ne vengo, sulle orme vostre, figlietti miei, a ritro-
varvi!».
E corse alla finestra per precipitarsi; ma, in quel momento
stesso, per quella finestra, entrò il padre suo in una nuvola e le
disse: «Férmati, Luciella! Io, con un viaggio e tre servigi, mi
sono vendicato di Iennariello, che venne a trafugarmi la figlia
372
di casa, e l’ho fatto stare per tanti mesi, come dattilo di mare,
in una pietra; ho punito te del tuo cattivo comportamento di
esserti lasciata sviare su una nave, col farti vedere due figli,
anzi due gioie, scannati dal loro padre stesso; ed ho mortifica-
to il re del suo capriccio di donna gravida, che prima l’aveva
reso giudice criminale del fratel suo, e poi boia dei figli. Ma,
poiché vi ho voluto bensì radere ma non già scorticare, voglio
che tutto il veleno che vi ho dato vi diventi pasta reale; e per-
ciò va’ a riprenderti i tuoi figli e miei nipoti, ché li troverai
più belli di prima; e tu, Milluccio, abbracciami, ché ti accetto
per genero e per figlio, e perdono a Iennariello le offese, a-
vendo egli fatto quel che ha fatto per servire un fratello tanto
meritevole».
Ciò detto, vennero i bambini, che il nonno non si saziò di
abbracciare e baciare; e in quella allegrezza entrò per terzo
Iennariello, che, essendo passato per la trafila, ora se n’andava
in brodo di maccheroni, sebbene, con tutti i premi che provò
poi nella sua vita, non mai gli uscirono di mente i pericoli
passati, pensando all’errore del fratello e a quanto convenga
all’uomo essere accorto per non cadere in un fosso, perché
ogni umano giudizio è falso e storto.
373
374
LA SUPERBIA PUNITA
1
Per questa frase, vedi p. 175, n. 9.
376
cordò al giardiniere quel contento.
La terza mattina, prima che il Sole venisse a battere il fo-
cile sull’esca dei campi, il giardiniere mise in mostra nel me-
desimo luogo un bellissimo giubbone, che andava di concerto
col vestito; e Cinziella, mirandolo, disse: «Se non ho quel
giubbone, non sarò contenta». Chiamò, dunque, il giardiniere,
e gli parlò: «E necessario, brav’uomo mio, che tu mi venda
quel giubbone che ho veduto nel giardino, e prenditi il mio
cuore».
Il giardiniere rispose: «Io non lo vendo; ma, se vi piace, vi
do il giubbone, e anche una catena di diamanti, e voi fatemi
dormire una notte nella camera vostra».
«Ora hai del villano! — esclamò Cinziella. — Non ti ba-
sta che hai dormito nella sala, e poi nell’anticamera: ora vuoi
la camera! A poco a poco, vorrai dormire nel mio letto!».
Il giardiniere disse: «Signora mia, io mi tengo il giubbone
mio, e voi la camera vostra: se avete voglia di stringere
l’affare, conoscete la strada. Io mi contento di dormire per ter-
ra, cosa che non si negherebbe a un turco; e, se vedeste la ca-
tena che voglio darvi, forse mi dareste un peso piu giusto».
Cinziella, in parte tirata dall’interesse, in parte sospinta
dalle damigelle, che aiutavano i cani alla salita, si lasciò anda-
re a contentarlo. E, venuta la sera, quando la Notte, come cor-
saro, getta l’acqua di concia sulla pelle del Cielo, onde essa
diventa nera, il giardiniere, presi la catena e il giubbone, andò
all’appartamento della principessa, e, consegnatele queste co-
se, fu introdotto nella camera.
La principessa lo spinse in un angolo e gli disse: «Ora sta’
costà, fermo, e non muoverti, per quanto stimi la grazia mia»;
e, tirata per terra una linea col carbone, soggiunse: «Se questa
passi, la vita ci lasci»; e, fatto attorniare della tenda il suo let-
to, si coricò.
Tosto che il giardinierere la senti addormentata, sembran-
dogli tempo di lavorare i campi dell’amore, le si coricò a lato,
e, prima che la padrona del luogo si svegliasse, colse i frutti
amorosi. Costei, destatasi e visto quel che le era accaduto, non
volle, per rimediare a un male, farne due, e, per rovinare il
giardiniere, mandare in rovina lo stesso giardino; e, traendo di
377
necessità vizio, si contentò del disordine e senti piacere
dell’errore; ed essa, che aveva tenuto a disdegno le teste coro-
nate, non si trattenne dall’assoggettarsi a un villanzone, ché
tale pareva il re e per tale essa lo stimava.
La pratica continuò e Cinziella venne incinta; e, vedendo-
si di giorno in giorno ingrossare la persona, disse al giardinie-
re che si conosceva rovinata, se il padre s’accorgeva della co-
sa, e perciò pensassero tra loro a rimediare al pericolo. Quegli
rispose che non sapeva trovare altro rimedio al male che ave-
vano fatto che di andarsene insieme, e l’avrebbe condotta in
casa di una sua antica padrona, la quale le avrebbe dato qual-
che comodità nel prossimo parto. E Cinziella, ridotta a mal
partito, tirata dal peccato della sua superbia, che la gettava di
scoglio in scoglio, si lasciò persuadere da quelle parole, e, ab-
bandonando la propria casa, si commise all’arbitrio della for-
tuna.
Dopo lungo cammino, colui la condusse a casa sua, e, in-
formata di ogni cosa sua madre, la pregò che dissimulasse,
perché voleva farsi pagare la passata boria di Cinziella. E co-
sì, adattatala in una stalluccia del palazzo, la tenne in vita mi-
serabile, mandandole il pane con la balestra. E un giorno che
le serve di casa facevano forno, egli disse loro che chiamasse-
ro Cinziella ad aiutarle, e nel tempo stesso insinuò a Cinziella
di trafugare qualche ciambelletta per rimedio alla loro fame.
La sventurata Cinziella, nel cavare il pane dal forno, pro-
fittando dell’istante, tra occhi e occhi, sottrasse una ciambel-
letta e se la nascose in tasca. Ma in questo sopravvenne il re,
vestito da quel che era, e disse alle ragazze: «Chi vi ha dato il
permesso di far entrare cotesta donnicciuola guitta in casa?
Non vedete alla faccia, che è una ladra? Mettetele le mani in
tasca e troverete il delitto in genere». E, frugatala, le trovaro-
no il pane nella tasca, e le lavarono il capo di buona maniera,
che tutto il giorno durò la baia e la beffa.
Il re riprese il suo travestimento, andò da Cinziella e la
trovò scornata e triste per l’affronto ricevuto. Ma egli le disse
che non si desse tanta pena per quel caso, giacché la necessità
è tiranna degli uomini, e, come disse quel poeta toscano:
...’l poverel digiuno
378
viene ad atto talor che in
miglior stato avria in altrui bia-
smato1.
E, se la fame caccia il lupo dal bosco, essa doveva tenersi
scusata se faceva quello che non starebbe bene ad altri. E le
insinuò di salire ora dove la signora stava tagliando certe tele,
e, offrendosi di aiutarla, vedesse di agguantarne qualche pez-
zo, perché, essendo prossima a partorire, le bisognava tutto.
Cinziella, che non sapeva contrariare il marito (ché per ta-
le lo teneva), salì all’appartamento della regina e, frammi-
schiatasi alle damigelle a tagliare lenzoletti, fasce, berrettini e
dande, trafugò un pannolino e se lo mise sotto le vesti. Ma,
tornato il re e fatto un altro rimprovero come già del pane, e
trovatole addosso il furto, ne ebbe un’altra sciroppata
d’ingiurie, come se le avessero scoperto sotto un intero buca-
to; e, rossa di vergogna, se ne ridiscese alla stalla.
Anche questa volta il re ricomparve travestito; e, veden-
dola afflitta e disperata, la confortò a non lasciarsi vincere dal-
la malinconia, ché tutte le cose del mondo sono opinione, e
perciò vedesse ancora se potesse guadagnarsi qualche cosetta,
perché ormai il parto era imminente. «In questo momento, c’è
piovuta una bella occasione. La padrona ha fidanzato il figlio
con una signora forestiera, alla quale vuol mandare un dono di
vesti di broccato e di tela d’oro, belle e fatte, e la fidanzata è
giusto della tua statura. Sarà facile dunque, che ti venga nelle
mani qualche bel ritaglio, e tu mettilo in corbona2, ché lo ven-
diamo e campiamo la vita».
Cinziella, eseguendo il comando del marito, s’era chiuso
in petto un buon palmo di broccato riccio, quando capitò il re,
e, fatto un gran fracasso, ordinò di frugare Cinziella; e, trova-
to il furto, la scacciò con vergogna grande. Ma, poi, travesti-
tosi da giardiniere, scese di corsa a consolarla; ché, se con una
mano la pungeva, con l’altra, per l’amore che le portava, si
1
PETRARCA, parte I, canz. XVI: «Ben mi credea passar mio tempo ornai».
2
Testo: «miettelo ncorbona»; cioè propr. nella borsa in cui si raccolgono
nei templi le offerte.
379
compiaceva di ungerla, per non spingerla alla disperazione.
La sciagurata Cinziella, pel cruccio di quello che le era
accaduto, e che teneva castigo del Cielo a causa
dell’arroganza e superbia già mostrata, sicché essa, che tratta-
va da stracci pei piedi tanti principi e re, ora era trattata da vi-
le donnicciuola, e avendo avuto il cuore duro ai consigli del
padre, ora faceva il viso rosso alle baiate delle serve; per la
collera, dico, che provò della vergogna inflittale, si senti veni-
re le doglie.
La regina, subito avvisatane dal figliuolo, la fece salire
nel suo appartamento, e, mostrando compassione dello stato
suo, la mise in un letto tutto ricamato d’oro e di perle, in una
stanza tappezzata di tela d’oro; cosa che fece strasecolare
Cinziella, vedendosi trasportata da una stalla a una camera re-
ale, dal letame a un letto tanto grazioso, e non sapeva rendersi
conto di quel che le era accaduto. E le fu attorno gente premu-
rosa, e le dettero brodi e biscottini per ingagliardirla al parto-
rire. Ma, come volle il cielo, senza troppo affanno, dié alla lu-
ce due bellissimi maschiotti, che erano la più vaga cosa che si
potesse vedere.
Non appena ebbe partorito, che entro il re, il quale disse:
«E dove se n’è andato il vostro giudizio, che avete messo
la gualdrappa all’asino? É letto cotesto per una brutta donnac-
cola? Presto, fatela saltare a colpi di randello da questo luogo,
e spandete suffumigi di rosmarino nella camera, perché se ne
tolga il puzzo».
La regina allora disse: «Non più, figlio mio; basta, basta il
tormento che hai dato a questa povera giovane! Dovresti ora
esser sazio di averla ridotta, con tanti strazi, a berretto di not-
te; e, se non ancora sei soddisfatto del disprezzo che ti mostrò
alla corte sua, a pagarti il debito valgano queste due belle
gioie, che essa ti dona». E fece portare i bambini, ch’erano la
più bella cosa del mondo.
Il re, al vedere quei due pacioncelli, si senti tutto inteneri-
re; e, abbracciata Cinziella, si dié a conoscere per quel che e-
ra, dicendole che quanto le aveva fatto era stato per sdegno di
veder trattato a quel modo un re pari suo, ma che da ora in poi
l’avrebbe tenuta in palma di mano. E la regina, dall’altro can-
380
to, abbracciandola come nuora e figlia, le dette, insieme col
re, cosi buona mancia per quei figli maschi, che le parve assai
più dolce questo istante di consolazione che tutti i passati af-
fanni: benché sempre, d’allora in poi, ebbe in mente di tener
basse le vele, ricordando come
figlia della superbia è la rovina.
381
382
GIORNATA QUINTA
1
Questi e i seguenti sono giuochi di carte, dei quali sarebbe superflua la descrizione
particolare, tanto più che qui non valgono se non pei bisticci a cui dan luogo i loro
nomi.
384
prio questo fanno venti e trenta signori, trasformandosi sem-
pre che vogliono mettere nel sacco un povero principe».
E, ripigliando, Cola Iacovo disse: «Signora Antonella, per
la vita vostra, non perdiamo questo tempo: giochiamoci un bel
piatto di zeppole alla gabella ».
«L’hai trovato! — rispose Antonella. — Meno male che
mi tratti da femmina mercenaria».
«Non dice male — commentò Taddeo, — ché cotesta ge-
nia di femmine si sogliono spesso ingabellare».
«Diamine arrivala! — continuò Cola Iacovo: — io co-
mincio a credere che l’ora passerà senza che ci prenderemo
spasso, se la signora Ciulla non giuoca con me una misura di
lupini a chiamare».
«E che? sono uno sbirro io?», rispose Ciulla.
E Taddeo subito aggiunse: «Ha detto davvero magnifica-
mente, perché è ufficio dei baglivi e degli sbirri di chiamare
alla corte».
«Vieni qua, signora Paola — tornò a dire Cola Iacovo, —
e giochiamoci tre decine a picchetto».
«L’hai sbagliata — rispose Paola, — ché io non sono
mormoratore di corte».
«Questa è una dottoressa — disse il principe, — ché non
c’è luogo dove più si picca l’onore della gente che nelle case
nostre».
«Senz’altro — replicò Cola Iacovo, — la signora Ciom-
metella si contenterà di giocare con me a carrettuso».
«Mai più — rispose Ciommetella: — bel giuoco di mastro
di scuola mi hai trovato!».
«Questa deve pagare la pena — disse Cola Iacovo, —
perché non ha che vedere la proposta con la risposta».
«Va’, fatti restituire i danari dal maestro! — giudicò il
principe, — ché la risposta incastra a perfezione, perché i pe-
danti giocano cosi bravamente a carrettuso, che, quantunque
perdano cinque, vincono la partita» .
Ma Cola Iacovo, rivoltosi all’ultima, le disse: «Non posso
darmi a credere che la signora Zoza voglia ricusare, come le
altre, l’invito di giocare con me un cianfrone5 a sbracare ».
«Bada a te — rispose Zoza, — ché questo è giuoco da
385
bambini».
«Costei si, che deve pagare la penitenza — concluse Tad-
deo, — perché a tal giuoco giuocano anche i vecchi; e perciò,
signora Lucia, tocca a voi d’imporre la pena».
Zoza si levò e andò a inginocchiarsi innanzi alla princi-
pessa, la quale le ordinò per penitenza una villanella alla na-
poletana. Ed essa, chiesto un tamburello, mentre il cocchiere
del principe suonava la chitarra, cantò:
Si te credisse dàreme martiello,
e ch’aggia filatiello,
ca fai la granne e ncriccame lo naso,
va’, figlia mia, ca Marzo te ’ha raso!
Passai lo tiempo che Berta filava,
e che l’auciello arava,
e non sento d’Ammore o frezza o sciamma:
spilata è Patria, mo non ng’è cchiu mamma.
Va’ ch’hanno apierto l’uocchie li gattille, so’ sce-
tate li grille;
si faie niente speranza a sse bellizze,
va’ c’haie na scesa, quanto curre e ’npizze!
Haggio puosto la mola de lo sinno,
né chiù me movo a zinno,
e già conosco dalla fica l’aglio:
non nge pensare chiù, ca non ng’è taglio!1
1
Questa villanella è un contesto di modi proverbiali, quasi tutti già illustrati nelle note
precedenti; e nel suo senso generale esprime un commiato disdegnoso da persona già
amata e dal cui giogo ci si sente affrancati. Ci restringiamo a chiarire ancora: v. 2, «che
io ne abbia tremore interiore»; v. 3, «arricci il naso»; v. 7 «sciamma», fiamma; v. 12,
«’npizze», infili; v. 14, «a zinno», a cenno.
386
TRATTENIMENTO PRIMO
L’OCA
1
Sugli «scudi ricci», vedi in fine, nelle Note e illustrazioni
388
ce di mostrare nel suo fondamento una zecca che coniasse
scudi ricci, sturò un condotto di latrina e lavorò la biancheria
di quelle donne a scudi di terra gialla, che l’odore ne andò per
tutto il quartiere, come alla domenica quello delle pignatte
maritate. Pensarono allora che, cibandola bene, farebbe so-
stanza di lapis philosophorum per soddisfare le voglie loro; e
la rimpinzarono tanto che rigurgitava dalla gola. Ma, quando
l’ebbero posta sopra un altro lenzuolo di bucato, se prima
l’oca si mostrò lubrica, ora addirittura si manifestò presa dalla
dissenteria, nella quale la digestione aveva la sua parte. Sde-
gnate le comari, le torsero il collo e la gettarono dalla finestra
in un vicoletto cieco, dove si ammucchiavano le immondizie.
Volle la sorte, la quale, quando meno te l’aspetti, fa na-
scere la fava, che passasse da quella parte un figlio del re, che
andava a caccia. E proprio li presso, essendoglisi sommosso il
corpo, dié a tenere la spada e il cavallo a un servitore, ed egli
entrò in quel vicoletto per deporre il soverchio del ventre; e,
compiuta questa operazione, non trovandosi nella tasca carta
per nettarsi, e vedendo quell’oca ammazzata di fresco, se ne
servi all’uopo.
Ma l’oca, che non era morta, s’afferrò cosi forte col becco
alle polpe del povero principe, che egli cominciò a gridare; e,
accorsi tutti Ì servitori e volendo strapparla dalle carni, non fu
possibile, perché vi si era attaccata come una Salmace di pen-
ne e un Ermafrodito di pelo. Il principe, non potendo resistere
al dolore e vedendo riuscir vani gli sforzi dei servitori, si fece
trasportare al palazzo reale. E furono chiamati tutti i medici
della città, e, conferitisi sulla faccia del luogo, fecero essi tutte
le prove loro per rimediare allo strano accidente, usando un-
zioni, adoprando tenaglie, spargendo polveri. Ma quell’oca
era una zecca che non si staccava per argento vivo, una san-
guisuga che non veniva via per virtù di aceto.
Il principe ordinò allora di gettare un bando a chi riuscisse
a togliergli quel fastidio di dietro, se era uomo, avrebbe dato
la metà del regno, e, se femmina, se la sarebbe presa per mo-
glie. E qui vedesti la gente correre in folla a mettere il naso in
quell’imbroglio; ma, quanto più applicavano rimedi, più l’oca
si stringeva e attanagliava il misero principe: pareva veramen-
389
te che si fossero data l’intesa tutte le ricette di Galeno e gli a-
forismi di Ippocrate e i rimedi di Mesoè1 contro i Posteriori2
di Aristotele, per tormento di quello sventurato.
Tra i tanti e tanti, che vennero a quella prova, giunse per
avventura anche Lolla, la più giovane delle due sorelle, la
quale, non appena vide l’oca, la conobbe e gridò: «Intrufolata-
la mia, intrufolatina!». L’oca, che udì questa voce, subito la-
sciò la presa, e saltò in grembo a Lolla, facendole carezze e
dandole baci, passando senza esitare dal deretano di un prin-
cipe alla bocca di una villana.
Il principe, che ammirò questo strano caso, volle sapere
donde la cosa procedesse; e, avuta notizia dell’inganno della
comare, la fece frustare per la terra, e poi cacciare in esilio, e
si prese per moglie Lolla, che portò in dote l’oca dalle eva-
cuazioni d’oro, e dié un altro marito ricco ricco a Lilla.
Cosi rimasero la più contenta gente del mondo, a dispetto
delle comari, le quali, andando per chiudere a Lolla una strada
alla ricchezza, apertale dal Cielo, gliene aprirono un’altra a
diventare regina, conoscendo alfine che
impedimento è spesso giovamento.
1
Per Mesoè, vedi la nota a p. 442.
2 Gli Analytica posteriora.
390
TRATTENIMENTO SECONDO
I MESI
1
Altro motto satirico sulle corna.
392
Lise, con parole di grande umiltà, ringraziò quel giovane
e, postasi la cassettina sotto la testa, come cuscino, si mise a
dormire; e la mattina, quando il Sole col pennello dei raggi
venne a ritoccar di chiaro le ombre della Notte, congedatosi
da quei giovani, riprese il cammino. E, a soli cinquanta passi
dalla taverna, apri la cassettina e disse: «Oh bene mio! e non
potrei avere una lettiga foderata di panno, con un po’ di fuoco
dentro, in modo da andar caldo caldo in mezzo a questa ne-
ve?».
Aveva appena terminato di dire, che comparve una lettiga
coi lettighieri, i quali lo levarono di peso e ve lo collocarono
dentro, ed egli ordinò che camminassero verso casa sua. E,
all’ora di menar le ganasce, apri di nuovo la cassettina e disse
«Venga roba da mangiare»; e qui vedesti piovere il bene dal
Cielo, e tale fu il banchetto che vi potevano mangiare dieci re
di corona.
A sera, giunto a un bosco, il quale non dava pratica 1 al
Sole perché veniva da paesi sospetti2, apri la cassettina e dis-
se: «In questo bel luogo, dove il fiume fa contrappunti sulla
pietra per accompagnare il canto fermo dei venti freschi, vor-
rei riposare questa notte». E subito si vide armare una trabac-
ca scarlatta, sotto una tenda di tela incerata, con materasse di
piume, coperta di Spagna e lenzuola finissime; e, domandan-
do da cenare, fu presto in ordine un riposto di argenteria, de-
gno di un principe, e apparecchiata, sotto un’altra tenda, una
mensa carica di vivande, che mandavano l’odore a cento mi-
glia distante.
Dopo aver mangiato e dormito, all’alba, quando il gallo,
che è spione del Sole, avvisò il padrone che le Ombre erano
fiaccate e disfatte e che quello era il momento di dar loro, da
soldato pratico, inseguimento e farne strage, Lise apri la cas-
setta e disse: «Vorrei un bel vestito, perché oggi mi deve ve-
dere mio fratello e avrei gusto di fargli gola». Detto fatto, gli
fu pòrto un abito da signore, di velluto in quaranta, nero, con
1
Traslato dal dar pratica ai bastimenti in arrivo e dalle quarantene che si facevano fare alle navi sospet-
te.
’ Cioè, dall’oriente.
393
fasce di ciambellotto rosso, con un bel ricamo grande sulla
fodera di lanetta gialla, che vedevi un campo di fiori. E, cosi
vestito, si mise nella lettiga e arrivò a casa.
Cianne, al vederlo cosi lussuosamente abbigliato e con
tanti comodi, volle sapere quale fortuna era stata la sua; ed es-
so gli raccontò dei giovani che aveva trovati a quella taverna,
e del dono che gli avevano fatto; ma tenne nella lingua il di-
scorso passato con quel giovane. L’altro non vide l’ora di
congedarsi dal fratello, consigliandogli di andare a riposare
perché era stracco; e subito si mise per le poste e capitò alla
medesima taverna e vi trovò i medesimi giovani, coi quali
prese a chiacchierare.
Ma alla medesima interrogazione che quel giovane gli fe-
ce, cioè che cosa gli paresse del mese, che correva, di Marzo,
cominciò a dire: «Oh, Dio lo confonda questo mese maledet-
to, nemico degli infranciosati1, odioso ai pecorai, intorbida-
mento degli umori, distruzione dei corpi: mese tale, che, vo-
lendo annunziare qualche rovina a un uomo, si dice:
— Va’, ché Marzo ti ha distrutto!2 — mese che, quando
vuoi dare ad alcuno il maggior titolo di presuntuoso, lo chia-
mi: ‘cura di Marzo’; mese, insomma, che sarebbe fortuna del
mondo, ventura della terra, ricchezza degli uomini, se gli fos-
se cancellata la piazza3 nella squadra dei suoi fratelli!».
Il mese di Marzo, che si senti fare questa lavata di testa da
Cianne, dissimulò fino al mattino il proposito di ricacciargli in
gola il bel discorso; e, quando Cianne fu per partire, gli con-
segnò una bella scuriata, istruendolo: «Sempre che ti viene
desiderio di qualcosa, e tu di’: — Scuriata, dammente cento!
— e vedrai perle infilate al giunco».
Cianne ringraziò il giovane e cominciò a toccar di sprone,
e non volle far prova della scuriata prima di giungere a casa
propria. Dove, appena arrivato, chiusosi in una camera segreta
per conservare i danari che sperava avere dalla scuriata, disse
1
Si riteneva che a marzo la sifilide facesse soffrire maggiormente.
2
«Marzo te n’ha raso». Questa frase è spiegata dal FASANO (Gerusalemme liberata, X,
61) con una novelletta scherzosa, che certamente non è l’origine di essa, ma è costruita
sopr’essa.
3
II posto nella milizia.
394
a questa: «Scuriata, dammene cento!». E la scuriata, se non
gliene dié cento, di’ che torni pel resto, facendogli contrap-
punti da compositore di musica sulle gambe e sulla faccia, di
maniera che ai gridi accorse Lise, e, vedendo che non era pos-
sibile trattenere la scuriata che si sbizzarriva come cavallo
scapolato, apri la cassetta e la fece fermare.
Domandò poi a Cianne che cosa gli fosse accaduto, e,
quando ebbe udito la storia, gli disse che non doveva lamen-
tarsi d’altri che di se stesso, che si era procurato il proprio ma-
le, comportandosi da arrogante, e che aveva fatto come il ca-
mello che, desiderando avere le corna, aveva perso le orec-
chie; ma che imparasse un’altra volta a tenere in freno la lin-
gua, chiave che gli aveva aperto il magazzino di questa di-
sgrazia; perché, se egli avesse detto bene di quel giovane, a-
vrebbe avuto forse la stessa fortuna sua: tanto più che il dir
bene è una mercanzia che non costa niente e suol produrre
guadagno che non si pensa. In ultimo, lo confortò, dicendogli
di non cercare maggiore comodità di quella che il Cielo gli
aveva data, perché la cassetta sua bastava a riempire a sovrab-
bondanza trenta case di avari, e che esso sarebbe stato padro-
ne di tutto il suo bene, perché all’uomo liberale il Cielo è te-
soriere; e che, quantunque un altro fratello lo avrebbe avuto in
dispetto per la crudeltà che gli aveva dimostrata al tempo del-
le sue miserie, tuttavia egli considerava che la meschinità sua
era stato il prospero vento che l’aveva condotto a questo por-
to, e perciò gliene poteva render grazie, e si proponeva di ri-
conoscere questo giovamento.
Udite tali cose, Cianne gli chiese perdono dei disgusti
passati, e, fatta una lega di botteghe, si goderono insieme la
buona fortuna; e d’allora innanzi Cianne disse bene d’ogni
cosa, per trista che fosse, perché
la lingua non ha os-
so, ma può rompere
il dosso.
395
396
TRATTENIMENTO TERZO
PINTO SMALTO
1
Forcella su cui si appoggiava l’archibugio o altra arma da fuoco.
2
Nel significato musicale.
’ Anche in questa fiaba la protagonista ora porta nome di «Betta», ora di «Iaco- vella».
4
Si chiamava cosi una varietà di mandorle, riputata tra le più fini.
397
di perle, due zaffiri, un mucchiettino di granatini e rubini, con
un po’ d’oro filato; e, soprattutto, una madia e un raschiatoio
d’argento».
Il padre si meravigliò di questa richiesta stravagante; ma,
per non contrariare la figlia, andò alla fiera e, al ritorno, le
portò puntualmente quanto gli aveva domandato. Essa, avute
queste cose, si chiuse in una camera e cominciò a lavorare una
grande quantità di pasta di mandorla e zucchero, mischiata
d’acqua rosa e profumi, e prese a plasmare un bellissimo gio-
vane, al quale fece i capelli di filo d’oro, gli occhi di zaffiro, i
denti di perle, le labbra di rubino, e gli dette tanto garbo e
grazia che non gli mancava altro che la parola.
Ciò fatto, avendo udito dire che un’altra statua, alle pre-
ghiere di un certo re di Cipro1, diventò viva, tanto pregò la
Dea d’Amore, che la statua cominciò ad aprire gli occhi, e,
dopo il fiato, uscirono le parole, e, sciogliendo in ultimo tutte
le membra, si mosse a camminare.
Betta, con allegrezza maggiore che se avesse guadagnato
un regno, l’abbracciò e baciò, e, presolo per mano, lo menò
davanti al padre, al quale disse: «Tata signore mio, sempre
avete detto che eravate voglioso di vedermi maritata; e io, per
contentarvi, mi ho scelto lo sposo secondo il mio cuore».
Il padre, che vide venir fuori dalla camera della figlia quel
bellissimo giovane che non aveva visto entrare, rimase attoni-
to; e, mirando si stupenda bellezza, che si sarebbe potuto pa-
gare un grano a testa per essere ammessi a contemplarla2, si
contentò che si celebrasse il matrimonio.
Nella grande festa per queste nozze, fra i tanti che inter-
vennero, capitò una grande regina incognita, la quale, ammi-
rata la bellezza di Pinto Smalto (secondo il nome che Betta gli
aveva posto), se ne incapricciò altro che per celia. Pinto Smal-
to, che non erano tre ore che aveva aperto gli occhi alle mali-
zie del mondo, non sapeva intorbidare l’acqua; e quando, at-
tenendosi a quel che gli aveva detto la sposa, accompagnò fin
giù alla scala i forestieri che si accommiatavano, nel fare il
1
Pigmalione.
4
Come i «fenomeni» o «mostri della natura» nelle baracche delle fiere.
398
medesimo con quella signora, essa, presolo per mano, lo con-
dusse pian piano fino alla carrozza a sei cavalli, che aveva nel
cortile, e ve lo tirò dentro. E dié voce al cocchiere di trottare
alla volta delle terre sue, dove il semplice di Pinto Smalto,
non sapendo che cosa gli fosse accaduto, le divenne marito.
Betta, attesolo per un tratto, non vedendolo più comparire,
mandò giù al cortile a vedere se si trattenesse in conversazio-
ne con qualcuno; fece salire sul battuto della casa, se per caso
vi fosse andato a prendere una boccata d’aria; s’affacciò al
necessario, se mai fosse andato a rendere il primo tributo alle
necessità della vita. Ma, non trovandolo in alcun luogo, subito
immaginò che, per essere tanto bello, le era stato rubato. E
poiché, gettati i soliti bandi, non comparve nessuno a rivelar-
lo, si determinò ad andarlo cercando pel mondo, travestita da
mendicante.
Messasi a questo modo in cammino, dopo alcuni mesi
giunse alla casa di una buona vecchia, che la ospitò con gran-
de amore; e, udita la disgrazia di Betta, e vedendo inoltre
ch’era incinta, ne ebbe tanta compassione, che le insegnò tre
parole. La prima fu: «Tricche-varlacche, ché la casa piove»; la
seconda: «Anola trànola, pizza fontànola»; la terza «Tafaro e
tamburo, pizze ’ngongole e cemmino»1; e aggiunse che, in un
momento di gran bisogno, le recitasse e ne cavarebbe gran
beneficio.
Betta, benché rimanesse meravigliata di un tal regalo di
crusca, pur disse tra sé: «Chi ti sputa in gola, non ti vuol vede-
re morto, e chi prende non secca: ogni puntura giova. Chi sa
quale buona fortuna si chiude dentro queste parole!». E rin-
graziò la vecchia, rimettendosi in cammino.
Dopo lungo viaggio, giunse a una bella città chiamata
Monterotondo e andò difilato al palazzo reale, chiedendo per
amore del Cielo un po’ di ricovero in una stalla per essere
prossima a partorire. Le damigelle di corte, impietosite, la
1
Per le due ultime, che son parole di giuochi bambineschi, vedi in Note e illustrazioni,
p. 437 sgg. Quanto alla prima, che forse ha simile riferimento, si avverta che «tricca-
ballacco» è un rozzo strumento musicale di legno, di origine moresca, ricordato anche
nei poemi cavallereschi («talabalacchi e timpani sonando»: BERNI, Innamorato, III,
VIII, 3).
399
raccolsero in una cameretta in mezzo alle scale; e, stando in
quella, la sventurata vide passare Pinto Smalto, e ne provò ta-
le schianto di gioia, che fu sul punto di scivolar giù
dall’albero della vita.
Senti allora di trovarsi veramente in una grande necessità
e volle far prova della prima parola insegnatale dalla vecchia,
e pronunziò: «Tricche- varlacche, ché la casa piove!». E subi-
to si vide comparire innanzi un bel carrettino d’oro, tutto co-
stellato di gemme, che andava da se stesso per la camera ed
era stupore a considerare.
Le damigelle, che lo videro, ne parlarono alla regina, la
quale, senza perder tempo, corse alla cameretta di Betta e,
ammirato il magnifico gioiello, le disse se voleva venderglie-
lo, che le avrebbe dato quanto avrebbe saputo domandare. E
quella rispose che, quantunque pezzente, stimava più il gusto
proprio che tutto l’oro del mondo; e perciò, se voleva il carret-
tino, la lasciasse dormire una notte col marito.
La regina rimase meravigliata della pazzia di questa pove-
rella tutta cenciosa, che, per un capriccio, dava via tanta ric-
chezza; e fece proposito di aggranfiare questo buon boccone,
e, col dar l’oppio a Pinto Smalto, render la poverella contenta
e mal pagata. E, venuta la notte, quando escono a far mostra
di sé le stelle pel cielo e le lucciole sulla terra, la regina, dato
il soporifero a Pinto Smalto, lo fece coricare, docile com’era,
accanto a Betta; e il giovane, non appena toccato il materasso,
si mise a dormire come un ghiro.
Betta sventurata, che pensava quella notte di scontare tutti
i passati affanni, vedendo che per lei non c’era ascolto, prese a
lamentarsi fuor di misura, rimproverandogli tutto quello che
per lui aveva fatto; e non chiuse mai bocca, l’addolorata, e
non apri mai gli orecchi l’addormentato, finché non sorse il
Sole con l’acqua ragia1 a separare l’ombra dalla luce; e allora
la regina scese giu e si prese per mano Pinto Smalto, dicendo
a Betta: «Eccoti contentata».
«Tal contento possa avere tu tutto il tempo della tua vita!
— rispose tra sé Betta, — perché ho passato una notte cosi
1
Testo: «l’acqua da spartire».
400
cattiva che me ne ricorderò per molti giorni».
E, non potendo più resistere all’urgenza del bisogno, fece
la prova delle seconde parole, pronunziando: «Anola trànola,
pizza fontànola!». E vide comparire una gabbia d’oro con un
bellissimo uccello, fatto di pietre preziose e d’oro, che canta-
va a mo’ di rosignuolo.
Accadde come la prima volta: le damigelle videro quella
meraviglia, ne riferirono alla regina che andò a sua volta a ve-
derla, e fece la stessa domanda ed ebbe la stessa richiesta; e
poiché aveva adocchiato e indovinato la facilona e semplicio-
na, promise di farla dormire col marito e si portò via la gabbia
con l’uccello. E, venuta la notte, dette il solito soporifero a
Pinto Smalto e lo mandò a dormire con Betta nella stessa ca-
mera, dove aveva fatto armare un bel letto. E la poverina,
vedendolo dormire come uno scannato, riprese a fare lo stesso
lamento, dicendo cose che avrebbero mosso a pietà una selce,
e, gemendo e piangendo e strappandosi i capelli, passò
un’altra notte piena di tormenti; e, allo spuntar del giorno,
scese la regina a prendersi il marito, e lasciò la misera Betta
fredda e gelata, che si mordeva le mani per la burla che per la
seconda volta le era stata fatta.
Quella mattina, Pinto Smalto usci a cogliere quattro fichi
in un giardino fuori le porte della città; e a lui si avvicinò un
ciabattino, che dimorava accanto alla camera di Betta e che,
attraverso la parete, non aveva perduto una parola di quanto
essa aveva detto, e riferì di punto in punto il piagnisteo, il re-
petio e la lamentazione della sfortunata pezzente. Udendo ciò,
il re, che già cominciava a mutar senno, immaginò come po-
tesse passare questo negozio, e pensò che, se un’altra volta gli
accadesse di esser mandato a dormire con la poverella, non
avrebbe tracannato la bevanda che gli faceva porgere la regi-
na.
Betta fece la terza prova e disse: «Tafaro e tamburo, pizze
’ngongole e cemmino!»; e le uscirono una quantità di panni di
seta e oro e di fasce ricamate con una culla d’oro, che la regi-
na stessa non avrebbe potuto mettere insieme così bella galan-
teria. Le videro le damigelle e ne avvisarono la padrona, che
trattò di averle come le altre cose, e alla rinterzata richiesta di
401
Betta pensò: «Che cosa ci perdo a contentare questa pacchia-
na per toglierle tante belle cose?»; e, prese le ricchezze offer-
tele da Betta, quando la Notte comparve per essere venuto a
liquidazione il rogito del debito contratto col sonno e col ripo-
so, essa dié il soporifero a Pinto Smalto. Ma questi lo ritenne
in bocca, e, fingendo di andare a scaricare la vescica, lo riget-
tò. E, postosi a letto, Betta, che gli era al fianco, prese a ripe-
tere la sua canzone, dicendo come l’aveva, con le mani sue,
impastato di mandorle e di zucchero, come gli aveva fatto i
capelli d’oro e gli occhi e la bocca di perle e di pietre prezio-
se, e come le era debitore della vita datagli dagli dèi per le
preci sue, e come le era stato rubato, ed essa, grossa gravida,
era andata cercandolo pel mondo con tanti stenti, che il Ciel
ne guardi ogni carne battezzata, e di più come aveva dormito
altre due notti con lui e dato per prezzo due tesori, e non ave-
va potuto ottenere da lui una parola sola; talché questa era
l’ultima notte delle speranze sue e l’ultimo termine della sua
vita.
Pinto Smalto, che stava sveglio, udito queste parole, si ri-
cordò come in sogno di quello che era passato, e abbracciò e
consolò Betta come meglio seppe. E, poiché la Notte, con la
maschera nera, dirigeva il ballo delle Stelle, si levò pian pia-
no, e, pian piano andato in camera della regina, ch’era spro-
fondata nel sonno, ne tolse tutte le cose che aveva strappate a
Betta, e tutte le gioie e i tornesi che erano nello scrigno, per
rifarsi dei danni passati; e, tornato alla moglie, se ne partirono
in quel momento stesso, e tanto camminarono che uscirono
dai confini di quel regno. Allora si riposarono in un bell'al-
loggiamento, fintanto che Betta dié alla luce un bel maschio;
e, quando essa potè levarsi di letto, s’avviarono alla casa del
padre, che trovarono vivo e sano e che, per la gioia di rivedere
la figlia, diventò come un giovinotto di quindici anni. La regi-
na, non trovando né il marito né la mendicante né le gioie, si
strappò i capelli per la disperazione; ma non mancò taluno che
le disse:
Chi gabba, non si dolga se è gabbato.
402
IL CEPPO D’ORO
405
passerà pel ponte del capello1; e perciò, per rimedio al tuo pe-
ricolo, prendi queste sette fusa, questi sette fichi e
quest’alberello di miele, e queste sette paia di scarpe di ferro,
e cammina tanto, senza fermarti mai, finché le scarpe non si
consumeranno, e tu non vedrai al balcone di una casa sette
femmine, che staranno a filare dall’alto in basso, col filo rav-
volto intorno ad ossa di morti; e, allora, sai che devi fare?
Stattene ben acquattata, e, zitto zitto, quando il filo vien giù e
tu levane l’osso e mettici il fuso unto di miele, e, al posto del-
la cocca, il fico. Quelle, tirandolo in alto e sentendo il dolce,
diranno: — A chi ha addolcito la mia boccuzza, sia addolcita
la sua venturuzza; — e, dopo queste parole, l’una appresso
dell’altra dirà: — O tu, che mi hai portato queste cose dolci,
lasciati vedere; — e tu risponderai: — Non voglio, che mi
mangi; — e quelle diranno: — Non ti mangio, se Dio mi
guardi il mestolo; — e tu punta i piedi e sta’ dura; ed esse
continueranno: — Non ti mangio, se Dio mi guardi lo spiede;
— e tu salda, come se ti facessi far la barba. Ed esse repliche-
ranno: — Io non ti mangio, se Dio mi guardi la granata; — e
tu non creder loro nulla. E se dicessero: — Non ti mangio, se
il Cielo mi guardi il pitale; — e tu chiudi la bocca e non bi-
sbigliare, perché ti farebbero evacuar la vita. In ultimo diran-
no: — Se Dio mi guardi Tuoni-e-lampi, non ti mangio; — e
allora va’ su e sta’ pur sicura, ché non ti faranno male».
Avuta questa istruzione, Parmetella cominciò a cammina-
re, per valli e per monti, tanto che le scarpe di ferro in capo a
sette anni si consumarono. E, giunta a un gran casone, dov’era
una terrazzina sporgente, vide le sette femmine che filavano;
e, adempiuto esattamente quanto le aveva consigliato la fata,
dopo molti spiamenti e nascondimenti, in ultimo ottenne il
giuramento di Tuoni-e-lampi, si mostrò e sali. Ma, non appe-
na quelle sette femmine l’ebbero davanti, tutte insieme grida-
rono; «Ah, cagna traditora! Tu sei la causa che nostro fratello
sia stato sette anni in una grotta, lontano da noi, in forma di
1
Ricordo del ponte «al siràt», gettato proprio sul mezzo dell’inferno, e che era piu
stretto di un capello e più sottile del filo di una spada, sul quale dovevano passare a
prova le anime; secondo alcune credenze maomettane.
406
uno schiavo. Ma non dubitare, ché, se con lo strapparci il giu-
ramento ci hai messo un sequestro alla gola, alla prima occa-
sione sconterai il nuovo ed il vecchio! Per ora, nasconditi die-
tro quella madia; e, quando viene la madre nostra, la quale
senz’altro t’inghiottirebbe, tu le va’ dietro e afferrale le poppe,
che porta come bisacce dietro le spalle, e tira quanto puoi e
non lasciarle mai, finché non ti giura per Tuoni-e-lampi di
non farti male».
Anche questo fu adempiuto punto per punto da Parmetel-
la; e colei, dopo aver giurato per la paletta del fuoco, per la
pergoletta, per l’attaccapanni, per l’aspro, per la rastrelliera,
finalmente giurò per Tuoni-e- lampi; e allora essa lasciò anda-
re le poppe e si fece vedere dall’orca. La quale le disse: «Me
l’hai fatta! Ma solca diritto, traditora, ché alla prima pioggia ti
farò portare via dalla lava!».
E, cercando coi fuscelli l’occasione di trangugiarsela, un
giorno prese dodici sacchi di legumi confusi e mescolati in-
sieme, che erano ceci, cicerchie, piselli, lenticchie, fagioli, fa-
ve, riso e lupini, e le disse: «Tieni, traditora, prendi questi le-
gumi e nettali in maniera che ogni qualità stia separata
dall’altra: ché se per stasera la cosa non è fatta, io mi
t’inghiotto come una zeppola di tre calli!».
La povera Parmetella, sedutasi a piè dei sacchi, piangeva:
«Mamma mia bella, oh quanto mi si è inceppato dentro il
ceppo d’oro! Questa è la volta che la mia causa sarà spedita!
Per vedere una faccia nera diventata bianca, questo cuore af-
flitto è diventato strofinacciolo! Oimè, sono distrutta, sono
andata, non c’è più rimedio! Mi pare di momento in momento
di star giù nella golaccia di quell’orca fetida! Non c’è chi mi
aiuti, non c’è chi mi consigli, non c’è chi mi consoli!».
Mentre faceva questo piagnisteo, eccoti comparire Tuoni-
e-lampi, il quale aveva terminato l’esilio della maledizione
che gli era caduta addosso, e, benché stesse adirato con Par-
metella, non poteva mutare il sangue in acqua. E, vedendola
fare questo funerale, le disse: «Traditora, che cos’hai che
piangi?». Ed essa gli raccontò il malo trattamento della ma-
dre, e il fine che voleva conseguire di sventrarla e mangiarse-
la. Tuoni-e-lampi le rispose: «Lévati, fa’ animo, ché non sarà
407
quel che temi»; e, al tempo stesso, spargendo tutti i legumi
per terra, fece piovere un diluvio di formiche, che subito li
cominciarono a scegliere e ad ammucchiare separatamente:
tanto che Parmetella, raccogliendo ogni qualità da parte, ne
riempi i sacchi.
Tornata l’orca e trovato che l’opera commessa era stata
eseguita, stié per disperarsi: «Quel cane di Tuoni-e-lampi mi
ha reso questo bel servigio! Ma tu mi pagherai lo scapito!
Prendi questi gusci di fustaggine, che servono per dodici ma-
terassi, e fa’ che per questa sera siano pieni di piume; altri-
menti, ti scannerò».
La sciagurata prese quei gusci, e sedutasi per terra, rico-
minciò il lamento, martoriandosi tutta e facendo degli occhi
due fontane; quando comparve Tuoni-e-lampi. «Traditora, —
le disse — non piangere: lascia fare a me, che ti conduco al
porto. Sciogli le chiome, stendi a terra i gusci di materassi, e
comincia a lacrimare e a gridare, che è morto il Re degli uc-
celli; e vedrai che cosa accadrà».
Parmetella fece cosi; ed ecco un nugolo d’uccelli, che o-
scurava l’aria, i quali, battendo le ali, facevano cadere a ciuffo
a ciuffo le penne, tanto che, in minor termine di un’ora, i ma-
terassi furono pieni. E, venuta l’orca e visto il fatto, si gonfiò
di tale rabbia che crepava pei fianchi. «Tuoni-e- lampi — gri-
dò — mi ha preso a seccare! Ma ch’io sia trascinata a coda di
scimmia se non la colgo a un passo, dal quale non potrà scap-
pare!».
E disse a Parmetella: «Corri, precipitati a casa di mia so-
rella, e dille che mi mandi gli strumenti musicali, perché ho
sposato Tuoni-e-lampi, e vogliamo fare un festino da re». E,
per un’altra via, mandò ad avvertire la sorella che, venendo la
traditora a chiedere la musica, l’ammazzasse subito e la cuci-
nasse, perché sarebbe andata a mangiarla in sua compagnia.
Parmetella, che si vide comandare servigi più leggieri, si
rallegrò tutta, credendo che il tempo fosse cominciato a rab-
bonirsi. Oh, come sono storti i giudizi umani! Ma, incontrato
per istrada Tuoni-e-lampi, questi, vedendola filare di buon
passo, l’arrestò: «Dove sei avviata, povera te! Non vedi che
vai al macello e ti fabbrichi da te i ceppi, aguzzi tu stessa il
408
coltello, tu stessa stemperi il veleno? ché sei mandata all’orca
sorella perché ti mangi. Ma ascoltami e non dubitare: prendi
questo pane, questo fascio di fieno e questa pietra; e, quando
sarai arrivata a casa di mia zia, troverai un cane corso, che ti
verrà contro abbaiando per morderti; e tu dagli questo pane,
che gli turi la gola; dopo il cane, troverai un cavallo scapolato,
che ti si lancerà contro per colpirti a calci e calpestarti, e tu
gettagli questo fieno e gli metterai le pastoie ai piedi; final-
mente, troverai una porta che sempre sbatte, e tu puntellala
con questa pietra, ché le toglierai la furia. Poi sali e troverai
l’orca con una bambina in braccio, la quale ha già acceso il
forno per arrostirti; ed essa ti dirà: — Tienimi questa creatura,
ché vado su a prendere la musica; — ma sappi che, invece, va
ad affilarsi le zanne per sbranarti a pezzo a pezzo; e tu getta la
bambina nel forno senza pietà, ché è carne d’orca, e prendi
gl’istrumenti musicali, che stanno dietro la porta e svigna,
prima che ridiscenda l’orca; altrimenti, sei perduta. Ma avver-
ti che stanno in una scatola, che tu non devi aprire, se non
vuoi guai e sopraguai».
Fece Parmetella tutto quanto le aveva consigliato
l’innamorato; ma, al ritorno, aperse la scatola, e subito vedesti
volare di qua un flauto, di là una cennamella, da una parte una
sampogna, dall’altro un chiuchiaro1, che facevano per l’aria
ogni sorta di suoni; e Parmetella dietro a loro, graffiandosi la
faccia. In questo, scese l’orca e, non trovandola, s’affacciò al-
la finestra e gridò alla porta: «Schiaccia la traditora!»; ma la
porta rispose: «Non voglio far male alla sventurata, che mi ha
puntellata». E gridò al cavallo: «Calpesta la malandrina!»; e il
cavallo rispose: «Non voglio calpestarla, perché m’ha dato il
fieno a rosicchiare». E chiamò, infine, il cane: «Mordi la vi-
gliacca!», e il cane rispose: «Lasciala andare, poverella, che
mi ha dato il pane!».
Correva Parmetella, gridando dietro gli strumenti, quando
scontrò Tuoni-e-lampi, che le fece un gran rimbrotto: «O tra-
ditora! Non hai ancora appreso a spese tue che, per cotesta
maledetta curiosità, sei nello stato in cui ti trovi?». E chiamò a
1
Istrumento rusticano da fiato.
409
fischio gli strumenti di musica e tornò a serrarli nella scatola,
e le disse di portarli alla mamma.
Questa, quando la vide, esclamò a gran voce: «Oh sorte
crudele! Anche mia sorella mi è contraria, che non ha voluto
darmi questo contento!». Intanto, sopraggiunse la sposa no-
vella, che era una peste, un canchero, un’arpia, una
mal’ombra, camusa, musuta, cisposa, sgangherata, tutta impa-
lata, che con cento fiori e frasconi pareva una taverna nuova
aperta. La suocera le dié un gran banchetto; e, poiché buttava
fiele, fece apparecchiare la mensa presso un pozzo, e intorno
le sette figlie, ciascuna con una torcia in mano, e Parmetella
con due torce, seduta sull’orlo, con disegno che, venendole
sonno, farebbe il capitombolo in fondo all’acqua.
Ora mentre i piatti andavano e venivano e il sangue co-
minciava a scaldarsi, Tuoni-e-lampi, che stava come sposa
malcontenta, disse a Parmetella: «O traditora, mi vuoi bene?».
Ed essa rispose: «Fin su al comignolo!». E quegli replicò: «Se
mi vuoi bene, dammi un bacio». Ed essa: «Dio me ne scansi,
lontano sia! Bella roba che hai accanto! Dio te la mantenga di
qui a cent’anni, con salute e figli maschi!». E la sposa inter-
venne: «Ben si vede che sei una sciagurata, se anche campassi
cent’anni, che fai la schifiltosa a baciare un giovane cosi bel-
lo; e io, per due castagne, mi lasciai baciare sulle due guance
a pizzicotti1 da un pecoraio!». Lo sposo, che udì questa bella
prova, s’irritò e gonfiò come rospo e il mangiare gli restò in
gola: tuttavia fece della trippa cuore, e inghiotti la pillola col
pensiero di far poi i conti e saldare la partita.
Levate le tavole, mandò via la mamma e le sorelle, ed es-
so, la sposa e Parmetella restarono insieme per andarsi a cori-
care; e, mentre egli si faceva scalzare da Parmetella, disse alla
sposa: «Moglie mia, hai visto come questa ritrosa mi ha nega-
to un bacio?». «Ha avuto torto — replicò la sposa — a tirarsi
indietro, essendo tu cosi bel giovane, quando io per due casta-
gne mi feci baciare da un guardapecore».
Non potè più oltre frenarsi Tuoni-e-lampi e con lampi di
sdegno e tuoni di fatto, montatagli la mostarda al naso, mise
1
Testo: «vasare a pezzechille», che in Toscana si dice «baciare alla francese».
410
mano a un coltello e scannò la sposa, e, scavata una fossa nel-
la cantina, la sotterrò; e poi, abbracciata Parmetella, le disse:
«Tu sei la gioia mia, tu sei il fiore delle donne, lo specchio
delle persone onorate; e perciò volgimi gli occhi, dammi la
mano, appressami la bocca, stringiti al mio cuore, ché voglio
esser tuo finché il mondo sarà mondo».
Così si coricarono e stettero in godimento, fintanto che il
Sole levò i cavalli di fuoco dalla stalla d’acqua e li cacciò a
pascere pei campi seminati dall’Aurora; quando, venuta l’orca
con le uova fresche per ristorare gli sposi e dire: «Beato chi si
sposa e prende suocera!», trovò Parmetella abbracciata col fi-
glio, e apprese come la cosa era andata.
Corse allora difilato alla sorella per concertare il modo di
levarsi quel pruno dagli occhi suoi senza che il figlio vi
s’opponesse; ma trovò che quella, pel dolore della figlia arro-
stita nel forno, s’era infornata anch’essa, talché il puzzo di
bruciaticcio ammorbava tutto il vicinato. La sua disperazione
fu tale che da orca diventò montone, e cozzò nei muri tante e
tante volte che alfine vi schizzò le cervella. E Tuoni-e-lampi,
messa pace e amicizia tra le cognate e Parmetella, se ne stette
contento e lieto con la moglie, riconoscendo vero il motto che
chi la dura la vince .
411
412
SOLE, LUNA E TALIA
1
«Piazza morta», «aiuto di costa», «trattenimento», sono tutti termini
di origine spagnola, già di sopra spiegati, relativi a pensioni e sussidi
militari.
417
418
TRATTENIMENTO SESTO
LA SAPIA
422
I CINQUE FIGLI
1
Frustato dagli aguzzini con la mitra di carta sul capo. i.
2
L’anfiteatro di Capua. Vedi Note e illustrazioni.
424
E, domandato all’ultimo figlio, Menicuccio, che cosa sa-
pesse fare, questi disse:
«Io so intendere il linguaggio degli uccelli».
«Non senza che — osservò il padre, — mentre stavamo a
tavola, ti levasti per sentire il cinguettare di quel passero. Ma,
poiché ti vanti di comprendere quello che essi dicono, di’ su,
che cosa diceva quell’uccello che stava sull’albero?».
«Raccontava — rispose Menicuccio — che un orco ha
rubato la figlia del re d’Altogolfo e se l’ha portata a uno sco-
glio, e non si può aver notizia alcuna di lei, e il padre ha fatto
gittare un bando, che chi la trova e gliela riconduce, l’avrà per
moglie».
«Se è questo, siamo ricchi — intervenne Luccio, — per-
ché mi basta l’animo di toglierla dalle granfie dell’orco».
«Se ti confidi di farlo — soggiunse il vecchio, — andia-
mo immediatamente dal re, e, pur che ci dia la parola di atte-
nere la promessa, offriamogli di ritrovargli la figlia».
Con questo accordo fra tutti, Tittillo fabbricò subito una
bella barca; nella quale salirono e fece vela per la Sardegna,
dove, ottenuta udienza dal re e offertogli di ricuperare la figlia
Cianna, ebbero nuova conferma della promessa del bando.
Passarono allora allo scoglio, e vi trovarono per buona
fortuna l’orco che dormiva al sole, avendo in grembo, appog-
giata con la testa, la figlia del re. Essa, come vide appressarsi
la barca, volle alzarsi per la gioia; ma Pacione le fe’ cenno di
star zitta, e, posto un gran pietrone in grembo all’orco, fecero
levare Cianna, la trassero nella barca e cominciarono a dar dei
remi nell’acqua.
Non s’erano ancora troppo discostati dal lido, quando
l’orco si svegliò, e, non trovandosi vicino Cianna, abbassò gli
occhi alla marina e scorse la barca che la portava via. Subito
si trasformò in una nuvola nera, correndo per l’aria per rag-
giungere la barca; e Cianna, che sapeva le sue arti, conobbe
che veniva ravvolto nella nuvola, e fu tanta la paura che la
scosse, che appena potè avvisare Pacione e i figli e mori di
batticuore. Renzone, all’avvicinarsi della nuvola, afferrata la
balestra, accecò diritto gli occhi dell’orco, che per lo spasimo
cadde di tonfo nel mare; ma, dopo essere stato tutto intento,
425
con le pupille volte alla nuvola, nel riportare lo sguardo nella
barca per vedere che cosa era accaduto di Cianna, la trovò coi
piedi stesi, uscita fuori dal trucco della vita.
Si strappò la barba Pacione, esclamando: «Ecco perduto
l’onore e il sonno; ecco gettate le fatiche al vento e le speran-
ze al mare; perché questa è andata a pascere per farci morir di
fame; questa ha detto: — Buona notte! — per farci avere il
cattivo giorno; questa ha rotto il filo vitale per fare rompere a
noi il filaccione1 delle speranze nostre! Ben si vede che dise-
gno di pover’uomo non riesce; ben si prova che chi nasce
sventurato, muore disperato! Eccoti liberata la figlia del re;
eccoti tornato in Sardegna, eccoti la moglie promessa in pre-
mio; ecco le feste bandite; eccoti lo scettro, eccoti battuto col
deretano sulla nuda terra!».
Iacuoco stette ad ascoltare questo piagnisteo, e in ultimo,
vedendo che la canzone durava troppo e che andava sul liuto
del dolore contrappuntando fino alla rosa, gli disse: «Piano,
messere, che noi vogliamo andare in Sardegna e star più felici
e consolati di quel che tu credi».
«Tale consolazione possa avere il Gran Turco! — rispose
Pacione, — ché, quando noi porteremo questo cadavere al pa-
dre, ben ce ne farà sborsare, ma non di danari, e dove la gente
muore col riso sardonico, moriremo noi col pianto sardonico».
«Zitto! — replicò Iacuoco: — e dove hai mandato a pa-
scolare il cervello? Non ti ricordi l’arte che ho imparata io?
Sbarchiamo, e lasciami cercar l’erba che ho in mente, e vedrai
altro che cianciafruscole».
Il padre, a queste parole, riprendendo fiato, l’abbracciò, e,
strappato com’era dal desiderio, dava strappate al remo, tanto
che in poco tempo arrivarono alla marina di Sardegna. Ivi Ia-
cuoco discese e trovò quel che cercava; e, tornato di corsa alla
barca, spremette il succo dell’erba in bocca a Cianna, che su-
bito come ranocchia ch’è stata nella Grotta del cane e poi è
gettata nel lago d’Agnano2, ridiventò viva.
1
Filo da pesca.
2
La famosa Grotta del cane, presso Napoli, nella quale si usa per esperimento far tra-
426
Cosi, allegramente, si presentarono al re con la figliuola
salvata, e il re non si saziò di abbracciarla e baciarla e di rin-
graziare quella brava gente che gliel’aveva ricuperata. E, fa-
cendo quelli istanza pel soddisfacimento della promessa, disse
il re: «Si, ma a quale di voi debbo dare Cianna? Questo non è
migliaccio, che si possa tagliare a fette. Perciò è giuocoforza
che a uno tocchi la fava della torta, e gli altri si spassino con
lo stecchino».
Rispose il primo dei fratelli, che era sagace: «Signore, il
premio deve darsi secondo la fatica compiuta. Vedete voi chi
di noi più merita questo bel boccone, e poi fate la giustizia
che vi conviene».
«Tu parli da Orlando! — rispose il re. — Dunque, raccon-
tate quello che avete fatto acciocché io non vegga storto per
giudicare diritto».
Contate che ebbero ciascuno le prove sue, il re si volse a
Pacione e gli domandò: «E tu, che hai fatto in questa faccen-
da?».
«Mi pare di avervi fatto assai — replicò Pacione, — perché
ho fatto uomini questi figli miei, e, a forza di sproni, ho fatto
loro apprendere le arti che ora sanno; altrimenti, sarebbero
tanti cestoni, laddove paiono ora frutti cosi belli!».
Il re, udita l’una parte e l’altra, masticate e ruminate le ra-
gioni di questo e di quello, e visto e considerato quel che an-
dava giusto, sentenziò che Cianna fosse data a Pacione, come
origine prima della salvezza della figliuola.
E cosi disse e cosi fu fatto, e, avuti i figli un mucchio di
tornesi che li mettessero a guadagno, il padre, per la grande
gioia, ridiventò come giovinetto di quindici anni, e gli si adat-
tò a pelo il proverbio, che
tra i due litiganti il terzo gode .
mortire gli animali nell’anidride carbonica, di cui è piena, tuffandoli poi nell’acqua del
prossimo lago d’Agnano per ravvivarli.
427
428
NINNILLO E NENNELLA
1
Del tribunale
432
mandò uno per uno a tutte le genti se qualcuno avesse perduto
la sorella. Rispose Ninnillo, che in quel momento si andava
ricordando della cosa come in sogno: che, quando si trovava
nel bosco, aveva con sé una sorella, della quale non aveva sa-
puto più nulla.
Il principe gli disse di accostarsi al pesce e vedere che co-
sa fosse, perché tale ventura, forse, toccava a lui. E, al suo ap-
pressarsi, il pesce posò la testa sullo scoglio, e, spalancando
sei canne di fauci, lasciò uscire Nennella, che parve appunto
lo spettacolo di un intermezzo, nel quale una Ninfa, per incan-
to di un mago, esce da un animale.
Al principe, che la interrogava, Nennella accennò qualche
parte dei travagli suoi e dell’odio della matrigna; ma né essa
né il fratello sapevano ricordarsi il nome del padre né il luogo
dov’era la loro casa. Onde fu gettato un bando che chi avesse
perduto in un bosco due figli, Ninnillo e Nennella, andasse al
palazzo reale e ne avrebbe avuta buona nuova.
Iannuccio, che stava sempre triste e sconsolato, perché
credeva che i figli fossero stati divorati dai lupi, corse giubi-
lando al principe a dirgli che esso proprio aveva smarrito i
fanciulli. E, avendo raccontato la storia di come fosse stato
sforzato a portarli nel bosco, il principe gli somministrò una
grande intemerata, chiamandolo scioccone bestione, che s’era
fatto mettere i piedi sul collo da una femmina, riducendosi a
mandare all’avventura due gioielli, com’erano i suoi figli. Ma,
dopo che gli ebbe rotto il capo con queste parole, vi mise
l’empiastro della consolazione, mostrandogli i figli che egli
non si saziò di abbracciare e baciare per più di mezz’ora; e il
principe, fattogli levare di dosso il rozzo gabbano, lo fece ri-
vestire da gentiluomo. Chiamò poi la moglie di Iannuccio e le
additò quelle due foglie d’oro, domandandole: «Che cosa me-
riterebbe chi loro facesse male e li mettesse a rischio di mor-
te?. Colei rispose: «Per me, lo metterei chiuso in una botte e
lo rotolerei dall’alto di una montagna». «Ecco che hai quello
che chiedi: la capra ha rivolto le corna contro se stessa. Orsù,
poiché tu hai scritto la sentenza, e tu la paga; tu che hai porta-
to tant’odio a cotesti belli tuoi figliastri». E dié ordine che si
eseguisse la sentenza ch’essa medesima aveva pronunziata.
433
Nel tempo stesso trovò un ricco gentiluomo suo vassallo,
e lo dié per sposo a Nennella, e la figlia di un altro signore pa-
ri a questo, e la dié per moglie al fratello; e all’uno e all’altra
entrate bastevoli per vivere essi e il padre, senz’aver bisogno
di alcuno al mondo. La matrigna, intanto, fasciata da una bot-
te, sfasciò la propria vita, gridando sempre pel buco finché le
restò fiato:
Tarda il castigo, ma non ti fidare!
Viene una volta e tutte fa pagare!
434
TRATTENIMENTO NONO
I TRE CEDRI
1
Ed. originale: «tempio», ma dev’esser «tempo», cioè col colore del sangue dei suoi
catamenia.
439
Il principe guardava come ismemorato questo bel parto di
un cedro, questo bel taglio di femmina germinata al taglio di
un frutto, e diceva tra sé: «Dormi o sei sveglio, Cenzullo? Ti
si è incantata la vista o hai calzato gli occhi al rovescio? Qua-
le cosa bianca è mai uscita da una corteccia gialla? Quale pa-
sta dolce dall’agro di un cedro? Che bel piantone da un gra-
nello!». Ma, in ultimo, si accorse che non si trattava di sogno
e che si giocava sul serio, e abbracciò la fata, dandole cento e
cento baci a pizzicotti; e, dopo mille parole amorose sul più e
sul meno che si dissero tra loro — parole che, come canto
fermo, erano contrappuntate dei baci zuccherini, — il principe
disse: «Non voglio, anima mia, portarti al paese di mio padre
senza pompa degna di cotesta bella persona e senza compa-
gnia da regina, come meriti. Perciò sali su questo cerro, dove
pare che pel bisogno nostro la natura abbia fatto una cavità in
forma di cameretta; ed aspettami fino al ritorno, ché,
senz’altro, metto le ali, e prima che si dissecchi questo sputo
— e sputò — verrò per condurti, ben vestita e bene accompa-
gnata, al regno mio». E cosi, con le debite cerimonie, parti.
In questo mezzo una schiava nera fu mandata dalla pa-
drona con un’anfora a prender acqua a quella fontana; la qua-
le, vedendo a caso nell’onda l’immagine della fata, e credendo
che fosse la propria, tutta meravigliata cominciò a dire: «Qua-
le vedere, Lucia sfortunata, ti cosi bella stare, e patruna man-
dare acqua a pigliare; e mi sta cosa tollerare, o Lucia sfortuna-
ta!». Cosi dicendo, spezzò l’anfora e tornò a casa.
Domandata dalla padrona perché avesse fatto questo gua-
sto, rispose: «Alla fontanella andata, anfora con pietra cozza-
ta». E la padrona, trangugiata questa ciambella stantia, le dié
un bel barile perché andasse a empirlo d’acqua; la quale, tor-
nata colà e vista di nuovo trasparire nell’acqua quella bellez-
za, esclamò, con un grosso sospiro: «Mi non stare schiava
musuta, mi non stare pernaguallà, mi non stare culo gnamme-
gnamme; mi stare tanto gentile, e portare a fontana barile!».
E, cosi dicendo, giù un’altra volta, e, sfasciando il barile, ne
fece millanta schegge; e poi tornò a casa dalla padrona, bron-
tolando: «Asino passato, barile cozzato, in terra cascato e tut-
to sfracellato».
440
La padrona, a queste parole, non potè più stare in flemma,
e, afferrato un manico di scopa, la andò lavorando in guisa
che se ne risenti per molti giorni; e, preso poi un otre, le disse:
«Corri, rompiti il collo, schiava pezzente, gamba di grillo;
corri, non indugiare, non fermarti per via, non far la Lucia, e
riportami questo, pieno d’acqua: se no, ti schiaccio come pol-
po e ti aggiusto tale un carico di randellate, che mi nominerai.
Corri, con le gambe sulle spalle!».
La schiava, che aveva provato il lampo e aveva paura del
tuono, mentre empiva l’otre, tornò a contemplare la bella im-
magine, e disse: «Stare crepata, se acqua pigliare; volermi
cercare sorte e maritare: non stare bellezza questa da far morte
arrabbiata e servire padrona scorrucciata». Cosi, tiratosi uno
spillone dal capo, cominciò a pertugiare l’otre, che parve uno
spiazzo di giardino con l’acqua a tradimento, perché fece cen-
to fontanelle.
A questa vista la fata prese a ridere fragorosamente; e la
schiava, alzando gli occhi, si avvide del nascondello, e, par-
lando tra se stessa, disse: «Ti stare causa che padrona mi ba-
stonare! Ma non ti curare!». E poi, ad alta voce, indirizzando-
si alla fata: «Che fare loco suso, bella figliola?». E quella, che
era madre della cortesia, le aperse tutto quello che aveva in
petto, senza lasciare un iota di quanto le era accaduto col
principe, ch’essa aspettava d’ora in ora e di momento in mo-
mento coi vestiti e con la compagnia per andare al regno del
re padre e celebrare le nozze.
La schiava, ringalluzzita, pensò, a questo racconto, di
guadagnare essa il premio con un colpo di mano, e replicò alla
fata: «Poiché aspettare marito, lasciare venir sopra, e pettinare
testa e fare più bella». E la fata disse: «Sii la benvenuta come
il primo di maggio»; e, arrampicandosi la schiava, ed essa
porgendole quella mano bianca bianca che, nell’afferrare i ne-
ri stecchi, pareva uno specchio di cristallo in cornice d’ebano,
quella sali sull’albero e, mostrando di ravviarle il capo, le
conficcò uno spillone nella memoria.
Subito la fata, sentendosi trapassare, gridò: «Colomba,
colomba!»; e, diventata una colombella, levò il volo e si mise
a fuggire. E la schiava si spogliò nuda, e, fatto un fagotto dei,
441
cenci e sbrendoli che portava addosso, li scagliò un miglio
lontano; ed essa, restata come la partorì sua madre, su
quell’albero, pareva una statua di giavazzo1 in una casa di
smeraldo.
Tornato il principe con una gran cavalcata e trovata una
botte di caviale dove aveva lasciato una tinozza di latte, rima-
se per un pezzo fuor di sentimento. Alla fine disse: «Chi ha
fatto questo sgorbio d’inchiostro alla carta reale, dove pensa-
vo scrivere i giorni miei più felici? Chi ha parato a lutto quella
casa biancheggiata di fresco, dove credevo di prendere tutti i
diletti miei? Chi mi fa trovare questa pietra di paragone, dove
avevo lasciato una miniera d’argento per farmi ricco e bea-
to?».
La schiava trottata, vedendo gli atti di meraviglia che fa-
ceva il principe, disse: «Non maravegliare, principe mio, ché
stare uccia è2 fatata: un anno faccia bianca, un anno culo ne-
ro». E il pover’uomo del principe, poiché il male non aveva
rimedio, fatte le corna come bue e rassegnatosi, s’ingoiò la
pillola; e, detto alla mora di scendere, la vesti da capo a piede
di abiti nuovi e l’adornò tutta. Cosi, indispettito, gonfio di bile
e col muso lungo, prese la via del paese, dove dal re e dalla
regina, che erano usciti fuori a sei miglia dalla terra, furono
ricevuti con quel piacere che prova il carcerato quando gli
s’intima la sentenza che «suspendatur»3. E quantunque essi
vedessero la bella prova fatta dal pazzo figlio, che aveva tanto
cercato il mondo per trovare una bianca colomba e ne aveva
portato una negra schiava, tuttavia, non potendo farne a meno,
rinunziata la corona agli sposi, misero il treppiè d’oro su quel-
la carne di carbone.
Ora, mentre si preparavano feste mirabili e banchetti da
stordire, e i cuochi spiumavano oche, scannavano maialetti,
scorticavano capretti, lardellavano arrosti, schiumavano pen-
tole, battevano polpette, imbottivano capponi e facevano mille
bocconi ghiotti, venne a una finestretta della cucina una bella
colomba, a cantare:
1
Bitume nero cristallizzato. Il testo dice: «na statua d’acciavaccio».
2
Parola per indicare i mori.
3
Era la (ormola per la condanna alla forca.
442
Cuoco, cuoco
della cucina,
che fa il re con
la saracina?
Il cuoco vi fece poca attenzione; ma, poiché la colomba
tornò la seconda e la terza volta a ripetere il verso, corse a ri-
ferirlo ai banchettanti come cosa meravigliosa. La signora,
all’udire quelle parole, dié ordine di prendere subito la co-
lomba e di farne un ingrattinato. E il cuoco, obbediente, tanto
s’adoprò che l’acchiappò, ed eseguito il comando della cuccu-
rognamma e scaldatala nell’acqua per spiumarla, gettò
quell’acqua e quelle penne su un albero fuori al balcone.
Non passarono tre giorni, e sorse colà un bell’albero di
cedro, il quale, cresciuto in quattro e quattr’otto, accadde che
il re, affacciandosi a una finestra che rispondeva da quella
parte, lo vide, che non l’aveva visto mai, e, chiamato il cuoco,
gli domandò quando e da chi era stato piantato. E, poiché ma-
stro Cucchiaione gli ebbe narrato il fatto, venne in sospetto di
un mistero; e cosi ordinò che, sotto pena della vita,
quell’albero non fosse toccato, ma anzi governato con ogni
diligenza.
A capo di pochi giorni, su quell’albero spuntarono tre bel-
lissimi cedri, simili a quelli che egli aveva avuti dall’orca; e,
quando divennero maturi, il re li fece cogliere, e, chiusosi in
una camera con una grande tazza di acqua, e col coltello della
vecchia, che portava sempre appeso al lato, cominciò a taglia-
re. E accadde il medesimo dell’altra volta, che la prima e la
seconda fata dileguarono in un lampo; ma, mentre tagliava il
terzo cedro, dié a bere alla giovane che ne era uscita e gli ri-
mase davanti la fata stessa che aveva lasciata sull’albero, la
quale gli narrò tutto l’inganno della schiava.
Or chi può dire la minor parte del giubilo che senti il re di
questa buona ventura? Chi può dire l’esultanza, la giocondità,
la letizia, il sopragaudio, il riso e il pianto ch’egli fece? Fa’
conto che nuotava nel dolce, non capiva nella pelle, se ne an-
dava in solluchero e in estasi. La strinse tra le braccia, la fece
vestire di tutto punto, e subito la condusse per mano nel mez-
zo della sala, dov’erano tutti i cortigiani e le genti del paese
443
per onorare la festa delle nozze.
Il re li chiamò a uno a uno e domandò: «Chi facesse male
a questa bella signora, quale pena meriterebbe?». E chi rispo-
se che sarebbe meritevole di una collana di canapa, chi di un
conferimento di selci, chi di un contrappunto con un maglio
sulla pelle dello stomaco, chi di una bevanda di scamonea, chi
di un monile composto di una mazzera, e chi di una cosa e chi
di un’altra.
Chiamò, in ultimo, la sciagurata regina, e, facendole la
stessa domanda, quella rispose: «Meritare abbruciare e cenere
da castello gettare». E il re le disse: «Tu ti sei scritto il malan-
no con la penna tua; ti sei data l’accetta al piede; hai foggiato
i ceppi, affilato il coltello, stemperato il veleno, perché nessu-
no l’ha fatta peggio di te, cagna mora! Sai tu che questa è la
bella giovinetta che tu trapassasti con lo spillone? Sai che
questa è la vaga colomba, che tu facesti scannare e cuocere
nella padella? Che ti pare, Cecca, di questo ronzinQ? Scuoti
via, ché è discesa! Hai fatto una bella sporcizia: chi fa male,
male aspetta, e chi cucina frasche, scodella fumo».
Cosi la fece prendere di peso e mettere viva viva sopra
una gran catasta di legna, e, fattone cenere, la sperse dall’alto
del castello al vento, avverando il detto:
Non vada scalzo chi semina spine.
444
DELLA FIABA DELLE FIABE.
CONCLUSIONE ALLA INTRODUZIONE DEI TRAT-
TENIMENTI
CHE RISPONDE AL
TRATTENIMENTO DECIMO
DELLA GIORNATA QUINTA
1
Cioè, esegui il ballo della Lucia, con le contorsioni relative.
445
natura e per accidente, a dire fatti veri. E, quantunque il pro-
verbio dica: ‘Piscia chiaro e fa’ le fiche al medico’, tuttavia,
sapendo che la verità non è ricevuta alla presenza dei principi,
io tremo di dire cosa che vi faccia forse montare i fumi della
collera».
«Di’ quello che vuoi — rispose Taddeo, — ché da questa
bella bocca non può uscire niente che non sia inzuccherato e
dolce».
Queste parole furono pugnalate al cuore della schiava, e
ne avrebbe mostrato segno, se le facce nere fossero, come le
bianche, libro dell’anima, e avrebbe pagato un dito della ma-
no a esser digiuna di quei racconti, perché il cuore le si era
fatto più nero della faccia, e, dubitando che il racconto passato
non fosse stato prima annunzio e poi malanno, dal mattino
previde il cattivo giorno.
Ma Zoza, in questo mezzo, cominciò a incantare i circo-
stanti con la dolcezza delle parole, raccontando dal principio
alla fine tutti gli affanni suoi, a cominciare dal punto della na-
turale malinconia sua, infelice augurio di quello che doveva
accaderle, perché essa aveva portato sin dalla culla l’amara
radice di tutte le crudeli sciagure, le quali, servendosi della
chiave del suo riso sforzato, la sforzarono a tante lacrime. Se-
guitò poi con la bestemmia della vecchia, col pellegrinaggio
suo accompagnato da tanta angoscia, con l’arrivo alla fontana,
e il piangere dirotto, e il sonno traditore, che fu la sua rovina.
La schiava, sentendola prendere largo e tira, e vedendo
male avviata la barca, gridò: «Stare zitta, turare; se no, pugni
a ventre dare e Giorgetiello acciaccare!». Ma Taddeo, che a-
veva scoperto paese, non ebbe più flemma, e, toltasi la ma-
schera e gittando la barda in terra, disse: «Lasciala raccontare
fino in fondo e non fare più coteste rapine di cappa con Gior-
getiello e Giorgione, perché, infine, non mi hai trovato solo1,
e, se mi monta la senapa, meglio che ti avesse schiacciata una
ruota di carro». E comandò a Zoza che seguitasse a dispetto
della moglie; ed essa, che non voleva altro che il cenno, se-
1
Sottintendi: «perché io ho le mani».
446
guitò narrando come avesse trovato rotta l’anfora e l’inganno
usato dalla schiava nel levargliela di mano; e, cosi dicendo,
scoppiò a piangere di maniera, che non fu nessuno dei presen-
ti che stesse saldo allo schianto.
Taddeo, dalle lacrime di Zoza e dal silenzio della schiava,
che era ammutolita, comprese e pescò la verità del fatto; e,
somministrata a Lucia tale strigliata di capo che non si fareb-
be a un asino, e costrettala a confessare con la propria sua
bocca il tradimento, dié subito ordine che fosse sepolta viva,
con la sola testa allo scoperto affinché la morte sua fosse sten-
tata.
E, abbracciando Zoza, le fece rendere onore come a prin-
cipessa e moglie sua, e mandò avviso al re di Vallepelosa che
venisse alla festa. Con queste nuove nozze, terminò la gran-
dezza della schiava e il trattenimento dei racconti; e buon prò
e sanità vi faccia, ché io me ne venni via, passo passo, con un
cucchiaietto di miele.
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448
NOTE DI CULTURA NAPOLETANA ANTICA
(estratte da le Note di B. Croce)
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Mastro Lanza. Nell’Esopo, poema giocoso in canti XII
(Venezia, Picotti, 1828), composto da vari soci della Nuova
Accademia di belle lettere di Venezia nei primi decenni del
secolo decimonono, si legge nel canto IX, ott. 94: «Indi con
aureo magistral sermone Sul gusto metaforico del Lanza»; e
in fondo al canto è la nota: «Il Lanza fu un celebre narratore
di fole nella piazza di San Marco in Venezia, sul gusto de’
peggiori secentisti» (voi. II, pp. 122, 131).
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INDICE
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