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Barthes: La Morte Dell'autore

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T103
Barthes: «la morte dell’autore»
R. Barthes, La morte dell’autore, in Id., Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Einaudi, Torino
1988, pp. 51-56

Il tema della morte dell’uo- offrirsi a una interpretazione diametralmente opposta


mo è strettamente collegato a un altro tema che appa- a quella che l’autore avrebbe autorizzato. In alcuni casi,
re centrale per comprendere l’approccio strutturalista cioè, il testo sembra “parlare” contro la volontà espli-
nel campo della letteratura. Due anni dopo la pubbli- cita del suo “creatore”, rivelando qualcosa che l’autore
cazione del testo di Foucault Le parole e le cose – in cui stesso avrebbe voluto tacere o evidenziando qualcosa
si teorizza la “morte dell’uomo” – il linguista Roland che va al di là della consapevolezza di chi lo ha scritto.
Barthes pubblica un saggio intitolato La morte dell’au- Accade, dunque, anche qui un decentramento ana-
tore (1968). Si tratta di un saggio breve, ma destinato logo a quello che si era prodotto con la linguistica di
ad avere una straordinaria importanza per gli studi di Saussure, con l’antropologia di Lévi-Strauss, e con
critica letteraria. l’archeologia dei saperi di Foucault. La letteratura non
Anche Barthes, come gli altri strutturalisti, pensa che può più essere compresa partendo dal primato di un
sia necessario superare il soggettivismo moderno. Se soggetto, sia esso l’autore o l’artista; il primato è di una
Lévi-Strauss aveva tentato di elaborare un’antropologia struttura, il testo, rispetto a cui tanto l’autore quanto il
scientifica non soggettivista e se Foucault aveva cerca- lettore sono figure in qualche modo secondarie.
to di superare l’umanismo nel campo della storia dei Questo decentramento ha una conseguenza impor-
saperi, Barthes, muovendo dai medesimi presupposti, tante. Se leggere un testo significa soltanto compren-
cerca di elaborare le linee fondamentali di un approccio dere il messaggio che lo scrittore ha voluto trasmet-
strutturalista al testo letterario. In tale ambito la presen- tere, le esperienze letterarie e le esperienze estetiche
za di un pregiudizio soggettivistico si evidenzia in modo restano prigioniere di un presunto ideale di oggettività
particolare nel primato che la critica tradizionale assegna del contenuto espressivo dell’autore. Se il testo si limi-
al ruolo dell’autore. Nella maggior parte dei casi il testo ta semplicemente a dare voce all’intenzione dell’auto-
letterario – un romanzo, un racconto, una poesia – viene re, una lettura sarà adeguata solo se restituisce fedel-
considerato innanzitutto come l’espressione dell’interio- mente questa intenzione. Il primato dell’autore implica
rità di un autore o della sua psicologia. Il testo appare dunque la possibilità di distinguere le interpretazioni
così come la realizzazione, più o meno adeguata, a se- del testo “corrette” da quelle “non corrette”: le prime
conda della sua riuscita, dell’intenzione comunicativa di sarebbero quelle che corrispondono a ciò che l’autore
uno scrittore o di un poeta. In questo senso l’autore è ha veramente voluto dire, le seconde quelle che ne tra-
considerato «il padre e il proprietario della sua opera». visano le intenzioni.
Ma se l’autore è il vero padrone del significato di un te- Per Barthes quest’idea è profondamente sbagliata: in
sto, leggere un testo significa semplicemente ricostruire realtà «non esiste una verità oggettiva o soggettiva del-
ciò che lo scrittore aveva intenzione di dire. la lettura». Leggere un testo letterario non significa mai
Per Barthes questo modo di concepire la letteratura è adeguarsi a un significato che sarebbe già presente, per-
fortemente riduttivo. Affermare la «morte dell’autore» ché l’autore lo ha inscritto nel testo. Al contrario, leggere
significa stabilire la fine di una concezione dell’espe- significa compiere un lavoro, partecipare alla produzio-
rienza letteraria soggettivistica. Le grandi opere lette- ne del significato del testo. Si capisce allora la celebre
rarie sono tali proprio perché possono “comunicare” tesi che conclude il saggio La morte dell’autore: la morte
qualcosa che l’autore stesso non aveva affatto proget- dell’autore è la condizione per «la nascita del lettore».
tato intenzionalmente di dire. Il testo letterario ha una Per Barthes quanto più diminuisce l’autorità dell’autore
sua autonomia rispetto al voler dire dello scrittore, in sul testo tanto più aumenta la libertà del lettore.
un certo senso si può dire che “parla” al lettore indi- Questa sottolineatura è molto importante anche per-
pendentemente dalla volontà del suo autore. Così, per ché si tratta di un’idea che ha valore al di là dell’ambito
esempio, un poeta non è mai in grado di anticipare tut- più ristretto della critica letteraria: possiamo vedere
te le possibili interpretazioni che la sua opera poetica nella necessità di lasciare spazio a una pluralità di in-
genererà. Potremmo dire che un testo poetico “contie- terpretazioni uno dei punti di convergenza più evidenti
ne” molto più di ciò che il poeta stesso ha voluto espri- all’interno del diversificato movimento culturale dello
mere. Addirittura, in alcuni casi, un testo letterario può strutturalismo e del cosiddetto post-strutturalismo.

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N ella sua novella Sarrasine Balzac, parlando di un castrato travestito da don-


na, scrive questa frase: «Era la donna, con le sue paure improvvise, i suoi
capricci irragionevoli, i suoi turbamenti istintivi, le sue audacie immotivate, le
sue bravate e la sua deliziosa finezza di sentimenti». Chi parla in questo modo? È
5 forse l’eroe della novella, interessato a ignorare il castrato che si nasconde sotto
la donna? È l’individuo Balzac, che l’esperienza personale ha munito di una sua
filosofia della donna? È l’autore Balzac, che professa idee «letterarie» sulla fem-
minilità? È la saggezza universale? La psicologia romantica? Non lo sapremo mai,
per la semplice ragione che la scrittura è distruzione di ogni voce, di ogni origine.
10 La scrittura è quel dato neutro, composito, obliquo in cui si rifugia il nostro sog-
getto, il nero-su-bianco in cui si perde ogni identità, a cominciare da quella stessa
del corpo che scrive.
È stato senza dubbio sempre così: non appena un fatto è raccontato, per fini in-
transitivi, e non più per agire direttamente sul reale – cioè, in ultima istanza, al
15 di fuori di ogni funzione che non sia l’esercizio stesso del simbolo –, avviene
questo distacco, la voce perde la sua origine, l’autore entra nella propria morte,
la scrittura comincia. Il modo di sentire tale fenomeno è stato tuttavia variabile;
nelle società etnografiche del racconto non si fa mai carico una persona, ma un
mediatore, sciamano o recitante, di cui si può al massimo ammirare la «perfor-
20 mance» (cioè la padronanza del codice narrativo) ma mai il «genio». L’autore è
un personaggio moderno, prodotto dalla nostra società quando, alla fine del Me-
dioevo, scopre grazie all’empirismo inglese, al razionalismo francese e alla fede
individuale della Riforma il prestigio del singolo o, per dirla più nobilmente, della
«persona umana». [...]
25 La linguistica ha fornito alla distruzione dell’Autore un prezioso strumento anali-
tico, rivelando come l’enunciazione nel suo insieme sia un procedimento vuoto,
che funziona perfettamente senza che si renda necessario colmarlo con la persona
degli interlocutori: dal punto di vista linguistico, l’autore non è mai nient’altro
che colui che scrive, proprio come io non è altri che chi dice io: il linguaggio co-
30 nosce un «soggetto», non una «persona», e tale soggetto, vuoto al di fuori dell’e-
nunciazione stessa che lo definisce, è sufficiente a far «tenere» il linguaggio, cioè
ad esaurirlo.
L’allontanarsi dell’Autore (con Brecht, si potrebbe parlare qui di una vera e pro-
pria «presa di distanza», dal momento che l’Autore si assottiglia come una figuri-
35 na sullo sfondo della scena letteraria) non è soltanto un fatto storico o un atto di
scrittura: esso trasforma radicalmente il testo moderno (o – ma è lo stesso – il testo
è ormai fatto e letto in modo tale che in esso, a tutti i livelli, l’autore è assente).
Innanzitutto, il tempo non è più lo stesso. L’Autore, finché ci si crede, è sempre
visto come il passato del suo stesso libro: il libro e l’autore si dispongono da soli
40 su una medesima linea, organizzata come un prima e un dopo: all’Autore è rico-
nosciuto il compito di nutrire il libro, in quanto lo precede, pensa, soffre, vive per
esso; con la propria opera intrattiene lo stesso rapporto di antecedenza che un
padre ha con il figlio. Lo «scrittore» moderno – il soggetto della scrittura – nasce
invece contemporaneamente al proprio testo; non è in alcun modo dotato di un
45 essere che precederebbe o travalicherebbe la sua scrittura, non è affatto il soggetto
di un libro che ne costituirebbe il predicato; non esiste altro tempo se non quello
dell’enunciazione, e ogni testo è scritto per sempre qui e ora. Il fatto è che (o ne

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consegue che) scrivere non può più designare un’operazione di registrazione, di


constatazione, di rappresentazione, di «pittura» (come dicevano i Classici), bensì
50 ciò che i linguisti, sulla scorta della filosofia analitica oxfordiana, chiamano un
performativo, forma verbale rara (esclusivamente data alla prima persona e al pre-
sente) nella quale l’enunciazione non ha altro contenuto (o altro enunciato) che
l’atto stesso con il quale si enuncia: un po’ come il Io dichiaro dei re o il Io canto
dei poeti più antichi; lo «scrittore» moderno, dopo aver sepolto l’Autore, non può
55 più credere, come facevano pateticamente i suoi predecessori, che la sua mano sia
troppo lenta per il suo pensiero o per la sua passione e che di conseguenza, facen-
do di necessità virtù, egli debba accentuare tale ritardo e «lavorare» all’infinito la
propria forma; per lui, al contrario, la sua mano, staccata da qualsiasi voce, guida-
ta da un puro gesto di inscrizione (e non di espressione), traccia un campo senza
60 origine – o che, per lo meno, non ha altra origine che il linguaggio stesso, ovvero
proprio ciò che rimette costantemente in discussione qualsiasi origine.
[...]
Una volta allontanato l’Autore, la pretesa di «decifrare» un testo diventa del tutto
inutile. Attribuire un Autore a un testo significa imporgli un punto fisso d’arresto,
65 dargli un significato ultimo, chiudere la scrittura. È una concezione molto como-
da per la critica, che si arroga così l’importante compito di scoprire l’Autore (o le
sue ipostasi: la società, la storia, la psiche, la libertà) al di sotto dell’opera: trovato
l’Autore, il testo è «spiegato», il critico ha vinto; non deve sorprendere, perciò, il
fatto che storicamente il regno dell’Autore sia stato anche quello del Critico, e che
70 la critica (per quanto nouvelle) sia oggi, insieme all’Autore, minata alla base. Nel-
la scrittura molteplice, in effetti, tutto è da districare, ma nulla è da decifrare; la
struttura può essere seguita, «sfilata» (come si sfila la maglia di una calza) in tutti
i suoi «prestiti» e piani, ma non esiste un fondo; lo spazio della scrittura dev’es-
sere percorso, non trapassato; la scrittura esprime costantemente un certo senso,
75 ma sempre in vista della sua evaporazione: essa procede sistematicamente a una
sorta di «esonero» del senso. Proprio per questo, la letteratura (ormai sarebbe me-
glio dire la scrittura), rifiutandosi di assegnare al testo (e al mondo come testo) un
«segreto», cioè un senso ultimo, libera un’attività che potremmo chiamare contro-
teologica, o meglio rivoluzionaria, poiché rifiutarsi di bloccare il senso equivale
80 sostanzialmente a rifiutare Dio e le sue ipostasi, la ragione, la scienza, la legge.
Ritorniamo alla frase di Balzac. Nessuno (cioè nessuna «persona») la pronuncia:
la sua fonte, la sua voce, non è il vero luogo della scrittura, ma la lettura. Un altro
esempio molto preciso può chiarirlo: recenti ricerche (J.-P. Vernant) hanno messo
in luce la natura fondamentalmente ambigua della tragedia greca; in essa il testo
85 è intessuto di parole dal senso duplice, che ogni personaggio comprende unilate-
ralmente (il «tragico» è per l’appunto questo malinteso); esiste tuttavia qualcuno
che intende ogni parola nella sua duplicità, e in più intende quella che potremmo
chiamare la sordità dei personaggi che parlano di fronte a lui: questo qualcuno è
appunto il lettore (o, in questo caso, l’ascoltatore). Si disvela così l’essere totale
90 della scrittura: un testo è fatto di scritture molteplici, provenienti da culture di-
verse e che intrattengono reciprocamente rapporti di dialogo, parodia o contesta-
zione; esiste però un luogo in cui tale molteplicità si riunisce, e tale luogo non è
l’autore, come sinora è stato affermato, bensì il lettore: il lettore è lo spazio in cui
si inscrivono, senza che nessuna vada perduta, tutte le citazioni di cui è fatta la

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95 scrittura; l’unità di un testo non sta nella sua origine ma nella sua destinazione,
anche se quest’ultima non può più essere personale: il lettore è un uomo senza
storia, senza biografia, senza psicologia; è soltanto quel qualcuno che tiene unite
in uno stesso campo tutte le tracce di uno scritto è costituito. Per questo è ridicolo
sentir condannare la nuova scrittura in nome di un umanesimo che si erge ipo-
100 critamente a difensore dei diritti del lettore. Del lettore la critica classica non si
è mai occupata; per lei, nella letteratura non vi è altro uomo che chi scrive. Oggi
cominiciamo a non lasciarci più ingannare da quella sorta di antifrasi con cui la
buona società è solita perorare in modo arrogante proprio in favore di ciò che in
realtà mette al bando, ignora, soffoca o distrugge; sappiamo che, per restituire alla
105 scrittura il suo avvenire, bisogna rovesciarne il mito: prezzo della nascita del let-
tore non può essere che la morte dell’Autore.

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