La Conquista Dell'impero Dei Sogni: D'Annunzio e Pirandello
La Conquista Dell'impero Dei Sogni: D'Annunzio e Pirandello
La Conquista Dell'impero Dei Sogni: D'Annunzio e Pirandello
Sono gli anni che precedono l’inizio della guerra di Libia. Gli anni in cui
Giovanni Pascoli parla della “grande proletaria” che si è mossa.
Gli storici dei grandi movimenti di emigrazione non si sono certo curati dei
piccoli fenomeni di emigrazione culturale all’interno del territorio delle arti e
dello spettacolo, fenomeni che ne hanno mutato in modo profondo la topografia
e i sistemi di comunicazione interna.
Il proletariato intellettuale—ma non solo quello—dal primo decennio del
Novecento comincia a dirigersi, prima in ordine sparso e poi in maniera
compatta e massiccia, verso il Nuovo Mondo del cinema. Una terra promessa,
una terra da seminare anche con le briciole del proprio corpo letterario e da arare
con procedimenti del tutto nuovi.
L ’intero territorio appare a molti come il paese di Cuccagna, o meglio come
l’Eldorado, una terra da cui dar inizio a una nuova era culturale.
“La scena—scrive D’Annunzio in un saggio rimasto inedito fino a poco
tempo fa—è come una femmina isterilita da cui aspettiamo la nascita di qualche
cosa” (Del cinematografo 116).
La scena cinematografica stimola inedite energie creative negli intellettuali
che si dirigono verso di lei e ne viene fecondata in maniera più o meno visibile.
Una prima ipotesi è questa: il cinema esercita sui letterati italiani—fin dalla
sua prima apparizione—un’attrazione fatale.
Non c’è letterato tra quanti hanno avuto rapporti continuati o semplici
contatti occasionali con la nascente industria cinematografica, che non sia
costretto a fare i conti con una serie di problemi di etica e identità professionale,
di riconoscimento di paternità e proprietà artistica, del tutto sconosciuti
all’intellettuale del secolo appena trascorso. Non c’è letterato che, costretto a
rivelare l’esistenza di questi rapporti, non si senta nelle vesti del marito che ha
abbandonato il letto coniugale, non avverta e denunci il proprio senso di colpa,
non provi un senso di sdoppiamento della propria personalità artistica e di
degradazione delle sue migliori qualità e—in pari tempo—non confessi di aver,
comunque, provato una qualche forma di piacere, di godimento e gratificazione
nel corso della relazione.
Per un Gozzano che, sulla “Vita cinematografica” già nel 1910, ammette di
aver ridotto per il cinema “fiabe per grandi e piccini sceneggiate con grande
sintesi di trama e scaltrezza d’effetti” (Bocca 54) c’è un Verga che si rivolge con
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questo tono a un’amica a cui regala i soggetti di molte sue opere: “Vi prego e vi
scongiuro di non dire mai che io abbia messo le mani in questa manipolazione
culinaria delle cose mie” (Raya, Verga e il cinema 33).
Basteranno pochi anni ancora perché altri (come Delteil in Francia) giungano
a dichiararsi figli del cinema, capovolgendo un fin troppo ovvio albero
genealogico (“il cinema è mio padre. Dona sangue e porpora alla letteratura”).
I miraggi economici, i bagliori di compensi inconcepibili per un equivalente
lavoro editoriale, costituiscono un minimo comun denominatore, una ragione
primaria del fascino esercitato dal cinema, ma certo non sufficiente a produrre un
fenomeno tanto massiccio e diffuso di attraversamento del limes culturale
tradizionale e di creazione—per individui molto diversi—di spazi, piani e linee di
sviluppo e riferimento correlate e comuni.
Evitiamo di assumere come sistema di riferimento le trasposizioni
cinematografiche delle opere e dei drammi originali di D’Annunzio e Pirandello.
Cerchiamo piuttosto di collegare fenomeni contigui e similari, di segnalare
forme dirette e indirette di influenza teorica e poetica. Il quadro si dilata di fronte
ai nostri occhi e include fenomeni e soggetti finora mai considerati. E soprattutto
si organizza attorno a due fuochi e a due punti di fuga prospettici.
D’Annunzio e Pirandello sono come due grandi accumulatori la cui energia
non va ad alimentare tanto lo schermo, quanto si diffonde su un intero
macrosistema culturale ed economico creato e regolato dalla macchina
cinematografica.
che la nuova forma di espressione offre sulla scena artistica, culturale e sociale.1
E ’ proprio grazie all’azione indipendente, ma incrociata, di D’Annunzio e
Pirandello che si può veder nascere, svilupparsi e tendersi, fino quasi ad
esplodere, un ventaglio di problemi di carattere teorico, poetico, ma anche più
banalmente pragmatico e utilitaristico, che, oltre a rivelare l’ampiezza dell’area
osservata, la copre in tutta la sua varietà logistica e territoriale.
Il cinema appare sì come il simbolo del moderno, come la manifestazione
più significativa della scienza al servizio dell’arte ma anche come il punto di
intersezione e il centro prospettico dell’intero sistema delle arti del passato.
Tradizionalmente D’Annunzio e Pirandello non viaggiano in coppia: di
fronte al cinema però il loro accostamento produce, per sinergia, la capacità di
copertura massima di un terreno che sembrerebbe esplorato in modo sistematico
quasi sulla base di un progetto comune.
Entrambi rifuggono e combattono—con mezzi differenti—l’ideologia della
modernizzazione, ma avvertono, con grande immediatezza e lucidità, come la
macchina cinematografica possa diventare la più grande creatrice o il più grande
collettore di miti nelle mani dell’uomo contemporaneo. La “novissima forza che
scaglia dardi per gli occhi” che vince D’Annunzio (come lui stesso dichiara nella
didascalia finale di Cabiria 31) gli appare—fin dal primo momento—come la
reincarnazione dello spirito di Ovidio e, al tempo stesso, lo strumento simbolico
per il rito di rinascita e riscoperta dell’identità nazionale e della volontà di
conquista lungo la strada aperta all’epoca dellTmpero romano.
Prima di provare l’ebrezza del volo e del dominio dello spazio e vivere in
prima persona il senso di imprese gloriose, D’Annunzio avverte e dichiara, con
la sua aperta adesione, che lo schermo è l ’unico luogo entro cui trasferire i
desideri individuali e collettivi, le aspirazioni e i bisogni di imprese gloriose.
Cabiria non è—come per troppo tempo si è pensato, un incontro casuale di
D’Annunzio col cinema—quanto l’occasione di riprendere e riproporre, con un
altro mezzo, un momento centrale della sua poetica di quegli anni. In un certo
senso di fame emblematicamente il punto più alto sia dell’aspirazione all’opera
d’arte totale (G esam tkunstw erk) che della volontà di trovare un luogo
mitopoietico nel quale far confluire le differenti tensioni della sua opera poetica,
letteraria e teatrale e di vate della nuova Italia.
Un discorso complementare vale per Pirandello. Il fuoco, l’acqua, il sangue,
il motivo del sacrificio, la circolarità del mito, la reversibilità del tempo, le
metamorfosi, gli intrecci di scienza e magia, l’esigenza di unificare il molteplice
. . . questi e altri motivi si ritrovano in tutti quelli che possiamo chiamare gli
1 Esiste ormai una bibliografia di un certo rilievo sull’argomento: tra i molti testi e saggi utili
si vedano almeno il mio Intellettuali cinema e propaganda tra le due guerre e il capitolo
dedicato all’intervento dei letterati nella mia Storia del cinema italiano; AA.VV., D ’Annunzio e
il cinema; Enzo Lauretta, a c. di, Pirandello e il cinema; Sarah Zappulla Muscarà, Letteratura
teatro e cinema; e della stessa, Sperduti nel buio, un antesignano del neorealismo.
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se non tutti gli Oceani sia nostro almeno questo piccolo Golfo che, Roma prima e
poscia Venezia ebbero per tanti secoli nel loro incontrastato imperio. . . .
Tu celebrando nella tua tragedia Adriatica i natali di questa antica madre immortale
illumini e conforti i nostri spiriti ansiosi, oggi che ancora una volta la barbarie
minaccia alle nostre porte e una voce irosa eccheggia fra gli archi del grande
anfiteatro romano di là del breve mare.
Ma se non più l ’aquila di Aquileia, apra pur sempre le ali un’altra aquila fatata
sopra il rostro delle navi d’Italia. E voglia Iddio che tu sia chiamato a intonare il
peana di vittoria sul mare nostro. (“Gazzetta di Venezia” 1)
2
I testi integrali di questi discorsi sono riportati nella “Gazzetta di Venezia’* del 28 aprile
1908.
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la città orfana addenta con i suoi Moli. . . . Per dire il suo martirio e il suo
coraggio evocherò l ’eroe delle continue ferite, quel Carlo Zeno il cui animo era di
così smisurata potenza che . . . avendo una saetta conficcata in gola, egli condusse
col muto gesto le sue Galere. . . . Lo Zeno ebbe strappata la freccia da un
marinaio, visse e vinse, gridò nel sangue la gioia delle liberate acque. Io voglio
bere a quell’atteso marinaio d’Italia che un giorno compirà il medesimo atto e
raccoglierà il medesimo grido. (“Gazzetta di Venezia” 2)
Pensavo che dal cinematografo potesse nascere un’arte piacevole il cui elemento
essenziale fosse il ‘m eraviglioso’. Le M e ta m o rfo si di Ovidio! Ecco il vero
soggetto cinematografico. Tecnicamente non v ’è limite alla rappresentazione del
prodigio e del sogno. Volli esperimentare la favola di Dafne. Non feci se non un
braccio: il braccio che dalla punta delle dita comincia a fogliare sinché si muta in
ramo folto di alloro. . . . Mi ricordo sempre della grande commozione ch’ebbi alla
prova. L’effetto era mirabile. Il prodigio, immoto nel marmo dello scrittore o
nella tela di pittore, si compiva misteriosamente davanti agli occhi stupefatti. La
vita soprannaturale era là rappresentata in realtà palpitante.
Ma l ’esperimento fu interrotto.
Le difficoltà erano gravi e richiedevano una pazienza e una costanza che il risultato
pratico non poteva compensare. . . . I fabbricanti ad ogni tentativo insolito
oppongono l ’esecrabile gusto del pubblico. Il gusto del pubblico riduce oggi il
cinematografo a un’industria più o meno grossolana in concorrenza col teatro. Io
stesso—per quella famosa carne rossa che deve eccitare il coraggio dei miei cani
corsieri— ho lasciato cincischiare in film s alcuni dei miei drammi più noti. Ma
questa volta mi è piaciuto di fare un esperimento diretto. (Del cinematografo 115-
118).
Si tratta d’un disegno di romanzo storico, delineato parecchi anni fa e ritrovato tra
le mie innumerevoli carte. Il disegno era troppo ambizioso. . . . La Casa editrice
ha, senza dubbio, compiuto il più grande e ardito sforzo che sia mai stato fatto in
quest’arte. . . .
Non cesso tuttavia di pensare al delicato braccio di Dafne converso in ramo
frondoso. La vera e singolare virtù del Cinematografo è la trasfigurazione e io dico
che Ovidio è il suo poeta. . . . Io dico senz’ombra d’ironia che un buon bagno di
mitologia mediterranea per il pubblico del Cinematografo sarebbe d ’incalcolabile
efficacia. (Del cinematografo 118-122)
Poco dopo Canudo esalta il successo parigino della sua traduzione della Nave
e lamenta che la situazione creata con il silenzio del poeta è per lui molto
nociva: “Voi siete un uomo di genio e un grande artista. . . . Ma io non sono un
qualsiasi fornitore di carta annerita. . . . Abbiate la bontà di dirmi precisamente
quello che resta a fare perché la mia posizione rispetto a voi sia definitivamente
regolarizzata” (Canudo carteggio inedito).
La lettera è del novembre del 1910 e un anno di distanza, nel settembre
dell’11, Canudo scrive un’altra lunga lettera che ci aiuta a capire come il tipo di
coinvolgimento e attenzione di D’Annunzio per il cinema fosse già allora
tutt’altro che occasionale. Canudo scrive:
Quanto ai film io non posso che lamentare la mia disfatta, che mi ha tenuto in
angustie lontano da casa . . . quando vi sono giunto il denaro era tornato in mano
vostra. . . . Io ho lavorato accanitamente, giorni e notti, per compiere la riduzione
che oggi vi piace chiamare deformazione. Sotto la pressione dei vostri dispacci io
dovetti chiedere una collaborazione che fu da me retribuita con la metà del
compenso— cioè con 300 lire che io ho pagato. . . . Io dovetti leggere e annotare
minutamente le vostre opere e le ridussi come in Francia si riducono, cioè secondo
tutte le indicazioni psicologiche che devono solo servire di orientamento preciso
agli attori, che hanno cioè il compito di didascalie o rubriche. Ho dato i films al
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veduto e con la sua prosa ha voluto farlo vedere. Note all’azione egli ha chiamato
le esposizioni delle fasi dell’azione nei vari episodi. . . . C abiria si afferma subito
non come prodotto dell’industria cinematografica, ma come opera di volontà
concorrenti sotto l ’influsso di una suggestione estetica, ad una grande
manifestazione d’arte. . . . D ’Annunzio pervade della luce del suo ingegno chi lo
ascolta e chi lo legge. . . . D ’Annunzio illumina . . . ha illuminato chi ha dovuto
ricostruire i fasti di Roma contro Cartagine. (2)
opera che fortunatamente è poco e si riduce a illustrare i punti segnati colle due
righe che appaiono in bianco sul cartellone nero “Hanno ammazzato Compare
Turiddu. (Raya, Verga e il cinema 30)
intellettuali del tempo, Gance prende questa decisione che lo pone, ancora più
direttamente, in sintonia con D’Annunzio: “L’ora è venuta per me di tentare di
fare nel cinema la grande epopea popolare che tra un secolo sarà la nostra
Chanson de Roland” (164). Gance si colloca in uno spazio intermedio tra
D’Annunzio ed Einstein.
Anche D’Annunzio immagina il cinema come luogo privileggiato per una
forma moderna di epopea e vede crescere in modo così ipertrofico la pellicola da
far nascere una nuova creatura artistica “invocata e aspettata”.
I risultati, almeno sul piano nazionale e sul tempo medio-lungo, non sono
poi del tutto all’altezza delle profezie: la materia infuocata del poeta, già all’atto
di realizzazione di Cabiria, viene incisa con lettere romane su uno spazio
marmorizzato e subisce esattamente il processo opposto a quello desiderato.
I rituali, i motivi del sangue, della genesi dell’individuo messianico si
trasmettono e diffondono nella messa in scena della cerimonialità fascista, il
multiforme e il mutevole si coagula nella volontà e rappresentazione di una sola
unità atomica e di una sola volontà motrice.3
Al calore del fuoco e al palpitare della carne e del sangue subentra la
freddezza del marmo simil-classico, la vitalità delle intuizioni di poetica
cinematografica si disperde e non sembra lasciare tracce sensibili.
Cabiria è un grande evento cinematografico, un film monstre, una delle sette
meraviglie del mondo cinematografico delle origini, ma, nel momento in cui
passiamo ad esaminare la messa in scena, il piatto pende decisamente a favore di
opzioni di Pastrone e del suo tentativo di modificare il senso della visione
dannunziana.
E ’ Pastrone di fatto e non D’Annunzio che va alla conquista dei pubblici
cinematografici di tutto il mondo, è il regista torinese la reincarnazione di Marco
Gratico, l’ideale condottiero che “arma la prora [del cinema] e salpa verso il
mondo”. Ma senza la spinta dannunziana l’impresa del regista torinese avrebbe
avuto una portata assai più modesta. La bufera della guerra, com’è noto, fa
inabissare questo grande sogno di conquista e incagliare l’intera produzione nei
bassi fondali di una produzione di grandi drammi e passioni fatali nel salotto
liberty. Mentre il D’Annunzio eroico va a coprirsi di gloria nei cieli di Vienna o
nel Golfo del Quamaro, quello mondano continua a vivere e a riprodursi sullo
schermo nelle forme più a buon mercato, più appetibili e appetite dai pubblici
dell’alta e media borghesia italiana.
Paradossalmente, proprio là dove sembra chiudersi la grande prospettiva
ipotizzata da D’Annunzio, per un anomalo fenomeno di distorsione prospettica,
si apre la strada pirandelliana che sembrava invece—fin dal primo momento—
negarsi ogni possibilità di sviluppo. Pirandello, dopo un iniziale rapporto di
o
Intelligenti osservazioni in questo senso nella tesi di Ph.D. di Angela Dalle-Vacche. Si veda
anche il suo saggio in questo volume.
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La macchina con gli enormi guadagni che produce può compensarli molto meglio
che qualunque impresario o direttore proprietario di compagnia drammatica. Non
solo— ma essa— con le sue riproduzioni meccaniche, potendo offrire a buon
mercato al gran pubblico uno spettacolo sempre nuovo, riempie le sale
cinematografiche e lascia vuoti i teatri sicché tutte le compagnie fanno miseri
affari. Gli attori sono obbligati a bussare alla porta del cinema.
[Gli attori] odiano la macchina perché si sentono strappati dalla comunione col
pubblico. . . . Qua si sentono in esilio. In esilio non soltanto dal palcoscenico
ma da loro stessi. Perché l ’azione viva, del loro corpo vivo là sullo schermo non
c ’è più. . . . (1161)
Il mito della macchina, dilagante agli inizi del Novecento grazie agli scritti di
Mario Morasso prima e dei futuristi poi, viene rifiutato e smantellato quasi con
l’intenzione di offrire una parabola o exemplum morale. Ma l ’intero
funzionamento del microsistema e il suo significato vengono interrogati e
indagati isolando elemento per elemento.
Pirandello, nel momento in cui affida al soggetto dell’azione anche il ruolo
di soggetto narrante, sceglie di collocarsi all’intemo della realtà osservata e di
descriverla con continui mutamenti di obiettivi e di distanza focale. A quadri
d’insieme alterna primissimi piani e dettagli, ingrandimenti che modificano
totalmente il rapporto percettivo con il reale.
Il volto umano appare come un paesaggio da esplorare, da misurare con
differenti unità (nel volto ingrandito di Aldo Nuti si possono “contare i peli delle
ciglia”), ma anche come una realtà perturbante (“non mi pareva l’ora che sparisse
dallo schermo” aggiunge ancora l’attore).
I personaggi del romanzo si sentono schiavi della macchina manovrata da
Serafino Gubbio, che sembra un grosso ragno in agguato, un ragno che succhia e
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Se non ha diritto a qualche fresco cespuglietto d’erba, a tutti quei fili di suono
sottili vaganti, con cui il silenzio nelle solitudini tesse la pace, al q u a cq u a di
qualche raganella quando piove e le pozze d’acqua piovana rispecchiano nella notte
rasserenata le stelle; insomma a tutte le delizie della natura aperta e deserta, una
strada di campagna parecchi chilometri fuori di porta non so chi l ’abbia
veramente. (Pirandello 1147)
E qui, con una capacità di animazione delle masse non inferiore a quella di
Pastrone in Cabiria, Pirandello mostra il movimento di folle di persone e di una
miriade di mezzi di trasporto che si collegano alla casa cinematografica:
Il poeta facendomi l ’elogio del paesaggio mi additava con rammarico una vasta
tettoia di vetro, spalancata proprio dinanzi alla sua finestra, che ne guastava
l ’incomparabile bellezza. Era il teatro di posa d’uno dei cento stabilimenti
cinematografici, i quali avevano rinchiuso la città imperiale in una nuova cinta
inespugnabile di celluloide, nei cui margini perforati erano riprodotte fatalmente
rimpicciolite dai secoli, le arcate solenni dell’Acquedotto di Claudio. (Roma 9)
D’Annunzio vede nel cinema una grande occasione per riunire e immaginare
i simboli fondanti il senso di un’identità nazionale, Pirandello vede, al contrario,
il momento di massima perdita dell’identità (vedi la descrizione della Nestoroff
che si rivede sulla schermo: “Resta ella stessa sbalordita e quasi atterrita dalle
apparizioni della propria immagine su lo schermo, così alterata e scomposta.
Vede lì una che è lei, ma che ella non conosce. Vorrebbe non riconoscersi in
quella, ma almeno conoscerla... . Forse da anni e anni . . . ella va inseguendo
questa ossessa che è in lei e che le sfugge . . . ” (1139) o di scoperta attraverso
l’ingrandimento della propria immagine della dimensione altra che è in noi ma
anche della doppia direzione della macchina del tempo (“Guardi: il tempo, da lì,
da quel ritratto non procede più innanzi, non s’allontana sempre più d’ora in ora
con noi verso l’avvenire; pare che resti lì fissato, ma s’allontana anch’esso, in
senso inverso; si sprofonda sempre più nel passato, il tempo” 1273).
D ’Annunzio concepisce la nuova espressione come uno strumento di
liberazione per tutte le arti, una scatola magica entro cui raccogliere e far
lievitare, in tutta la loro potenza, le grandi mitologie mediterranee, Pirandello fa
della macchina un oggetto mitico, un emblema del moderno e della parabola di
degradazione dell’uomo. Con D’Annunzio si accendono fuochi collettivi che
salgono verso le stelle, con Pirandello si discende verso zone oscure, ci si
immerge nel profondo dell’individuo.
Il cinema per D’Annunzio è uno strumento di cronocrazia, di dominio dello
spazio e del tempo, per Pirandello è un mezzo di misurazione della perdita, della
duplicazione e della deriva del tempo individuale.
Eppure per entrambi c ’è uno sforzo spasmodico di esaltare i poteri
dell’occhio e dello sguardo, di capire quanto l’occhio della macchina possa
favorire la dilatazione della visione.
“Questa mattina l’occhio è il principe del mondo” scriverà Delteil qualche
tempo dopo e non è pensabile che romanzi francesi come L ’Amour du monde di
Ramuz o L'Adams di René Clair ignorino l’opera di Pirandello.
Mentre D ’Annunzio immagina i suoi personaggi come emblemi di una
volontà e di un destino superiore, Pirandello avverte la possibilità di rivelare, con
la sua macchinetta cinematografica, l’individuo come universo a più dimensioni,
di mostrarne lo sdoppiamento, il perdersi nei meandri della propria stessa
personalità. Assai più che in altre opere Pirandello fa propri o anticipa nel
romanzo alcuni elementi del principio di indeterminazione di Heisenberg, o
coglie motivi nei poteri della macchina che saranno poi ripresi da Bruno Tausk,
La conquista dell’impero dei sogni: D ’Annunzio e Pirandello 33
L ’ultimo D’Annunzio non può non avvertire, accanto al peso della solitudine e
dell’emarginazione politica e culturale, anche il senso della degradazione del suo
pensiero e dei sistemi simbolici a cui ha dato vita.
Mentre D’Annunzio vive sepolto al Vittoriale in una sorta di cuore del
nulla, Pirandello dovunque vada si sente nel cuore del mondo, e il suo pensiero e
le sue opere modificano, giorno per giorno, la scena mondiale.
Pirandello è un pò come il corvo liberato dai pastori all’inizio di Kaos dei
fratelli Taviani. Già prima di concepire I giganti della montagna vede a sua volta
finalmente nel cinema la nuova grande macchina fabbricatrice di miti del mondo
moderno, lo strumento di creazione e scoperta di nuove realtà in apparenza
invisibili all’occhio umano.
Nel sistema immaginativo di Pirandello non ci sono fasci littori, né aquile,
né macchine da guerra, né desiderio di conquista. Mi piace pensarlo mentre
discute con Alvaro e Baffico su un’idea di sceneggiatura di Terra di nessuno in
cui aveva immaginato che una bambina portasse un’oliva come tributo e
sottolineava l’importanza della mano aperta della bambina che offriva il tributo
dell’oliva regolarmente registrata da parte del notaio (Alvaro, Pirandello e gli
sceneggiatori 83).
Ce lo racconta Alvaro e io credo che quest’oliva, rifiutata al momento perché
cinematograficamente considerata poco plastica, abbia fecondato, affondato le sue
radici e fruttificato sul terreno del cinema assai più della parola dannunziana
evocatrice di “eventi che sembrano operare secondo la virtù del fuoco infaticabile
. . . che tutto doma che tutto divora e tutto distrugge, sire possente di tutto,
artefice sempiterno” (Cabiria 6).
Opere citate