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Antonio Vitti

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ANTONIO VITTI: RIPENSARE IL NEOREALISMO: CINEMA, LETTERATURA E MONDO

Difficile dare una definizione al neorealismo, tanto meno una data precisa di quando sia iniziato. Il termine
per primo fu usato all’inizio del ventesimo secolo in filosofia per definire una scuola che manteneva che
l’oggettività dei fatti è indipendente dal pensiero umano. Poi il termine fu ripreso dalla critica letteraria per
etichettare il romanzo “Rubè” (1921) di Giuseppe Antonio Borgese, definizione poi estesa ai cosiddetti
Realisti degli Anni’30: Bernari, Moravia, Pratolini, Vittorini che ancora oggi vengono spesso indicati come
precursori, perché avevano reagito all’ottimismo superficiale del Regime oltre a cercare un rinnovo
strutturale ed espressivo dell’arte. La linea di continuità fra l’anteguerra e il dopoguerra crea degli equivoci,
un’equivocità che si attenua nel campo cinematografico o per lo meno non esiste per molti registi che
negano l’esistenza di film che possono essere chiamati neorealisti nel periodo antebellico in quanto
segnano l’inizio del neorealismo con la Resistenza contro il nazi-fascismo e la liberazione della patria. Basti
pensare che il regista Giuseppe De Santis ha sempre sostenuto che il film “Ossessione” (1943) di Luchino
Visconti nel quale ebbe il ruolo di aiuto regista, anticipa delle scelte che poi farà il cinema neorealistico ma
afferma che il neorealismo nasce da un nodo storico rappresentata dalla guerra e dalla Resistenza.
Posizione che si contrappone a quella dell’operatore cinematografico Mario Serandrei che usò il termine
neorealismo per definire il tipo di cinema rappresentato da “Ossessione”. Non si trova consenso neanche
nel rifiutare l’appellativo di scuola, Italo Calvino nella prefazione al suo romanzo “Il sentiero dei nidi di
ragno” scrisse che il neorealismo non fu una scuola ma piuttosto un insieme di voci. Anche su questo fronte
non sono tutti d’accordo nel dire che il neorealismo non sia una scuola. Difatti lo storico e regista Carlo
Lizzani riconosce nel neorealismo un fenomeno complesso che ha rappresentato un movimento culturale
che ha avuto al suo interno delle personalità diverse che si sono ritrovate d’accordo su aspetti
fondamentali. Il movimento neorealista si concentrò in uno sforzo di divulgazione e di scoperta della realtà
di tutti i giorni, lo scrittore del tempo si sentiva spinto da una missione neo-illuminista e conoscitiva. La
letteratura doveva essere sganciata dal fatto puramente personale per investire la società nel suo insieme,
la guerra forzò così il letterato a prendere una posizione. Secondo A. Gramsci il mondo moderno, con la sua
nuova organizzazione del lavoro ha gettato le basi materiali che rendono possibile un collettivo salto di
classe per un intero ceto sociale. Secondo Gramsci l’intellettuale in quella fase avrebbe dovuto assumere un
ruolo importantissimo perché a livello culturale avrebbe combattuto l’egemonia della borghesia nella lotta
contro il proletariato. Il nuovo letterato sarebbe dovuto andare verso il popolo per farsi promotore della
letteratura nazionale popolare. Questa teoria ebbe molta influenza sul Neorealismo postbellico
contribuendo però a rafforzare le tendenze provinciali e locali. La scoperta dell’opera gramsciana aprì in
Italia un dibattito che costrinse molti intellettuali a fare delle scelte e portò allo scoperto aspetti irrisolti
della cultura italiana come la questione della lingua e il ruolo storico dell’intellettuale. Il problema della
lingua cioè come far parlare i personaggi non venne mai posto in maniera teorica nel mondo del cinema ma
venne fuori lavorando sulle varie sceneggiature. Molto spesso per ogni film che si faceva nelle varie realtà
locali, veniva spontaneo di far parlare questi personaggi in dialetto o per lo meno, non tanto in un dialetto
stretto che poteva rendere incomprensibile il sud al nord e viceversa, ma in una lingua italiana che fosse
contaminata. Visconti, ad esempio, ne “La terra trema – Episodio del mare” (1948) nella copia originale fece
parlare tutti i pescatori di Aci Trezza in dialetto siciliano stretto, persino incomprensibile a Visconti stesso,
perché loro non conoscevano la lingua italiana. Visconti lo fece per sottolineare che la decantata unità
dell’Italia era un’unità con molte sfasature, con molte ingiustizie, per denunciare che il Sud a quell’epoca
veniva abbandonato. Per molti registi questo modo di fare cinema significava isolarsi dal rapporto con il
pubblico nazionale, perciò quell’operazione di Visconti fu considerata un’operazione radicalizzante, che poi
il regista stesso dovette alterare accettando di far mettere i sottotitoli in italiano oppure il doppiaggio del
film in una lingua più comprensibile. Mario Alicata, allora portavoce della politica comunista nel meridione
era contrario all’inserimento del dialetto nei film regionali e sosteneva la tesi che in realtà il cinema,
essendo finzione, poteva avere una lingua di finzione. Alicata portava come esempio i romanzi di Verga
dove sia pure nel periodare, nel componimento della lingua, c’era un substrato di dialetto siciliano, ma il
dialetto non veniva mai parlato in modo diretto. Pasolini fece un elogio del neorealismo con una poesia
modellata sull’orazione di Antonio a Cesare nel “Giulio Cesare” di Shakespeare, partendo da una critica al
saggio di Carlo Cassola del 1958. Pasolini traccia i meriti del neorealismo: stile misto, difficile e volgare che
ha allargato il vocabolario della lingua italiana e ha aperto le porte al proletariato. Pasolini vede nel
neorealismo un rinnovamento storico di portata ideologica che si è esaurito negli Anni’50 ma che ha
lasciato in eredità Calvino, Morante, Gadda, Levi, la rivista “Officina”, Bassani e lo stesso Cassola.

ENRICO BERNARD: ESISTE UN TEATRO NEOREALISTA?

Moravia e Bernari, cosiderati i precursori del neorealismo, non hanno mai gradito una schematizzazione
rigida. Infatti, questi scrittori hanno ripetutamente insistito sulle diversità tra le loro opere e il cinema
neorealista. Il primo cinema neorealista del Rossellini di “Paisà” e “Roma città aperta”, dei De Santis,
Lizzani, Maselli de “Il sole sorge ancora”, tende per scelta ideologica ad una visione critica della realtà, ma
con un soggettivismo limitato allo stretto necessario. Al contrario, la letteratura di Moravia e Bernari non
può prescindere da una visione psicologica, interiorizzata del mondo. Qui le strade tra letteratura e cinema
neorealista si dividono: per la letteratura il rapporto con la realtà è un meccanismo per entrare nell’ambito
del contenuto esistenziale dei personaggi, invece il cinema neorealista usa l’individuo per descrivere una
realtà storica o sociale. Così, mentre nelle opere d’esordio di Moravia e Bernari, “Gli indifferenti” del 1929 e
“Tre operai” del 1934, il contesto fa da sfondo al dramma interiore dei personaggi, nel cinema il contesto
sociale è ideologicamente prevalente. In una conferenza tenuta negli USA e raccolta da Antonio Vitti, uno
dei maestri del neorealismo, Peppe De Santis, spiega che le influenze letterarie sul suo cinema sono
prevalentemente americane (Steinbeck, Hemingway), limitando il suo rapporto con la letteratura italiana a
soli due casi: “Gente in Aspromonte” di Alvaro e “Tre operai” di Bernari. Tuttavia, è pur vero che il cinema
neorealista ha avuto una sintonia di intenti ideologici con gli scrittori considerati precursori di questo
genere, non si può ignorare l’influenza che un romanzo come “Tre operai” può aver avuto su “Ladri di
biciclette”. Non si tratta quindi di minimizzare i legami tra letteratura e cinema neorealisti, bensì di
riesaminarli nella loro giusta luce. Non è del resto un caso se delle tre opere narrative “antesignane” del
neorealismo (“Gli indifferenti” di Moravia, “Gente in Aspromonte” di Alvaro e “Tre operai” di Bernari)
nessuna ha avuto una significativa trasposizione cinematografica. Mereghetti a proposito della versione
filmica de “Gli indifferenti” girata da Citto Maselli nel 1964 scrive che la lettura è discutibile perché non
riesce a far affiorare il groviglio malato delle psicologie dei suoi personaggi. Questo giudizio verte sul fatto
che il regista coglie sì l’aspetto sociale della critica alla classe borghese, ma lascia come in sospeso il rovello
interiore dei personaggi. Maselli descrive insomma l’ambiente sociale ma perde di vista il dramma
esistenziale fortemente presente nell’opera di Moravia. L’unico esempio di un felice incontro tra letteratura
e cinema neorealisti resta il film scritto da Bernari e Pratolini per Nanni Loy: “Le quattro giornate di Napoli”.
Occorre del resto quasi mezzo secolo dall’uscita di “Tre operai” affinché il cinema recuperi il vero contenuto
esteticamente espressionista e ideologicamente socioesistenziale della letteratura neorealista degli Anni’20
e ’30 attraverso “Le occasioni di Rosa” di Piscicelli del 1981 in cui la Napoli grigia e postindustriale di “Tre
operai” trova un corrispettivo cinematografico. Parlando di rapporti tra cinema e letteratura neorealisti
bisognerebbe chiamare in ballo un terzo soggetto: il teatro. La letteratura neorealista ha infatti attinto dal
teatro a piene mani. Le arti naturalmente si influenzano vicendevolmente, così i fumi delle ciminiere delle
ombre umane della pittura di Sironi si trasferiscono nell’immaginario narrativo di Bernari che anticipa il
bianconero neorealista, ma il teatro interviene ben più in profondità nella scrittura di Bernari e di Moravia.
Il teatro determina uno spostamento ideologico dell’autore che non è più come Manzoni o come nel
verismo di Verga osservatore esterno e passivo dei drammi umani e sociali. Grazie al teatro, nelle narrative
neorealista lo scrittore scende in campo, sale alla ribalta, partecipa al dramma come un protagonista sulla
scena. La narrativa del ‘900 che si apre al soggettivismo e al relativismo coglie così l’attualità della scrittura
teatrale e vi si adegua, trasformando la figura del narratore nel tipico “deus ex machina” del Teatro, cioè
l’autore che non è mai estraneo alla rappresentazione. La passione teatrale e cinematografica di Bernari e
Moravia è testimoniata da molti testi, saggi, recensioni anche di mostre e di pittori ed artisti del presente e
del passato. Soprattutto Moravia è stato autore teatrale di una certa importanza nella drammaturgia
italiana (con opere come “La cintura”, “Beatrice Cenci”, “Il Dio Kurt”) dedicandosi al cinema, al pari di
Bernari, che pure qualche testo teatrale lo produsse (“Roma 335”, “L’angelo vendicatore”) come autorevole
voce critica. Non può quindi stupire che mentre i maestri del cinema del dopoguerra hanno accolto senza
avanzare riserve l’etichetta di neorealisti, la stessa cosa non è avvenuta per Moravia e Bernari che hanno
sempre percepito riduttiva e fuorviante una simile definizione. Eduardo, un grande personaggio del teatro,
in “Ditegli sempre sì” (1932) offre una riflessione proprio a proposito del malumore nei confronti degli
schematismi critici che travisano il significato ed il valore delle opere letterarie. L’autore fa dire al Poeta
provinciale Luigi Strada una frase molto ironica sull’abuso della critica: “Avverto subito l’uditorio che,
mentre la tematica delle mie composizioni è un fatto tutto personale, il ritmo si stacca dalla formula
ermetica ma si aggancia alla corrente realistica e impressionistica”. Enrico Bernard, in quanto figlio di Carlo
Bernari, aggiunge un episodio avvenuto nel settembre degli Anni’60 quando accompagnò il padre Carlo a
trovare Eduardo nella sua villa sulla costiera amalfitana. Mettendosi a tavola per la cena ci fu una scherzosa
disputa tra Bernari e Eduardo che si rifiutavano di sedersi al capotavola in qualità di maestri del
neorealismo, etichetta che Bernari definì un pressappochismo dei critici, definizione che fu accolta anche da
Eduardo. L’episodio ebbe un seguito perché Eduardo scrivendo la sceneggiatura di “Ditegli sempre sì” per la
versione televisiva corresse il termine “realismo” pronunciato da Luigi Strada in “neorealismo”. Il
riferimento è degno di nota perché l’autore mette alla berlina una certa ottusità della critica che parla di
letteratura neorealista dimenticando la grande tradizione realista e popolare del teatro napoletano di
Antnio Petito e di Raffaele Viviani, di cui Eduardo, a partire dalla seconda metà degli Anni’20, è il
prosecutore ideale e naturale. Questa “prosecuzione” del realismo della tradizione teatrale napoletana da
parte di Eduardo sfocia nel 1932 in un capolavoro della letteratura teatrale contemporanea: “Natale in casa
Cupiello”. Il fatto curioso è che la genesi di “Natale” procede di pari passo con quella del romanzo “Tre
operai” di Bernari, cioè a partire dal 1929 circa. Il protagonista del romanzo di Bernari è Teodoro, è uno
spostato che tra l’altro ha grandi difficoltà ad alzarsi la mattina, proprio come Nenniniello di Eduardo.
Entrambi, Teodoro e Nenniniello, aspirano ad una vita migliore, rifuggono il lavoro e finiscono per vivere di
espedienti; i due personaggi hanno punti in comune anche sotto l’aspetto fisico: a loro manca sempre
terreno sotto i piedi, sono instabili e come in bilico sull’orlo del destino. Inoltre entrambe le figure derivano
dalla tradizione napoletana di Felice Sciosciamocca ripresa dal padre di Eduardo, Scarpetta (autore e attore
napoletano), che Bernari, napoletano e avido di cinema e teatro, ben conosce fin da ragazzo. Ma le affinità
tra il romanzo di Bernari e l’opera teatrale di Eduardo non finiscono qui. La figura del padre laborioso di
Teodoro trova un’eco nel personaggio di Lucariello, l’industrioso protagonista alle prese col suo presepe. La
figura morale della madre di Nenniniello, così tragicamente consapevole del dramma esistenziale che sta
vivendo, ha tanto da spartire con la madre di Teodoro che assolve nel romanzo ad una funzione di voce
della coscienza del protagonista. Le ambientazioni popolari del romanzo nella sua prima versione intitolata
“Gli stracci” e dell’opera teatrale sono pressoché identici: la piccola borghesia napoletana. Con l’unica
benché forte variante del tema politico e la raffigurazione di una nuova classe sociale a Napoli: il
proletariato e la fabbrica. Infatti nei “Tre operai”, e in ciò consiste lo scarto rispetto ad Eduardo, siamo alle
prese con un mondo nuovo, l’industrializzazione del Sud, di fronte alla quale Teodoro è un disadattato non
solo sociale (Eduardo) ma anche politico e ideologico (Bernari). Ma in “Napoli milionaria” del 1945 Eduardo
affronta con più vigore i temi ideologici e politici del neorealismo: la guerra, la resistenza e la ricostruzione.
Temi che pure Bernari tratta in un romanzo che vede la luce in questi anni, “Prologo alle tenebre” tra il
1943 e il 1946, a cui farà seguito “Speranzella” nel 1949. La visione di Eduardo e Bernari è pessimistica: la
liberazione non ci ha liberati dal vero nemico dell'umanità, il capitalismo, di cui il fascismo è una delle tante
facce. Vi è uno stretto rapporto tra la tradizione napoletana teatrale e il primo neorealismo di Bernari. Vi
sono innumerevoli riscontri che passano da un'opera all'altra, basti pensare che il teatro napoletano
popolare fu osteggiato dalla corrente intellettualistico borghese del verismo della Serao e dall' estetismo
lirico di Di Giacomo, è proprio Bernari a schierarsi contro la poesia digiacomiana a favore del crudo e cupo
lirismo popolare sia di Viviani che di Ferdinando Russo. È comunque evidente che Bernari e Eduardo
attingono a piene mani alla tradizione popolare del teatro napoletano. Realismo che tocca punti di grande
modernità con diverse opere di Viviani, ad esempio “I pescatori” del 1926 che forse ha pure ispirato
qualcosa a Rossellini per “Stromboli”. Sempre Enrico Bernard, in qualità di figlio, testimonia l’influenza di
Viviani su Bernari, il quale amava spesso citare alcune battute teatrali del grande autore partenopeo. Il
critico e pittore napoletano Paolo Ricci sostiene che il teatro di Viviani anticipa uno stile che avrà poi
sviluppi illustri nella letteratura, Gadda, Pasolini e Bernari sono gli esempi più convincenti di come
accogliendo il linguaggio della plebe, si possono raggiungere risultati straordinari. Paolo Ricci è fin da
giovane amico, compagno e ispiratore di Bernari. Sono proprio Ricci e Bernari a firmare nel 1929 il
manifesto dell’UDA, Unione Distruttivisti Attivisti, un movimento che cerca di spostare l’asse del futurismo
verso il socialismo. È proprio Ricci a mostrare l’anello di congiunzione mancante tra il neorealismo di “Tre
operai” e il realismo popolare napoletano di Viviani, un rapporto che crea come effetto-catena un
successivo passaggio, cioè da Viviani-Bernari ad Ugo Betti, infatti come testimonia Ricci, Betti era amico di
Bernari, Ricci stesso pregò Bernari di invitare Betti a considerare l’ipotesi di una sua collaborazione con
Viviani. Ricci poi afferma che Bernari gli scrisse affermando di aver parlato a Betti di Viviani ed ammettendo
che molti già parlano di un Betti vivianizzato. Se Bernari esagera un po' nel parlare con Ricci di un Betti
vivianizzato, emerge una forte sintonia tra Viviani, Ricci, Betti e Bernari. Ricci stesso parla poi di un Viviani
“bernarizzato” dall’opera “Tre operai”, tuttavia, l’opera di Viviani è antecedente alla data di pubblicazione
di “Tre operai”, 1934, il che significa che è Viviani il punto di riferimento per Bernari e di Eduardo. Si può
inoltre notare che il teatro di Viviani non subisca solo un’osmosi naturale in Eduardo ma, attraverso un
narratore come Bernari, vada ad influire su un altro autore come Ugo Betti. Betti ottiene il primo successo
con “Frana allo scalo nord”, dramma scritto nel 1932, pubblicato nel 1935 e rappresentato per la prima
volta a Venezia nel 1936. L’opera drammatica di Betti suscita l’interesse di Bernari che scorge nell’autore
originario di Camerino un “alter ego” teatrale, infatti Betti e Bernari sono collegati da tre operai: il dramma
di Betti inizia da un neorealistico fatto di cronaca di una frana che ha sepolto tre operai. Il romanzo di
esordio di Bernari si intitola nella prima versione del 1929 “Gli stracci” mentre il titolo e la stesura definitiva
di “Tre operai” sono del 1932. Mentre il Teodoro de “Gli stracci” è un giovane di estrazione piccolo-
borghese, improvvisamente nella stesura successiva del 1932 intitolata “Tre operai” diventa il figlio fi una
famiglia operaia. Le date, le ricorrenze e le concomitanze sembrano avvalorare l’ipotesi di un continuo
rapportarsi della letteratura al teatro e viceversa, soprattutto in questi anni. Certo, stilisticamente “Frana
allo scalo nord” e “Tre operai” sono differenti. Tanto per cominciare Betti ambienta il suo dramma in
un’aula di tribunale dove si crea un’atmosfera kafkiana, mentre Bernari tende ad una visione che sembra
più un’anticipazione dell’esistenzialismo politico di Sartre. Il secondo romanzo di Bernari “L’ombra del
suicidio” ovvero “Lo strano Conserti” (pubblicato postumo) rafforza quelle tendenze kafkiane e surreali che
porteranno Betti al suo capolavoro teatrale, “Corruzione a Palazzo di Giustizia”) del 1945. In conclusione è
possibile affermare che il teatro di Viviani anticipa gli elementi neorealisti del teatro di Eduardo e di Betti e
della narrativa di Bernari che sarà protagonista dell’apertura di un terzo fronte: il cinema. Infatti l’osmosi di
temi, atmosfere e personaggi dal teatro al cinema trova in “Tre operai” di Bernari, come pure nei tre operai
protagonisti della “Frana” di Betti, un esempio della possibilità di trasformare il romanzo in cinema
partendo dal teatro attraverso l’invenzione di una nuova forma di scrittura: il trattamento. Sembra quindi
impossibile impostare qualsiasi discorso sul cinema e sulla letteratura neorealista senza capire l’importanza
del teatro nella formazione della narrativa di Bernari e Moravia che hanno in Viviani e in Pirandello modelli
drammaturgici di riferimento.

CLAUDIO BONDÌ: LA BALENA DI ROSSELLINI

A quasi quarant’anni di distanza si intuisce che i viaggi e le permanenze americane di Roberto Rossellini dal
1969 al 1977, tra New York, San Diego, Houston, Santiago, Buenos Aires, Rio de Janeiro erano mossi dal
desiderio di Rossellini di muoversi là dove accadevano le cose, dove gli era possibile attingere e confrontarsi
con i momenti chiave della storia. I coniugi de Mènil, petrolieri miliardari emigrati dalla Francia nel 1940
avevano contribuito a realizzare a Houston il Media Center dell’università che accolse Rossellini, furono
quindi tra i primi ad assecondare la sua antica passione per la tecnologia, la biologia, la scienza. Infatti a
Houston Rossellini scoprì la cultura scientifica e tecnologica dell’America e trovò le condizioni per lavorare
ad un vasto progetto incompiuto di un film della durata di circa dieci ore che chiamò “La scienza”. Nella
città texana era capitato negli anni in cui la scienza e la tecnologia erano sotto i riflettori di tutto il mondo:
gli anni della gara spaziale con l’Unione Sovietica, dei viaggi sulla Luna, del centro aerospaziale della NASA
ecc., sentiva quindi la necessità di fare una grande esperienza scientifica, cioè capire l’evoluzione della
scienza. Da un cinema che intendeva rendere visibile la realtà senza diaframmi interpretativi, il passo verso
la televisione fu un atto praticamente automatico. L’interesse di Rossellini per la televisione durava ormai
da quasi vent’anni, dai documentari indiani in poi, poiché aveva intuito che questo mezzo gli consentiva di
offrire visibilità e documentazione diretta di fatti e dunque contribuiva ad educare il pubblico. Proprio nei
film televisivi di quegli anni “Blaise Pascal” del 1971 e “Cartesius” del 1974, tutta la consapevolezza
scientifica acquistata negli anni dei soggiorni americani trovava una via di comunicazione. Così la
circolazione del sangue in un’anguilla, o il telescopio in “Cartesius”, come la calcolatrice di “Pascal”
derivano direttamente dalle immagini della circolazione extra corporea del sangue nella macchina cuore-
polmoni filmata a Houston, come dalle riprese sul grande telescopio di Arecibo di Portorico. Bondì, che ha
lavorato come aiuto regista per Rossellini dal 1971 al 1973, ha ritrovato alcuni anni fa un pacco che
contiene il trattamento originale in inglese e la traduzione italiana del progetto “La scienza” rimasto
incompiuto, nel quale però si riconosce la metodologia d’approccio che fu il nodo centrale degli ultimi anni
di Rossellini. Voleva indagare sulla natura: la fisica, la chimica, la biologia: il sapere scientifico unito al
medium cinematografico o televisivo si costruiva secondo la sua ipotesi attraverso un processo dialogico in
cui coinvolgere ricercatori e scienziati. Rossellini avrebbe voluto proporre, attraverso questi dialoghi, una
sintesi tra cinema e scienza. Rossellini non ha mai cessato di essere un neorealista intendendo questa
definizione come un comunicatore di cose viste, considerava cinema anche la sua esperienza televisiva.
Proprio mentre alternava viaggi e soggiorni negli USA, la scrittura del “Caligola” e le riprese di “Blaise
Pascal” fu raggiunto a Houston dove stava insegnando al Media Center di Rice University, da una telefonata
del figlio Renzo che aveva proposto ad Allende di rilasciare un’intervista televisiva al padre, Allende accettò
e Renzo telefonò quindi il padre che accettò entusiasta e si precipitò a Santiago del Cile. Era il 1971,
Rossellini torna dal Cile con materiale documentario sulle miniere di rame a cielo aperto filmate dal figlio
per un documentario, quindi l’intervista viene montata e successivamente mostrata al presidente cileno.
Poi ritorna a Roma, dove comincia la preparazione di “Agostino d’Ippona”, con un’idea, la trama di un film
ispirato ad un fatto di cronaca: il 28 ottobre 1971 una grande balena si era arenata sulla spiaggia di una
località a 150 km a nord di Santiago. Da questo fatto Rossellini aveva tratto un apologo, una specie di
parabola sulla ricchezza e sulla felicità. Propose a Bondì di realizzarne un film sotto la sua supervisione. Il
racconto però fa parte di tanto cinema immaginato mai realizzato. Di questo fatto non c’è stato nulla di
scritto, se non l’articolo del quotidiano cileno “Il Mercurio” del 1971. Bondì lo riporta così come glielo
racconta Rossellini a novembre del 1971. “Un villaggio sulla costa dell’Oceano Pacifico in Cile è formato da
pescatori poverissimi, tanto poveri che non hanno attrezzi per la pesca ma si limitano a raccogliere i granchi
sulla battigia quando si ritira la marea, più che pescatori sono dei raccoglitori. Il loro villaggio benché
povero è un’oasi felice dove si scambiano gentilezze, le famiglie sono affiatate. C’è una famiglia, padre
madre un vecchio nonno e quattro piccoli bambini, che è tra le più in vista del villaggio. Il vecchio è un
centenario sapiente e suo figlio è il più abile raccoglitore di granchi. Ogni anno passano al largo enormi
branchi di balene in viaggio da sud a nord. Un giorno un evento inatteso interrompe la quiete. Sulla spiaggia
dove si recano i pescatori del villaggio per raccogliere granchi si è arenata un’immensa balena. Inizialmente
il cetaceo è ancora vivo ma poi la balena muore. Il villaggio si riunisce per decidere cosa fare di
quell’immensa e inaspettata ricchezza. Ma quasi subito nascono i problemi su come dividere la balena e a
chi dare le parti migliori e poi non sono d’accordo su come impiegare l’animale: chi vorrebbe avvisare il
villaggio più vicino, dove ci sono pescatori veri, che sanno cosa fare di una balena, chi invece vorrebbe
mantenere il segreto e cercare di tagliarla lì, dividerla immediatamente tra tutti, prima del ritorno dell’alta
marea. Si formano nella discussione dei partiti opposti, gruppi di persone che si uniscono fuori dal legame
di parentela, anche la famiglia di Santiago si sfascia: la moglie con i figli aderisce al partito del “Tutto e
subito” mentre il vecchio nonno e il figlio sono tra quelli che vorrebbero avvisare il villaggio vicino. Al
villaggio le discussioni continuano, finalmente il vecchio saggio padre di Santiago riesce a far passare la sua
proposta: interrogare un eremita che vive alle pendici dei monti. Al sorgere del sole si vedono i primi
avvoltoi intorno al corpo morto, mentre il mare comincia ad avanzare, inutilmente i più forti cercano di
imbracare la balena per trascinarla ancora di più verso l’interno, i giovani intanto camminano lungo l’erta
che porta al rifugio del vecchio eremita, ma non sono nemmeno sicuri che esista davvero. Il sole si fa
sempre più alto e oltre agli avvoltoi, cani randagi cominciano ad avvicinarsi al grande animale morto e la
carcassa comincia a puzzare, anche i granchi cominciano ad aggredire le parti molli della balena. Finalmente
a sera sopraggiungono i giovani con la risposta sibillina del frate sapiente “Non tutto il grano diventa farina
ma tutta la farina diventa pane”. Con queste parole nelle orecchie si chiudono nelle capanne a dormire. Il
giorno dopo il mare ha raggiunto la coda del cetaceo che puzza in modo orribile, nessuno riesce più ad
avvicinarsi, l’acqua sopraggiunge velocemente e ricopre il corpo della balena, com’era arrivata la ricchezza
se ne va all’improvviso. A cena non c’è nulla da mangiare, un giorno ancora e sulla battigia non c’è più
traccia del grande cetaceo ma al suo posto, nella buca profonda che ha lasciato prima di scomparire,
formicolano centinaia e centinaia di granchi. Uomini e donne li raccolgono e i vecchi preparano le ceste per
portare i crostacei al mercato, in città.” Ma la situazione in Cile si complica e non è possibile mettere in
cantiere il piccolo film sulla balena. Oggi di questa storia non realizzata mi colpisce intanto la simmetria tra
la ricchezza promessa al villaggio di pescatori di Los Vilos per via della fortunata vicenda del cetaceo
spiaggiato, e le speranze suscitate dall’esordio del governo di Salvador Allende. La storia della balena ha in
sé la forza dell’apologo e la semplicità della parabola. L’illusione che il grande capitale e la fortuna possono
dare la felicità si smonta con la marea, il sole e i giorni che passano smontano il corpo del cetaceo. Alla base
del soggetto c’è un fatto vero, come in molti film di Rossellini: la transumanza da sud dei cetacei verso il grill
dei mari del nord o l’attività dei villaggi situati sulla costa settentrionale del Cile, famiglie intere che vivono
della raccolta di granchi nelle immense spiagge del Pacifico. E al tempo stesso un segnale per immaginare
intorno all’evento in senso di un insegnamento politico e morale: la ricchezza improvvisa, l’oro che piove
dal cielo, non danno la felicità. Rossellini sembra volerci dire che la felicità si conquista un poco alla volta.
Ho riportato questo episodio perché col passare del tempo mi sono convinto che la suddivisione
schematica in cui fu divisa la sua cinematografia mostra ormai la coda. Credo invece che l’atteggiamento di
fondo sia sempre stato quello di andare “dritto alle cose, a quello che si deve raccontare” come ripeteva
stesso, spinto non soltanto dalla curiosità ma dall’impegno di voler comunicare agli altri la complessità e la
realtà del mondo. Rossellini cambiò nel tempo temi, contenuti, approccio, ma non lo stile che restò diretto,
essenziale, ruvido, uno sguardo impressionistico, uno sguardo apparentemente distratto e che invece
memorizzava i gesti, le azioni, scartando il superfluo. In questo senso credo che il neorealismo di Rossellini
non sia soltanto collegato alla penuria di mezzi di un’Italia distrutta e sfinita dalla guerra, ma piuttosto un
suo originale imperativo: raccontare ciò che si vedeva.

FABRIZIO BORIN: FILMARE L’ARIA INTORNO ALLE COSE. IL NEOREALISMO DI FEDERICO FELLINI

“Roma città aperta” (1945): siamo al secondo tempo del film di Rossellini alla cui sceneggiatura partecipa il
giovane Fellini. Fon Pietro viene a sapere dai ragazzi che nella casa popolare c’è Romoletto che nasconde un
fucile ed una bomba artigianale che intende lanciare sui tedeschi impegnati in un’operazione di
rastrellamento alla ricerca degli uomini da deportare in Germania e dell’esponente comunista della
Resistenza Manfredi. Le sequenze che vanno da questo punto alla morte drammatica di Pina presentano
alcune fasi di apparente alleggerimento. Dopo l’affermazione serissima del ragazzino Marcello che ammette
che a casa ci sono le bombe, il primo personaggio ad entrare in gioco è il brigadiere: napoletano, dignitoso
e soprattutto provvisto di quella calma saggezza popolare che gli consente di barcamenarsi alla meno
peggio tra i civili italiani, i fascisti e i nazisti. Infatti quando inizia il rastrellamento, il brigadiere, del quale i
soldati tedeschi non si fidano più, viene fatto sostare nel punto centrale della macrosequenza e questa
posizione gli permetterà di fungere da cerniera sia sull’arrivo di don Pietro sia all’arrivo delle donne che
riescono a sussurrare al brigadiere che il nonno non è voluto scendere. A questo punto il fascista chiede al
brigadiere chiarimenti sul piano dell’appartamento di questo malato grave, il graduato decide di salire con
due soldati a controllare direttamente per due ragioni: la prima perché afferma di essere “un po' dottore”,
vale a dire che oltre ad essere militare è pure pratico di medicina, la seconda perché rivolgendosi al
brigadiere gli dice “La tua faccia non mi piace”. Le fasi che portano alla “padellata” e, prima, il tipo del
soldato toscano che è “anche un po' dottore”, non solo non indeboliscono l’episodio del rastrellamento dei
tedeschi che portano via Francesco e causano la morte di Pina, ma anzi lo caricano, lo preparano. Queste
sequenze hanno visto emergere la vena comica di scrittura leggera di Federico Fellini. Quest’episodio, forse
per un richiamo al secco rumore di padella che non si vede e non si sente, ma è come se si vedesse e
sentisse perché l’espressione in dialetto romano del ragazzino “Ammazza che padellata che j’ai dato don
Piè” ottiene che la parola “padella”, piena di vocali, assuma una sorta di risultato audiovisivo implicito,
rimane l’impressione di vedere e sentire il colpo di padella che don Pietro affibbia all’arzillo e per niente
moribondo sor Biagio che appare steso a letto svenuto, mentre la padella appare dal basso
dell’inquadratura impugnata dal ragazzino nella mano destra. Il vecchio antifascista poco prima aveva
indirettamente chiamato la padella e la cucina quando aveva ricordato “Se famo ‘na magnata” per
festeggiare il matrimonio imminente di Pina e Francesco ed aveva imprecato contro fascisti e nazisti prima
che un pronto don Pietro gli metta una mano sulla bocca per farlo tacere. Sonorità che sembra per pura
assonanza ricordare il rumore del proiettile sparato dalla rivoltella del gerarca fascista in “Amarcord”,
diretto da Fellini nel 1972, nelle sequenze notturne dei festeggiamenti al borgo riminese. Il grammofono,
issato sul campanile a segnare l’opposizione al regime, comincia a diffondere le note dell’“Internazionale”,
mentre il gruppo di militari , nel bar è impegnato al biliardo, saranno poi tutti costretti dalle note musicali
ad uscire e colpire, prendendo a revolverate, la tromba del grammofono, finché una pallottola, con un
colpo secco, contribuirà a far tacere la voce del dissenso politico. Allora, padella, grammofono e per
completare questi esempi di lotta partigiana affidata a normalissimi oggetti della vita quotidiana, ci si può
spingere anche verso quella sorta di citazione rosselliniana del ferro da stiro con cui Elena ammazzerà il
tedesco con un unico colpo, salvando così la vita al giornalista combattente Silvio Magnozzi in “Una vita
difficile” di Dino Risi. Un altro episodio di ironia in “Roma città aperta” è presente nel breve scambio di
battute tra la donna con la secchia del bucato e lo stesso graduato che con i suoi uomini comincia a
perquisire l’edificio. Lui: “Che fate voi qui?” Lei: “Sto’ a pijà la robba mia”. Lui “Fuori. La vostra roba non ve
la tocca nessuno. Ci siamo noi”. Lei: “Eh già, che stupida, non c’avevo pensato”. Questa piccola serie di
fenomeni leggeri all’interno del film e apparentemente esterni all’azione, non solo non riduce il pathos ma
anzi lo nutre e lo facilita nel suo sviluppo così come voluto da Rossellini e da Fellini che collabora con il
regista alla sceneggiatura. Al giovane Fellini, ricordando in un passo il maestro Rossellini, rimane impressa
la capacità di vedere e filmare l’aria che circonda le cose nel senso di acquisire la consapevolezza che ci
sono le cose della vita concreta alle quali ci si deve abbandonare per raccontarle, quelle cose, senza orpelli
intellettuali, aggiunte ideologiche, quelle cose che sono la capacità rosselliniana di fissare la realtà in tutti i
suoi spazi, di guardare le cose dentro e fuori contemporaneamente, di svelare ciò che di inafferrabile, di
magico, ha la vita. L’aria, l’idea e l’utilizzazione del vento saranno elementi narrativi decisivi del cinema
felliniano. Un sistema dinamico, il vento, che aiuta il cineasta a creare viaggi da fermo, ovvero a ideare
sensazioni di vario tipo: preparazione dell’evento, anticipazione di un pensiero, atmosfere di contesto,
reinvenzioni della memoria, senso dell’avventura immaginata. L’aria è un ponte ed efficace congegno di
montaggio, visivo o sonoro, che in Fellini si rivela adatto ad aprire o chiudere sequenze, ovvero a legarle tra
loro in maniera difforme dalla consuetudine, e questo semplicemente impiegando delle macchine apposite,
dei ventilatori. Nel film di Fellini il vento gioca un ruolo importante, è un personaggio che ruota
circondando corpi di attori, oggetti e figure. Bata ripercorrere la filmografia per verificare come questo
elemento produce i suoi effetti; l’inizio dello “Sceicco Bianco” dove è un colpo di vento a scatenare la
confusione di Wanda e Nando in barca a vela, “I vitelloni” quando ad esempio il fischiare del vento vicino al
mare d’inverno indurrà il drammaturgo Leopoldo a sfilarsi dalle avances del grande attore Majeroni, “La
strada” dove nella storia di Gelsomina è un soffio leggero che riporta alle orecchie di Zampanò il notissimo
motivo rotiano che la donna suonava con la tromba, “La dolce vita” dove ad esempio nel finale sul
bagnasciuga Marcello non sente le parole della fanciulla anche a causa del vento, “Otto e Mezzo” dove
l’incubo dell’incipit sarebbe impensabile senza l’angoscia soffocante del vento, per non dire di “Amarcord”,
il film sulla memoria reinventata delle stagioni della vita del borgo natio che si apre e si chiude sulle
primaverili brezze, e ancora, Snaporaz sul taboga della “Città delle donne, e il mare finto con le ventate
liriche e poi di guerra sul ponte di “E la nave va”, non tralasciando le folate visive paradossali leopardiane
con cui sono costruiti “Le tentazioni del dottor Antonio”, “Toby Dammit, “Bloc-notes di un regista”, “Prova
d’orchestra”, “La voce della luna”. Sono tutte opere in cui l’aria felliniana è portatrice di qualcosa di
imprevedibile, misterioso, sognante che trova nel “Casanova” alcuni istanti privilegiati. Si comincia proprio
al carnevale quando la maschera in bianco, Casanova, riceve il biglietto, allo stacco sul mare finto, comincia
a sibilare il vento per introdurre l’episodio della monaca, il vento resta in sottofondo a lungo, praticamente
per l’intero blocco, almeno fino all’amplesso che si consuma sotto il discreto occhio osservatore
dell’ambasciatore francese, e poi, quando il veneziano lascia la villa, si torna a vedere il vento e il mare in
tempesta. Un secondo passaggio di vento si ha con Casanova ospite nella casa di campagna del gobbo Du
Bois: il vento viene citato dallo stesso gentiluomo quando, a proposito della sua leggerezza e delle qualità
femminili, cita un antico proverbio: “Che cosa è più leggero di una piuma? La cenere. E che cosa è più
leggero della cenere? Il vento. E che cosa è più leggero del vento? La donna. E che cosa è più leggero della
donna? Niente” Ancora presenza di vento si ha a Londra, all’alba, dopo che il circo ha smontato le tende e
successivamente all’assopimento di Casanova sulle parole della cantilena zanzottiana della gigantessa
Angelina. È questo uno snodo cruciale perché in qualche modo ora il viaggio di Casanova è fermo e occorre
ripartire, dunque l’aria rappresenta la fantasia creativa, l’energia dinamica. Il vento c’è poi pure nell’addio
alla madre dopo lo spettacolo su Orfeo ed Euridice al teatro di Dresda. Neve e freddo accompagnano
l’invasione di un vento gelato che sembra portare presagi di morte. Continuando a seguire l’ordine
narrativo del film, l’aria serve per unire il finale del coro e degli organi alla corte di Wurtennberg con il rosso
della brace e l’episodio con la bambola meccanica Rosalba. Il sibilare continuo di un gelido vento lontano
arriva alla fine dell’amplesso notturno di Casanova con Rosalba, un flusso continuato indispensabile per
aprire la scena successiva sulle prime luci del giorno, quando l’uomo si riveste. Si tratta nuovamente di un
sistema di montaggio espressivo e progressivo, posto in essere forse per indurre nello spettatore la
sensazione fisica della lunghezza dei duri e freddi inverni in Boemia, con la forza del vento che accompagna
le fasi del ritrovamento del ritratto di Casanova nelle latrine, affisso con le feci dei suoi due acerrimi nemici,
il maggiordomo Feltkircher e il suo “sgherro” Wiederholt, servitori alla corte di Dux. Nelle fasi finali della
pellicola si annoverano due esempi entrambi nel nome del vento. Disturbato dai troppo distratti amici del
giovane duca nella recitazione dei versi di Ariosto, Casanova fissa l’ineducata compagnia e il fischio del
vento accompagna il suo commiato della poesia e della vita pubblica mentre sale lento lo scalone per
ritirarsi nel suo alloggio. Cambiati gli abiti, indossati quelli più sobri e comodi da camera, si siede in poltrona
e, complice l’arrivo brusco dell’aria, potrà partire il terminale tuffo nei bei momenti del passato. Preso
ormai dalla realtà dei ricordi, arriva improvviso un forte vento che si fa esigente perché porta., con la
memoria, la nostalgia per la Venezia alla quale il vegliardo non farà più ritorno. Il vento apre così al sogno
conclusivo di Casanova e rimane per la sua intera durata: la laguna gelata, attraverso la quale si intravede la
polena affondata all’inizio, alcune donne della sua vita, la carrozza d’oro con il Papa e l’anziana scheletrica
madre, fino al carillon e ai lievissimi passi di danza: balletto di un giovane Giacomo con la bambola
meccanica. L’insistenza sul motivo del vento è servito ad evidenziare il motivo della leggerezza, condizione
felliniana che accompagnerà il suo cinema. Dal 1939 Fellini si stabilisce a Roma e, per accontentare la
madre, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza. Vorrebbe fare il giornalista ma si accontenta di piccole
mansioni presso i giornali “Il piccolo” e “Il popolo”. A Roma fa le sue prime esperienze e conosce i primi
amici, come il pittore Rinaldo Geleng, suo futuro collaboratore in molti film. Viene poi assunto come
vignettista al giornale umoristico “Marc’Aurelio” diretto da Vito De Bellis. Oltre alle vignette scrive circa
settecento “pezzi”, dalla rubrica d’esordio “Raccontino pubblicitario” al tormentone “Ma tu mi stai a
sentire?”. Risalgono alla fine del’39 e al ’40 i quadri umoristici ispirati dai personaggi dell’avanspettacolo,
comici e ventriloqui, ballerini e prestigiatori che torneranno nelle immagini di “Luci del varietà” (1950) e
nell’episodio del teatrino della Barafonda in “Roma” (1972). Autobiografismo e autoironia animano
“Secondo liceo. Primo amore e oggi sposi” i cui protagonisti, Cico e Bianchina, adombrano Federico e
Bianca Soriano, una passione riminese troncata dall’invadenza materna. Queste rubrichette diventano ben
presto testi radiofonici con una rilevante modifica personale: Bianchina, ribattezzata Pallina, è interpretata
da Giulietta Masina che Fellini sposerà cinque anni dopo. Allo stesso periodo appartiene il libretto “Il mio
amico Paqualino” cui seguirà, nel 1945, “La bomba atomica”. Definitivamente inserito nell’ambiente
romano lavora ai programmi radiofonici e frequenta il varietà per conto dei settimanali “Cineillustro”, “Il
travaso”, “Cinemagazzino”, per quest’ultimo cura “Che cos’è l’avanspettacolo?”, una serie di interviste ai
protagonisti del momento tra cui Aldo Fabrizi che Fellini conosce al cinema Corso e l’iniziale simpatia si
trasforma in amicizia stretta. Intanto scrive per il teatro leggero “Divagando” e “Hai visto com’è?” cedendo
al capocomico i diritti e inizia a fare lo sceneggiatore. Per “Avanti c’è posto” (1942, Mario Bonnard)
sviluppa, collaborando per la prima volta con Piero Tellini e lavorando con Cesare Zavattini, la macchietta
del bigliettaio creata per Fabrizi, interprete nelle sue corde per la vena comica popolare del personaggio
sfortunato. Sempre per Fabrizi scrive “Campo de’Fiori” (1943, Bonnard) e “L’ultima carrozzella” (1943,
Mario Mattoli), opere minori eppure non prive di un primitivo abbozzo neorealistico. Neorealismo per
Fellini significa guardarsi intorno senza pregiudizi. Nel 1944 ritrova Roberto Rossellini che nella città invasa
dagli americani gli chiede di convincere Fabrizi ad accettare la parte dell’eroico don Morosini per il suo
nuovo cortometraggio. Il film diventerà nel 1945 “Roma città aperta”. Il rapporto continua per la co-
sceneggiatura di “Paisà” (1946) dove Fellini sostituisce il regista nella scena della damigiana nell’episodio
fiorentino. Un’esperienza importante perché quel modo di girare all’aria aperta gli fa scoprire il film come
viaggio e il cinema come forma d’espressione più congeniale alla sua sregolata curiosità della vita. Collabora
poi nello stesso anno con Tullio Pinelli per “Il delitto di Giovanni Episcopo” (1947), viene poi “Il miracolo”
che, con “La voce umana” forma “L’amore” (1948). Sempre con il regista romano parteciperà a “Francesco
giullare di Dio” (1950) e intanto con Pinelli e Zavattini contribuisce a scrivere “Il passatore” (1947, di Duilio
Coletti) e per Matarazzo “Fumeria d’oppio” (1947), per Lattuada “Senza pietà” (1948) e “Il mulino del Po”
(1949), per Piero Germi “Il cammino della speranza” (1950), “La città si difende” (1951), “Il brigante di Tacca
del Lupo” (1952). L’anno prima è tra gli sceneggiatori di “ Persiane chiuse” (1951) per il quale dirige la
scena della polizia al ritrovamento del cadavere nel Po. Una prova incoraggiante che indurrà il produttore
Luigi Rovere a finanziare il suo primo film “Lo sceicco bianco” (1952). Il film, storia d’una compagnia di
varietà di terz’ordine guidata da Checco Dalmonte colta tra le difficoltà della vita quotidiana e le astuzie
femminili dell’aspirante soubrette Liliana, chiude amaramente il rapporto con Fabrizi che, accusandolo di
essersi troppo ispirato ai suoi racconti sull’avanspettacolo, gli oppone il controfilm “Vita da cani” (1950).
Dopo “I vitelloni” con il quale aveva vinto il Leone d’argento alla mostra di Venezia, Fellini dirige “Agenzia
Matrimoniale” episodio del collettivo “Amore in città” (1953). Cesare Zavattini, fautore del film-inchiesta, gli
richiede uno stile giornalistico diretto per ottenere l’effetto realistico di documenti drammatici. Fellini e
Pinelli scrivono la storia di un reporter che finge di cercare una moglie all’amico licantropo e incontra,
tramite un’improbabile agenzia, una ragazza disposta ad accettare pur di sottrarsi all’indigenza familiare.
Questo episodio prefigura lo stile del realismo poetico futuro e anticipa i segnali del personaggio di
Gelsomina: Rossana infatti si adatta a tutto, è una che si affeziona proprio come la female clown della
“Strada”. Nella dolente fiaba tragica di Zampanò si potrà verificare come il forte seme originario stia
conducendo Fellini alle opere della seconda metà degli Anni ’50, “Il bidone”, “Le notti di Cabiria”
propedeutiche alla potente carica innovativa costituita, nel 1960, dalla “Dolce Vita”, che tanto ha influito
sul cinema contemporaneo. Tornando al discorso principale, le parole a metà tra il fantastico e il
preveggente di Federico Fellini sul neorealismo sono una sintesi lapidaria delle caratteristiche di
quell’irripetibile clima culturale: Questo faceva Rossellini: vivere la vita di un film come un’avventura da
vivere e simultaneamente raccontare. Il suo abbandono nei confronti della realtà, quel suo situarsi in un
punto impalpabile tra indifferenza del distacco e la goffaggine dell’adesione gli permetteva di catturare la
realtà in tutti i suoi spazi, di fotografare l’aria intorno alle cose, di svelare ciò che di magico è inafferrabile
ha la vita. Il neorealismo non è forse tutto questo?

GIANPIERO BRUNETTA: DAL NEOREALISMO AL NEOREALISMO

Leo Longanesi con il suo articolo “L’occhio di vetro” sul numero monografico della rivista “L’italiano” 1933,
dedicato al cinema sembra fissare i punti cardinali del vedere della successiva poetica neorealista, afferma
che bisogna mettere insieme pellicole povere e semplici, girate dal vero, bisogna gettarsi alla strada,
portare le macchine da presa nelle vie. “L’occhio di vetro” mette a fuoco realtà stracittadine, ma respira
cultura europeamitteleuropea dal momento che nello stesso numero vengono pubblicati articoli di Chaplin
e Bela Balazas. Tra il 1928 e i primi Anni’30, si nota nei dibattiti culturali di molte riviste italiane una
crescente richiesta di recupero di radici culturali e iconografiche che affondino nella grande tradizione
naturalistica e realistica ottocentesca. Dopo aver tentato di affermare la libertà assoluta del regista il
cinema vuole ritrovare il valore del gesto comune. Se guardiamo al di fuori del cinema italiano sicuramente
il cinema di Jean Renoir è senza dubbio l’esempio più alto del modo naturale in cui si sviluppa nel cinema
degli Anni ’30 il cammino verso il realismo nel solco della grande tradizione pittorica e letteraria
ottocentesca. La rivoluzione sovietica aggiunge a questa tradizione il valore ideologico e utopico di
immaginazione di prospettive e orizzonti futuri. Verso la fine degli Anni’20, soprattutto per merito delle
poetiche di Ejzenstejn, Pudovkin, Vertov, che cominciano a circolare nell’Europa Occidentale, sembra
possibile vedere una naturale confluenza delle avanguardie in un movimento. Grazie a una serie di spinte
che giungono dall’Unione Sovietica e dalla Francia si viene costruendo un nuovo orizzonte culturale
orientato verso modelli naturalistici e realistici. Lo stesso mito ruralista sovietico ha modo di circolare in
Francia e in Italia nei film di Blasetti. Il cammino del realismo non presenta quindi una direttrice unica,
prima di giungere ai film di Rossellini è necessario tener conto di molteplici forze in campo. Non si può
comprendere la fase di gestazione del neorealismo, senza tener conto del formidabile sviluppo del dibattito
culturale che coinvolge in Italia, verso la fine degli anni 20, gli intellettuali militanti fascisti e antifascisti che
si prodigano per la rinascita di una cinematografia ridotta a zero. La presenza del termine neorealismo negli
scritti di Umberto Barbaro e Libero Solaroli verso la fine degli Anni’20 è continua. Se in una prima fase si
utilizza in Italia questo termine avendo come riferimento privilegiato la cultura sovietica, verrà inclusa in
seguito la letteratura tedesca e in particolare il movimento della Nuova Oggettività. La Nuova Oggettività
tedesca e il cinema sovietico appaiono come i modelli che interagiscono e sono in grado di influenzare
direttamente sia “Sole” e “Terra madre” di Blasetti che “Rotaie” di Camerini. Il punto d’arrivo in Italia di
questa fase di formazione sembra riconoscibile nell’”Introduzione” di Barbaro nel 1932 a “il soggetto
cinematografico” di Pudovkin dove afferma che tra realismo, neorealismo, realismo magico, Proust, Joyce,
Nuova Oggettività, ci sono relazioni strette. Ma a questo punto è opportuno evocare le figure di operatori
che hanno affiancato il lavoro dei grandi registi, nessuno ha mai riconosciuto il ruolo determinante degli
operatori italiani nel conferire valore aggiunto alle storie e nel fissare alcuni elementi di identità di una
grande cinematografia. Ubaldo Arata, ad esempio, è l’operatore di “Rotaie” di Camerini, di “La signora di
tutti” di Ophuls, di “Passaporto rosso” di Brignone e di “Roma città aperta” di Rossellini. Per non parlare di
Carlo Montuori, operatore dal 1913 e direttore della fotografia di “Sole”, “Resurrectio”, “La tavola dei
poveri” di Blasetti e negli Anni’40 di “Sissingora”, di “Gioventù perduta”, “Ladri di biciclette” e negli Anni’50
di “Pane, amore e gelosia” di Massimo Terzano, è l’operatore del primo film sonoro “La canzone
dell’amore” del 1930 e racconta l’ingresso del paese nella modernità da “Gli uomini che mascalzoni” di
Camerini del 1932 ed “Acciaio” di Rutmann dell’anno successivo per filmare nel dopoguerra molto
materiale di “Giorni di gloria” di Serandrei del 1945 e “Due lettere anonime” di Camerini del 1946. Otello
Martelli fu un alto importante operatore che è stato al fianco di Rossellini per “Paisà” e “Francesco giullare
di Dio”, di De Santis per “Riso Amaro” del 1949, e poi di Fellini per “I vitelloni” e “La strada”. Aldo Tonti
dirige la fotografia di “Fari nella nebbia” di Franciolini del 1941, di “Ossessione” di Visconti del 1943, di
“Europa ‘51” di Rossellini del 1952. Nel dopoguerra vanno ricordati Leonida Barboni per “In nome della
legge” e “Il cammino della speranza” di Germi e “I sogni nel cassetto” di Castellani del 1956. Anchise Brizzi
per “Sciuscià” del 1946, Piero Portalupi per “Non c’è pace tra gli ulivi” del 1950 e “Bellissima” del 1951.
Aldo Graziati per “La terra trema” di Visconti del 1948, “Cielo sulla palude” di Genina del 1949, “Miracolo a
Milano” di De Sica del 1950, “Umberto D.” del 1952. Non è difficile, dai primi Anni ’30 assistere al
moltiplicarsi di discorsi che chiedono al cinema di guardare con occhi nuovi alla realtà. Alla formazione della
poetica neorealista concorreranno modelli culturali e cinematografici e luoghi finora mai osservati dalla
macchina da presa dal Po alla Sicilia: “Vorremmo una pellicola avente protagonista il Po” si augura
Antonioni. Quasi nello stesso periodo Visconti compie un viaggio di scoperta del profondo Sud fino a quel
momento conosciuto soprattutto grazie alla lettura verista di cui Visconti ammette che si innamorò. Pur
nella varietà di posizioni c’è una riconoscibile convergenza nei diversi discorsi sul dover essere cinema.
Come per l’America di Pavese e, anche la Sicilia immaginata da Visconti, De Santis, Pietrangeli, Alicata, si
presenta come ponte che agisce da tessuto connettivo con la tradizione realistica. Nel cinema, come in
letteratura, viene accolta in Italia la parola d’ordine del ritorno a Verga e il verismo è assunto come chiave
d’accesso privilegiata alla realtà. Negli anni di guerra, prima che appaia l’articolo “Neo-realismo” di Barbaro
sul numero di “Film” del 1943, nelle riviste cinematografiche italiane termini come realtà, realismo, reale,
circolano. La guerra spinge gli uomini del cinema italiano a liberarsi del peso dei modelli culturali che di
fronte all’enormità della tragedia si rivelano inutili. Con Rossellini e poi De Sica- Zavattini si riparte da zero:
ripartire da zero significa recuperare la verginità dello sguardo e una capacità di riscoprire il mondo come se
lo si guardasse per la prima volta, ci si libera dal peso della tradizione e si ha l’impressione di scoprire il
mondo. Ma non si butta via certo il patrimonio professionale accumulato dagli operatori dei decenni
precedenti, l’occhio degli operatori si adatta come una nuova pelle alla forma della realtà e aiuta in qualche
modo a ricomporla. Gilles Deleuze osserva che alla fine della Guerra mondiale, l’Italia per prima, rispetto
alla Francia e alla Germania, giunge ad avere una coscienza intuitiva della nuova immagine che sta per
nascere e del tipo di racconto che rimette in questione il modello dell’immagine-azione del cinema
americano e riporta il cinema all’anno zero della sua storia. Il neorealismo ridefinisce le coordinate del
cinema dalle fondamenta, ne riformula i principi formali, strutturali e di poetica. Tra il 1945 e il 1948 le
opere di Rossellini, Zavattini-De Sica, De Santis, Visconti, Germi, Castellani, Lattuada sprigionano una forza
di novità, una potenza tale da cambiare le coordinate di riferimento di tutto il cinema mondiale. Il
neorealismo ha appena mosso i suoi primi passi e già ha contribuito a formare una nuova identità del
cinema europeo. L’abbandono delle certezze a favore di un procedere facendosi guidare dal caso è un
carattere costitutivo dell’opera di Zavattini. Nulla è precostituito o previsto, le vicende della vita non sono
regolate da meccanismi prevedibili. Nella fase in cui elabora la sua poetica, Zavattini prevede che chiunque
possa raggiungere infiniti universi di racconto. La poetica del neorealismo non nasce dunque da alcun
progetto comune ideato a tavolino, quanto piuttosto da una perfetta coincidenza di fattori tra cui la
capacità autorappresentativa del reale, la forza e il dramma scritto nelle cose di un paesaggio sconvolto,
devastato, tuttavia portatore di una fortissima carica di speranza verso il futuro. Dall’indomani di “Roma
città aperta” nasce un differente modo di guardare all’uomo, ai suoi rapporti e alla coscienza di questi
rapporti con il contesto sociale e storico in cui vive. Il regista si sente investito del ruolo di cantore visivo e
interprete della storia di tutti. La tradizione dell’epopea popolare trasmessa per via orale dai cantastorie e
cantafavole, di cui si è riconosciuto debitore Italo Calvino trova nella macchina da presa il nuovo mezzo
privilegiato. Il cinema sembra liberarsi di colpo dalla tradizione letteraria, teatrale, figurativa, ma si collega,
a sua volta, a una tradizione orale, sceglie la via della equivalenza tra il racconto orale e il racconto per
immagini e recupera quei legami con il realismo pittorico, i registi scoprono forme inedite di comunicazione
verbale e di integrazione perfetta tra uomo e ambiente, riscoprono significati in oggetti insignificanti,
nobilitano ogni minimo elemento. Basterà poi che passino alcuni anni e già riaffiora il tessuto letterario.
Basti pensare alla forza delle osservazioni del diario di Jean Cocteau che associa i film italiani del
neorealismo a racconti d’autori orientali, in particolare vede come De Sica in “Miracolo a Milano” spinge
all’estremo il racconto orientale. Anche “Paisà” e “Il cammino della speranza” potrebbero sembrare esempi
tardi di romanzo picaresco, di ballata di un cantastorie in quanto raccontano di viaggi che dalla Sicilia
conducono fino al Nord. Zavattini pensa fin dal 1944 a un viaggio in Italia che è proprio “Le mille e un’Italia”,
per lui la culla della civiltà italiana è la Padania, fecondata dal fiume che la traversa. Concepito invece come
l’ouverture di una trilogia popolare e in parte realizzato sotto il segno della pittura di Guttuso, “La terra
trema” è un grande viaggio di catabasi, di ritorno alle madri, di discesa alle radici della cultura popolare. Il
primo Visconti è uno degli autori che più immerge il proprio realismo nelle strutture fondanti del mito. Dagli
Anni’50 il corpo neorealista esplode e i frammenti ricadono nel terreno circostante e continuano anche a
fecondare e influenzare realtà diverse, nel cinema di genere o nel documentario. Nella produzione
documentaria prendono la parola e compaiono i loro primi esperimenti autori che si sentono gli eredi più
legittimi della parola neorealista, e ciò che non sarà più possibile affrontare, nell’ambito della produzione
maggiore, si continuerà a far circolare nel documentario. Per tutti il documentario è l’anticamera della regia
del lungometraggio, e il momento in cui si fissano temi chiave. Il documentario insegna a guardare tutti gli
aspetti del processo creativo, a conoscere il linguaggio visivo, invita ad esplorare la realtà. I primi veri
contatti con le realtà profonde della Sicilia, Sardegna, Puglia, Basilicata avvengono grazie ad alcuni
documentari di Luigi Di Gianni o di Vittorio De Sica. Il documentario raccoglie il testimone del neorealismo e
della lezione zavattiniana ed ha la possibilità di entrare a contatto con temi che il cinema ha rimosso dal suo
orizzonte visivo, ma anche può accedere alle realtà industriali assai prima di quanto non farà il cinema di
finzione. Non pochi registi sperimentano la sintassi, la metrica, la ritmica ed esploreranno alcuni argomenti
che poi svilupperanno nei film di finzione successivi, è il caso di Olmi, De Seta, Vancini…..Quando Rossellini
vede il documentario industriale di Olmi “Un metro lungo cinque” del 1960 dice che questo modo di fare
cinema significa scoprire il mondo.

LINO CAPOLICCHIO: LA VOCE IL VOLTO IL CORPO. L’ATTORE NELL’OTTICA NEOREALISTA

Il neorealismo è innanzitutto un cinema profondamente etico/morale, c’è in questo un impegno,


un’urgenza della coscienza per un pronto riscatto sociale, è un cinema che storicamente cerca di recuperare
un’identità sfigurata dalle bombe, dalla fame e dalla miseria. L’eroismo della volontà, il non rassegnarsi,
sembra guidare con forza questi registi che si cimentano con pochi mezzi a disposizione. Naturalmente a
quei registi si poneva un problema fondamentale, dare voce e volto a delle storie di tutti i giorni attraverso
non degli attori professionisti, ma gente presa in prestito dalla strada che rappresentassero la verità,
registrata poi dalla macchina. Ed ecco che Lamberto Maggiorani in “Ladri di Biciclette” diventa l’icona di
una verità insostituibile, è lui che diventa il simbolo di quel riscatto di un paese che cerca di uscire dalle sue
rovine. Ed ecco sorgere un nuovo problema, come far parlare quell’attore preso dalla vita? Tre sono le fonti
espressive di un attore professionista: il volto, la voce ed il corpo, strumenti essenziali. Ma se al volto e al
corpo togli l’espressività della voce, che succede? È qui che si verifica uno scarto che porterà negli anni
successivi al doppiaggio, fin a quel momento però gli attori raramente venivano doppiati. Naturalmente
ogni regista ha la sua personalità e quindi usa un diverso per ottenere dagli attori non professionisti un
risultato di buon livello. Sul piano stilistico, a parte quel capolavoro che è “La terra trema”, un risultato
eclatante è la sequenza dell’uccisione della prostituta in “Rocco ed i suoi fratelli”, dove Visconti mette in
scena due attori lontani anni luce tra loro per esperienza e preparazione: Renato Salvatori, un bagnino di
Livorno prestato al cinema, ed una delle migliori attrici francesi di teatro Annie Girardot. Visconti compie un
capolavoro di sintesi ed equilibrio stilistico, la scena è perfetta, d’alta intensità emotiva. Naturalmente la
tradizione dell’attore preso dalla strada proseguirà a lungo nel cinema italiano. Due straordinari esempi
sono “Accattone” di Pasolini e “La battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo, l’espressività di quei volti rimane
scolpita nella nostra memoria in maniera indelebile. Sul piano personale anche io, nel mio primo film da
regista “Pugili”, ho preso due ragazzini quindicenni, pugili veri, e li ho trasformati in attori. Il problema era
di rendere la loro recitazione spontanea, seguendo un copione scritto. La difficoltà maggiore in questi casi è
di mettere i ragazzi a proprio agio trovandosi sul set per la prima volta, e dovendo vincere una sorta di
timidezza. Ho chiesto loro di darmi del tu, e quindi facilitando una sorta di familiarità togliendo così al
regista una sorta di aurea sacrale con cui viene percepito. Tutto è andato per il meglio. Possiamo quindi dire
che il neorealismo è stato una rivoluzione che ci ha fatto scoprire dei grandi autori ma attraverso il suo
cinema ci ha fatto scoprire noi stessi e forse ci ha reso migliori.
ANDREA CICCARELLI: FRA (NEO/) REALISMO E SOGNO: IO NON HO PAURA

A partire dal periodo neorealista il rapporto fra produzione cinematografica e produzione letteraria, in
Italia, è diventato sempre più proficuo. La produzione filmica italiana è sempre stata molto attenta al
legame con i testi letterari, sarebbe sufficiente nominare l’interesse di “D’Annunzio e Pirandello per il
cinema. A partire dagli Anni’40, al di là delle riprese tratte dai classici (“I promessi sposi” di Camerini, 1941;
“La terra trema”, Visconti, 1948; “Il decamerone” di Pasolini, 1971), questa tendenza è proseguita
soprattutto per opere letterarie post-belliche che avevano avuto successo di pubblico. Si pensi a “Cronache
di poveri amanti” (Lizzani, 1953, il romanzo di Pratolini era del ’47), alla “Ciociara” (De Sica, 1960, il lavoro
di Moravia era del ’57), al “Gattopardo” (Visconti, 1963, il romanzo era uscito postumo nel ’58), al “Giardino
della civetta” (Damiani, 1968, il libro di Sciascia era del ’61), al “Giardino dei Finzi Contini” (De Sica, 1970, il
romanzo di Bassani era del ’62), al “Conformista” (Bertolucci, 1970, il libro era del ’51) o, in anni più recenti,
a “Porte aperte” (Amelio, 1990, il racconto di Sciascia era del 1987), “Tempo di uccidere”(Montaldo, 1991, il
romanzo di Flaiano era del’47), alla “Tregua” (Rosi, 1997, il libro di Primo Levi era del’63). Allo stesso tempo
non si devono trascurare operazioni cinematografiche che hanno invece reso note opere letterarie
altrimenti oscure, come ad esempio il “Poema del lunatici” di Ermanno Cavazzoni (1987), fonte della “Voce
della luna” di Fellini. Non sorprende perciò che molti registi italiani abbiano di frequente girato film tratti da
opere letterarie. Fra i registi che hanno acquistato notorietà di pubblico negli ultimi venti anni, Gabriele
Salvatores è forse uno di quelli che più si è distinto per aver spesso scelto di filmare storie tratte da romanzi
o racconti più o meno di successo. Infatti, forse tranne che nel caso dei film adattati dai romanzi di
Ammaniti (Io non ho paura, 2003 e “Come Dio comanda”, 2008) è stata proprio la versione cinematografica
a rendere poi noto al grande pubblico il libro stesso. Sin dagli esordi la cinematografia di Salvatores si è
contraddistinta per l’eterogeneità delle sue tematiche, basti pensare a qualche titolo per avere un’idea di
questa varietà tematica del regista che ha vinto l’oscar per un film (Mediterraneo, 1991) apparentemente
sulla Seconda guerra mondiale ma che in realtà tocca tematiche quali l’amicizia, l’amore, l’esilio, la viltà, il
crollo degli ideali politici. La filmografia di Salvatores può dare l’impressione di insistere su temi quali la
fuga dalla civiltà urbana o la condanna del consumismo, in realtà le sue lenti passano con facilità da film “on
the road” in stile ironico-nostalgico (Marrakesch express) a thriller psicologici e cupi come “Quo vadis,
Baby?”. Oppure inquadra problemi esistenziali causati dall’irrompere del mondo virtuale (“Nirvana”, ’97), in
altri casi (“Denti”) si sofferma su un soggetto straniante, pirandelliano e kafkiano. Alla varietà tematica
corrisponde una varietà stilistica e nel rapporto fra testo e film, una delle caratteristiche del cinema di
Salvatores è quella di rispettare il testo di partenza, per poi imporre sottilmente la propria interpretazione
grazie a leggere modifiche. Per verificare come si svolge il rapporto fra testo e film nel cinema di Salvatores
possiamo analizzare “Io non ho paura” ( il film è del 2003 mentre il romanzo di Ammaniti è del 2001), libro
e film hanno ottenuto entrambi un enorme successo di pubblico. Nel romanzo come nel film, la storia tocca
più o meno direttamente, e in modo realistico, temi cari al meridionalismo, quali l'analisi economico sociale
di una zona rurale negli anni 70 non ancora raggiunto al benessere che ha parzialmente emancipato molte
aree del Sud. Uno dei punti di contatto intellettuale maggiore fra Salvatores e Ammaniti è dovuto proprio
all' ambientazione geo-sociale nonché alla sua cronologia che colloca l’azione alle soglie dell’arrivo della
modernità e dei suoi benefici, modernità che è metafora del passaggio dall’infanzia all’età adulta da parte
dei protagonisti bambini. La sceneggiatura è stata curata dallo stesso Ammaniti in collaborazione con
Francesco Marciano, non sorprende perciò che il film segua piuttosto fedelmente la trama benché vi siano
pochi cambiamenti rispetto alla prosa originale. La trama è questa: siamo nell’estate del ’78 in un piccolo
centro del Sud circondato da campi di grano. Un bambino di nove anni (dieci nel film), Michele Amitrano,
mentre gioca con gli amici nella campagna vicino alla frazione, Acqua Traverse, dove vive insieme a poche
altre anime, scopre casualmente un buco nel terreno dove è tenuto un suo coetaneo, Filippo Carducci.
Filippo, figlio di un industriale lombardo, è stato rapito da una banda a cui appartengono tutti gli adulti di
Acqua Traverse, incluso il padre Pino e la madre Teresa di Michele. Michele, vinta l’iniziale paura, comincia
a conversare e diventa amico di Filippo che visita di nascosto. Nei primi incontri, Michele non ha idea che il
bambino sia stato sequestrato. Presto però finisce per scoprire la verità e si confida, in cambio di un regalo,
con un suo amico Salvatore che lo tradisce. Michele è quindi obbligato a dimenticarsi tutto dal padre,
mentre Filippo viene spostato in un nuovo nascondiglio. Quando Michele apprende che il padre e gli altri
hanno deciso di uccidere Filippo perché le indagini si stanno facendo sempre più pressanti, si precipita a
cercarlo, lo salva ma rimane lui stesso ferito da un colpo di pistola tirato dal padre che pensava di sparare al
bambino sequestrato. Il libro e il film finiscono con il padre, disperato, che tiene in braccio Michele semi-
cosciente, mentre viene circondato dai carabinieri, ma nel film c’è una variante essenziale: Filippo torna
indietro a sincerarsi delle condizioni di Michele, viene quasi ricatturato dal peggiore dei rapitori, Sergio, poi
costretto ad arrendersi alle forze dell’ordine. L’immagine finale coglie i due bambini che si toccano le dita e
sorridono. Il romanzo invece si chiude con Michele che, dopo aver implorato Filippo di scappar via, implora
a sua volta il padre di fuggire, prima di perdere conoscenza. Il finale diverso rientra nel tentativo di rendere
il tono del film meno aspro rispetto a quello del libro. Il romanzo è scritto con uno stile asciutto che riflette
la semplicità dei dialoghi dei bambini, la storia è vissuta principalmente attraverso gli occhi del protagonista
bambino Michele, ma c’è una differenza basilare: nel libro è lo stesso Michele che, a distanza di ventidue
anni, racconta la vicenda, mentre nel film tutto è vissuto e scoperto sul momento. La differenza fra chi
seleziona dalla propria memoria e chi invece vive e subisce gli eventi nel presente è evidente: la riflessione
successiva sull’esperienza consente al protagonista ormai adulto di ripensare le esperienze anteriori, per
esempio, da una parentesi aperta da Michele nel romanzo, sappiamo che dieci anni dopo l’accaduto andrà
a sciare sul Gran Sasso dove rivive psicologicamente una delle lezioni impartitegli dalla sua esperienza
giovanile. Il tema della miseria che fomenta il crimine è ben presente sia nel libro che nel film: siamo in una
misera zona rurale dove si sopravvive grazie al lavoro agricolo stagionale unito ad altri mestieri fissi
(camionista, barbiere, meccanico). Il contrasto fra la bellezza del paesaggio, la gioia di vita dei bambini e la
fatica del vivere è evidente, ma sia Ammaniti che Salvatores non puntano su questa componente sociale
come fulcro della storia, bensì ne sottolineano la realtà attraverso gesti e pensieri indiretti, generati dalla
visione di Michele. Così, l'ambizione economica e sociale del padre di Michele si intravede dal regalo, il
modellino di una gondola, che fa ai figli. Un dono che in realtà è diretto a se stesso, un oggetto dei desideri
inutile chi rappresenta la favolosa città del turismo per eccellenza ma è l' inutilità della gondola come
giocattolo o far trapelare il suo valore di balocco adulto, non a caso la gondola viene situata in bella vista
l'unico altro oggetto che rappresenta la presenza del superfluo nella povera casa della famiglia: il televisore.
Ed è proprio la televisione una protagonista nascosta e inquietante di tutta la storia. Lo slancio con cui il
gruppo di rapitori si precipita davanti alla tv per ascoltare i notiziari è soprattutto dovuto al fatto che si parla
di loro, sono loro, anonimi rapitori che vivono fra quattro case di un borgo sperduto ad aver provocato una
notizia sensazionale, ad essere protagonisti nascosti di un'impresa che vorrebbero gridare, se la notorietà
non portasse all’arresto. Molte delle distinzioni fra il libro e film rispondono a normali esigenze dovute ai
due diversi codici artistici, in alcuni casi però, Salvatores, affida ad un simbolo quello che era sviluppato più
naturalisticamente nel romanzo. Il libro si apre con una gara di corsa dei bambini nei campi di grano,
mentre il regista comincia la propria opera con una carrellata che sonda il sottosuolo ove più avanti
scopriremo che giace Filippo e da lì risale verso gli assolati campi di grano dove corrono i bambini. La
macchina da presa risale dal buio alla luce indugiando sulle radici di un albero che si inerpicano
faticosamente verso l'alto: emblema della profondità del male di vivere che incombe sulla gioia luminosa
dei bambini. Da questa immagine si passa a quella, non meno emblematica, di una gallina impalata in cima
alla collina dove poi Michele troverà il rifugio di Filippo. Nel film non abbiamo alcuna spiegazione di questo
simbolo macabro , nel libro la gallina doveva essere lanciata ai maiali affamati di un vicino porcile, il
“teschio”, il bullo del gruppo, propone di impalare la gallina sulla collina alla fine di una gara di corsa. La
funzione simbolica nella versione cinematografica è ancora più suggestiva: nell’assenza di spiegazione
questa lugubre apparizione da magia nera richiama la meticolosa inquadratura d’apertura che risale
lentamente dal buio di quella che poi si rivelerà la prigione di Filippo, ed è un ulteriore segnale premonitore
che l’ambiente bucolico nasconde un segreto di morte e violenza. Le scene che denotano una diversa
lettura del soggetto fra il libro e il film vertono sulla caratterizzazione dei personaggi. Il libro è più crudo nel
riflettere l’ambiente sociale dove si svolge la storia. La casa degli Amitrano è persino più povera di quella
rappresentata nel film: la camera da letto di Michele e della sorellina Maria è così stretta che i letti devono
essere messi per lungo, e non in parallelo, come nel film. Michele è più selvatico e meno gentile nel
romanzo, come già segnalato dall’idea della gallina da dare in pasto ai maiali. Maria, pur nella sua
innocenza, nel libro è più conscia delle prepotenze e dei rituali violenti degli amici di Michele. Allo stesso
tempo nel romanzo, Salvatore, l’amico che tradisce Michele, è di un livello sociale più alto degli altri,
essendo il figlio del proprietario terriero della zona, nel libro si scopre che è proprio lui il boss nascosto
dietro tutta l’operazione criminale. Nel film, invece, non solo il padre di Salvatore non compare, ma
Salvatore appartiene alla stessa classe sociale di Michele e gli altri. L’annullamento della differenza di classe
sociale fra Salvatore e Michele crea un contrasto maggiore fra l’unita comunità di carcerieri-contadini di
Acqua Traverse e Sergio, l’odiato capo arrivato a dettare legge fra i rapitori. Nel film, Sergio resta l’unico
personaggio che stona: è più agiato dei suoi complici, ha una casa in Brasile, è lui che comanda ed è lui il più
spietato. Sulla rappresentazione di questo personaggio si gioca la differenza maggiore tra film e romanzo.
Nel libro è romano, ha 67 anni, è magro e mal ridotto, con i capelli raccolti un codino, tanto che Michele lo
descrive come secco dalla pelle flaccida, la sua ostilità nei confronti degli altri complici, considerati degli
inetti, è palese ed è sottolineata dal fatto che l’unico interlocutore con cui si sente di parlare di sé è lo
stesso Michele. La sostanza del personaggio non cambia nel film, ma ci sono variazioni importanti dedicate
a creare ancora più contrasto e a rendere Sergio ancora più malvagio. Nella versione cinematografica Sergio
non è di Roma, ma di Milano, non è anziano e filiforme, ma di mezza età e corpulento. Nel libro Sergio parla
in italiano, non parla in dialetto, nel film l’utilizzazione del milanese in momenti di nervosismo da parte di
Sergio, sottolinea ancor di più il suo disprezzo per gli altri terroni non professionisti. Il conflitto sociale è
rinforzato dal regista sull’asse nord-sud. Nel romanzo nella scena cruciale in cui Michele, spiando dalla
propria camera, apprende che hanno deciso di ammazzare Filippo, Felice, aggredisce Sergio e lo colpisce
con un pugno, quest’ultimo ripresosi a fatica risponde puntandogli una pistola. La scena del film è meno
violenta nei gesti e nelle parole. Sergio in piedi insulta e affronta Felice. Nel romanzo la situazione degenera
a causa di un’offesa ben precisa di Sergio ai danni di Felice che viene definito “frocio”, questo dialogo è
assente nel film. Nel film l’assenza di uno scambio preciso e diretto fa sì che la rissa nasca dalla discussione
su se e chi debba uccidere il bambino e si colora semmai, di toni razziali. Il regista compie un’attenuazione
di un’altra scena violenta, il litigio tra Teresa e Felice, reo di aver maltrattato Michele dopo averlo scoperto
nel nascondiglio di Filippo. La figura della madre di Michele nel romanzo è più esasperata ancora che nel
film. Il contrasto fra il suo orgoglio e il male che la circonda e di cui è partecipe, si sfoga in violenza nei
confronti dei figli, specie Michele. Il film rende bene la frustrazione della donna, schiacciata dalla sua vita
solitaria e dalle privazioni materiali, la situazione criminale di cui si trova a far parte a suo malgrado non
può che aggravare le tensioni che già innervano il suo carattere. La descrizione della lite fisica tra Teresa e
Felice con quest’ultimo che cerca di difendersi dalla furia della madre, ha una connotazione fortemente
sensuale che nel film è meno netta. La violenza dell’azione, nel libro culminata con il padre di Michele che
sorprende Felice sopra la moglie e lo scaraventa a terra e lo prende a calci, è sicuramente minore nella
rappresentazione cinematografica. La furia selvaggia di Teresa non è dettata solo da amore materno ma
deriva in buona parte dalla sua rabbia repressa causata dalla sua aspirazione ad essere una buona madre
che però non riesce a salvare il figlio dal tremendo segreto che incombe su tutti. Non diversamente dallo
scontro Sergio-Felice, nel film c’è meno violenza, non ci sono padellate in faccia, non c’è nudità esplicita,
non c’è primo piano dello sguardo stupratore di Felice, il padre tira via Felice e lo sbatte contro il muro ma
non lo prende a calci. D’altronde la figura del padre nel film non ha una netta predisposizione alla violenza
fisica quanto nel romanzo. Il film elimina o modifica scene che avrebbero dato un’idea ben diversa del
padre. Nel romanzo è il padre, e non Felice come nel film, a gridare di voler tagliare tutte e due le orecchie
del bambino rapito mentre ascolta l’appello della madre di Filippo alla televisione. Una scena che non solo
rivela il carattere non pacifico di Pino ma si ricollega ad un nodo centrale della storia: l’incomunicabilità tra
padre e figlio, un’incomunicabilità che causa la tragedia. Nel romanzo, dopo che Michele ha avuto il
coraggio di scendere per la prima volta nel buco di Filippo, corre a raccontare tutto a suo padre, che invece
lo zittisce e lo rimprovera perché ha fatto tardi, la storia avrebbe potuto finire qui e, invece, è qui che
veramente comincia a srotolarsi nel libro. Michele vuole confidarsi con il padre ma è proprio la mancanza di
un rapporto in cui si possano scambiare confidenze che causa la tragedia finale. In conclusione, le scarse ma
significative differenze di rappresentazione analizzate denotano la volontà, da parte del regista, di
emancipare il film, almeno in parte, dal contesto socio-culturale del romanzo per raccontare invece una
storia in cui la violenza nasce da sentimenti conflittuali meno netti di quelli del romanzo. La limatura in
positivo dei caratteri di Teresa e Pino da un lato, e l’amplificazione in negativo di Sergio dall’altro, nel film
servono non tanto ad indicare i confini fra bene e male, ma fra male (i genitori e i carcerieri) e male
assoluto (Sergio). Alla fine quindi, pur nel rispetto quasi totale della trama del romanzo, la discrepanza su
pochi, importanti, dettagli risulta fondamentale perché fa scivolare ai margini del film gli aspetti più duri
della narrazione scritta. Entrambe le opere guardano il mondo per mezzo degli occhi di un bambino. Ma il
romanzo, grazie alla funzione della memoria, alterna visione infantile a visione adulta, il film invece
inserisce quest’ultima totalmente nella prima.

ROBERTO DAINOTTO: DOCUMENTO, REALISMO E REALE

Con l’inizio della mobilitazione partigiana a seguito dell’armistizio dell’8 settembre del 1943, tensioni già
presenti nella cultura italiana convergono in una richiesta di una nuova cultura. Già il 28 settembre, in
quella che sarebbe stata l’ultima lettera al fratello, prima di perdere la vita su una mina tedesca, Giaime
Pintor scriveva, più che un’autotanatografia, il primo capitolo del “Bildungsroman” di una generazione di
giovani intellettuali che, affrettandosi a lasciare dietro di se un’idea di letteratura intesa come fantasia
beauvariana di incontri tra i sessi, intendeva adesso trasferire la propria esperienza sul terreno dell’utilità
comune. Si trattava insomma in un momento in cui dopoguerra significava già nuovo impegno di guerra
partigiana, di tirare l’intellettuale italiano fuori dai comodi ripari in cui il corporativismo fascista lo aveva
sistemato e isolato. Da figura “tecnica”, per usare una terminologia di Gramsci, l’intellettuale si avviava a
diventare figura “organica” all’interno delle “possibilità vitali” della storia. Il tutto cominciava con una
rinuncia ai privilegi corporativisti, sola via, questa, per aprire all’intellettuale le porte della creazione di una
nuova cultura dalla portata rivoluzionaria. In quegli stessi giorni di settembre sul numero della rivista
“Cinema”, “Luchino Visconti andava proponendo un simile rinnovamento della cultura cinematografica fino
ad ora “lontana dalla realtà attuale, prestata a colpevoli evasioni della realtà.” Anche per Visconti si trattava
insomma di capire quale deve essere la parte del cinema nel radicale rinnovamento dei valori.
Nell’editoriale di “Società” veniva costatandosi l’anacronismo di qualunque posizione intellettuale che
rifiutasse il pintoriano brutale contatto con il mondo. Già in tutte queste pagine d’occasione scritte tra il
1943 e il 1945 negli anni della Resistenza, si veniva già precisando quella tendenza del dopoguerra italiano
che tornava a dare alla cultura una responsabilità civica e, assieme a questa, una sua coerenza estetica
incentrata su quello che presto si sarebbe venuto chiamando il “problema del realismo”. “Problema”
perché, come ricordava Francesco De Santis nei “Nuovi saggi critici” del 1869, di realismo in Italia si era
sempre saputo poco. Di realismo si era cominciato a parlare sull’onda del positivismo ma, in mancanza di
una tradizione realista paragonabile a quella francese (Balzac, Zola) e inglese (Defoe), scriveva De Santis,
“molto si parla tra di noi arte e scienza, ma generalmente in modo vago e confuso”. Preoccupato di non
confondere il realismo con l’empirismo, De Santis, proponeva di intendere il realismo alla luce di quella
riforma napoletana dell’hegelismo che tendeva a mettere l’uomo storico e sociale al centro della dialettica:
“Il realismo non si ha da confondere con l’empirismo e il sensismo. Lo stesso Hegel biasima l’empirismo, ma
non potrebbe biasimare il realismo nella sua forma presente. Perché il realismo pone alto il pensiero come
fanno gli idealisti. La differenza è che l’idealismo considera il pensiero come l’esclusiva sorgente dell’essere
dove secondo i realisti l’esistenza non si può conoscere se non con la percezione”. De Santis vedeva quindi
nel realismo non un genere, bensì una componente essenziale della letteratura. Realista è il contenuto dato
dalle percezione-contenuto, poi, che nella dialettica interna all’opera letteraria, prende una “forma”, si
generalizza in concetto, immagine, “intuizione sensibile” del reale. Il “contenuto” non è definito come
“essere” per sé, bensì, come “percezione”, mentre “forma” viene intesa hegeliamente come “rapporto” e
“relazione” tra i vari esistenti. Oltre che essenziale alla creazione artistica, il realismo diventava quindi per
De Santis importante criterio per riformare l’hegelismo stesso. Sarà proprio questa versione desanctisiana
del realismo come “correzione” dell’idealismo ad informare il dibattito italiano, tra gli Anni’30 e il
dopoguerra, su questo tema, sarà proprio la dichiarata essenzialità del “contenuto” e del “reale” che
garantirà la partecipazione intellettuale alle vicende del mondo. Perché in De Sanctis, a differenza che
nell’hegelismo, non è tanto la “natura” a diventare oggetto del realismo, bensì, anticipando la discussione
sul neorealismo, oggetto e traguardo diventa la dimensione sociale del lavoro intellettuale. È quello del
realismo desanctisiano, un “contenuto” essenzialmente umano, descrizione oggettiva dei rapporti sociali e
descrizione “sentita” del “calore” umano dei sentimenti che fanno storia e società. La lezione di De Sanctis
è quindi quella di un realismo non tanto empirico e scientifico, quanto umano, umano nel senso
“sentimentale” ma soprattutto umano come formatore della società. Ed è proprio a questa lezione
desanctisiana, più che a quella positivista e naturalista, che si rifarà il neorealismo del dopoguerra italiano.
Il realismo italiano del dopoguerra si configurava in sostanza come analisi e studio del “genere umano”
storicamente inteso. E se Cesare Pavese, sulle pagine de “L’Unità” del 1945, auspicava un “ritorno
all’uomo” mentre l’editoriale “Solaria” del 1945 richiamava la generazione dei nuovi scrittori alle “loro
responsabilità di fronte agli uomini” era la pubblicazione del primo numero del “Politecnico” a canonizzare i
termini della questione. Anticipando il Silone della “Dignità dell’intelligenza e l’indegnità degli intellettuali”
(1947) che rimproverava una mancanza totale di “qualunque condotta esemplare degli intellettuali nei
trascorsi decenni”, Vittorini cominciava dalla necessità di un completo abbandono di quella che era stata
fino ad ora la cultura italiana. Prima di essere un compito letterario, la questione della nuova cultura era un
problema etico e politico, un’esigenza morale. Si trattava insomma di accettare la sfida di una nuova
cultura, non da ricostruire ma da creare ex novo. E se compito di tale cultura era “l’uomo nuovo” da creare,
il suo funzionamento era l’abbandono di ogni astrazione, illusione e idealità, abbandono della mitologia
fascista della gloria e della morte eroica. Vittorini ne “Il Politecnico” scriveva: “La cultura italiana è stata
provata nelle sue illusioni. Io mi rivolgo a tutti gli intellettuali italiani che hanno conosciuto il fascismo. Non
ai marxisti soltanto, ma anche agli idealisti, anche ai cattolici, anche ai mistici. Occuparsi del pane e del
lavoro è ancora occuparsi dell’anima. Mentre non volere occuparsi che dell’anima lasciando a Cesare di
occuparsi del pane e del lavoro, è limitarsi ad avere una funzione intellettuale e dar modo a Cesare di avere
una funzione di dominio sull’anima dell’uomo”. E mentre una conciliazione tra marxismo e cattolicesimo
appariva già negli schermi con “Roma città aperta”, la cultura cattolica si faceva carico del compito
assegnatole da Vittorini. Nella coeva “Lettera di un cattolico” Francesco Bulbo reiterava: “Noi non sappiamo
cosa farcene di una cultura che consoli…Noi cristiani vogliamo costruire una nuova cultura, fare la storia”.
Consolatoria era, per intenderci, quella letteratura di superomismi e miti imperiali del Ventennio, se non
l’intera tradizione aulico-letteraria italiana. Nel sommario tracciato da Luperini sulla cultura del dopoguerra
leggiamo: “L’esperienza della guerra e della resistenza al fascismo e al nazismo imposero nel dopoguerra
un’esigenza di radicale rinnovamento della nostra letteratura. Il periodo della chiusura ermetica era
finalmente terminato, ed ora l’intellettuale pensava di poter nuovamente aspirare ad un nuovo ruolo
sociale. La ripulsa della prosa d’arte, l’aspirazione ad una letteratura popolare, l’uso della cronaca, il
populismo, fu questo il neorealismo post-bellico.” Sarebbe, tuttavia, incauto legare il rinnovamento estetico
alla Ricostruzione storica entro una logica di effetto e causa. Il ritorno al realismo tipico del dopoguerra
ripresenta problemi e continuità di un fermento culturale che era già cominciato, non senza richiami al
realismo idealista di De Sanctis annunciato dalla parola d’ordine “ritorno a De Sanctis” in piena epoca
fascista. Tendenze in senso realista si registrano in Italia già dagli Anni’30, all’interno di un’accesa “battaglia
per il realismo” portata avanti dal “fascismo di sinistra”. La fondazione del “Saggiatore” nel 1930 s’inquadra
all’interno di un generale impegno di realismo inteso come, da un lato, aderenza al vitalismo della vita
contemporanea, dall’altro, rifiuto critico dell’idealismo sia liberale (Croce) sia istituzionale (Gentile). È sulle
pagine del “Saggiatore” che Francesco Orlando polemizza contro l’idealismo gentiliano. Accusato di un
irrigidimento in dogmi autoritari, l’idealismo diventa sintomo, per Orlando, di una cultura astratta e
conservatrice che ha perduto ogni iniziale slancio vitale per sclerotizzarsi in una stasi istituzionale, è contro
quanto di astratto si trova nell’idealismo che Orlando propone, come via d’uscita dalla crisi, un recupero del
realismo. Con occhi rivolti agli sviluppi della meccanica e della fisica quantistica, Massimo Cimino, sempre
sulle pagine del “Saggiatore” insiste sul desiderio di procedere sulla via della realtà, staccandosi una volta
per tutte dai soliti problemi della filosofia idealista. La critica a Gentile filosofo rimane spesso un bersaglio
esplicito del “Saggiatore”. Sul piano del realismo letterario, le novità di rilievo degli Anni’30 erano
rappresentate, da un lato, da l’introduzione in Italia del realismo americano e dall’altro dall’apparire di un
nuovo realismo germanico, la nuova oggettività, di cui dava annuncio proprio il “Saggiatore” in un breve
articolo di Francesco Bruno. Scrivendo nel 1934 Francesco Jovine non può che constatare l’avvenuta
“riconquista della realtà” da parte di nuovi scrittori che hanno dato un colpo mortale all’idealismo. Gli anni
che seguiranno saranno quelli delle irrisolte ambiguità tra realismo e non, saranno anche gli anni
dell’apogeo di consenso per il fascismo che liquida il fascismo di sinistra dissenziente, e con esso, i fermenti
di “Saggiatore”, “Universale” e “Bargello”. È sono nel 1941, dopo l’entrata in guerra dell’Italia che la sinistra
rialzerà la testa e il dibattito sul realismo potrà ricominciare. Giuseppe De Santis e Mario Alicata, con
“Verità e poesia. Verga e il cinema italiano”, pubblicato sulla rivista “Cinema” potranno dire che “fu nella
tradizione realista che il cinema trovò la sua strada migliore, e in mancanza di una tradizione narrativa
realistica in Italia, era a Giovanni Verga che Alicata e Giovanni De Santis potevano solo rifarsi. Piegare il
conservatore e latifondista Verga alle esigenze di un’arte rivoluzionaria poteva certamente essere una
forzatura. Negli anni dell’immediato dopoguerra questo umanesimo verghiano si sarebbe presto
drammatizzato nella dimensione melodrammatica e passionale del neorealismo rosselliniano di “Roma città
aperta”. Fede e responsabilità verso l’uomo, responsabilità della cultura a formare i fatti, dovere e lavoro
civile, questi gli assunti fondamentali della cultura italiana del primo dopoguerra. Il problema era intendere
le modalità attraverso cui la nuova cultura avrebbe dovuto esercitare una sua influenza civile sugli uomini.
Vittorini sulle pagine del “Politecnico” ci si sarebbe provato, ma gli inaspettati risultati del referendum e
delle elezioni per la costituente del 2 giugno 1946, con l’inaspettata sconfitta delle sinistre, il ritorno
trasformista del vecchio potere borghese, avrebbe presto nutrito i primi dubbi sulla validità dell’operazione
vittoriniana. La polemica avrebbe preso le mosse da un articolo di Mario Alicata su “Rinascita”, dove si
rimproverava a Vittorini di non essere riuscito né a parlare alle masse, né ad attirare intellettuali al
marxismo. La critica di Alicata era rivolta a un Vittorini troppo intellettuale e troppo poco politico,
interessato eccessivamente alla letteratura americana, e non abbastanza alla più rivoluzionaria letteratura
sovietica, quella di Alicata era una asserzione del fallimento realistico di Vittorini che si era rivelato
incapace, con il “Politecnico”, di esercitare una vera influenza civile sugli uomini. Se Vittorini aveva voluto
sminuire il valore della polemica, l’intervento dello stesso Palmiro Togliatti che si schiera dalla parte di
Alicata mette Vittorini con le spalle al muro. Lo scontro verte su quella che Vittorini veniva chiamando
“autonomia per la cultura”. Come bene sintetizza Romano Luperini: “Vittorini muove dal presupposto di
una autonomia della cultura concepita essenzialmente come autonoma dalla politica. D’altro canto i
dirigenti del PCI (Sereni, Alicata, Togliatti) finivano per non riconoscere il distinto ruolo della cultura.” La
risposta di Vittorini arrivava con l’editoriale “Suonare il piffero per la rivoluzione?” sul “Politecnico” del
1947 dove dice: “Non voglio dire che politica e cultura siano perfettamente distinte, ma certo sono due
attività, non un’attività sola, la politica agisce tenendo conto della realtà anche sotto il suo aspetto più
contingente, mentre la cultura si svolge tenendo conto della realtà sotto il suo aspetto più largamente
storico”. Tenendo conto della realtà la cultura è si realismo, ma tale realismo non può essere sclerotizzato,
per Vittorini, nelle formule dello zdanovismo o del realismo sovietico e ciò per almeno due ragioni: perché
le tendenze estetiche sovietiche sono il prodotto di un paese già in fase di costruzione socialista e anche
perché contengono il pericolo di quell’arcadia e di quel lirismo che la generazione degli Anni’30 aveva
liquidato come idealismo. E se non era lo zdanovismo a fornire ipotesi consone per un realismo del modo
della costruzione socialista italiana, tali ipotesi venivano invece dall’italiano Antonio Gramsci che secondo
Vittorini dà nelle sue opere ogni possibile premessa per una posizione culturale del marxismo. Il Gramsci a
cui si riferiva Vittorini era non tanto quello delle “Lettere dal carcere”, bensì il Gramsci della “storia degli
intellettuali italiani”, si trattava insomma di quel Gramsci che Togliatti stava per pubblicare nel primo
volume tematico dei “Quaderni, il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce”, il Gramsci che pur
rimarcando la fondamentale politicità dell’arte, tuona contro l’ossessione politico-economica che distrugge
l’arte. A cominciare dalla diatriba Vittorini/Togliatti la questione intorno al ruolo della cultura, come quella
intorno al significato del realismo, andavano traducendosi in un diverbio di cui l’auctoritas di Gramsci
veniva chiamata a giudicare. A parte qualche nota su Verga, Gramsci di realismo non si era veramente
occupato, si era invece preoccupato del ruolo dell’intellettuale e della cultura. Abbandonato nel dicembre
1947 il progetto del “Politecnico”, Vittorini ritorna polemicamente sulla questione l’anno dopo, all’indomani
della nuova crisi delle sinistre in seguito alle elezioni del 1948, con la prefazione del “Garofano Rosso”,
scritto negli Anni’30 dove afferma: “A chi appartiene Il garofano rosso? Alla società alla quale io
appartengo, alla generazione alla quale io appartengo, un libro è come se fosse stato scritto
impersonalmente da tutti coloro che hanno conosciuto o sfiorato la mia esperienza, vale a dire è un
documento. Il principale valore documentario del libro è tuttavia nel contributo che può dare a una storia
dell’Italia.” Il romanzo come documento di una generazione e di un’epoca, il romanzo come scrittura che si
fa da sé, impersonale. L’eco del verghiano “Amante di Gramigna” è inconfondibile: compito dell’arte
rimane quello di offrire della realtà, non un’opinione politica, apertamente schierata, bensì un documento
umano. Anche se, nel 1948, Vittorio De Sica, parlando di “Ladri di biciclette” e del tanto dibattuto realismo
ricordava come quest’ultimo “non può essere un semplice documento”, sarà però proprio questa idea
dell’arte come documento a costituire la via italiana al realismo, tra esigenze civiche da un lato e
cooptazione politica dall’altro, tra ritorno a Verga e zdanovismo. La questione non si sarebbe risolta certo
qui, con il “documento”. L’esplosione del fenomeno Gramsci l’anno seguente, con la pubblicazione di “Gli
intellettuali e l’organizzazione della cultura” e del moderno Principe nelle “Note sul Machiavelli sulla
politica e sullo Stato moderno”, la pubblicazione poi dei “Saggi sul realismo” di Gyorgy Lukacs nel 1950, con
la teorizzazione del “tipo” come cardine dell’estetica realista, lo scontro teorico tra Gramsci e Lukacs, tutto
questo avrebbero contribuito allo svilupparsi di una poetica e una teoria del realismo in Italia.

ROBERTO ELLERO: IL NEOREALISMO CHE NON PASSA DI MODA

“La volontà e la necessità della testimonianza, lo slancio degli uomini che penetrano la realtà fino negli
angoli più reconditi e ne colgono il senso non è una cosa che può passare di moda”. Così, a proposito del
neorealismo, Alfredo Guevara, in quello che è considerato il manifesto del nuovo cinema cubano. Ma la
persistenza del richiamo al neorealismo è un elemento che travalica la temporalità di quegli anni,
collocandosi con autorevolezza tra i riferimenti irrinunciabili di molto cinema di successo, non c’è infatti
autore africano, mediorientale, sudamericano che non riconosca nel neorealismo una delle matrici delle
proprie ragioni espressive. Valga come esempio di post neorealismo il cinema dei fratelli Dardenne
(“Rosetta”, “L’enfant”) dove rigore bressoniano e pratiche del cinema-veritè esaltano poetiche di
pedinamento dal sapore quasi zavattino. Si guardi anche all’universo indigente e marginale in cui si
muovono gli antieroi di Aki Kaurismaki (“La fiammiferaia”, “Nuvole in viaggio”, “L’uomo senza passato”),
dove la precarietà del reale viene spinta radicalmente sino ai suoi limiti, sconfinando in un parossismo quasi
surreale. Quel che è certo è che dove e quando la lezione neorealista fa capolino, a motivarne la sussistenza
sono fattori di natura etica, estetica ed economica. Uno sguardo nuovo sulla realtà si dà nell’istante in cui
più impellente si fa il bisogno di svelare l’inganno, denunciandolo, e vi è certamente un’urgenza etica, in
quel proposito di svelamento, che per risultare efficace necessita di strumenti formali appropriati. Come
ricorda Martin Scorsese nel suo “Viaggio personale attraverso il cinema americano”, prima ancora che a
Hollywood sorgesse il mito dei nuovi autori produttori (Spielberg, Coppola) a determinare la più profonda
messa in crisi del modello americano concorsero negli Anni’50 e ’60 taluni registi del B-Movie (Jacques
Tourner, per dire) che con i loro film a low budget girati in piena autonomia produttiva insinuavano dubbi
destinati a germogliare anche sul versante propriamente politico e sociale dell’identità americana. Quando,
oggi, un’autorevole voce come Carlo Lizzani rievoca le vicende del neorealismo, di cui è stato giovane
protagonista, ponendo l’accento sui valori di una rivoluzione che seppe essere anche formale nelle sue
capacità di elaborare un linguaggio cinematografico nuovo, autorizza col senno di poi un’estensione
semiologica dell’esperienza neorealistica che, facendo giustizia di tanti equivoci ontologici e semantici,
ancor meglio motiva la persistenza di un mito che va ben al di là della fattuale esistenza del movimento che
l’ha determinato, nonché delle diversità che l’hanno contraddistinto, nella pluralità degli autori e delle loro
tendenze. La stranezza che deve far riflettere riguarda il fatto che proprio in Italia le tendenze a confinare il
neorealismo entro i suoi apici storico-temporali, fra la fine della guerra e i prodromi della ricostruzione,
abbia contribuito a ridurne la portata. In altre parole, l’impressione è che in Italia a viziare il patrimonio del
neorealismo, a nasconderne la modernità, siano stati quegli elementi di contrapposizione ideologica che
per molto tempo hanno irrigidito lo stesso dibattito culturale. Largamente inesplorata appare l’indagine
intorno agli elementi di continuità del neorealismo nella massima espressione di genere della produzione
nazionale, la commedia all’italiana, non tanto nella versione “rosa”, paesana e consolatoria, Anni’50,
quanto in quella molto più sarcastica e graffiante dei due decenni successivi, dove i Risi, i Monicelli,
Comencini, Loy, Scola danno il meglio di sé. Visto da fuori, dall’estero, il neorealismo sembra ancora oggi
una sorta di lingua franca universale del cinema, oltre che l’espressione forse più matura dell’intera cultura
novecentesca nazionale, da vicino, da dentro, suggerisce nel pensiero corrente l’idea di un’esperienza
datata, di una lingua morta, buona per considerazioni inevitabilmente retrospettive. In tempi non sospetti,
Nietzsche diceva degli antichi e solitamente maltratti filosofi sofisti che era stati a loro modo dei realisti, in
quanto capaci di riformulare “tutti i valori e le pratiche più comuni elevandole al rango di valori”. Forse un
giorno anche il cinema italiano finirà per tornare a riconoscersi davvero nei Rossellini, Visconti, De Sica,
Zavattini, De Santis, insomma negli autori del neorealismo.

LUIGI FONTANELLA: NEOREALISMO E NEOREALISMO ITALIANI: ALCUNI APPUNTI

Questo breve intervento vuole sottolineare una generale tendenza neorealista manifestatasi in vari rami
della cultura italiana (letteratura, cinema, pittura, architettura) fin negli Anni’30. Ricordiamo alcuni momeni
chiave a partire dal termine stesso, quando per la prima volta venne usato dal critico Arnaldo Bocelli, uno
studioso che oggi in Italia ricordano in pochi. Eppure Bocelli è stato un fine italianista, attento ai
cambiamenti di clima della nostra cultura con saggi e volumi critici come quello, uscito un anno dopo la usa
morte, “Letteratura del Novecento” (1975). Tornando al termine “neorealismo”, fu per l’appunto Bocelli ad
usarlo nel 1931, all’indomani della pubblicazione di due romanzi importanti: “Gli indifferenti” di Moravia e
“Gente in Aspromonte” di Corrado Alvaro, usciti rispettivamente nel 1929 e nel 1930. Due romanzi che non
solo si distaccavano nettamente dal formalismo della prosa d’arte ma che prendevano le distanze
dall’ottimistica Italia ufficiale del fascismo per presentare una realtà più veritiera. A ridosso di questi due
romanzi incipitali, di lì a pochi anni sarebbero uscite altre opere altrettanto significative, ne cito almeno tre:
“Un uomo provvisorio” di Francesco Jovine (1934), “Tre operai” di Carlo Bernari (1934), “Lavorare stanca”
di Cesare Pavese (1936). Ma sarebbe stata soprattutto la guerra e la terribile miseria che ne sarebbe
derivata a lanciare in maniera più concreta l’esperienza neorealista e la cosiddetta “letteratura d’impegno”.
La letteratura s’incanalava nella cronaca nuda e diretta della realtà, vista e presentata nei suoi risvolti più
duri e dolorosi, nella convinzione che i fatti presentati avessero in se stessi una loro forza estetica senza la
mediazione d’una forma letteraria precostituita. Insomma si potrebbe dire che fra gli Anni’40 e gli Anni’50 il
neorealismo italiano si presentava come diffuso sentimento civile, oppure come uno stato d’animo
comunemente diffuso fra i maggiori intellettuali italiani, piuttosto che il coagularsi in una precisa corrente.
Anche da ciò derivano i vari neorealismi che rinveniamo nelle opere di scrittori e registi diversificati tra loro
sia nel tempo ( perché il neorealismo dagli Anni’40 si estende fino agli Anni’60 basti pensare a Pasolini e
Fortini) sia nello spazio letterario che loro competeva. “Neorealismi” al plurale perché ho pensato alle
tematiche diversificate che li compongono: gli avvenimenti di tipo familiare (Vasco Pratolini e pochi anni
dopo Natalia Ginzburg), quelli in chiave marxista-freudiana (Moravia), quelli impiegati come indagine del
profondo e magico Meridione (Carlo Levi, Anna Maria Ortese ecc.) quelli in chiave magico-fantastica
(Calvino, soprattutto con “Il sentiero dei nidi di ragno”). Il 1947 è anche l’anno di “Il cielo rosso” di Giuseppe
Berto, il cui neorealismo diventa lirico e pervaso da problematiche religiose, è lecito inoltre ascrivere al
neorealismo altre opere di scrittori come Carlo Cassola, Libero Bigiaretti, Renata Viganò. A questo punto va
di forza evidenziata la grande stagione neorealista avutasi nel cinema italiano, è forse in campo
cinematografico che il neorealismo si dirama in tanti risvolti diversificati, in tanti “neorealismi” appunto. Da
“Roma città aperta” di Rossellini film crudo e antieroico, alla “poesia della realtà” di “Ladri di biciclette” di
De Sica, alla “coralità” viscontiniana di “La terra trema” al dramma a sfondo sociale di “Riso Amaro” di
Giuseppe De Santis dove la pianura vercellese diventa teatro di lotte politiche, fino all’aerea ma anche
tragica leggerezza di “La strada” di Fellini che in qualche modo segna il limite del neorealismo, qualcuno ha
detto alla fine, ma io non sono d’accordo. Un film quest’ultimo che si distingue per il gusto della fabula
all’interno della realtà, che proprio grazie alla sua aerea leggerezza ne riscatta i risvolti cinici e brutali. Per
concludere, direi che con il neorealismo a essere analizzata è sempre la realtà italiana, ma con un’ottica di
volta in volta diversa, un’ottica difforme che in pochi casi veniva perfino anticipata, infatti in alcune scene e
modalità espressive sono già antesignani del neorealismo film come “Gli uomini, che mascalzoni” di
Camerini (1932), o “1860” di Blasetti (1934), o “Fari nella nebbia” di Gianni Franciolini (1942), o “Avanti c’è
posto” (1942) e “Campo de’ Fiori” (1943) ambedue di Mario Bonard con Aldo Fabrizi che esordisce con
“Avanti c’è posto, l’ultima carrozzella” (1943) di Mario Mattioli e “I bambini ci guardano” (1943) di De Sica.
Sono quest’ultimi tutti film girati fra il 1942-1943 e vi si trovano già alcune delle atmosfere torbide,
sensuali, tipiche di una “segnaletica” che voleva chiudere i conti con il cinema dei “telefoni bianchi” e
mettersi in maggiore sintonia con il disagio esistenziale della vera Italia. Un anno, il 1943, davvero
fondamentale per il cinema neorealista, che annunciava un’altra personalità, Michelangelo Antonioni, il
quale proprio nel ’43 iniziava a girare “Gente del Po”.

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