Riassunto Antropologia Culturale
Riassunto Antropologia Culturale
Riassunto Antropologia Culturale
Gli antropologi hanno l’ambizione di apprende quanti più modi di vita differenti sia possibile.
Gli archeologi ricostruiscono antichi modi di vivere sulla base di tracce lasciate sulla terra centinaia
o migliaia di ani fa; gli antropologi che si sforzano di ricostruire l’origine della specie umana
sfruttano resti fossili che risalgono a un passato antico milioni di anni.
D’altro canto, però, quando accettano il rischio di conoscere meglio certi modi di vita, fanno
spesso la gradevole scoperta di avere a che fare con qualcosa di familiare. Questo shock dovuto al
non familiare che diviene familiare – come al familiare che divine non familiare – è qualcosa che gli
antropologi finiscono con l’attendersi e costituisce uno dei reali piaceri di questa disciplina.
L’antropologia può essere definita come lo studio della natura umana, della società umana, del
passato umano (Greenwood e Stini 1977).
Gli antropologi sono tuttavia persuasi che le spiegazioni delle attività umane non potranno che
essere superficiali se non si riconosce che le vite umane sono complicati intrecci di lavoro e
famiglia, di potere e significato.
Innanzitutto ’antropologia è olistica, comparativa, basata sulla ricerca sul campo ed evolutiva.
Tutti gli aspetti della vita umana si intersecano fra loro in maniere complesse, plasmandosi a
vicenda fino a integrarsi.
L’antropologia è lo studio integrato , o olistico, della natura umana, della società umana e del
passato umano.
Tale olismo è stato a lungo fondamentale per la prospettiva antropologica.
In secondo luogo l’antropologia è una disciplina interessata alla comparazione. Occorre trovare
prove tratte dalla più ampia gamma possibile di società umane. Non basta per esempio osservare
soltanto il nostro gruppo sociale.
Quando compariamo le diete umane in differenti società, ci rendiamo conto che cibarsi di insetti è
un fatto abbastanza comune.
In terzo luogo l’antropologia è una disciplina basata sulla ricerca sul campo. Per quasi tutti gli
antropologi, l’effettiva pratica dell’antropologia avviene lontano dall’ufficio e a diretto contatto
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con le persone, i siti o gli animali a cui si sono interessati. Gli antropologi saranno sempre a
contatto diretto con le fonti dei loro dati. Uno degli aspetti più distintivi di questa disciplina. La
ricerca sul campo collega direttamente l’antropologo con l’esperienza vissuta di altre persona o di
altri primati.
Tutta l’antropologia inizia con uno specifico gruppo di persone (o di primati) a cui poi si fa visita
regolarmente.
Infine, gli antropologi si sforzano di arrivare a generalizzazioni su cosa significhi essere umani che
siano valide nello spazio e nel tempo.
L’evoluzione è un aspetto centrale della prospettiva antropologica. Gli antropologi esaminano
l’evoluzione biologica della specie umana documentando come sono cambiati nel tempo le
caratteristiche fisiche e i processi vitali degli esseri umani e dei loro antenati.
Se l’evoluzione è concepita in senso lato come mutamento nel corso del tempo, allora si può
ritenere che anche le società e le cultura umane si siano a loro volta evolute dalle epoche
preistoriche fio al presente.
Per lungo tempio gli antropologi si sono interessati all’evoluzione culturale.
Al centro di tale dibattito uno dei contributi più importanti dell’antropologia allo studio
dell’evoluzione umana rimane l’aver dimostrato che l’evoluzione biologica non coincide con quella
culturale. La distinzione fra le due continua a essere importante poiché dimostra le fallacie e le
incoerenze delle argomentazioni in cui si afferma che tutto ciò che gli uomini fanno o pensano si
possano spiegare in termini biologici, per esempi in termini di “geni”, di “razza” o di “sesso”.
La conseguenza dell’evoluzione degli uomini che ha esercitato l’influenza più profonda sulla natura
e sulla società umane è stata l’emergere della cultura, che qui definiamo come l’insieme di idee e
comportamenti appresi che gli esseri umani acquisiscono in quanto membri della società, insieme
agli artefatti e alle strutture materiali che gli umani creano e usano. La nostra eredità culturale ci
permette di adattarci al mondo nel suo complesso e di trasformarlo attraverso le nostre interazioni
con le strutture materiali presenti nelle comunità dove viviamo.
Il patrimonio culturale della specie umana è dotato di significato, ma ha anche una dimensione
materiale, ed è questa duplice connotazione ciò che ci rende unici tra le creature viventi.
Gli esseri umani dipendono per la sopravvivenza dall’apprendimento più di qualsiasi altra
specie.
Apprendimento e apprendistato sono il fulcro primario dell’infanzia che nela specie umana si
protrae più a lungo che in qualsiasi altra.
Gli antropologi sono in grado di dimostrare che i membri di un particolare gruppo sociale si
comportano in un certo modo non perché quel modo di agire sia programmato dai loro geni, ma
perché hanno osservato altre persone o hanno interagito con altri e imparato a mettere in atto
anche loro lo stesso comportamento.
La maggior parte degli antropologi rifiuta spiegazioni del comportamento umano che li
costringano a scegliere tra biologia e cultura come unica causa. Enfatizzano piuttosto il fatto che gli
esseri umani sono organismi bioculturali.
La nostra dotazione biologica rende possibile la cultura; la cultura umana rende possibile la
sopravvivenza biologica umana.
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Per comprendere il potere della cultura, gli antropologi stanno prestando un’attenzione crescente
al ruolo giocato dalla cultura materiale nelle vite degli organismi bioculturali umani.
L’antropologia biologica
A cominciare dal XIX secolo, quando l’antropologia si stava affermando come disciplina
accademica, gli antropologi hanno studiato gli esseri umani come organismi viventi per scoprire
che cosa li rendeva diversi dagli altri animali, o simili ad essi. Alcuni ricercatori elaborarono una
serie di tecniche complicate per misurare varie caratteristiche osservabili delle popolazioni umane
(colore pelle, tipi di capelli, corporatura, …) sperando di scoprire prove scientifiche che avrebbero
permesso loro di incasellare i popoli. Tali categorie furono chiamate razze.
Per prima cosa gli scienziati europei applicarono le categorie razziali ai popoli delle stessa Europa,
poi lo estesero a quei popoli che stavano iniziando a cadere sotto il crescente dominio delle
società capitalistiche.
Carlo Linneo classificò le popolazioni umane in quattro razze (americana, europea, asiatica e
negra) in base al colore della pelle (=rossastro, bianco, giallo e nero).
I naturalisti influenti ampliarono questa concezione di razza classificando le popolazioni del mondo
in base alle dimensioni del cervello.
Queste conclusioni servirono a giustificare la pratica sociale del razzismo, vale a dire la sistematica
oppressione dei membri di una o più razze.
All’inizio del ventesimo secoli alcuni antropologi e biologi cominciarono a sostenere che la razza è
un’etichetta culturale inventata dagli esseri umani per classificare le persone in gruppi e che le
razze, intese come insiemi distinti e unici di attributi biologici, semplicemente non esistono.
Franz Boas agli inizi del novecento fondò il primo dipartimento di antropologia degli Stati Uniti,
alla Columbia University, egli si sentiva da tempo a disagio con le classificazioni razziali utilizzate in
antropologia. Boas e i suoi allievi dedicarono molte energie a sfatare gli stereotipi razzisti.
La nuova antropologia fisica sviluppata da Sherwood Washburn all’Università della California, a
Berkeley, ripudiava la classificazione razziale e spostava l’attenzione sui modelli di variabilità e di
adattamento rilevabili nell’ambito della specie umana considerata nel suo complesso. Seguaci di
Washburn definirono la loro specializzazione antropologia biologica, distinguendosi dalla vecchia
antropologia fisica legata alla classificazione razziale.
Alcuni antropologi biologici lavorarono nei campi della primatologia (studio dei primati non
umani) e paleoantropologia (studio dei resti fossili).
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Gli antropologi forensi si avvalgono della propria conoscenza dell’anatomia dello scheletro umano
per coadiuvare il lavoro di coloro che si occupano di far rispettare la legge e di compiere ricerche
nel campo della tutela dei diritti umani.
L’antropologia culturale
Definizioni:
°Antropologia culturale: specializzazione dell’antropologia che dimostra come la diversità delle credenze e dei
comportamenti nei diversi gruppi umani sia plasmata da insiemi di comportamenti appresi e idee che gli esseri umani
acquisiscono in quanto membri della società – vale a dire dalla cultura.
°Sesso: le caratteristiche fisiche osservabili che distinguono i due tipi di esseri umani, le femmine e i maschi, necessari
per la riproduzione biologica.
°Genere: la costruzione culturale delle credenze e dei comportamenti considerati appropriati per ogni sesso.
°Ricerca sul campo: un prolungato periodo di assiduo rapporto con le persone al cui linguaggio e modo di vita
l’antropologio è interessato, e durante il quale di solito viene raccolta la maggior parte dei dati.
°Informatori: persone appartenenti a una particolare cultura che lavorano con gli antropologi e forniscono loro
nozioni e intuizioni sul propro modo di vivere. Sono anche chiamati intervistati, insegnanti o amici.
°Etnografia: descrizione scritta o filmata di una particolare cultura prodotta da un antropologo.
°Etnologia: lo studio comparativo di due o più culture.
Il linguaggio è forse la più straordinaria caratteristica culturale della nostra specie. L’antropologia
linguistica studia quindi il linguaggio non solo come forma di comunicazione simbolica, ma anche
come principale veicolo di importanti informazioni culturali.
L’archeologia è un’altra fondamentale specializzazione nell’ambito dell’antropologia, può essere
definita come un’antropologia culturale del passato umano che implica l’analisi di resti materiali.
L’antropologia applicata è la branca dell’antropologia in cui gli antropologi usano le informazioni
derivanti dalle altre specializzazioni antropologiche per proporre soluzioni a problemi pratici, e
promette di facilitare l’incontro fra la conoscenza occidentale e quella tradizionale, per esempio, al
fine di create tecnologie sostenibili che minimizzino per esempio l’inquinamento e il degrado
dell’ambiente.
L’antropologia medica è una delle branche dell’antropologia che stanno conoscendo la crescita
più rapida. Gli antropologi medici critici prestano attenzione al modo in cui le divisioni sociali
possano impedire l’accesso alle cure mediche o rendere le persone più vulnerabili alla patologia e
alla sofferenza.
Gli antropologi sostengono da lungo tempo che la cultura sia ciò che distingue la condizione
umana da quella delle altre specie viventi.
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Le culture umane si presentano caratterizzate da MODELLI: vale a dire che credenze e pratiche
culturali connesse tra loro fanno ripetutamente la loro comparsa in aree diverse della vita sociale.
E’ questa variazione dei modelli culturali che permette agi antropologi di distinguere tra “tradizioni
culturali” differenti, anche se talvolta è difficile. Occorre tener presente che i confini tra le
tradizioni culturali sono inevitabilmente sfumati. La cultura è dunque ADATTIVA. I neonati non
vengono al mondo dotati di “istinti”, essi dipendono completamente dal sostegno e
dall’accudimento da parte degli adulti. E’ apprendendo le pratiche culturali di coloro che li
circondano che gli esseri umani giungono a padroneggiare gli appropriati modi di agire e pensare
necessari ad assicurarne la sopravvivenza come organismi biologici.
La cultura infine ha un carattere SIMBOLICO. Un simbolo è un qualcosa che sta per qualcos’altro.
E’ questa pesante dipendenza dall’apprendimento simbolico che distingue la cultura umana
dall’apprendimento apparentemente non simbolico al quale si affidano le altre specie (pensiamo
per esempio al linguaggio).
La cultura umana è quindi:
APPRESA
CONDIVISA
BASATA SU MODELLI
ADATTIVA
SIMBOLICA
Organizzazioni no-profit che offrono assistenza legale considerano il taglio genitale femminile
(FGM – female genital mutilation – mutilazione genitale femminile) alla stregua di una violazione
dei diritti umani. Tali organizzazioni riconoscono che “sebbene la FGM non si esegua con l’intento
di infliggere dolore, i suoi dannosi effetti di ordine fisico, sessuale e psicologico ne fanno un atto di
violenza contro le donne e le bambine”.
La ricerca etnografica sul campo è un prolungato periodo di stretto coinvolgimento con le persone
di cui l’antropologo intende studiare il modi di vita. Si tratta del periodo in cui gli antropologi
raccolgono la maggior parte dei dati. La ricerca sul campo riunisce deliberatamente persone di
diverso retroterra culturale e da tale incontro è possibile che emergano incomprensioni,
interpretazioni e sorprese. E’ proprio per mezzo di simili incontri che la ricerca sul campo produce
buona parte di ciò che gli antropologi riescono a conoscere delle persone che vivono in altre
società.
La raccolta di dati effettuata vivendo per un lungo periodo a stretto contatto con i membri di un
altro gruppo sociale si definisce OSSERVAZIONE PARTECIPANTE.
Gli antropologi culturali raccolgono i dati attraverso interviste e somministrando survey (indagini
statistiche) e consultano gli archivi della letteratura già pubblicata.
Talvolta somministrano questionari e test psicologici. L’osservazione partecipante è forse il miglior
metodo per giungere a una comprensione olistica.
Per la maggior parte degli antropologi culturali la ricerca etnografica sul campo è l’esperienza che
caratterizza la disciplina.
Gli antropologi alle prime armi decidono di solito già durante la loro formazione universitaria dove
e su quali tematiche desiderano effettuare le loro ricerche.
Agli esordi della loro permanenza sul campo non è raro che i ricercatori si sentano sopraffatti. Col
tempo scoprono che inizia a farsi strada il grande processo della sopravvivenza umana: cominciano
ad adattarsi. I ritmi dell’attività quotidiana divengono familiari. La lingua inizia a diventare
familiare. Partecipano e scrivono appunti. L’etnografo raccoglie molte informazioni, ci riflette, le
analizza e poi riporta nuovi interrogativi e interpretazioni alle persone con cui sta lavorando.
Quando i temi della ricerca sono socialmente o politicamente sensibili e possono mettere a rischio
persone vulnerabili, devono vigilare sulle proprie esternazioni, così da proteggere l’identità di
coloro con i quali hanno lavorato.
Nel corso degli anni, antropologi culturali hanno compiuto ogni sforzo per comprendere lo status
scientifico dei dati raccolti. Pionieri dell’etnografia sono stati Bronislaw Malinowski (che si usa dire
sia l’inventore della ricerca sul campo), Franz Boas, Margaret Mead.
Gli approcci della ricerca etnografica sul campo sono stati elaborati nel corso degli ultimi cento
anni.
L’approccio positivista
Il metodo tradizionale delle scienze naturali, che i primi scienziati sociali tentarono di imitare oggi
è spesso definito scienza positivistica. I positivisti operarono a cavallo tra il XIX secolo e il XX. Il
positivismo si propone di spiegare come funziona il mondo materiale rifacendosi a cause e
processi materiali rilevabili con l’uso dei cinque sensi; inoltre i positivisti si affidano anche a una
metodologia scientifica che separa i fatti dai valori. Altra caratteristica è la convinzione secondo cui
si possa usare un unico metodo scientifico per investigare qualsiasi dominio della realtà, dal moto
dei pianeti alle reazioni chimiche, alla vita umana. Il tradizionale obiettivo del programma
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positivista è stato quello di produrre una conoscenza oggettiva, una conoscenza della realtà che sia
vera per tutti in qualsiasi epoca e in qualsiasi luogo.
Gli antropologi si sono dovuti però confrontare sempre più spesso con un paradosso.
L’etnografia positivista esigeva che gli antropologi scrivessero sugli esseri umani come se non
fossero per nulla diversi da rocce o molecole.
Gli anni 1960-’70 hanno segnato una svolta, un periodo di rivolgimenti sociali e politici che ha
rimesso tutto in discussione.
Gli antropologi iniziarono a scrivere etnografie che mettevano in luce i modi in cui il loro
coinvolgimento con gli altri sul campo aveva contribuito alla crescita di una conoscenza
interculturale.
Il ripensamento della ricerca sul campo portò anche a prestare una più accurata attenzione alle
dimensioni etiche e politiche delle relazioni che gli antropologi stabiliscono con le persone di cui
studiano il modo di vita e che di solito vengono definite informatori.
Gli esseri umani hanno obblighi etici verso gli altri esseri umani; i fattori politici possono
complicare le relazioni che gli etnografi sono in grado di sviluppare con i loro informatori. Gli
antropologi devono vedere se stessi come esseri umani e non come registratori impersonali e
devono considerare altresì i loro informatori come esseri umani.
Molti etnografi non usano più la parola informatori ma preferiscono espressioni come: consulenti,
guide, consiglieri o più in generale persone con cui si lavora.
Il fatto che l’etnografo e l’informatore siano esseri umani implica che lo scienziato e l’oggetto di
ricerca possiedano entrambi un’intelligenza indagatrice.
Ciò significa che i dati raccolti sul campo non sono soggettivi, ma INTERSOGGETTIVI: sono il
prodotto di lunghi dialoghi tra ricercatore e informatore.
Al centro della ricerca sul campo vi è la gamma di SIGNIFICATI INTERSOGGETTIVI che gli
informatori condividono.
L’approccio riflessivo
I significati intersoggettivi a cui si rifanno gli informatori sono pubblici, non privati. Al fine di
rendere esplciti tali significati l’antropologo e l’informatore ogni tanto devono fare insieme un
passo indietro rispetto al flusso ordinario della vita quotidiana ed esaminarli criticamente.
Questo riflettere sul riflettere è conosciuto come RIFLESSIVITA’. Una ricerca sul campo riflessiva
tiene in gran conto la raccolta di informazioni che devono essere dettagliate e accurate.
La conoscenza etnografica modellata dalla riflessività dell’etnografo va concepita come
CONOSCENZA SITUATA (Haraway 1991).
Il situare a cui si riferisce Donna Haraway comporta che l’etnografo renda chiaramente esplicita la
sua identità (per esempio la propria nazionalità, il retroterra di classe, il genere, il retroterra
etnico, quello educativo, le preferenze politiche, le ragioni per le quali si è deciso di intraprendere
il progetto di ricerca, ecc.).
Per esempio in alcune società essere un etnografo maschio può escludere lo studio di certe attività
sociali che sono considerate inappropriate per gli uomini.
I cambiamenti che hanno coinvolto tutto il mondo specialmente negli anni 1980-’90 hanno portato
molti antropologi a concludere che le loro conoscenze etnografiche sarebbero state incomplete se
avessero circoscritto la ricerca a un unico contesto; molti antropologi cominciarono a sviluppare
un nuovo approccio all’etnografia chiamato RICERCA SUL CAMPO MULTISITUATA in cui gli
etnografi si focalizzano su processi culturali che non sono circoscrivibili entro confini: sociali, etnici,
religiosi o nazionali; seguendo tali processi da un sito all’altro, spesso facendo ricerca di campo in
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luoghi e con persone che tradizionalmente non sono mai stati sottoposti ad analisi etnografica. Gli
etnografi dell’approccio multisituato seguono: persone, cose, metafore, storie e vite.
Si annoverano per esempio quelli che studiano turisti o migranti.
Gli etnografi che accumulano una serie di prospettive parziali, derivanti dal fatto che cambiano
scenari e soggetti con cui lavorano, mettono in pratica ciò che Donna Haraway chiama
“posizionamento mobile”. Adottando una varietà di punti di vista situati e discutendo ciò che è
emerso da ciascuno di questi punti con altri antropologi differentemente situati diventa possibile
rivelare contraddizioni ma anche stabilire solide analogie tra le differenze che sono forme di forte
oggettività.
La ricerca sul campo è una faccenda rischiosa. L’antropologo Michael Agar usa l’espressione punti
ricchi per definire i momenti inattesi in cui emergono problemi nella comprensione interculturale.
Per Agar i punti ricchi sono la materia prima dell’antropologia. Gli etnografi lavorano duramente
per situare i punti ricchi all’interno del mondo culturale locale, sottoponendo a continua verifica le
proprie interpretazioni in una varietà di contesti e con persone diverse, per vedere se quelle
interpreazioni trovano o meno conferma.
GLI ANTROPOLOGI SONO FERMAMENTE CONVINTI CHE LE IDENTITÀ DEI LORO INFORMATORI
VADANO PROTETTE, specie se questi appartengono a gruppi marginali e deboli, suscettibili di
patire ritorsioni da parte dei membri più potenti della loro società.
LA RICERCA SUL CAMPO CAMBIA TANTO GLI ANTROPOLOGI QUANTO GLI INFORMATORI. Quale
tipo di effetti può avere tale esperienza su questi ultimi? Non sempre gli antropologi sono stati in
grado di riferirlo. In alcuni casi, gli effetti che la ricerca sul campo ha prodotto non possono essere
valutati per molti anni. In altri casi, diventa chiaro già durante l’esperienza sul campo che la
presenza e le domande dell’antropologo hanno prodotto negli informatori nuove forme di
consapevolezza, sorprendenti e al tempo stesso scomode, in merito al proprio sé culturale.
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RIUSCIRE A INSTAURARE UN RAPORTO CON LE PERSONE CHE VENGONOO STUDIATE E’ UN
RISULTATO A CUI ANTROPOLOGO E INFORMATORI PERVENGONO INSIEME. Anche per il
ricercatore più dotato riuscire a essere accettato è qualcosa di problematico e tutt’altro che certo.
I FATTI SI RIVELANO FENOMENI COMPLESSI. Da uan parte asseriscono la verità di un certo stato
di cose a proposito del mondo. Dall’altra, l’analisi riflessiva ci ha insegnato che è estremamente
importante sapere chi ci dice che X è un fatto, perché i fatti non parlano da soli, ma devono
essere interpretati e posti in un contesto di significato che li rende intelligibili.
I fatti dell’antropologia non esistono né nella cultura dell’antropologo né in quella
dell’informatore. «I fatti antropologici sono interculturali, perché sono prodotti attraversando i
confini delle culture» (Rabiinow).
In poche parole i fatti non sono là fuori in attesa che qualcuno passi a raccoglierli . Sono
costantemente costruiti (1) sul campo, (2) quando i ricercatori riesaminano le note di campo e
riflettono, più tardi, sull’esperienza vissuta, e (3) quando scrivono le loro esperienze o le
discutono con altri.
Per Daniel Bradburd la ricerca sul campo ha inizio con «l’essere lì».
L’esperienza sul campo consiste in un incessante processo in cui si è costretti a fermarsi di colpo, a
mettere in discussione le proprie aspettative, a riflettere profondamente su ciò che sta
succedendo, proprio adesso, proprio a me e a loro, senza contare il fatto di pensare e ripensare a
quelle esperienze dopo che si sono concluse.
Il lavoro sul campo è LAVORO, bisogna prendere appunti, condurre interviste, fare osservazioni,
formulare interpretazioni.
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Gli esseri umani sono sistemi aperti, la storia umana continua, i problemi e le loro possibili
soluzioni mutano. Non esiste una sola versione vera della vita umana. Per gli antropologi la vera
versione della vita umana coincide con tutte le versioni della vita umana.
Non potremo mai conoscere tutto, ma questo non vuol dire che i nostri sforzi non possano
insegnarci nulla. Gli esseri umani sono dotati di un’elevata capacità di apprendere. Ciò avviene
non solo perché siamo aperti al cambiamento, ma anche perché la nostra cultura e in generale
l’ambiente che ci circonda possono mutare e continueranno a farlo finché continuerà la storia
umana.
Tale nuovo modo di vita ha cambiato il volto dell’Europa. Riducendo la terra in un patrimonio
immobiliare e gli oggetti materiali in una scorta di merci e persino gli esseri umani. Nella società
occidentale lo schiavo è considerato innanzitutto una merce.
Anche gli esseri umani sono ridotti a forza lavoro dal mercato capitalistico e acquistano un valore a
seconda del prezzo determinato dalle leggi della domanda e dell’offerta. Il capitalismo cambiò
tutto.
Il colonialismo costituisce un sistema sociale nel quale la conquista politica di una società da parte
di un’altra sfocia nella “dominazione culturale accompagnata a un mutamento sociale imposto”.
La prima fase del colonialismo europeo riguardò la Spagna, il Portogallo e l’Olanda, e prevedeva
che le colonie fossero obbligate a versare tributi all’impero attraverso compagnie commerciali.
La seconda fase vide il primato di Francia e Inghilterra e si basò sul primato industriale e la vita
indigena venne alterata per sempre. I popoli colonizzati hanno dovuto cominciare a vedere il
mondo come un magazzino di potenziali merci.
In America settentrionale esplose il commercio di pellicce, per primi gli olandesi. Il commercio di
pellicce fu un fenomeno internazionale. Le industrie dell’Europa orientale erano specializzate nella
lavorazione. Quando i castori si estinsero gli indigeni si resero conto che la loro nuova forma di
adattamento, pur così redditizia, era divenuta obsoleta. Scoprirono anche che era impossibile
tornare indietro alle vecchie usanze e il risultato fu un grave disorientamento sociale.
Rweagirono rielaborando le relazioni e le pratiche tradizionali. La confederazione degli Irochesi fu
uno dei risultati. Dare vita a una forma di società che potesse efficacemente contrapporsi al potere
delle compagnie commerciai europee.
Il commercio di materie prime e di schiavi alterò i destini dell’Africa, dell’America e dell’Europa in
un intreccio inestricabile.
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Il nuovo ordine economico non si è affermato in modo indolore. E’ stato imposto e mantenuto
con la forza. Per tale motivo molti antropologi descrivono l’ordine coloniale come un’economia
politica che enfatizza la centralità dell’interesse materiale nell’organizzazione della società e l’uso
del potere per proteggere e promuovere quell’interesse.
Sebbene gli antropologi non siano comparsi sulla scena fino alla metà del XIX secolo, ci furono
degli osservatori contemporanei a questi processi storici (militari, mercanti, amministratori
coloniali, missionari cristiani) che scrissero su questi sviluppi e sulle persone su cui si
ripercuotevano. Spesso tali resoconti etnografici contenevano informazioni dettagliate e accurate
che avrebbero mantenuto la propria validità nel corso del tempo.
Ciononostante era diffusa la tesi secondo cui i popoli del mondo non occidentale fossero “popoli
senza storia”.
1973 l’antropologo Talal Asad pubblica la raccolta di articoli intitolata “Anthropology and the
Colonial Encounter (L’antropologia e l’incontro coloniale) il primo lavoro di alto profilo prodotto
da antropologi decisi ad affrontare in maniera diretta le connessioni esistenti tra la loro disciplina e
il colonialismo.
Negli anni che seguirono alla Seconda guerra mondiale, le potenze coloniali europee dovettero
sempre più fare i conti con soggetti coloniali che rifiutavano il ruolo di allievi delle civiltà che erano
stati costretti a interpretare.
Tra gli anni 1950-’60 la maggior parte delle colonie europee si resero indipendenti, ma apparve
chiaro che l’indipendenza politica formale non avrebbe facilmente dipanati i radicati intrecci
economico-sociali che connettevano ormai i territori delle ex colonie con i paesi che li avevano
colonizzati.
Questo fenomeno prese il nome di neocolonialismo. Nello stesso periodo negli Stati Uniti
nascevano movimenti per i diritti civili che promosse l’attivismo delle donne, dei nativi americani,
degli afroamericani che sentivano violati i propri diritti dallo stato.
Gli imperi coloniali non esistono più ma le influenze globali attuali hanno un effetto dirompente
sulle popolazioni del mondo. Quindi il compito degli antropologi continua ad essere quello di dare
un senso alla varietà delle forme della società umana.
Una tecnica importante di cui gli antropologi si sono serviti a tale scopo è consistita nel concepire
una tipologia che permettesse di classificare le società oggetto di studio in base agli elementi di
somiglianza e di differenza.
Ma attraverso le letture e gli approfondimenti del proprio passato apparve chiaro che anche gli
antenati delle società europee, considerate più evolute, un tempo erano state prive degli
strumenti, delle idee e delle forme sociali che le rendevano così potenti nel presente.
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Se fossero andati abbastanza indietro nel tempo, avrebbero forse scoperto che i loro più lontani
antenati avevano vissuto come vivevano in quel momento molti popoli dell’America e dell’Africa.
L’evoluzionismo culturale unilineare: per molti pensatori del XIX secolo l’esperienza del
cambiamento sociale, insieme con le prove di ordine storico e archeologico relative ai mutamenti
sociali del passato, era carica di conseguenze. Si iniziò a pensare che forse l’occidente era già
passato attraverso periodi della storia caratterizzati dagli stessi modi di vita che si riscontravano
nelle società non occidentali contemporanee.
Questo modo di concepire il cambiamento sociale e culturale è stato definito evoluzionismo
culturale unilineare e ha raggiunto il suo più alto grado di sviluppo nel XIX secolo.
E’ stato uno dei modi utilizzati per spiegare la diffusa diversità culturale. I sostenitori
dell’evoluzionismo unilineare consideravano la propria società industriale come lo stadio più
avanzato mai raggiunto dall’evoluzione culturale. Oggi gli antropologi considerano fortemente
inadeguato questo modello di classificare la società umana.
L’evoluzionismo culturale unilineare proponeva una serie di stadi successivi attraverso i quali
dovevano passare (o erano passate) tutte le società per raggiungere la civiltà.
I ricercatori giunsero alla conclusione che i cacciatori-raccoglitori contemporanei si erano in
qualche modo fermati ai primi stadi dello sviluppo culturale umano, mentre le altre società erano
riuscite a progredire addomesticando piante e animali.
Ma molti gruppi non occidentali erano strutturate in società più grandi e tecnologicamente più
complesse di quelle dei cacciatori-raccoglitori. Praticavano agricoltura e allevamento, fabbricavano
strutture permanenti e vasellami che erano sconosciuti tra i cacciatori-raccoglitori.
Quindi questi popoli sembravano trovarsi un gradino sopra ai cacciatori-raccoglitori, tuttavia erano
anche molto diversi dagli europei.
Non possedevano per lo più la scrittura e non avevano organizzazioni simili agli stati nazionali
europei. Per questo motivo erano considerate società a metà strada tra cacciatori-agricoltori e gli
europei moderni e venne considerata una categoria a parte.
Da queste riflessioni emerse la prima grande tipologia antropologica delle forme umane e si
formava di tre categorie. Le etichette attribuite a queste categorie recavano anche implicazioni
morali:
- i cacciatori-raccoglitori (non coltivavano ne allevavano) erano definiti selvaggi;
- i gruppo che addomesticavano piante e animali (ma non avevano scrittura, ne lo stato)
erano definiti barbari;
- - la civiltà era circoscritta agli antichi stati del bacino mediterraneo e dell’Asia
sudoccidentale (come la Mesopotamia e l’Egitto), ai loro successori (come Grecia e Roma) e
certe società non occidentali che potevano vantare un analogo livello di realizzazioni (come
Cina e India).
Questo modo di classificare per stadi le varie società implicava anche una classificazione dei popoli
in varie categorie dette “razze”.
Si dovette però attende la seconda metà del ventesimo secolo, dopo l’affermazione della teoria
evoluzionistica in biologia e il contributo della genetica agli studi sulla selezione naturale, perché
gli antropologi fossero in grado di sviluppare strumenti teorici e pratici atti a dimostrare che le
razze non esistono.
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L’antropologia sociale britannica ha prodotto una serie di classificazioni non evoluzioniste delle
forme sociali umane.
Le teorie degli antropologici britannici riguardavano sempre più il modo in cui particolari forme
scoiali funzionavano giorno dopo giorno al fine di riprodurre le loro strutture tradizionali.
Tale teoria struttural-funzionalsita ebbe come massimo esponente A.R. Radcliffe-Brown, che la
elaborò tra il 1930-’40. Gli antropologi sociali erano più interessati a chiedersi perché le cose
rimanevano uguali nel tempo piuttosto che a chiedersi perché cambiavano.
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Durante la Guerra freda (tra il 1948 e il 1989) nacque un nuovo insieme di categorie che
classificava gli stati in Primo mondo (o “sviluppato”), Secondo mondo (o “comunista”) e Terzo
mondo (o “sottosviluppato”).
I nuovi stati nazionali che fecero la loro comparsa dopo la Seconda guerra mondiale erano in
precedenza colonie i cui confini erano stati negoziati da poteri coloniali e spesso includevano una
cittadinanza eterogenea, diversa, composta da gruppi che prima della colonizzazione non
condividevano in alcun modo un senso di identità nazionale.
Lo studio degli antropologi metteva in evidenza le conseguenze distruttive del colonialismo, la
disomogenea diffusione del capitalismo e le persistenti ineguaglianze che ne erano risultate.
Molti autori hanno sottolineato che lo sviluppo del mondo ricco ha in realtà prodotto il cosiddetto
sottosviluppo dei paesi poveri attraverso la colonizzazione delle loro terre.
Antropologi come John e Jean Comaroff si orientarono verso quella che definirono “antropologia
neomoderna” che pone attenzione sulla realtà del potere e della coercizione nelle vicende umane,
sostenendo però al tempo stesso che il potere e la coercizione non sono mai totali, ma lascino
sempre degli spiragli entro cui gli attori umani possono sviluppare nuove interpretazioni o nuove
forme di azione.
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Capitolo 5 – Che cos’è il linguaggio umano?
Si definisce linguaggio il sistema di simboli arbitrari che gli esseri umani usano per codificare e
comunicare la loro esperienza del mondo e degli altri. Si tratta di una specifica, unica, che
distingue gli esseri umani da tutte le altre specie viventi.
Il linguaggio riveste un’importanza fondamentale per gli antropologi per almeno tre motivi:
È uno strumento per comunicare sul campo, costituisce un oggetto di studio specifico e
rivela molte cose sulle culture;
Gli antropologi possono trascrivere le conversazioni, estrapolandole quindi dal loro
contesto culturale per poi analizzarle autonomamente; alcune scuole di teoria
antropologica hanno basato le proprie concettualizzazioni relative alla cultura su idee
mutuate dalla linguistica, ovvero lo studio scientifico del linguaggio.
Tutti si servono del linguaggio per codificare la propria esperienza. Quando impariamo la
lingua di un’altra società, apprendiamo anche qualcosa della sua cultura.
Come il concetto di cultura, così anche quello di “linguaggio” ha di solito implicato la distinzione
tra Linguaggio e linguaggi. Il Linguaggio con la L maiuscola (come la Cultura con a C maiuscola) è
stato considerato una proprietà astratta attribuibile alla specie umana nel suo complesso, da non
confondere con gli specifici linguaggi propri di particolari gruppi umani.
Il linguaggio, come altri aspetti della cultura, è il prodotto del tentativo umano di fare i conti con
l’esperienza.
Così come non esiste una cultura umana “primitiva”, non esiste neppure un linguaggio umano
“primitivo”.
Le lingue sono tradizionalmente associate a specifici gruppi di persone chiamati comunità
linguistiche.
Individui e sottogruppi di una stessa comunità linguistica utilizzano in maniere diverse le risorse
della lingua e, di conseguenza, sussiste una certa tensione, nell’ambito di una lingua, tra
comunanza e diversità.
E’ così che una lingua viene prodotta e riprodotta attraverso l’attività di coloro che la parlano,
sicché qualsiasi lingua siamo in grado di identificare in un dato momento non è che un’istantanee,
un fermo immagine entro un processo di costate cambiamento.
Gli antropologi sono del tutto consapevoli dell’influenza che il contesto esercita su ciò che le
persone scelgono di dire.
L’etnopragmatica è stata definita da Alessandro Duranti lo studio dell’uso del linguaggio che si
basa sull’etnografia per illuminare i modi in cui il discorso è costituito dall’interazione sociale e,
insieme, la costituisce. Questo genere di studio si concentra sulla pratica, l’attività umana nella
quale le regole di grammatica, i valori culturali e l’azione fisica si combinano tra loro.
Le lingue pidgin e creole si sono rivelate di gran lunga più complesse di quanto si fosse
immaginato, oltre a essere il prodotto di un lavoro umano molto più attivo di quanto si credesse;
per tali ragioni sono considerate oggetti di studio particolarmente interessanti dai linguisti e
dagli antropologi linguisti.
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Ideologie del linguaggio un marcatore dei conflitti tra gruppi sociali portatori di interessi differenti,
che si rivelano in ciò che le persone dicono e nel come lo dicono.
L’antropologa linguista Maryliena Morgan ha studiato l’ideologia del linguaggio maturata dagli
afro-americani in relazione all’inglese afroamericano (AAE). La sua ricerca svela che, forse,
l’elemento chiave di tale ideologia risiede nell’importanza che assume il carattere indiretto della
comunicazione. Per gli afroamericani che vivevano in condizioni di schiavitù e di segregazione
legalizzata, la comunicazione indiretta era vitale. L’estrema diseguaglianza politica faceva sì che
essi dovessero destreggiarsi tra un insieme di regole non scritte che governavano il modo di
rivolgersi ai bianchi:
parlare solo su esplicito permesso, mai far domande o contraddire i bianchi, piegare il capo e
dire “sissignore” io “sissignora”. L’obbedienza pubblica a tali regole confermava lo stato di
soggezione degli afroamericani nella gerarchia razziale, e violarle era severamente punito.
Rivitalizzazione della lingua: sforzi compiuti dai linguisti e attivisti per conservare o rivitalizzare le
lingue parlare da pochi parlanti nativi e che perciò sembrano sul punto di estinguersi.
Lo scherzo che può essere verbale o fisico costituisce un buon esempio di come il gioco funziona in
generale e nel suo contesto culturale.
Secondo Gregory Bateson (1972) entrare o uscire dalla dimensione del gioco richiede un livello di
comunicazione detto meta comunicazione (=comunicazione concernente il processo comunicativo
stesso) ossia comunicazione sulla comunicazione.
La meta comunicazione fornisce informazioni a proposito della relazione che intercorre tra i
partner della comunicazione.
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Nel gioco ci sono due tipi di comunicazione:
framing (inquadramento) manda un messaggio che definisce certi comportamenti come
gioco oppure come vita ordinaria. (es. i cani si accordano per giocare, digrignano le zanne
ma non si mordono veramente. Entrambi i cani hanno concordemente deciso di entrare
nel frame (cornice) del gioco. All’interno del frame del gioco, uno degli elementi
fondamentali della logica occidentale, cioè che A=A, non vale; ovverosia, la stessa cosa
viene trattata in modi diversi. Gli esseri umani dispongono di molti segnali per instaurare il
frame del gioco: sorriso, particolare tono della voce, fischio dell’arbitro, le parole “facciamo
finta che”.
riflessività: (=pensiero critico concernente il modo di pensare; riflessione sulla propria
esperienza). Il gioco offre l’opportunità di pensare alle dimensioni sociali e culturali del
mondo in cui viviamo. Quando, per esempio, diciamo che gli scherzi ci permettono di non
prenderci troppo sul serio, siamo coinvolti in una meta comunicazione riflessiva. Scherzare
ci permettere di prendere in considerazione spiegazioni alternative, magari ridicole , della
nostra esperienza.
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Come è organizzato lo sport nello stato nazionale?
Secondo Jane Lever la caratteristica più importante dello sport nazionale è quella di favorire la
coesione in seno alle moderne società complesse. Nel suo studio sul calcio in Brasile Lever
sostiene che lo sport organizzato su vasta scala costituisce un meccanismo che porta a costruire
l’unità politica e la fedeltà alla nazione. In Brasile esiste almeno una squadra di calcio
professionistico in ogni città; le città maggiori ne hanno più d’una, in rappresentanza di gruppi
sociali distinti.
Tramite queste squadre i diversi gruppi mantengono la propria identità.
Per molti brasiliani, come per molti popoli nel mondo, l’esperienza di sostenere una squadra di
calciò può essere la prima e forse l’unica a comportare una lealtà che travalica la comunità locale.
L’apice si raggiunge quando i campioni nazionali sono impegnati in competizioni internazionali.
Esiste solo un’importante eccezione alla cultural globale di massa dello sport: di solito separa le
donne dagli uomini. Il calcio è incredibilmente importante per gli uomini brasiliani e per molti altri
uomini nel resto del mondo, ma lo è assai meno per le donne.
La segregazione di genere nell’ambito dello sport ha conseguenze significative in rapporto
all’esperienza del crescere come maschi e femmine.
La stessa cosa la possiamo osservare a Cuba, conoscere e saper parlare di baseball rappresenta la
mascolinità dei cubani. La peña (la discussione) che si svolge nel Parque Central dell’Avana è
un’estemporanea associazione di persone, solitamente uomini che si incornano regolarmente per
una specifica ragione, radunarsi per parlare di sport e specialmente di baseball.
Le donne non partecipano mai alla peña e pochissime sano discutere di questo (o sono interessate
a farlo).
Ma è arte questa?
Molti, compresi gli antropologi si sono opposti all’idea che l’arte sia solamente ciò che un gruppo
di esperti occidentali definisce come tale.
In molte società non esiste una parola che corrisponda ad “arte”.
Gli antropologi ritengono che sia fondato parlare di arte e di artisti nelle società non occidentali.
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Il loro obiettivo è stato quello di riconoscere una completa capacità umana nei confronti dell’arte
in tutte le società.
Alcuni antropologi osservano che persino in occidente la maggior parte degli oggetti attualmente
esposti nei musei delle arti figurative, a prescindere dalla loro provenienza, non erano stati
concepiti dai loro autori come oggetti d’arte. Piuttosto erano stati pensati per essere per esempio:
maschere a uso rituale, dipinti per la contemplazione religiosa, reliquari per conservare i resti dei
santi, raffigurazioni di antenati, mobili, scrigni per gioielli, dettagli architettonici …. ecc.
Per Errington possiamo distinguere in:
arte intenzionale che comprende gli oggetti che furono concepiti come arte, per esempio i dipinti
degli impressionisti;
arte di appropriazione costituita da tutti gli altri oggetti che sono divenuti opere d’arte perché a
un certo punto alcune persone hanno deciso che appartenevano alla categoria dell’arte.
Affinché un oggetto si trasformi in opera d’arte deve possedere un valore di esibizione, cioè
qualcuno deve essere disposto ad esporlo.
La maggior parte di questi prodotti artistici in occidente deve avere connaturati questi elementi:
movibili: i dipinti sono preferibili alle pitture murali; durevoli: il bronzo è preferito al vimini; inutili
ai fini pratici nell’occidente secolare (le effigi di antenati e le icone bizantine sono preferite a
zappe e macinini; rappresentativi: le figure umane e animali vengono preferite poniamo a vasi
rituali riccamente decorati. In altre parole per Errington l’arte vuole che qualcuno intenda che
quegli oggetti siano arte, ma quel qualcuno non deve esserne il creatore.
Nella prima parte del ventesimo secolo l’antropologo Malinowski propose un nuovo modo di
porsi dinanzi al mito. Egli riteneva che per capire i miti fosse necessario comprendere il contesto
sociale nel quale erano incorporati. Sosteneva inoltre che i miti fungono da “statuti” o
“giustificazioni” dell’assetto sociale. Il mito contiene una qualche verità auto evidente che spiega
perché la società sia come è e perché non la si possa modificare. Se viene messo in discussione
l’assetto sociale giustificato dal mito, quest’ultimo può essere usato come un’arma contro chi lo
sfida. Malinowski trovò che nella società trobriandese i clan erano classificati in base al prestigio e
per giustificare tale gerarchia facevano ricorso al mito.
Nel mito che spiegava la gerarchia l’antenato di un clan, il cane, emerse dalla terra prima di un
altro, il maiale, e ciò giustificava la posizione sociale del clan del cane a un livello di prestigio più
alto del maiale.
Egli chiarì che tuttavia l’assetto sociale può mutare, nel tal caso a mutare è anche il mito.
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Il clan del maiale prese il posto del clan del cane e livello di importanza.
Si disse che il cane aveva mangiato un cibo che era tabù e cosi facendo aveva perduto il diritto a
ricoprire il rango più elevato.
Per capire un mito e le sue trasformazioni è necessario conoscere l’organizzazione sociale del
gruppo che ne fa uso.
Per Lévi-Strauss i miti sono strumenti che permettono di superare contraddizioni logiche
altrimenti insuperabili. Egli sostiene che i miti sono costituiti da unità più piccole disposte in
maneira tale da conferire sia coerenza narrativa (o “melodica”) sia coerenza strutturale (o
“armonica). Queste composizioni rappresentano e commentano gli aspetti della vita sociale che si
ritiene si contraddicano a vicenda, gli esempi comprendono: l’opposizione uomo-donna, le
opposte regole di residenza a seguito del matrimonio (abitare presso il padre dello sposo o la
madre della sposa), l’opposizione tra mondo naturale e mondo culturale, tra la vita e la morte, lo
spirito e il corpo, l’alto e il basso e così via.
La complessa sintassi del mito opera per mettere in relazione gli elementi di ciascuna oppia di
opposti, nel tentativo di superare le loro contraddizioni che però non si possono mai risolvere del
tutto.
Il mito tuttavia può trasformare un problema insolubile in uan forma concreta e maggiormente
accessibile. La narrazione mitica può così offrire al problema concreto una soluzione.
I miti non si limitano a parlare del mondo così com’è, ma lo descrivono per come potrebbe essere.
Per poter abbracciare tutta questa vasta gamma di attività la nostra definizione di rituale consta di
quatto parti:
è una pratica sociale ripetitiva composta da una sequenza di attività simboliche in forma di danza,
canto, parole, gesti, manipolazione di determinati oggetti e così via;
è separato dalla routine sociale della vita quotidiana;
in qualunque cultura i riti aderiscono a uno schema rituale culturalmente definito e caratteristico;
l’azione rituale si collega strettamente a uno specifico insieme di idee spesso codificate in un mito.
Tali idee possono riguardare la natura del male, la relazione tra gli esseri umani e il mondo degli
spiriti, il modo in cui le persone dovrebbero interagire tra loro e così via.
Ciò che conferisce potere ai rituali è il fatto che coloro che li eseguono asseriscono di essere
autorizzati a farlo da un’entità che si trova al di fuori di loro: dallo stato, dalla società, da un dio,
dagli antenati o dalla tradizione.
Un riturale presenta una particolare sequenza ordinata di atti, pronunciamenti ed eventi, ha cioè
un testo, una sceneggiatura.
L‘esecuzione di un rito non può essere separata dal suo testo: sceneggiatura ed esecuzione si
plasmano a vicenda.
Al tempo stesso coloro che eseguono il rituale non sono dei robot, ma individui le cui scelte sono
guidate, anche se non rigidamente dettate, dai testi rituali precedenti.
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I riti di passaggio = rito che ha il compito di marcare il passaggio e la trasformazione di un
individuo da una posizione sociale ad un’altra (es. studente, single, recluta). Si comincia il rituale
essendo un certo tipo di persona mentre al termine del rituale si è diventati un altro tipo di
persona. Arnold Van Gennep constatò che in tutto il mondo certi tipi di rituale presentavano
strutture simili.
Tali riti includevano le nascite, le iniziazioni, le conferme (un esempio di rituale di conferma nella
religione cattolica è la Cresima), i matrimoni, i funerali e simili.
Van Gennep osservò che tutti questi riti avevano inizio con un periodo di separazione dalla vecchia
posizione e dal tempo normale. Durante questo periodo, la persona che compiva il passaggio
rituale si lasciava alle spalle i simboli e le pratiche della sua posizione precedente.
Il secondo stadio dei riti di passaggio comporta un periodo di transizione, durante il quale la
persona non si trova né nella vecchia vita né, ancora, nella nuova.
Questo periodo è caratterizzato da una mancanza di ruolo, dall’ambiguità e dalla percezione di un
pericolo.
Durante l’ultimo stadio del passaggio, la riaggregazione, la persona è reintrodotta nella società
nella sua nuova posizione.
L’opera di Victor Turner ha dato un grande contributo al nostro modo di concepire i riti di
passaggio. Egli si concentrò soprattutto sul periodo di transizione. Turner rileva che il simbolismo
che accompagna il rito di passaggio esprime spesso tale condizione ambigua.
La liminalità = lo stato di transizione ambiguo facente parte di un rito di passaggio, nel quale la
persona o le persone sottoposte al rito si trovano fuori della loro posizione sociale ordinaria. Le
persone che si trovano nello stato liminale tendono a sviluppare un intenso cameratismo. Turner
chiama communitas questa modalità di relazione sociale, meglio interpretata come una comunità
non strutturata o solo minimamente strutturata di individui eguali.
Tale legame è la comune umanità che soggiace a ogni cultura e società. Comunque sia, i periodi di
communitas (sovente nel contesto rituale) sono brevi. La communitas è pericolosa, non solo
perché minaccia la struttura, ma perché minaccia la stessa sopravvivenza. La communitas cede il
posto alla struttura, che a sua volta genera il bisogno di communitas.
(Per le persone che vivono negli odierni stati nazionali l’esperienza della communitas può
emergere con chiarezza nei momenti di vittoria di un squadra sportiva, o la partecipazione a un
grande concerto rock …).
Quali sono alcune metafore chiave nella costruzione delle visioni del mondo?
Le visioni del mondo sono immagini complessive della realtà. Spesso visioni del mondo che ci
appaiono inconsuete risultano più comprensibili se siamo capaci di cogliere le metafore chiave su
cui si fondano.
Quanti costruiscono una visione del mondo si preoccupano innanzitutto di mostrarne ordine,
regolarità e prevedibilità laddove la teoria primaria (cioè l’esperienza del senso comune) non è
riuscita a metterli in luce.
Nel ricercare le metafore chiave questi pensatori guardano a quelle aree dell’esperienza
quotidiana che più si associano all’ordine, alla regolarità e alla prevedibilità.
Alcune visioni del mondo sembrano possedere una straordinaria capacità di durare nel tempo e
nello spazio.
Se però le circostanze cambiano e le vecchie metafore si dimostrano inadatte a comprenderle,
possono allora emergere nuove visioni del mondo basate su metafore diverse.
La ricerca comparativa suggerisce che tre importanti immagini di orgine e di stabilità abbiano
regolarmente fornito le metafore chiave per le visoni del mondo:
Metafore sociali: in molte epoche e in luoghi diversi le relazioni sociali hanno offerto un
grande esempio di ordine, regolarità e prevedibilità. In tali società il modello da applicare al
mondo è l’ordine sociale o, in altri termini si ritiene che l’universo (o macrocosmo) e la
società (il microcosmo) funzionino sulla base degli stessi principi.
° La società su piccola scala, organizzate sulla base della parentela, possono riferirsi
a potenti forze cosmiche come se fossero antenati dotati di grande potere: alcune di quelle
forze possono perfino essere concepite come spiriti di anziani defunti, di antenati.
° Le società complesse, stratificate in base alle differenze di ricchezza, potere e
prestigio, possono concepire un universo in cui vi sia un’uguale stratificazione delle forze
cosmiche, e possono basare il loro modo di confrontarsi con esse sulle stesse abilità a cui
ricorrono per rapportarsi agli esseri umani più potenti. Società dotate di istituzioni
capitalistiche ben sviluppate spesso equiparano i processi biologici e sociali al modo di
funzionare del mercato capitalistico.
Metafore organiche immagini di ordine e stabilità che si basano sula conoscenza degli
organismi viventi. Concepire le società e le lingue come organismi viventi. Nella prima
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parte del ventesimo secolo si ricorse a una diversa metafora organica per elaborare una
prospettiva scientifica della società detta funzionalismo. I funzionalisti richiamavano
l’attenzione sul fatto che fosse possibile suddividere un organismo in vari sistemi
(digerente, riproduttivo, respiratorio, …) ognuno dei quali svolgeva una funzione specifica,
Quando tutti i sistemi funzionano in modo armonico è sano. Se la società costituisce
anch’essa un organismo vivente, si dovranno ricercare i sottosistemi in cui è possibile
suddividerla e descrivere la società sana come quella in cui tutti i sottosistemi operano in
armonia. La personificazione è un’ulteriore metafora organica (es. che si possa convincere
l’automobloe a metetrsi in moto se siamo gentili e incoraggianti).
Metafore tecnologiche usano le macchine costruite dagli esseri umani come predicati
metaforici. Per esempio, nel mondo di Isaac Newton, nel diciassettesimo secolo, i modelli
dell’universo si basavano sull’artefatto più complesso realizzato in quell’epoca: l’orologio
meccanico a molla. A seguito della rivoluzione industriale, gli psicologi del diciannovesimo
secolo descrissero i processi cognitivi ed emotivi umani rifacendosi alla metafora della
macchina a vapore (es. Freud assimilava lo stress all’aumento di pressione del vapore in
una caldaia).
In che modo le visioni del mondo sono usate come strumenti di potere;
All’interno di qualsiasi particolare tradizione culturale coesistono sempre visioni del mondo
differenti. Quando una visione del mondo è appoggiata da chi ha potere all’interno della società e
le visioni alternative sono censurate, molti studiosi di scienze sociali considererebbero questa
visione dominante del mondo un’ideologia. Si può definire ideologia un prodotto culturale che
scaturisce da una riflessione cosciente, come nel caso delle credenze in fatto di moralità, religione
o metafisica. Nell’accezione marxiana un’ideologia è una visione del mondo che serve a spiegare e
giustificare gli assetti sociali a cui soggiacciono le persone. Marx sosteneva che i governanti
consolidano il proprio potere riuscendo a persuadere i loro sottoposti ad accettare un’ideologia
che rappresenta il loro dominio come legittimo. Quando tale persuasione si ottiene con difficoltà,
chi ha il potere può ricorrere a misure coercitive per mettere a tacere le voci critiche.
Il secolarismo
L’Illuminismo europeo del diciottesimo secolo dette origine a una nuova visione del mondo che
venne definita secolarismo e la cui diffusione ha avuto grandissime ripercussioni in tutto il mondo.
Lo sviluppo di idee e di pratiche secolari trasformò profondamente le istituzioni politiche e
religiose che avevano dominato la società europea nel corso del Medioevo. Le prime generazioni
di antropologi diedero per scontato il secolarismo, considerandolo il prevedibile risultato
dell’evoluzione culturale. Ma più di recente gli antropologi sono stati indotti a riconsiderare sia la
natura dell’Illuminismo sia quella del secolarismo.
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Religione e secolarismo
Che cosa succede quando singole persone o gruppi le cui radici politiche e religiose sono al di fuori
della storia europea vengono a vivere nella moderna Europa secolarizza?
Tala Asad ha elaborato una indagine, la ricerca verte sull’”antropologia del secolarismo” che
mette in luce i modi in cui le varie nozioni di “secolare” presero forma nel corso della storia
dell’Europa, in particolare attraverso la Riforma protestante della cristianità.
Si è soliti definire il secolarismo come la separazione della religione dallo stato e lo si considera la
soluzione illuminista alle sanguinose e irresolubili guerre di religione che seguirono la Riforma.
Come pure una nozione di cittadinanza secolare che deve molto alla nozione di agency individuale
elaborata dalla teologia protestante.
Le controversie dottrinali durante la Riforma e le guerre di religione riguardarono questioni di
ortodossia, cioè di correte credenze religiose. Nel secolarismo europeo, perciò, con “religione” si
intendono principalmente quelle credenze a cui i fedeli si sentono vincolati. Analogamente lo
“stato” secolare è sempre concepito come il moderno stato nazionale caratterizzato dall’economia
capitalistica.
E’ da questo modo di intendere la “religione” e lo “stato” che trae origine il concetto di
cittadinanza proprio dell’illuminismo.
Nella visione secolare i cittadini sono prima di tutto, e soprattutto, individui che possiedono dentro
di sé le motivazioni necessarie per formulare obiettivi, che hanno le risorse per avviare un’azione
che consenta di perseguirli, che sono responsabili delle conseguenze delle proprie azioni. In altre
parole i cittadini secolarizzati sono concepiti come liberi da legami restrittivi con altri gruppi
sociali. Questo concetto di agency fu esso stesso il prodotto della teologia protestante. Nel
contesto religioso, gli individui, concepiti come indipendenti e automotivati, erano responsabili
davanti a Dio; nel ruolo di cittadini di uno stato secolare liberale, quegli stessi individui erano
individualmente responsabili verso la legge.
Il secolarismo “non è una semplice questione di assenza di ‘religione’ nella vita pubblica del
moderno stato nazionale, perché la religione occupa un posto variabile anche nei moderni paesi
secolari”. (La questione del velo musulmano in Francia è un caso di studio. La polemica esplose
quando il governo francese insistette nell’affermare che non si poteva indossare il velo a scuola. A
partire dalla Rivoluzione lo stato francese è stato risolutamente secolare, chiedendo ai cittadini di
astenersi dal manifestare in pubblico la propria affiliazione religiosa).
Il potere può essere concepito come una capacità trasformativa. Quando le scelte condizionano
un intero gruppo sociale parliamo di potere sociale.
Eric Wolf descrive tre diverse modalità di potere sociale:
il potere interpersonale: indica la capacità di un individuo di imporre la propria volontà a
un altro;
il potere organizzativo, evidenzia come gli individui o le unità sociali possano limitare le
azioni di altri individui in particolari contesti sociali;
il potere strutturale organizza gli assetti sociali stessi e controlla la divisione del lavoro
sociale.
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Lo studio del potere sociale nella società umana è il campo di indagine dell’antropologia politica,
indispensabile perché comporta una complessa interazione fra la ricerca etnografica sul campo, la
teoria e la riflessione critica su quest’ultima, divisa in tre fasi (Joan Vincent):
la prima fase dal 1851 al 1939 è l’era “formativa” nella quale presero corpo gli
orientamenti fondamentali e furono prodotti alcuni dei primi commentari antropologici
riguardanti la politica;
la seconda fase dal 1942 al 1971 considerata l’era “classica” della disciplina, è la fase più
strettamente associata alla fiorente antropologia sociale britannica, che era radicata nella
teoria struttural-funzionalsita. La decolonizzazione richiamò l’attenzione sulle politiche
emergenti a livello nazionale dei nuovi stati e sugli effetti che la “modernizzazione”
produceva sulle strutture politiche “tradizionali”. La turbolenza politica degli anni Sessanta
e dei primi anni Settanta rimise in discussione non solo le consuete forme sociali, ma anche
le consuete forme della tradizione antropologica;
la terza fase negli anni Settanta-Ottanta nella quale l’antropologia della politica ha
sollevato interrogativi di più vasta portata riguardanti la natura del potere e della
disuguaglianza. Con l’avvento della globalizzazione, gli antropologi interessati allo studio
del potere hanno unito le forze con gli studiosi di altre discipline che condividevano i loro
interessi e hanno adottato le idee di influenti pensatori politici come Antonio Gramsci e
Michel Foucault.
Una visione del mondo che giustifica l’assetto sociale nel quale si vive è definita talvolta ideologia.
I governanti possono consolidare il loro potere persuadendo i governati ad accettare un’ideologia
che rappresenta come legittimo il predominio della classe dominante. Secondo questi studiosi,
inoltre, i gruppi che accettano una simile ideologia della classe dominante sono vittime di una
“falsa coscienza”.
Scrivendo negli anni Trenta, Gramsci osservò che il governo coercitivo, che si chiamava dominio, è
costoso e instabile. I governanti possono ottenere risultati migliori se riescono a persuadere i
dominati ad accettare come legittimo il loro dominio. Se riescono a fare tutto questo avranno
stabilito quella che Gramsci chiama un’egemonia.
L’egemonia non è mai assoluta, bensì sempre vulnerabile a contestazioni: possono insorgere
conflitti fra i governanti che tentano di giustificare il proprio dominio e gruppi subordinati che
esercitano la propria agency contestano le ideologie e le pratiche “ufficiali”.
Molti antropologi sono attratti dal concetto di egemonia, perché concentra l’attenzione sul ruolo
centrale che le credenze e i simboli culturali assumono nelle lotte tese a consolidare
l’organizzazione sociale e il controllo politico.
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Biopotere e governa mentalità
Foucault riconobbe l’emergere, nel XIX scolo, di una forma di potere, alla quale diede il nome di
biopotere o biopolitica, che si incentrava soprattutto sui corpi, quelli dei cittadini, ma anche sul
corpo sociale stesso. Il biopotere si riferisce alle forme del potere esercitate sulle persone
specificamente in quanto esseri viventi; una politica che si occupa dei soggetti come membri di
una popolazione, nell’ambito della quale i temi della condotta sessuale e riproduttiva individuale si
intrecciano con quelli della politica e del potere nazionali.
Per Foucault prima del 1600 la preoccupazione principale della politica era garantire a un sovrano
assoluto di poter mantenere il controllo dello stato. Nel XVII secolo però questo modo di
affrontare il dominio dello Stato cominciò a dimostrarsi sempre più inadeguato.
L’esempio della gestione della famiglia divenne uno dei modelli di governo preferiti, ma
amministrare lo stato come se fosse una famiglia significava che i governanti avrebbero avuto
bisogno di maggiori informazioni sulle persone, su beni e sulle ricchezze che dovevano gestire.
Nel settecento i burocrati statali cominciarono a contare e a misurare le persone e le cose che
erano soggette al controllo dello stato, inventando così la disciplina delta statistica.
In questo modo, secondo Foucault, gli stati europei cominciarono a governare in termini di
biopolitica, usando la statistica per gestire le persone, i beni e le ricchezze presenti all’interno dei
propri confini.
Foucault la chiamò governamentalità, la quale prevede l’suo di informazioni codificate in forma
statistica per governare in modo da promuovere il benessere delle popolazioni all’interno dello
stato. Per esercitare la governamentalità per esempio i burocrati statali potevano usare le
statistiche per determinare la probabilità di una carestia, predisporre l’intervento.
La governamentalità è una forma di potere all’opera nel mondo contemporaneo e le istituzione
che si affidano ad essa contano e misurano i loro membri in svariati modi.
In un mondo sempre più globalizzato è sempre più probabile che gli antropologi si trovino ad
avere a che fare sia con le pressioni della governamentalità sia con i tentativi di eluderla o di
manipolarla.
L’ambiguità del potere = il contrato fra dominio ed egemonia, da un lato, e le esplorazioni fatte da
Foucault sull’apparato della governamentalità, dall’altro, dimostrano che l’esercizio del potere non
può essere equiparato alla sola violenza fisica.
Il potere degli individui di resistere influenza il modo in cui le società senza stato pervegono alle
decisioni. Un’altra conseguenza del considerare il potere come un’entità indipendente è
l’importanza che acquista il consenso come mezzo appropriato per decidere sulle questioni che
interessano il gruppo. Alla ricerca del consenso, coloro che propongono un particolare modo di
agire devono ricorrere alla persuasione, anziché alla coercizione, per cercare di convincere gli altri
membri del gruppo a sostenere la loro causa.
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Le forme di organizzazione sociale senza stato si oppongono con forza all’emergere di una
gerarchia. I membri di tali società si impegnano fortemente per impedire l’insorgere di una simile
autorità poiché si rendono conto che la crescita di un potere statale condanna a morte
l’autonomia individuale e sconvolge senza rimedio l’armonioso equilibrio fra gli esseri umani e le
forze del mondo circostante.
Le società di piccoli gruppi e di agricoltori e pastori hanno trovato i sistemi per limitare
l’accumulazione di ricchezza e potere. Società di questo tipo operano entro i confini di un tetto e
di un pavimento metaforici: un tetto oltre il quale non si può accumulare la ricchezza e un
pavimento al di sotto del quale non si può sprofondare. Questi limiti vengono mantenuti da
potenti meccanismi sociali noti come dispositivi di livellamento. Queste società perciò possiedono
le proprie risorse sociali e politiche e non sono affatto bersagli facili, solo in attesa di adottare il
modello gerarchico che passa.
In che modo la storia diventa un prototipo di e per l’azione politica? (vedi esempio rondas
campesinas pg 213).
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Capitolo 9 – Come ci procuriamo da vivere?
Secondo uno stereotipo della cultura occidentale, gli esseri umani che vivono di caccia e raccolta
conducono un’esistenza che, per dirla con la celebre frase di Thamas Hobbes, è brutta, brutale e
breve. A partire dagli anni Sessanta, gli antropologi sono vissuti a stretto contato con popoli di
cacciatori-raccoglitori quanto basta per constatare la fallacia della posizione hobbesiana.
I produttori di cibo possono essere esclusivamente coltivatori oppure allevatori, o fare entrambe le
cose. Alcuni agricoltori dipendono principalmente dalla forza muscolare umana abbinata all’uso di
qualche attrezzo. Disboscano lotti di terra bruciano sterpaglie piantano le coltivazioni. Dato che
una simile tecnica esaurisce il suolo occorre lasciare a riposo il campo. Questa forma di coltivazioni
e nota come agricoltura estensiva, poiché fa uso esteso della terra.
Altri agricoltori usano aratri, animali da tiro, irrigano, fertilizzano. Il loro metodo è detto
agricoltura intensiva e permette una maggiore capacità di coltivare nello stesso tempo
producendo un surplus di raccolto.
Infine l’agricoltura industriale meccanizzata si riscontra presso le società in cui l’agricoltura e
l’allevamento di animali sono arrivai a essere organizzati con criteri industriali. Le “fabbriche nei
campi” delle imprese agroindustriali e le stalle per l’allevamento intensivo del bestiame,
trasformano la produzione di alimenti in un’industria basata sula tecnologia.
Verso la fine del XIX secolo le prospettive elaborate dai primi pensatori nel campo dell’economia si
trasformarono in quell’economia neoclassica che rimane il fondamento dell’attuale economia
formale. L’economia neoclassica concorreva ancora una volta a esaltare l’importanza del mercato
quale fonte principale di un ormai elevato benessere economico. Ritornava tuttavia sulla
concezione classica del valore economico, come proprietà oggettiva delle merci prodotte, su cui le
differenti classi sociali fondano la loro lotta. Con un interesse particolare nei confronti del calcolo
egoistico per massimizzare il vantaggio.
Forme di scambio
Il mercato capitalistico è un’invenzione culturale relativamente recente nella storia umana. Allo
stesso modo la teoria economica neoclassica, elaborata per dare un senso al mercato capitalistico
e ai suoi effetti, è un’invenzione relativamente recente, mentre lo scambio del mercato
capitalistico è solo una delle possibili forme di scambio.
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Nella prima parte del ventesimo secolo Marcel Mauss aveva contrapposto gli scambi non
capitalisti di doni (che erano profondamente radicati nelle relazioni sociali ed esigevano sempre il
contraccambio) agli scambi impersonali di merci, tipici del mercato capitalistico (nel quale l’unica
cosa che lega i due partner dello scambo è il denaro).
Tre forme di scambio:
la reciprocità, è la forma di scambio più antica, caratteristica delle società egualitarie.
Reciprocità generalizzata senza attendersi un immediato contraccambio; reciprocità
equilibrata chi effettua lo scambio si attende un contraccambio in eguale valore;
reciprocità negativa, uno scambio di beni e servizi in cui almeno una delle parti tenta di
ottenere qualche cosa senza dare nulla in cambio;
la redistribuzione richiede una qualche forma di organizzazione sociale centralizzata.
Coloro che occupano la posizione centrale ricevono contributi economici da tutti i membri
del gruppo. Un esempio antropologico classico riguarda il potlatch degli indiani della costa
nordoccidentale dell’America settentrionale;
lo scambio di mercato, inventato dalla società capitalistica, costituisce la forma di scambio
più recente. Il capitalismo comporta uno scambio di beni (commercio) che viene regolato
da un mezzo polivalente di scambio e da uno standard di valore (denaro) ed effettuato
tramite un “meccanismo di domanda-offera-prezzo”.
Potlatch: è costituito da un insieme di pratiche rurali che furono analizzate per la prima volta dall’antropologo Franz
Boas in un saggio del 1897 dedicato agli indiani Kwakiutl. L’attenzione di Boas si concentrò sulla distruzione rituale
di numerosi beni considerati “di prestigio” attraverso la quale, in una sorta di gara, i soggetti cercavano di ottenere
o confermare un elevato status sociale.
Il lavoro
Il lavoro è probabilmente il concetto marxiano più importante adottato da questi antropologi. Il
lavoro è l’attività che collega i gruppi sociali umani al mondo materiale che li circonda, per questo
il lavoro umano è sempre lavoro sociale.
I modi di produzione
Marx classificò le modalità attraverso cui i diversi gruppi umani effettuano la produzione; ognuna
di esse costituiva un modo di produzione.
Strumenti, tecnica, organizzazione e conoscenza costituiscono ciò che Marx ha chiamato mezzi di
produzione. Le relazioni sociali che connettono gli esseri umani che usano un dato mezzo di
produzione si chiamano rapporti di produzione, ovvero i diversi compiti produttivi (disboscare,
seminare, raccogliere, …) sono assegnati a gruppi sociali differenti, i quali devono tutti collaborare
affinché la produzione abbia successo.
L’antropologo Eric Wolf sostiene che tre modi di produzione siano stati particolarmente importanti
nel corso della storia umana:
modo di produzione basato sulla parentela, nel quale il lavoro sociale si esplica in base alle
relazioni di parentela;
il modo tributario, in cui il produttore primario (agricoltore o pastore) può accedere ai
mezzi di produzione, mentre un tributo gli viene prelevato attraverso mezzi politici o
militari;
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il modo capitalistico, quest’ultimo presenta tre caratteristiche principali: i mezzi di
produzione sono di proprietà dei capitalisti; ai lavoratori viene negato l’accesso a tale
proprietà e devono vendere il proprio lavoro ai capitalisti per sopravvivere; questo lavoro
genera un surplus di ricchezza per i capitalisti, che possono trattenerlo o reinvestirlo nella
produzione, aumentando il prodotto e generando ulteriore surplus.
Marx osservò che il modo di produzione capitalistico incorpora i lavoratori e i padroni in modi
differenti e contradditori. Questi gruppi, che egli chiama classi, hanno interessi differenti e ciò che
è bene per una classe può non esserlo per le altre. I desideri dei lavoratori sono inevitabilmente
opposti a quelli dei proprietari.
Quanto più la partecipazione delle classi al modo di produzione è complessa e ineguale, tanto più
è probabile che la lotta fra loro sia intensa.
Marx fu uno dei primi analisti sociali, e certo uno dei più eloquenti, a documentare l’elevato livello
di sofferenza umana generato da certi modi di produzione e, in particolare, da quello capitalistico.
Come abbiamo visto Marx usava il termine ideologia per riferirsi ai prodotti culturali della
riflessione cosciente, quali la moralità, la religione e la metafisica, che servono a spiegare e a
giustificare l’assetto sociale in cui le persone vivono. Per Marx l’ideologia non era indipendente
dal processo produttivo e serviva a spiegare e giustificare i rapporti di produzione a coloro che vi
erano coinvolti.
I diversi modi di produzione favoriscono alcune classi a discapito delle altre, e questo è
particolarmente chiaro nel modo capitalistico, in cui i padroni hanno un accesso sproporzionato
alla ricchezza, al potere e al prestigio, mentre l’accesso dei lavoratori a questi beni è drasticamente
limitato. Ne consegue che le classi povere non sono tali a causa di una qualche inferiorità, pigrizia
o sconsideratezza intrinseche. Lo sono perché non riescono ad avanzare, dato che le regole del
gioco (cioè il modo di produzione) sono state costruite in maniera tale da impedire loro di vincere.
Gli individui comprano e vendono in un certo modo non in virtù di qualche strano capriccio, ma
perché le scelte che hanno a disposizione sono definite dai rapporti di produzione. Da questa
prospettiva, i poveri non acquistano merci a buon mercato perché hanno cattivo gusto e non
riescono a riconoscere la qualità quando la vedono; piuttosto la posizione di deprivazione che
occupano nel modo di produzione assicura loro redditi molto limitati e devono accontentarsi delle
sole merci che possono permettersi, anche se scadenti.
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I dati etnografici mostrano che nessuna società sfrutta tutte le possibili fonti elementari
disponibili localmente per soddisfare le proprie necessità di consumo. Anzi, è vero piuttosto che i
“bisogni” di consumo sono selettivi: in altre parole, sono determinati da influenze culturali.
Ogni sistema economico può essere analizzato facendo riferimento a due tipi di movimento:
i movimenti localizzativi, cioè i “cambiamenti di luogo”;
i movimenti appropriativi ovvero i “passaggi di mano”, come quando si distribuiscono le
noci di mongongo a tutti i membri del campo, a prescindere dal fatto che abbiano o meno
contribuito a raccoglierle.
Di conseguenza i raccoglitori non possono essere considerati poveri, anche se il loro livello di vita
materiale è basso, in base ai criteri occidentali.
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L’originaria società opulenta degli Ju/’hoansi rafforza l’idea che quello di “bisogni” sia un concetto
vago. La fame si può soddisfare con riso e fagioli o con bistecche e aragoste. La sete si può
soddisfare con acqua o birra o bibita gassata. Adottando un simile approccio culturale al tema del
consumo, le distinzioni fra bisogno e desideri o fra necessità e lussi scompaiono.
Esempio la Coca-Cola a Trinidad nel lavoro di Miller assume lo status di metasimbolo: “un simbolo
che rappresenta il dibattito sul carattere materiale della cultura”. La Coca-Cola è spesso dipinta
come una merce occidentale/americana che simboleggia il potenziale distruttivo globale di tutte le
forme di consumo capitalistico, dal momento che è prodotta da coloro che detengono il potere di
controllare le forze del mercato capitalistico. Miller riesce però a dimostrare che un simile scenario
è una falsificazione grossolana del ruolo economico e culturale che la Coca-Cola riveste a Trinidad
dove è presente fin dagli anni Trenta, e che era diventata un’importante forza economica locale,
responsabile di una quota considerevole delle entrate di Trinidad derivanti dal commercio con
l’estero. In primo luogo la Coca-Cosa non costituisce un esempio tipico della mercificazione globale
perché è sempre stata diffusa sulla base di concessioni tramite accordi flessibili con impianti di
imbottigliamento locale; in secondo luogo la proprietà dell’impianto di imbottigliamento che
originariamente produceva Coca-Cola a Trinidad era locale (come pure il consorzio che finì per
acquistarlo); terzo l’imbottigliatore locale era in grado di rifornirsi di tutte le principali sostanze
necessarie per produrre la bevanda presso fornitori di Trinidad; quarto quest’azienda di
imbottigliamento esportava bevande analcoliche in tutte le altre isole dei Caraibi.
Miller conclude la sua analisi dicendo che è un grave errore usare la Coca-Cola come un meta
simbolo dei mali connessi al consumismo delle merci. La sua conclusione si contrnano sui modi in
cui le merci globali vengono incorporate entro pratiche culturali definite localmente.
Gli esseri umani hanno inventato svariati modi di creare, mantenere e sciogliere i legami sociali tra
loro.
La vita umana è vita di gruppo. Il modo in cui scegliamo di organizzarci si presta a variazioni
creative. La semplice conoscenza del tipo di gruppi scoiali in cui un bambino nasce ci dice molto su
quello che sarà il probabile percorso della sua esistenza. Esperienze umane quali la sessualità, il
concepimento, la nascita e l’accudimento sono selettivamente interpretate o modellate in pratiche
culturali condivise che gli antropologi definiscono relazionalità.
Tali relazioni intime e quotidiane sono sempre inglobate in strutture di potere, di ricchezza e di
significato, dalle quali vengono plasmate.
Per oltre un secolo gli antropologi hanno prestato particolare attenzione a quella forma di
relazionalità che si ritiene sia fondata su una sostanza condivisa e sulla sua trasmissione.
La sostanza condivisa può essere corporea (sangue, sperma, geni, latte materno). Gli antropologi
occidentali notarono che in molte società la gente credeva come loro che la condivisione di una
sostanza cerasse una relazione tra le persone e osservarono inoltre come le società avevano
elaborato sistemi di etichette per identificare i vari tipi di parentela, per esempio madre e cugino.
Questo insieme di similitudini bastò a convincere i primi antropologi che tutti gli uomini basano i
propri sistemi di parentela sulla biologia della riproduzione.
Per molti decenni gli studi sulla parentela si basarono sul presupposto che tutte le società
riconoscevano le medesime relazioni biologiche di base fra madri e padri, genitori e figli, sorelle e
fratelli. Ma un numero crescente di prove etnografiche indica che molto spesso il modo in cui le
persone concepiscono le relazioni che le legano ad altre persone è incredibilmente agli antipodi
rispetto a queste connessioni genealogiche.
Gli antropologi furono i primi scienziati sociali a riconoscere che le persone appartenenti a varie
società classificavano i loro parenti in categorie che non corrispondevano a quelle in uso nelle
società occidentali. Scoprendo la complessità dei vari tipi di rapporti di parentela formali si giunse
a confutare l’assunto etnocentrico secondo cui i modi europei di categorizzare le relazioni di
parentela erano un riflesso evidente dei legami biologici naturali.
Al contempo è importante rendersi conto che le varie classi di parenti individuate nell’ambito di un
sistema formale di relazioni di parentela possono essere oppure non essere considerate
importanti in una particolare società.
Forme di relazionalità locali basate sull’interazione diretta, compresa l’amicizia, la parentela e
quelle istituzioni che gli antropologi chiamano sodalizi.
Riconoscere le diverse forme che le istituzioni connesse alla relazionalità possono assumere
significa ammettere la fondamentale apertura che caratterizza l’organizzazione
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dell’interdipendenza umana. Tale apertura rende possibile l’elaborazione e l’estensione di legami
di relazionalità che vanno oltre i contesti di interazione diretta.
Comunità immaginata per indicare ogni comunità più grande di un villaggio primordiale dove tutti
si conoscono. Il concetto di comunità immaginata è importante perché mette in evidenza il fatto
che i legami che uniscono le persone in tutte le comunità sovra individuali sono contingenti: non
sono esistiti dall’inizio dei tempi e possono dissolversi in futuro. In altre parole sono costruzioni
sociali, culturali e storiche. Sono il prodotto congiunto di pratiche abituali condivise e di immagini
simboliche di un’identità comune, promossa da questi membri del gruppo che sono interessati a
far perdurare una particolare identità immaginata.
Comunità immaginata = Termine coniato dalla scienziato politico Benedict Anderson per riferirsi a
quei gruppi di cui la conoscenza reciproca tra i membri non deriva da costanti interazioni dirette,
ma si basa su esperienze condivise in istituzioni a carattere nazionale quali le scuole e la burocrazia
governativa.
Parentado bilaterale
Il parentado bilaterale è il gruppo parentale più conosciuto alla maggior parte degli europei e dei
nordamericani. Tale gruppo si forma attorno a un particolare individuo e comprende tutte le
persone di entrambi i sessi a lui/lei collegate, che convenzionalmente chiamiamo parenti.
Queste persone costituiscono un gruppo per il solo fatto di essere collegate alla persona centrale,
che nella terminologia di parentela è detta Ego.
Nella scoierà nordamericana (occidentale potremmo dire) il parentado bilaterale si riunisce in
varie occasioni della vita di Ego: battesimo, cresima, raggiungimento della maggiore età, laurea,
matrimonio o funerale. Ciascuna persona che fa parte del parentado bilaterale di Ego possiede poi
un proprio parentado separato.
Il parentado può essere comunque molto esteso e può dare origine a vaste reti di persone in
qualche modo imparenta fra loro.
L’appartenenza al lignaggio
La caratteristica più importante dei lignaggi è la loro organizzazione di tipo corporato, nel senso
che il lignaggio gode di una singola personalità giuridica. Per gli estranei, tutti i membri di un
lignaggio sono di diritto uguali a tutti gli altri.
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I lignaggi sono corporati anche perché controllano la proprietà, specialmente la terra, in maniera
unitaria. Gruppi così regolati si riscontrano presso le società in cui i diritti d’uso della terra sono
cruciali e devono esser tenuti sotto controllo nel corso del tempo.
Poiché l’appartenenza a un dato lignaggio passa per linea diretta da padre o madre in figlio/a, i
lignaggi possono perdurare nel tempo e, in un certo senso, godono di un’esistenza indipendente,
perché durano fintantoché le persone possono ricordare da chi discendono. La maggior parte dei
lignaggi ha una profondità temporale di circa cinque generazioni: nonni, genitori, Ego, figli e nipoti.
Quando gli appartenenti a un gruppo ritengono di non riuscire più a specificare con precisione le
connessioni genealogiche che li collegano, è però ritengono di essere “in qualche modo” collegati,
allora si ha quello che gli antropologi chiamano clan.
Il clan è costituito di soito da lignaggi che i membri della società considerano imparentanti tra loro
tramite vincoli che risalgono a tempi mitici. Talvolta si dice che l’antenato comune di un clan sia un
animale vissuto all’origine dei tempi. Il punto importante è che i membri di un lignaggio sono in
grado di specificare tutti i legami generazionali fino a risalire al loro antenato in grado di farlo.
Il clan, pertanto, è più ampio di qualsiasi lignaggio e anche più esteso.
Patrilignaggi
La forma di gran lunga più comune di organizzazione dei lignaggi è il patrilignaggio, che è formato
da tutti gli individui (maschi e femmine) che si ritengono imparentati fra loro per via del legame
con un antenato maschio comune, attraverso una linea di discendenza maschile. Il nucleo
prototipico di un patrilignaggio è la coppia padre-figlio. Di norma le donne che appartengono a un
patrilignaggio lo abbandonano quando si sposano.
Nelle società patrilineari si presuppone l’esistenza di una gerarchia: gli uomini ritengono di essere
superiori alle donne e molte donne sembrano essere d’accordo con questa idea. In queste società
esiste però un’inesplicabile contraddizione di fondo: le donne hanno poco potere, sono estranee
al lignaggio, eppure ne sposano i membri e generano i figli che perpetueranno il lignaggio stesso. Il
futuro del patrilignaggio dipende paradossalmente da persone che non vi appartengono.
Un secondo aspetto paradossale è che le donne devono abbandonare il proprio lignaggio per
procreare la generazione successiva del lignaggio altrui. Ne consegue che in seno alle società
patrilineare la vita delle donne è spesso dilaniata da interessi e lealtà in conflitto tra loro.
Matrilignaggi
Nei matrilignaggi la discendenza viene tracciata tramite al linea femminile anziché quella maschile.
Si tenga presente che in un patrilignaggio i figli di una donna non fanno parte del lignaggio di lei,
mentre in un matrilignaggio i figli di un uomo non fanno parte del lignaggio di lui. Tuttavia alcune
loro caratteristiche rendono i matrilignaggi qualcosa di più di una semplice immagine speculare dei
patrilignaggi.
Innanzitutto, il nucleo prototipico di un matrilignaggio è la coppia sorella-fratello. Un
matrilignaggio può essere quindi definito come un gruppo di fratelli e di sorelle connesse in linea
femminile. I fratelli si sposano fuori dal lignaggio e spesso vanno a vivere con le famiglie delle
mogli, ma conservano un interesse attivo nelle faccende del proprio lignaggio. In secondo luogo,
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l’uomo che conta di più nella vita di un ragazzo non è suo padre (che non appartiene al suo
lignaggio), bensì il fratello di sua madre, dal quale il ragazzo riceverà l’eredità del lignaggio. In
terzo luogo, l’effettivo potere esercitato dalle donne nei matrilignaggi rimane una questione
ancora ampiamente dibattuta in antropologia. Il matrilignaggio non coincide con il matriarcato
(una società governata dalle donne): i fratelli mantengono spesso i nel lignaggio quello che sembra
essere un interesse per il controllo. Alcuni antropologi sostengono che i membri maschi di un
matrilignaggio ne hanno la guida effettiva, anche se le donne godono di maggiore autonomia nelle
società matrilineari rispetto a quelle patrilineari. In altre parole, l’esercizio quotidiano del potere
tende a essere praticato dai fratelli e qualche volta dai mariti.
Le prove etnografiche suggeriscono che i matrilignaggi debbano essere esaminati sulla base di
un’analisi caso per caso.
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Che cosa sono i sodalizi?
I sodalizi sono “raggruppamenti a scopi speciali” che possono essere organizzati in base all’età, al
sesso, al ruolo economico all’interesse personale. I sodalizi svolgono funzioni molto diverse, tra cui
funzioni di sicurezza, militari, mediche, iniziatiche, religiose e di svago. Le attività di alcuni sodalizi
sono segrete, quelle di altri invece pubbliche. I sodalizi fra uomini sono più numerosi e meglio
organizzati di quelli fra donne e, generalmente, le loro attività sono più riservate ed esclusive.
Molte società egualitarie hanno sviluppato sodalizi fondati su istituzioni formali di parentela al fine
di creare società immaginate con finalità di più ampia portata. I membri dei sodalizi, come le
società segrete dell’Africa occidentale, assumono ordinariamente la responsabilità di svolgere
varie funzioni pubbliche di natura rituale o di governo. L’appartenenza a tali sodalizi segna spesso
l’ingresso nell’età adulta e può collegarsi a riti iniziativi.
In nessuna parte del mondo il matrimonio è sinonimo di accoppiamento. Nella maggior parte delle
società esige la partecipazione e il sostegno dei più ampi gruppi sociali ai quali gli sposi
appartengono, prima di tutto e soprattutto le loro famiglie. Matrimonio e famiglia sono due
termini che gli antropologi usano per illustrare in che modo le diverse società concepiscono e
organizzano l’accoppiamento e le sue conseguenze.
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Anche il matrimonio con un defunto, o matrimonio con il fantasma, è un’usanza dei Nuer: si
verifica quando una donna sposa un uomo morto senza figli. Le funzioni di marito le svolge in
realtà un uomo vivo e vegeto, che però è soltanto il padre biologico dei figli concepiti con la
donna, perché il padre legale è il defunto, la cui famiglia ha fatto un dono alla famiglia della sposa
di un insieme di beni, detti “ricchezza della sposa”, costituiti da capi di bestiame.
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Un coniuge, molti coniugi
Il numero dei coniugi che una persona può avere varia da cultura a cultura:
Monogamia è una forma di matrimonio che consente di avere un solo coniuge alla volta.
Poligamia permette a una persona di avere più di un coniuge, all’interno di questa
possiamo avere alcune sottocategorie: la Poliginia: il numero di mogli che un uomo può
avere è variabile; la Poliandria: più rara una donna può sposare più fratelli. In altre, può
sposare uomini che non sono imparentati. A volte una donna può sposare più uomini non
imparentati fra loro, ma abiterà soltanto con quello che ha sposato per ultimo.
Poliandria adelfica: tradizionale prototipo antropologico della poliandria è stato osservato presso
alcuni gruppi del Nepal e del Tibet, dove un gruppo di fratelli sposa la stessa donna, dando vita a
quella che si definisce poliandria adelfica. Durante il matrimonio uno dei fratelli, di solito il più
vecchio, assume il ruolo dello sposo. Attraverso tali nozze tutti i fratelli risultano sposati. La moglie
e i suoi mariti vivono insieme, in genere secondo l’uso patrilocale. Tutti i fratelli hanno eguale
accesso sessuale alla moglie e si comportano come padri nei confronti dei figli. Fra gli uomini si
registra apparentemente scarsa gelosia sessuale e i fratelli manifestano un forte senso di
solidarietà. Se la mogie si rivela sterile, i fratelli potranno sposarne un’altra nella speranza che
possa essere fertile. Tutti i fratelli hanno eguale accesso sessuale alla nuova moglie e sono tutti
trattati come padri dai figli di lei. Nelle società che praticano la poliandria adelfica si può preferire
o premettere il matrimonio con sorelle (o poliginia sororale). In questo sistema, un gruppo di
fratelli potrebbe sposare un gruppo di sorelle.
Poliandria associata: si riferisce a un sistema in cui la poliandria è aperta a uomini che non sono
necessariamente fratelli. La forma meglio descritta riguarda lo Sri Lanka dove fra i cingalesi una
donna può sposare due uomini, ma raramente più di due. A differenza della poliandria adelfica,
che comincia come un’impresa collettiva, la poliandria associata cingalese comincia in forma
monogamica. Il secondo marito verrà accolto solo in seguito. Inoltre, un’altra differenza sta nel
fatto che nella poliandria associata il primo marito rappresenta il marito principale in termini di
autorità. I due mariti vengono entrambi considerati padri di tutti i figli generati dalla donna.
Questo sistema permette molte scelte individuali. Per esempio, i due mariti e la loro moglie
possono decidere di includere nel matrimonio un’altra donna, spesso sorella della moglie. Il loro
gruppo domestico diventa così, allo stesso tempo, poliginico e poliandrico, un modello
matrimoniale noto come poliginandria.
Che cos’è una famiglia? La definizione minima di famiglia è che essa consiste in una donna e nei
figli che dipendono da lei. Mentre alcune definizioni antropologiche richiedono la presenza di un
maschio adulto, imparentato per matrimonio o per discendenza (marito o fratello, per esempio),
recenti studi femministi e di primatologia hanno messo in discussione questo requisito. Di
conseguenza alcuni antropologi preferiscono distinguere la famiglia coniugale, basata sul
matrimonio e formata, al suo livello base, da un marito e una moglie (coppia disposi) e dai loro
figli, dalla non coniugale che consiste in una donna e nei suoi figli. In questo secondo caso il
marito/padre può essere presente solo occasionalmente oppure del tutto assente.
Le famiglie cambiano nel corso del tempo. Hanno un ciclo di vita e una durata. La stessa famiglia
assume forme diverse e offre ai suoi componenti occasioni differenti di interazione nei diversi
momenti del suo sviluppo. Nuove famiglie si formano e vecchie famiglie mutano attraverso il
divorzio, i matrimoni successivi, la partenza dei figli e la rottura di famiglie estese. La maggior parte
delle società consente la separazione delle coppie sposate.
Negli ultimi anni gli antropologi hanno constatato l’emergere, negli Stati Uniti, di un nuovo tipo di
famiglia: la famiglia allargata. Tale famiglia si crea quando persone precedentemente divorziate o
rimaste vedove si risposano portando con sé il figli dei loro precedenti matrimoni. Le dinamiche
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interne a queste nuove famiglie possono assomigliare a quelle delle famiglie poliginiche, dal
momento che le relazioni dei figli tra loro e con ciascun genitore possono essere complesse e
rinegoziate nel tempo.
Il genere
La ricerca antropologica sulle questioni concernenti il sesso e il genere si è ampliata
enormemente, soprattutto attraverso i lavori di antropologhe femministe. Gli antropologi hanno
inizialmente definito il genere come la costruzione culturale fatta di credenze e comportamenti
considerati appropriati per ciascun sesso.
La ricerca si è focalizzata non solo sui ruoli produttivi e sulla sessualità, ma anche sulla questione
della disuguaglianza di genere. Dagli anni Settanta le antropologhe femministe cominciarono ad
analizzare con attenzione i dati etnografici per stabilire se il dominio maschile fosse una
caratteristica di tute le società umane.
I primi risultati sembravano suggerire che il dominio maschile fosse un fatto universale. Tuttavia
furono in grado di dimostrare che i ruoli di uomini e donne all’interno della famiglia - e perfino
l’idea stessa di ciò che poteva essere considerato una “famiglia” – variava enormemente sul piano
storico e su quello interculturale. Ne conclusero che la “famiglia nucleare” costituita da padre,
madre e figli fosse ben lontana dall’essere un modello universale.
La classe
In generale le classi sono gruppi sociali ordinati gerarchicamente e definiti su base economica. Le
classi sociali di rango superiore hanno un accesso sproporzionatamente elevato alle fonti di
ricchezza.
Il concetto di classe ha seguito due diverse linee di sviluppo nella moderna antropologia: una
derivante dall’Europa, l’altra dagli Stati Uniti. Gli studiosi di scienze sociali europei vivevano in Stati
caratterizzati da una lunga storia di divisioni in classi sociali che risaliva al Medioevo e anche prima.
In base alla loro esperienza le classi sociali erano gruppi relativamente chiusi e ben consolidati. La
rivoluzione industriale e la Rivoluzione francese portarono con sé la promessa di porre fine ai
privilegi oppressivi della classe dominante e di rendere uguali per tutti le possibilità di accesso alla
ricchezza. Nell’Europa del XIX secolo le divisioni in classi non scomparvero affatto, semplicemente
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modificarono i loro confini. Es. agli aristocratici feudali erano subentrati i capitalisti borghesi. Ai
contadini delle aree rurali, la classe operaia urbana.
Marx definisce le classi in base ai differenti rapporti che i loro membri hanno con i mezzi di
produzione.
In molte società stratificate studiate dagli antropologi la possibilità che emerga una solidarietà di
classe fra i contadini o gli operai viene messa concretamente a rischio dall’istituzione della
clientela. La clientela designa una varietà di rapporto che hanno tutti, come caratteristica comune,
l’ineguaglianza di status delle persone associate. La clientela è una relazione fra individui piuttosto
che fra gruppi. La parte ha uno status superiore è il patrono, l’altra il cliente. Le società stratificate
unite da vincoli di clientela possono essere molto stabili. I clienti con uno status basso credono che
la loro sicurezza dipenda dal trovare un individuo con uno status elevato che possa proteggerli.
La concezione d classe di Marx è chiaramente diversa dall’dea di egemonia di classe presente negli
Stati Uniti. Per generazioni il “sogno americano” è stato che, negli Stati Uniti, tutti gli individui
potevano perseguire ricchezza, potere e prestigio. Di conseguenza, molti studiosi di scienze sociali
formatisi negli Stati Uniti hanno avuto la tendenza a definire le classi sociali principalmente in
termini di livelli di reddito, sostenendo che queste fossero porose e permeabili, piuttosto che
esclusiva.
La promessa del sogno americano non si è però realizzata per tutti coloro che vivono negli Stati
Uniti. Nella prima parte del ventesimo secolo gli studiosi di scienze sociali, sia neri che bianchi,
giunsero alla conclusione che una rigida “barriera del colore” impediva una mobilità sociale
ascendente ai cittadini di origine africana.
La casta
Il vocabolo “casta” è di origine portoghese e rimanda all’idea di qualcosa di “casto”. Gli esploratori
portoghesi lo applicarono ai sistemi stratificati con cui vennero a contatto nell’Asia meridionale nel
corso del quindicesimo secolo. Casto nel senso che erano proibiti i legami sessuali o maritali che
travalicano i confini dei gruppi. In termini antropologici si dice che le caste erano endogamiche e
molti antropologi sono concordi nel ritenere che casta sia fondamentalmente una forma di
parentela.
Le caste in India. Nel termine casta, per come è usato dalla maggior parte degli studiosi
occidentali, confluiscono due diversi concetti proveniente dall’Asia meridionale. Il primo concetto,
espresso dal termine varna, si riferisce alla nozione ampiamente diffusa secondo cui la società
indiana è idealmente suddivisa in sacerdoti, guerrieri, agricoltori e mercanti; il secondo concetto,
espresso dal termine jati, si riferisce a gruppi localizzati, dotati di un nome ed endogamici.
Sebbene i nomi degli jati corrispondano spesso a mestieri (per esempio agricoltore, salinaio) non
esiste alcun modo accettato di raggruppare i molti jati locali all’interno dell’uno o dell’altro dei
quattro varna, motivo per cui i membri degli jati possono non concordare fra loro rispetto al varna
a cui dovrebbe appartenere il loro jati. In ogni caso le divisioni in varna sono di natura più teorica,
mentre jati è il termine più significativo nei contesti locali di villaggio in cui gli antropologi hanno
tradizionalmente compiuto le loro ricerche sul campo.
Gli jati si distinguono anche in base ai cibi che i loro membri possono mangiare. Nelle credenze
indù, certi cibi e certe occupazioni sono classificati come puri, altri invece come contaminati. In
teoria tutti gli jati vengono classificati su una scala che va dal più puro al meno puro.
Al livello più alto vi sono i Bramini vegetariani, che sono tanto puri da avvicinarsi alle divinità. Gli
jati di rango più basso (scalpellini, fabbricanti di ceste, conciatori, sono tutti mangiatori “impuri” di
carne. Gli jati che per tradizione effettuano attività quali la macellazione o il lavaggio di indumenti
sporchi sono classificati al di sotto degli jati il cui lavoro tradizionale non implica attività
contaminanti. I membri di jati differenti non dovrebbero mangiare insieme.
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Un elemento chiave riconosciuto da tutti gli antropologi che ricorrono al concetto di casta è
l’endogamia imposta, almeno in teoria, ai membri di ciascun gruppo gerarchizzato.
La razza
Il concetto di razza si sviluppò nel contesto delle esplorazioni e delle conquiste europee,
cominciate nel XIV secolo. Gli europei sottomisero i popoli indigeni delle Americhe e stabilirono
economie politiche coloniali. Alla fine del XIX secolo gli europei dalla pelle chiara avevano stabilito
un dominio coloniale su vasti territori abitati da popolazioni di pelle scura. Stabilirono che la specie
umana era suddivisa in “tipi naturali” di esseri umani definiti “razze”, le quali potevano essere
nettamente distinti l’una dall’altra in base all’aspetto fisico (o fenotipico).
Gli antropologi biologici contrappongono l’eredità genetica di un organismo, o genotipo, al suo
aspetto esteriore osservabile, o fenotipo, che viene determinato tanto da influenze ambientali
quanto da fattori genetici.
La razza come categoria sociale. Nella seconda metà del XIX secolo i pensatori europei, compresi
molti tra i primi antropologi, inventarono schemi per classificare gerarchicamente le “razze
dell’umanità”. Non sorprende che i “bianchi” nordeuropei, all’apice del potere imperiale, fossero
collocati in cima alla gerarchia globale. Gli abitanti indigeni delle Americhe e dell’Asia, vennero
classificati in un qualche punto a livello intermedio, gli africani che gli europei avevano comprato e
venduto come schiavi furono collocati al livello più basso di tutti.
In questo modo, l’identificazione delle razze si trasformò in razzismo. E’ improntante sottolineare
ancora una volta che tutte le cosiddette razze sono comunità immaginate.
Nonostante la nostra specie nel complesso mostri ampie variabilità negli attributi fenotipici queste
variazioni non confluiscono naturalmente in popolazioni diversificate, dotate di confini stabili che
permettano di distinguerle in maniera inequivocabile. Il tradizionale concetto di razza della
società occidentale è privo di significato sia sul piano biologico che genetico. Eppure il pensiero
razzista perdura anche all’inizio del XXI secolo. Ciò può solo significare che le categorie razziali
hanno origine non nella biologia ma nella società.
L’etnicità
Per gli antropologi i gruppi etnici sono gruppi sociali i cui membri distinguono se stessi (e/o
vengono distinti dagli altri) in termini di etnicità, vale a dire riferendosi a caratteristiche culturali
distinte come la lingua, la religione o il modo di vestire. Come la razza, l’etnicità è un concetto
culturalmente costruito.
L’etnicità si sviluppa nel momento in cui i membri di gruppi differenti tentano di dare un senso agli
ostacoli materiali che incontrano all’interno della specifica struttura politica in cui sono confinati.
Tale fenomeno è descritto talora come una lotta fra l’autoascrizione (cioè gli sforzi degli interni
per definire la prioria identità) e l’eteroascrizione (cioè gli sforzi degli esterni per definire le
identità di altri gruppi). Il gruppo dominante trasforma se stesso e i gruppi subordinati in classi,
perché tutti i raggruppamenti sociali subordinati perdono l’indipendenza nel controllo dei “mezzi
di produzione e/o riproduzione”.
Un risultato di questa lotta è la scomparsa di nuovi gruppi etnici e di nuove identità etniche, che
non sono in continuità con alcun singolo gruppo culturale preesistente.
Etnicità e razza
La razza differisce dall’etnicità perché viene usata per “marcare e stigmatizzare certe persone
come diverse in modo sostanziale e irreconciliabile, mentre i privilegi degli altri sono trattati come
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normativi. Questa qualità della differenza, sia essa costruita tramite un idioma biodeterministico
oppure culturalistico, è ciò che costituisce la categoria sociale e il fenomeno materiale di “razza”.
Si è sostenuto che a partire dalla metà del XIX scolo i bianchi nordeuropei collegando il proprio
crescente potere coloniale al fatto di essere bianchi, cominciarono a razzializzare gli sierotipi
etnici, religiosi o di classe associati ad altri europei (es. irlandesi, ebrei, italiani, polacchi, slavi)
giudicandoli meno umani o comunque diversamente umani e attribuendo tale differenza a fattori
ereditati per via biologica.
Nazionalità e nazionalismo
La costrizione dei primi stati nazionali è strettamente associata all’ascesa e ala diffusione del
capitalismo e delle istituzioni culturali ad esso correlate, avvenuta nel corso del diciannovesimo
secolo. L’ideologia dello stato nazionale implica che ogni nazione abbia diritto al proprio stato.
I leader nazionali misureranno l’affidabilità e la lealtà dei cittadini dalla fedeltà con cui questi
riproducono (o si rifiutano di riprodurre) le pratiche culturali che definiscono l’identità nazionale.
Gli antropologi ritengono che ciò che viene considerato benessere, come pure il suo contrario, sia
in gran parte plasmato dalle esperienze e dalle aspettative culturali, sociali e politiche delle
persone. Un numero crescente di antropologi applica prospettive e pratiche tratte da vari settori
dell’antropologia nel tentativo di comprendere i problemi sanitari affrontati dai membri di molte
comunità in cui lavorano. Quest’area è solitamente chiamata antropologia medica. Gli antropologi
medici sono stati profondamente influenzati dalle scoperte della medicina e della scienza
occidentali. Gli antropologi medici hanno sviluppato un vocabolario tecnico che non presuppone
l’universalità delle concezioni biomediche (= le forme occidentali della conoscenza e della pratica
medica basate sulla scienza biologica) di salute e disease (= forma di indebolimento biologico
identificata e spiegata nell’ambito della biomedicina). Per esempio preferiscono usare il termine
sofferenza (= le forme di disagio fisico, mentale o emotivo sperimentate da individui che possono
o meno riconoscersi nelle concezioni biomediche della malattia – disease -) per descrivere le forme
di disagio fisico, mentale emotivo sperimentato dagli individui che possono o meno riconoscersi
nelle concezioni biomediche di disease.
Gli antropologi medici hanno usato spesso il termine sickness (= classificazione del disagio fisico,
mentale ed emotivo sperimentato da individui che può riconoscersi nelle concezioni biomediche
della malattia – disease -). A volte le sickness possono presentare una notevole somiglianza con le
disease ma altre volte la sickness può essere specifica di un particolare gruppo culturale in
quest’ultimo caso si parla di cultural-bound syndromes (= le sickness – e le terapie per alleviarle –
che possono essere specifiche di un particolare gruppo culturale). Infine gli antropologi medici
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contrappongono sia la concezione biomedica della disease sia le categorie culturali locali della
sickness alla concezione che la singola persona sofferente ha del proprio disagio, cui viene dato il
nome di illness (= concezione che la persona sofferente ha del proprio disagio).
La prospettiva antropologica ha sempre enfatizzato il fatto che gli adattamenti biologici umani
agli ambienti fisici sono mediati dalla pratiche culturali. Alcuni antropologi si sentono a loro agio
parlando di evoluzione biologica e culturale, e concentrano l’attenzione sui contesti evolutivi
biologici e culturali della malattia (sickness) e della salute umana.
Gli antropologi medici che studiano i modelli di salute e malattia (sickness) in popolazioni umane
differenti possono aver ricevuto una formazione in antropologia biologica o in medicina ed essersi
specializzati in discipline come la demografia – lo studio statistico delle popolazioni umane – o
l’epidemiologia, che raccoglie informazioni sulla distribuzione delle malattie (disease) nelle
popolazioni umane e cerca le spiegazioni di tali distribuzioni.
Gli antropologi medici che cercano di comprendere la salute e la malattia (sickness) umane nel
contesto dell’evoluzione usano talvolta il concetto di adattamento: un aggiustamento da parte di
un organismo (o di un gruppo di organismi) che lo aiuta a fronteggiare sfide ambientali di vario
tipo. Gli antropologi medici sono particolarmente interessati ai casi in cui vi siano forti evidenze
del fatto che le pratiche culturali umane hanno influenzato la selezione naturale dei geni che
producono effetti sulla salute. Tali pratiche devono dunque essere concepite come adattamenti
biculturali. L’esempio più conosciuto è quello dell’anemia falciforme (pg. 364), una grave malattia
che riguarda persone residenti negli Stati Uniti con antenati proveniente dall’Africa. L’anemia
falciforme si manifesta quando un individuo nasce con due coppie di una variante mutante del
gene che codifica per l’emoglobina, una delle proteine presenti nei globuli rossi. La variante
mutante in questione altera la struttura dei globuli rossi, distorcendoli in una caratteristica forma a
falce e riducendo la loro capacità di trasportare ossigeno.
L’attenzione alla violenza strutturale e ai fattori sindemici mostra come l’antropologia medica sia
capace di contestualizzare le esperienze di malattia e salute in diversi luoghi del mondo, in termini
che vanno ben oltre le esperienze di malattia individuali e le sindromi culturalmente caratterizzate.
Le conseguenze della cattiva salute per coloro che occupano il gradino più basso di gerarchie
diseguali sono sindemiche, dal momento che interagiscono l’una contro l’altra in modi che
intensificano la sofferenza. Per queste ragioni molti antropologi medici svolgono ricerche tese a
dimostrare come le esperienze individuali e locali, e così pure le interpretazioni della sofferenza si
ineriscono in contesti storici e politici più ampi.
I contesti più ampi da prendere in considerazione sono prima di tutto quelli storici. I processi
storici della dominazione coloniale europea e dell’istituzione della schiavitù su base razziale in
luoghi come il Brasile e Haiti (e gli Stati Uniti), per esempio, hanno preparato il terreno per le
diseguaglianze che sarebbero seguite anche dopo la fine degli imperi coloniali e l’abolizione della
schiavitù.
Gli antropologi hanno posto l’attenzione su diversi fattori che influenzano la salute delle donne in
relazione alla procreazione. Molti studi formali sulla fertilità condotti da agenzie governative o da
autorità biomediche si sono preoccupati esclusivamente delle sfide poste dalla crescita della
popolazione in molte delle società più povere perché riducessero il numero dei figli messi al
mondo. Gli antropologi medici hanno avuto un ruolo essenziale nello spostare l’attenzione sulle
sfide che l’infertilità pone alle donne che vivono nelle società con particolari strutture familiari e
di genere. In società come quella cinese, dove la discendenza segue tradizionalmente la linea
maschile e la proprietà, insieme allo status, si trasmette attraverso lignaggi di uomini imparentati
tra loro, le donne che non riescono a dare figli al loro marito possono essere viste come bocche in
più da sfamare e possono trovarsi totalmente sole quando i mariti muoiono e non hanno nessun
figlio che si occupi di loro nella vecchiaia.
Molti antropologi medici hanno condotto indagini sulle condizioni nelle quali le persone con l’AIDS
tentano di sopravvivere, specialmente quando sono povere. Secondo l’Organizzazione Mondiale
della sanità, nel 2013 erano infettate da HIV 34 milioni di persone in tutto il mondo. Terapie
efficaci per l’AIDS a base di antiretrovirali furono sviluppate per la prima volta alla fine degli anni
Ottanta, ma questi farmaci avevano dei costi proibitivi.
Di fronte a una crisi sanitaria di proporzioni inimmaginabili in Brasile i malati di AIDS unirono le
forze e si organizzarono politicamente per chiedere allo stato di riconoscere la salute come un
diritto umano e di impedire che il costo dei farmaci privasse di una terapia efficace i malati di AIDS
più poveri. Biosocialità è il termine che gli antropologi medici utilizzano per descrivere le identità
sociali che si basano su una diagnosi medica condivisa. In anni recenti, gruppi di pazienti come
quelli con diagnosi di AIDS hanno rivendicato un’identità biosociale condivisa e si sono riuniti
attorno a questa identità per impegnarsi in ciò che gli antropologi medici chiamano attivismo per
la salute, allo scopo di chiedere che lo stato si faccia carico di trovare i fondi per le medicine
(esempio Brasiliano), o che finanzi le ricerche che potrebbero consentire di trovare uan cura per la
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loro malattia. Gli antropologi medici descrivono un attivismo per la salute di questo tipo come un
tentativo di affermare una cittadinanza biologica che consiste nell’obbligare i governi a prestare
attenzione ai bisogni sanitari dei propri cittadini e intervenire in loro sostengo.
In Brasile, gli attivisti malati di AIDS furono affiancati ad numerosi altri attori (funzionari pubblici,
agenzie non governative per lo sviluppo e case farmaceutiche brasiliane) ed insieme riuscirono a
sfidare con successo le politiche dei prezzi messi in atto dalle compagnie farmaceutiche.
Gli antropologi definiscono globalizzazione il rimodellamento delle condizioni di vita locali a opera
di potenti forze globali che agiscono su scala sempre più vasta e con intensità crescente, e che
molti dei tentativi di comprende la globalizzazione sono stati favoriti dall’identificazione, da parte
di Arjun Appadurai, di cinque flussi globali di rilevanza cruciale:
flussi di ricchezza,
di tecnologia,
di persone,
di immagini,
di ideologia.
Sebbene tali flussi fossero già esistenti in passato, con la fine della Guerra fredda, la novità è stata
che essi non sono stati coordinati ma si sono scatenati in modi disorganizzati e imprevedibili. Quasi
un quarto di secolo dopo, gli effetti di questi flussi si sono fatti sentire in ogni parte del mondo. Il
risultato è che le etnografie contemporanee continuano a investigare i complessi modi in cui i
processi globali si articolano con le particolari caratteristiche locali.
Analizziamo i processi della globalizzazione culturale nella loro complessità e come implicano
sempre la mescolanza selettiva di caratteristiche globali e locali da parte delle popolazioni locali.
Gli antropologi mettono in discussione il luogo comune secondo cui la diffusione della cultura
capitalistica occidentale spazza via inevitabilmente tutte le altre forme di cultura con cui entra in
contatto.
L’imperialismo culturale
Una spiegazione elaborata durante la Guerra fredda fu quella dell’imperialismo culturale basata su
due nozioni:
questa visione afferma che alcune culture ne dominano altre. Nella storia recente la cultura
(o le culture) dell’Europa e degli Stati Uniti, ovvero l’”Occidente”, sono arrivate a dominare
tutte le altre culture del mondo. A causa della diffusione del colonialismo e del capitalismo.
si dice che il dominio culturale da parte di una sola cultura porti inevitabilmente alla
distruzione delle culture subordinate e alla sostituzione con quelle che detiene il potere.
Insoddisfatti degli argomenti basati sull’imperialismo culturale, gli antropologi anno cominciato a
ricercare modi alternativi per interpretare i flussi culturali globali.
Sin dai tempi di Boas gli antropologi hanno riconosciuto l’importanza del prestito culturale e
hanno messo in evidenza il fatto che l’assunzione di forme e pratiche culturali da qualsiasi luogo
arrivino comporta sempre un prestito con modifica.
Le persone non adottano alla cieca ciò che hanno preso in prestito ma lo adattano sempre a
finalità locali. Il prestito con modifica comporta sempre una personalizzazione di ciò che si è preso
in prestito per far sì che soddisfi i propri scopi, i quali possono essere anche molto lontani da quelli
di coloro che hanno dato origine a una certa usanza o pratica. L’addomesticazione o
l’indigenizzazione delle forme culturali provenienti dall’esterno consentono sia di fare cose vecchi
in modi nuovi, sia, al tempo stesso, di lasciare aperta la possibilità di fare cose nuove.
Ibridazione culturale: la decisione di rivisitare o di scartare qualcosa, prenderla in prestito o
inventarla in base alle proprie scelte, vuole anche dire che si possiede un’agency, ovvero la
capacità di esercitare una qualche forma di controllo sulla propria vita. Esercitare l’agency allora
mette in discussione le posizioni secondo cui non si può che soccombere all’imperialismo culturale
o perdere la propria “autenticità” culturale.
Il fatto problematico, però, è che l’ibridazione culturale vien percepita come minacciosa oppure
non minacciosa a seconda dei modi in cui si viene a contatto con essa.
A causa delle differenze di potere tra i gruppi, messi alla prova dall’ibridazione culturale, qualsiasi
contesto “multiculturale” globalizzato rivela processi attivi di mescolanza culturale insieme alla
difesa di identità culturali distinte che sembrano resistere all’ibridazione. La minaccia è massima
per coloro che hanno in assoluto meno potere, poiché non si sento in grado di controllare le forme
di mescolanza culturale che minacciano di compromettere le fragili strutture di sopravvivenza da
cui dipendono in un contesto multiculturale ostile.
I flussi incontrollati di persone che si spostano in tutto il mondo sono stati una delle principali
conseguenze seguite alla diffusione del capitalismo su scala globale dopo lo fine della Guerra
fredda.
I flussi di capitali, immagini, persone, cose e ideologie innescati dalla globalizzazione hanno minato
la capacità degli stati nazionali di presidiare efficacemente i propri confini. I governi non hanno
sostanzialmente alcun potere di controllo su ciò che i propri cittadini leggono o guardano alla
televisione. Gli stai nazionali permetto ai migranti, agli studenti e ai turisti di attraversare i loro
confini e così facendo devono fare i conti con i valori politici, con le convinzioni religiose o con le
famiglie che gli stranieri portano con sé.
Cittadinanza di transconfine = gruppo formato da cittadini di un paese che continuano a vivere in
patria e dalle persone emigrate con loro discendenti, a prescindere dalla loro attuale cittadinanza.
Stati e cittadinanza di transconfine sono più che identità simboliche: si sono concretizzati in leggi
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(per esempio, parecchi paesi latinoamericani, ( Messico, Colombia, Brasile, …), permettono agli
emigranti che sono diventati cittadini naturalizzati di paesi come gli Stati Uniti di conservare la
doppia nazionalità e perfino i diritto di voto nel loro paese d’origine. Si istituiscono anche speciali
ministeri per tener conto delle necessità dei cittadini che vivono all’estero.
Cittadinanza legale = diritti e obblighi di cittadinanza stabiliti dalle leggi di uno stato. La
cittadinanza legale viene concessa dalle leggi dello stato e per i migranti può essere difficile da
ottenere. Di contro la cittadinanza sostanziale è definita dalle azioni che le persone
intraprendono, a prescindere dal loro status sul piano della cittadinanza legale, per affermare la
propria appartenenza allo stato e per portare avanti quei mutamenti politici che miglioreranno le
loro vite.
L’Europa è divenuta un laboratorio vivente per lo studio di alcuni dei più complessi processi
sociali e culturali riscontrabili nel mondo. Durante la seconda metà del ventesimo secolo i paesi
europei (tra cui l’Italia) sono stati la meta di grandi ondate migratorie da ogni parte del mondo.
L’Italia è una delle più recenti destinazioni delle ondate migratorie verso l’Europa, invertendo la
sua esperienza storica di paese fonte di migrazione, piuttosto che destinazione.
La seconda implica l’idea che un fondamentale diritto umano universale sia proprio il
diritto alla cultura. Tutti i popoli hanno il diritto umano universale di conservare le proprie
specifiche culture. Il diritto alla cultura è già stato esplicitato in numerosi documenti
internazionali dedicati ai diritti.
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Utilizzare il concetto di cultura come strumento per analizzare i diritti umani vuol dire ricercare
“modelli e relazioni di significato e di pratica tra domini diversi della vita sociale” che siano
caratteristici dei diritti umani. Dato che tali diritti vengono articolai in documenti legali e dibattuti
nelle corti di giustizia, uno dei modelli più importanti che si evidenziano nella cultura dei diritti
umani è il modo in cui tali diritti si conciliano con la legge. Considerando la legge sui diritti umani
come una cultura, ci si rende conto che sono ammissibili soltanto certi tipi di rivendicazioni. La
cultura dei dritti umani è più adatta a riparare le ingiustizie subite dagli individui che non dai
gruppi. Inoltre offre rimedi tecnici, non etici, e mette l’accento sui diritti più che sui doveri o le
necessità.
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