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Bellezza Poesie

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Il libro

«I l miglior poeta della nuova generazione»: così Pier Paolo


Pasolini salutava l’esordio di Dario Bellezza, nel 1971,
con la raccolta Invettive e licenze, che da subito riscosse
un grande interesse nella critica e accese nel pubblico un vivace
dibattito. E con Invettive e licenze si apre questo volume che, per
la prima volta, riunisce tutti gli otto libri pubblicati da Bellezza
fino a Proclama sul fascino apparso nel 1996, pochi giorni dopo la
scomparsa dell’autore. Ai versi editi fa seguito un’appendice di
testi dispersi, alcuni inediti, e che vuole offrire uno stimolo per
accostare nuovi lettori alla produzione di uno dei poeti più
controversi e ricchi di fine Novecento. L’attenta e partecipe
curatela di Roberto Deidier, che di Dario Bellezza fu amico,
consente non solo di inquadrare ogni testo nel momento in cui fu
scritto, ma anche e soprattutto di cogliere il senso di un itinerario
poetico globale e coerente, percorso da una tensione palpabile tra
realtà e finzione, tradizione e trasgressione. Come in una tela
caravaggesca, la poesia di Bellezza trova nel tema dell’eros e del
corpo, sospeso tra incanto e sregolatezza, la sua più genuina,
dirompente espressione.
Dario Bellezza

TUTTE LE POESIE
A cura di Roberto Deidier
Introduzione
«La fine dell’amore dopo l’amore»
di Roberto Deidier

Ogni ossessione genera contrasti, più o meno feroci o


invasivi: si viene sempre a creare una pericolosa terra di
nessuno tra il dominio del principio di realtà e le spinte
centrifughe di un principio opposto. Non è detto che sia il
principio di piacere, e certo non lo è stato sempre, per
Dario Bellezza. Che si tratti di inseguire i sensi, o di
rispondere a una pulsione indefinibile, l’ossessione devia la
nostra percezione del mondo: la vita si fa intimamente
ambigua. Nei suoi versi questa tensione è palpabile: si
avverte già, nei componimenti più ampi, nella cantilena del
ritmo, nel nervosismo del fraseggio.
Il campo che si disegna è delimitato non solo dalla realtà,
da un lato, e dall’altro dalla finzione – ciò che
semplificherebbe sia il ruolo del lettore e il compito
dell’interprete, sia la dinamica stessa dell’officina di
Bellezza –, ma anche dal modo in cui la realtà quotidiana è
filtrata dall’esperienza ancora prima che dalla scrittura. A
chiudere questo spazio letterario così fascinosamente
ombroso e asfittico, infine, è la proiezione dell’io lirico
come protagonista di un teatro della passione erotica,
l’amletica rappresentazione di sé tra retaggio cattolico,
abito piccolo-borghese, trasgressione, rottura di ogni
schema sociale.
Da qualsiasi punto la osserviamo, la poesia di Bellezza
appare in fuga, o meglio si costruisce e si atteggia come
una fuga. Come un tentativo di fuga, a veder bene, se una
certa pesantezza della struttura impedisce movimenti
troppo verticali, sollevamenti repentini del senso, scarti
ritmici, almeno fino agli ultimi due libri, L’avversario e
Proclama sul fascino. Eppure, nonostante il suo movimento
più autentico sembri essere quello del nascondimento
orizzontale piuttosto che quello dello scandaglio, in
un’incessante altalena di simulazione e dissimulazione,
nessuna prospettiva è in grado di incorniciarla e
comprenderla, e inevitabilmente qualcosa si sottrarrà,
come alla visuale in procinto di una curva, di una svolta
inattesa e in ogni caso sorprendente, quanto una voluta
barocca. Tale tortuosità non è un limite, ma è semmai la
forza, la materia più autentica di questo poeta. Così, sia
nello spazio-tempo della gioventù che in quello della
maturità, ciò che può giungere a noi «frettolosi lettori»,
finale declinazione dell’ipocrisia che già ci aveva attribuito
Baudelaire, è solo – e disperatamente, ma fino a che punto?
– un «messaggio invivibile», pervenuto da qualche oscura
regione del mondo fenomenico o della psiche, un dubbio
amletico o un enigma kafkiano. E la sostanza del dubbio è
proprio quella di potersi tramutare in un’ossessione.
Così Bellezza è rimasto prigioniero dello stesso
cortocircuito che ha provocato: l’Amleto che cerca di
corrodere dall’interno, con la sua sola ma rumorosa
presenza, la sonnolenta borghesia romana, è in realtà
l’effigie della stessa dissoluzione in atto di quest’ultima. Ciò
che il poeta vuole rappresentare nel vissuto e nella poesia,
in una coazione al presente, ad agire nell’attualità del
presente, è già avvenuto. La strada dell’eversione, che
passa anzitutto attraverso l’affermazione dell’alterità
sessuale, è percorsa già fuori tempo massimo, mentre
l’onda d’urto della contestazione inizia a perdere il suo
potere corrosivo e la scena nazionale è occupata da più
tragiche tensioni. Nel 1982, quando viene dato alle stampe
Libro d’Amore, la parabola sociale si sta per compiere e già
l’anno successivo alcune poesie di io – e quattro anni più
tardi quelle di Serpenta – parleranno nei toni nostalgici di
una stagione trascorsa, nelle passioni come nei tormenti,
nelle lotte come nelle attese, nelle «licenze» delle recite
come nella verità degli abbandoni. La Roma ruggente della
provocazione, alla quale sono rivolte le «invettive»
dell’esordio, si tramuta improvvisamente in una città
opaca, si mostra infine come una lontana propaggine
dell’impero globale, attraversata da migrazioni fino ad
allora improbabili.
Di maschera in maschera, di ordalia in ordalia, e
attraverso qualche suggestione da Elsa Morante, la sola
enclave possibile resta quella dell’innocenza animale, del
rapporto esclusivo e privilegiato con i gatti. Trattenendosi
sulla soglia di questa ennesima proiezione, a lui negata,
Bellezza ci restituisce con ogni probabilità l’immagine di sé
più densa e credibile; ed è proprio quella negazione a
rendere l’autoritratto una rappresentazione tutt’altro che
mimetica. I gatti, ai quali sono dedicate alcune tra le
migliori poesie, compaiono sulla scena di io come
protagonisti in uno scenario ancora soleggiato e si
mostrano al di qua di ogni portato simbolico. Non stanno
per il poeta, come vorrebbe tutta una tradizione, specie di
marca francese, a cui Bellezza comunque attinge, ma
incarnano direttamente l’istintiva naturalezza di un mondo
creaturale, libero dagli spettri della cultura, e dunque dal
peccato. Se di barocco si può parlare, per quest’autore, è
soprattutto in virtù di quest’anamorfosi, proprio laddove il
dettato sembrerebbe sedarsi in una serie di immagini
pacatamente affettive, in una lingua classicamente meno
atteggiata: è lì che Bellezza si rispecchia in una lente
deformante e lascia trasparire il fondo della sua più
autentica libertà, almeno come aspirazione.
L’altro Bellezza, quello della catarsi erotica, della
corporalità tradita e disillusa, domina invece in un
immaginario generazionale, prendendo di fatto le
consegne, ma solo da questo punto di vista, da Pasolini, che
lo aveva eletto quale miglior poeta tra quelli che si
andavano affacciando, sulla ricca scena a cavallo tra gli
anni Sessanta e Settanta. La coazione all’eros, come
motivo, sembrerebbe stabilire una diretta linea di
discendenza da Penna e dal poeta delle borgate, ma
l’immagine innocente del fanciullo, icona di un desiderio
assoluto prima che di una pulsione, è assente dal suo
orizzonte, frequentato piuttosto da emarginati e da una
sessualità spesso in vendita. Quel tanto di maledettismo,
comunque recitato, che rappresenta il vero artificio
all’interno della psicologia e dell’arte di Bellezza, riconduce
il poeta alle esperienze d’oltralpe, a Rimbaud anzitutto;
sono gli anni, del resto, in cui il simbolismo e lo
sperimentalismo francesi si riaffacciano sulla poesia
italiana, dopo la fioritura ermetica, attraverso nuove
edizioni e traduzioni, processo al quale non è indenne lo
stesso Bellezza. Penna e Pasolini restano, più che mentori,
come ombre remote, vessilli fin troppo spesso citati ed
esibiti dai lettori. Le ascendenze deviano piuttosto verso
altre officine, pur distanti tra loro: la poesia di Amelia
Rosselli, soprattutto agli esordi, per la conduzione della
retorica, le frequenti ripetizioni; quella di Elsa Morante per
la narratività. I versi di Bellezza parlano spesso il
linguaggio, lo stile del Mondo salvato dai ragazzini, portato
sul piano dello scandalo privato e poeticamente collettivo.
L’irregolarità del verso e la sua tonalità cantilenante fanno
pensare proprio a quell’esperienza, così apparentemente
marginale rispetto al canone post-ermetico, eppure vitale, a
testimonianza di un’ulteriore quanto vana discesa nelle
regioni della creaturalità, di un universo offeso dalla Storia;
non è casuale che dopo l’allontanamento dalla Morante, di
cui rimangono tanti lacerti, specie nelle pagine del
romanzo L’amore felice e di Serpenta, irrompa un nuovo
nume tutelare nella persona di Anna Maria Ortese.
All’affabulazione si accompagna ora la visionarietà,
strumento per accedere a una dimensione elementare,
primordiale, governata da leggi implicite e imperscrutabili;
ma le inquietanti allegorie che animano le pagine di
quest’autrice si riducono, in Bellezza, a brevi tableaux
domestici.
Irretito dalle sue stesse proiezioni, la realtà urbana che
gli si prospetta oltre il mondo animale è quella di un
erotismo che non assurge mai a «metafora ossessiva», per
dirla con Mauron, ma che ossessivamente ripete se stesso
in un teatro distruttivo e rovinoso, replicandosi e con ciò
affermandosi come un espediente ontologico: la maschera
sostituisce la persona, il personaggio condiziona il poeta.
Così ricca appare la declinazione di questo tema, e
pervasiva, da indurre il sospetto che l’attrito fra esperienza
e scrittura si sia talmente affievolito in un estremo
dannunzianesimo rovesciato di segno. A D’Annunzio è
dedicata una tesi di laurea mai discussa; e non è forse una
citazione esplicita da La Chimera, dai versi intitolati Al
poeta Andrea Sperelli, a sigillare la poesia d’apertura di
Invettive e licenze, già nel 1971? «Ma non saprai giammai
perché sorrido.»
Questo fantasma di Sperelli, così antieroe e vittima del
suo stesso estetismo, è un antenato plausibile e concreto,
ma resta uno iato tra personaggio e autore; se il primo
fallisce, il secondo, D’Annunzio, si ostina ad andare avanti
in un’infausta sovrapposizione di due dimensioni, arte e
vita, tra la fluidità del vissuto e la fissità del bello eterno.
Alla retorica simbolica e decadente del protagonista del
Piacere, Bellezza ha invece sostituito se stesso, la propria
ingombrante fisicità, l’attraversamento contraddittorio del
proprio istinto, tra colpa e riscatto: una sessualità coatta
che si traduce, in quanto espressione del poeta, in evento
sociale, in atto performativo. Ha traslato l’enigma nel
dubbio e il dubbio, ancora una volta, nell’ossessione.
Il corpo, infine: strumento espressivo, veicolo
rappresentativo, emblema di un Novecento in perdita, tutto
proteso a scandagliare invano nei propri visceri il senso di
quel «messaggio invivibile» che la poesia di Bellezza
riconosce, ma costantemente elude, nel suo incessante
camouflage. Nei suoi versi la fisicità assume le denotazioni
più disparate, fino a recitare il ruolo antagonistico più volte
evocato e infine temuto, quello di richiamo della malattia e
della morte. Ma prima di quest’ultimo, fatale intreccio, in
una sorta di carpe diem che riporta la temporalità di questo
poeta negli angusti confini di un eterno presente che non
vuole e non sa guardare al futuro, né costruirlo, il corpo è
la scena primaria di felicità fugaci ed effimere e di ben più
reali ripudi. Quella stessa fisicità non tarda infatti a
mostrarsi nei caratteri alterni, e ovviamente ossessivi, della
ricerca e dell’incontro, del distacco e dell’assenza. Di
questo incessante teatro dell’eros restano sulla scena
piccoli oggetti, fragili icone, tristi sineddochi di un
avvenimento che appare già superato nel momento stesso
in cui accade, per lasciare il posto a un altro incontro; e
prima di questo, all’inesausto vagare, sola dimensione di
confronto serrato con se stessi e con un desiderio di cui si
teme ogni volta il compiersi, sebbene lo si annunci. Con il
suo atteggiamento Bellezza sfugge a qualsivoglia
cristallizzazione del processo amoroso, assestandosi nel
limbo friabile e imperfetto di un amore che, per affermarsi
come tale, deve rimanere sempre potenziale, possibile e
mai realizzato, perché il personaggio torni a dominare la
persona e la sua lamentosa carica eversiva possa
raggiungere nuovi obiettivi e nuovi lettori su cui
rovesciarsi.
Per questo un poeta come Bellezza vive la corporalità
come scissione: esiste il corpo dell’amante, quindi il corpo
dell’amato, infine il corpo di Amleto. Ed è quest’ultimo a
condizionare fisiologia e ritmi degli altri, a farne costanti
proiezioni di sé sulla scena di una teatralità sempre esibita:
«Ho portato il mio vecchio corpo rotto da malattie / che non
danno più la pace dello Spirito fino al teatro / dove Amleto
carezzava la sua imperatrice madre», leggiamo in Morte
segreta. C’è una straziante sincerità in questa recita, e con
essa l’anelito a una verità impossibile, perché avvertita
come un’utopia sociale: «Non c’è speranza, qui, in questa
Italia / provinciale ad una vita da poeta, cioè / in una vera
società dove il teatro sia / teatro quotidiano di eventi tutti /
scombinati dalla clessidra dei sentimenti», scrive Bellezza
ancora in Morte segreta. È dunque la condizione
pasolinianamente “impoetica” del poeta a scardinare il
nesso barocco tra vita e sueño e a fare della dimensione
drammaturgica il luogo di una verità possibile, dispersa
nella quotidianità del sentimento. In questo senso
l’atteggiamento fondamentale di tutta la scrittura di
Bellezza s’impone sul piano del visivo piuttosto che in
un’ottica concettuale; come osservazione di «eventi» che
però non sono semplicemente registrati da un testimone
attendibile, i suoi versi mimano il proustiano fluire del
sentimento nel tempo (la «clessidra»), ne attestano (o ne
provocano) l’attrito, il rovesciamento, l’imprevisto,
costringendo perfino il tempo a recitare la parte di un
destino.
Dietro tutto questo c’è l’ammissione implicita di una
sovrapposizione tra io, ruolo e personaggio, quale possiamo
registrare proprio nella storia della fisiologia di Bellezza,
nel crudele antagonismo dei suoi corpi. Il corpo del poeta e
quello dell’amato si trovano sempre ai poli estremi di una
scala temporale fittizia: invariabilmente giovane e
prestante il secondo, immancabilmente vecchio, stanco,
appesantito, e soprattutto preda di mali veri e immaginari,
il primo. Il loro incontro, pertanto, è complesso e in realtà
sempre differito in un eterno ritorno impossibile, poiché,
nel frattempo, un altro antagonista, più volte evocato,
interviene a rompere il meccanismo di un corpo ripudiato,
socialmente esecrabile, vittima e carnefice di se stesso: «il
corpo, baldracco / corpo sfiorato dai mille corpi ragazzi», si
confessa, sempre in Morte segreta, come il luogo primario
di quella scissione che scardina la dimensione del
sentimento, rinviandolo, spingendolo fino ai confini estremi
e irraggiungibili della morte. L’enjambement è assai
eloquente, ribadisce l’insoddisfazione dell’eros, fa della
ripetizione il segnale dell’ossessione e soprattutto ci mette
a parte di come Bellezza tenti di risolvere il proprio
sentimento del tempo con una banale operazione
aritmetica: moltiplicando all’infinito i suoi incontri, i suoi
«eventi», in una rincorsa affannosa quanto inutile, come a
voler essere più veloce, sortendo però l’effetto di anticipare
quello che è già contenuto nella sua confessione. Il corpo
sfiorato è infine il corpo sfiorito, consumato negli eccessi,
dai «mille corpi» che restano, per sempre, «ragazzi».
Chiamata sulla scena del proprio dramma come attrice,
la morte giunge invece in tutta la ferocia della sua realtà;
eppure, la sola arma possibile, contro colei che avrebbe
dovuto recitare un ruolo salvifico dalla parte della vita e
invece respinge ogni anelito vitalistico verso il nulla, è
ancora una volta lo specchio della parola. L’uso strumentale
della poesia è palese in Bellezza proprio nell’effetto
melodrammatico di molte sue soluzioni: è una scrittura che
si tramuta in «forsennata poesia sospesa fra elaborata
perizia / e sincerità programmata». Ancora una volta, una
finzione; anzi, il traslato di una finzione, una finzione al
quadrato. Come Perseo, ma con la consapevolezza di dover
soccombere, il poeta incontra la propria Medusa, o
Serpenta, destinato a perdersi nell’infinito rispecchiamento
dei propri versi. La «clessidra dei sentimenti» gli ha
giocato un pessimo tiro, richiamandolo a una concretezza
dell’essere fuori da ogni rappresentazione: Bellezza ha
tentato di eluderla moltiplicando ogni esperienza,
appiattendola e di fatto annullandola nella dimensione di
un eterno presente, ma è un trucco da illusionisti. Appena
lo specchio cessa di riflettere l’immagine della Gorgone,
appare la figura stessa del poeta nel proprio labirinto
arrovellato, ed è in quel preciso istante che è sancita una
condanna inappellabile; perché anche la morte ha usato lo
stesso stratagemma e si è andata a riflettere dietro il
ritratto del poeta. Contemplando se stesso, e pensando così
di aver sconfitto il mostro, gli ha invece consegnato la
propria vita, quella vera e quella recitata.
È uno scontro impari, ma nell’energia della dissipazione
a cui Bellezza si costringe c’è anche un residuo di
titanismo, appena sufficiente a motivare il tentativo di un
riscatto, ma solo sul piano collettivo. Anche se fosse
possibile salvare, imporre il proprio ruolo, sul piano
individuale la situazione è compromessa dalla crudeltà dei
sentimenti, dall’incapacità di adeguarsi al loro naturale
fluire. «Ma il quotidiano insiste», ovvero incombe, si legge
proprio in Serpenta, imponendo uno iato tra la scena della
rappresentazione, che prima o poi dovrà concludersi, e la
sosta necessaria al compiersi di una vera esperienza.
Bellezza teme quella verità tanto agognata, si dispone a
una fuga continua perché soltanto il tempo della recita
sembra offrire lo spazio illusorio di una salvezza. Così fugge
più veloce del tempo della vita, con l’effetto di perdersi
ancor più nei suoi amletici angiporti. E anche lo spazio
vitale si restringe invece di ampliarsi, la città si riduce alla
stanza, la stanza al letto, quel luogo sfatto dove non è più
concesso sottrarsi alle proprie contraddizioni, ai propri
antagonismi, alla stessa Medusa.
È dunque il corpo lo strumento attraverso cui il poeta
esibisce e declina le proprie ossessioni; la sua presenza,
così tenacemente pervasiva di libro in libro, non costituisce
un ovvio tratto dominante, ma diviene la sostanza più
intima di una ricerca destinata al fallimento. Il linguaggio
delle pulsioni, dei desideri viscerali, rischia di svelare falsi
oracoli, di offrire illusioni effimere quanto dannose, di cui
Bellezza è sempre dolorosamente cosciente. Questa
consapevolezza genera una struttura elegiaca, più evidente
negli ultimi libri; il racconto della fisicità propria e altrui
oscilla tra pietà e rimpianto, tra occasione e rimorso senza
che sia risparmiato particolare alcuno del degrado, come in
una tela caravaggesca. Nell’istante stesso in cui descrive e
si descrive, il soggetto ha già indossato i panni dell’attore,
così compiendo una rimozione radicale del concreto.
Amleto affronta la sua realtà tragica attraverso lo
specchio dell’arte drammatica, denunciando i fatti con la
loro rappresentazione per poi subire fino alle estreme
conseguenze la catarsi; Bellezza, incapace di sciogliere i
propri nodi, rimane al di là della scena da lui stesso
allestita con una regia sapiente quanto penalizzante. Di
quello specchio resta prigioniero fin da subito,
apprestandosi a giocare una partita col destino e con la
morte: una partita che è l’anamorfosi dell’invettiva, del
tentativo di riscatto sociale, dell’affermazione della libertà
dell’eros, del superamento della grettezza piccolo-
borghese; perché, di fatto, il poeta che si lancia contro la
società «provinciale» resta, anzitutto, il prodotto stesso di
quella società, di cui non vuole cogliere la velocità delle
mutazioni. Convinto di potersi rivolgere sempre allo stesso
uditorio, Bellezza non si è mai accorto che il pubblico in
sala era ormai tutt’altro da quello dei suoi esordi e che
l’eros, minacciato da nuove paure e piegato a
irreggimentare vuoti immaginari collettivi, non poteva più
costituire la ragione sufficiente di uno scandalo, ovvero di
una richiesta di attenzione. Continua a cantare il corpo,
divenuto sempre più oggetto assente, motivo di ricordo; la
sequenza Lodi del corpo maschile, in Serpenta, è il
resoconto, il punto decisivo di svolta verso una fisicità
sempre più intoccata e inaccostabile, quasi petrarchesca.
Ad aprire la suite è un testo che nell’immediato sancisce e
narra l’abbandono, Il tuo corpo adorato più non tocco. Non
è la semplice separazione, come in molti luoghi precedenti,
e neppure un’assenza che sarà facilmente colmata da nuovi
eventi, ma l’ammissione di una solitudine radicale, pur
sempre istrionesca. Lo attesta la disposizione sintattica
dell’avvio, che rompe con la colloquialità standard e
indulge piuttosto al melodramma, coniugando, attraverso
una doppia dislocazione, un registro da opera o da romanza
con una memoria da Catullo o Foscolo («più non»). Bellezza
insomma non può scrivere «Non tocco più il tuo corpo
adorato», ovvia dichiarazione nostalgica, ma ha bisogno di
anticipare l’icona, il correlativo oggettivo dell’abbandono, il
veicolo iconico rispetto al tema. Così facendo stabilisce un
colloquio in assenza («Il tuo corpo»), destinato a infittirsi
nei libri successivi, e soprattutto pone al centro del verso il
primo segno della corrente affettiva che percorre l’intera
poesia: «adorato». La fisicità diviene così il segno tangibile
di un eros a più ampio spettro, ma immediatamente
collocato nella dimensione della lontananza; proprio
quest’ultima consente all’attore di raccontare un flusso
sentimentale altrimenti inconfessabile in tutta la sua fugace
concretezza. «Non è tuo quel bianco corpo / diventato
brunito per il sole. Non è / mio» scriveva con calco
penniano il poeta di Libro d’Amore, definendo per questa
via un eros quasi astratto, proprio quando ne esponeva i
dettagli. Ora il corpo torna ad avere un referente, ma
distante, ormai invisibile, mentre se ne ammette a piena
voce, ma sempre dal proscenio, l’adorazione; non è più
soltanto «il tuo caro corpo / dolce attaccato al mio» di
un’antica storia vissuta anch’essa all’insegna di una
«passeggera eternità», ma si tramuta in qualcosa di
assoluto, perfino in qualcosa di malato.
«Qualcuno lo bacia: me lo ha rubato» prosegue Bellezza,
dopo il primo verso di Lodi del corpo maschile. Non è un
motivo nuovo, quello del furto d’amore, non per questo
banale, almeno per come l’autore lo declina. «L’arcano
fascino dell’amore tradito», come dichiara in Proclama sul
fascino, riconduce ogni possibile sospetto di autenticità del
dolore ancora una volta entro i limiti di una raffigurazione,
di un modello culturale ancor prima che psicologico. Ciò
che viene sottratto al poeta, insieme all’oggetto, è il
sentimento stesso del dolore: l’elaborazione della perdita è
tutta affidata alla poesia, ma non in chiave consolatoria e
neppure esorcistica. Si tratta invece di narrazione allo stato
puro, di fictio che sposta incessantemente l’asse
dell’esperienza verso quello della rappresentazione. Non a
caso, a questo punto, non rimane che raccontare la scena
spoglia, occupata da pochi simboli: «Resta soltanto nella
stanza / il tuo odore, gli ultimi vestiti / smessi; un paio di
mutandine». L’attore racconta il proprio spazio drammatico,
partendo da un dato astratto ma fortemente evocativo,
ribadendo nel colloquio l’assenza di una fisicità («Il tuo
corpo / [...] / il tuo odore») e asserendo, con estrema
compattezza visiva, che quel corpo è ormai svanito,
lasciando tristi tracce. Si compie così il passaggio da una
dimensione tattile a una dimensione olfattiva e si apre,
ancora con Proust, la strada alla memoria, che occupa tutta
la seconda strofa: «Amore senza indugio con l’acqua / che
bolliva sul gas per gli sporchi / capelli, di lontano nella
pentola – / borbottando ci chiama senza rancore / di essere
lasciata lì a consumare / tutta la sua bollente acqua / un
attimo prima gelida».
C’è una dolcezza insolita, già malinconica, in questi
versi; e c’è, soprattutto, una dislocazione temporale, dal
passato al presente, che è una spia essenziale di come
Bellezza corroda l’esperienza nel momento in cui la rende
assoluta, per sempre allontanandola. Chi chiama, la
pentola? L’amante e l’amato, distratti nel loro eros effimero,
o, con un plurale istrionico, il poeta che ricordando scrive
quando già l’amato è entrato nel limbo delle icone, dei
simboli della «passeggera eternità»? Il linguaggio della
poesia può supportare – e lo fa – entrambe le soluzioni. La
prima, più esibita e plausibile, se non fosse per quel
repentino scarto del tempo verbale; e la seconda, quella
per cui l’attore sta recitando per il suo pubblico la perdita
del «corpo adorato». Ecco spiegato, allora, lo spostamento
retorico di un sentimento possibile alla stessa pentola, che
«senza rancore» continua a chiamare, tramutandosi in un
ennesimo correlativo dell’abbandono: di un abbandono in
atto, che si ripete ad ogni rilettura del testo, evento
avvenuto e potenziale al tempo stesso.
È ancora la scrittura, infatti, a offrirsi come motivo di
distrazione nell’ultima strofa («te / circuito di certo mentre
io / scrivevo nella mia nuova stanza»). E nonostante
l’amante abbia consegnato all’amato la chiave della nuova
casa, estremo simbolo di una disponibilità concreta solo
nello spazio della rappresentazione, il corpo amato se ne
va, lasciando solo il poeta. È allora che la traduzione della
rappresentazione in scrittura poetica prende l’avvio,
inevitabile, inesorabile, a custodire quel «messaggio
invivibile» che condiziona l’intero tracciato di Bellezza: «la
fine dell’amore dopo l’amore», ovvero quando
definitivamente cala il sipario, in attesa non della prossima
replica, ma di uno spettacolo che si vorrebbe nuovo e che
invece si compie nel dolore di una finitudine e che fa
soggiacere tutti, attori e spettatori, allo sguardo
pietrificante di Serpenta, come in questi versi da Morte
segreta: «Questo nel dolore è compimento felice. / Chi ama
la vita lo conservi e bruci, / ma resti impassibile, di marmo /
a contemplare la sventura mia / e il disinganno. Ché solo
morte / esiste e a lei m’affido, tranquillo / negatore
terrestre delle Stelle».
Nota biografica

Dario Bellezza nasce a Roma, nel rione di Trastevere, il 5


settembre 1944. Trascorre nella sua città gran parte della
vita, consentendosi rari spostamenti soprattutto in Calabria
e nei paesi arabi o per l’Europa in occasione di reading
internazionali. Vive la sua adolescenza presso la famiglia,
nell’abitazione in via Girolamo Emiliani nel quartiere di
Monteverde, lo stesso dove abitano Attilio Bertolucci,
Giorgio Caproni e per qualche tempo anche Pier Paolo
Pasolini. Sono gli anni delle letture che influiranno sulla sua
scrittura, come quelle dei poeti simbolisti e di Rimbaud, e
più tardi di Pasolini, dei cui libri dichiarerà di essere
rimasto infatuato; inizia, giovanissimo, a scrivere i primi
versi. Terminati gli studi liceali si iscrive all’Università “La
Sapienza”, dove segue le lezioni di Giacomo Debenedetti
nella facoltà di Lettere. Incontra Pasolini: «Dal 1968 sono
andato a casa sua [nel quartiere dell’Eur, in via Eufrate 9] a
fargli un po’ da segretario e un po’ amico e un po’ da
giovane poeta in erba», scriverà nel Poeta assassinato;
porta in lettura le sue prove poetiche anche a Enzo
Siciliano, ed è introdotto negli ambienti letterari legati a
«Nuovi Argomenti». Su questa rivista esordisce con una
sequenza di testi dal titolo La vita idiota, nel numero 12
dell’ottobre-dicembre 1968. Siciliano lo presenta a Moravia
– di cui diviene amico molto affezionato – e a Elsa Morante.
Dei rapporti con quest’ultima, finanche tumultuosi,
rimangono chiari e numerosi segni in molti luoghi della sua
opera.
Verso la fine degli anni Sessanta, Bellezza si allontana
dalla famiglia e inizia a condurre un’esistenza sregolata e
indipendente, all’insegna della libertà e svincolata dalle
convenzioni borghesi. Frequenta personaggi del mondo
omosessuale, che in quel momento storico comincia a
costituirsi in gruppi e movimenti. Prosegue la sua amicizia
con Pasolini, al quale si rivolge come a una figura paterna e
rassicurante: si occupa della corrispondenza dello scrittore
e regista, che lo segnala, all’apparizione di Invettive e
licenze, come «il miglior poeta della sua generazione». Il
libro non sfugge a un lettore esigente come Gianfranco
Contini. In questo stesso periodo, Bellezza intrattiene uno
stretto legame con Amelia Rosselli e per alcuni mesi
condivide con lei la casa; tracce di questa esperienza si
riscontrano in alcune poesie del primo libro e in Lettere da
Sodoma. Incrinatosi il loro sodalizio, si trasferisce
definitivamente in via dei Pettinari, al numero 75, dove
rimarrà fino ai primi anni Novanta. Quella casa a pochi
passi da Campo de’ Fiori, teatro di amicizie e amori, è lo
scenario di molte poesie e di episodi dei suoi romanzi.
Nel corso degli anni Settanta si impone da protagonista
nella vita culturale romana e non solo, stabilendo relazioni
con scrittori, artisti e poeti: diviene amico affettuoso e
ammirato di Penna, di Palazzeschi, di Raboni, di Anna
Maria Ortese, che già da un decennio ha lasciato Milano
per la capitale. Del loro primo incontro scrive: «quando la
vidi la prima volta mi fece molta impressione il fatto che
[...] vivesse già con un atteggiamento senile. Era agile e
giovanissima di testa, ma fisicamente sembrava una
monaca, il corpo mortificato, la fisicità annullata». Nel
1971 interpreta e doppia il ruolo del sacrestano ladro nella
novella di Andreuccio da Perugia, nel Decameron di
Pasolini. Il 2 novembre 1975, il cadavere del regista viene
ritrovato all’Idroscalo tra Ostia e Fiumicino: la notizia, dallo
schermo del telegiornale, raggiunge Bellezza nel ristorante
della stazione di Barletta, dove si è recato per un reading di
poesie. Con l’affetto dell’allievo raccoglie intorno a questo
evento materiali e riflessioni che confluiranno molti anni
dopo nei volumi Morte di Pasolini (1981) e Il poeta
assassinato (1996). Il suo secondo libro di poesie, Morte
segreta, ottiene nel 1976 il premio Viareggio. Al principio
del 1977 scompare Penna, «amico e maestro» insieme a
Pasolini. Bellezza è tra i poeti invitati alle letture pubbliche
presso il Beat 72; i reportage di quelle serate sono raccolti
da Franco Cordelli nel volume Il poeta postumo. Due anni
dopo è sul palco del Festival poetico di Castelporziano. Le
sue collaborazioni ai quotidiani e ai periodici si fanno
sempre più fitte: suoi articoli, recensioni, note varie,
interviste e interventi spesso polemici appaiono su «Paese
Sera», «Il Tempo Illustrato», «Il Mattino», «Paragone»,
«L’Espresso».
Negli anni Ottanta Bellezza è ormai una figura di
indiscusso riferimento, anche per i giovani poeti. Per una
piccola casa editrice di Catania, Pellicanolibri, dirige una
collana di “Inediti vari e diversi”, dove appaiono opere di
Goliarda Sapienza, Elio Pecora e della stessa Ortese. Per
l’Edizione del Giano e per Fermenti cura altre collane dove
pubblica autori esordienti o poco conosciuti. Entra a far
parte del collegio di direzione di «Nuovi Argomenti». Nel
1985 muore Elsa Morante: i loro rapporti, interrotti da
molti anni, non erano mai ripresi. L’anno successivo
l’Edizione del Giano pubblica Piccolo canzoniere per E.M.,
in cui Bellezza rievoca la loro contrastata amicizia e la sua
interruzione, e anticipa alcune poesie su Elsa Morante che
saranno riprese in Serpenta. Il poeta acquista una piccola
casa a Rocca Imperiale, sulla costa jonica della Basilicata,
nei pressi di Metaponto; qui si reca spesso per soggiornare
lontano da Roma, «città di una vita», ma divenuta sempre
più luogo di ansie. Con un gruppo di scrittori e intellettuali,
tra i quali Adele Cambria, si batte per l’applicazione della
Legge Bacchelli in sostegno degli artisti in difficoltà: Anna
Maria Ortese è tra questi.
Nei suoi ultimi anni torna a Trastevere, dove si stabilisce
in un piccolo appartamento in via Agostino Bertani, vicino
San Cosimato. I suoi testi per teatro cominciano a essere
rappresentati: in particolare Testamento di sangue
partecipa al Festival di Taormina nell’agosto del 1990, per
la regia di Renato Giordano. Alla fine di settembre, a
Perugia, dove è impegnato con Elio Pecora in una
manifestazione su Sandro Penna, apprende della morte di
Moravia. Con questa scomparsa, la società letteraria di cui
il poeta si è sempre sentito parte inizia a sfaldarsi, e con
essa il contesto storico in cui Bellezza si è formato. Si fanno
sempre più frequenti le sue apparizioni televisive,
soprattutto al “Maurizio Costanzo Show”, dove interviene
discutendo di politica ambientale, dei diritti del malato e
del disarmo nucleare. Con L’avversario ottiene nel 1995 il
premio Montale; nel dicembre dello stesso anno riceve in
Abruzzo il premio Avezzano. In giuria sono presenti Elio
Pecora e Franco Cordelli, davanti ai quali pronuncia un
accorato discorso sulla natura e l’ispirazione della poesia. È
la sua ultima apparizione in pubblico.
Non perde, fino alla fine, la sua forza di diverso e di
ribelle. Il mondo politico e culturale si batte con successo
perché Bellezza ottenga il sussidio della Legge Bacchelli,
ma è troppo tardi: il poeta si spegne nell’ospedale
Spallanzani, il 31 marzo 1996, dopo una lunga e
soffertissima malattia. Il Comune di Roma presenzia alle
esequie: il feretro è esposto nella chiesa di Santa Rita, sede
dell’Assessorato alla Cultura, sotto il Campidoglio. Dopo il
rito religioso nella basilica di Santa Maria in Trastevere, il
2 aprile, Bellezza viene accolto nel Cimitero Acattolico del
quartiere Testaccio, dove solo poche settimane prima è
stata sepolta Amelia Rosselli e dove saranno tumulati altri
amici poeti e intellettuali, come Luce D’Eramo e Gregory
Corso. Pochi giorni dopo la sua morte, ormai postumo,
appare il suo ultimo libro di poesie, Proclama sul fascino,
presentato nella sede romana della Mondadori da un
partecipe e commosso Enzo Siciliano.
Bibliografia

Opere di Dario Bellezza

POESIA

Invettive e licenze, Garzanti, Milano 1971.


Morte segreta, Garzanti, Milano 1976.
Colosseo, Quaderni di Barbablù, Siena 1982.
Libro d’Amore, Guanda, Milano 1982.
io, Mondadori, Milano 1983.
Colosseo. Apologia di teatro, Pellicanolibri, Catania 1985.
Serpenta, Nuccio Galluzzo, Sciacca 1985.
Piccolo canzoniere per E.M., Edizione del Giano, Roma
1986; nuova ed. ampliata con il titolo Donna di Paradiso,
con una lettera inedita di Elsa Morante, Edizione del
Giano, Calcata 1992.
Undici erotiche, L’Attico, Roma 1986.
Serpenta, Mondadori, Milano 1987.
Libro di poesia, Garzanti, Milano 1990.
Gatos, trad. e pres. di L. Quirante e F. Chica, Newman,
Malaga 1991.
Gatti e altro, Fermenti, Roma 1993.
L’avversario, Mondadori, Milano 1994.
Proclama sul fascino, Mondadori, Milano 1996.
40 poesie, Mondadori, Milano 1996.
Poesie 1971-1996, a cura di E. Pecora, Mondadori, Milano
2002.
La vita idiota, a cura di F. Cavallaro, Lieto Colle, Faloppio
2004.
Colosseo e altri luoghi, pref. di A. Assiri, con una nota di B.
Costa, SEAM , Roma 2013.

VERSI PER IL TEATRO

Salomè, con una nota di D. Bracaglia, Libria, Melfi 1991.


Testamento di sangue, Garzanti, Milano 1992.

ROMANZI E PROSE VARIE

L’innocenza, De Donato, Bari 1970; ristampato con il titolo


Storia di Nino, Mondadori, Milano 1982.
Lettere da Sodoma, Garzanti, Milano 1972.
Il carnefice, Garzanti, Milano 1973.
Angelo, Garzanti, Milano 1979.
Morte di Pasolini, Mondadori, Milano 1981.
Turbamento, Mondadori, Milano 1984.
L’amore felice, Rusconi, Milano 1986.
Il cugino, Guida, Napoli 1991.
Nozze col diavolo, Marsilio, Venezia 1995.
Il poeta assassinato. Una riflessione, un’ipotesi, una sfida
sulla morte di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Venezia 1996.
Ricordo di Pasolini, a cura di R. Mosena, Via del Vento,
Pistoia 2009.

TRADUZIONI

Georges Bataille, Simona, L’airone, Roma 1969.


Arthur Rimbaud, Poesie, Garzanti, Milano 1977.
Georges Bataille, Storia dell’occhio, Gremese, Roma 1997.

EPISTOLARI

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1992, a cura di A. Battista, Archinto, Milano 2011.

Bibliografia critica
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Donato, Bari 1970.
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ottobre 1970.
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«L’Espresso», 3 gennaio 1971.
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Sera», 30 aprile 1971.
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Novecento e oltre, peQuod, Ancona 2008.
B. Frabotta, Quartetto per masse e voce sola, Donzelli,
Roma 2009.
L. Baldoni, Le parole tra gli uomini. Antologia di poesia gay
dal Novecento al presente, Robin, Roma 2012.
A. Benevento, Le lettere di Anna Maria Ortese a Dario
Bellezza, «Riscontri», 3-4, 2012.
R. Paris, Cattivi soggetti. Gli ultimi fuochi del Novecento,
Iacobelli, Roma 2013.
—, Moravia, una vita controvoglia, Castelvecchi, Roma
2013.
Nota all’edizione

Questa edizione comprende tutte le poesie edite di Dario


Bellezza, accolte negli otto volumi da lui pubblicati tra il
1971 e l’anno della sua scomparsa, il 1996. Sono esclusi i
testi in versi scritti appositamente per il teatro, che più
coerentemente comporrebbero un volume a sé e comunque
editi: Apologia di Teatro (risalente al 1969 e presentato in
«Nuovi Argomenti», 1970, con il titolo Apologia di reato;
quindi incluso in Colosseo. Apologia di Teatro, 1985);
Salomè (1991); il «poema drammatico» Testamento di
sangue (1992).
Le poesie di Bellezza sono qui riunite per la prima volta,
insieme a un’Appendice di testi dispersi, alcuni inediti,
ritrovati tra le edizioni minori, in almanacchi o in un
lontano numero di «Nuovi Argomenti». Ormai da troppi
anni assente dai cataloghi degli editori, Bellezza avrebbe
rischiato di divenire leggenda di se stesso, un poeta senza
più opera. Questa edizione rappresenta non solo l’interezza
di una vicenda poetica, ma anche un nuovo stimolo ad
accostare l’opera poetica di uno degli autori più controversi
di fine Novecento: come lettori, anzitutto, perché è ai
lettori che appartiene la vita della poesia, e anche come
critici e come studiosi. In questa prospettiva, infatti, il
lavoro su quest’autore è ancora tutto da avviarsi, al di qua
della leggenda e al di là dell’agiografia; e per quanto il suo
nome raramente sia assente dalle tante panoramiche sulla
poesia che si sono andate delineando negli ultimi vent’anni,
è evidente che la sua scrittura pone ancora oggi dei
problemi di tema, genere e forma inevitabilmente
riconducibili a un intero clima e una vasta tradizione, non
solo italiana, che chiedono di essere interpretati anche
attraverso Bellezza.
Le poesie riproposte all’interno di questo volume
rispecchiano rigorosamente l’assetto editoriale originario
attraverso cui l’autore le ha consegnate ai lettori,
dall’esordio di Invettive e licenze (1971) fino a Proclama sul
fascino (1996), apparso pochi giorni dopo la sua morte e
che Bellezza certamente organizzò secondo la propria
volontà, ma che non fece in tempo a vedere. Gli indici di
ciascun libro sono stati riprodotti fedelmente. Quanto ai
singoli testi, invece, era suo costume, come lo era ed è di
molti poeti della modernità, far precedere la pubblicazione
delle poesie in volume da alcune anticipazioni in rivista, in
plaquette, in edizione d’arte. In un caso, come quello della
sezione Gatti di io (1983), si assiste alla ripresa a distanza
di anni di testi già editi per riproporli in apposita plaquette,
intervenendo con varianti non solo tipografiche (Gatti e
altro, 1993).
Non avendo pretesa di edizione critica, quanto di mera
sistemazione del corpus a stampa, questa edizione delle
poesie di Bellezza non contempla nel proprio allestimento i
manoscritti, le apparizioni su riviste, periodici o cataloghi
d’arte, limitandosi a registrare i movimenti testuali da
plaquette a libro e viceversa e facendo riferimento alla
lezione più tarda. Fanno eccezione, come specificato in
seguito, per le numerose varianti attestate nonché per il
rilievo della sede editoriale, tre sequenze apparse
rispettivamente nell’«Almanacco dello Specchio» (1976), in
Poesia Tre (1981) e ne L’anno di poesia (1986), insieme agli
altri testi presentati in Appendice. Pertanto, nelle Notizie
sui testi, sono descritte le plaquette con le quali l’autore
iniziava a presentare al lettore il suo work in progress
poetico, e in particolare: Colosseo (1982); Colosseo.
Apologia di Teatro (1985); Serpenta (1985); Piccolo
canzoniere per E.M. (1986; nuova edizione ampliata, con il
titolo Donna di paradiso, 1992); Undici erotiche (1986); la
già citata Gatti e altro. Se si considera però che Colosseo
riprende testi dispersi dei tardi anni Sessanta, variamente
ripensati e distribuiti in Serpenta (1987) e soprattutto in
Libro di poesia (1990), e che Gatti fa riferimento alla
sezione eponima di io, in realtà le sole, vere anticipazioni di
poesie da un volume ancora in fieri sono rappresentate da
Serpenta (1985), Piccolo canzoniere per E.M. e Undici
erotiche, con diverse varianti sostanziali che impongono
all’editore di riprodurre per intero la stesura originaria,
quando la complessità ne impedisce la formalizzazione.
Nella presente edizione sono stati corretti eventuali
refusi e sviste. Non sempre, invece, è stato possibile
intervenire sulla punteggiatura, talvolta oscillante tra
plaquette e volume; è del resto consuetudine, specie nelle
scritture poetiche degli anni Sessanta e Settanta, lasciare i
periodi in sospeso, senza concluderli con il punto, ciò che
spesso si verifica in Bellezza, incerto anche sul ricorso ai
due punti o al punto e virgola, come attestano le varianti.
Pertanto, in questi casi, ci si è attenuti all’ultima lezione;
per gli altri casi la punteggiatura, oscillante di edizione in
edizione, è stata uniformata.

Quanto ai testi dispersi, mai più ripresi nelle raccolte


maggiori, e a quelli rimasti inediti:
la prima sequenza, dal titolo La vita idiota, era apparsa
in «Nuovi Argomenti», n.s., 12, ottobre-dicembre 1968, alle
pp. 20-35: questi testi sono stati ripubblicati in Album Dario
Bellezza, a cura di Massimo Raffaeli e Francesco
Scarabicchi, con uno scritto di Enzo Siciliano, Centro Studi
Franco Scataglini, Ancona 2002 (quindi in Dario Bellezza,
La vita idiota, a cura di Fabrizio Cavallaro, Massimo
Raffaeli e Francesco Scarabicchi, con uno scritto di Enzo
Siciliano, Lietocolle, Faloppio 2004);
Ora s’accende il ricordo; ed è l’unico sentimento, è tratta
dalla sequenza Ergastolo, pubblicata con un’introduzione di
Giovanni Raboni nell’Almanacco dello Specchio, n. 5,
Mondadori, Milano 1976, dove compare con altri dodici
testi accolti in Morte segreta con varianti;
segue una serie di dieci testi espunti dal romanzo
Angelo, Garzanti, Milano 1979. Nonostante l’opera si
attesti come un prosimetro a sé, la riproposizione delle
poesie all’interno di questa edizione ha scopo di
completezza documentaria: va inoltre considerato che lo
stesso Bellezza ne riprese una, Manchi di carità, lo sanno
tutti. Ma non è questo nella plaquette Donna di Paradiso,
con il titolo Hitler e numerose varianti, che hanno imposto
la pubblicazione delle due versioni nelle loro sedi
rispettive, sia originaria che definitiva;
Mi aggiro come un fantasma dentro casa: è in un gruppo
di Sette poesie, pubblicate in Poesia Tre, Guanda, Milano
1981 (le altre sei sono state accolte in io);
Un nemico della poesia e Insieme a Elsa e Aldo
appartengono a una serie che l’autore aveva dapprima
escluso dalle raccolte canoniche fino ad allora congedate e
pubblicato a parte nella plaquette Colosseo, confluita in
Colosseo. Apologia di teatro (le rimanenti di questa serie
sono state invece riproposte, con qualche variante, una in
Serpenta (1987) e le altre in Libro di poesia, 1990). Insieme
a Elsa e Aldo è stato successivamente inserita nella
plaquette Donna di Paradiso;
Numerato i peli del tuo pube proviene da Undici
erotiche;
da Donna di Paradiso provengono altri due testi: Hitler,
Tu sei persa.
(Variante) proviene da Gatti e altro;
Tu sai che io uso la psicanalisi è testo unico della
plaquette Una poesia, con un disegno di Fabrizio Cavallaro,
Pulcinoelefante, Osnago, Settembre 2001 (numero 4461 del
catalogo);
la scelta antologica proposta in Colosseo e altri luoghi,
con prefazione di Alessandro Assiri e una nota di Beppe
Costa, Edizioni SEAM, Roma 2013, si compone di quaranta
poesie, di cui cinque mai accolte in volume. L’edizione, non
priva di sviste tipografiche, riproduce per intero la
plaquette Serpenta (1985) e i testi già accolti in Colosseo.
Apologia di teatro (1985), insieme ad altre poesie tratte da
Invettive e licenze (Nella luce fioca mi lecco, p. 16; Ma mi
accora la tua foto, p. 17; Forse mi prende malinconia a
letto, p. 51; Se il Tempo non è più oscurato dalla tua luce,
p. 53; Ma non saprai giammai perché sorrido, p. 55; Eri
nudo per me: gli occhi avevano, p. 57; Bruciavo d’amore e
voluttà, p. 63; A Elsa Morante, p. 64); da Morte segreta
(Morte segreta, p. 56; Questo nel dolore è compimento
felice, p. 66); da Libro d’Amore (Ora che il mio destino si
rischiara, p. 58); da io (Per amore di solitudine rimasi solo,
p. 52; Cessa di puntarmi come il cane, p. 65); da Proclama
sul fascino (Addio cuori, addio amori, p. 67). Delle cinque
poesie disperse, una (Noi, certo, ci ravvederemo, appena
usciti, p. 54) è in realtà una sequenza del coro dei ragazzi
in Apologia di teatro, prima parte (si legge in Colosseo.
Apologia di teatro, p. 59) e pertanto non è stata inclusa in
questa edizione. Le altre quattro sono state accolte in
Appendice: Mi sono accorto di aver amato, p. 19, è stata
pubblicata postuma da «L’Espresso», 12 aprile 1996; A Pier
Paolo Pasolini, pp. 46-47, e Dopo un anno, feroce giorno in
cui un poeta è caduto, 1976, p. 48, sono riprese dalla
rivista «Ompo», 21 dicembre 1976; Madre è in «Vico
Acitillo», www.vicoacitillo.it). Di quest’ultima si rileva la
diversa scansione delle strofe tra la versione pubblicata on-
line e quella dell’antologia a stampa; si è optato per la
seconda, più coerente con il sistema strofico di Bellezza;
altre cinque poesie – i cui autografi non sempre sono
risultati di facile leggibilità – sono tra le ultime scritte da
Bellezza e sono state già riprodotte da Maurizio Gregorini
nel suo libro Il male di Dario Bellezza. Vita e morte di un
poeta, Stampa Alternativa, Viterbo 2006. Sono state
escluse da quest’ultima scelta le poesie incompiute, ancora
in fase di abbozzo, e quelle che si attestano come varianti o
riprese di testi già presenti in io e in Serpenta (1987);
tra le carte dell’artista Liliana Petrovic sono state
rinvenute altre poesie: una a stampa (O le salutari correnti
della giovinezza, riprodotta nel catalogo Liliana Petrovic,
Edizione del Giano e accolta con varianti in Libro di
poesia); due dattiloscritte (la prima, Tossico, è stata accolta
ne L’avversario; la seconda, Visione sacrale anfetaminica
con dosi intere, è riprodotta con varianti in Libro di poesia,
sempre anepigrafa, ma con il primo verso che recita Fu, nel
passato, la mia una illusa visione) e una manoscritta
(Amore distrutto stasera arrivi, rimasta inedita).
Quest’ultimo testo, databile tra la fine degli anni Ottanta e
gli ultimi mesi di vita del poeta, chiude l’Appendice.

Vorrei infine ringraziare quanti hanno reso possibile


quest’impresa ormai necessaria e indifferibile, che
restituisce alle mappe della poesia italiana una delle
personalità più complesse che si siano affacciate sulla
scena di fine Novecento, e la consegna a nuovi lettori.
Gloria Bellezza, anzitutto, alla quale dedico idealmente il
mio lavoro; Mario Desiati e Sandro Veronesi, che hanno
creduto nel progetto e lo hanno sostenuto; Fabio
Sargentini, l’editore Antonio Porta e Maurizio Gregorini,
che mi hanno messo a disposizione alcune introvabili
plaquette, consentendomi così di verificare il movimento
dei testi e di recuperarne di dispersi (Gregorini ha inoltre
concesso la riproduzione delle ultime poesie di Bellezza, da
lui trascritte); Beppe Costa, che mi ha dato informazioni sui
testi dispersi accolti nell’antologia del 2013; Elisabetta
Risari e Paolo Valentino, che hanno seguito in prima
persona l’allestimento e la pubblicazione del volume. Del
debito contratto verso Elio Pecora, amico di Bellezza come
solo sanno esserlo i poeti tra loro, sarebbe troppo lungo
scrivere: devo a lui, tra le molte altre cose, la conoscenza e
l’amicizia di Dario e il ricordo che ne porto.
R.D.
Tutte le poesie
Invettive e licenze
I
Ma non saprai giammai perché sorrido.
Perché fui il pedante Amleto
della più consolatrice borghesia.
Perché non ho combattuto il Leviatano
Stato che vuole tutto inghiottire
nella macchinosa congerie
della sua burocrazia inesorabile.

Ora mi nascono le unghie come ai morti.


QUALE SESSO HA LA MORTE?

Con quale sesso mi verrai incontro, se Orfeo scalmanato


non mi riguarda
e Euridice era una troia infingarda?

Addio scemenza mia trangugiata in tutta fretta dentro


una fratta,
il sapore si perde nella notte dei delinquenti che
ricattano la loro semenza con gli schiaffi della
certezza, al cinema di periferia.

Ma quale sesso ha la morte?


È ragazzo. È ragazza. Spaventosamente
materna mi abbraccia al limitare del sonno, quando
l’alba affretta la sua agonia
e il giorno calza i suoi colori di malinconia; quando
l’orina preme nella vescica
e il sesso prega le sue erezioni di non fare troppo male,
di non troppo eccitare il compagno tacito e
notturno;
l’occhiuto grembo rimane ad ascoltare allora il mio
bisogno di preghiera detta ad alta voce: «Signore,
illeso il giudizio aspetto, la mia morte.
Non l’aspetto che come giustiziera, avvocato del diavolo,
in un curialesco ufficio celimontano.
In terra certa sprofondami. Che io non debba patire in
mia morte la mia sopravvivenza.
Signore, fammi morire tutto, eternamente.
I morti non mi abbiano loro sodale spento.
È lontano il giorno della mia creazione.
È vicino il giorno della mia distruzione».
II
Forse mi prende malinconia a letto se ripenso alla mia
vita tempesta e di mattina alzandomi s’involano i
vani sogni e davanti alla zuppa di latte annego i miei
casi disperati.

Gli orli senza miele della tazza screpolata ai quali mi


attacco a bere e nella gola scivola piano il mio
dolore che s’abbandona alle
immagini di ieri, quando tu c’eri.

Che peccato questa solitudine, questo scrivere versi


ascoltando il peccatore cuore sempre nella stessa
stanza con due grandi finestre, un tavolo e un lettino
di scapolo in miseria.

E se l’orecchio poso al rumore solo delle scale battute


dal rimorso sento la tua discesa corrosa
dalla speranza.
Infante di una infanzia un po’ cresciuta tu dovevi
sollevare il mondo senza i miei muscoli d’oro e
seguirmi nell’Inferno casto dei miei piaceri proibiti,
non mutarti mai in angelo ma bestia rimanere alle
mie morte dimostrazioni razionali: squisito e losco
servitore nella serra dell’alchimista a rovescio che
l’oro dell’ambizione trasforma in vile metallo, senza
ricevere compenso per il tuo servile facchinaggio.

Per te le finte parole del finto poeta che ero:


al minuto la minutaglia rivendevo sul mercato libertino
delle fratte o dei monumenti male illuminati:
assassinato ingegno insaccato di stolte immagini
cullate dalla Follia e dal Fato fino all’oscenità.

Per il tuo calore di caino bambino che non perdona la


maldicenza
di essere nato senza il companatico del sesso e del
peccato.

Se dare gratis quel che gratis abbiamo ricevuto è solo


dare
a rate l’odore della memoria
a comodo comodamente rivisitata
allora in verità se uno mi dice: «Dio del sesso rotto a tutti
i corpi»
è la puzza del mio alito a tradirmi!
Se penetravo il ragazzo ribelle sussurravo all’orecchio
dell’amante dalla vita assassinato alla poesia: lastra
bianca di tutti i cimiteri e di tutte le putrefazioni
di belle anime in rivolta,

il canto lungo di chi non sa dormire se sente il suo canto


innamorato: «Non dormire più. Aspetta che ieri
scompaia nella polvere di croco dell’oggi e l’oggi
stringa come in una morsa il domani pallido futuro e
tutto il tempo vada lento alla malora.

Nessuno più osa amare le foglie fratelle dell’oro che


cascano giù dai platani autunnali.

L’uomo nero non verrà mai più alla nostra infanzia simile
a fuoco che si spegne in un mucchietto di cenere, né
il cuore batte
davanti alle labbra antiche dell’Alba.

Solo gli uccelli canterini il Sole salutando di mattina


sospireranno al Caos della luce che tutto rischiarando
infama.

Il platonico amore dei poeti: nostra luce e nostra


misura!»

La notte perdevamo in conversari: ma la spiga sempre


moriva, banale elogio di questa morta poesia
se non restava che farmi penetrare.
Perpetravi silenzi,
penetrati di sgomento li smaltivi fuori
alla deriva, lontano dagli occhi, condonavi alle libidini il
tuo massacrato amore, il tuo fracassato cuore che
scontava la rabbia nella sabbia, lungo le canne, le
flessuose canne, le fratte, le caverne, il flume nero e
lento; scandivi nel sonno il tuo sorriso, il tuo fragile
rimorso di bambino assetato di sangue, e ora hai il
disordine nel cervello, l’anima cresce vituperosa,
affamata di simpatie e mattie; l’analisi, l’inturpita
analisi del tuo io pimpantissimo (fregato, ferito,
raffinato) porta alla conclusione che il mutamento,
schiamazzo dell’anima, ti divora:

e non stagnante il desiderio del tutto sciagura contro le


ortosessue, scalfisce le tenerezze, descrive il non
ritorno; il tentatore ha vinto: sobillazioni sobillano
alla non tregua, allo sconforto del rincoglionito:
scervellate snellezze di exbimbo limitrofo al vero
pragma; lo conforterai al pragma, al gesto o dolce
ardente spento che straluni come celicola al
chiarore dello squallore?
1967
La vergogna del sesso sconclusionato che l’eterne piste
percorre con il giusto fratello che s’ubriaca
dell’amore per l’originario incesto non concede
tregua al mio purgatorio;

l’angolo della perdizione è un misfatto che danna ad


occhi chiusi, occhi crepati dalla malinconia di te
fanciullo mio
che mi tradisci con gli avvoltoi interi della Rivoluzione;

consumo fiumi d’inchiostro, aspetto che il neghittoso e


perfido mare bollito in pentola mi purifichi del tuo
petto d’uccellino, la fuga, l’oblio non bastano
all’incontro con il nulla che mi s’aggrappa addosso.
Eri nudo, per me: gli occhi avevano le stesse inclinazioni:
le mani i sensi assopiti ascoltavano
al risveglio lento. Eravamo nudi e certi delle pompe e i
fasti del mondo da accarezzare tiepidamente
contemplando.

Nella mobile calma dell’amplesso i nostri corpi sterili e


maschili coprivano il ronzio delle zanzare e delle
mosche liete di vivere: presto veniva la tristezza e il
sonno.
Simile a Giacobbe che lotta con l’angelo della più
profonda notte, mai vittorioso e mai vinto,
per mettere a nudo la tua luttuosa nudità che più le
strade non aspettano di vedere e di comprare i
soffici tuoi capelli che perdevi ragazzino troppo
grande per il tuo piccolo corpo mai più fecondato
dal mio giovane seme. Puoi pensare solo al sonno,
nella tenera mia bugia della memoria che ti aspetta
al varco lontano da me alle piste di qualche altro
ragazzo selvaggio.
Ora indigente mi strazio calmo e la liberazione dai tuoi
giorni dissigilla la smania del torpore che ai ritmi
del cuore affida la sua pace che interrotta
chiudo tutta nel sommesso rubare maschili corpi accesi
di furore.
Già da te mi distacco, inquieto testimone nella bonaccia
del mio incerto passato, della mia incerta biografia
se l’arida vita mi ricompensa nelle scintillanti mani
dei ragazzi, nel rammarico
di un’amicizia ormai tutta consumata: mia contorta
psicologia che mi destina alla solitudine, vieta la
repulsione ai giovani borghesi che la sentono simile
ad una loro sognata:
vizio stupito e confuso solo al ricordo, all’assalto del
Tempo beffato che ripara, imperioso e certo di
naufragio, da ogni possibile addio.
L’insonnia che mi prende
la mattina scompare.

Ma più difficile è cercarti


così ridotto, in malora
dentro la nostra tana.

Stanza che descrivo assolata:


il largo letto matrimoniale,
l’odore del mio corpo
e non il tuo.
Tu sei il sonno. E quando arrivi si spegne nelle strade del
cielo la luna dell’insonnia.

Calpesto allora il dormiveglia, i suoi incubi che


cinguettano scemenze. Anche l’Inferno
è l’infinito. Il sesso lo squallore.

Non t’aspetto più. I giovanetti sono tutti cercatori di


pulci.

Dalla mia altezza smisurata contemplo il mondo e gli


occhi pacificati s’asciugano del pianto innamorato.
Quando mi alzo alzo lo sguardo
al giorno che nasce ogni volta per me

senza rancore o bene. Mi preparo


all’insonne pazzia quotidiana

con smarrita voglia di respirare


tutto il tempo invano passato.

Che solo sa chi non fa tanti


sforzi disperati di memoria.
Il serpente inquieto che indugiava del mio cuore fino al
giorno

e di mattina davanti al sole ginnastica chiamava il tuo


corpo agli esercizi muscolari e i muscoli invano
guizzavano ribelli alla forza del destino e le stelle
tramontate del mattino o una sola, albare, volevano
alla porta bussare, cavarti dal letto tomba che
marciva in silenzio mentre cantavi tu

e l’ombra della morte passeggiava alzando il naso alla


soffitta
ultima entrata con lo scettro
dell’amara mia sconfitta.
Al capezzale dei giorni insieme vissuti la memoria
frenetica s’attacca: lieto fine delle associazioni
involontarie e covate fino allo spasimo nel letto,
prima di depositarle sulla carta.

Così covo, sempre più sano ormai dalle morti che ti


minacciano, dalle croci che ti crocifiggono, le mie
inermi incertezze che fingono il tuo mondo giacere
nella notte.

Maturo la scrittura, lo stile, il colpo di mazza alla verità.


Lenta invasione del Paradiso nel tuo sepolcro dove
s’aggirano i mostri della mia diversità: avversaria
impotente della mia banalità.
Alla fermata del tram, a mezzanotte: insieme alla mia
carezza salivi e via mentre veloci i miei morti
piangevano dagli occhi la loro nuova serale morte.

Tu, via!, nel notturno puntuale a destinazione dentro le


materne lenzuola.
Io baciato dalla fortuna dentro il solito snack a pugnare
con gli anonimi sguardi col mio sguardo ubriaco, i
soliti supplì in bocca a masticare lentamente e vuoto
di seme camminavo
solo pedinato soltanto da qualche
infelicità.

Ancora addio «occhi belli», «belli capelli»


che dietro di me ti affanni ad inseguire.
Che la tua ombra non mi pesi troppo addosso ora che
non la posso più abbracciare.
Se il Tempo non è più oscurato dalla tua luce allora è la
verginità della morte che possiedi, solenne messa a
punto del tuo corpo che le nenie funebri invano
rivestono di squallore.

Dall’oscurità tua illuminato l’eco dei morti scimmie


ammaestrate dal destino
a dormire eternamente, s’adagia
fra navate, tabernacoli e colonne e tutto l’universo ripete
la mia condanna a rimanere incarcerato per sempre.

Nudità e fruste, la tua colpa, i tuoi oltraggi condannati


ormai a desiderare ciò che qualsiasi cannibale ora
può mangiare; la colpa di nessuno
che di tutti diviene colpa e compassione per chi finì
sotterra.
PREGHIERA

Per rinascere aspetta che le madri epilettiche simulino la


sanità, la santità e la devozione al Cristo. Poi arriva
di fretta al nostro serale lampione visitato da
qualche randagio cane. Aspetta lì in spirito
teneramente
circuendoti di tenerezza; non cambiare pelle, profuma
ancora di borotalco!

E alla voglia di metamorfosi disubbidisci. Che io ti veda


mentre mi avvicino come tu eri, all’aria insegnando
la malizia di non essere reale!

Mio ignaro, dimentica il sistema della morte, il gran


risveglio rifiuta, cerca di piangere nel rinascere per
nascere ancora vivo e vero come un passero che
becca il miglio d’oro.

Non ripensare alla maternità che mi davi, ai mondi solari


che stanno per precipitare nell’inesistenza,
all’estate senza figli, mai passata sdraiati sulla riva
del mare, a sognare di rinascere io maschio e tu
femmina.

Perché se si appassisce il mio cuore e diviene freddo


allora invano sarò di te amante geloso stato,
sparviero notturno che non si volta solo per non
pietrificarsi nel sale.

Lì il mio coraggio inerte ad aspettarti morto sotto la


pioggia che bruciava i suoi atomici oltraggi sulla mia
pelle: il viso ancora di pubertà chiazzato, giovanile
acne, i punti neri da spremere senza misericordia.

E ora abbi pietà, non scordare il mio canto: l’insonnia


viene solo ai bugiardi, a chi disubbidisce. Non
ripassare invano la parte dimenticata: il giusto non
aspetta certo a Sodoma.
Ora che i millenni invano ti sfiorano dall’orlo del sonno, a
te postuma l’indulgenza calma questo dolore amaro
nella bocca e il sesso

premiato dalle fami ragazze dei ragazzi imberbi trovati


per le strade ascolto: irresponsabile del pianto che
trattiene la tentazione
di ammazzarmi.

Vittima e carnefice del mio senso di colpa, la


giovinezza sprecata del serpente che
non morde che la sua coda e schiatta, il
rimorso è il mio Vangelo, il passaporto
verso la gloria – e tu sradicato dalle
passioni fai festa di ogni vita.
Nella luce fioca mi lecco
le ferite mortali e la mia
anima-foglia leggera va

in cerca del Padrone.

Chi è nell’ombra solo sa


quanto il giorno è mortale

bianca statua solare


che non incanta più la mia
morta mattina.
Cullavo la tua disperazione:
innocenza di saperti diverso,
amato-amante di bambine.

Ma eri senz’anima
se il corpo facilmente
concedevi.
Dio mi moriva sul mare
azzurro, sul suo pattino dove
mi aveva invitato ad andare.

Ma fu la gelosia, la normalità
dei ragazzi a spingermi a rifiutare,
ad alzare le spalle alle battute
salaci.

L’odore del mare riempiva


le navi e tu cantavi negli occhi
ridarelli vittoria.
Solo nel sogno ritornerai, ma quante volte busserai
altrettanto sarò precipitato nel tartaro
di tutte le follie.

Magari potessi abbandonare i luoghi battuti dalla mia


carne reclusa, farti ancora compassione, fiato e voce
risparmiare in queste querele implacate dall’altrui
esecrazione.

Invece la monotonia cresce dal fondo degli anni


clandestini e i mattini tiepidi di primavera solo
amaro lasciano nella bocca.
Bruciavi d’amore e voluttà
sul tram, nei calzoni scoloriti
dall’estate.

Sull’erba matta dei giardini


di notte i nostri abbracci.

Noi,
le generazioni sterili per la morte.
Ascoltavo la morte nel mio sogno di pazzo dirmi
all’orecchio soave: «Ti trascuro. Non verrò mai da
te».

Allora mi ricordai di te e mi svegliai.


La morte mi era a lato. La notte riempiva la stanza di
silenzio.
Alla finestra la luce della luna. E

nel mio cuore un presentimento.


Non si vedrà per tutto l’inverno il mio ragazzo venire dal
lattaio con la busta del latte da mezzo litro: tutti
penseranno che il radicato nel mio cuore aspetta
malato
che io arrivi con la busta in mano.

Non si vedrà per tutta la primavera il suo ritorno; le


lacrime invano scivoleranno dalle mie guance:
tutti penseranno che mi ha lasciato solo nella mia grande
casa.

Non si vedrà per tutta l’estate la sua abbronzatura


cittadina,
ma al mare uguale ai più tranquilli e solitari ragazzi lo
immagineranno silenziosamente disteso sulla
sabbia.

Non si vedrà in autunno alcuno bussare alla mia porta


marroncina: tutti mi guarderanno con tristezza
perché questa è la stagione dei morti.
III
Quante albe ci videro in piedi,
senza sonni, o con le pasticche dell’oblio!

Ed è strano che ora invano mi agiti


a ricordare te nebulosamente incerta
di essere donna senza stelle; io

che sono solo all’Anagrafe maschio.


Monumentale bric-a-brac, mia parte ctonia femminile
consciamente inquisita,
carnevalesca trovata a cavallo del Tempo
e mai fecondata, sconvolta dentro il letto

gigionesco delle automatiche poesie di disadattata


cronicamente desolata, tu

pazza e maltrattata dalla fame di Storia non ancora


storicizzata, lieto scrivo la
tua invettivata denunzia che mi denunzia
in cattività trasognata, senza verbi o quasi, scervellato e
senza consolazione della tua furiosa lunghissima
pazzia. Non sei pazza e non sei cattiva intenta a
divorare, demente e delinquente sospesa al liceo di
adolescenza incupita durante le mondiali preliminari
guerre, astiosa nei sogni che sono la tua salvezza
senza assoluto che sboccia nella tua maternità
frustrata per me eternamente rifiutato:

madre e padre infelice sei stata per me e ora piangi


piangi, riesamina la catena delle
sfide senza duellaggio e i colpi e le belliche sul tema
variazioni insorgenti dall’abisso

fondo della tua anima persa: balla bollata di malvagità


per campi bollenti
di concentramento, concentrazionaria mancata come le
marchette deliziose del Colosseo

al mio suicidio che è l’unica forma di libertà.


Se per i ricordi l’anima trasalisce caro poeta mio donna
perduto, aiuto!
Arriva amara, vedi, in elemosina
la poesia, sentimentale confusione dei sentimenti, allegra
minaccia
alla follia – e dunque Ponte
Sisto non l’attraverso più per venirti a trovare, cercare
nella tua tristezza la ragione del disordine del
mondo: solo tu, tristezza mia, capirai questa lettera
privata e non spedita ora che siamo a ferri corti, il
pugnale è tutto impugnato, e tu duelli ligia al
vecchio rispettabile Partito operaio.

Violenza o pietà che ci riguardi eccoci tutti e due a


rimestare
i nostri luciferini orgogli di poeta, con gli amici in
comune a discutere delle nostre reciproche
vocazioni
a fare il male, avaramente
incostellabili d’amore spirituale!

No, basta. Divisi e contenti per l’eternità tranquillamente


studieremo i nostri versi, leggendoli a metà,
trasalendo ogni tanto, sospettando gli influssi
necessari – la pazzia dell’incontro malformato con la
gattina auspice, finita in una clinica privata, di nome
«nerina».
Spiavi i sonni e le marchette, le stente lirette che davo: a
sera l’Angelus sonava invano per te spiona rotta a
tutte le bassezze. La mano controllavi per il tuo
bastardo futuro stanca di conoscere castamente il
chiuso mio io reticolato intorno alla festa morta
adulta e adulterata della crescita borghese.

Mi mettevi la mano addosso. Carezzavi la mia mano. E


poi volevi quello che non ti davo.
Fumavi sigarette drogate
e nell’ombra il paradiso
partoriva mostri.

Gelosia gelosia nella notte


a squarciare l’angoscia

ma nessuno passava
a vedere le tue gonne
sollevate!
Perché non s’accende la mia carne.
Se mi vieta il rapporto con te. Il mio ragazzo intanto
cambia mutande con qualche distratto cliente di
passaggio.

E tu non sai come mi specchio in te, donna mia. Vorrei


dal tuo sogno di pazza strapparti, farti gridare al
cospetto della maledizione mia: di chi è geloso di un
paio di maschili mutande.
Per salvarci insieme nell’abisso
ahimè precipitando trovato
avremmo le nostre solitudini.

O lo specchio infranto delle nostre


fami. Io con i ragazzi avrei

il deserto popolato, tu
con la tua confusa pazzia
che sa solo il sapore della morte.
Cieco nella perfezione varco
i miei mari dell’angoscia, la
bocca amara, come i suoi fiati
che invano una bocca rintocca.

I baci, le carezze, i dolci


abbracci, l’infanzia di sapermi
lontano dal tuo corpo di madre:
tuo incerto sostituto.
Cuore di pietra, bosco dell’indistinto
mai visitato, visceri della terra madre

putrefatte che vorrei di morte minacciare!

Come ti odio. Hai rovinato la mia poesia!

È nel mio dolorante cervello la tua


immagine pietrificata.
Il tè bollente e i pasticcini
pagati dal tuo Padrone insolente

che mandava il cascherino


occhicerulo a provocarmi.

Poi ho saputo che è morto


di cancro. Ma il cascherino
non è cambiato. Ha solo
un po’ più di barba
sul mento baciato.
Ti spingerò nell’ombra. Figura
femminile di botte riempita e
di terrore quando t’aspettavo

giustiziera con la tua pazzia


e in mano la pistola per farmi
fuori.

Dove sei ora. Chi cerchi volentieri


d’ammazzare. Il mio seme
solo forse sale a bagnare
le tue lacrime di gioia.
Dove la notte calza la mattina di un buio splendore
t’aggiri malata di desiderio importuno, di commiato,
la stanza vede i gatti miei masturbati e indifesi
aggirarsi in cerca di suicidio che la finestra chiusa
vieta e tu la mia umiltà vestita dal Tempo di questa
vana atterrita poesia offendi mortale e culli la
vendetta. È la tua natura
volgare che ti vendica,

la mia cecità insana, la terra che sputerà


uno dei due eternamente.
Mia pazza solitaria notizie all’osteria della tua amara
pazzia arrivano a me che dai negozi sento senza
alcun sgomento chiamare pazzo, pazzo più di te. Sì,
il pazzo sono io. Ed è certa davanti a questo
sentimento che a te mi lega, la nostra leggenda
davanti al
mondo incredulo e cretino. Ma

tu da dove soffia il vento dell’addio ripeti stancamente


che fu solo il torto mio.
Dormivi o eri sveglia quando materna la portiera
arrivava. Rapidamente l’iniezione ti faceva e io ero
incatenato alle tue forme. Mi masturbavo

acerbamente e sapevo inesorabile che la vita mai più mi


avrebbe posseduto.

L’immaginazione dava luce alla mia carne, piacevole


l’orgasmo arrivava
ad interrompere la mia distanza da te.

Non resta un Dio di quell’amore mai consumato. E batto i


ponti
cercando di tremare come allora.
AD A.R.

«Sono una iena che ha denunziato il suo rivale.


Ma senza di te non ci potevo stare. L’ho denunziato sì,
senza stile, alla benedetta polizia, per droga e il
permesso di soggiorno gli hanno tolto, non gli hanno
torto neppure un capello. Faceva il pittore a Piazza
Navona e tu dicevi che era il più grande pittore del
mondo!»
La mia discesa nel più infantile dolore, in te per un
canzoniere di puro disamore da scrivere se mi
manchi in questi deserti anni sadico procedendo e
teneramente cretino!

La mia frattura eri tu, incontro d’amanti pazzi che


sgarrano le mutande sul Ponte inseguiti da mute di
ragazzini eccitati o da qualche vecchio senza
veggenza nel suo sesso inutile e commosso.

Metti a nudo il tuo cuore per sapere che fine ho fatto, la


galera o forse il suicidio perché solo il nulla è puro e
tu concedi al mondo che ti divora il cuore la tua
curiosità che solo gli infermieri amministrano beati
e ti proibiscono la fuga.

In manicomio il tuo grembo rimane inconsultato e solo la


consolazione di sapermi stroncato non ti fiacca e
t’arrendi alla camicia di forza
che spero sia stretta come la tua
memoria di pazza.
Donna conforme e vicaria del male attristi vigilante con
le tue urla disumane la mia dolce forma, amante
provvisorio e ragazzo, ritratto

dissoluto dello sconosciuto messaggero della morte.

Pazza stonata intoni le querele, le bieche reazioni di


rivoluzionaria tradita che si serve poliziotta della
polizia, spada illustre di chi lotta senza tregua la
poesia.

Va bene: i soldi, i libri che ti dovrei e sciagurata minacci


rappresaglie e mangi in trattoria i cannelloni coi
miei pochi amici, di me sparlando, dicendo che «mi
facevo» i ragazzini e ora mi denunci, laida incantata
e senza speranza di un domani odorato, errante di
un non più errore giovanile oltraggio che amor non
vuole se pazzia dissente.
Il vento t’abbassò al rango d’una sguattera.
Cercavi nei capelli la sconfitta del parrucchiere.
Volevi essere donna fino in fondo tu che eri solo una
povera pazza.

Ti faccio schifo, vero? Luciferino mi prodigo nell’idea che


ho di te, che in me è rimasta e mentre cade la sera
accecato scrivo queste vane parole di commiato. La
poesia è morta, ma tu non sei morta in me.

Io del tuo silenzio amavo l’odore e virilmente pregavo di


essere sempre così, castrato amante di ragazzi.
Dov’è la sterilità che t’accompagna e trattiene i sorrisi ai
fecondatori che non riescono a fecondarti perché sei
sterile e l’alleanza con la fanciullezza è una
primavera piena di morte.

Spendi il tuo corpo santo dietro le siepi. Ti possiedono


ragazzi nutriti di pane. C’è
da piangere per tutti. Per te che in un prato ti concedi fra
le ortiche. Per me che daccapo vado in cerca di
parole per rievocare il sole del tuo corpo.
Finché cadrà la parola odio nasconderai le spade
insanguinate dal mio sangue
birbante di te pazza cattiva che maledico, di te spia
senza tregua e così fuori del comune, della regola
che vivi
in un vuoto pneumatico di bassezza e di ricatto e
perseguiti tu diversa i diversi figlia del cielo ti
perdono, o figlia della terra!

Sospira la mia mancanza e la gelosia ti fiacchi fino a


stremarti di sillabe peste e botte e calci alle gatte
credute spie della CIA mentre tutti sono zie (per te) e
la mia è un’invettiva sconclusionata, maledizione
ingiallita su un pezzo di carta che doveva essere una
lettera d’amore.
IV
Mi sveglio e non dormo ahimè! L’anello guardo del nostro
magro matrimonio.
E la notte mi possiede scialbamente, aspramente tua e so
che potrei
farla finita fingendo di morire.

Ma sulla soglia di casa arriverai fra poco.


Canterino le menzogne dirai a chi t’aspetta.
Presto il sonno ti ruberà e solo quando dormirai sarai
mio fino alla mattina.

Sorriderai anzi malcerto e forse a te mi stringerai. E la


stanchezza giovane di te sarà più stanca se io
l’addormento.
Se nelle belle notti di luna allarmavi le tue canzoni di una
struggente malia, acquisto dei tuoi sensi esercitati a
troppi anni di allegra lussuria, sotto il cielo mezzo
nero mi sentivo meno fiero di te, spodestato, come
un re in esilio. Tutta la notte
e la malinconia calavano su di te, rapito ad altri accessi,
altri paradisi che la mia intelligenza o il mio sesso.

Era un tradimento senza tradimento il tuo, senza


contraddizione. E io non alzavo un lamento. Poi la
strada risucchiava le nostre solitudini, le riportava a
letto.
Vai a rubare ad una città lontana.
Non cresce la tua età ma torni indietro

e il medico dei pazzi sentenzia la tua


dolcissima insania. Oh! Uccidimi

prima che bruci fino all’ossa.


La sapevi lunga. Imposte
che sbattevano al tuo ritorno
infuriato. Qualcuno t’aveva
pedinato, mostrato la sua
perfida erezione.

Sul letto cercavi di dormire


e io ti dicevo che eri «Dio».
Dalla storia dei nostri poveri giorni
i malanni solo fanno capolino.

Chi ti tiene oramai più feroce


ti sa e più mansueto e io
mi consolo nella mia sporca

cucina a lavare i piatti, a


sparlare di te che non sai di tutto
questo nulla che possa consolarmi.
Nessuna notte risarcirà quella notte di baldoria legati nel
letto dalle pasticche avvelenate. Da quelle istanze
della materia avvinghiati tutto provammo che ci
stancò, e l’erezione finì nella freddezza dell’alba e
dei sensi. Il distacco del tuo corpo mi pesa e nella
paurosa vedovanza ora m’aggiro gravido di seme
inquieto nella stanza

del martirio e del ricordo di quel volo tarpato sul


nascere.
Brontola il vento al mio richiamo
alla finestra, ma tu fingi
raffiche di mitra.

Sullo spiovuto selciato della strada


si vedranno solo ortiche e stelle.
Folle è ritrovarti. Folle è
l’abiezione di cercarti. Stolte

vendemmie del Vendicatore


i tuoi baci malati danno
ancora sapore alla mia bocca;

e non mangio per non perderli


del tutto, non inghiotto e
m’aggiro nell’odore della
stanza tua e le parole usate

dell’amore mi fanno una triste


compagnia.
Commiato alle angosce. Non calzerò più il tuo letto di
sbarbato. Maciullerò il ricordo dei tuoi baci. Votato
all’Inferno per difetto di grazia scarrozzerò
pisellanti indefinitamente.

Allora non t’amerò che all’Inferno, al mio ritorno,


profanato e scempio tentennone. Solo chi ha sete e
fame sa la delizia dell’essere sazi, e ogni giorno
vuole il suo affanno, ma della tua vita che ne sarà,
se arrossisco già reo confesso
di sfrenato amore per la vita?
Sicario che rintocchi i dolci baci dentro la bocca diletta
dell’amante, scostumata e sontuosa la tua carne che
lungamente s’accalda di lussuria agitata dalla lingua
del rimorso

che piano scivola fino alle cosce rotonde, sei senza cuore
per sentire il mio battito furore che snoda il suo
lento morire nelle ore del tempo innamorato,
maltempo e sospetto

di sventura per il tuo corpo schivo di sicario che ama


indisturbato
il giovane corpo del mio amante caro.

Lontano da me, da me lontano la lontananza ti fa sicuro e


idiotamente grave pesi su di lui

ed è come se su me pesassi notturnamente abbracciato


al suo collo,
prodigamente spogliato per spogliare il suo corpo celato
che ora sbrani e i lenti tictac dell’orologio vanno
lentamente alla deriva se penso
testardo al mio passato e al mio

nuovo amore per te sicario di un mio amore presto


assassinato.
PER UN RIFIUTO

Questo tuo rifiuto che nel letto la carne registra e ne


trema, e lui, il principe della morte soddisfatto
rispetta, non è che un escatologico orgasmo, delirio
salvifico che non devasta il mio stretto condotto,
voglia latitante che non scuote il mio latente
universo!

Questo rifiuto della mia mortuaria carne, parabola antica


e maledetta nel deserto
dei sensi se tu non ci stai alle perdonabili blandizie, alle
carezze, né sveltamente
assicuri l’ospite con quella santa letizia che lì ti ritrovi, in
basso: insidiata
che aspetta la mano follemente giustiziera!

Che spudorata fame nella tua notte repressa e


inutilmente pesta nel rifiuto abietto
ad aspettare tremante fra le lenzuola candide materne e
paterne la schiarita d’un’alba che forse non verrà
mai e questo tremito si perderà e il vento dei morti
lo porterà nell’erebo dove manchi la dolcezza delle
tue mani.
Che io legga la Terapia del Feticismo di Stekel
e la notte vari fino al giorno dell’insonnia
la mia impasticcata notte fino all’avventura

del sonno viaggiatore che coltiva fra l’odore


dell’inconscio il suo ballo disperato. Dove ti

trovo e poi ti perdo e niente riscuote


l’antica letizia di trovarti.
Ma mi accora la tua foto
dove inerme guardi velato
di tristezza l’arido mondo.

Dove la certezza dell’amore


è solo la quiete inquieta
della fine.
Sembra che m’abbandoni la follia
e poi la trovo dentro un cinema

a delirare e subito fuori mi butto


con l’orecchio che confonde tutto
il rumore in lui versato con il canto
incerto dell’amore. Ma ininterrotto

s’attarda il sesso sotto i fangosi


ponti a salutare la notte.
Le botte cadevano forte sul mio cranio e tu eri la pianta
della vita che balbetta inguaribile la sua lontananza.
Scelte le percosse a farmi male e io testardo a
supplicare la tua dolce e innocente corruzione.
Forse invano sei venuto a visitarmi se la tua pietà
non mi ha ucciso come si doveva.
Le illogiche parole dell’amante
che tu non capisci e vai di notte
a cercare un nuovo letto, un

nuovo sesso da rendere infelice.

Ma perché rimani freddo. Non ti


scaldi mai!
Quali menzogne cristalline dalle tue cartoline straniere,
insieme a qualche provvisorio amante. E il mio odio
genera odio e autodistruzione. Io relitto mi vesto di
ricordi e la dimenticanza di te mi scuote fra gli
applausi degli amici che sanno la mia ansia. Dov’è la
nostra vita lì è la disperazione. Dov’è il giorno
dell’addio lì è il viaggio necessario per la morte.
Hai tutte perdute le ore del sonno
ma t’agiti nel letto senza alzarti.

Se entrasse freddo nella stanza la testa


sotto le coperte ficcheresti, il tuo odore
selvatico d’animale a respirare.

E solo il sesso eretto inutilmente


vivo ti rende finché non strizzi
le palle.
V
A ELSA MORANTE

I ragazzi drogati, guardie del corpo dell’Assoluto, vanno


per il mondo mattutino fino alla sera della loro
sopravvivenza: come passerotti
mangiano distrattamente
tutti presi dai loro sogni d’avventura.

E la sciagura che li coglie per strada e li fulmina


piamente stecchiti li lascia prede delle iene umane
che scrivono i loro necrologi sui giornali.

Le loro dita sono piene di anelli; la loro grazia bugiarda


di mentire sa che io non ho bisogno di droghe.

E mi guardano come un povero reietto, un infelice, ma


troppo non m’offendo.
So che vanno per le vie del mondo con in bocca il sapore
della polvere e del tossico:
strepito vano è il loro baloccarsi bambino, orgoglio
luciferino
di chi si consuma, strugge come cera, ma anche così la
mia voce smorta li vorrà sempre al mio capezzale.
A PIER PAOLO PASOLINI

M’aggiro fra ricatti e botte e licenzio la mia anima mezza


vuota e peccatrice e la derelitta crocifissione mia
sola sa chi sono: spia e ricattatore
che odia i suoi simili. E non trovo pace in questa sordida
lotta contro la mia rovina, il suo sfacelo.

Dio! Non attendo che la morte.


Ignoro il corso della Storia. So solo la bestia che è in me
e latra.
ALLA RIVOLUZIONE

S’attarda la rivoluzione in conversari


fra capi stupidi. E, dopo tutto,
precipiterà nell’infingardo

che comanda e purgatorizza come può


i possibili gregari dell’eternità.
Le pazienti fami dei giovani diversi che aspettano nei
carrozzoni, nei treni l’arrivo del profeta essenziale
allo stomaco vorace, giovane di fame gagliarda,
ordinato disordine del denaro
acquistato con vili prostituzioni, veloci masturbazioni,
sodomie in camere d’albergo a ore, per sentirsi in regola
con gli dei, abbrutiti dalla loro solare divinità a
questa udienza ufficiale
di ogni mancata libertà.

O figli spersi e affamati, miei figli celestiali e bugiardi,


miei curiosi prediletti sparsi per la terra inospitale,
in rivolta illegale coi consapevoli cittadini, perenni
amanti della mia solitudine piena, sperate nel
battesimo del delitto per edificare cristianamente
l’Inferno.
Come il sonno si agita nel mio cervello per non
addormentarsi mai e dormo in piedi la mia
solitudine.

Sciagurato solo di me so parlare.


Senza simboli da visceralmente squadernare,
senza che la calma necessaria o lo svanito spavento mi
raggiunga a turbarmi.

E il piangermi addosso cos’è, l’analisi fischiante della mia


ferita in versi,
il nudo elenco del mio corpo trafitto nei miei amori
senza fretta nel pianto
della notte suicidale.

Ma ormai c’è solo rumore in me, fastidio di arrivare alla


casa della Morte, oblio sereno nella dimenticanza
dei miei gatti che nel sogno si trasformano in leoni e
mangiano, divorano e la conoscenza è spenta
nell’alba che s’affretta e sono solo fratello mio, di
me che mi bacio e bacio e la mattina leggendo
questi versi, nella polvere del sonno mai dormito, le
labbra secche e stanche di baciarsi, con la matita li
perderò per sempre scancellati e affonderò con tutte
le sensazioni di quest’ora.
Le pazzie dei disadattati sanno l’odore infernale dei
bruciati dall’odio della razza; noi siamo diversi

e aggrediamo tranquillamente chi ha bisogno della


nostra riconoscenza.

Poi salutiamo in barba ai ladri le nostre care madri che


più non ci aspettano; e quando scrivendo si sa dove
si va a parare solo

allora abbiamo la certezza del nostro fallimento.

Ma per ora taciturni ci aggiriamo col cuore freddo e in


tumulto e il cervello sfatto alla ricerca di chi non
bisogna disprezzare. E troviamo soltanto
l’intontimento di chi
allibito ci sta a guardare.

Nessuno capirà questa sconclusionata finzione; questa


immonda carità verso di noi poveretti che sappiamo
soltanto di non essere mai nati.

Mentre i mostri mortali abbrutiti dal bisogno vanno


caramente
a lavorare con le mani della sapienza la loro pietà di
frustrati.
Io sono solo qui a ricordare come era bella l’innocenza di
sapersi normali!
Lo scomodo alibi dell’Indifferenza rapace,
lingua morta dell’anima denutrita,
fiacca ormai di speranze soavi
alla razza semimorta dei diversi
sbudellati mitemente per l’eternità.

Ecco le tranquillità paurose


del sesso maniacalmente teso
al nulla più deterso da ogni purità:

orfanità gloriosa era il mio sesso


materno,
abbracciato all’alba dell’umanità.
La distruzione è l’unico movimento dell’eterno.
Prendere lucciole per lanterne non serve a niente,
s’inganna solo se stessi. Meglio, molto meglio
inghiottire i bocconi amari, ascoltare le folli sirene
decadute nel mare grondante del sangue stinto dei
feroci umani, cantare la trista canzone dei posseduti
dalle maternità senza parto possibile, che coltivano
l’angoscia come prezzemolo nel loro privato vaso
privilegiato, dove l’orina monta le scale della
pigrizia, travasa, scivola piano verso il letto
profanato come un sudario
dalla sporcizia dei corpi, dal seme seccamente sprecato
nel desolato amore, ricovero degli animosi non
cresciuti, rimasti eternamente bambini,
ostilmente amici delle loro madri
senza incesto, a piangere la loro
equivoca sterilità, il loro coraggio degradato a passare
per diversi,
nel caos miserabile dell’ingiusta totalità.
Se viene la guerra
non partirò soldato.

Ma di nuovo gli usati treni porteranno i giovani soldati


lontano a morire dalle madri.

Se viene la guerra non partirò soldato.

Sarò traditore
della vana patria.

Mi farò fucilare come disertore.

Mia nonna, da ragazzino mi raccontava:


«Tu non eri ancora nato. Tua madre ti
aspettava. Io già pensavo dentro il
rifugio osceno ma caldo di tanti corpi,
gli uni agli altri stretti, come tanti
apparenti fratelli, alle favole che
avrebbero portato il sonno a te, che, Dio
non voglia!, non veda più guerre».
A CARLO BETOCCHI

Sterile figlio della notte feconda il rimorso appeso al filo


del sonno canta le sue sottili nenie, la sua ira
attraverso le coltri mezze nere ma le sue grandi ali
variopinte non si spezzano all’urto del sonnifero
ospitale. Quando nato da un sogno l’incubo ci
porterà a te spiaggia di un nostro perduto mare,

la tua fronte stellata, i tuoi occhi scolorati baceremo e


come

colombe dal desio chiamate chiameremo l’amore col suo


nome maledetto.
ALL’AMBRA JOVINELLI

Cinema in penombra che m’accoglievi pomeridiano


ragazzo imberbe col pudore infedele e rauco alla
bisogna taciturna dell’amore desolato, m’accogli e
m’adagi su una tua cigolante poltrona. Vuoto
d’intorno lo scenario dei miei teatrati lutti aspetta di
riempirsi tacitamente servile, di sorde complicità
fasciato, di labbra sottili che vanno e vengono, di
nervose mani che cercano altre mani: simmetrie
d’emisferi rapidamente penetrati.

II

L’errore qui non esiste. Esistono infelici gli errori di un


attimo che piamente il destino s’affanna ad
inseguire nel lurido gabinetto, dove ogni regola è un
labirinto che conduce al Minotauro feroce e i giorni
preparati dalla morte sono concessi alla vita
fisiologica: coltello per uccidere il mio cuore dove
cade il Tempo di vivermi così prontamente:
labirinto che non conduce a nessuna salute del piacere e
dell’eccesso, non ha che la sua fine nel sesso, ma è il
tempo solo che vola senza senso, nel riflesso di
questo trapasso arcaico ai ginnasi d’Atene.
III

Urlo qui la mia fame, un gesto ripeto quotidiano, cercato


e ritrovato in trecento lirette confuse nelle sacche
sporche di innamorati palpeggiamenti.

IV

Addio adolescenza, miserabili catene della speranza! Ora


è lividamente certa all’eccitato una mano presta a
piegarlo al furtivo amore del povero: strapazzo
breve, fracasso di poltrona addomesticata da
qualche sudore di ragazzetto che sognando di... nel
sesso ingordo della sua ragazza, aspetta docile il
cliente, la richiesta infame di chi guardando la vita
addormentato crudelmente è risvegliato alla realtà
dalla mobile vita che si muove dentro i calzoni di
qualche ragazzo.

Fuori i ragazzi andranno lieti in giro.


Scenderanno a fiume a raccogliere i frutti di qualche loro
segreto: maschile presenza dell’inconscio
ambivalente che sgomina il giorno femminile e
austero di sapersi fonte di lucro, pieno di morte da
congedare virilmente.

VI

Io, con gli occhi bendati, assente, sbandito uccello della


notte perso in un inutile richiamo batto nel freddo i
piedi
e la mia storia solo da me saputa si perde chiara nella
lieve nebbia del fiume che arresta il mio cuore ad un
sogno illuso, presente come Dio ovunque impaziente
si apra all’aria un sesso di ragazzetto, e qui,
lontananza infallibile, affanno cieco, coi ragazzi a
lato che la pubertà infiora sul volto amaro di
miseria, il tempo si dilata, finalmente esiste nel
possesso dell’occhio che trascura il film
e l’impossibile come fulmine precipita.

VII

Ma è notte ormai per il poeta che al falso abbraccio della


modernità preferisce la grande stella del tramonto
della civiltà.
Irsuta stella in corsa ancora ma quasi tramontata ormai
che non si moltiplica più
in migliaia di stelle lontane.
Ogni alba è una resurrezione, ritorno alla pluralità, ma
noi abitatori della notte non arriveremo mai
all’amore della nostra decadenza!
Cancellando il nome dell’amore dal Libro della vita, ci si
ritrova qui a spetalare un sesso...
come fosse la fine del mondo.
Il mare di soggettività sto perlustrando immemore di
ogni altra dimensione.

Quello che il critico vuole non so dare. Solo oralità


invettiva infedeltà

codarda petulanza. Eppure oltre il mio io sbudellato


alquanto c’è già la resa incostante alla quotidianità.
Soffrire umanamente la retorica di tutti i normali
giorni delle normali persone. Partire per un viaggio
consacrato a tutte le civili suggestioni: pensione per
il poeta maledetto dalle sue oscure maledizioni.
A BRAIBANTI USCITO DI PRIGIONE

L’antica poesia si chiamò lingua degli dei, la mia,


modesta, aspetta il mattino di domani
dell’incertezza per sapere la sua presenza, il suo
peso innocente di patire ideologicamente.

E non è eletta, non siamo eletti ma semplici inetti visitati


dalla rabbia, noi poeti.

Tu a che razza appartieni? Ora che la fama ti ha baciato,


la nostra amicizia s’è smarrita dietro le maschere
del successo, e io
candidamente ti guardo massacrato
dai due anni di prigionia a meditare

sul plagio, e credo che non mi riconoscerai più.


VI
Smussa le tue femminine parti, angoscia, lascia la bella
età che si consumi nel suo tenace portare novità
che nessuno s’accorge, nessuno canta.

Morta è la poesia. E quietamente mi assale il desiderio di


morire e certa è la fine, certa la distanza che da tutti
mi separa, in questa alba mattina e alla finestra
della nuova casa, col nuovo amante che non
pretende commenti, false carte per credere all’agio
e al disamore.
Vedessi dove vivo adesso. L’architetto ha lasciato queste
stanze disadorne, non c’è riscaldamento e il tuo
dimissionario
poeta si gingilla con strumenti di morte, pistole, pugnali,
per dominare i ragazzi robusti, sani che confortano
la sua
malinconica giovane vecchiezza.

Vedessi dove alberga il mio cuore. Delinquenza precoce i


fallaci sogni alimenta di imprese rapinose e il
rumore dell’eternità, traffico insolente, a me arriva
dalla strada e tutto il passato, itinerario lontano e
quasi dimenticato mi si butta addosso ed ecco che
questa mia anima innaturalmente cristiana e cieca ti
saluta quando spengo la luce, smorzo la stufa e al
freddo piango sconsolato nella mia pazzia e la
pederastia è solo la speranza d’un abbraccio
anonimo, delicatezza dissipata, dolore sommerso
nella bellezza virile in questa età di sessuale
puritanesimo. Sì, abbraccio del disubbidiente, addio,
addio alla castità! Rimorso
e avventura dell’io che si è stancato di crescere.
Bagno notturno in cui mi abbandono: acqua tiepida che
diventa sempre più calda se lascio aperto il
rubinetto sonoro che gorgoglia mentre beato mi
abbandono.

Acqua calda quasi bollente che mi lavi, mi levi il mio


corpo, lo lasci riposare, allenti il battito del cuore,
anneghi l’angoscia che mi levi, rimango solo allora
senza la mia angoscia.
Mi sento leggero, solo, solo,
non urla niente in me: il mondo, la schiera dei falliti
annegano con me se mi lascio scivolare giù giù,
nell’acqua saponata:
naviga una bolla al mio soffio finché non scoppia. Povera
bolla che scoppia al mio soffio.
Anni e costellazioni investigati.
La mano ora trema per avervi frugati.
APPENDICE 1970
Verso ubbidienza il fato m’avvia.
Il canto dell’uccello tramortito dall’insonnia è roco, caro,
e tu mi vedi passare diletto nel fuoco, dannato,

ignori l’imperfezione della vita.

Sì, passo, calpesto il tuo passo, respiro l’aria che respiri:


un pazzo inarrestabile assediante vampiro mi
trascina nel Divenire. Tu vendi quadri a Piazza
Navona o rubi le tue cartoline di viaggio dal mio
cassetto e io t’aspetto tempio di pietra dura
che il secolo consuma.
M’è rimasto poco tempo.
Qui appunto nella notte dell’insonnia l’insonne sonno
della morte.

Solo alle tue costole ero vivo e vero. Più bestia che
umano risparmiato dall’angoscia.

E ora teneramente bacio il letto bara sleale


che non mi fa dimenticare
l’impazzita felicità.

Sui King regolavi la tua vita ladra: sorridevo alle tue


credulità.

Scioglievi enigmi chiari, decifravi la tua solitudine. Io ero


l’escluso dalle tue tempeste arbitrarie che
oscillavano dinanzi alla pazzia.
Prendo il sonnifero immortale e lunare abbandono la
terrestrità. Febbre la tua che ti porta lontano a
seminare e il mio corpo vibrante desto nel sonno si
scuote solitario e guai a piangere d’amore. La mia
mano sale
a toccare questo grembo sterile che più non visiterai e
improvvisa rinasce la vita per me.

O mio spetalato fiore! O Dio consumato! Bilancia che


pesi
invano l’alba in cui t’aspetto con lo sguardo d’un vecchio.
Tempestosa e inquieta respiri la notte,
ti dai da fare. Se m’incontri tiri
fuori la pistola e spari. Ma io rinasco.
Ho sette vite come i gatti. Ho troppo
peccato per morire. Tu sola morirai

e allora non ti perseguiterò più.


«Non c’è altra donna fuori di me che possa raccontarti
così bene la tua diversità. Mostrami la mano.
Nessuna linea per ora ti porta nell’Ombra. Io sola so
il segreto della tua morte.»

Così mi dicevi nel sogno chiaro e io imberbe lo


trascrivevo piano di mattina intontito
dai sonniferi.

Ora il campanello sonato dai delinquenti ladri piange


perché non apro e io resto inchiodato alla tua ultima ora.
Tu vai dallo psicanalista e paghi.
Io calco la notte, la pisto
se mi faccio pistare. E tutti
i tuoi anni danzano davanti
ai miei occhi al buio

e tutto scompare.
Sono gesti di morte i tuoi: di chi s’attacca al telefono
che ripete occupato se tutti
i tuoi amici telefonano.

Sono gesti di morte che la morte ironica concede alla


solitudine, allo sgomento-rumore del silenzio.

Il mutamento fluttua intorno.


Nel letto in mancanza di meglio ti tocchi il sesso. Poi
incelata la compagnia delle stelle violente che la
luna non nasconde, dal buio della stanza. E sei solo.
Sola.
Ti cadono i capelli, qualcuno ti mangia il cuore. Non sai
più scrivere. Parole senza senso immagini fiacche e
vuote.

Il sole nero della morte brilla lontano e tu t’avvicini a lui


col tuo cranio spappolato.

Anch’io ho paura. La serale notturna mattutina insonnia


non s’affloscia: la fessura per arrivare all’anima
è troppo volgare.

Addio. Tradiscimi con chi ti pare.


M’imprigioni insonnia e ti ripeto: lasciami dormire. Che
io dorma senza l’angoscia di svegliarmi.

O poeta spezzati. Travestiti da insano. Vai dal nemico a


chiedergli perdono. Il tradimento dell’amante non ti
tocchi più di quanto ti abbia toccato la solitudine.

Non giungere a congiungere le labbra. Il tuo «no»


sia l’unico «sì» disperato.
È notte nel cuore e il viaggio all’Inferno continua. Se non
dormo il fuoco
non si spegne della vita ma s’accende un barlume, un
solo barlume d’infelicità.

Ti vedo massacrata perversa incalzata: tormento per il


mio risveglio. E tu perirai, io perirò senza che
nessuno ci dica chi di noi aveva ragione.

Ma non telefonare. Sto cercando il veleno che t’uccida.


Che mi santifichi.
Ostile mia solitudine, uccella
dalle ali tarpate, tenera inquisitiva madre d’un figlio
snaturato.
Come l’insonne insonnia s’insabbia nel sogno devoto
dell’inconscio
tu m’appari strozzata dalle mie mani.

Il tuo collo a stringere e l’occhio che scoppia, il sangue


dalla bocca a insanguinare di rosso la speranza.

T’adatti docile e io penso di amarti così morta, derelitta


danzatrice
della morte. Ma non muori,

anzi m’incontri per strada, m’insulti travestita da puttana


e io

faccio finta di gemere d’angoscia.


È il tuo corpo santo che m’illude di esistere, di essere
sano.

Come devotamente lo spio soffrire d’impotenza e reclino


sicuro
a toccare con mano il tradimento,
.........................................................

Dove le tue ali ti portano io vado. Dove l’insonnia mi


trattiene io aspetto il tuo corpo mortale posseduto
invano.

Qui scrivo sterilmente il testamento testardo e


ubbidiente, esco estraneo all’aria perfino che
respiro. Lo so di essere morto sospirando
di passeggiare sulla luna.
Sto nel letto. A contemplare il soffitto.
È spento nella carne il mio sesso.

Abbraccio l’aria. Guardo dall’orlo


dell’abisso il filo che lega la tua vita
alla mia.

O imago insistente e predace!


O cadavere di un bacio! Dimentico,

vedi, perdono, ma domani torna


estinto o vorace.
Tutto rifiuto. Niente ho visitato.
Sono innocente dinanzi a Dio. Se ho troppo peccato ora
espio aspettando il tuo ritorno, che s’apra la mia
porta.

Un tempo nelle mie mani ignare passava in folle


adorazione chi beve ora la cicuta, il miele amaro
dell’Inferno in cui sono rotolato.

Cercate di capire. Senza posa crudele calpesto la pazzia

e smemorato ricordo di aver provato la felicità.


Qual è la verità? M’interrogo, io, io, colmo di pietà per
me stesso!

Alle rive remote dell’inconscio il fortunale manda flutti


irati e tutto frana rapito dall’insonnia.

Devo tacere o parlare. Morire di fame. Sprecare i talenti


o rubare i libri in libreria.

Non dirlo soltanto, Dario, narciso senza narcisismo,


mondo senza pianeti o satelliti, solo come un cane.
Aspetta loquace il giorno a vendicare
chi ti ha tutto rubato
il sonno e le lacrime.
Morte segreta
FUORI DI ME

Una buona poesia è un contributo alla realtà. Il mondo non rimane


mai lo stesso dopo che vi si è aggiunta una buona poesia.

DYLAN THOMAS
Alla follia, non badate, datemi retta!
Pensate piuttosto ai nuovi ritmi in cui immergere la
vostra vita perduta dietro l’apparenza delle cose.
Cercate l’immortalità, l’eterna questione del mare
splendente dentro il sole di giugno che diventa nero
a notte e scompare nelle tenebre. Io dimenticato
relitto di una civiltà passata sono il solo che piango i
defunti miraggi di un’età morta e ancora
coprendomi di ridicolo scrivo lettere d’amore a traditi
amori di un’epoca trascorsa, la giovinezza, e ricordo
lo studente che piegava la sua retta immagine
a misurare l’angolo della sua carnale diversità, a versare
nel seno asciutto di una madre occasionale la
solitudine futura dei suoi giorni tutti uguali.
Lasciatevi andare verso il mare della vita!
Assaporatene la musica sbiadita, e trionfatore sarà
solo il Tempo e il suo nero oltraggio, la Morte!
Mentre io ancora scriverò che il poeta chiude in stremate
parole il suo cervello mirando il muro in alto della
sua stanza e le poesie scivoleranno via, senza pietà,
e nessun Dio le registra, incarnandosi per un attimo.
Il ritmo non sa di mirtillo acerbo e piegarsi sulla bianca
pagina di un diario il meglio dell’ispirazione fa in un
fiato dileguare.
Chiamatemi così: pazzo, deserto testimone di un deserto
da percorrere in una torrida estate, senza acqua
raccolta nella gobba di un domestico dromedario, e
la mia poesia definitela con crudeltà e livore come
lubrica, oscena, interessata e manigolda consigliera
di sventura o furto di anime giovanili in cerca di
nuove reincarnazioni.
Sappiate però che brucio di gioia, di allegria feroce
dentro la mia casa buia, prigioniero di calamitose
idee, slabbrando la mia merda in privata visione
senza lo scempio di immagini e talenti altrui. Sono
un genio geniale che la vita spassa da un dolore
all’altro, teatrale, senza ferite apparenti che non
siano d’amore, piaghe purulente lasciate da una
donna fatale che nessuno conosce. Slabbro la mia
merda in privata visione: ghirigori collettivi e
birbanti. Muratemi
in una galera con la bibbia e i santi.
APOLOGIA
Non mi rimane che scrivere e andare via, via per sempre.
Liberarmi di me e sciogliere
in cantico la mortale melodia che mi possiede.

Almanaccare delirando in tempesta nel vissuto morto


conteso al futuro da viversi male, in pena segreta
per quel nostro corpo assediato dagli anni e la
mente sconvolta dalla fuga di parole.

La mente che scoppia, bolle, ridicola anziana pensionata


del pensiero che una volta la sfiorò, regina, e ora ha
marcito tutto, anche la speranza del Dio.

Lasciate le porte aperte, allora grido, nel culmine della


mia scena di pazzia; il melodramma è morto, ma io
vivo, sono intero e sopravvissuto alla guerra
atomica, solo io e la rabbia di non passare quella
porta! Porte di Dio, infere tristezze di un raggio di
sole prima del diluvio personale, dell’accidia dei
minuti incollati al cranio moribondo!
Qualcuno mi uccida, trovatelo, o fatemi fuori, presto,
prima che pensi, o mi agiti nel sogno.
All’alba, lunatica sofferenza, apro al silenzio insonne, al
sordo rumore del mio fiato, l’anima bugiarda e
santa: sono qui intestardito a non morire, a non farla
finita subito, un bel volo dalla finestra e giù,
spiaccicato sull’asfalto obliquo della mia obliqua vita
di scapolo, senza più il ricordo assillante del passato
che fu, innamorato amante di giovinezza
irraggiungibile.
Se un poeta, io, regalo al cupo silenzio della notte metà
del tempo che m’incalza ostinato inquisitore di un
corpo
sbalordito dall’abitudine, decomposto, in ansia perpetua
di non lasciare traccia di sé nei corpi altrui o stampo
caldo nelle fresche leggere menti adolescenti né la
Storia, l’ordalia infernale dei tiranni assetati di
sangue e morte non considero, ne viene anzi, rabbia,
sgomento, urlo lontano nella gola secca, pianto
sommesso o gridato, abbiate pietà!, vi scongiuro,
trattenete l’angoscia che sale alle mie stanze,
feritela, fate qualcosa!
grida la mia voce isterica e arrotata dallo snobismo
clientelare con il Diavolo; ne viene tutto come meta
finale un nulla, un ghiacciato nulla senza escrementi
o virtù viziosa di drogato. Talché scrivo in privato, di
nascosto, che nessuno sappia, per carità, madre di
un attimo, amante passeggero dentro un treno o una
fratta, scrivo un testamento o calendario, a seconda
dei temi giornalieri destinati dal Caso, non umili o
meschini o facili o malati ma sempre datati come
ogni cosa deriva dall’anno il suo profumo e la
menzogna, spera di trovare l’occaso salutare
fuori di qui, terra bruciata, di nessuno di là dal mondo
certo e pellegrino.
Ormai ho scelto castità. Il predone che ero si agita
invano per uscire dal freddo inerte buio dell’occulto
inferno che nasconde un Niso, un Manuele, angeli
della terra raccolti intorno al focolare del vizio. Ma
gli asciutti occhi al pianto costretti mi commuovono,
l’eterna lieta tragedia della vita
astrologata da mille delusioni brucianti.

Mi nutro così
di malinconici ardori, il poeta d’amore ha spento i suoi
profili, i suoi fuochi di passione; è bagnata
primavera, raggelato il pianto sul viso agli specchi,
tardo alla finzione disperata che un dì salvava il
lenocinio, la partita, il gran finale dell’apparenza. Io
prego
un me stesso che non c’è più, un caldo giovanetto
inquisitore di lunatiche sentenze di assoluzione,
nato nel colore ambiguo della morente estate, sotto
il segno funesto della Vergine malata di sangue, di
peccato, votata per calcolo perenne all’espiazione.
Ma quando ancora nella piazza del quartiere vedo un
gatto del bosco, uno straboccante festoso me stesso,
non trattengo né lacrime né urla sante di vergogna.
Chiuso in casa supplico un Dio che solo io conosco e
adoro.
Dio può pensare se stesso essendo puro spirito. Ma
pensando sé ci annulla vigorosi nel corpo a cospetto
del micidiale sonno che ci tiene e ci lascia ma
sempre inconcludente
ci depone alla fine dei giorni, delle ere, e tutto è notte
conchiusa nel vetro stellare della luce senza
speranza di vivere oltre i mondi e le età.
Oltraggiati dal nulla, condannati felici, mistici ardenti
di consumare lo strazio
prima dell’avvento,
della certa fame di Dio.
E abbandono morte. Giocattolo di Dio.
Le muse si sveltiscono solo se andate cose rigirano,
sezionando in dolore e confessione, oscillando fra
tenere immagini e pensiero
lucido di ieri, friabile rendendo la memoria delle realtà
impossibili, quelle mai volute e tutte assoldate al
vizio del ricordo.
Le trapassate entità ingiuste e invivibili che fecero di me
un ragazzo come tanti e ora un morto che cammina,
un fiato eterno di pietà e tristezza, trascinandomi un
corpo-cadavere che di mattina alzo e vesto, rantolo
per casa, chiudo al gabinetto, ascolto nelle sue
chiacchiere insulse e quotidiane, chiedendo udienza
alle muse ancora con ironia come una pianta secca
dai fiori profumati, chissà perché. Dentro il cuore si agita
invano la parola chiave, morte, morte terrena, morte
eterna, ed è il corpo trionfante bestia che si accalda
a dimostrarlo in attesa di diventare freddo come un
marmo.
Questo corpo che vesto e nutro e lavo
e accordo ai separati corpi altrui, costringo ad amare,
manometto, chiedo il perdono della sua putrefazione
perenne in una erezione instabile e impotente,
sterile, senza figli severi e solari per confortare
vecchiaia.
Tutto questo decomposto, gracile corpo cadavere devo
affaticarlo per sbiancare una notte senza insonnia
uncinato da pasticche velenose; cuori diabolici nel
letto agitano la loro bandiera nevrotica. «Anche tu
sei dei nostri, caro, scegli l’orgasmo che vuoi. Ti
aspettiamo impazienti, addio!» I morti, gli
strabilianti morti vivendo nei sogni li terrorizzano
fino al delirio della più enorme insonnia e solo le
botte dell’infanzia mi placano, giacendo senza vita
lontano dal centro della mia vita.
«Non urlare, Dario, non urlare, sei pazzo.
Un vivente melodramma da strapazzo!»
Così diviso da me, osservo il mio cadavere, ne contemplo
le mille epoche sopravvissute alle illusioni, alla
felicità passeggera di un bacio, preda di sapienti
ladroni notturni che sanno aspettare fino all’ultimo
l’estremo rantolo.
PARANOIA
Mi sveglio di soprassalto la mattina, il cupo incubo vivo
intatto risuscita e tutto, tutto aggiunge dolore, mi
strema; rinchiudo allora nell’ulcerato cuore ogni
calamità, o strazio e svengo, deliro, canto, gemo,
fingo, urlo, tremo ma non apro gli occhi ciechi, li
serro infiniti al bacio del mattino, languido filtrando
la sua persa luce, sazia luce di Dio.

Un altro mattino e la sua luce falba, lurida per me


universo inguaribile di stolta vita, se tu manchi
ormai al sole, aprendo il giorno con truccate parole
o il niente, il selvatico niente, il vuoto, il vuoto,
vanità di tutte le armerie terroriste e soldatesche
straccione!
No, gli occhi sbarrati, aperti, feriti, resto nel truce letto
assaltandomi antiche maestà: febbre, follia, paura
sterminata di uscire, e dentro, fuori il pericolo, la
viltà criminale di un piccolo omicida spento dalle
mille droghe.

Ma io sparo, uccido, non ho pietà. L’immaginazione


condanna la paura a crescere da sé, a fuoriuscire
vivendo solo, ed il 113 lo chiamo, per forza, venga il
Potere a difendermi dall’ingiustizia di pregare
l’assassino che non mi uccida con il mitra, a fare
giustizia delle carogne umane di questa morta città.
Non voglio più soffrire. Io sono Dio, mi dico, per un
attimo mentre viaggio effimero verso la gloria, calzo
le volanti saette del pensiero
con la luna di traverso dei giorni delinquenti dietro
l’appassito pensiero
del tempo che passa – passato,
presente e futuro, sfacendosi in mano
ogni certezza o amore decaduto di me.
Non amo giovinezza né desidero vecchiaia.
Sospeso come un aquilone nel folle vento di un giorno
eterno, senza pari al profilo di un’eterna
immortalità, aspetto
il giorno del giudizio, sperando

che non arrivi mai. E ancora febbre, radicata da una


micidiale essenza
di gelsomino e arsenico, mi afferra, mi depone
calpestando ogni profumo d’infanzia nella losca
voluttà del corpo tramortito dalla disdetta, tutto
straziando, altera, funebre, solenne, celeste essenza,
miele, nettare, vomito.

Si strangoli il rudere-corpo; il mio ossario di preziosa


sventura e debolezza.
Che sbatte inquieto sul letto l’avventura dei giorni
mischiati alla fame di te,
alunno del sole, creatura delle creature immortale
vincitrice vendicativa superba castratrice
immedicabile nel ricordo, con l’ago pronto in mano
che impesta gioventù: «Ero» «Morfa» «Anfe»,
divinità catilinarie sbudellanti ipotesi di immortalità
nella sfera sfrenata della carne insipiente, della
buggerona coca del pistacchio alla mandorla!

Ahimè! teatrale e finto, sono, e non cedendo resisto


quotidiano all’assalto degli irreali sogni
d’allucinazione cantatoria e claudicante,
misericorde Iesus mi guarda, protegge, e sconfina
l’idiota, volgare irrealtà delle tue siringhe nel
braccio, inseguendomi per tutta la casa.

Sei un bambino, un pallido ragazzino venuto dal mondo


dei morti ad inquietare voraci orizzonti di beltà
usate in fretta dentro una stanza fra musiche
psichedeliche e tristi nozze con l’assoluto. Lasciami,
non sono del tuo mondo. Non capisco niente di
droghe, provare non era la ventura di tutte
le mortificazioni derelitte! Guarda, fuori, nel cielo, la
mattina è autunnale, sconfitta come si conviene.
Piove nelle segrete
celle del cuore privo di vergogna e pudore ormai nel
mettere a nudo i suoi alti e bassi di orrore. Piove nel
cortile davanti ai nostri occhi miopi di vecchierelli in
miseria, sapendo di perderti se non vorremo più
l’ago, aguzzino di tutte le cantate veglie.
Solo ci attende silenzio, solitudine, destino di morte.
L’ironia allora mi assale, il funesto vessillo
dell’ironia, ma Dio non mi assiste, si vendicherà
anche di me, mortale morente peccatore di tutte le
passate baldorie.
LE CHIAVI DEL CASO

Tutti i giorni sonnolenti passati dentro il mio castello a


guardare gli eventi filati da qualche destino
superiore; e poi svariando mi alzo per scrutare
l’abisso che attende i teneri umani, i cercatori di
pozzi salubri nella terra sconfinata, gli amori
notturni spiegati al popolo dal mago dei maghi,
il cuore antico servito da mille incerti pensieri nella vita
fin dentro la barbara prigione, il mio vero castello.
La mia
prigione è il caso, il sortilegio del nulla abbondando le
cause di malattie e non
crescendo nell’Ordine ma nel Caos verso la fine, l’aborto
finale, procedendo infantile eroe incatenato nel
vizio.

Non c’è merito in questo andare: la tregua è sicura, il


premio è altrove; la porta
inferiore della scala infernale
non prevede angeli suonatori di flauto
né jazzisti incolumi da tossici o limiti sonori. I miei sensi
non intrigano più
le ore nomadi del giorno Assoluto!

Così, ai vetri, apro al vento il giornaliero concerto fra


segni premonitori; le finestre, sorelle e amanti per
chi non esce più di casa, urlano fuori la verità regale
del mattino.
Le chiavi del caso sul davanzale posano
intorno a lacrime secolari di innamorate morte –; ed io mi
rivedo ancora com’ero: un ragazzo senza cappello
né affetto, sotto il peso indicibile di una meta
terrestre, un ruolo, un’Idea, fino al delirio cercato
dagli occhi ballerini sorvegliati da stanche madri
materne nelle pigre poltrone di spariti salotti rossi.

Non era il tempo che andavamo in giro con ombrelli rossi


o verdi per l’Italia assolata di gioventù, la nostra,
piccola, inedita canterina di disgrazia?
La somma finale del nostro pensare è zero; onde sono
diventato tutto e niente, e in questa verità racconto
una favola negativa a me stesso: di cui mi occupo
con fastidio e celebrazione, sapendo che non esiste
altro, e l’eternità è lontana, frutto di miracolose
digestioni che il mio stomaco delicato non può
permettersi. Il pane degli angeli mi va per traverso,
il nettare degli Dei mi provoca diarree.
Così è duro vivere sviluppando i pensieri e intrecciandoli
come coriandoli alla maschera buffa che io sono,
innamorato di non morire mai, neppure per sbaglio
o per far piacere a Madama Morte! Per cui scivolo
nella stanza fatata delle mie notti solitarie verso una
provvisoria allegria, con l’armonia dell’universo
intero a tenermi compagnia.
Per il piccolo porcospino che è in me, per la mia grande
musica notturna di grande poeta straripando in
eccelsis fino ai troni del Signore Defunto qui
confesso che tutto quello che devo a me stesso lo
devo solo a me stesso, la natura non può
accaldarsi se non la cito quasi mai. Non ho sensibilità per
la natura, da sempre staccato da lei, vivendo
nell’artificio e nella finzione, fra le ombre più
infernali di un infernale inferno.
Il pensiero, quando tutto è stato pensato, è vuoto, inerte
a registrare i battiti del cuore polveroso, i richiami
della madre fuggitiva
nel ricordo delle mille ere dell’infanzia smarrita; il
pensiero è pieno solo quando l’assassino promette di
arrivare, e la paranoia sale, incendia le meningi,
compra tutte le azioni furtive per scampare
alla morte, altrimenti è vuoto, glaciale
sotterraneo di sventurate talpe che minacciano il cielo
con la loro bianca cecità di ragazze.

Datemi la verità di un attimo, solo minuto in cui si


accende e spegne la lampada gagliarda di Dio, luce
tremenda, sleale e interminabile bugiarda fra mille
destini assetati di sangue e gloria, voluttà
insaziabile e disfatta di piacere.

Eccoti che arrivi, o donna antica e vera, non posso amarti


nella carne; nel tuo lavorare c’è un oscuro silente
coraggio di renderti virile l’anima; ed io che
sprofondo verso la follia non posso confessarti
quello che veramente
sento di me: Io sono Dio, il folle viaggiatore dei deserti
osceni dell’odio immaginario, il languido servitore di
capricci mescolati a baci arresi alla resa del tempo
che divora la tua bianca faccia...
AMLETO

Ho portato il mio vecchio corpo rotto da malattie che non


danno più la pace dello Spirito fino al teatro dove
Amleto carezzava la sua imperatrice madre
cacciatrice di mode pur di evitare la servitù
dell’amore filiale o il coraggio di un incesto per
bene, quasi fosse la mia, di madre, tenera madre
dimenticata nelle sue nevrosi mattutine
di casalinga inquieta, nelle inquiete stanze della verità
amara di un tempo. Ero giovane, ero ragazzo, ero
libero, ero cascamorto giullare di un invito al
ristorante con la grande artista melodiosa del verbo
incarnato del Cristo.
Ora lo sento il tempo distante da me che vivo fuori del
tempo e nessuno mi ha in simpatia, neppure quando
grido che in Italia si può
essere, o ironia di una citazione!, solo
ideologici o arcadici. Sempre al servizio
di qualche re buffone, arlecchino dalle cento piaghe.
Diventare vecchi bacucchi significa mangiare la
foglia della schiavitù corrigenda, della fulminea
posta al direttore delle carceri divine. Non c’è
spazio per te, qui, Dario caro, dittelo con tutta la
fosca ottenebrata concessione alla limitazione
temporale degli editti di morte.
Qualcuno ti ha condannato a morte; e non è la carità che
spinge il tuo cuore a trasmettere il turpe messaggio
al cervello, né la paura solitaria della mano sul
membro in erezione continua,
ma la visione di Amleto, tuo simile,
spia terrena del Diavolo, traditore dei traditori che
s’infiamma nella ricerca della verità inesistente.
Eppure il suo pazzo consiglio nel dramma è identico al
tuo: «Di avercela tanto con i traditori, avendo da
sempre tutti, senza esclusione, tradito».
Reso leggero e pesante dalla vita trascorsa in cento giri e
gironi di sventura, approdo ormai alla vecchia soave
verità del Dio incolume da morte e da passato, mi
rassegno all’arbitrio della sorte che vuole nel sogno
la fuga di ogni mio splendore, mentre in realtà amo
la vita, sono forte in essa, e asciugo volentieri le
lacrime solo ai miei sereni e spietati nemici di una
notte, in un letto chiuso a contare le future notti di
solitudine e squallore. Se piango io non voglio
nessuno accanto alla mia tomba, e solitario mi
aggiro nella mia grotta a cancellare le orme del mio
passaggio terreno; quando i posteri diranno chi ero
non potranno pronunciare né assoluzione né
condanna. Io ho vissuto come ho voluto in barba agli
economici ricatti, o alla fretta dei critici immortali
nel giudicare la mia forsennata poesia sospesa fra
elaborata perizia
e sincerità programmata. Ora che sono vecchio piango
l’astuzia di un tempo, quando riuscivo a scrivere
versi meravigliosi, a freddo, mentre adesso sono
conficcato nel mio continuo assedio di morire e non
morire.
Scrivendo ho imparato a fingere, a raccontare ai miei
nipotini inesausti di ascoltare la mia truccata verità
di solitario in bilico fra ascesi e rovina, mistico
terrore del nulla e furia di possedere un corpo nelle
sue viscere sbudellate. Mi faccio paura e
compassione, sono un mostro paziente e non
desidero niente di più di quello che ebbi in
giovinezza, chiudendo in faccia la porta alla povertà
e al vizio di barare.
Addio allora mondo! Mondo degli altri moribondi
normali; addio con tutte le segrete immense rivalse della
invidia poetica; addio mondo sgominato
dai soli e dalle pasque nuziali; addio mondo
che l’intelligenza sublima e il cuore
consola fra celesti in rovina che non sanno
nulla della mia morte e della mia rinascita.
Arriva un ragazzetto biondo da Venezia, si rivolge a me,
unico albergo alla sua febbre di drogarsi.
Vorrei ospitarlo, ma sento dentro una stretta di
vecchiaia; non sono più capace di consolare i giovani
amici delle tenebre, i pianti li piango da solo con
accanto il gatto dei miei pensieri.
O forse sono un vigliacco impaurito dalle leggi che
parlano di corruzione di minori. Ma, cari giudici,
qua il minore sono io, l’infantile
bestiaccia che rischia senza coraggio un atto semplice
assurdo che si chiama «orrore della vita»; la verità è
che i corpi non mi appartengono, le leggi più
rispettate da me sono quelle che io traccio con la
perseveranza di un monaco
innamorato della sua cella solitaria.
Amo solo me stesso e la mia morte.
AD ANNA MARIA ORTESE

Ritorna primavera, e con essa ritorna gioventù; il gusto


alla vita ritorna che l’inverno rese insapore e fondo
di malinconia e pietà per i vivi ritornati ad uscire
dall’abisso scontento del gelo di gennaio o del marzo
piovoso. Ora che si riesce viene naturale rievocare i
vecchi tempi, alteri e sfrontati, della giovinezza
sparita fra gli insulti e i sospiri. Riaprire le porte
all’avventura dopo i mesi di febbre e di castigo, nello
spazio di memoria amaro e sconsolato. Ma ritornato
ancora una volta nella casa-inferno-tugurio e ancella
del peccato, di non peccare audace irresoluto
peccatore, ho aperto al vento
le finestre, all’aprile incostante cercando di succhiare
una nuova linfa vitale
che mi facesse chiudere nel cassetto
dei ricordi le vecchie impressioni di morte e spavento
luttuoso fino a dormire lasciando nel sonno ogni
pensiero, senza alimento
per un futuro vuoto, libero finalmente da parole.
Dovrei ritornare quello che ero: ragazzo battagliero che
non confonde l’ansia di mescolare il suo fiato a
quello degli imberbi strappati al pianto delle madri,
scappati di casa puntualmente per resuscitare
l’amore dei morti zingari del sesso indemoniato, con
l’ansia fortunosa di sentirsi vivere e dissociato
vivere ma sempre giovanilmente fugace per le
strade dell’umidità; rendendo marcio il corpo e
fuggendo nell’orgia musicale lo spavento di sentirsi
vivo.

Salendo le scale della poesia ho però smarrito il senso di


questa vita laboriosa dietro le tracce della vita, ho
inseguito senza più lo slancio della fortuna
animalesca le prede di una notte passata furtiva in
un letto pieno di stracci e di contentezza giuliva,
trascorrendo tutte le ore nell’estasi criminale della
corruzione del mio corpo magro e predace.
Ora ho fatto bancarotta. Posso solo predicare ai posteri,
ai miei lettori di domani una buona fine dopo un
buon principio.
Se sono morto e affogo i dolori nel cercarmi senza sosta
in un’infanzia lugubre e precaria o in una lunga,
lenta adolescenza tardiva di stagioni remote, passi
invernali chiusi in un sospiro inseguendo sagome
incerte di compagni –;
sono proprio morto, ad occhi aperti, col cranio asciutto di
ragazzo malcresciuto, birbo e infame: tutta la vita
davanti, anonima, degli altri frusti e furibondi nel
sapersi trascurati dalla fama, o eccesso di vizi
spavaldi; io stremato fra ragione e pentimento di
ricordare questo eterno canto di invettive leziose
contro quello che può restare di una vita personale: un
odio, una sconfitta, un mare o male assoluto, un
piatto rotto per terra ancora al mare ritornando coi
zoccoli in mano e la certezza di aver tradito l’amico
notturno, la fanciulla dai capelli senza colore.
Laggiù, in un aperto orizzonte che mi vide nobile e
tenero cacciatore di sensazioni, in
un infinito terrore di sentire il tempo
che passa senza illusione o condanna.
Salgo e scendo le scale di una casa non più castello di
forti speranze o robusti amori, ma che tessendo le
fila dei miei disfatti giorni annunzia inesorabile la
voragine della sventura.
Lì, durante la scalata faticosa al vecchio maniero abitato
dai fantasmi sento voci precise che appartengono
all’incubo di notti cadute addosso alla mia infanzia
celeste nutrita di ardori sconosciuti e angelici
languori.

Fantasmi di amori morti, amicizie consumate dal tempo


rapitore di gioventù, inesorabile abitatore di malate
menti sconvolte dal nulla.
Dio non c’è, non c’è speranza per me se rientro a casa
furtivamente, sospetto di morire
per mano di un giovane assassino dietro
un angolo buio. Così appena arrivato, pieno di sgomento
ed eccitato dal mio sangue
non versato, alzo a me stesso la preghiera solitaria di chi
non s’innamora più
del suo assassino innocente e reale.
In quest’ora stremata della notte ho cercato di non
pensarti; l’unione con Dio è sicura: con te
m’attarderei in vecchi conversari, in imperfetti stati
di beatitudine malata.
Devo accettare, e non riesco, vecchiaia, infelice danno ai
miei anni di cartapesta, al pesto orgoglio di vedovo
animale di anime, aggirandomi fiero in strette
strade complete di nemici che attentano alla grazia
suprema di stare in piedi a fissarti dietro un angolo
buio, dentro una vetrina luccicante in vendita la loro
meraviglia di sapermi ancora vivo e parlante una
lingua a tutti sconosciuta tranne che a te.
Non t’incontro più; Dio è stato inclemente.
Eri in vendita, ora sei stato tutto comperato.
È incostante il desiderio di rivederti; la furia delle
recriminazioni a tuffare il mio cuore in troppo forti
patimenti. Tutto per te, forsennato giustiziero del
mio lascito
mondano ai morti: il corpo, baldracco
corpo sfiorato dai mille corpi ragazzi.
«Non è colore, o luce, riverbero o ombra.
È qualcos’altro.»

Un amore vorrei elegante e sporco per ancora eccitarmi


onde sacrificare la speranza di amare al bisogno
osceno dei corpi da torturare. Ma non so amare,
questa è l’aspra verità; spero soltanto nell’inganno
banale del tradimento, nella compiaciuta analisi di
chi è servo sensuale dei propri atti. Allora mi
dilungo in estasi oblique di infingibili realtà che non
riguardano le donne.
Non ho vagheggiamento del mio futuro destino
tutto intrappolato nell’estasi di una macchinazione
lamentosa contro l’acuta sensibilità decadente
e malata degli snob immaginari del mio sepolto passato.

Un amore vorrei per vivere con la mente ancora una


breve primavera d’eternità apparente, onde
rinviare quel fatale giudizio che io do di me stesso
implacabile giustiziero del mio folle destino. Non so
amare, ahimè, paggio Fernando o Michelino di baci,
i Troni di Campo sanno di cicuta e le bionde
di Trastevere aspettano i ladroni, i carrozzieri e
meccanici giornalieri che di notte uccidendo
salvano la mediocrità dell’italico popolo.
Da solitario che avanza nel deserto degli anni, nella foce
smisurata di morte senza ritorno, vivo ormai
soggetto di storia personale uguale fino alla fine al
presente dei giorni tutti lavati dal rimorso e da pene
leggere congiurate in soffio mortale
di innamorate aurore prive di fuggiaschi ragazzi un
tempo assidui del mio canto benedetto.
Parto all’alba e arrivo
il giorno è appena finito
un altro senza rimedio
infinito giorno e notti
rubate al sonno.

Parto e non arrivo mai


a mete conclusive
non arrivo mai.

I treni, le trame
dei desideri, l’addio
di inguaribili amanti
angeli della morte
cadenza idiota
del cervello.
Non sarai tu ad uccidermi, faccia d’angelo, ragazzino
inquieto e imberbe fuggito da casa chiuso involucro
di ardore maschile diretto male, non certo allo scopo
di procreare. Non sarai tu ad uccidermi per una
semplice ragione: l’assassino me lo voglio scegliere
da solo, e non sarà più bello o più brutto di te, non
c’entra niente, questo, ma diverso, più contento di
uccidermi, come in amore sfrenato per la mia morte
terrena. Verrei troppo a infastidire i tuoi sogni, a
tirarti i piedi freddi e stanchi per troppo camminare;
e poi, sei frocio anche tu, peggio di una sgualdrina ti
vanti del tuo povero corpo di mal nutrito. Ne ho
conosciuti tanti come te, e tutti li ho fatti fuori io,
delicatamente, col cervello e un po’ di coraggio
senza minacce, astuto e tenero, straordinario, quasi Dio.
Te ne sei accorto adesso che il tuo Dario è simile a
Dio,
senza scherzi, e non sono un millantatore, provare per
credere, sono Dio?
Voglio dimostrare ai miei nemici di sapere amare di un
amore mortale non solo il mio corpo, narcisismo
che non trova l’oggetto, non essendo degno se non Dio
del mio amore terreno, ma anche te, povera
creatura notturna, di cui cercando nell’armadio, ho
ritrovato una nera giacchetta lisa che tu mettevi tanti
anni fa. Io
sono rimasto nella stessa casa ad aspettarti, ma tu sei
sparita per sempre, e la nera giacchetta è rimasta
ad aspettarti, come in una canzonetta giuliva e
triste.

Il poeta è qui, t’aspetta, e scalda le sue quattro ossa


davanti alla stufa del desiderio, aggirandosi in cerca
di vittime da impalare, come fosse Gilles de Reitz o
il marchese de Sade.
Questo nel dolore è compimento felice.
Chi ama la vita lo conservi e bruci,
ma resti impassibile, di marmo
a contemplare la sventura mia
e il disinganno. Ché solo morte
esiste e a lei m’affido, tranquillo
negatore terrestre delle Stelle.
Ho paura. Lo ripeto a me stesso invano. Questa non è
poesia né testamento.
Ho paura di morire. Di fronte a questo che vale cercare
le parole per dirlo meglio. La paura resta, lo stesso.

Ho paura. Paura di morire. Paura di non scriverlo perché


dopo, il dopo è più orrendo e instabile del resto.
Dover prendere atto di questo:
che si è un corpo e si muore.
APPUNTI
Tutti i nostri intrighi
intrecci, labirinti
giovani animali
diventati vecchi

nessuno saprà mai


dove saranno andati
l’oblio li coglierà
appena pronunciati.

Allora io funesto
anche a me stesso
prego Dio di pietà:
qualcosa di me resti
per le future età.
In quel molle giovanile quaderno perduto ormai come i
caduti anni
scritta in consunto diario la vita mia si spegneva fra
materne braccia e un esistere sordo e inquieto.

Ma era giovinezza, salto nel buio di gentili fraterne


carezze e gioia di uccidere il drago della noia
con uno scherzo, una gita a piedi fra selve e prati e
sabbie ardenti di mari nuotati coi fratelli.

Ora invece se a Campo dei Fiori mi trascino giovane


vecchio rinserrato in troppo pesanti giacche per un
mite inverno che vuole l’urlo della gioventù mi
accorgo inseguendo una oscura sagoma di quanto
tempo sprecato
la vita mi consegnò nascendo
più vivo degli altri umani, solo
e chiaro celeste in un terrestre mondo di beati smarriti ai
sensi voluttuosi alla carne primordiale tenerezza e
invereconda beltà di un attimo
perfido di gracile seme presto secco!

Irriducibile mostro, gaio passante guarda, ma non


arrestarti. Mia tomba è questo corpo vestito di
poveri panni.
L’unigenito sole si sfiocca nella bile dei secoli e dei
millenni. La luna ride morta bambina della terra
fredda più del sole che in dosi omeopatiche si
raffredda vertiginoso alare del nero, mistico orrore.

L’universo intero, mistero illune per sempre, sulle spente


dune del desiderio mio insonne
di umana carne ascolta e trema splendendo eterno sulla
distruzione.
In un lugubre smorzarsi dell’autunno mangi come
d’estate in città pane e carne, cipolle e formaggio
a sazietà. Allora le equivoche giornate non avevano il
tempo d’offuscarsi nella memoria.

È viva ancora nei nostri cuori malinconia del mare, e ne


tremo e stupisco ai sospiri del tempo autunnale sulle
tue spalle chiare.

Ancora mangi pane in cucina, ami questo gioco


ingannevole di fumare creta rossa comprata al
mercato degli schiavi dal petto nudo.

Ci sono ancora: vivo, vero, e insolente, rendendo


omaggio al tuo silenzio che non sente.
T’aspetto, patologico emblema di chi non sa come
sostituire la vita, avendo la vita corta o lunga che sia
per unico bene e possesso, come la tua nera nuca.
SONNO E POLVERE

Un pugno di mosche in mano, la vita mia?


La costeggio demenziale scaricatore di immaginari porti
dove l’età
non cresce e i bambini sanno
del sesso il gioco sterile e lento.

Posso io incandescente e depresso calzare scarpe non


mie, lasciare indietro notturne cattività, illuse
religioni d’infanzia, ribrezzi
eterni di sconfitte anime
in sbarrate stanze se l’accesso fu per sempre dolore e
incostanza?

Le mie scale fortuite salgono solo ostinati balbettii di


strette marchette levigate da un rialzo del prezzo
del mercato.
Chi giù sprofonda non è più il rimorso che con sé
trasporta una crescita di ambre carpite alla mia
anima bugiarda.

Posso la solitudine inquadrare in una fila lunga e lontana


di soldati veloci a rincorrere e impalare
un implorante poeta di bestialità in servitù di chi può
testimoniare del creatore solo una strabica
creatura di sonno e polvere.
L’AMICIZIA È TUTTO

Aiutami ti prego a rendermi solo: non riuscendoci sono


vero
se solitudine è pensiero
di te e di me diversi di sesso e gentili, senza querimonie
tristi o droghe diaboliche e stupide.

Il tuo meglio vorrei ma ilare, allegro da ragazzina celeste


che bene volesse a te aspettandoti al portone giù del
nero corridoio, all’ingresso a battere quando con
qualcuno tu ritorni.

Dopo quattro anni comprendo che sei mio marito, mio


cico in una lingua che ci appartiene, non universale,
né terrena, né tanto meno volgare, anche se vedo
ostilità e perfidia nei miei nemici, pensando che il
poeta malinconico e teatrale ha un marito, un
ingenuo fidanzato dalle volubili responsabilità se
alla fine nuziale delle nozze resto vedovo
imprendibile lo stesso.

Amore è Dio. Un Dio carogna bastonato.


Il Dio del nulla, portatore di sventure passeggere come
se dicesse, quel nulla che lo veste, investendo il
tutto che lo possiede: «Sono più nulla di qualsiasi
nulla che pretende di essere il tutto dello niente. Il
niente di tutto».
Niente, siamo un nulla riempito di niente, amor mio. Ma
non sono un blasfemo.
Né mi accompagno
ad angeli o demoni di incerta razza quotidiana; il
cantabile lo lascio ad aedi più sicuri di me
nel mestiere struggente di poeta.

Vorrei farti capire con semplici parole che ad Accra o in


Asmara
uno come te non c’è
ma impazienza o noia
mortificano il nostro rapporto (pietre lunari e fredde i
tradimenti pesano nella memoria dell’oblio che non
si oblia nel suo contrario pensando ai corpi amari
amati da te in un lontano «sempre» o in «nessun
posto»!) ora mi dici che l’amicizia è tutto, ma un
tempo la rassegnazione infinita di adesso, la morte
per voglia di cambiare si chiamava amore.
Impronunciabile ora se non in versi di vendetta o
lotta per la sopravvivenza.

Vivere con te o privo di te sempre è soffrire; saggio


è lasciar cadere l’orgoglio, illimpidirsi e staccarsi dal tuo
corpo martoriato,
ma ahimè vita e morte
tenzonandomi nel cuore

mi salutano solo fischi di civetta e notizie


spaventose del futuro.

Confessione a parte, notte permettendo ci aspetta


un giorno di pioggia
serrato in petto
e un piccolo gufo
da nutrire.
HUSTON

Immobile delitto privo d’amore benché l’amore sia luce


oscura del saluto alla vita di tre
giovani sadici malati, a Huston: sulle pagine dei giornali
di cui ci nutriamo, leggiamo
che le foglie di brughiera
non hanno questo nero inchiostro per la massa al
quadrato
che nelle loro animule albergava: ragazzini potati come
tanti
al mio addio avrebbero acceso una gota di rossore pudico
mentre torturavano i corpi
giovanetti e stravolti
da pubblicazioni pornografiche – delirio economico,
sostenutezza di solitudine manustuprante – Ahimè
chi da ragazzino non si è masturbato scagli la prima
pietra; ahimè divina natura perdida e baci in fronte
scavanti su gelati macelli di cabine osterie e rimesse
di auto dove giacciono calcinati i corpi innocenti: –
anarchia primo mobile, inquieta alimentazione
carnivora ma io perdo forza
nel fare la tanto di moda
macrobiotica, non scherzo
se il vegetariano è più aggressivo del povero ragazzino
assassino con la pistola in mano sulla gola del
compagno puntato, godendo: un’esistenza di aride
parole
tranne angelo, la parola angelo.

Così lì, a Huston, sadici angeli per pistole scariche e lacci


intorno al collo, mentali storture e il vizio di fondo
l’oscurità della luce, in un clandestino amore per
l’odio mentre io giovane fauno, regista malinconico
delle mie angosce mi nutro a feste galanti,
illuminazioni e visioni se simile chiama dissimile,
oltraggio vuole verità, ma tutto s’appoltiglia ridotto
al nulla di una smorfia agonizzante e io muoio per
rinascere.
IL PADRE

Isole vidi nel sogno dal mare uscire inerti e deserte e


squallidi solstizi ed equinozi lavarono il cielo buio.
Dal sonno uscii ancora ragazzo, beato di tale
sapermi. Qualcuno mi baciava: un uomo magro, alto,
mio

padre perduto amico delle vecchie età.

Non mi svegliai.
E la speranza seppelliva
quel me stesso che ero stato e che non sarò mai più. Non
c’era costanza nel bacio e la mia bocca baciava
una prostrata immagine di morte.
Tu non sapevi di guru. Che il rapporto fra maestro e
discepolo deve essere muto.

Ignoravi perfino che il tutto per me eri tu che sgorgavi


dal nulla disumano delle pietre, inedificabile nulla
del piacere scandalo prezioso che il formicaio
degli umani non accoglieva, né adesso perdona di
esercitare questo mestiere libero e libertino, intriso
di rabbia sensuale e fame ancestrale, feroce
per le fiere nemiche del nulla reale, la morte, le sue tetre
sorelle del vizio osceno che è la morte.

Andavi a piedi. Scarpe consumate che io paziente


portavo a risuolare, cinico emblema delle tue
passeggiate
per tradirmi nei luoghi della vendita terrestre. Il
motorino, l’altro, il rivale, te lo aveva sequestrato.
La bocca
calcolava le pedine da muovere
per non perdere a letto l’ultima battaglia.

Diciamolo: eri un mantenuto che non sapeva di farsi


mantenere.
Le muse
smentiscono sempre se sporca è
la coscienza e il male morale
né memoria né assenza include
per risuscitare dalle ceneri.

Sono qui irresoluto e solo. Sono solo: onore a me stesso e


fuoco di polveri bagnate. Marcisco in piedi coi miei
sensi e la carne ha gustose primavere da
assaporare: ragazzi che corrono beati con le camicie
blu le cravatte rosse i calzini a righe.

Ero caduto in piedi, così si dice, e io ho imparato presto


l’alfabeto regale; i cinema di periferia mi hanno
assiduo cliente: i germogli del ricordo li porto a casa
e li scrivo. Non lascio più niente all’improvvisazione.
Derelitto che della propria delinquenza ha fatto il
suo bestiario-codice di morto.
Ma il mare a sera era turbato se i miei
occhi ieri lo scrutavano senza
modificarlo; e io piangevo mischiato alla
natura sapendo che il mio corpo è
mortale.

Dove poi mi recavo, fra i sassi, in erezione continua per


ogni ombra che non era che la fatica del vento
marino che muoveva i rami e io seduto contemplavo
la mia solitudine notturna. La notte dei miracoli tra le
lune che giocavano fra le nuvole.
Le labbra che baciavano la terra e il peccato di Onan-
Daniele
senza fossa dei leoni.
Rinuncio ad usare metafore e analogie anche se per
poco. Non m’infiammo.
Non cerco più di avvampare tra parole di gesso con
l’alito guasto di un falso demiurgo.

Sono io che prego te poesia di cercare oltre il confine


della tua dimensione misurabile un ragazzo.
Decubito nel letto l’occasione dei miei
versi addotti ad altri versi più
capricciosi di questi. Quanto mi divide
da lui è il tuo rispetto: l’inconscio di una
sera, storie per canzonette da juke-box
che provocano invano intermittenze e a
notte non sorprendo che lucciole nella
campagna stanca di sopravvivere
all’Estate.
L.S.D.

Sospiravi attendendo che facesse la sua tossica azione.


Te ne stavi stupito di tanto languore in qualche sole
di solo drogato. La luce nel tuo volto che io scrutavo
e contavo le rughe che segnavano il tradimento:
le occhiaie della mia perdizione.

O ragazzo, caro ragazzo andiamo via in questo treno di


aria
dalla civiltà che ci bara; accogliamo devoti il selvaggio
servaggio che è in noi, nella notte è il silenzio che ci
vince e ci bacia e se tu rimani freddo è allora colpa
mia, della mia bocca che non ti bacia e non riscalda
le tue labbra di bracia.

Ma guarda, ragazzo mio: la sera ha tutto in sé


ravvoltolato. L’angoscia è perfetta e nessun’altra può
scuoterla o spossessarla.

Pensa che io ti sono madre e i piccoli fratelli sono tanti


piccoli uccelli col gozzo pieno di cibo e io sono loro
fratello e la Stazione il Pincio o il Colosseo non ci
riguardano più.
Fosse l’ultimo amore il tuo pure direi a me stesso: «Ama.

Soffrire è godimento, è pena: tagliarsi le vene è saggio.


Non morire è un passo accorto
che puoi fare per coraggio
se morte è tutto, e nulla
è la vita».

Così ascolto le sirene dell’oltraggio e tutto il pianto di cui


ero capace ormai fa parte di un viaggio
che non riguarda più la mia carcassa.

Ascetico e sensuale e senza tempo vivo fra piazze e


strade di Roma.

Ascolto voci sotterranee che dicono che il mio giorno è


finito. Ma vivo resto e mi trascino in vita, cara vita
che persi tutta d’un botto ferocemente entrando
nella vita.

Del resto l’infanzia è lontana, l’adolescenza sparita: la


rappresentazione è quasi finita. Signori, si chiude!
STORIA PERSONALE (1974)
SCHERZO PER CATULLO E VERLAINE

Sono chiamato dai sensi a rispettare natura, a bruciarla


sull’altare del vizio che poeti maledetti incantarono
nei loro versi sublimi di cui arrossirebbero i modesti
loro colleghi contemporanei. Non potrei dunque
accedere all’accademia del re di Francia, però non
mi interessa, con tutti i miei sregolati versi pieni
d’angoscia o martirio o lussuria
se continuassi a bere la cicuta dei giorni tutti asserviti a
lei, la bieca castellana dell’aldilà, la sorella in Cristo
fottuto da mille streghe con armamentari bugiardi,
le solite parole della solitudine dette
un po’ prima di andare a letto, chiudere con la spranga la
porta dell’inferno, cercare dentro il cervello un
piccolo pensiero
che porti al sonno e non alla fosca trama ribalda
dell’insonnia. Altri tempi dunque videro miei
colleghi divertirsi a cantare nelle catene del sesso la
fortuna dei titoli erotici, dai genitali agli oroscopi
astrologici sull’accoppiamento furtivo fra madre e
figlio, fratello e sorella. L’incesto? Oggi, nel mondo
moderno tutto quello che è sopravvissuto lo sa solo
un modesto diavoletto di nome: giornaletto
pornografico o filmino, a scelta.
Solo l’erezione stravolgendo il sole dei tuoi occhi
infingardi riempie
di destino il mio vuoto cervello. Posa, incantevole
amante, lo sguardo su me, in un tripudio fulminante
di vecchia ruffiana. Amore di sé che il Tempo labile
consuma, in agguato peccando di malato desiderio
che sa di morire.
Perfidia sregolata che da sé si aiuta cercando senza
senso il suo contrario.
Amore di me, del mio feroce corpo
con che m’intrigo, rinvergino e richiudo in ogni breve
orgasmo di ragazzo.
Come d’esiliato vivere implacabile tutto in me prende le
mosse, aggredisce il nemico invincibile, la furia
calpestata degli anni profondi nel trattenere il corso
della vita laboriosamente sprecata dietro le mozioni
dell’infanzia, la vergine beltà della timida
adolescenza! Non voglio ricordare, il cuore
inquietare, morire non è tortura più grande della
debole sopravvivenza quotidiana, col niente in mano
a potare l’impossibile, a mietere la disgrazia di
sapermi solo, abbandonato relitto in un mare in
tempesta.
A. E D.

Mi ributto in piedi alla Stazione sempre più non sposato


e vanamente proteso alla caccia di te preteso urlo
scatenato della mia martire voglia di morire
impiccato. Espio se pago un amaro pedaggio alla tua
banda che qui staziona.

Piovono dai treni giovani viaggiatori.


La vita una volta tanto bella. Che non delude. Non piove
più fuori. I treni allineati come automi guardano me
sparire fra i binari, verso il sole criminale di un
ladro dalle robuste braccia. Mi vedo morto sparire
sotto un treno; il pianto della madre miserabile. La mia
ombra che torna vincitore, finalmente ragazzo del
sogno, senza simboli osceni di sventura.
Voglio morire; e tu felice spettatore delle mie commedie
salutari guarda i trent’anni di esilio quaggiù, come
sprecati sono dietro un amore che non troverò mai o
a fatica.
A. E D.

Non scrivermi più, illusa illusione di ritrovarmi nella


scrittura di un altro che non sia il feroce duplicato di
me stesso davanti allo specchio dei miei desideri
infernali o solari beatitudini di satiro disfatto. Mi
sono spogliato della carne mia umana e sono più
criminale, ora. Non succhio il sangue dei bambini,
non ti preoccupare, non mangio gli avanzi dei festini
del Dio
selvatico e sensuale, non arrivo a Citera mascherato da
voglioso don Giovanni di cartapesta; non mi faccio
servire dai plagiati gaglioffi dalle mutande sporche
di latte materno, non vivo per l’eternità, non grido
per la mia morte terrena, non servo il Potere tanto
per darmi una identità, non bacio le labbra dei morti
dentro tombe in cimiteri esasperanti in salita,
in qualche paese dove gli snob hanno comprato un
maneggio o una casa rustica per sentirsi vivi.
Non chiedermi dunque, cara illusione, inganni defunti
della prima età, dove è andato il mostro, il tiranno
osceno autore di invettive amorose; non chiederlo,
non lo saprai mai. La morte è con lui, e un teschio
melodrammatico in una stanza buia, in compagnia
dei suoi peccati e misfatti, cercando di cambiare
segno, suscitare la pietà degli astri, fuggire in altre
costellazioni più amiche, sprofondare nel regno
incantato delle favole dove avvengono ancora gli
incantesimi e le magie.
Dove è andato, sotterrato insieme alla catena dei morti
ricordi e dei morti amici, senza più la fame di
giovani corpi, onde non poter assaporare qualche
pallido sposo di Orfeo.

Che importa, dove è andato! Ridi, piangi, svieni, compra


un biglietto per l’aldilà
capriccioso e mutevole che ti costerà una vita, la tua,
minacciata da mille imposture prima di raggiungere
il favoloso nulla, il niente canagliesco!
Non è la carne, la musica dei tempi, l’oblio perenne di sé
che consola a tirare avanti, a bruciare nel giorno
nuovo l’avventura di vivere. Tutto è già stato detto,
tutto è già stato scritto; chi non è degno di vivere si
suicidi, uccida se stesso, e basta, niente strepiti o
testamenti lagnosi, per carità!
Un po’ di virilità, affrontando la morte.
È la festa dei sentimenti che ci fu data per sprecarla con
un groviglio di domande poco allegre che
rovinassero la vita.
Oppure no: «È la festa dei sentimenti che ci fu data per
morire prima di sapere la domanda
allegra che aprisse la vita».
Su, canta, balla, vecchierello, mangia il tuo cuore
diabolico, straparla
in trattorie con gli occhi malinconici che guardano oltre
tutti i tavoli, in un tavolo divino il chimerico garzone
della tua seconda e ultima vita.
Ecco i tranquilli giorni, le muse inquiete riscattando la
monotonia; malinconia è nettare infernale; l’estate
come fosse tornata l’infanzia delle vacanze: mare,
sole, sole, mare, abbracciato all’enigma del futuro
chiudendo in povertà i giorni tutti uguali con il
cuore a registrare su un misero giaciglio in una casa
presa in affitto i puerili battiti
d’amore che mai più proveremo, così sentimentali, così
audaci nello sperpero della pubblica energia. Dove è
ormai la poesia, la sublime immagine di me ragazzo,
amico della morte, la luna vergognosa delle
cartoline illustrate con tutto il «melo» della accidia
bisognosa di fare soldi, avendo solo mille lire in
tasca ed essendo giovani, tanto giovani!
Non c’è speranza, qui, in questa Italia provinciale ad una
vita da poeta, cioè in una vera società dove il teatro
sia teatro quotidiano di eventi tutti
scombinati dalla clessidra dei sentimenti.
Dove l’odio immaginario avvampi fino a distruggere
l’altro me stesso dell’odio.
AMORE AMORE

Non ha importanza con chi farai l’amore; l’importante è


che tu non lo faccia con me
considerandomi così io tradito da te e potendomi
lamentare, anzi desiderare la tua morte, e di notte
senza dormire deridere il tuo casto corpo nelle mani
del mio rivale fino al delirio dell’insonnia consumata
nelle probabilità del tuo tradimento.
No, non ha nessuna importanza se tu mi tradisci: ogni
mio rivale sarà a me inferiore, diminuito ai miei
occhi di genio sofferente e martire.
Due anni fa eri solo l’amico del mio ragazzo, ora sei il
tramite-ricordo che mi lega a quel vissuto, e in
questo incidente di un vissuto perito in una sporca
notte di nozze io piango e ti rincontro e mi agito nel
letto e non posso fare a meno di pensarti, sognarti e
cercare di possederti con le mie impazienti labbra
di fantasma. Non leggermi per favore, né uccidere il mio
«io» sentimentale. Chi ha cuore spenga solo la
candela e auguri buonanotte alla vita che è assente.
Non mi tradire allora e se mi tradisci tradiscimi con
il primo venuto come il tuo amico non pensando che
tu eri di lui geloso ed è troppo presto o troppo tardi
per recuperare il tempo
passato. Il vissuto non ritorna ed è inutile attaccarsi
freneticamente ai ricordi. Vado di là a prendere
un’altra pasticca avvelenata ma il sonno non viene.
Destino sarebbe che morissi avvelenato; tu così non
sapresti niente.
È Dio che muore con me:
sempre è un Dio – il Dio
delle marchette e dei ladri, –

ma pur sempre un Dio senile


che scrive stanchi racconti
pornografici, ragazzini
masturba, fugge dal Tempio
dove Dei pagani vengono
adorati sotto false icone.
Perché venisti solo a notte a cazzo dritto – diranno che
sono volgare, ma è il rischio di chi scrive per l’oggi
mortale e non per lo ieri eterno delle luci funerarie
dei tempi secolari –, e fuoriuscendo nel letto saltasti
a cazzo in su fino a coprire ogni possibile oggetto
delle tue brame, finché entrò non chiamata la
nemica pronta
a sacrificarsi sull’altare della vergogna, recitando
giaculatorie per diaboliche congiunzioni, pur di
sapermi morto
o divorato da qualche male. Non sono misogino, né
sfiorato da razzismo sessuale, ma il mio ragazzo, nel
mio letto, ahimè, portarselo via significa cercare
grane, desiderare morte gratis e senza funerale.
Poi mi accorgo che l’io, il prode nemico attaccato al suo
corpo mortale, è sempre nel futuro ciò che aspiro
perfezionare. Ogni perquisizione del cuore è un
addio alla salute, bisogno casto di non nominare il
nome di Dio invano, certamente perdente nella
giostra del mondo assetato di silenzio, di
incoscienza, per me infantile messaggero che non
trova mai il destinatario del messaggio allegro o
sventurato. Ed ora tutto ciò che avviene, mi avviene
in un viaggio – indizio
di vivere di versi, truccati versi. E non vale
dunque ringraziare questo corpo che si ammala e
guarisce con la clemente stagione dopo l’inverno
faticoso che non aspettammo solo per ricordare il
passato, l’incredibile passato pieno di vita
smeraldina
e peccatrice, nel letto dove mi rifugio e dove
chi ho amato più non perseguita o sorride. È vacante il
suo ruolo, e non facilmente sarà rimpiazzato.
La musica è sempre quella, ma a suonarla ci vogliono,
data l’esperienza babbea, più esperti suonatori.
Nella villa padronale dove m’invitasti c’era il tuo studio
carissimo e l’ombra vaga dei tuoi muscolosi modelli.
Non c’era la poesia, questa no, ma perché
pretenderla, al mare, d’estate, sogno da pazzi o
rozzi mercanti della propria arte? Io avevo lasciato
i miei attrezzi in città, volevo godermi in mare la tua e
mia felicità, non la sventura certo
del litigio o dell’offesa. Ma ecco il diavolo
amaro dell’invidia insinuare il suo bel dubbio, fiammante
di ostilità, e così la guerra fra di noi, la geènna, fu
cosa fatta. Non pari al tuo nemico fosti, o
sbaragliato mercante dell’arte tua, e a ricordare la
brutta figura quasi sarei tentato di cancellare l’odio
che è sempre immaginario dalle mie carte ma non
posso tradire la mia fama di autore di invettive e
così per la consolazione tua a lapide concludo con
un tuo scherano che slanciandosi su di me disse: «È
morto il poeta, è nato il commediante, pigionatore di
oscene coppie promiscue per le ore del suo ozio».
Ma il Poema della vita che sto scrivendo non sarà una
falsa congiura contro i vivi né un diabolico alfabeto
per introdurre ai misteri del mio io inesplicabile.

Solo, per scriverlo, m’occulto nel fondo della stanza e


aspetto intrepido
che risorga dalla notte il bel mattino per dirmi in pace e
pietà immensa
che il momento è giunto, di uccidermi.
Dicono che non sia un poeta raffinato.
Intrigando con la vita, rifiutando l’ermetica polvere degli
astri accesi che non fanno luce, ma solo un po’ di
musica stanca, che nessuno sente, preferisco
frequentare i grandi poeti, linfa del mio sangue, o
correre al vile mercato
dove c’è il vecchio popolo che muore vendendo verdura o
frutta, come io vendo solo qualche verso sottile o
lambiccato in questa smisurata confessione che è la
mia vita perduta ai giorni normali, alle felicità
provvisorie della carne. Ma chi capirà mai, non so.
Se tutta la realtà meravigliosa
contemplo come un gemente risorto
che morti non risorti ignorano per sempre.
Quel giorno santo che arrivasti a me ignoravo quasi tutto
di me. Inoltre vivevo dimentico e sperduto,
quasi fossi un figlio di re, tanti diritti e nessun dovere.
Poi ho dovuto piegare la testa, finalmente soffrire,
diventare adulto. Ed ora fa bene al cuore sapere che
qualche volta ancora riverrai.
Pronto a baciare a comando. Se non ci sei mi manchi,
semplicemente. Fosse questo appunto una breve
letterina, la strapperesti con le tue avide mani di
ragazzina.
A E.M.

Quanti anni sono passati! Tanti vergini anni mescolati al


grembo materno ormai per sempre lacerato. E solo
l’idea della morte mi tiene compagnia; scoppiare
come una bolla, senza speranza di ricomporsi, o una
goccia d’acqua svaporare e mai più ritrovare
l’identità.

Che paura e sollievo perdere l’identità, a fatica trovata


dopo millenni
di patimento o illimitata pazienza.
L’identità identica all’identico me stesso conquistato nel
giorno delle nozze con me stesso. Gioco a
nascondere la verità di un attimo secolare come un
minuto trascorso morendo, da vita a morte passando
per il respiro, il fiato fatale
dell’anima che ritorna a Dio,
lo sconosciuto Dio
del catechismo triste dell’infanzia.

No, quanti anni sono spariti nel vortice degli anni e


stasera ubriaco rincasando non c’è strada che mi
conforti dal sapermi mortale.
La mattina, birre, «salade», un po’ di caviale o salmone.
Non ero abituato a simile regime alimentare,
essendo di poveri trascorsi famigliari, anche se
dignitosi, senza elemosine stupide di Dame di San
Vincenzo frequentate da tua madre, nobildonna
ricchissima anche se con un falso titolo nobiliare di
contessa dei miei stivali.

Ero la tua vittima predestinata, la centesima della tua


calda estate di martire del pennello falso-ideologico
e del falso-erotismo
che va bene per una minoranza poco inquieta, di quelle
che frequentano i vespasiani e le latrine di Borgo
Pio, senza tanti complimenti per il metraggio del
sesso, tranne poi a scomparire nei salotti borghesi
delle finte aristocrazie romane, come fecero un
tempo i Trompeo,
o il famoso Palazzeschi sempre pronto a
ricevere in vestaglia i bei ragazzi.
A M.C.

Prima che tutti si finisca nei campi di concentramento,


mi dici che bisogna passare all’azione, fare noi parte
di bande speciali, ricorrere ad ogni macchinazione o
tranello per non finire impalmati in qualche losco
ambulatorio o mercato degli schiavi che non sanno
ribellarsi.
Diventare insomma carnefici, o gridare invano come
fanno tanti nostri amici, che la nostra
diversità sia riconosciuta, cioè permessa,
lasciata morire fra le secche della tolleranza.
Tu temi che rinasca un nuovo Hitler, è vero,
sei più pessimista di me. Io almeno ho la poesia, in
fiammeggianti versi, per rifarmi della prossima
morte, approdando alla mia riva di bastardo un altro
bastardo con un biglietto in mano che mi intimerà di
sparire, morire. E forse il Nerone che piange il suo
Petronio sarai proprio tu. Di tuo pugno vergherai le
brevi righe di sanguinario futuro tiranno. Con un po’
di curaro, e via, la vipera, la malalingua tacerà per
sempre.
LA SANTA

Come sei lontana da me, ormai, antica affittuaria di una


stanza, quando insieme smoccolavamo una cena, e
soltanto una patata in due ci sembrava un lauto
pranzo.
Sei stata una compagna sublime e silenziosa, donna quel
tanto che bastava per andare d’accordo
con un uomo come me, poco regalmente virile
per poter dire la sua a proposito del sesso secondo.
Passavi le notti chiusa in una stanza, l’ultima, in preda ad
incubi e deliri, ed io invano accorrevo
al tuo capezzale di matta; trovavo sempre la porta
chiusa. L’animus e l’anima, invenzioni troppo
fantastiche e junghiane per la tua preparazione
scientifica lasciavano solo me soddisfatto. Tu
coltivavi
le servitù apparenti con le avanguardie pittoriche.
Gente poco raccomandabile, all’atto pratico, per
continuare a vivere di solo arte. Ma eri una «Pura».
Io un purista linguaiolo che passava per buco
ad ogni angolo di strada, nella vecchia Roma del Belli.
Sentissi quanto ho cambiato stile e musica, da allora,
quante catastrofi hanno riempito il mio destino,
Santa, mia dolce, dolcissima Santa, intoccata da
ogni sesso umano, per vivere solo di ortiche o
molliche e briciole che io lasciavo sadicamente sul
tavolo. Ero il maschio, io.
Fino in fondo ho bevuto il calice dell’amarezza. Ma è
vera amarezza quella che spinge me a pensare Dio,
e a ritornarmene sconfitto senza notizie della causa
prima? Chi ha creato la causa prima nessuno lo sa,
come anche se l’universo intero esplodesse nessuno
potrebbe consolarsi di saperlo in anticipo:
previsione non è scongiuro, dico al mio nuovo
amante dallo sguardo assorto dietro le lenti del suo
ingenuo comunismo.
Mi sussurra che sto, in vecchiaia, diventando un po’
mistico; l’eros s’è raffreddato; ed è per questo che
esco la sera da solo, in piena solitudine, per cercare
l’assassino che mi porti difilata verso le stalle
fresche di Dio!
Invece vengo aggredito a Navona, insultato per bene, e
finire nel letto a piangere un pianto di finte lacrime,
per la notte buia e la mancanza di un fratello è la
peggio figura che potessi fare dopo aver deciso di
diventare adulto, e fare finta di niente, di non
pensare mai di avere avuto un passato o una illusa
giovinezza.
Com’è cambiata la mia vita!
A pensare che sia questa monotona congiura di giorni
senza perdono alla noia di esistere, alla vorace
guerra delle depresse disperazioni, ne farei
volentieri a meno, di tanti doni avuti da natura,
intelligenza, grazia.
E ora invano cerco di darle un senso,
a questa, che vivendo m’affanna e mi porta nei cimiteri
morbidi del passato
dove non vive che una furiosa serie di atti mancati, tanto
che tutto vorrei mettere
sotto il segno di questa croce: «Atti mancati».
M’affatica anche pensare com’ero, come adesso sono
diventato, pazzo, pazzo da legare
che urlando ai muri della stanza
non si riconosce come protagonista della sua vita.
Solo tu sai bene o male il mio segreto, o turpe.
E forse uno dei giorni venturi farai giustizia, libererai il
mondo di un mostro, un perfetto idiota dalle lunghe
gambe e dai sottili pensieri.
Se pensi che niente più ci leghi, se non l’inferno non
accettato della nostra condizione particolare, allora,
ecco vedi, perfino le madri in lacrime un tempo
venivano a chiedermi notizie dei loro ladri figli, miei
fortunati discepoli,
carogne restituite alla società dalla mia pazienza di
maestro. Madri spente di figli evasi e incolumi dalla
lebbra della diversità.
E dunque tu scarno sopravvissuto della mia lieta vita,
solo tu, potrai stringere fino a soffocarmi.
Stasera la depressione è rivenuta incalzando i ricordi
l’oblio di aver tutto sbagliato.
Non c’è più niente nella vita che mi dia gioia e
trascinarsi avanti ha il sapore di un misfatto che non
riesco a compiere su me stesso, criminale uccidermi,
farmi fuori, aggiungermi alla lunga catena dei
suicidi per disamore.
Dio! Non aver trovato nulla che dia felicità e aver
trasformato me in campione notturno della solarità!
Le pasticche in agguato per dormire. Ma non so se
dormirò. Né la tenera luna
aspetta il mio breve sonno di innamorato della morte
impronunciabile al telefono, ai vecchi amici che ne
sospettano
la necessità urgente, fatti fuori
dal cumulo di quotidiane occupazioni
con me stesso, ancora me stesso, sempre me stesso,
prima ch’io porti alle labbra tutta la sazietà di
animale sconfitto che non sa più amare, ha
dimenticato
il codice dei furori e degli abbandoni.
Non c’è raggio di stella che mi convinca: tutto è vano ma
gli anni sono, nella loro brevità, estenuanti a
passare.
Mi alzo, chiudo la porta. Preso dal sonno il padrone, io,
dei suoi sogni sognerà di essere derubato, o che un
mostro ladro entri a fare giustizia. Le chiavi sono lì,
in un cassetto, cassetta di sicurezza.
Così fingo di essere morto e sbatto in faccia al destino la
mia solitaria reincarnazione.
Passavi per bugiardo: e chi dice menzogne paga con
l’inferno incredulo dei vivi la sua onestà falsa di
bugiardo innocente di dire la verità; ma eri costretto
a dire bugie per troppo amore degli umani tutti che
inseguivano il tuo acerbo corpo
per possederlo, straziarlo come si conviene.
Nessuno sa la verità che l’attimo distrugge
mascherandosi da attimo, diventando eternità e
ritornando subito quello che era prima di fare tante
storie, un piccolo punto dove io e te eravamo
previsti e amanti.
Ora mi sveglio nel letto di tutte le mie torture e geniture
di pensieri sbagliati e confusionari legati al filo
terrestre della paranoia, con in bocca il sapore del
veleno che non mi uccide mai, e svegliandomi non
sveglio più nessuno, vivo solo, confuso di aver
smarrito ogni successo con tutti quelli che
pensarono a me come un amico; e così mi guardo
ancora una volta vivere e battere nel cuore la ferita
degli anni dimentichi di fermarsi per registrare lo
strazio dell’acqua avvelenata che filtra nelle vene
mentre tu non sai niente
di queste nuove fasi mie terrene.
Che morte leggera questa immane agitazione trionfante
in notti e sogni di sventura. Mi prende alla gola,
acre, e mi scuote fino a cadere per terra, a non
risuscitare mai alla vita, martoriando l’anima,
conquistando tutto lo spazio della infelicità.
Cuore spento, calato in meandri senza uscita, figli
dell’epoca, del mondo indemoniato, io sono il
diavolo, il nero uccellone da preda sconfitto dai
rifiuti del Dio; mi sono reso scostumato e brancolo
nel buio o nel vuoto: questo è il mio «trip», la mia
infausta condanna; pietra su pietra ho edificato il
mio cimitero di spavento, il grattacielo di tutte le
furie pazze e sconclusionate, dove non c’è certezza o
fame di avventura, solo stasi, chiusura, divino livore
contro il cielo, rivolta per la tomba aperta ad
insidiose piogge, che non riuscirà a contenermi,
perché fuoriuscirò, sarò convogliato in un fiume
perenne ed eterno.
Ma la speranza è vana in mano mia, vecchio intossicato
dall’idea di finire, scuotendo un macigno ostile come
la miseria terrestre di un corpo in laida
putrefazione.
Mi stringo invano in lacrime chiedendomi: «Ritorna
calmo!
Ritorna vita di un tempo, legata a gioventù, a illusioni
derelitte, e libere accanite passioni dove la musica
formava l’anima, e la brevità dei giorni era cristallo
durissimo, non friabile creta come l’oggi, l’oggi
ignudo, livido d’angoscia».
Se per voglia o privazione di Dio mi dispero, sparo a
zero, ma sparo, accrescendosi pietà, pietà per me
cui racconto una storia personale dissimulata
e cieca, o storie frugali di assassini malcerti del delitto
sacrificale di me micidiale benvenuto della patria
repubblica delle lettere servili
che dimenticano le madri anziane aggrappate
agli anni galoppanti verso l’estremo traguardo senza
premio: corpi immateriali siamo, indomabili che
insistono la presenza viva del loro disfarsi.
La tua nonna tanto simile alla mia, innocente creatura
riuscita con splendore a diventare
nonna, viveva con tua madre in una casa
modesta ma lieta e allegra dove tu non trovavi lo spazio
immaginario per scorribande nel mondo che di anno
in anno cambia usi e costumi
per la irrequieta gioventù psichedelica
drogata non più di vino e politica, come
la mia, ma di sesso ed eroina, già ai quindici, sedici anni,
e fortuna vuole che le strade
della vita ci abbiano riunito per un attimo
in quella casa solare dove tua nonna, come la mia,
tristemente disse addio morendo a figli e nipoti poco
dopo l’invito-merenda fatto a me
pregustando una buona torta di cui qualche fetta
sbocconcellai. Tutte le nonne si rassomigliano, forse,
non ho molta conoscenza dell’universo
nonnesco, ma se sono nonne fino in fondo,
con la favola di «Cappuccetto rosso» ad allietare le
nostre infanzie terrene, prima di sconfinare in
collegi o strade affamate di droga o manifestazioni
contro il fascismo, quello di ritorno, il nuovo
fascismo che imbratta i muri con scritte naziste di
violenza o fa saltare i treni rapidi nelle gallerie.
Se sono nonne fino in fondo vanno ringraziate,
mangiando una fetta di torta, anche se tu eri troppo
ragazzo per capire che trangugiandola, esaudivo un
piccolo demone del ricordo, ritrovando la mia
vecchia dolcissima nonna. Ritornammo a casa in
vena di confidenze; ed io ti raccontai la lugubre
storia della fine mortale di mia nonna, sola,
accampata nello strazio di essere stata abbandonata
da tutti, e ancora il rimorso la notte nel sogno mi
visita e mi sveglia per punizione che nessuna
espiazione potrà cancellare oltre l’inferno
canagliesco dell’immaginazione.
MORTE SEGRETA

Ora alla fine della tregua


tutto s’è adempiuto; vecchiaia
chiama morte e so che gioventù
è un lontano ricordo. Così
senza speranza di sapere mai
cosa stato sarei più che poeta
se non m’avesse tanta morte
dentro occluso e divorato, da me
prendo infernale commiato.
Libro d’Amore
1968-1981
AMORE
Nella mia notte il pessimo tuo mattino sul lastrico mentre
io vado a dormire e tu non hai casa. Sei solo nel
temporale.

Sì, nel lastrico, i marciapiedi a camminare, sonno mai


dormito per te. Invano io nel letto e le sudate
coperte

e tu mendichi a me piangendo la tua giornata per


accontentare la mia primordiale ferocità.

Che ora costringo il mio cattivo giorno all’aria fino al


castello delle tue ossa che un amante inglese
scrocchia.

Non c’è lutto per te, letto, usate brande o mutande...


La freschezza animale del tuo corpo
che lasci lentamente penetrare;

nel recente ingresso dell’Amore


placido staziono e m’intrigo
nella mia intricata immagine

se ti faccio soffrire. Poi


ti concedo ad un altro, sibilla
di ogni proscrizione:
guardo dal buco della chiave.
Sulla mia vita scatenata non entri più. Resti in agguato
sulla porta e bussi e pisci piano piano o forte e
quelle visibili righe che dallo scroscio si formano
allegre sotto la fessura dell’entrata – effimere
efemeridi di un Tempo quando Eros
ci legava e io ti bevevo tutto.

Qualcuno inorridisce. Io tremo esitando e fingo assente


la mia volontà e non apro.

Ho di te orrore che mi uccida e pietà. L’omicidio è


suicidio – sfarzo di povero matto dal volto ancora
adolescente.
Il passato delle felicità. La sigaretta accesa dopo la
congiunzione casuale e orale. Tu nel letto a gambe
semiaperte: – incontro di materia, e il segno della
virilità ormai rimpiccolita, tornata alla pigra
quotidianità.

I critici malati d’immortalità: regine dei giornali che


sputano sentenze mentre tu chiedi
una maglietta vecchia per andare al mare dove non
affoghi
bagnando le tue ali.
Di là ti masturbi senza lode
per la tua masturbazione. Poi
la luna mi sorride sprofondato
in un lupanare d’angoscia.

Non è tuo quel bianco corpo


diventato brunito per il sole. Non è
mio. Basta, pietà. Che tutta
questa caducità mi riempia
fino a soffocare.
Delinquente mio delinquente non lasciando Roma
azzardo
contro i maschi stazionari una offesa e falsa virilità.

Vecchi discorsi, logori, remoti, che tu con i tuoi denti


adolescenti mi spegnevi in una bocca piena di saliva.

Il tempo era ancora un carnefice che non dava paura.

Ora esisti. So che sei lì, dal mio rivale. Mangi ogni tanto
caviale
e molte volte salti il pranzo.

Io non tramonto lentamente ma t’assicuro di essere già


morto!
Oh! La tua inquietudine... Che resti qui nella stanza a me
che resto solo e pensi al tuo coraggio di ragazzo che
lotta con le serpi del Potere: altre volte, vuote e
minacciose, per dire
polizia usai parole diverse ma il suono è morte.

È morte anche questo mio rito, stasera, a ricordarti come


eri e come più non sei:
la solita sopravvivenza ti ha preso; o la malattia tu che
eri tanto impaurito di ammalarti.
Se sul letto mi dicevi di portare il termometro per
misurare la febbre. Così mi faccio saggio; non do più
ordine alle mie vane parole. Scrivo per eccesso di
pietà verso me stesso. Il suicidio è uno spettro
ambiguo. Non sono
presenza coraggiosa nel mondo e l’al di là
mi sembra un fuoco che debba consumarsi presto.

Se suona il campanello, vado ad aprire. C’è un ragazzo


che chiede di me. Non lo conosco.

Aspetto che si tolga le mutandine.


DIALOGHETTO

«È vero, sono un ragazzo di strada, io.


Mi mettevano in riformatorio,
i grandi, e passavo il culo a chi lo voleva: per me non vale
niente: è un buco
vuoto da riempire.»

«Eri nato male, diceva l’amante vecchio del tuo nuovo


giovane amante che ha la barba e quando
m’incontra a Navona con aria di sussiego mi guarda.
Ma per me eri santo. Anche se la mia estasi erano le
tue botte, le tue mani forti, il cazzo che di mattina
mi lacerava tutto e sconosciuta era la città, allora, la
cucina sporca che piangeva invano la tua mancanza,
la sedia che dondolava le impazienze a stare fermo,
ma le mani sempre in mano, la schiena immobile,
non eri capace di far niente, neppure farti una sega
con la tua mano.»

«Eri nato stanco, coraggioso Efialte di lussuria, Sisifo


coatto delle tue bugie trascinate da un luogo
all’altro, da un letto all’altro, da un culo all’altro e
così vivi di menzogne come marchette giudiziose
fatte alla Stazione.
Tu fantasia senza ritegno di virtù, tu peccato radioso
contro conoscenza; l’educazione non mi riguarda
più.
Tu sei il mio, mio!, disadattato ragazzino che
possedendomi mi possiede e lega
lillero lillero e quando non mi possiede allora sono triste
e antico e tutto
tutto tutto diventa pianto feroce per me.

Bambino mio ascolta le tormentose ingiurie che mi


provoco fustigandomi lacero di sempre sapendoti
lontano dal mio cuore di madre.
La memoria di te ancora morde, fa male:
sei il mio messaggero continuo e continuato della
orgogliosa insonnia.»
Dove riposi io guardo.
Maturo la vendetta e la scaldo perché si plachi fino
all’ultimo bacio.

Come è diversa la ripetizione!


La fine dell’amore dopo l’amore, quando il decrepito
cuore sa di poter battere in pace. Che tranquillo
l’aspetta
l’oscuro sonno animale!

Ora che tutto è vizzo e cerchiati gli occhi non guardano


che il vizio, solo questo tempo di prede-caine
acqueta il canto delle Furie furibonde di sapersi
trascurate – la sommossa certa orecchiabile
impunita del cazzo
che nelle braghette canta.
La leggera sciarpa avvolgi intorno
al collo sottile, con un giro
lunghissimo che sferza l’aria
e mi lega al vento mulinello
che produci e la Vergine o i Gemelli
invano saltano fuori con l’oroscopo
dal giornale.

Tu, stella mia, mi attiri.


O Narciso inesprimibile e leggero che fuggi a me ormai
dagli anni consunto, dalle ere tutte sopra questa mia
ambulante carcassa fermati a guarire il mio cuore
stanco nella notte senza tempo del pensiero!

Sangue e morte e strazio i simboli arcaici di chi si


arrende al tuo fiato profumato di viole, alla tua
mano
dimenticata sul grembo virgineo

di te giovanetto insensato per questo interamente dedito


al passato corpo interamente innamorato.

Per te cedere a questo bisogno d’infanzia dell’età presta


a passare dileguando.
Fu sul tram che t’incontrai.

Com’ero stordito e alla deriva tu andavi sotto il


capriccioso mantello!

Com’era, a casa, poi lo sperma e i baci folli e il pianto di


così poca felicità!

Per usare bene l’orgasmo, non usarlo bene e bene


l’orgasmo quando in bocca la lingua mi mettevi e la
jugulare cantava battendo la sua sensualità!

O letto dalle stracciate lenzuola fatte a pezzi dalla


robustezza tua cara e caro il tuo caro corpo dolce
attaccato al mio per una passeggera eternità!

Età illusa, ridotta in elemosina telefonando solitario per


racimolare un pranzo e il nostro destino spaurito di
ricominciare donde movemmo, nell’inferno deserto
degli Anni!
DE PROFUNDIS
La promessa ragazzo spasimo amore violato loquace
ormai che taci
simbolo del tempo mattutino
ora che è sera, in frotte vanno
i pellegrini verso l’unione e il trastullo resti tenace
favoloso nella certezza che non proviene e non
resta.

Chiudi, chiudi, per dio! questa cassa stanca il viso felice


è distrutto nella rabbia santa il sangue, il coltello,
l’amuleto il grigio perdono non celato in ginocchio
tutto esplode contorto alle calcagna perdonami in
questo vuoto che mi schianta!

Calma menzogna sottile delle tue forme spente a tentoni


chiamando alla campagna vai dove gli uccelli non
tornano mai vai nel crepitio delle favole amare.
Perché si smorza la fiamma incollerita?
Pallido, scarmigliato. I tuoi capelli
nelle mie mani aguzze come pugnali.

Il tuo sesso nelle mie mani, liscio,


pieno di seme da succhiare, in gola

piano scivolare. Le tue mani ora


tristemente fredde, inerti e come bava

il mio ricordo mentre cammino


fra un ponte e l’altro del Tevere.
VARIANTE

Solo col mutamento ritornerai rimorso della coscienza


attutirai al vaneggiante mio impossibile desiderio
ma quante volte busserai inascoltato delittuoso
intento mi precipiterà nel tartaro di tutte le follie!

Magari potessi raggiungerti nell’imperfezione della mia


stracca carne di bestia avvilita e reclusa farti ancora
compassione, risparmiare fiato e voce per le querele
implacate dell’esecrazione.

Invece la monotonia cresce dal fondo degli anni


clandestini
i tiepidi mattini di primavera
lasciano solo amaro nella bocca.
Come consolazioni a sventure non richieste le tue parole
assordano i sordi; ritornano, per me, da un vecchio
nastro del registratore in comune. Le nostre voci
intrecciate e felici illudono una presenza che non c’è
più. E quando tutto finisce l’eco disastrosa è sospesa
per tutta la stanza.
Ho bisogno di te.
Nel tempo e nello spazio le sirene dell’eternità
calpestano ogni concessione ogni speranza l’istigato
vivere e morire
è solo rappresaglia dei tuoi occhi misteriosi di fanciullo
cresciuto per morire innocenza cercando nella
battaglia attenta che sospetta chi avanza e mai non
posa l’assenza
assottigliata al più bel figlio avido disattento che ignoravi
la ferocia e mi possedevi in un gemito di gloria.
Racconto l’affamato scontro di due vite per impietrare
nella vita idiota
la promessa felice della vittoria sul ricordo del lupo e del
pugnale e voi assonnati adolescenti odorosi di fumo
presto sfiancati dalla maturità rispettate il codice
cupo di chi vi volle strumento assurdo dell’eternità.

Il pane muffo e le patate bollite che mangiai con uno di


voi sonnolento buffone meritano la muffa eterna
della vigliaccheria o la forza della misericordia che
s’elimina crescendo verso la dolcezza estrema del
suicidio più lento: vivere.
Le scie alate della tua morte oscura si spandono per tutto
il cielo.
Nell’omissione indulgente della tua preghiera ti vendichi
a distanza nubilosa.
Lassù nel cielo striato mi ricordi tutti i tradimenti, tutti
gli indulti.

L’ascensione difficoltosa accentua lo strazio


dell’infatuazione che grida vendetta.

La bestemmia oscena della carne rifulge come ai giorni


dell’ira
che lo scampo proibì al tuo soccorso.

Non ti perdonerò mai quell’assenza.

Non posso spiegare il disordine.


Né l’orgoglio che costa continuare lo scandalo di chi
vuole deludere altre verità, altre miserie, il rovescio
della mia fissazione a te, vomito e pianto, sangue
delle viscere mie rivoltate è la rivelazione
scostumata di me diserzione di ogni tua concrezione
lasciata allo sburare lento
per ogni nuovo sfrenamento
che condanna al tutto è permesso.
Questo desiderio di naufragio mentre tu vaghi nel ciclo
assurdo delle morti e delle nuove morti nascite
estreme e imperiose che escludono
la mia presenza, nasconde l’idiota convinzione di quella
morte totale che non fu, insieme.

È vero: mancai alla tua morte con la mia, impaurii e ora


implacato ti cerco invano nelle fosse ardenti del
sesso ripiegato alla sterilità inconcludente; ti cerco
invano, non ti trovo, penso che non ci sei, o che se
sei, non esisti più per me tradito e traditore, e allora
non resta da fare che una proposta al primo che
passa.
Bruciavo d’amore e voluttà nei calzoni fiorenti dell’estate
il latte versavo chiaro
sull’erba matta dei giardini
solo le panche ci erano amiche.
Senza legge l’erotico abbandono usciva illividito al suo
bel bagno sotto l’innaffio del chiodato airone puro
amore ribadito invano
le membra calde ribaciate intanto rischiano lo sfacelo e il
malefizio delle generazioni possedute dalla morte.
Amore che non eri ghiotto di parole residuo osceno della
mia vomitazione il carro destinato a trasportarmi
verso il più cupo silenzio darà le piste alla fanfara
dei bersaglieri.

La morte che s’apprende al mio pensiero è l’ultimo


conforto del tuo malandato destriero.

Nei luoghi della libidine più insana la tua trasmutazione


mi ripara
dal coraggio del tuo antico sonno.

Mio cordoglio, mia derelizione dov’era la felicità in


quegli eccessi di pudore?
Ora che il mio destino si rischiara non posso fare a meno
di pensare a te lacrima eterna del mio pianto.

Intenso o soffocato il tuo amore è l’unico suono dal


tempo involato che m’incanta.

L’immagine cara che non tradisce rimane intatta; sei


vicino a me, ti tocco, ti bacio la bocca, gli occhi
allegri o mesti, tutta tutta la tua svaporata essenza
mi risveglia, accorre verso il punto che s’estingue
nel lagno delle stagioni che richiamo alla carezza.
Le trombe squilleranno
l’incubo sordo
allora forse ti rivedrò
non più di carne
con un altro al lato
orgoglioso passerò senza saluti
nessuno più ci presenterà
il vituperio assordante
silenzioso impazzirà
i nostri detriti cervelli
dissepolti per l’ultima volta
in un’apocalisse irrisolta.
Ah! – le piaghe del tempo rimarginano a stento le parole
inquiete riarse dall’estate passata dove tu eri
protagonista assoluto e verace assorto nel silenzio
della carne che tiepida raffredda a poco a poco il
canto di vergogna: sto qui nella stanzetta dell’ex-
amore a sputare dolore e fiele; le orge felici
scoppiavano di salute, le amiche certe di rinascere
sapevano pregare storte sulle panchine; villa
Borghese
incantava i finocchi beceri
e le bambinaie piene di biscotti.

Maciullavo nel passo della notte il sentimento e


l’inquietudine. Tardi veniva il cappellaio a chiedere
di dormire sotto un carrettino.
Sterminate primavere d’ebbrezza quando la carne era
senza freni
e la diversità sapeva le lusinghe
più traboccanti d’incanto e di piacere vi assista ormai
l’angoscia immensa dei ragazzi sordi che parlano
con le mani e non sanno le parole torturate per
ricordarvi!

E costellate bellezze dell’inverno precoce se alla luce dei


fanali salpavano le notti verso le albe della chiarità
vanagloriosa che allagava la stanza profonda
dei rimorsi e dei sogni del sonno.
Verso la notte lo strazio liberava le finzioni impure della
pietà.
La superbia scontrosa illibava nei ragazzi fameliche
voglie di gala.
Infesto andare ci spingeva
nel campo proibito alle iene prezzolate.
Non restava che il pianto mosso sui cigli assiderati.
La vergogna sgroppava al lato dei giovinetti amici e la
puzza dello spirito celava la torpida speranza d’un
sorriso.
Il viso reclamava le carezze vergini ridotte al cuore
passeggero
e inconfutabile fraterno.

Era la stagione porca degli Orchi.


Dalle profonde letargie del mio destino mia notte
solitaria nei suoi mille punti casti e bianchi l’antica
tua bellezza risorgeva narciso stellare mia chiave
che più non guardi i veloci satelliti di Sirio né
Arturo.

Ti trasse nell’ignoto la morte dalle certe ali


col tuo corpo santuario sfida maldestra contro l’indegnità
del tempo e il suo sfacelo iniziatore della mia voluttà
insaziabile: onestà e diritto della materia
insopprimibile.

Analogia spericolata dell’universo la vita mia lacerata


conquistata e divisa
dalla nostra lotta coppia lucifera e sdoppiata mistica
emulazione e communio
amoris perseguitata o derisa
da artisti meno di me sottili
nel decifrare le vane inezie i capricci del mondo: enigma
incerto di esistere.

Motore mobile era il tuo corpo ammirevole:


michelangiolesco incendio dei sensi da servire
piangendo di terrore.
Il fradicio ponte e l’eccitato andare che vacanza erano
all’illusione piena che la pena illudeva di smarrire il
senso elementare della vita troncata e priva di carità
per me che restavo ad aspettare invano il bacio sulla
guancia, la luce dei tuoi occhi ormai pieni di terra.

Più lento passerò al gomito del fiume dove


c’incontrammo
in una calda notte di febbraio mio prediletto finito nella
buca.
Come le stelle da secoli spente ancora inviano lor luce
splendente ai nostri casti occhi che guardano la luna
e le stelle e tutto il firmamento remoto, amore
solitario
il tuo pallido ricordo arriva in ritardo all’appuntamento
sperduto nella vastità della mia solitudine.

Arriverà la notte suicidale a ricoverarci lo spremuto


cervello che s’accende ancora di questo deserto e
spaventoso «A presto!».
Le cellule tue sono dissolte.
I vermi custodiscono la tua vanità.
La follia della tua fine esplode
solo nel mio cervello in forma di amleto.

Mi hai lasciato qui perduto ad ogni destino che non sia il


tuo, reliquia di ogni passata speranza, la tua voce
rimbomba solitaria, come un miraggio che gli occhi
nel deserto acceca l’angolo della morte è
inesplorato,
ma penso che senza di te non val la pena morire.

Gli uccelli della vita nello spiazzo assolato mi chiamano


solerti a gola dispiegata: canta nel culo il loro fiotto
strepitoso.

L’amore magicamente sale le scale della carne infranta


dal sole.
Ti leccavo fra le sporche lenzuola.
Esploravo il tuo corpo, sommerso rifugio al mio sesso
rifiutato era morbido il tuo corpo, tenero rifugio
inquieto, veloce a penetrare nel mio corpo.

Ora non mi bastano i battuti lungo il fiume, gracili


pescatori, possibili assassini, infingardi e mutanti
posizione, nel letto; tu mi manchi in spirito e
dolcezza primitiva,
sesso piegato, fresco
ragazzo come cibo
da mangiarsi avidamente.
DONNA
Ora che non lo faccio, l’eros mi opprime. Vedo corpi
insani di sani maschi turgidi di seme sbiancare coi
loro corpi le mie sfere: i culi innalzati verso il cielo a
predicare la legge dell’amore. Vorrei essere
penetrata fino all’ossa con quell’arnese in mezzo alle
gambe e poi tutti i tuoi amici continuino la danza sul
mio corpo osceno di viziosa invereconda.
Ieri sono ritornata a darla: il bambino entrò vorace
depredando tutta la fessa stanca di mille battaglie
inconsulte in altr’anni più felici quando giovinezza
bastava a richiudere naturalmente le orrende ferite!

Esultai un po’ con il grosso peso in corpo, agitando le


fesse inquiete e mormorando: «Dio grazia! Com’è
bella la vita con l’arnese infuocato
che a vederlo mi sbroda e mi fa sbrodare indiata. Allora
solo morire vorrei senza esitazione, per l’esito fatale
di essere io la penetrazione e lui il penetrato!».

Sto sepolta nella noia, dissociata, ingorgata, claudicante


ad aspettare il cliente. Ogni campanello che suona è
il mio ragazzo, la mia follia
masturbatoria, anche se un altro
è lo squillo, altro il salire le scale in fretta verso altre
mete meno
desideranti. Io allora allungo
le mani alla patta piccola e cicisbea che guardandomi
dice: «Dammi tutto il dolore possibile, schiava!» – e
la picchio, contenta fino
alle lacrime, al sangue. Urlo
«Stronza!». E poi: «Godi da sola, per ora, nessuno viene
al talamo
delle fuggevoli nozze,
nessuno ti canta la serenata
fuori il balcone del materno
insulto alle chiavi del caso maligno!».
Così mi racconta la favola dell’incesto col rozzo mio
padre calciatore:
gambe arcuate, tozzo, ma in grembo un somarello divino
che mi scuote ancora fino alle budella,
alle sterili viscere di immonda
catastrofica megera del vizio
di non prenderlo mai sul serio,
ma solo nella bieca fantasia!

La porta si apre. Vedo un’ombra per le scale, un cenno.


«Chi è?» dico al mio complice stellare.
«Boh? Che ne so? Uno che ho incontrato. Nessuno.»
Mettiti d’accordo: «Se è nessuno, non può essere
qualcuno, ma io ho visto un’ombra!
Se è un tuo amico, fallo salire, entrerà anche lui nella
porta sfasciata delle meraviglie!».
Tremo, scendo le scale. È giunta l’ora che espii?
Godo, salendo dalla paura accesa di svenire, e venire, e
mi spoglio, urlando, chiedendo, saltando sul letto
delle mie infamie.
Ora mi aggrappo al bastone della vecchiaia, lo scuoto, lo
calzo come un guanto, lo trangugio!
Il maledetto voleva uccidermi. Forse ora la porta si
aprirà, farò una fine desiderata. Intanto mi gira, mi
entra dentro con tutte le sue reni possenti di
nuotatore. Dio! Mi scuote fin dentro le frattaglie.
Amore svenami così, mentre l’altro fatto da invisibile
visibile mi strozzi, staccandomi la lingua a morsi.

Le gambe in aria, la posta in gioco è in alto, quasi Dio mi


vedesse
finalmente libera di tremare
nel timore della sua eterna presenza assente. Me la rido
e paro le gambe, le alzo in alto, in alto, fino al cielo
perché LUI entri, mi visiti, mi scuota!
Ma voglio essere afferrata, gattina che si volta, ma non
subito, senza fretta, e il caro pendulo arnese sfasci,
tramortizzi, dissangui, batta, pieghi, sconci, uccida!
Sì, muoia con l’affare cocciuto e testone in gola,
strozzata, invereconda, macellata, menata, vittima
di un zefirante assassino!
«Domani sarò sola con lui e il suo nudo corpo splenderà:
splenderà di cielo e di abisso nella notte allegra
ubriaca di sonno prima di ogni voluttà.» Così parla
lei, la mostra che domani vedrà le sue forme belle,
le sue carezze d’oro, la sua fronte innocente.

«Domani rivedrò le sacre forme il sacro gesto della mano


sterile che compirà sul volto il suo destino infame.

Io berrò il calice delle amarezze


sapendo in forse
il venire al buio
dell’estasi notturna.»
SESSO
Vaga anima di flagelli sovrana, che l’eterno sognare
rende
di presagi infallibile e molesta di guadagnare il porto
della pace benedetta, mescoli i fiati dei giovinetti, i
loro acerbi sessi perfettamente eretti in una dolce
perpetuità di nude forme, carne emersa dal nulla
senza attesa a rapire le lingue vicarie
della grazia austera del male.
Ultimo dei nostri addii
seme che non stranisci il tempo
che urli e strepiti gli anni perduti
ragazzo dal lungo pisello.

Ultimo dei nostri baci


che te ne vai mutato
in antico risentimento
ultimo nostro scontento.
MANIERA

Spunta il sesso infantile


da un paio di brachette scolorite.

Sa di orina gentile perfino


l’aria primaverile.
Al mio respiro fugge l’astio del giorno
per la notte senza malinconia,
nelle fratte il gemito felice bagna gli occhi
di felicità agli amici che aspettano.

S’agitano le mani di toccare.


Un ragazzo e il suo teatro, i suoi coetanei: accanto la
Musa ispiratrice che non sempre
cilecca. Guardo la sua bocca rossa, la lingua che tira
fuori, sublime, e fra la lingua e
i suoi denti bianchi appena appena incrinati da una carie
vedo l’enorme sesso materno:
la figa! Orrore, ma poi contemplo stupefatto, attonito
quel rosseggiare infinito nella bocca del ragazzo
smilzo con il nonno brigante.
L’eccitazione cresce, deve salire fino agli Astri ormai se
non sapessi di essere quasi impotente.
Le gambe le cosce l’ardente
e aggraziato cazzetto, tutto
è lusingato nel regno del perfetto.

Rigetta il seme sprecato e caldo


ed è un peccato da leccarsi fino in fondo.
Ancora ti ama il mio cuore mutevole
se il culo rotto che perde la sua merda
la sua cacarella acuta
dagli sfinteri rotti
mi ricorda come fosse ieri
quando mi liquidasti la virilità
con due colpi di reni.
Solo, solitario, davanti a me, spettatore insano, il ragazzo
si masturba, contento di sapermi a guardare. Poi,
nella città, fra vecchi vestiti, scarpe, stivaletti
adorati, io mi fingo vivente e scuoto me stesso ad
una infinita chiacchierata. Ma l’immagine resta e
persiste: lì; dentro la camera in penombra un
ragazzo
si masturba, e viene addirittura felice, chiedendomi il
conto del suo seme!
Niente si offre per l’ultima volta,
perché tutto dopo il sonno ricomincia.

Si riforma il seme dei ragazzi. Le


polluzioni sono infinite. Compagni,

ragazzi morituri, orfani matricidi


spegnete la sete che è in me d’amore
deluso in questi versi rattrappiti.
Fare, sbirro del proprio corpo, tutto: all’impotenza
condannarlo e finire
masturbando. O donna, o ragazzo

non cambierò più mai. Ora mi accorgo che la ricompensa


a questa fedeltà è l’agonia, la prigionia della salute
se mai la salute con la passione si mischiò per me
destinato a ereditare solo il mio corpo, e qualche
esecutore materiale delle pene ragazze o ragazzine,

in un prato, fra le fratte, le dolci primavere che


inchiodano a quale legno, con quali chiodi!

L’uccello alto nella notte, le maschere dell’erezione, il


dolore: tutto ciò che mi sarà rubato.
Per risvegliar mattina la mia inedia salto su a cazzo
dritto verso il mondo; ripenso al tuo bel sole lasciato
a pezzi, ieri sera e rimuoio sconsolato in cieco
carcere.
Mi guardo intorno: pietra cittadina, pietra soltanto per
me sciagurato, mentre bello sarebbe che natura
premiasse in dì sereni mia vita perduta. Allora non
m’affrena più dolore o meraviglia. Prendo l’astato
membro e lo agito invano fino al più bianco lutto.
AUTORITRATTO

«Frocio arrepentito, escremento del demonio faccia de


degenerazion dinosaurica, como iguana de mar con
un solo occhio, derviscio fetido nello slabbrato culo,
monumento di laboratorio
come feto conformario in un acquario – vipera celeste e
belluina che non vuoi sante in casa mia spazza la
mondezza che tu sei, bacia il mio passo, il mio
cammino marica idraulica contemplativa lava i tuoi
piatti lordi di sughi rancidi e rinnegati

o renegato del destino!

Quaglia, omuncolo, vegetale, rissa di Dio, furore


di un utero sconvolto
da un normale destino.
Cursi cagliostresco e decembrino il tuo tempo non è
primavera né verano
ma solo l’autunno piovigginoso che smangerà il tuo
smorto amorino.»
Amore mio ragazzo di diciassette anni
subito quetato nel nulla senza attesa
questo libretto ti sia dedicato.
io
1975-1982

a Julian Beck
e Judith Malina
e Alberto Moravia
POLVERE E CENERE

Ciò che in polvere è stremato


più di futuro non risorge
Chi è in Croce
alza gli occhi
e conta le costellazioni, almeno.

Beato chi è felice


a prevedere massacri
e strepiti e il nulla melodioso
inferno salutare.

Fragile me invece
che inginocchiarmi non so
sulla terra nuda e polverosa
e baciarla senza rancore
di doverci tornare.
IL VIAGGIATORE D’OMBRA
Carlo Marx vinse la guerra dei cento soli La linea
superba della superstizione carolingia mangiò la
bruttezza del luogo dove le fiamme divorarono
l’assoluto. O cara immagine
della razionalità perduta, come prefazione al turibolo
incensato di una caserma Lamarmora dove visse il
poeta silenzioso la tribale necessità di riempirsi di
anfetaminico ardore.
Non raggiungerò il Sublime perché sono vivo

Se sono vivo l’idea di morire che dietro


mi porto può sciagurare di continuo
come una Moira offesa e tremenda.
La verità è che non vivo, ma il calore
clandestino della Stufa che accendo
di nascosto del Signor Serafino
che mi sta su, sopra la testa
a controllare i miei sogni
mi riscalda ancora e scuote
il mio decrepito e impaurito
corpo terrorizzato di produrre
la vendetta suprema, lei, la morte,
la cammella idiota
che percorre deserti senz’acqua
e alla fine non vi scorre che il nulla
nel letto pietroso trovato
Sarebbe come scomparire dietro l’opera
bugiarda che si è involata di mattina
pensando invece che alle Opere, o
alle Forme, al bisogno reale
di niente dire, o galoppare in silenzio
verso lidi incogniti, bruciati
dalla salsedine, con l’idea dentro
trionfante del nulla miserabile.
È tardi. Roma fuori è già fredda
nell’autunno inoltrato, quasi novembre
triste nel ricordo dei cari morti,
adorati un tempo e ora in procinto
di partire per la valle dell’oblio
perenne dove c’inoltreremo lieti
anche noi, fra foschia forte e vento
sibilante. Noi però ancora abbiamo
un gran ritmo che ci rende felici
e stanchi come una volta, anzi
più prezioso, sapendo che i cari
morti non l’ascolteranno più, credendoci
così ributtanti e giovani, fermi
al silenzio di un tempo, quando
eravamo pedissequi imitatori.
Ora voliamo, liberi, solitari,
ora siamo quel che si dice poeti,
e per strada riconosciuti ci scherniamo
fin nella pietra della fretta
per via, fra ragazzi applaudenti
e giovanette irraggiungibili.
Luce, luce per i miei occhi stanchi

E poi il mare, laggiù, rivisto nel ricordo


smanioso dei giorni trascorsi invano
Lasciarsi
andare all’onda delle sensazioni,
non truccare niente, non rimpiangere
il passato, non vivere di ricordi,
non saltare il fosso rientrando
nella vita. Ancora nei prati
sotto un sole che diventerà malato
cercare di racchiudere un segreto
incomprensibile ai più, e più
a me stesso: fuga nel tempo,
all’indietro o in avanti
senza oggetti plausibili: solo la luce
la luce del Signore!
Penso che dovrei avere un figlio: che mi guardi dal letto
sfatto e sorrida mentre ascolto una musica lontana
celestiale, di sogno... La porta aperta sull’infinito, e
un’infinita preghiera... Calme parole
sussurrate nel vento aperto della notte oscura. Io ti
guardo, figlio, dormiente sereno
in un tripudio colorato, mimetico di rosse coperte, su un
divano bianco un cappelletto blu in testa a coprire i
capelli tagliati corti come un collegiale o un militare.

Io solo, solissimo ti guardo, figlio, non avendo doni per te


oggi che splende il tuo sedicesimo compleanno. Non
trovo
che sommesse virtù per rasserenarti in un futuro che
nessuna morte intoccabile sfiorerà
con la sua adunca orrida mano.
IN MEMORIAM

Un poeta,
che vede da lontano, dall’indefinito azzurro la vita di
quaggiù, e innocuo ormai nel suo sangue versato
come Cristo si dispera di non farne più parte!

La vita l’ha lasciato: gli evi futuri soli splendono senza la


sua ombra
imperterrita e tenebrosa;
e si consola consolando noi vivi provvisori alla sua per
sempre dipartita, per sempre infernale, acherontea
come avrebbero detto un tempo
in una lingua meno pesta di questa, ignara della verità
del Tempo,
della musica razionale e gagliarda della Ragione
ragionante e mortale causa di ogni sofferta
persecuzione che spera invano nell’ansia
di eternarsi in un soffio eterno dimenticando però,
compiendo
altro alto assassinio
che si aggiunge all’ingiusto misfatto.
Disfatto ora il poeta delle primule non teme più vendetta
dai vari morti belve assetate di sangue suo per tutti i
lunghi anni di procurato martirio: anelito di Narciso
che vuole espiare i peccati del mondo, pubblica
crocifissione...
Ragazzi passano ancora, diversi ossuti nei loro americani
pantaloni, non sanno più che ci fu un’epoca titolata
dal suo enorme nome di re.

Stellare regina del cielo splendi su questa misera città


terrestre, rendi il tuo soffio veleno, terremoto,
giustizia per i deboli e gli affamati!
E prima di sparire, di sparire
per sempre! Ché altro non volevi farti: oscurità
splendente per sempre, affondare con i tuoi riccioli
d’oro nel gran mare dell’essere, dimenticando le
stragi del cuore materno, il fiato imprendibile degli
angeli senz’anima rincorrenti la brutale beltà di un
gesto estremo e solitario lungo le prode cariche di
seme.

Ritornare a vivere non si può! Ahimè!, nessuno più


declama i suoi versi martoriati e impossibili di civile
poeta: non piange più l’aedo, le lacrime sono state
tutte consumate.

Chi volle lo strazio dei giorni, del tempo giovanetto


ucciso, fu, per Dio, lezione ai vivi, ai morti reclusi in
un ossario di sventura, dentro i macelli del ricordo,
la fuga dei fossili nell’evoluzione-spavento ai
miserabili ingordi del Potere.

Soccorrilo, Dio del vento, della tempesta astrale nelle


stelle in cui volò per dimenticare i suoi assassini
lunari in una notte calpestata da tanto sonno dei
comuni mortali.
Chi odia le Forme è alla fine della vita?
Chi le ascolta frenetico, vincendo la ripugnanza di
esprimersi ancora, per sempre? Chi le brucia nella
sostanza immateriale del proprio universo, o
orgasmo fatiscente e deluso per vicoli bui e
nostalgie d’antan?
Io relitto semiserio di un mondo scomparso rivisito
geloso ancora Campo dei Fiori, per arrivare al
numero otto della storica piazza al tuo studio
melanconico
dove assiderato dalle mie angosce mi rannicchio pensoso
di altri martiri più accecanti che un tempo
mi guardarono laggiù, fra partite austere di pallone e
grida oscene e popolari di mercato!
Campo dei Fiori! Un nome invano banale nella
ripetizione, mentre gelato dentro il mio orrore
contemplo un attimo i prodotti le creature altere e
mitiche di altra, più gelosa e lavica fantasia, o
Reggiani. Vedi, usurpo i titoli neoclassici,
accademici rifritti in poesia, per darmi un tono: dirti
che il miracolo dinanzi al mito funerario delle egizie
mani sul Dio si è ripetuto
costante al vento del futuro che spira, nei suoi rosa
acerbi di confetteria trasumanata
una voglia di vivere oltre le età che ci furono date in
sorte, tu pittore, io poeta, genere
alimentare fra i più scadenti e ispessiti dalla volgarità del
consumo.
Ma niente ci fermerà, lo giuro, piangendo dinanzi al Mito
delle età sepolte, niente ci fermerà,
neppure lei, la sacra venuta venturiera di tutte le
sventure!
Ecco, per darti omaggio, Pino, io guardo il cielo serale
e inquinato di una Roma mortale e piango sulla comune
sorte
di rimanere dentro l’umano.
GATTI
Uscita da una tomba
al cimitero degli Inglesi
non so quanto durerai,
se un mese, se un anno:
resti solo tu àncora di salvezza
ad una vita incerta di domani
Mi costringi, esserino dolcissimo
a perdere libertà, a calmare
i miei affanni lugubri e fatali.
T’avessi incontrato in altri
anni: ne avrei parlato a lungo
con gli amici di giovinezza
e con lei che ancora incalza
e avvelena, gattarola di maggio.
Alzarmi, darti luce mentre
me la dai. Uccidere l’angoscia
calzando guanti di gomma
per pulire i resti dei tuoi
magri pranzi che talvolta
diventano festini,
se torno felice da Campo
con un etto di fresche
acciughine, pesce azzurro
lo chiamano in Cronaca
improvvisati articolisti
dibattendo il costo
della vita. Ma tu non sai niente
di tutto ciò: divori
fra mille fusa
i saporiti pescetti
da me liscati di tutto punto
e per gratitudine mi lecchi
le mani ancora impregnate
della tua golosità.
Mi contempli se scrivo immodesti articoli per darti cibo.
Non ha più niente senso in me, neppure l’alzata
mattutina e sonnambula, o la spesa fatta in fretta
per poi restare vittima dell’ingordigia. Dio! come sei
carina e celeste, i tuoi occhi sono amari e buoni: io li
amo come fossero l’unica luce che mi viene dal
Paradiso.
Non ho Paradiso: la vita fugge,

io mi stringo a te, felinetta


carina uscita da una tomba
di edera, al Testaccio,
fra tombe di famosi, di illustri
mentre tu, Belindina, non sarai
cantata che da me per i tuoi
sonnecchiosi miagolii.
Rimorso a guardarti nelle confusiones; sei solo una gatta,
anzi sei una gatta, una natura felice, un miracolo, un
incanto: quando agiti la coda o cerchi di afferrarla
sei più dispettosa di ogni ragazzo, più dolce di ogni
zucchero filato.
Ma il rimorso mi divora, sapessi, pensando che dovrò
lasciarti,
non sono fedele negli amori,
non so sacrificarmi.
Dimmi che fine farai
lasciami libero di decidere,
di perdermi in un altro destino.
Cessa di puntarmi come il cane la sua preda: sono tuo
ormai e mai ti abbandonerò
fino alla fine dei miei o tuoi dì.
Infatti eccomi qua
tornato a posta per te, per darti il prezioso cibo che ti
tiene in vita, te e il tuo piccolo figlio adottivo preso
di notte alla Stazione, strappandolo da sicura morte
La famiglia si è accresciuta io non sono più solo, a
brandelli lungo l’azzurro cielo.
Ti basta un filo di cotone, un pezzo di carta
raggomitolando il tutto niente parole per fortuna,
solo qualche bacetto dato di nascosto al tuo faccino
davanti allo specchio di tutte le meraviglie. In
paradiso ci andrai dritta, con vele bianche e la
fanfara, io a stento ti terrò dietro sapendo di
fermarmi
molto prima.
Una giornata di maggio, piovosa
il cielo lassù senza speranza
incerto, timido di pioggia
da buttare purificando le Creature
Io passai, fantasma assorto
in un peccato paradisiaco
davanti a rovine antiche
e lì tre creaturine miagolanti
m’invitarono a soffrire con loro.
Erano dentro una busta di plastica:
umidi di guazza ma vivi, ed io
li raccolsi davanti a tutto
il concerto di gatti randagi
che aspettavano il cibo delle gattare
Io ero ormai un gatto: gli occhi
di sirena delle femmine-gatto
mi guardavano cantando mentre
accorrevo al trepido soccorso.
Io fuggivo con la busta, e le gatte
mi correvano dietro contente.
I ciechi pulcini si agitavano
in cerca delle poppe
che io non avevo, armandomi
di un sottile contagocce.
Fui certo di perdermi
in quell’universo gattesco...
Mi tremano i polsi, si fa per dire, guardandoti, ora che ti
portai un compagnuccio carino; tu lo rifiuti, soffi, lo
insegui per la casa e poi ti ammali per una
settimana.

Non so che santi chiamare, stai sempre peggio, sternuti


tanto da volerti persino cambiare nome: chiamarti
«Sternutina»; mi costringi a queste poesiole infantili
che rallegrano solo chi le scrive in un’epoca di trapasso e
solitudine mentre aspetto eventi stranieri
sconvolgenti la mia già lontana vita. Gatta amata
non ascolti la mia supplica, non voler morire. I treni
torneranno un dì pieni di ragazzi festosi, le piazze
risuoneranno di fisarmoniche e mandolini; noi
saremo insieme in un viaggio strepitoso mangiando
cremini e leccandoci i baffi.
Gusbi, Gusbi, dico al gatto giallo
Micio, micio dico al gatto tigratello
il mio Belindino d’oro; poi li sgrido
commediante al solito se hanno fatto
la cacca santa sul letto.
Gusbi, Gusbi dico, e la mia vita
passa.
Che durezza, che orrore in te ora che hai quel passerotto
in bocca, e te ne vanti, e soffi alla tua amica rivale!
Conoscerti per diverso
da come mi sarei aspettato, ma anche l’Uomo mangia la
carne non posso biasimarti
tu che ripeti antico istinto, gatto famelico, inviolato Io ti
picchio, ti busso, tolgo la preda dalle tue fauci
minime e baffute. Ti odio ma tu ignori che morte
chiama morte!
MIOSOTIS

Il gatto dorme, innocente:


forse sogna fantastico
nella favola che è già
la sua vita, o sogno
nel sogno. Ha un padrone
che pensa al suo cibo:
tanto gli basta come
fosse un infante. Se io
basto a lui lui basta a me
col cuore in declino.
SFORTUNATA

Lei, la nera, li guarda come se non appartenesse alla


razza dei gatti: fosse un extraterrestre, un UFO , un
fantasma dell’Opera. Li guarda e soffia, dimentica di
ogni solidarietà animale, ed io accorro, la sgrido, la
consiglio, ballando con lei un ballo disperato. Lei è
nera, come la pece, come il Diavolo: la mia anima
nera vi si riflette immota, e diventa più calma. L’ho
chiamata «Sfortunata»: poterla ritrovare in un altro
mondo lei così saggia, così filosofa, così ferma nel
mangiare schifata il cibo che le porgo.
LA GATTITÀ

È molto più gatto lui di lui...

Ma la gattità che cos’è? E dove dovremo volteggiare per


raggiungerla?
Io rispondo al querulo amico che è dentro di me, o forse
nemico ai giorni e alle ore della vita che passa senza
speranza, io appunto rispondo con sapienza innocua
e innocente, non lo so: tanto mi basta sapere
che la gattità è un’entità fissa e superba
di cui gli uomini sono
totalmente sprovvisti.
Gatti, occhi
che m’accogliete al mio ritorno
velato: occhi perfetti
dove l’universo scioglie
un’ultima canzone d’amore:
parola insensata ormai
alla mia vita distrutta
DISAMORE
A JUDITH

Mi fa paura tutto ciò che tu vedi come se sfiorandolo lo


rendessi vero a me; lo rendessi chiaro a chi ormai è
cieco e sordo e non accetta niente di sé!

Tu mi hai cambiato; sappilo, Malina mia, tu mi hai


mangiato per metà;
l’altra metà è rimasta secca al sole dello ieri, non sa farsi
pietà né domani.
Dovrei rinascere, forse è possibile, forse nei cieli
dell’avvenire ci vedremo
senza lacrime, per un attimo, come uccelli benedetti,
traendo dall’essenza del canto la luce d’oro per
morire. Io, intatto, e tu intatta, santa, libera madre
di me figlio e padre tuo e madre ancora e sempre
Non so che forma scegliere per esprimere disamore:
sempre, per sempre le cose furono toccate da un
poeta d’amore che non sono, né sarò mai
e intelligenza dice che qualcuno ci vuole dentro per
continuare a scrivere versi.
Quel qualcuno non sono io, essendolo.
Vediamo: non ti amo, forse non ti amai, mai, durante il
polveroso peregrinare in una camera davanti alla TV
con il rancido sapore dell’urina, feticista!, o le
scarpe deliziose e puzzolenti, si dice così per
vendere più copie oggi, ma non poesia romanzo,
romanzo, romanzabile tardi con il sesso a buon
mercato e proibito al poeta laureato che io sono,
orgoglio orgoglioso come un siciliano ardente vorrei
dirti mentre mi fai pietà!
Mi fai pietà, in dialetto calabrese, vorrei dirti, urlarti,
confondermi nell’urlo: non sono poeta laureato o
feticista mondano o siciliano, pietà!

O assoluti della Mente, quotidianità, ora il proposito


sarebbe, senza cagnetta pastora chiamata invano
«Glisenda»
o gatti amati e vituperati, i tuoi gioielli carucci del sabato
santo presto finito nella mossa dell’allegria, funerale
di carnevale, di non aspettarti,
anzi dire: è finita, l’hai capito, in prosa, non in poesia, è
finita: un breve sogno,
non c’è scampo al trascorrere dei giorni alti su di una
città afosa e terribile non guardati dai miei occhi
ciechi e altri ne verranno nelle furie del tempo di
animali feroci, per me, predaci, anche se tu, lallero,
lallà,
hai lasciato tutto qua, da me,
tranne il tuo cuore tachicardico, soffiato da un soffio
cristallino. Le ruote girano, banalità
Arriverai nella mia tomba lunare
sacrificando al Dio Eros
la tua giovinezza solare; e tutto
avverrà per un miserabile letto
in cui la mia lingua crepata
di poeta occidentale a circuirti
si ostinerà per darsi addosso,
sacrificarsi al Male.

Non c’è altro: fuori il mare, le stelle,


la luna domestica e inviolabile
di un cielo fatto di polvere e di gesso.
Da ricordare: camomilla a bizzeffe, di notte, in quel bar
all’angolo, vicino al fiume nero; la saracinesca
abbassata, il negro torbido andare del quieto
esistere fuori della grazia di Dio. Aprendo la porta
alla saggezza io
guardai commosso te negli occhi chiari, chiamandoti
ragazzo inesperto in giochi di luce. Poi mi alzai dalla
sedia, andando al balcone lucido dove aspettai
invano una camomilla bionda.
Venere bionda, o Orchidea ed altre associazioni, come
l’erborista, a via Arenula, o lo speziale per tutte le
nostre povere malattie
La casa zeppa di straniere pulci.
Edoardo le portò reduce da un viaggio
verso un incognito assoluto, ieri sera.
Le immagini: tenerezza, candore!
Poi si agitava nel sonno; si grattava
dando la colpa alle belve del Circo
Massimo, antica Roma diventata pulce.
DELATORE, SPIA

Così hai rotto un frenetico ritmo del sangue: lo succhiasti


tutto nascendo dal Caos ed ora, al ricordo, qualsiasi
ricordo si fa fiamma, all’orizzonte, nel tramonto in
città. Io ignaro di mondi terrestri dove rinasca per
me la vita, e tu criminale impotente che calpesti il
deserto d’acque e d’animali che è la ventura dei
giorni sulla terra sconsacrata. Per un attimo ancora
mi guardi, e poi fuggi
con in mano una radio rubata, una Siemens, – particolare
aggiunto dopo, riscrivendo in pochezza d’animo e
d’intelletto la lettera alla polizia del Cielo, delatore!,
spia! – la radio di una vecchia maga tedesca altrove
mi lesse la mano, taroccando il futuro, e ora
seminale discordia getta fra i maschi d’Enotria.
Tutto si tiene. Tutto connettere. La moda di tanti anni fa!
Tranne l’amore, l’amour!; ninfetta e lolita maschio
visitato nel quartiere da sogni algebrici.
Vorrei gloria e fracasso, scena seconda, per me, per te,
per tutti: follia
e vita richiamano alla dolcezza del ventre maschile in
erezione fuggendo i pensieri ospitali lungo il Tevere
visto di notte ritornando a casa per sempre. Non
vale fare dichiarazione di poetica, con parole in
libertà, o vari surrealismi: ai sopravvissuti brindare
e basta, pensando ai carissimi morti, ai loro pensieri
spariti per sempre, calcolando nozze regali per
urlare viva me re e tu ladro di re...
Tardi apparisti, sacra immagine!
Certo potranno dire di avere
il tuo corpo consumato, io solo
l’odore della tua anima!
Ma sono ancora a ripetere le stanche
parole dell’amore, dopo che
perversione e peccato
via fuggirono da me reso pesante
dagli anni. Questa casa è vuota,
inesorabile, banale, piango
asciutte lacrime sopra il tuo viaggio
verso Napoli, Mergellina, il Vesuvio!
Io perché non partii? Restato
a contemplare i miei lutti,
la giovane follia saprà
addormentarsi fra le tue braccia
tenere...
NEL PRESENTE

E dunque, caro, addio da dentro l’anima


perché continuerò, nella solitudine, a consumarmi
mentre tu, solo, non sai consumarti. Ed ecco,
quell’«eh già», al mio implacabile «ti annoi»
anche se adesso ne prevedo tutta l’importanza
e dilatazione fino alla tomba sacra
della tua solitudine, mi rende come pazzo,
insigne nel tormento e nella soffocazione.

Ma vorrei un registratore per questi versi


impuri, questi appunti che non celano
l’origine verbale e nominale di te
che non esclude i miei mille anni
raggiunti senza serenità ma con l’estasi
selvaggia di un’agonia millenaria.

(Bisogna vivere nel presente, non nei ricordi:


i ricordi invecchiano. E invecchiando
avvicinano alla morte che è fine di tutto.)
Leggiamo le mie possibilità amorose.
Come avessi vent’anni, e andassi per stracci, o fidanzate
poco credibili... La verità è che non amo più, né
sento niente dentro se non sommessi insulti a quel
colui che ero, che non sono più, tranne vendendo i
reliquari di me stesso, fuggendo le pratiche
abominevoli di folli stregoni chirurghi del mio corpo,
saltando verso la fine alcune brevi estati di
malinconia. Ecco la paura di essere docili al piccolo
principe azzurro dei miei coglioni!
A E.

Non ci tieni più:


la vita è arida rovina.
Il cuore un macigno.
Inganna gioventù
chi crede giovane la sua essenza.
Astri d’amore bruciano
invano verso te.
APPUNTI

Non m’accende amore.


Più non m’incanta il dolore.
Senza pietà è mia vita.
Passano i giorni e grida l’anima mia smarrita.

Forse la giovinezza è camminando.


Nel buio della notte
la tempesta s’ascolta lacrimando.

Di notte al tavolino, per morire decisi di mai più scrivere


ma ricordare vivendo
gli amori di un tempo.

Chi vive di ricordi s’innamora!


io
Che ci sto a fare? A prendere congedo da stanche
proposte di Re Musoni promettitor dei vani insulti al
Dio, o calamitosi al perché di vita ignobile e incerta?
Io piango le tetre scalee di gioventù ove il sorpasso
della mente ai giorni, all’ore estreme era sembiante
vivo
del nostro destinato incrociarsi in terra seminata di
freschi virgulti, tenere silee
di speranza
inquieta nel suo sfarsi.
C’è un pianto dentro di me: la vita
urlando non lascia tracce verosimili,
sfigurata allaccia amore e morte,
nella notte ingrata al sonno.

Allora si pensa ai trascorsi inganni:


si sogna. Tutto quello che in pace
importa di più va combattuto,
respinto...
Così parlo alle ombre, ed una esce dal vuoto in cui
rinserra le sue pene, e urla: «Poeta, giorni verranno di
maggiore pena, preparati intanto a dormire per
sempre. Non uscirai dal tuo triste sorriso. Sei
condannato ad una beatitudine illusa, un ragazzo
biondo e gentile ti guarderà
trasformandoti in pietra».

Strade, strade, ellissi, e congiunzioni!


Fughe, follie, labirinti, e processioni: anni pazzi rivisitati
invano!
Chiama il poeta i disperati giorni passati contando il
giorno unico del giudizio vero che non è né di Dio né
dei poveri morti.
Sento come decrepitezza questo corpo volante
verso le foci buie del tempo più cristiano
che inchiodato da un Dio misterioso e crudele
passa oltre i folti cuori riservati
al nulla eterno e inesorabile, più bello
senza la oscena speranza di sopravvivere
un giorno.

Piange il corpo la vecchia età trascorsa, le zie


canterine nella piazza assolata, nei cinema
rionali dove le meraviglie d’Italia brillavano,
i giorni tutti andatissimi, nel lucignolo
burrascoso di una candela trasmessa ai raggi
della notte per superare il fuoco primordiale
prima di salire le scale bambine dell’adulterio

con se stessi, fiore in bocca, narciso violetto,


verso spiagge lontane, ad Ovest, ad Est...

Ahimè, vuoti di senso siamo, derelitti, in cui


tutto si confonde nell’incerto domani; io niente,
Avatar di merda, cesto zeppo di immondi rifiuti,
calzo una speranza che un giorno non dura.

Chiudo la cella del mio incanto ad ogni cieco


visitatore in cerca di baci strani; spavento
allora mi assale e mi dichiaro offeso
nel mio più umile, interno e segreto cuore!
Nell’arido seguire dell’irrealtà, vita come poesia,
scancellata effige di un eterno fuggito per la
tangente degli anni criminali. Orrore del tempo,
crisi mistica, dentro una stanza impolverata, chiusa,
sicura di vederci morire dentro il cielo di fuori, fuori
il cielo di dentro, la bellezza di un verso rimasto, io
perfino abbandonato agli evi sepolcrali,
scrostandomi come una parete dipinta male, bene
volendo a me stesso e basta poemetto di me stesso,
ingurgitando spezie e droghe e medicine,
questa ripetizione barbara
passa la mia nera vela senza alzarmi di un passo dalla
vecchia prosa dello ieri e del domani, maestà!
M’impaura la mia incerta voce
che certo smania il suo tono
implacabile di verità. Una voce
sottile, smagata che corrode
l’anima mia nera di peccati...
Non ti abbandonare ai sogni, beato, non ti abbandonare,
ma scegli l’attimo fuggente, non so dove, lontano
dalla civiltà, dalla mala parata dei mostri attigui
all’eterno canto minimo, malsano; non ti abbandonare,
no, non andartene, serra la tua anima, laggiù dove
l’imperfetto si schiude nella perfezione, la vita
diventa negativa e poi il suo contrario netto come la
donna che amasti lassù nella terrazza piena di sole
dove il suo cuore non batte né batterà mai per te.
Dura legge sapere che niente potrà consolare il niente
assoluto che ci divora lontano dal mare nelle sabbie
ardenti, o nell’acque sospirose di una fontana fresca
e salutare. Niente, dirò, fra pietre immemoriali che
laggiù, nella mattutina passeggiata, sedendomi su
uno scalino
di una scala lunga
come quella di Giacobbe guardo.
Pietre, pietre sconnesse da secoli non più a venire, ma
venuti. Pietre
dure, energiche, maschili che mi coprirete
non nel linciaggio finale ma nel dolce sonno del niente
che nessuno vuole sapere, persona vuole vedere.
Felice te passero (impudicizia mi spinge a nominarti, un
tempo in rima i poeti solitari ti avrebbero in fretta
salutato), felice te che volteggi in cerca di cibo
nell’aria fredda di questo inverno romano e non
pensi beato alla tua felicità felice di sogni e chimere
innocenti e serene. Io dai vetri dentro una buia
stanza piango
i miei anni spariti – l’affanno, l’affanno al cuore
tormentato
mi dà male, mi uccide tanto
da morire di dolore, ma non muoio mai, lo grido ai miei
nemici
di sempre che urlano la mia diversità nei salotti della
Capitale...
Una vita sprecata. La più pura di tutte
fu quella addormentata che non vissi
da vivo, ma ritornando a casa, già adulto
intravidi nello specchio di tutte le brame:
ritornando indietro, nella luce furtiva
di un meriggio d’oro, là, contro il cielo
piatto e bianco, inondato di vera luce,
pregando, rimpiangendo.

Fermati tempo, restituisci il passato!


Non sono capace di solenni peccati: guardo chi mi
sconvolge il sangue, non pago più. Resto con la mia
voce strozzata in gola a contemplare.

Sono diventato così: a guardare sembro un messaggero


che non porta pena, piaga d’amore che non
rimargina.

Non sarò più uomo né ibrido cercatore d’avventure,


emanazioni celesti, infantili angeli di vittoria: nei
miei pensieri quando entrerà tutto il nulla di cui
sono capace allora sarò sazio, felice e tenero
portatore di luce e di buio.
La mia poesia è mentale: non si riempie di decadenti
splendori né fagocita l’indistinto universo per
rappresentarlo.
Vorrei soltanto segnare il mio corso apocalittico;
guardare in mare con naturalezza l’affogato
che io rispecchio.
Abbandonarsi, sì, cantare!

Che vuol dire tutto ciò?


Non si possiede lingua o dialetto più corrompibile e già
corrotto del mio austero e sublime,
un po’ antiquato a dire del mondo la sua certa follia e
presta fine.
Un giorno come un altro in attesa di ripartire crepandosi
la lingua in un’angoscia luttuosa.

Allora me ne vado come di domenica


lungo i boschi
a raccogliere piano un’eterna malinconia.

Solo: beati normali che sciamate a festa dentro la vera


vita.
Io la guardo passare sotto la pioggia immensa e so del
domani
solo una povera speranza di non morire in mano la forza
del passato.
IO E DIO

IO

Vieni, uccidimi, fammi santo.


Non lasciarmi solo a disperare inquieto nel cuore
addolorato.
Torna, e illuminami, prendimi per mano. La vita è breve
ma io non voglio morire,
né sentire la parola morte.
O sciagura, vendetta, clamore nella mia mente pazza e
solitaria mentre salgo le scale della follia, Dio! ti
supplico, intercedi; fammi sentire vivo e vero,
calpesta l’infamia del corpo che mi pesa, non ne posso
più.

DIO

Vane sono le tue parole, o infedele, arida puttana spia del


Nemico!
Straccia i tuoi abiti, nudo mostrati di fronte alla verità.
Non puoi fallire così, vergognati, vivi elemosinando,
lascia il fallace mondo, la felicità è a un passo,
lontano dalle creature!

IO
Ma io in questo sogno o delirio multiplo nel cielo di
cartone, finto lascito e rottame dei giorni passati
dentro una losca bestia sanguinaria, ormai erinni
dello spazio-volontà assassinerò tutti per non sentire
come mi avvelenano, trasformandomi nel Diavolo.
Non posso più scoprire la natura, pacificarmi in
essa.
Sì, la natura è lì, mi aspetta, ma da estinto testimone
sarò dai vermi divorato, invano, rinascendo dentro il
Dio
che non c’è, bestemmiato!

DIO

Sono colui che è! Grazie di affermare che non c’è


chi invece sta per sempre
nelle vostre coscienze.
Avete invidia di me?
Oh dissociazione funesta...
IL DOPO
«Il mondo non è più quello di una volta.»

Risuona il vecchio mondo di suoni nuovi ma la novità non


porta che terrore e silenzio.
Laggiù nel nuovo mondo che io guardo c’è poca
speranza, molta violenza ma guardando si risale il
tempo e gli anni si volatilizzano:
e tutto può dalla sua cenere risorgere meno la nostra
voglia di vivere che intoccabile resterà intoccata.
Mondo liberati di me con un soffio liberati di me senti la
violenza del mio stonato canto liberati, liberati di me
dopo un viaggio verso le isole ritornando indietro, dopo
costosi biglietti, e non è
poetico farlo notare, snodando in libertà un io modesto e
ipocrita o meglio che non c’è, sarà facile così
liberarsene, senza più selettive immagini,
cancellando le piste del mondo.

Non capisco chi siano gli altri che mi guardano, chi siano
in verità, sonati come sonata o sonato sono io, antico
rudere egizio, sfatto, tramontato
senza Dio, protesta viscerale, senza stile, o rigore...
LA FINE DEL MONDO

La fine, la fine è prossima...

La fine del Mondo; la natura


non è più matrigna, ma calpestata
distrutta denuncia al Creatore
l’uomo miserabile e indegno
che calpestandola, offendendola
la uccide. Moriremo tutti
presi come topi in una trappola:
forse è la morte mia
che mi spaventa e la unisco
a quella del Mondo, forse
è la mia morte e fuggo
per non nominarla, e
non mi lascio andare
alla memoria dei sogni
immateriali, nutrendo il corpo
dei giorni passati.
Non bisogna vivere di rimpianti:
la morte dei poeti è sicura
scrivere non basta più
ma è l’unica cosa che avanza
oltre la paura già cominciata
già accresciuta nel suo farsi
condanna e piacere della condanna.
Leggo ancora i poeti contemporanei.
Per smaltirli, o non vederli più.
Aspetto ancora nel bagno
o in cucina di sconciare il rudere corpo, corpo rudere
schiavo d’erezione.
Sarei bravo
ora a scrivere versi inappuntabili, ma la morte preme,
niente m’interessa oltre la sua dura lezione chiusa
nel teatro di una stanza ad ore.
Non vorrei odiare, scrivendo versi per odio viscerale:
tutto il resto è arida concorrenza, sleale patto con il
Male.
Così fuggo da me stesso, da te sornione poeta diventato
cancro a te stesso di inique sanzioni morali, fra
impotente denuncia e impotente odio mortale
contro o verso chi amavi:
il canto, la ferita, i truci abbracci, magari verso corso
Vittorio in cerca di una penna per appuntare versi
ridicoli e infami, imbastiti di tenerezza.

L’amore sono quattro luci (occhi) che si voltano e la


frittata è fatta
Quando si abbandona la strada
certa per l’incerta anche gli amici
ti abbandonano o i lettori
che è peggio. Quando si parla
solo a se stessi, con ossessa
ripetizione della voglia
di farsi male alle radici
allora sì che resta solo
chi vuole bere la cicuta
fino in fondo...
Smarrii un libro di poetesse:
la Cvetaeva, fra le altre, va sempre forte
in traduzione simultanea col paradiso

neoromantica la sua lettura e postmoderna


il che va sempre bene, va tanto
Più di tutti va chi legge e basta
la lezione della Storia: quale sia
non si sa, forse soltanto lo sa
chi allunga il tempo non vivendo
e non morendo, e in specie lavorando
poco o niente, come i ladri
o i poeti quando non sono costretti
a scrivere mercenari articoli
per la Domenica delle Palme.
Guarda così ancora la sedia blu
rubata ai Coronari da amiche
ciarliere e scomparse nel tempo.
Tu sei sempre allo stesso punto:
analitico per scelta, poeta
per vocazione in mezzo al solare
turbinio dei contemporanei
che rimuovono morte e castigo.
Tu piangi per questo: e bevi
il calice funesto dell’allegrezza
molesta quando senti qualcuno
che ti dice: «Non curarti più
di simili oltraggiosi pensieri.
Sei un immortale. Un eterno!».
Ma io ironico, aggiungo, cioè tu
mio doppio dissociato e perdente, io
aggiungo: «Sì, eterno, ma mortale».
Più felice forse aprendo il frigorifero e stappando poi una
bottiglia modesta che non fa riaffiorare alcunché di
noto, di risaputo, e intanto doloroso. Sì, una bottiglia
di Verdicchio o di Pinot di non buona marca, e io
ormai pigro in casa non violo più l’esistere quieto e
abbandonato dei miei giorni. Una nuova maniera è
in me, che me non guarda, ma mi sorride il cielo che
mi vide un tempo giovane e rivoltato
testimone del mio acre tempo.
Non fui qua per testimoniare:
né per portare scandalo o discordia: solo m’aspetto una
buona morte, in pace con me stesso, senz’altra
inutile fuggiasca dannazione.
Ecco, la bottiglia è stappata, e io annegherò i miei
pensieri, o Parca, aspettando alte derive di sonno e
ubriachezza,
ma la giovinezza non verrà
Non c’è niente di meglio che barare: stare in cucina
cucinando un minestrone.
Si svuoterà il frigo zeppo di cicoria, pomodori passati,
carote e zucchine: si aspetterà l’ospite passando la
cera dando da mangiare al gatto caccoloso raccolto
a Campo dei Fiori, anzi offerto da un ragazzo
riapparso nel tempo un fulgore del ricordo mai
assaporato veramente, non vivendo più in elemosina
ma modestamente, disprezzando da solo i ricchi,
fuggendo catene di denunce per corruzione. Sì, non
resta
che starsene in casa aspettando il freddo, annunciando al
mondo la propria rinuncia, incontrando talvolta
qualche poetessa nemica, e andando a Porta Portese
alla ricerca di una buona coperta di lana. Il gatto
farà le fusa
d’inverno, con circospezione:
ancora è malato, il naso bruciato dall’acqua ossigenata
presa
per acido borico. Il trionfo vero è quello della
quotidianità.
Sento il caldo e il freddo nelle mani
l’acqua corre giù piano

ma fermo, addomesticato penso


alla mia vita spirituale, ai voli
ancora da volare, al viaggio
in solitudine sperando in sogno
come un acquatico uccello
volo rasente l’abisso:
cresco dentro: è questo
che importa, oggi, nel traffico
impazzito e metropolitano
di una città nemica oltre le età
della vita, quando ricordando
si poteva ancora sussurrare
al Cielo
Ecco di nuovo il foglio netto e nitido col nuovo nastro di
seta come se fosse cresciuta in me la voglia di
scrivere e in loro i tasti d’oro la voglia di esaudire i
miei pazzi desiri; campano le dita non ancora
reumatizzate del tutto, gareggiano nella tosse del
nuovo gatto misero e affamato a stordire i miagolii
tossicchiosi: la breve vita nostra sembra sprecata
spostandoci di un casino di tempo lungo il mare
dell’essere.
Non troviamo pace ai loro sogni: sogni gatteschi,
imperturbabili, più sogno più morte, in pomeriggi
lenti, sdraiandoci nel buio
di una stanza mentre la natura folle per l’aria secca
sparisce vibrando e ieri è oggi e domani e mai: il
niente consuma le ossa, la belva in noi non latra più,
gagliarda cercando immagini di sbando.
FACTUM EST

Factum est, gridai andando per terra lungo la Villa


Pamphili, factum est, senza senso nella vita mia
seconda, operosa quanto basta per lamentarsi, o per
incontrare segni e segnali di scongiuro: portajella
vasi comunicanti
dell’orrore. Poi gridai, lungo il viale tormentato dal
vento, con la sciarpa: «Risorgi, Cristo, risorgi! Sei la
natura, la terra su cui m’inginocchio, la verità
dell’attimo e dell’eterno, prendimi con te per
sempre, e lasciami al mio destino di morte
che non esiste. Sì, la morte
non c’è, questo è importante: l’altrove è certo, la paura
passa: incoronatemi di spine, crocifisse maledette e
negatrici del Dio!».
Vuoto d’eventi, in effetti come una condanna a morte, un
supplizio immeritato prima della fine e dell’orgasmo
rinviato sempre per una condanna inespiabile, o
oltraggio infausto ai condannati alla vita!
Vuoto di spazi, d’aria serena respiranda in pace nel cielo
dei miracoli terreni, senza ritmo che non sappia di zolfo e
sole nella calura montante, nel vento del tramonto,
Borea che non implacabile impallidisce al ricordo di
venti autunni prima della fine immeritata dove
saremo soli nel sole del meriggio inoltrato, soli nelle
spire del ricordo.
Tempo, il tempo, mi assedia e circuisce e sbatte in lidi
atroci e irraggiungibili. Il sole
è la mia sola salvezza, o l’ansia immortale di sapermi
mortale.
Fuggire dunque verso i corpi i derelitti corpi, caduta
nell’occaso triste dei miei sogni.
Sono sempre vuoto e solo: calzo i venti autunni e le
primavere estati. Sono più immortale
di chi prega invano un Dio
che non c’è.
Stornellano i lumelli la loro lontananza, la mia lingua si
crepa in un’ansietà di marmo che marte vindice si fa
inquieto nel mio cuore aggelato, azzerato testimone
di un’epoca che sa.

Io poemetto, poemettizzo, rantolo, caduco esibendo


un’età inclita al regresso patologico, e amo il diverso
che fu, dimentico di Kavafis e Sandro Penna,
iniziatore di una seconda maniera.

Dobbiamo costruire poetiche, cercare isole brade,


sbravando, sbranando
ai corsi Magenta, ai parchi
le poche reliquie di una vita riarsa e senza pena più che
non sia
la demonica folgore di un sabato.

Appoggiamoci alla citazione, alla folle canzone, canzonati


colibrì o peoni beoni siamo passati indenni
attraverso gli anni perdendo il sale da interrare
anche i morti amici di un sempre che suona lugubre
sempre.
Per amore di solitudine rimasi solo:
solo rimasi per amore di niente; come
giovinezza passando in apertura
di giorno minacciando la belva di me
più bisogna, incanutita amante
del vuoto, io, la bestia del riso
asciutto. Sono qui, il fiato spesso
del malato che non vuole significare.
Serpenta
Lingua, tu non rispondi, né apri
alle mie giornate la verità; ora mi spengo
in questo assorto tramonto di speranze
cercando la vita smarrita, il sole funesto
e sporco di un pomeriggio invernale:
la luce negli occhi di un Dio che è sparito.

Così Lingua, ti evoco, per immortalarti


ma è indubbio il tuo cascare in folle
verso memorie e ricordi particolari,
verso l’invasamento parziale di un’anima
che non sa essere anima di tutto il mondo:
anima, anima spenta che non cresce
delirando.
LO SGUARDO PUNISCE CHI GUARDA
Forse m’impiglio in pigrizia, non riesco
a salire le scale per giovani giochi;
ormai legato da rabbia, intossicato
non guardo più né quasi parlo.
Vorrei perdermi in immagini e ricordi
se danno pace al cuore, non
dimenticati: un fiume lento verso sera
a Roma città di una vita
MASCHERE

1)
Non guardare fuori dello Specchio.
Lo Specchio rimanda allo Specchio dei tuoi occhi; gli
occhi
rinviano ad occhi sommersi
nelle Età trascorse all’Infinito.

Lo sguardo punisce chi guarda.

2) Sul reale posi menzogne.


Infine calpesti le tue strade percorse
invano fino a cecità.

Ma vedere è vedere vivere è vivere,


prima di chiudersi allo spavento il
sibilante spavento.
ROMA 1986

Roma: le piazze austere verniciate dalla nascente


primavera, nell’aria di cartone. L’umidità bagna le
vecchie strade zeppe di mondezza e passanti giovani
gonfi di nuovo eros festeggiano allegri la vita: il
cielo è aperto, squarciato da nuvole viaggianti senza
meta.
Io non vivo più né deliro.
Già verso un sol punto sono diretto o morte.

Ma ovunque si può mangiare; ovunque si può godere.


Il silenzio è dei tempi e la buona morte sorride all’Angelo
della vita
come fosse lo specchio
di memoria a falsare
la prospettiva da riprendere come un film per rivedere la
vita; dunque non viverla, dunque rispedirla al
Creatore che non crea più nessuna creatura.
Ma il quotidiano insiste. Ed io volo verso il tarlo segreto
della notte
per non saperne di più. Insiste così il quotidiano, e stinge
addosso la sua pece o pace perduta, incontrando i
mostri attigui dell’eros metropolitano
che ormai costano troppo sul mercato degli schiavi.
Insiste dunque il quotidiano: la poesia è merce o
merda, voli di gabbiani in tempesta mentre si pensa
a sorella Morte, o la Musa vagante in clinica, in crisi
di astinenza, l’astinente essendo io gioioso immondo
testimone di un giorno di pioggia: calamitoso e
sventurato giorno solfeggiando in mortale voragine
il buio di domani o ieri o il tempo che scorre verso
eternità imprendibili.
Li saluto tutti come da una partenza senza ritorno, senza
pianti speciali o maledizioni per il mare lasciato
indietro; per il mare che ci sanò, per il sale che ci
seccò; per la vita stessa che non urla più niente
dentro tranne la vita del giorno dopo con un cappuccino
in mano e una siringa d’ospedale per risparmiare
l’infermiera.

Forse saliremo scale dirupate precipitando salendo


immortali
inquisendo ragazzi selvaggi
e tuguri pieni di giornali.
PER GIORGIO DE CHIRICO

O Chirico Chirico incontrato in un ascensore a Viareggio


come ardito fui a porgerti l’orecchio: Pound
ritrovato sprecai l’occasione dello sguardo: i segreti
parlavano da soli a soli, o Sole!

Volteggiavano iracondi i lampi del genio incompreso;


tacito ascoltai parlare nella mente il canto delle
sirene

O sfortunate insegne della Ragione o vaghe insegne della


Fortuna monco poeta fui.
Cerchi solitudine, e la trovi nel silenzio assoluto della
casa
inquieto di saperti solo e imperfetto: nutrendoti di questa
solitudine
che ti sfiora le meningi ben protette dal tardo sfogo dei
pensieri autunnali.

Intendi: autunno come crepuscolo del vivere, ormai


andato, senza vita lì: tu che amasti in ansia le certe
presenze del nemico che rincuorava a morire nel
fracasso, nella compagnia.

Ora sei solo. E strepiti invano, nessuno sente, e urlare


come un cane addolorato per sentieri fangosi
in una campagna calma e notturna, nel freddo, d’inverno,
scivolando le scarpe scivolando impietrite, è il
massimo d’avventura riservata dagli Dei vendicatori
a chi s’oppose alla norma, all’incerto perdersi nel
quotidiano fervore.
Poi ci sarà la nebbia, verrà l’inverno: la stufa arderà
piano la legna; noi soli incatenati a solitudine
rimpiangeremo il vizio di saperci dannati...
La mia religione dunque non fu amore in questo
dopomillennio di paure scontate che di notte fanno
capolino nei sogni di un malato;
o fughe verso il nulla
nulla cenere, nullo destino
o legge primordiale del pensiero che scateni simmetrie
giuste al Paradiso Paradiso confuso di ricordi vissuti
in mezzo al guado di Caronte.
Ormai non resta che battere la trafficata città in cerca di
chi non c’è più.
Non c’è più nel tempo solitario degli addii
O amore senza indugio nel tempo celeste dei Passati.
Chi guarda l’amore raccolga l’estasi di un giorno Chi vive
sente la vita spegnersi invano. Io calpesto
guarigioni, ai margini nocivi abitando la burrasca.

O solitudini! Vicissitudini!
Chiavi del creato!
Andremo dietro
le vanità, e vanità noi fulmineremo.
1) I certi principi del divano apparente i certi calzari del
mio grande parlare, o come apparire di notte in
sembianze illividite dal fuoco delle tenebre!

2) Per enigmi, per abissi trascolorano i sogni; nello


specchio perfetto
s’incanta la mia morte senza cielo O dolce verità che
m’incateni o calmo silenzio che m’accori.
Non è realtà che m’intriga
a continuare, né la violenza
del corpo sotterraneo, enteriora
spaccata da macello e carne
rabbuiata nel silenzio dei secoli –

osceno groviglio di vene marce


lamellati lamelli biondi e lividi
spolverio mentale e inconscio
putrefatto: ahimè! Volo
e sono desto, rasoterra rasento
il muro di cecità senza sesso
impotente; guarirai nel viso
nel Paradiso, nel covo dei Signori
occitanici, gualdrappe al vento

celeste della sera serale!


L’ansia divorò tutto, in città, la città natia che nell’aria
palpita invano una primavera perduta, un tempo
alabastrino, in cui giovani e ora fatti sterpi a noi
stessi cantiamo una canzone ignota!

Fuori il rombo del traffico feriale c’incute un terrore


primigenio. Noi fummo fatti solo per restare, per
dire al mondo la sua bellezza e onestate.

Ma ancora svaria nell’aria sonnolenta un ragazzo


ballerino, e noi di lontano lo guardiamo crescere in
un approdo sconsolato.
Lo troverà forse su una vetrina chiara dove brillano
magliette e mutande
all’ultima moda, qualche signore o Dio.

Ecco, m’ha scosso la tramontana improvvisa che in mia


sopravvivenza con tanta grazia dice: «Il tuo giorno è
finito!».

Città, città, ti lascio come un funerale di maggio quando


sembra risorgere la vita, ed è solo una delusa
illusione di carità.
Anima vedova senza veggenza
anima irosa e sconfitta –
una donna vecchia sotto ondeggia
passando in lacrime – tu t’innamori
il cielo è limpido – un cielo
d’estate. Tutto è spento
dentro, persino l’estasi finale...
L’immaginario è scoperto dai giornali.
Tutto è consumo; anche i porporati che affollano
Sant’Ambrogio per frate Eligio. O i calciatori negli
spogliatoi che battono la palla domenicale negli
Stadi della Muerte; pure la Juve, pure l’Inter del mio
amico Beha.
Non resta che rassegnarsi: la morte atomica strimpella i
suoi vagiti.
Non più che una mossa del Male
prima di farsi Bene Assoluto.
VERDE

O verde senza passione per chi lo scaccia


assassino assassinato dal verde tenero
dei prati e viali di Militello:
ricordo allora più alte estati
nella sacra montagna che attraverso
il verde sospingeva il fiore, la vita
sospingendo. Io so che la leggenda
non finisce qui, nella natura, la mia
leggenda ascolta dunque

O alberi fuggitivi e irraggiungibili


cari alberi di vita e sogno per le estati
restate dove siete, non vi scacci
la tetra follia umana, l’incertezza
sconvolta del domani! O alberi
fortunati preziosi immortali
non vi uccida del tutto la furia bieca
dei vivi nati morti, degli infami
che cercano di perpetuarsi
nell’immondo
quadro delle speranze decapitate
per fare una legna inutile, già bruciata!

O alberi pietre acque della montagna


dilavata dai miei sogni di Furia
scivolate via dal mondo ferito
l’uomo non merita carità o sorpresa:
pietà inservibili, lucide stranezze
dello ieri
ormai spente dall’Angelo della Morte!

Io, tu, fratelli e amici saremo


abbracciati nello scandalo finale, e tu
che ami il sacro monte ascendere
infuria, adolescente inquieto, proibisci
lo scempio delle divinità salutari
e boschive, mentre consapevoli
scivoleremo
LODI DEL CORPO MASCHILE
Il tuo corpo adorato più non tocco.
Qualcuno lo bacia: me lo ha rubato.
Resta soltanto nella stanza
il tuo odore, gli ultimi vestiti smessi; un paio di
mutandine.

Amore senza indugio con l’acqua che bolliva sul gas per
gli sporchi capelli, di lontano nella pentola –
borbottando ci chiama senza rancore di essere
lasciata lì a consumare tutta la sua bollente acqua
un attimo prima gelida.

Casa aperta ai rumori dei pazzi ospiti e delle muse


assolute, te
circuito di certo mentre io
scrivevo nella mia nuova stanza.
Per te ho cambiato casa. Ti ho la chiave dato. E te ne vai
lo stesso in giro e mi lasci solo.
Se è giovanetto il corpo maschile
risplende di luce incerta, ma chiara
guardate la mano con le linee appena
tracciate, e lungi il bisogno
di saperne di più. Informa il sesso
tutto il sotto muliebre ed efebico
in attesa di farsi uomo, maschio
altezza d’usignolo
Né maschile né femminile, il suo sguardo.
Di fuori l’aria serena invade
la realtà. Io non vedo, cieco
da sempre; mi sfiguro a pensare
i lieti conforti di una età diversa,
priva del vizio della morte.
Ancora riesco a scrivere d’amore Come mai nel sole si
scatenano gli uragani del presente o il domani
incide nel tuo cuore assente io strepito nel nulla il
coraggio di cercare l’estremo bacio santo che
inchioda al saturnale dei vivi.

Aspetto e spero: opposte nudità a cui dovute sono le


gioie
della fugace pallida mano;
o corpo dell’amore mio salvato ritorna ghiacciato e felice
in mano l’essenza sacra
della polvere fenice!
Anche perché sono innamorato e l’aspetto. Ogni giorno lo
vedo e lo saluto, e salutando sento il cuore, i cuori!,
vuoto, vuoti: come il mondo dopo la fine del mondo o
andando per prati, incontrando infelici e pensando a
lui che dice: «Posso salire?» e rinvio a chissà
quando, a chissà quando
una serata formidabile e altera e il suo corpo
comunicativo e lontano in questa notte
senza spasimi o urla.
Vuole la poesia come un bambino lo è, ma napoletano, lo
è ma napoletano continuerebbe a urlare un disco
rotto...
Ma rotto è il poeta che lo pensa:
non vuole illustrarsi per i suoi riccioli né gli occhi
smeraldini, vuole vincere la partita della vita, o
chiedere
scusa a chi ferì, a chi innamorò.

W la vita, la tua vita, Angelo.


Ripassare di lontano e vedere gioventù dormire in un
prato.
Calpestare allora contenti le verdi aiuole fiorite,
pregando di non svegliarsi dall’incanto.

Buio sentiero, poi. Le sensazioni in un letto materno dove


partito dalla città col fedele amico – anno 17 della vita –
mi trovai a toccarlo mai
ormai nel tempo passato
senza tregua passato, nero e deserto, nel secolo d’oro di
morte terrestre a quel mio verde stato.
Ragazzo, laggiù, tesoro nascosto col tuo gambo
manichino
appoggiato al cuore, manovrato per prima da te, o
scempio delle borghesie inani e gagliarde che
vogliono il mio sangue!
Sì, manipolato per prima da te, ma calme quelle notti con
te che ritornavi tardi... Era gioventù, passione ladra
di eventi strani, straordinari; chitarre e vino, pane e
insalata e vittoria sul tuo corpo
martoriato dal Desiderio...

Vivrò nel tuo compianto aspettando celesti punizioni


per la mia labilità, ma non sono più poeta d’amore, né un
sollievo all’oggi mi dà rievocare il Passato.
Chiudo gli occhi, e penso: potessi ritornare com’ero!
Come non sarò più.
AD HART CRANE

Terribile Eros, o angoscia angoscia, gioia del sesso


poco prima che lo tocchi l’eccesso!

Mutante, ascoltami; mutante perdimi quando il ragazzo


mattutino rischiara il suo volto magro di sfortuna,
viene, sviene, rinviene nel letto caldo di mattino
a piangere il suo ardore
che corre lento, senza sensualità puro niente innamorato
di sé e basta!

Così gridasti Hart, o caro Hart poeta americano morto


suicida così gridasti al vento notturno dal gran
ponte precipitando nell’abisso funereo della notte.
CANZONETTA

Grato senza eccesso alla misura del sesso tuo amabile e


pronto al suo dolce tornaconto libero dalla materia
soffia, quando levàti gli indugi particolari le liete
mani inferocite penetri fra gli spasimi e le urla
insatirite Allora caro erotico padrone dal facile
perdono sappi il cieco insistere che muore.
I due fratelli
lasciati indietro:
i tuoi occhi neri
orribile peccato!
Il collegio chiaro
i compagni snelli
orfano di padre
il ragazzo audace.

Non baci però


chi t’aspetta
con ansia. Bruci
quest’amore
in un’infinità
di rifiuti.

Ti legherei al letto,
mangiandoti il cuore.
Non credo più all’amore.
Sii tu maledetto!
L’età del ferro
e l’età dell’oro:
non so come
vada tutto ciò
sul tuo corpo
mortale, né so
a quale età
tu appartenga!

Le parole tronche,
il silenzio intorno
nell’abbuiata
stanza dei meriggi,
vado e ritorno
sopra un corpo privato:
sono punito
ma non chiedo pietà.
Salto in piedi
dal letto disfatto,
le braccia in croce
vittima eroica
per un certo errore:
la stirpe dei Re
fasulla com’è
prevede solo te
o il tuo scettro
elegante.
A Pier Vittorio Tondelli

Il Tevere si perde nella notte.


Il vento sforza la tua bocca di miele; assaporo dal vivo le
rose languide della tua primavera.

Il passo rapido di un poliziotto forse giovane e


indulgente, forse vecchio che fruga le scalette
confonde i ricordi e il cielo diventa più nero – Pazzo,
pazzo d’amore, d’amare porte ignaro mercante
rabbioso dove entro senza cercare al buio di me
silenzioso amante, grido alla meta dei giorni, a metà
della vita arrivato e sazio, oscuro ancora a me stesso
l’inquieto, intriso filo del sesso – sento d’abbandonare i
casi personali, abiurare, rinnegare le celesti sfere
dell’ozio notturno o del narciso infetto.
Calpesterò la Storia
per vergogna o diletto.
SOTTOPONTE

Ad Aldo Busi

Notturno orinatoio autunnale nella sera fredda dai tersi


colori nella notte che cala senza fretta, dove un
ragazzo passa – gli occhi umidi, cerchiati e
irraggiungibili dell’innocenza più pura di pietà! – la
carità, l’obolo dell’eros concedi a quanti infreddoliti
questuanti, furtivi passanti del marciapiede più
indulgente ai passi strascicati, maniaci, derelitti ai
passi veloci per scendere le scale che portano al
ponte delle abominazioni: superbia di chiedere alla
strage paterna degli idoli, alla notturna, dolcissima
religio.

Mano materna e umile, sottoponte, accompagna il canto


dei condannati nell’umidità secca e scandita
nel batticuore dai rumori più intollerabili, deciso a
palpitazioni più veloci per la cattiva polizia che
s’aggira!
Dove allora si dirige la rivalità ilare dei perduti,
delle pazze smaniose di carneficina che la tranquillità
polverosa di pescatori seduti sul bordo del fiume
a contemplare l’acqua lucida di stelle allontana di
qualche soave metro, – tracotanti di malafede per
qualche creatura teneramente affaticata dal suo
segreto seme disperatamente disputato?
Occhi occhi lucenti ora guardano altri lievi sorrisi altri
paradisi, altra meta.
Non c’è più nello sfatto letto l’orco d’oro
angelo musicante
mezzo SS
L’ha rubato
un nemico appigionato a casa del Diavolo
complice o intransigente a seconda degli umori bestiali
Lo aspetta
un piccolo diavoletto in pensione fiero di saperlo suo per
sempre
Giovane laggiù nel tuo letto ingordo di ragazzo non
consoli il contagio dei giorni futuri: tutti cancellati
dal tempo finale del supplizio.

Il tuo corpo è di sale leccato invano nel letto dalle sabbie;


il tuo eros è solo, i fiori un bosco lontano; io salgo e
scendo le scale del tuo ardore.

Dopo il corpo è vuoto sterile il tuo bosco


dove ignaro dormi

Il letto disfatto e pieno di attorcigliate coperte intorno


alle tue gambe snelle al sesso vilipeso, intimo
adorato, mortale mia sera.
Ascoltare il respiro, il soffio del sonno malato di ragazzo
fatale per me qui inchiodato nell’insonne letto agli
amori

Troppo futile fu la scelta, la svelta adorabile


sottomissione del creato al nostro universo di
bambini pettegoli e amari che gettano uno sguardo
intorno solo per vedere se l’immagine riflessa
splende di molle luce propria.

Dormi. Non ti cullo più materno perché l’insonnia è


perduta
alla tenerezza. Coperte scivolano via e io te le rimbocco,
sacerdote osceno di un corpo che domani guarirà. E
domani uscirai

solo per continuare le gesta di sempre: che si colmano di


doni aspri di primavera e frutti
di amanti invecchiati ad aspettare un cenno d’assenso,
un ritorno: un bacio sul ventre impuro.
Il porto clandestino ai baci e le mosse ilari e ebbre delle
tue mani.

Divento sempre più oscuro in chiusi versi di pena.

M’incalzano poche sere che distillano ere


perdute, incidenti
sapienti, preghiere
dimenticate dal rimorso di non credere a niente.

Dio m’ascolta o il Tempo, Dio mi sente se cade una stella


sfrigolando dal cielo gaudioso degli eletti
Qui mi abbandono al flusso vitale del tuo corpo e se
mordi allora ali spuntano e un soffio divino le agita
fino a volare e io volo e non mi trovo e in questo non
trovarmi ritrovo la vanità della mia vita guardata
come in un sogno quando veramente si vola.

Poi dolcemente plano incoerente di sapermi già morto da


tanto tempo e qui solo a confessarmi, ascoltare
derelitto un’esistenza tutta
strappata alla fuga stridula verso il vuoto.
Così t’aspetto. Di notte entro
in un abisso leggero, leggo
chiaro il mio destino, e morte
m’insulta né lacrimare
asciuga o fa torto al dolore.

T’inclino fino a cadere.


Orrore ascolto morire
in un palpebrare sommesso
dei miei occhi chiusi
nel sonno dei vivi.

Più non so.


Ad A.

«O tabù piccoli e grandi


miei tabù folletti
che mi private dei piaceri di molti letti

avete scacciato dalla mia mente la fantasia


costringendomi ad una morte stupida e non mia»
SERPENTA
Fuggono tutti i giorni miei
o oscura luce dagli occhi incantatori.
Fuggono, si perdono, corrono
dietro le immagini di una volta:
i baci, gli abbracci, i turbamenti
insinceri del ragazzo migliore
fuggono atterriti verso la fine
che è prossima. Solo tu, Serpenta,
gioisci e mi riscuoti come larva
che al sole si sveglia e vola via
UNA VOCE ROCA E ASSOLUTA

Sprecare tutto è facile e senza tempo ma che la mia


diversità fra le tue acerbe carezze volesse normalità
essere per sempre, dalla tua voce roca e straziante
ecco sono incatenato e i lacci slego pesanti dal giogo
della pietà.

Ti ho come in un sogno cesellato fino al delirio; sei


ritrovata come un ragazzo puro e innocente: lavata
dalla vita impetuosa e intoccabile. Non ho proferito
giuste libertà al mio inconscio e tu sai più di quello
che traspare: resta una serata ad unirci, un po’
ubriachi e golosi, e un bisogno incelato di maternità:
ma io sarei la madre e tu il figlio: perché la tua voce
è più
giovane roca e assoluta
di ogni speranza.
DOPO UNA ROTTURA

T’ho forse offesa, scaldata troppo nella speranza di


vittoria, certa di trionfare sul male di Sodoma le cui
mura già tu cercasti di varcare sconfitta fermandoti,
o antica ragazza del Leone?

Ho riletto le tue scarne, sfarzose pagine di ore inquiete,


piene di tormento e sollievo cresceva in me finché
dicevo: «Pazzo sono, anche lei sa quel che si prova
al rifiuto, al bene volersi a bere la cicuta
dell’orgoglio, al tremare astioso del cuore
intossicato di passione. Io ragazzetto selvaggio e
aspro e commediante
e tu, Serpenta, immagine sfocata degli anni cattivi, siamo
due forme di uno stesso lavorio
eterno delle cose e degli astri e del Destino».

E ora, poveri occhialetti, lasciamoci in pace, diamo la


colpa a Sodoma,
alla sua suprema e inalterabile ingiustizia.
Quando sarai chiamata in Paradiso (perché ci andrai a
raggiungere gli amati gatti) un’eco immensa ti
avvertirà di essere arrivata: un’eco sprigionata
dall’Eterno Felice
per ringraziarti umilmente di avere con pietà scritto,
scriba zingaresca intossicata da Talmud e Scienze
del Profondo, un libro, il Libro, divino per innocenti
lettori, mille per mille, ed io con questi; ti arriverà
anche una vocina, la mia, di topo purgatoriale e
lontano
in attesa del perdono nuziale; io che mischiai la mia, di
voce, al coro degli applausi
e poi si confuse davanti allo strepito
dei negatori malati d’invidiosa barbarie: frettolosi lettori
di un messaggio invivibile dentro i cieli e le brume
della mortifera terra.

Dunque sta’ tranquilla, nella tua solitaria stanza; quello


che dovevi fare hai compiuto in perfetta armonia: la
tua vita non è passata invano fra i terrestri.
Come non è vera la verità raccontata su di te! Come
viaggio male adesso
fra giornate tutte uguali, nel deserto, solo, abbarbicato
ad una fortuna
che mi volle poeta inguaribile e bastardo.

Apro le porte al sentimento; il cuore basta!


Basta il cuore scorando, oscena e celeste deità, devi,
come me, espiare la colpa di non amarti, la
nonamata!: lasciare la terra che ti diede natali
luttuosi e impauriti; lieve uscire fuori
per sempre da ciò che ricorda, col pugno chiuso, la vita.
Non si può vivere
di passato né coltivare lo splendore della memoria, né
amare i mortali.
IMMORTALE

Ti cerco in una voglia sottintesa di non far niente, tanto


meno scrivere versi di notte saltando di palo in
frasca con la mente fuggita via, drogata di
chiacchiere: le cartoline sono state tutte spedite il
tuo suicidio non è una buona uscita e neppure la
morte violenta:
unico mistero la preghiera.

Perdonami se sono vivo ancora e più giovane di prima.


Mi inchino assorto su una bollente minestrina: leggo
il futuro ormai con le carte egiziane e libri neri di
chiromanzia.
Non sono Sosostris né Ramsete: Tutankamen pittore dei
condotti morì d’estate fra Navona
la Questura e Regina Coeli
prima dell’avvento
delle rosse brigate della muerte.

Tu respiri ancora. Qualcuno, Irene, mi disse di averti


incontrato o immortale, da Babington!
RIPRENDIAMOCI LA VITA

L’ubriachezza molesta che uccide, e tu


tigre reale, sordomuta sentimentale,
fuggirai verso la gloria foresta dei giorni
innominabili, prima dell’estremo addio
che toccherai intoccata dal mio furore
di figlio, di avvenuto geniale chierico
e cireneo di sventura!

Limite al bisogno non ci sarà: tu morrai


prima di te, e io verrò al tuo funerale
fino al quale vorrò restare vivo, prima
di ogni giudizio avventuroso sul Duemila
e cento: basta con la vita degli altri,

voglio riprendermi la mia!


Che vita! Ridotto a vecchiezza il tuo splendore e la mia
purezza si persero nel vizio del ricordo... Partire,
morire scrisse un poeta molto più grande di te e me:
ora fuggo i giorni tutti uguali,
le notti sognate male e senza amore,
chiedo a Dio pietà, ai gatti la Fortuna O Fortuna, fortuna!
Legge inesorabile mi chiama alla sventura forse? O
la ruota svenevola di qualche parca mi inchioda alla
carità di un tuo bacio smozzicato?
OLTRE L’OBLIO

È di aprile il sereno cielo che di notte scandisce i


profumati giardini in buia sera. Di giorno la demonìa
col reale diventa fantasma come il cielo, e la
diversità, norma sia pure con te, amica notturna che
non vorrei più vedere
per non sentirmi troppo normale, riconoscermi, austero e
giocoso, un normale amante di donna,
o un volgare illuso innamorato.

La gelosia invade il mio cielo, e non lo rasserena.


Contemplo il sole in alto già che non riscalda il
cuore gelido, mi attacco
al poco che resta oltre la cenere, dopo il verde diluvio
delle foglie sull’anima primaverile dell’anno in
corso, in fretta fredda
verso il coro degli amanti
diabolici e incomprensibili.

Non sono più né osceno, né cretino né iscariota di


nessuno. Tramo le mie segrete trame in silenzio
affossando i ricordi oltre l’oblio.
REGINA DI MORTE

Se telefono per mentirti, delirando scoprendo nuovi


Inferni nel cervello malato della tua pigrizia mentale
per odiarti a sghimbescio, morta consumata livida
inquinata
e certo saputa di sapermi diverso da quello che sono,
feroce di te e concreto al quia delle menzogne per
piangerti meglio, castrando l’universo interno,
intero, e cantare perciò la canzone dei sessi
ribaldi che non s’incontrano.

Tutto ciò è amore; è resistere al quasi personaggio che


non sei più: latrina, o cesso, inquisita nervale
impacificata nei secoli della tua sbudellata condotta
di chiavica ambulante, o regina!
1975
A SERPENTA TENTATA DI MORIRE

La tua anima bisognosa di Dio


abbiamo umiliato. Ma è Dio
che dobbiamo cercare – Dio che è in noi,
insieme, votati alla distruzione
per rinascere santi.

Siamo due in uno: separati


soffriamo; – non possiamo dividerci:
nuove attese ci aspettano –:
viaggi, legami fino allo svincolo
finale che sarà di amore e morte.

Noi siamo la morte; e dobbiamo


diventare vita. Dobbiamo farcela:
per questo ciò che è tuo è mio
e basta. Per l’eternità.
Le intermittenze del cuore, a freddo, di mattina, appena
alzati a velare già di malinconia il nostro finito
esistere, la fata Morgana
sono di un pallido accostarsi al tuo inquieto lasciarti
andare alla serie impropria e multipla degli addii in
una terra abitata da bambini per sempre. Ed io che
guardo attraverso la tua Luce il mio ricordo posso
anche alzarmi di scatto, andare alla finestra e
piangere. Qualcuno, più
antico di me e di te, potrà dire soltanto la forza dell’arte;
noi abituati ad un’epoca ormai cinicamente votata
alla morte restiamo perplessi nell’immagine sacra di
un tempo che ci è stato tolto, il tempo che «fu»!
Il ricordo smemora fuori del tempo il tuo corpo decade
senza fretta Lì nella campagna m’aggiro pauroso di
restare, fermo
il corpo decade ma con giudizio
la testa è pesante, il cuore spento il sole quello di tutte le
estati Nella tua misura di decaduta è la mia
completa vittoria. Nella
tua vecchia faccia il mio bello perenne che ci porta dritti
verso l’immortalità.

La saltuarietà dei nostri incontri.


Ormai al mercato fra le verdure
e i cavoli e come cavoli a merenda merendiamo e
brindiamo all’odio
e chi ha più voce gridi l’ultima novità sul mercato del
pettegolezzo.

E tu, idiota, che leggi le poesie e i versi inattuali


assediati da morti e ancora morti senza elemosina
piangendo il domani fermati, ti prego, ad ascoltare.
Non so dove andare, dove dirigere i miei fiati stanchi e
voluttuosi ma celesti sogni mi sfiorano
indicando la vera via da seguire, fuga in avanti per
dimenticare.

Basta parlare di te! Pensiamo al futuro, dove se sono


previsto o scongiuro!, la verità di un attimo calma il
passato splendore degli eventi
L’ESTREMO RIPOSO

Non posso pensare al futuro. L’amata lì invecchiando


scompare, e io grido per la sua morte e la mia. O
celeste verità sorreggimi, ricorda il fraterno
cappotto messo al silenzio di una domenica!

Ascolta la voce tremante e ragazza di me infermo nel


trapassato remoto incedere di una donna verso la
morte.
E un amante trepido e pentito
e materno troppo, troppo tardi!

Che risoluzione triste il vivere aspettando la morte!


Allora
vorrei finire come un amico poeta seguendo i cani dal
tempio del male al mare turchino senza vele
di un novembre iniziatico ai morti!

Tutti morti, e i posteri leggeranno l’addio; io sono colui


che è
ma non sarà nell’estremo riposo!
1985
Che si spezzi il cuore
affidato ad un corpo
che vuole e non vuole morire;
anzi disvuole volendo la morte
tacita e notturna, in una stanza
nottivaga, libera da storie
magica stanza inquieta nella mano
palpitante e sincera la mano
che calza la mattina, la copre
le coperte sventagliate al sole
che sta lì dinanzi al vento
di albe e mattine
Le fosche licenze del non-amato: ripiegato su me stesso
inclinato al folle desiderio di vicinanza di maternità.
Tu, mai vista né sognata, usberga dei morti vivi mi
visiti nell’Utopia della Speranza; i cieli neri color
cobalto, gli ignobili cieli della Roma Sparita i cieli
anche a primavera
si assiepano nella memoria abitata da ragazzi fantasmi: i
fantasmi del sesso impotente.

Tempo fermati! Non andare oltre!


Cambia questa turpe e acida sirena in melodiosa
certezza di vivere per sempre!
DOPO LA FINE

Spiata fin nelle ultime mosse


dell’agonia, non mi sazio
di te, o amica nemica, o giullare
stanca del potere e del non potere;
o vita inestinguibile in un corpo
caro! Sali le scale della morte,
t’avventuri in un mondo sconosciuto;
ce l’hai fatta, vai in pace,
a noi resta di aspettare, di Dio
al cospetto anche noi dovremo
presentarci, più peccatori e più vinti,
oppure innocenti e robusti, ma sempre
insoliti per morire bene.
PER SEMPRE

Eri una emozione per vivere,

per stridere durante il pasto


serale. Era emozionante ricevere
posta. La mattina in fretta
le scale scendevo e lì
trovavo le ingiurie tue
alla mortale natalità.

Accuse per andare avanti.


Ma dopo ti rendevi inquieta
al delitto del non detto
se non rispondevo per le rime.
O rima che dirti non sapevo
senza la fuga in avanti
di terzine squilibrate
sul dolce stil vecchio della
Musa canterina a presiedere
gli ozi di Sodoma. Dirti
che ero pieno di sonno
se l’immortalità era un pio
desiderio, lugubre sospiro
ti avrebbe annoiato.

Talvolta una stradina


mi risucchia indenne
dove non alberga strepito di auto;
allora sciolto dai tuoi lunghi
sensi camminare ti vedo per sempre
***
CARPE DIEM, ORAZIO I, 11

Leuconoe, quando io e te si muoia


non chiederlo agli Dei. Mai lo sapremo

e invano conforto chiederemo agli astri:


meglio dunque sarà rassegnarsi,

che sia questo l’ultimo inverno


concessoci o molti altri ci si riservi

mentre il mare s’infrange iroso


contro l’argine delle scogliere.

Cessa la speranza ubriacandoti


i pochi anni che mentre parli
già invido il tempo si porta via.

Per non credere al futuro, goditi


goditi il presente, e fa secco il futuro.
1970
In angoscia mi lacero; il consumo
di poesia è calato; la notte aspetto
il sonno come fosse morte totale:
gli oggetti sempre gli stessi:
ciprie, gatti, la macchina rossa
per scrivere, ultima civetta:
indietro Satana tubercolotico
o membruto, più di ogni morte
la morte in abbondanza.
La morte atomica, lo spasso di sapersi
condannati, non si sa quando.
1986
La vita che vivo non è mia.

Di chi sia, lo sa solo il Creatore


se esiste, se vuole sapere più
di quello che so io. E dicendolo
questo io si disfa nel suo altro
o contrario o pezzo di cretino.
Che vuol dire pure esistere
anche se per poco, e poi dire
di non essere mai stato.
Pazienza, dirà l’interessato
alla sopravvivenza, io, il mio corpo
compagno di tante sventure. Dentro
resta il fatto che non c’è niente:
neppure il possibile riscatto
da un niente illusorio che ci divora.
Così non resta che chiudere bottega:
andare al diavolo, far finta
di sapere presso l’illustre amante
che ci vuole in piedi, pieni
di boria e alterigia e chi più
ne ha più ne metta!
1986
IL DELITTO SARÀ CONSUMATO DOMANI

Mentre aspetto scrivo:


chi aspetto mi aspetta
di vedermi spuntare per la strada
di fango, verso l’ubbie della notte
calpestando nel cielo le nuvole
serene dopo la pioggia stanca
di marzo misto a scirocco
e tramontana. La nuova versione
di me non è più possibile ascoltarla;
la memoria ha fatto piazza pulita
e il cuore si è fermato in un attimo
scabroso. Rimane solo la vernice
per sporcare la porta di rosso
sangue; il delitto sarà consumato
domani.
Libro di poesia

A Marta
IL VIAGGIATORE D’OMBRA
Credo, morte aspettando, di rifare
il già fatto nel mondo in salvazione:
volteggiando innocuo devo la sorte
ricostruire così come la volle
nel cuore la mia favola perduta:
spavento non è fuga, o liquido
scivolare sulla perdita d’ombra;
chi calza le mattutine babbucce
non può rassegnarsi a dormire
scoperto. Io non posso
continuare a fingere allegria
o felici sommosse dell’anima:
il fuggire canto da ogni beltà.
LACRIMA AMORIS

Come si fa a resistere alle lacrime?

Sono radioattive ormai come il cuore dopo Chernobyl:


oggi non piange più nessuno: neppure i morti sono
pianti, anche la Signora Eccelsa di nome Morte non
piange. Ma io alle lacrime non so rinunciare, alle
lacrime piante per finta o per davvero condite di
perfidi pulviscoli non so rinunciare.
Le calde lacrime che su gote amate scendono piano o
silenziose
come una mano le scalda un’altra le butta via. Lacrime
leccate, invano succhiate che resistono alla vita, si
spargono in lacrime purulente come lacrime venute
a pioggia
da un mondo lontano e infetto.

Si piange, e chi piange nell’attesa non può vincere il


pianto. L’Intrattabile è morto: radiazioni illacrimate
lo spensero nel diluvio della pioggia: io non piango un
pianto contaminato, né posso raccogliere il tuo
pianto radioattivo che scende, sì, su gote amate
ormai avvelenate, baciate su dita aride e consunte,
contate avido
di essere vicino alla contaminazione finale, o Chernobyl
di morte
più mortale di un cuore desolato e assente.
GLI ULTIMI DIECI MINUTI

Quali non sono gli ultimi dieci minuti sarebbe facile dirlo:
tutto ciò
che questi ultimi dieci minuti
di vita scanditi così, male o bene, appesi ad un pendaglio
da forca finale non sono – e amen per gli ultimi dieci
minuti in cui appare, dicono, tutto ciò
che chiunque visse nell’incognita terra all’occhio che sta
per chiudersi.

Tutto ciò che di bello o brutto appare nell’arbitraria


assenza delle cose umane, nel vuoto totale,
nell’alcool ingerito per settimane, alla grande ad un
poeta, Gregory, che beve
tutta una notte, prima di partire
per la Città Eterna, da Taormina
sui bordi di una piscina per ricchi illuminata – beve sì, le
Sette
maledizioni dell’Apocalisse.

Di chi sono questi ultimi dieci minuti?


Chi li vuole? Chi a sangue li insulta in
attesa del verdetto finale o la pioggia
lava anche gli ultimi dieci minuti dallo
smemorato ricordo degli uomini?
Tutto si avvolge in morte
le cui spire soffocanti non premono subito la vittima nel
mondo dei Più, spinta, assiderata anima dei giorni
tutti eguali, dell’eternità sconfitta dalla mancanza di
domani; piangendolo invece nell’oggi perpetuo che
incanta e non si ferma nel tempo di prima come
oggetto del salvarsi beato alla fine di un viaggio
irrilevante e malato.
Via, aspetta l’inguaribile
certezza del presente senza libertà che cerco, anelo,
spergiuro nel bacio di nessuno. Come saranno gli
ultimi dieci lunghissimi minuti del calvario di
ognuno?

Per chi attende gli ultimi dieci minuti prima della


partenza, in aereo, pauroso o per chi invece non
sappia di morire in una guerra o dentro una droga
gli occhi rovesciati, la bocca riarsa il miracolo perenne
della fine
non peritura, da maledirsi in segreto finite le vacanze o
le vocazioni ciarliere – non rimane che cantare al
Dio la messa delle stanche masse, aspettando i dieci
orridi terminali minuti della frugale perdizione
personale.
CASA
VARIANTE TRE, LA MIA CASA

L’asilo nella città più insidiato


è la mia casa che nutre
e piange d’amore i ragazzi
scappati di casa. Vario

tumulto nelle stanze c’è


se io manco o sogno dolce
d’essere un re.

Regale di notte apro


la reggia, il tugurio
sgretolato della mia lussuria

e la famiglia passo
di meraviglia in meraviglia

e ripasso, nessuno mi vieta


le fresche labbra all’aspro bacio.

Al mondo non sono legato


da vincoli mortuari, odiando
il mio aspetto di satiro
in esilio.
LA MIA CASA, L’ENTRATA

Ho scritto svariate poesie sulla mia casa.


Ma nessuna sulla sua porta d’entrata – l’ho ridipinta di
bianco, accecando un senso irreale e sospeso.
Qualcuno potrà carpire oscuri sentimenti, di morte
invocata, affrettata; a me piace così, bianca e
puttana se dà il viatico solenne ad una vita
sbagliata: la mia perdizione, il poco cercarsi – la
solitudine del creato rimbomba sulla soglia
maledetta, l’assassino lo sento sempre in agguato; i
gatti lontani, abbandonati al giustiziere delle notti
inutili. Così non cerco più di rimestare nel torbido,
mi dico solo, sono a casa, nella parte più minacciata,
nella parte più stregata dove tutti mi possono
trovare. Sia, quando arrivo, quando esco trafelato,
perduta ogni dimora, ogni entrata!
Sia smarrita la volontà di vivere gli storti sogni o la
calamità; chiunque entri, oppure nessuno: la porta
sia chiusa per sempre come dopo la morte terrestre,
dei sensi; sulla soglia inviolata resti solo la paura
ricercata
come una rosa profumata. Resti, sì, l’angoscia, la furia, la
bestialità di un attimo già vissuto
guardando un corridoio regale, brutale – regalo agli
occhi
UN TRASLOCO

Ho sognato un trasloco (quale? dirà il lettore, il vizio


peggiore è mettersi dalla sua parte, ignorando le
ragioni del cuore) come fosse l’ultimo giorno di una
vita illusa e feroce; l’ultimo giorno in cui ancora
abbiamo la forza smisurata e imprendibile di dire a
chi passa: «Vieni su, conosciamoci!». Tenera, tenera
infanzia malata che ritorna! E ho troppa
paura del futuro per vivere solo nel passato: per
dimenticare i momenti eterni di una casa ove si
compie nel sacro mistero della poesia l’incarnazione
mia definitiva, estremo viaggio nella vita di poi;
mentre di là
oltre il ponte Sisto e il cielo di rugiada splende una casa
ignota a me, senza un contratto, uno straccio di
contratto eslege: passaporto per una rinascita
imminente ma rifiutata.
Meglio sarebbe stato restare così; addormentarsi piano
nella veglia funebre di un forno abitudinario sotto
che intossicava i miei polmoni gracili,
permettendomi tenaci fughe verso l’amato Sud:
Calabrie, Sicilie, Lucanie, Pantellerie.
L’orrore, nella vita, è decidere, cambiare, abituarsi al
meglio che è il peggio per chi non è più giovane,
viaggiatore d’ombre al passo di marcia sbagliato.
MAI STATO 1

Artificiale, fuori della natura, calpestato


ricordandomi da exvivo non più morente
o morto, ma inesistente, buggerato
fannullone che viaggia di mattina
schiavo di pensieri tutti uguali,
e mangia, divora le ore senza senso
urlando al nulla il nulla indigesto.
Paura che spaura impaurita la giornata
di galeotto sofisticato, spettegolante
testimone di un traviato esistere
sbrodolato consistere di nessuna sensazione
neppure animale, neppure vissuta!

O albergo di prima, anima in trappola,


sudicio, vado al cesso di fila,
defecante in fretta la rabbia del ladro,
o amore sicuro nell’albergo del corpo
e voi immagini, immagini, ironia!
Deferente defecazione sull’innocenza
mai avuta, posseduta, infranta!
O identificazioni andate a male,
purulente, nominali, senza donna
o domina, lì, qua, multipla
ingenerosità, fuga dalle idee coatte:
basta, pazzia, redimi un cadavere
ambulante; sciogli il canto al rapace!
MAI STATO 2

Eccomi ancora nel mondo iniziato


carico d’anni e di peccati, involto
in insanie febbrili, amori lasciati
ad inguaribili languori; peccati
andati a male nel cerchio dell’assenza
dove una presenza fitta fu il cuore
di me ragazzo o fanciullo beato.

Torno a casa, pigro, rassegnato:


i gatti mi guardano soldato
di una frontiera o guerra perduta;
le chimere giovanili come fuochi fatui
son spente nell’abisso di un’anima
malata; pregare fu l’unica avventura
cercata, non richiesta, infame:
non posso più vivere, e di morire
tutto mi sembra più aggiornato.

Ritorno da viaggi limitati; il mare


non contemplo e se m’immergo in acque
gelate il corpo non risponde al saluto
naturale, sfida i pesci morenti
le spugne essiccate, o amore del Dio
sconosciuto e privato!
MAESTÀ

Chiuso e stretto nella follia derubo il tempo strano alla


mia presunta aridità: non c’è ricerca o luce chiara
ma vuoto, con nuove vecchie parole senza senso
ahimè festeggiando in excelsis
il mancato trasloco dei traslochi, burla in vitro, in
salamoia, in furore in accidente mortale in clausura:
questo fu il tempo dei nani strepiti vani sospiri
sospirosi
dell’assenza di poesia, del carcere: il pianto sentito
piangere, del cercare e non trovare la trovata ultima
che ci facesse desistere e occludere le sfinteriche gesta
dei Mani
(le mani, o i maniaci, altra versione) mentre fuori
strapiove
la pioggia dei Secoli Bui e delle Apocalissi col vento
lacero su uno straccio bagnato e lacerato come me
inascoltando la vita come fu o sarà menzognera estate o
libro di virtù manifesto e sciagurato.

Già, già, così la paranoica ubriachezza dovrei usare per


raggiungerti (e ti ho buttato via) o amarti, bella
deità, sconfino
del mondo, vecchia zoccolante di morte e rinascita
effimera, caduta, dici, per tua volontà, cercando
ancora di negare il Dio al quale vorresti credere,
che ulteriormente offendi per la sua inesistenza.
T’incontro fra mille impegni mondani di poeta di
successo, molto invitato, orrore!
a piazza del Popolo, Roma, e lì
aggredisci il tuo antico marito, inneggiando al Sesso
libero,
al melofreno della viaccia zozza in zoccoli viola di
sventura,
portamale sciagurata come fosca strega di Medioevo
incipiente, ma il mondo spero non finirà come ti
auguri
sapendo che devi lasciare presto tutte le primavere e
tutte le età.
Senza aver ritrovato nessuna eternità.

Io non mi crederei spiando, vorrei inventare favole


sublimi, tenerti testa in maliziose inoffensive
malvagità – (il Diavolo esiste, e anche il Peccato, tu
ne sei l’incarnazione più vorace, anche se giornali
settimanali alla moda non fanno che negare ogni sua
sostanza e immanenza nel lurido mondo di quaggiù)
decidere di non più inventare, salpare verso
incogniti lidi, cercare la deità zazzeruta che non sei
tu, forse è partita per Eldorado. Bionda, solare,
occhicerula ventenne, colla nuca innocente, i riccioli
d’oro: il nostro comune ideale! Dio!

Manchi, mi manchi, mancai, amai l’approdo tuo, ovvero


me
nei verdi antichi anni miei
mentre scirocca la Ciela, la figura del Male, la cloaca
vivente
e vacante nella rilettura infausta del Duemila o press’a
poco, prima che tutto si mescoli e sperda come lo
Sperma nella foresta dei simboli privo di Lui il Dio
dei mari, dei cieli e delle stelle!

Oh volgarità, bisogno d’inviolate labbra; o viso amico, o


amico, o ferita, o bisogno di morte, o tranello
letterario, o la sua metafora consustanziale al Tavor
Uno, alla Modalina, al Transene, cattività ulcerosa, o
quindi, o voli, o voilà, proprio perché nessuno
capisca
proprio perché nessuno sappia

scomparendo, viaggiando, illimitati


AIDS

Il mio AIDS , alla francese SIDA , come dire Madame Sida,


buongiorno!, non esiste – anche se insiste sulla
terra: vola in alto il virus che uccide ai vecchi
peccatori di un attimo Non ne sarò premiato come
unica tomba la tomba poi il silenzio che verrà: il che
è la stessa cosa più alta e sottile nel creato immondo
e votato a distruzione
per atomico oltraggio

ultima sirena della fine Dunque fuggiamo, o AIDS ,


disamori e cecità manifeste il languore dei secoli
spenti in un abbraccio salutare; chiudiamo nel cuore
un ragazzo felice e sbarazzino, volante, esibizionista
senza sparare niente se t’insinui nelle crepe della
carne; fuggire non vale, se scomparire non puoi
riscaldami con fiducia bevimi, leccami pure
SE IO FOSSI DONNA

Se io fossi donna intanto, se donna fossi e non sono:


chiedetelo a donna la donna che domina cosa vuol
dire di sé, significar per verba non si può dopo
l’ideologia: io, figlio del mio secolo d’oro e bomba
chiederei a me donna di scrivere
i capolavori che agli uomini, ai maschi, sì, odierni, di
genere maschile intendo, sono vietati, proibiti,
interdetti
come la peste del Duemila oh donne vituperate dall’uomo
che vi circuisce vi seduce male, donne, e vi lascia
donne come Male, donne come Diavolo donne come
puttane, donne come insulto alla Natura, donne
come ladre di sesso normale o anormale, donne
insulse
e dunque potete solo riscattarvi
nell’Arte e nel Sublime, tutte
fiere di santità, come pie e caste monache perché la
castità porta in Paradiso: (preferisco l’Inferno più
caldo
e accogliente, più popolato di personaggi celebri, storici,
dovuti agli Irochesi): chi ci vuole andare in
Paradiso? Quello sulla terra profumata dei vivi,
e non dei stramorti immortali senza sesso visibile, angeli
di qualità pronti al buio tetro e frigido ALDILÀ .
Se fossi donna uscirei nuda dipinta, operata, manomessa
svestita almeno per strada
a battere, a battere per mostrare
il mio nuovo sesso inutile
e commosso ai passanti inquieti
per chiedere invano un obolo, un passaporto per la vita
da vivere e non vissuta mai colpa degli astri, delle
stelle; o della poesia macabra dei giorni
insalutati, di chi pretende di scrivere la vita: orrore di un
attimo, presunzione cieca di scrittorelli da
strapazzo!

Se fossi donna vorrei essere domina assoluta senza


martiri frenetici,
o sofferenze gratuite e smielate, vorrei essere Virginia
sposa e scrittrice esemplare senza un marito noioso
e protettivo: spogliarsi dei mariti bisogna, o donne,
per crescere e moltiplicarsi nella vita dello Spirito
con misoginia giusta e orrore per il mestruo!
Abbasso Caterina senza il mal sottile come un certo
Franz Kafka studiato da Citati, abbasso Caterina
amica di Gurdjeff donna mondiale, stomacata,
lesbica insana diciamo la verità, oh donne dovete
diventare misogine, lasciare il maschio al maschio, e
nuovamente come per miracolo la vita vi premierà,
nel tiaso innaturale: lasciate i maschi ai maschi per
carità!

Io però vorrei essere quello che sono: ogni donna è un


uomo e un uomo è una donna: psicanalisi insegna a
dirlo, gridarlo sotto i cieli della sera inautentica,
gridarlo al portavoce del Dio sconosciuto adorato,
inconoscibile e mai sognato, o adorabili donne
fuggenti negli abissi celestiali del mondo scorrente
verso il nulla poco glorioso, in fuga siete ricorrente
in caldo della vostra lebbra data a sazietà.
Se fossi donna come sono e fui
e sarò per sempre, dannata, vorrei avere un figlio
clandestino, un figlio mio, o figlio di me stesso, solo
mio, il figlio senza padre, sì, trionfo di Narciso
ucciso dal vero Padre, despota ingiurioso padre
della vita, Dio dunque, buffone.
I GIOVANI PADRI

Io, eroe notturno, notturnamente ero solare se


m’imbattevo in qualche giovane padre!

Sono state le mie lacrime, stanotte, a ricordarmi che ho


amato un giovane padre – quasi come fosse un
ragazzino nervoso e ilare perché la paternità lo
rendeva libero e io ero sua madre.

Il mio destino, la mia molteplicità sa che non sarò mai


padre. E io

mi sussurro questo nome e la notte tocco nel mio letto


vuoto il sesso di uno che lo è stato e forse lo sarà.

Dura vita, infinita infinità di morte: calmo appuntamento.


Appressamento rotto dal desiderio-compassione
d’un giovane padre: i corti capelli, le mani virili, il sorriso
senza dissociazioni col suo sesso.
La speranza a renderlo più forte
di qualsiasi figlio. La normalità.

I giovani padri! I battiti del loro cuore sono l’amorosità


delle rivoluzioni!
I loro bambini sono le speranze dell’umanità. Il loro seme
per l’uomo oscurato dal male
è la libertà. I ragazzi devono
sforzarsi di diventare come loro, contenere la futura
virilità.
Per questo non sono disponibili. Sono malati.

Ma i giovani, i giovani padri hanno mutato la città,


ospedale-città in una rugiada se solo passano
coi loro figli a tracollo e le madri spente a lato a vivere di
questa maternità.

I giovani padri io attraverso e brucio col fuoco della


mente, in un pianeta diverso da questo pieno
d’Orfei, dove conta la forza della procreazione e la
sterilità di primavera è un campo di concentramento
per traditori.
DIO

Amato o no il mondo era vero


vero simulacro del fabbisogno di Dio
sembrava un sogno ad occhi aperti
occhi aperti sugli abissi e i confini del sonno

Sogno o son desto era il mio motto


le parole del cuore consolavano i pianti smisurati
gli assalti del cuore raggelavano i pieni
del cinema – la voluttà di baciare
Liside era spenta nelle braccia della fortuna.
Chiamate il bisogno – amaro o dolce –
della carne più sincero di ogni strazio
e ogni pentimento della ragione silenzio accorato.
Passa il tempo senza il Dio dell’Amore senza il tempo
passo e mi scrosto passando un altro Dio più
castigatore (è inutile che compri libri sul Diavolo) il
tempo non può passare, né Dio, mi dico e replico ad
un mio «io» sbriciolato.
L’inverno viola il mio parco esistere; rondini garrule
spaventano la fontana in Duden Strasse – Estero
versi o vissi in passato lontano dai viaggi, greci o
turchi o negri della Costa d’Avorio: tutto si smozzicò
in cabaret a Berlino: le lingue di fuoco del sesso
dinanzi alla Fine del Mondo si pentirono:
Apocalittica metà
sposerò del segno del Leone!

Così urlo: non so dove andare, i miei fiati stanchi e


voluttuosi di perduto pendente perdente
dove dirigere non so, ma sogni
stuprati mi sfiorano. Non mi piace vivere il sogno, incubo
di terre lontane, età passate! Non mi piace sapere
l’infanzia perduta, laggiù nella casa borghese
materna,
le orecchie di artista assassino.
Basta parlare di me, o del cuore: trovatelo prima di
spararvi.
NOTTE, PECCATO

La notte, infedele peccato di amanti presto mattutini nel


letto e sconfortati dal silenzio passato degli abbracci
già freddi di vite deluse e sante, i pensieri se li
svolge lontano nel suo inesausto regno sotterraneo
con le mie sottili mani d’amoroso verso la cuna del
lento errore: cerco! e frugo! capitano di sventura il
debole odore dei lenzuoli amici sul corpo martoriato,
futuro sudario: poi spengo in avventure e litigi
infiniti catastrofi pellegrine, l’eco di memoria da
abolirsi nella notte oscura; buio della vita se fu
un’altra, in cerca di passato.

Lontano, lì, nello strepitoso occaso dei mondi defunti e


inibiti dell’infanzia solerte ai tradimenti, agli amici
birbi e sonnacchiosi igiene dei quartieri solatii
dove caroselli e turbe
di parrocchiali processioni impazzavano.

Io ero il ferito e diverso testimone che abolendo morti e


primavere
la mano al calare del sole
asciugava al vento dei giardini.
Fu, nel passato, la mia una illusa visione delle visioni con
dosi intere di paranoia abissale coltivata
nell’esercizio impuro della ragione miserabile contro
la menzognera realtà prima che mi fece,
partorendomi ad un mondo qualsiasi, ma non mio!
Io allora vago immondo nel mondo, tutto sembrandomi
canterino, bruttamente canoro, finzione gelida la
mia mancando la poesia, il valore supremo cui
sottomisi la vita, adolescenza sperduta e senza
immagini, seppur prendendo un treno per Ostia
rimanendo eros mentale, liquido seminale fra ragazzi
acerrimi e morti totali adulti pieni di merda e
terribile rancore!

Arrivo dunque al Battistini, anno Domini Duemila, fra


mare e cielo spostato e sospeso, senza immagini
fasulle e secondarie
nel loro fine secondo alla stuprata realtà che non esiste.
Mi ribello, io, sempre ribellato, nello ieratico me
stesso
so di aver smarrito la diplomatica
versificazione, ed ora trascinandomi
interno e intero al mio sistema pellegrino cerco di
svoltare (scivolare) all’angolo con la buccia
cristallina della manifesta leggibilità.

Ho perso tutti i sentimenti, lo sregolamento appartenne a


colui che non c’è più, e descrivere il fuori-dentro è
banale, incapace e tenace circonvenzione per il
lettore di testi in lingua, corruzione di minore
rinviata ogni giorno nella educazione sentimentale
di un reietto depositario della verità aspra di un
Millennio
LA PATRIA È LA LINGUA

Per una mattina il male e il vero si confondono; nessuna


bestemmia per l’opera esaurita da chi, come me,
non spazia più nei sentieri della poesia. Forse
sbagliai arte, la sovrumana fine non cercai con
accanimento; non avevo mestiere; così passai ad
invidiare i pittori.
Ma quali? I mentali, tutti figurativi
e anormali, astratti e immaginosi vigliacchi nel rifiuto
dell’Antico e della Tradizione, ma virili
nell’accettazione del Caos
del mondo moderno. Creatori d’immagini, sì, beati,
mentre il poeta s’arrangia anche in estreme parole,
afferrando, magra
consolazione, che la sua patria è la lingua!

Assassino, scuoti il poeta, discreto infantile tessitore


d’inganni, scuotilo, con la tua magia: fallo fuori con
gli occhi della mente bruta; calpesta l’orgoglio di chi
rimane attaccato alla Realtà! La Realtà non esiste,
ma esiste un mattino in cui ci si sveglierà perfetti e
ciechi nella ridondanza dei corpi,
o della loro fresca resurrezione. E noi saremo là, angeli
di fiamma e ghiaccio, a cantare la gloria del Signore
per aver saputo
registrare l’orrore del mondo mendico
in Marocco o a New York, non ha importanza.
O, le salutari correnti della giovinezza in un mattino
assolato di primavera guardano addormentate la
vita che scorre!

Noi ci saremo ancora, fuggitivi e sleali opponendo celesti


aedi, o marchette lunari alla volgarità del domani; tu
hai compiuto il passaggio limitrofo e salutare in
adorazione perpetua, sfuggendo, anelando Il
consumismo ci guata, tu esempio e stella canti nello
sfolgorio decadente del Mondo la chiusa vendetta di
chi sa i giorni e le notti tutte prese dall’orrore della
Fine.

O apocalissi stellari, o violenze attutite dalla sera figlia di


nessuno
mentre la stanchezza affoga nella sorda fuga della
Felicità!
Questo volevi dire nel luogo pieno di polvere questo
volevi significare nello sfinimento del Sempre!

Viaggiare, morire; cercando l’angoscia degli Antichi


contro la Manualità terrestre degli abitanti di oggi.

Pure la Moda, l’Attualità ci stringe; tu la rincorri


sereno e saggio; non vedi
l’orrore che ci circonda; l’amore tiene in vita, e il colore
forte delle mattine, e la sera calamitosa di una vita
dedicata alla vita.
I COATTI

Solo operai nel mio silenzio deserto nella mia insana


voglia di carne umana solo coatti nella voce infantile
asciugando dell’eterno la bramosia di un attimo.
Solo coatti laggiù nel Campo dove vissi la vita vera,
costruita nel ricordo assoluto della memoria – infida
memoria, infido abbraccio della certa assassina dei
giorni.
Solo operai ora vedo sospesi nel vuoto oltre la siepe,
limitati dal vento che li copre e scuote come canne
nel vento triste del meriggio invernale – Avanzano,
avanzano certi di vincere fuori di ogni norma
spaventosa e celeste, fuori di ogni legge umana e
universale.
Ecco risalire il mare del tempo le giovani frasche della
villa rigeneratrice,
la follia clandestina, la legge interrotta
Solo gli operai mi consolano stasera, nel mio cuore in
tempesta aspettando la notte dove il sonno non
troverà un respiro adatto, ed io contemplando sarò
nessuno, io smarrito sarò nessuno.
PRIMA UN BACIO

Diranno che ero un gran depravato: ma dammi lo stesso


prima un bacio e poi uno schiaffo. Unico sentimento
non furtivo che ancora alberga nel mio cuore
ossidato di cittadino spento che sogna la campagna
è la pace dei Sensi, la vittoria Forse unico impegno
sublime è l’ancoraggio ad una stenta
lettura di me stesso, ad una triste meta di decadenza
accidiosa.
Ma un giorno diversamente dall’oggi fuggimmo per
terrestri mondi
desiderando della giovinezza
un profumo allegro e violento talvolta, fra manifestazioni
e partiti!

Noi fummo la lucente generazione; le periferie, le


borgate furono il nostro regno, la fortuna ci arrise
come volemmo, fra case contadine e parrocchie
cattoliche solatie.
Siamo qui ora davanti al sonno che ci prenderà
lentamente
per lasciarci in un ultimo gemito di follia che non vuol
dire ancora àncora di salvezza.
INVECE DI QUESTA CITTÀ NATALE

Anche del mare talvolta si è stanchi come adesso


aspettando l’inverno nella stessa casa di Roma
fra quadri gatti e incensi
per profumare le disadorne stanze e meravigliosi lieti
viaggi
da programmare verecondi
sempre in compagnia nei paesi caldi arabìa saudìa
tunisìa algerìa invece di questa città natale la cui
anima malata ormai non risplende più come una
volta: è una menzogna, un fiato amaro, – un ragazzo
da fermare tremando non c’è
che si aggiri per i forestieri a portare la buona novella
come l’arabetto di nome Abram o Amid, Mohamed,
Mafoùd e simili, al femminile discorrendo – le linee
della mano leggendo per la pura follia dell’attimo
leggero.
Si stringe così in frantumi la divinità Io guardo l’Acropoli
– il Partenone l’albergo del nostro scontento la
fiducia estrema dei battiti del cuore.
Amore sei perduto e salvato: alla dogana i fiori divennero
cannoni!
PRATICHE ATTIVITÀ

Perché se il poeta è ridotto a svolgere


pratiche attività, a tenersi in vita
telefonando, brigando, lavorando
ahimè contro Dio, o il dio
più minuscolo della poesia, a chi
farne colpa? Oppure andando
d’inverno, al freddo tiepido
di gennaio inoltrato verso Campo
e incontrando un giovane passato
nel vero campo del crimine
che ti desidera lungo il fiume
molle, fra la fanga, al vento
entrando, squartando, uscendo
in mirabilia di seme, di chi
è la colpa?
Ma passano i giorni, la vita
senza lamentarsi, confortando
l’idea che la vita davanti ancora c’è,
è lunga, anche se domani potremmo
morire, sfiatando
T’HO BUTTATO VIA
Partì l’eroe, aggraziato fanciullo
dalle scontente piume, l’invitto odore
della pelle guerriera. Ritornerà?
Perché se n’è andato come in una
canzonetta triste, per avventura
con il suo unico possesso, gracile
il corpo tenero nei baci a se stesso?

Abbandonò i luoghi sazi della mia casa


dopo avermi visitato a lungo e incitato:
«Smetti di scrivere, vivi, vivi, pazzo!
Le infanzie lontane ormai – devi
amare la bellezza reale del creato
di là dalla città interminabile. Ama me

vanto della modernità, gioco


destinato in pochi anni, pochi mesi
a sparire». Era una virtù, la sua,
di mostrarsi nella sua grazia tossica
angelo, carino, carino, smozzicato
da tutta la baldoria appannata
delle creature del vizio, mentre io vedovo
infame e appenato alle scarpucce bianche
ripenso, portate in un giorno di Carnevale
o la Befana...

Poi i sogni ancora drogati in un caffè


al Gianicolo, correndo, ballando
verso un albero di finta gioventù
erinni dei secoli venturi, e
anche i calzini saranno animati
correranno insieme vuoti se ne trovo
due scompagnati arriva la felicità
mattutina, mentre preparavo
un cappuccino
o la spremuta, e di un nome lucente
che passa ormai sei l’emblema sfocato
o spiro, spirello, perduto nel languore.
NELLA CITTÀ DI VIRGILIO

Non mi vedi sgocciolare per casa, inquinare il desiderio


di virtuosi
sentieri; dove sei ti ricordi in silenzio gli anni luce che ci
dividono, i venti notturni che ti hanno rapito l’anima.

I passi frettolosi per le buie stanze armeggiando in


pietose, lucide siringhe nelle vene stanche di
martirio.

Povero ragazzo inconcludente e senza sospetto di luce


nel tuo brullo cuore i torti miei ora rivivi, perenni
nostalgie assaporando nel sogno.

Nella città di Virgilio militare sei andato e nessuno ti


sorveglia
se un’iperdose aggiungi a tutti
i veleni chimici del passato; le nebbie padane t’avvolgono
e saziano
e tolgono al metropolitano traffico delle marchette
sudate; il tuo corpo in vendita un tempo ora è
statale, tutto con ironia e beltà della sorte ingrata
agli amori particolari, alle dedizioni infinite e lacere
nei labirinti di specchi in camere d’albergo vicino
alla eterna Stazione, squallida di poveri emigranti.
Se venissi a trovarti, così per gala, per fiera sottile di
inimica guerra dei sensi ritrovati oltre l’impotenza
degli anni, ne sarei travolto, a perire incoraggiato
nel risucchio del ricordo passivo tra tante vituperose
sfrenatezze: – il nulla, solo il nulla nel niente
oppongono ai soli, alle preste lune a sparire
chiarendo alle finestre buie dove m’affaccio e grido
di vergogna, intero sfrenato inerte danzante
viaggiatore solitario
della morta notte, del lacrimato giorno.
Mi chiedi di arrivare.
Spennare la gallina
dalle uova d’oro costa
la consapevole strada
per farti e partire. O bieco
naturale in cui m’involvo
te presente ai riti di sciagura
del buco metropolitano! Invano
mi danno ad inseguirti lontano
dalle madri ignote, non ci sto,
non ci starò mai dinanzi
all’overdose languida che ti
strappasse a me, sto così
male, pazienza! dice il folletto
della via dei Pettinari
degradato a nano ghiacciato
nel frigo: chi parla inventa
il domani:
il corpo è la meta finale
la salute il dono iniziale.

Ed è fede la mia inerzia


profonda nel combattere il male.
Non sai dove provengano le parole
del bene, né la fuga in avanti
per cercarle – sono perdente
perdonami, non devo continuare
a fuggirti a straziarti
a soccombere invano.
Ho tradito tutte le cause, le assolute
perdizioni, l’aspettare cieco:
trionfo nel poi, nel quando
senza futuro; le carte sono
ferme, spente, piene di te
del tuo volare, nulla interiore
velocità, produrre, urla il mondo
Ahimè, amore, affogo nel senso
insensato dei sensi scomposti
triturati, manomessi, insultati.
DICE O.W.

L’amore uccide ciò che ama: non sai chi lo diceva,


lontano tu, il cui ricordo o memoria
mi assassina, mi rende insensibile e sazio di eventi; la
mia o tua autodistruzione, gridavi, quale sarà la
prima?, – in un momento di vita o allergia alla vita,
guardandomi dallo sfatto letto sotto la coperta
giapponese, nudo; non ho avuto il coraggio
splendente e il male è assiderata compagnia di
uomini soli. Potresti recriminare
alla finestra davanti alla notte col tuo amico poeta
cittadino incapace di descrivere l’idillio dei tuoi
occhi, piangendo sconsolato il tradimento, non
vedendoti
dietro il suo corpo all’avventura dei giorni senza i viaggi
promessi e mai fatti. Amore, avevi ragione: manco di
dignità, vigliacco e avaro non ti ho comprato l’illusa
eternità di una stampa indiana rubata
col garzone o paggio incontrato sul portone di casa. La
droga scandalo ai borghesi era finita nelle tue vene,
ed io tremavo sempre il sempre delle complicazioni
giudiziarie.
Strippando guardo dai vetri l’invernale neve dei nostri
pomeriggi insieme: la coppia che era in noi si
frantumò dinanzi ad un barlume di maschilista
ideologia: non te ne fregava niente di essere uomo o
donna o cerbiatto inseguito da mille lupi che hanno
ferito la tua vita folle e cara ai miei pensieri.
Perdonami di averti ucciso dentro di me. Perdonami
di ancora vivere una vita non più rischiarata
dal tuo sorriso mendico di corrotto affamato.
ARTURO R.

Arturo ritrovato col tuo cappelletto


regalato vai verso il sereno, e non vuoi
sparire anche se le sirene dell’Aldilà,
demoni insaziati di giovane sangue,
ti pretendono: sono stato io ad impedire
la nostra comunione di anime ferite;

io, poeta da strapazzo, ma innocente


che si gratifica come può e non sa
credimi, veramente gratificarsi. Mi rivolgo
a te in questa lettera non spedita;
specialità alquanto morbosa, forse
imbecille di chi recita l’odiosa parte
dell’innamorato respinto o infelice
o tutt’e due; sento di non perdonarti
nella fuga a precipizio verso le scale
della pazzia: resto solo all’incontro
superfluo con me stesso; vorrei
soccorrerti, bruciarmi in te, volare,
spiegarti se esiste il Dio della Paura.

O lato della mia casa perduta


dove sono restato come un vedovo
tenace per non fuggire più
i ricordi che mi assaltano
come cavallette sparate in un deserto
irriguo. Vivrò di riflessa luce,
luce prigioniera, luce morbida e stanca:
chiamami, chiamami candela che si spegne.
Vorrò punire il demone meridiano
che è in me, peccando di presunzione
in questo vivere torbido: non ho
il coraggio di farmi fuori, né vorrei
qualcuno che mi distolga dai tuoi
sinistri affari: prego, prego per me,
per la mia santa accidia benevola.
Io ho sconfitto l’amore, io sono benedetto.
CUORE DI PIETRA

Scriverti è stare un po’ vicino al tuo cuore di pietra, alla


tua mano velata di peccato e malinconia;
stringerla era nel letto delle fami salvare dal naufragio la
certezza del domani, la fuga del mito
verso le isole greche. Ora, l’esilio è sicuro, la paura di
perderti
o vederti immensa come la Sfinge apparsami in sogno,
laboriosa
nel disfare i grani dell’incenso.

O voce umana tante volte sentita il compiersi del misfatto


terreno sulle mie spalle segna il tempo
e lo spezza, non sentirmi solo
sembra una parvenza ormai svanita nella leggenda del
tuo nome
miracoloso. Svegliami, esulta
svegliati dal torpore mortale
dell’eroina, welcome eroina!
gradassa infernale prima di ogni crema lenta e girata in
casa
del mio rivale alla rampa Brancaleone.

Nessuno ascolta il mio richiamo nella notte, cercarti mi


spaventa come fossi il privilegiato della sorte.
Non so andare incontro alla morte; assurdo mi sembra
che la vita
mi aspetti al di là delle porte infere o paradisiache o
vuote di tutto, anche il nulla è mortale,
o la speranza brulla di indiarci.
Non ascoltare la mia sirena notturna: il canto è spento, la
luce non più accesa; odio la mia vita che si riflette
immota in uno stagno putrido e senza fondo.
Tutto, banale, mi parla di te:
il Neurobiol che prendesti la sera del nostro primo
incontro
per disintossicarti inumano
mentre ti stringevi al mio corpo sudato urlavi perfetto:
«Salvami o mai più ci rivedremo!» ma io
non sono stato capace di dedicarti un’ora sola della mia
vita; ignoro se le telefonate anonime mi vengano da
te che spii la mia voce alterata il pianto sommesso o
gridato.

O allergia che m’insegnò il trapasso abbandonato ai


demoni che orrore la fuga col demonio di nome
Angelo, rubandomi le ghinee consegnate, estorte
per darti la ragione della rottura.
CORPO VIOLATO

La vita è sogno di giornate ardenti inavvicinabili mattine


di tarda primavera... Stasera è inverno; ieri era
estate calda di ottobre; io piango – vergogna al muto
piangere – vergogna all’inedito ascoltare il cuore
offeso – carcere di sventura attendo – e spasimo urlo
– tu liquido emblema santo, santo dei giorni
ti aspetto nel letto vuoto insonne martirio – celeste deità
sconsiderata, bocca
bocca dilaniata, servo
di notti tutte uguali
signore e padrone eletto scelta veggenza di carne O
corpo violato e incessante nel gelido ricordo, corpo
innaturale assaporato invano, corpo amore lì tra le
braccia tenere di altra trasgressione! O antica selva
dei furori pieno di seme inaccessibile ineffettuale O
amore costoso irraggiungibile o suicidio lento deriva
di morte o tu che mi respingi
verso il mare dell’essere verso il cielo del non esistere!
DIALOGO FRA UN ATTORE E UN POETA
INNAMORATO
Attore

L’attore è la voce dell’Assente.


L’assente è Dio. Io dunque
sono Dio – mortale, ferito, imperfetto, ma Dio.

Potrei dunque imitarlo, fare miracoli, scendendo di livello


– qui ci vorrebbe molta ironia, molta inautentica
saggezza di Padre ma il Corpo reclama.
Reclama la sua Presenza.
È il corpo la voce del Presente.
Se fossi uno che gioca con le parole minuziose della
fissità mortuaria direi anzi per farti contento: il
corpo è la voce del Padrone, Dio è la voce
dell’assente, l’assente più presente di tutti sei tu,
finto Dio che fingi di essere un poeta malato di
civiltà: parole inusuali e ineguali usi a tuo uso e
consumo per corrompere, bastonare gli umani: io
vivo e questo ti dispiace, ho un corpo e questo ti
rammarica. Un corpo ancora che gode la sua
sfrenata giovinezza!

Innamorato

Il corpo: ecco il feticcio osceno che anche tu adori,


adorazione funesta, limitata al quotidiano da cui
fuggo urlando contro il Dio che lo inventò. Devo
sbiancare nel ricordo il tuo corpo adorato, non
ricordarmene più, forse aggredirti, ma non so
aggredirti.
Come potrei d’altronde testimoniare che io ti amo: –
amante di un corpo sterile e simile al mio che
adorando rifiuto? O inganni del corpo che vive la sua
vita perduta dietro gli incubi miei di una notte
insonne, dopo altri incubi perenni nel testimoniare
la morte, la mia morte, la paura della morte, il gelo
della morte, il rifiuto della morte: la morte per
acqua, aspettando l’assassino, il vigliacco assassino
dal volto assurdo e misterioso. O notte, salvami dagli
infami inganni del mio cuore stanco, lasciami solo a
delirare in tempesta un innamoramento precoce e
dedito al vizio del peccato.

Come potrei testimoniare che io ti amo? Sfogarmi in


sonetti petrarcheschi, se fossi un vero poeta, ma non
lo sono, non basto a me stesso, ho paura di stare
solo, con i gatti Belindo, Belinda e Myosotis!
Non sono poeta: e poi i poeti sono passati da quel dì di
moda.
Chiunque ama può scrivere poesie, però, lo dice Rilke, un
vero poeta grande e tenero verso l’ingrata vita non
dovrebbe mai scriverne di poesie d’amore...

Non mi resta che stare in silenzio ad ascoltare il rumore


del tuo corpo e l’amore intrigante che emana:
scintillante fantasma inconosciuto da tutti e più da
me: non so donde proviene, chi ne è l’autore del
messaggio, certo, in antico, si sarebbe detto che è
un Dio, ovvero che è un Dio che lo promana,
svelandone l’origine disumana. Io invece so solo di
essere posseduto da una voglia antica di farmi male,
ma tu non puoi capire, non sei mai vero: potresti
simulare la mia recita, o una recita pretenziosa e
bugiarda più forsennata della mia, ma solo nella
recita potresti amarmi: sei solo un attore, una voce
che viene dal nulla, e dunque non esisti come non esiste
lui, l’amore.

Attore

Non sei un poeta, ma potresti scrivere lo stesso qualcosa


per me: ho bisogno di avere successo, e tu con la tua
follia di innamorato potresti far qualcosa di buono.
Ma anche tu prometti invano, come tanti, solo
desiderosi di appropriarsi del mio corpo
adolescente...

Innamorato

Il tuo corpo non m’interessa; caso mai la tua anima, ma


tu non hai più anima, oggi nessuno ha più anima:
tutti puntando soltanto sul Corpo. Basta andare sulle
spiagge assolate d’estate a vedere i corpi sfatti
dall’inverno pieni di creme mentre ascoltano al sole
ferito dall’inquinamento umano le radioline. Che
orrore!
Eppure ogni parte della Terra è ormai così: non vale
neppure muoversi da Roma, città che ci è stata data
come condanna per vivere.

Attore

Ero distratto... Scusa... Perché dici che io non ho più


anima?
Perché fingi di essere così profondo, e gli altri invece
tutti merde?

Innamorato
Mettitelo in testa, carino: io posso amarti solo senza mai
toccarti, non ti darò mai
la soddisfazione, o meglio simulerò la sofferenza per
ubriacarmi di te.

Attore

Temperamento tragico. Dovresti fare l’attore, saresti


bravissimo.

Innamorato

Potrei fare il commediante, ma non amo le parole, infine.


Preferisco il teatro nel suo momento sacro, libero,
non schiavo di parole, anche se io sono condannato
a parlare. In principio era il Verbo o l’Azione. Non lo
so: il dialogo più stringente è con l’io, con me: anche
quando vado al mercato: lì è la vita, il teatro:
pensando ai gatti, Myosotis o Belinda, il cuore da
comprare, o le alicette fresche fresche, mi viene in
mente un grande spettacolo, il gran Teatro del
Mondo Scomparso, il mondo di ieri certo quando le
famiglie erano numerose in uno stesso
appartamento, la miseria bella la miseria! trionfava
poetica, e le madri mettevano al mondo tanti figli
innamorati come fratelli di loro stessi e del mondo
sospirato al di là di una piazza scomparsa...
Ma devo lasciarti, me ne vado: questa è l’ultima volta che
ci vediamo.
No, non mi ucciderò, devo mantenere i miei gatti, a casa
mi aspettano con i loro occhietti innocenti...

Attore

Ti sei ridotto ai gatti, sei uno sconfitto, ormai non c’è più
niente in te che ricordi la vita. Sei una lagna, ma
non è detto che io non potrei amarti, o stare con te:
hai fatto tutto da solo.

Innamorato

Perché dovrei amarti nel clamore dei secoli? Voglio


soffrire in silenzio, e maledirti. Non perché io porti
sfortuna, no, ma solo per maledire me stesso, per
aver offeso il codice della Natura...

Attore

Ancora hai di questi problemi?

Innamorato

Vuoi saperlo? Il mio amore


mi fa schifo, dovrei solo amare Dio, il Creatore, non le
Creature: ma Dio non c’è, non si vede, non mi tocca,
è il magnifico delirio di Kobra, una scintilla della sua
inesistenza è in te che mi sfuggi, e sfuggendomi mi
dai l’idea massima di te, fuggitivo estremo e labile
che merita di fare una brutta fine!

Attore

Non credi di essere un po’ ridicolo?


Sono stanco, sto aspettando il Notturno, e rincontro te, i
nostri destini sono separati, anche se mi
innamorassi di te, cosa improbabile, tu mi
cacceresti: il nostro vero problema è l’identità: tu in
quanto mio persecutore innamorato ce l’hai. Ma io
chi sono?

Innamorato
Il mio amore mi fa schifo.
Senza tutta la materialità della Carne.
La immaterialità dell’Essenza Celeste.
Io ti odio forse, perdonami, stammi ad ascoltare, nella
notte buia e senza luna, le stelle sono fuggite dal
cielo con raccapriccio...

Attore

Donde ti viene questo poetico parlare?


Perché non parli come mangi, così si dice a Roma. Roma
è la tua città e tu la disprezzi come tutto, non ti
aspetti più niente dalla vita, non è vero?

Innamorato

Mi aspetto di capire perché ti amo.


E mi aspetto di sapere perché tu reciti. Bene o male non
importa, ma perché senti un bisogno primario, come
la fame o la droga, di recitare, di fingere, di
simulare, di raccontarti una favola inquieta e
terribile su te stesso.
Tu raccontando una favola a te stesso, invero la racconti
a me: al tuo innamorato deluso e affranto che ti ha
cercato anche stanotte, e ti ha trovato. Pensavi fosse
casuale questo incontro? Te l’ho detto: sarà il nostro
ultimo incontro, non tremi di paura, non tremi in
tutte le tue fibre adolescenti?

Attore

Perché dovrei avere paura di te? Sono molto più robusto,


potrei schiacciarti se voglio, ma farei il tuo gioco, e
poi non me la sentirei mai di farti del male, saresti
troppo felice di soffrire. Bisogna cacciarti con la
noia, con l’indifferenza glaciale.
Innamorato

Lo sforzo dovrai farlo pure tu per meritare il mio amore.


Il mio amore è quello di chi non sa amare, tieni
presente questo, e non ti illudere, come quando mi
telefonavi ed io non sapevo che dirti, non volendo
coprirmi di ridicolo infame, di turpe bisogno di te, io
ti lascio libero come vedi, e tutto ciò non significa che
non sia vero amore il mio, che supera le frontiere
del sesso, il muro dei corpi: ormai io sono nell’età
delle certezze assolute,
e dunque vivo senza traumi
conoscitivi, ripeto me stesso in un’assurda
sopravvivenza, diciamo che sono morto di una morte
mortale e agitata, noiosa e cadaverica ma posso
guardarti come l’ultimo dei testimoni a buon
mercato di un mondo che rifiuto in blocco, avendo
scelto la solitudine...

Attore

Vuoi sempre essere raziocinante, non sai veramente


abbandonarti al piacere di vivere, o a quello della
memoria, così scopriresti altri attimi in cui hai
comunicato con uno come me...
Non credere di avere un passato tormentato solo tu:
quand’ero piccolo tutti sapevano che ero un cretino,
non sapevo giocare al pallone, ero cieco di rabbia
per avere i riflessi lenti, ero di famiglia povera, e fui
messo in un collegio: lì scoppiò lo scandalo della mia
recita: capii che dovevo fingere di essere diverso e
m’inventai un’identità fittizia ormai smarrita nelle
secche della memoria: per questo ora starebbe a te,
se mi amassi come dici, di ricostruire questa mia
identità perduta, il sapore dell’infanzia, ma tu non
vuoi scrivere non vuoi darmi il successo volgare dei
giornali, delle gazzette...

Innamorato

Non posso scrivere; mi è interdetto il miracolo di


rappresentare la peccaminosità, di violare l’infanzia
con un grido. Sono un grumo di orrore e vivacchio
fra i miei gatti ruffiani, unici testimoni della mia
follia contorta e poco folle se non mi spinge ai gesti
estremi, alle lacrime impossibili.
Sei troppo bello, mi dai fastidio, non puoi capirmi, o se
mi capisci non ha importanza: non riesco più a
comunicare. Sono chiuso dentro: murata viva la mia
anima
protesta ma qualcuno è entrato a dominarla a
possederla, a divorarla. Posso solo urlare fino alla
fine dei secoli.

Attore

Dicono che l’amore renda


più umani – intenerimento, pietà, pena – ma in te diventa
spietatezza, bugia.
Sei intrattabile, nessuno direbbe che sei innamorato di
me...

Innamorato

Verme: che pretendi: la mia distruzione, la mia fine?


Guardare il tuo casto viso finto, i tuoi smeraldi e
ballerini occhi mi basta. Non voglio i corpi: bisogna
sublimare per salvare il mondo, e tu non sei geloso
di me quanto io invece sono divorato dalla gelosia
per te.
La tua vita non mi appartiene: per questo sono così pieno
di forsennata disperazione.

Attore

Che cosa dovrei fare per te?


Tu non me lo chiedi, e io vacillo nel dubbio. Anche tu
forse, sotto sotto, vuoi impossessarti del mio corpo,
penetrarlo, manometterlo, raggirarlo, sfiorarlo e
baciarlo averlo fino allo spasimo più crudele:
leccarlo, frustarlo, masturbarlo: saliva dopo saliva
verso
il piacere più demoniaco
dato che sei un fottuto e merdoso cattolico arrabbiato di
vivere sempre sospeso fra Inferni
e Paradisi? Anch’io ho sofferto, e non da attore come te
che rimproveri tutti di recitare: mi invidi la vita che mi
aspetta: ho solo vent’anni, posso andare per
stracci...
APPENDICE 1968-1988
COLOSSEO

Colosseo che mi hai cresciuto agli Amori rientro in te


come nel ventre di una Madre; lascio indietro il
patetico piccolo mondo che m’offende; si allenta il
rumore
del traffico, delle macchine che sobillano la coscienza
insicura di sé a desiderarle.

Tutto velocemente cambia, il destino si perde dentro gli


umidi corridoi, ritorna
all’unica sorte possibile: la carne
fa strazio di sé per punirsi di crescere o di essere
cresciuta al Desiderio e al Potere.

Eppure sono ancora povero come un monaco che abbia


fatto un diabolico patto con la Povertà: ma già nel
non ritornare più ragazzo, nel non essere, come
allora, piagato e visitato dai sogni irrisolti del sesso
ancora pieno di mistero – aperto alla vita proprio
perché più chiuso, più umiliato e stanco, mi sono
perduto, non sono più il tentato, una cavia
potenziale di tutto l’inautentico e il disumano, ma
colui che possiede, nella mente, la verità del proprio
misero fato depositato nel falso mistero d’un sesso
troppo svelato se qui facilmente lo incontro, in
questo luogo millenario, quasi eterno e lo compro...
Nel mentre forse i miei più puri compagni, della loro
richiesta d’intelligenza
fanno la sofferenza più atroce della loro vita, si sdanno
nei riti brutali dei cortei che protestano la
democrazia proletaria.
La democrazia borghese permette la mia esistenza e di
questa diversità neutralizzata fa l’alibi della sua
sopravvivenza; e così accetto perché costretto
questo sistema che pur mi ripugna come oggetto,
reale, delle mie repulsioni senza speranza, come
l’adempimento del mio diseredato destino di cavia
non più cavia, ma votato ad un impoetico messaggio,
impopolare e superbo, che della borghesia fa la
categoria universale perché necessaria alla sua
sopravvivenza.
Lì, in un mondo diverso, forse più giusto, meno alienato
di questo, io non avrei diritto neppure alla vita, non
tanto perché diverso ma perché soffocato da questa
diversità a toccare con mano la reale sanità degli
uomini nutriti di giustizia e libertà. Qui, nel
decrepito, fatiscente mondo tutte le diversità
proprio perché tali, politiche, razziali, sessuali, sono
epifenomeni di una stessa angoscia che fa esistere:
quella del neo-capitalismo, della borghesia che ha
paura dei mostri che essa produce. Ma lì,
in un mondo di eguali, dove i mostri tutti dalla ragione
saranno esorcizzati, io stesso come prolungamento
abietto d’un mondo maledetto dovrò da solo,
prima che qualcuno me lo ordini, ammazzarmi.
Qui sono un ricattatore, lì sarei un ricattato: nessun’altra
sorte mi è concessa.
Fra le tue pietre, Colosseo, mi sento sicuro come il
Delfino nella sontuosa reggia del re suo padre. Tutto
mi è familiare: il buco più otturato ha visto i miei
occhi indagatori cercare il segno della dolce
perversione, del sesso maleducato,
che si nutre, si attossica, la notte, quando le luci sono
spente, e iniziano i riti teneri e imbecilli, di
incontinenze e di facili erezioni, di seme acido
da tranghiottirsi in fretta e senza fretta, a seconda che
qualche concorrente s’aggiri, o la polizia travestita
da ossessa, vecchia zia da Ospizio per vecchi in
cerca di qualcuno biondo o bruno, brutale e aitante,
scappato dall’Inferno del Riformatorio e cascato in
quest’altro Inferno, meno coatto certo, ma più
desolato, dove la solitudine più spaventosamente
sola, dell’anima e del corpo, ti possiede intero, non
muta mai alla speranza di un incontro fortunato.

Qui, tutto, Colosseo, è in funzione dell’erezione e guai a


quello che per la prima volta s’inoltra a provocare
coi baci sulla bocca tante, esauste eiaculazioni,
insieme alla sua, prima e ultima.
Ma perché io cerco qui quello che mai troverò?
Per quale autolesionistico, inesorabile mistero?
Qui, in te, pur tornando ragazzo, non torno più ragazzo,
come una volta, ingenuo e infelice; ora il mio cuore
non è capace, in questa lieta stagione, che di
cattiveria, di crudeltà, perché smarrita è la via del
domani,
viene solo la notte e il triste vento. E
del dolore l’eco più assordante
è che non venga mai risarcito – mai.
È secco ormai il mio seme, spento e atroce – basta
mettersene un po’ in bocca e sentire il suo sapore di
morte – per quanto ancora corra lento o veloce sul
ventre bianco dei sani e indifesi ragazzi.
Limitato e feroce questo tempo
ha strangolato la mia unica grazia;
di non essere nato a nessuna nascita, incolpevole e
idiota.
Aspetterò la notte, lunga notte a chi conta le prime,
acerbe erezioni nel seme latteo o grigiastro delle
lunghe masturbazioni, le lunghe notti e il triste
vento, sapiente che s’insinua fra cunicoli e sterri,
ferendo l’odore magro, acido dell’orina abbondante
e festosa dei ragazzotti, bassi e tarchiati, di una
periferia immensa che come una trappola circonda
la viziosa Roma.
Vento lieto se scombina i ricordi
anonimi di un’anonima, effimera gioventù senza tregua
vissuta per questo approdo infame, fra le maestose
rovine di un vecchio, disamorato monumento ormai
in pensione e funestato, ogni tanto, da qualche
disoccupato con moglie e tre figli a carico, che
all’improvviso si butta giù, dalle stelle, sul selciato.

Ti lascio, Colosseo, alla tua prolungata nei secoli agonia


senza armonia tranne qualche festosa voce di
ragazzo o di marinaio in congedo limitato. Ti lascio
al tuo tetro sonno, da cui ti risveglierai forse ad un
altro, meno servile, secolo.
INVETTIVA

Pensai tutto il giorno, pensai, e ora dovrei ricostruire


fintamente il passato, vantando come spergiuro del
fato il tuo nuovo avvenire ma non meriti
rievocazione:
il passato è passato,
chi è vissuto vivrà,
e per i morti non c’è più pace, né per i vivi, ma solo uno
squallido presente, fra macchie e prati incielati in
nuvole nere.
Penso che il mondo scoppierà, che tu non sei mai stato, e
ancora tu lo sai, ti maledico, ma
la mia maledizione è piena
di miseria, e di oltraggio al Dio!

Chiudi, chiudi la sfera della mente, vai per infanti e


seducili
ancora imberbi per vendicarti del mondo eterno, e ladro.
Non conviene onestà o fuga nel niente, solo morte, lì
salendo per la diurna passeggiata nel folto, come un
demone un dannato, un chiosatore
dell’infinito visto attraverso una laida passeggiata sporca
di sesso e seme. Bugiardo! Mi fai ridere!
L’impegno, te ne sbattevi, alla romana senza scandalo, ed
eri vittima del consumismo come tutti i tuoi amici
fetenti, insinceri al caso, al cazzo, al fottimento dei
bisogni altrui.
Non sperare nella pietà.
Sei stato già giudicato. È una voce adulta che parla. Una
virilità suprema contro la tua vocina di arida checca
qualunquista.
NAUFRAGIO

Questa città che nasconde e confonde le inconfessabili


voglie dei borghesi ci è stata riservata, privilegiata:
il carrettone, di notte, invano stranisce la nostra
limitazione che scantona per tutti i vicoli di
Trastevere: vicolo del Buco, piazza del Drago,
dell’Elefante, stancamente
lussureggiante nel cervello malato, gli occhi fuori delle
orbite, e c’è chi ti dice la verità, amara
e debole come tutte le verità
soffocate dal non sapersi difendere: incalzato dalla
miseria, naufragio del mio stile, regressione
all’indeterminato, all’infantile, parole che fanno ressa in
testa mentre gli ospiti non vengono,
ritardano, che fanno?, forse vanno a casa dell’Impiccato:
lenzuola nere, luce tagliata, tendine
ancora come quelle di una volta, quando chi scrive,
ragazzo senza sesso visibile ma tormentato dalla
ragione, dalla scienza levigata nei salotti borghesi,
limpidamente vi entrò e vide il futuro impiccato, la
futura moglie, i bambini mai nati, la sifilide
ricorrente per le vene asimmetriche del pube
incensurato, le catene delle macchine, i guardiani
del faro, i romanzi della memoria, le poesie d’amore,
l’autobiografia precoce, le lente serenate alla
Stazione, col treno in partenza, i minori in vendita,
le marchette buggerate sulle mille lire.
Passavano il didietro dentro le carrozze abbandonate,
cimitero della stazione: i treni a quell’ora non
partivano più.
Come affretto il pensiero del morto, l’amore sciroppato in
cento lacrimose, luminose, ingenue poesie;
debilitato al pensarci, frastornato da altri, corrotti, amori
adolescenti, il tono poetico non-ritrovabile, i
compromessi, le fughe, le giravolte, le
comunicazioni problematiche ininterrotte e poi
interrotte, il quindicenne sano che ti monta, sacro,
al limite dei giorni vani o lusinghieri o visitati
dall’esplosione insincera del nulla.

Faccio naufragio, mi piloto verso le crescite: ho perso il


conto delle masturbazioni, i petti maschili non mi
difendono dal mio amore per la madre, drogata, che
non sappia di essere donna.
Ecco: ho imparato come si fa a essere poeta, a mangiare
la foglia, a bere a buon mercato, a fumare gratis, a
prendere lucciole per lanterne: so stare al gioco, la
miseria me la tengo tutta stretta, abbandono i sogni
di gloria, capito per caso in casa mia, m’affretto a
cercare nei cassetti le lettere della mia derelizione,
perduto amore, aspra vendetta
dei sessi, le lacrime taciturne che scivolano leggere come
farfalle pietose; ho perso la memoria vile, regolata
dai battiti del cuore, le mie pulsazioni aumentano, la
candela è quasi tutta consumata; m’affretto, rapido,
scervellato, sempiterno a cambiare la tribolata rotta,
il rompicollo dei giorni. Dio!
Sono come un liceale al primo bacio: niente mi ha
toccato, mi riguarda, non ho nessun dolore per la
Storia, amo me di un amore sviscerato,
e proprio per questo non mi amo, mi detesto, ma so che
non scriversi addosso è la regola ipocrita, la carne
insudiciata si può lavare, le certezze assolute
equivalgono al suicidio intenso, la vita vissuta
equivale all’Inferno.
A MARCOS – PINOCHET

Non c’è mostro più mostro di te vecchio dittatore


criminale e assassino; perché già non sei andato nel
regno dell’Oblio perenne, dimenticata pazienza di
un Dio maligno, non so se è vero che sul gioco della
morte consolatoria e consolante bisogna sospendere
l’umano giudizio intemperante; non urlare, la mia
gioia rimane, qualcuno sostituto di Dio ci ha provato
a farti fuori: il richiamo del viaggio verso gli Inferi
non potrà tardare, i dittatori giusti o ingiusti
muoiono
perché non muoia il popolo.
Chiunque il mostro sia deve pagare in vita: non basta a
noi
la giustizia divina.
LA FINE DELLE FINI

Non posso che maledirti, senza comprensione per avermi


fatto pensare a te, diavolo iniquo e meschino che
vendi la tua merce idiota alla Stazione come ultima
suffragetta del pensiero perverso e negativo; Dio ti
maledica, Dio ascolti
la mia supplica: muori prima di me se ora mi hai reso
impotente, a meno che non volessi ricorrere alle
maniere forti, farmi giustizia da solo.
Ma quante sono le vie delle verità!
E in queste vie non è previsto
che io sia un assassino, e neppure tu che mi spii
idiotamente come fossi un appestato da me che non
voglio sapere niente di te.
Ma ho sbagliato io, e tu dunque minacci sapendo che non
oserò ribellarmi, tanta è la voglia della mia
espiazione.
Dovrei abbandonare la psicologia, la poesia non sa che
farsene,
né io pubblicherò mai simile testo che denunciandoti mi
denuncia per consigliero del Male: ovvero categorie
inservibili per chi fece della razionalità un culto
smodato e inosservabile, se ora nessuno vuole
adempiere nessuna minaccia, nessuno vuole
veramente macchiarsi la mano e colpire. Non mi
merito persecuzione, Dio, né merito alcunché,
neppure la fama, presente o postuma, o la fame, o lo
sdoppiamento, la fine delle fini, il coraggio di
cambiare, la morte delle immagini, la fuga dal
tempo, il restare inchiodato a pensarti nel tuo
bordello mentale dove hai preso gusto ad un’infima
persecuzione, ad una nefasta libertà.
EROS

Se in macchina, pauroso di ogni traffico, sotto il sole


nella decapottabile, coi capelli gualciti dal vento
fresco al caldo sole di giugno, se m’arrischio,
nell’auto veloce di un amico di virtù a visitare i
Castelli, è ai giovinetti che do la caccia, al vento che
s’attarda dietro i loro snelli corpi e li modella,
ma non riesco a distaccarmi
dall’essenziale bisogno, calma morte dei sensi, pace
ritrovata in me, solare solitudine mia: è
l’adolescenza, ribellione sorda, tremenda, che corre
in macchina con me; e io adolescente che ancora mi
cerco, ancora patetico m’ascolto nel trasalimento, in
quest’infezione di ogni idea pur necessaria:
monasticità
legata alla sofferenza, al dolore, alla certezza intrepida
che si muore. Misteriosamente morte si può morire,
anche in questo sole, posseduti dalla notte
interamente
mentre è la più allegra delle vite, quella giovanile della
ricerca di un compagno rozzo da amare di carnale
amore; amore nell’estate caldamente abbandonata
in questa campagna banalmente verde, che trionfa,
che non sempre trionferà.
Allora acceso di silenzio e quiete seccamente baciando
una bocca
nuvola dei sensi nel cielo terso della distruzione, del
cataclisma universale spero
di morire dilaniato in uno scontro, fracassato contro un
albero, in un delirio di sangue, e sopra il solito
bianco lenzuolo a nascondere la mia presta morte,
morte giovinetta, morte eterna, o brucerò nel rogo,
fra le lamiere, come un falò, a sera, di quelli che
s’incontrano tornando, invece, ripensando
all’amico, rozzo amico abbandonato
AL CIRCO MASSIMO

Questo circo Massimo,


i segni del tempo che pur non esiste, lo hanno lasciato
intatto al suo destino contento di ospitare puttane
che come Dio mandano sciagure e malanni ai loro
visitatori.
È tetro, ora, in quest’ora notturna, a contare col cuore gli
anni che mi dividono da te, tanto che, mi chiedo, se
mai
sei esistito, se non sei un’invenzione febbrile della mia
triste fantasia. Lo so: quando il sonno raggiungerà
l’eterno, nel paese delle Chimere, la mia mano
ritroverà il tuo sesso di cristallo. Nel gran cimitero
del mondo, non moriremo mai, se non siamo mai
nati, come stelle della via Lattea, lassù, che
consumano i loro fiati per mandare la loro morta
luce fino qui, a cercare disperatamente le mute
essenze, i paradisi giovinetti e mutanti...
Basta una stagione per vederli sfiorire.
Dio! è il sesso stellare, costellazione che naufraga di
notte in questo spazio immenso: nudità
riconquistata, oltraggio alla Natura, carcere
provvisorio...
II

Debbo ritornare a vedere la mia


situazione: abbandonare poesia.
Non ho più un conto aperto con la mia generazione. La
rivoluzione è uno spettro che a me s’accompagna,
mentre furtivo mi calo a ispezionare l’altrui sesso!

Qualcuno mi segue, mi spia, sgarbatamente mi invia i


suoi messaggi, le sue sicurezze losche di morte ai
traditori.
Io, certo, ho tradito. Sono un traditore.
Ma tradisce solo chi è tradito:
l’illusione di essere in regola non basta per riempirsi il
cervello di parole.
Dimmi pure, allora: «Domani al Colosseo – no, no, non
per quello che tu credi, il sesso rivisitato, il
pestaggio del ricordo, ma per il corteo, con gli
operai, con gli sfruttati, i disoccupati, vieni! Non sei
uno sfruttato anche tu?».
Non verrò. Disubbidisco, se tu sei nel rumore assordante
del nulla, in qualche offeso paradiso confuso di non
esistere.
Non risorgerai dalla tua morte.
La retorica non è solo nei concetti, ma anche nelle
immagini: e qui,
mentre seguo un ragazzetto, brillano i fuochi
dell’Inferno.
SCHERZO
I

Muerte Sonno Disamore Eroina Non


svegliarsi più Luna leopardiana Così potrei
continuare e voi continuate per me in una filastrocca
carina pensando che chi vi sente ha meno di
quindici anni età in cui si perde l’innocenza, ma non
ditelo troppo forte al Dio che ha smarrito le
perfezioni in un’altra vita più radiosa e perfetta di
questa. Dunque non ditelo ai miei amici di lassù, già
morti calpestando le terre incognite di una Sirena
che ancora mi aspetta per buttarmi, per acqua,
buttarci verso l’infinito azzurro nero niente.

Ora dovrei ricopiare una poesia scritta ricordo in una


notte infame; era di maggio come la canzone verso
la lontana Lucania, su un mare color tramontana,
ma la tramontana non ha colore, come la
disperazione che non conosce frontiera, non amando
oggetto umano sensibile. Per cui oplà, si dia l’inizio
alle danze.

II

Sono qui chiuso in trappola la mia mente è vuota non


eredito nulla
tutto ho scordato
oltre il mio bisogno di niente aspetto l’eterno
sapendo che non verrà chiudo all’immaginazione il mio
silenzio
aperto, spalancato, ignobile...

III

Scrivo automatiche parole nessuno saprà quanto sono


infelice
quanto sono un expoeta dando ordine al Caos mare e
sole inchiostro nero sulle stelle
io non chiedo
che qualche giorno ancora pietà
per capire la verità, afferrarla, farla mia, non mollarla
più, la verità, la vera, quella sapiente degli sciamani
ubriachi
ma non viaggio più.
Stai fermo cretino dico al viaggio qualunque che potrei
fare in silenzio Soccorretemi immagini Aiutatemi ad
attraversare la strada

IV

Riprendo discontinuo nell’attonito silenzio di un


celestiale mattino, ma grido, grido lo stesso alla mia
solitudine di gesso quale fine merito
senza o con amore
in fila sgranato
da brutto impiccato in una notte qualsiasi –

nel buio, in galera, sotto le stelle


conquista o vittoria sto male
veramente
ma nessuno mi crede

VI

Sono felice!
Oltraggio!
provo a dirlo
qui nel regno di nessuno che è il mio commento
ricostruendo meriggi e vite alternative allo strazio
che sarà ricominciare.

Ditelo al mondo fu mancanza di vita quella che mi


oppresse fino alla felicità.
Ora inseguire un’ombra fuggitiva guardando un mondo
che non mi vuol riconoscere è l’importanza
di cancellarsi come Dio o Dario o Demofoonte...

VII

Gli anni passano


zitto, non dirlo
peggiori la situazione dire che ho paura
è poca cosa
in confronto
alla paura reale!
Reale, regale, regalità del Reale, giochi di parole,
commiati, imperi perduti, mal organizzati, venduti!
Giochi di parole,
loro, sì, libere di significare il nulla, lo snulleggiante
nulla, il quasi perdente universo dei segni o sogni
indecisi e indistinti!

VIII
Sapessi dove sono, stella mia, davanti ad un cielo nero,
un balcone di gioia, un rapido tremore, una radio
libera
che trasmette ogni sera canzoni – una tranquilla sera nel
mondo Il terzo Mondo tanto piacente e spiacente ad
un assassinato poeta.
Stasera eccomi a rievocare fantasmi. Non credermi
quando parlo, non cedermi, sono bugiardo
anche con me occultando il mio austero passato dove non
c’è spazio per un qualsiasi debito...
CONGEDO

Pasolini Ginsberg Sandro Penna e quanti altri mai ebbi


maestri Kavafis Leopardi Baudelaire eccomi a voi
ignaro e deluso affondare il bisturi della poesia
sopra il mio corpo lasso:

tutto è perduto, il mondo lascio indifferente ad altri,


canto una canzone per pochi eletti che si raccolgono
intorno
al mio pianto: ho sbancato la vita fuggendo mi ha lasciato
qui desolato e incapace di procedere; una volta
sapevo ancora combattere
con le armi della dialettica una battaglia celestiale.
Spreco di aggettivi oggi mi basta per rimanere fermo su
un letto fra tepore e consiglio di vittorie future da
combattersi mai: la poesia persino fu liquidata al suo
congedo definitivo: non resta che piangere un pianto
senza lacrime, ditelo al nemico.

Tunìs 1988
L’avversario
I

Né pipistrelli né serpi
mangerei nell’Aldilà normale
dei ladri; né ripensandoci
potrei farlo se il culmine
della Fine, il gran Finale
fosse mangiare me stesso
o quel che rimane di me stesso.
Ad ognuno il suo pranzo
più o meno ecologico, senza
sputare nel piatto dei digiuni.
II

Legge di natura lo schiaffo


tradizionale; il bacio
e la mano incerta
– il singhiozzo della creatura –
grido: mi lasciasti, anima mia
mi lasciasti, nel vento
te ne sei andato, non tornerai.
E fuoriesce, s’invertigina
la vita passata e ne muore.
III

ROMA 1989

È avventizio il mio essere reale.


Sleale è insistere su chi sono io.
Il punto di partenza è scontato – l’arrivo è certo nello
stato attuale: morte come sostanza o strato finale di
un cuore malato.

Oh, vorrei rinascere, ritornare indietro ma non posso.


Troppo ho peccato di peccati non miei, attribuiti a
posteri, mancati inganni.
Cerco amori nuovi, violente sere.
Perdono chiedo a chi non amai.
Forse verrò domani ad un prato verde, – e non sarò più
solo.
IV

Autobiografia solenne
in un’infima stanza
la forza dell’indenne
orgasmo adolescente
non vale una bevuta
notturna alla ricerca
del vero Bene. Dunque
non morire, rispetta
il mio gioco d’infinito.
V

Non invento più,


il cuore è spento, in disuso
ma già verso gli anni fuggiaschi
sento un desiderio smisurato
di recuperarli. Sono una fortuna
del passato, e chiudo in silenzio
i giorni catastrofici. Nessuno
sa che cosa sono diventato.
Spauracchio sepolto, gattone celeste
o grigio affossatore d’avventure.
VI

a Maria Luisa Spaziani,


per il «Muso»

Una sottile linea della mano che, spezzata, ho spezzato –


spero di ricostruire nel fuoco di purificazione, o
cuore
sanguinante rimarginato invano davanti alla Musa o
Muso spietato.

Non pensavo di salvare nella mano il povero letto


dell’Orrore; sapevo solo aspettare
la lingua sensuale dell’Onore.
O rispettare nell’oggi in cui faccio a me ingiustizia,
e chiamare inascoltato il Dio del miracolo transeunte –
rispettare me ancora e sempre o il Dio che nascosto
o bruciato non si mostra e non muore.
VII

Come terrore di elevarsi a cime


più alte del bisogno del creato
le sterminate strade ma finite
percorro nel mio umile stato
diseguale, chiedendo ai pochi
l’errore di sapere chi vorrà
suonare il più bel piffero
di tanta gioventù sfuggita
e perduta nel sogno di una vita!
VIII

Il sonno è una piccola morte


richiede commossa pazienza –
attenderlo è sperare
in una resurrezione antica:

io aspetto la notte
per dormire poche ore
nel caldo di un letto
intrecciato ad un corpo
infelice e sterile, il mio:
non siamo eterni
e questo cadavere intrigante
presto supereremo.
IX

Non devo pagare niente a nessuno. E non me ne devo


andare, o partire per sempre, lasciare vacante il
posto. Ma guardare il sole o il mare non è concesso
a pochi – e i pochi devonsi
salvaguardare.

I pochi sono i più che piangono la sorte dei mondi


irresoluti a non essere. Prego invano che restino lì a
confermarci nei secoli.
X

Occhi – salute mi abbandonò al vostro sguardo nemico –


occhi improvvisati guardano la fine
duratura, estrema, e ne ho paura.

Vi chiudete, occhi, non aprite al domani il vostro anelito


di sole.
Dove mi attacco, insonnia, sbarrata mente, oscuro cielo,
scudo ai giorni stanchi dove gli occhi spenti e divisi
guardano il buio della sera, la finestra alla
minacciosa alba.

Innamorata notte nella mano stretta per non morire


l’astato cuore
si agita invano. Mia notte
mio sonno perduto nella vita
non più sacra, dove pietà è morta, dove uccidere fanciulli
non è reato.
Mia notte, mio sonno perduto,
ritrovato, dove, in che luogo lontano?

Pietà dei vivi – pietà senza pietà, troppo presto punisti il


peccatore di Nulla, senza Angelo custode,
protezione, padre – oggi e domani e mai – chi
calzerà le vuote, doloranti spiagge dell’Aldilà saputo
e inverecondo?
1992
L’AVVERSARIO
ROMA

a Giorgio Montefoschi

Roma – o altissimo sparire di una città di pietra quando


le sue immagini liete non confortano l’Inesistenza
futura! Così invano si passa lo sguardo su canterine
foto di un giubilo antico, su ardenti foto di
repertorio – Anni Cinquanta.
Non c’è più la città, la spaurita città
della sparita giovinezza: vecchie austere guardano il
mondo indifferente; puttane illustri si vendono sotto
il ponte di Testaccio; inamabili vecchie rotte ad ogni
incanto. O incontro, o magia o incantamento, prima
dell’avvento finale fra Terzo Mondo e Traffico
Sconvolto, prima del canto terminale di una gioia
virtuosa e teologale.

Sudore lacrime sangue sperma corpi adolescenti in lei


abbondano, sfinge mentale dei miei deliri
sottomessi, sottoposti all’accidia del vento: Ti
supplico, mia città natale, vieni a salvarmi per
salvarti in una oltremondana Apocalisse – oltre la
sotterranea isteria, vieni a giacere oltre il sonno
delle morti rapide e uncinate nella sventura di un
tuo figlio assetato
della voluttà sensibile dell’Agonia –
Per girare a vuoto col vuoto piano discreti in campi
spaziosi scivolando dal Gianicolo, scavando la fossa
scivolosa o fermandosi nella proda secca di un bosco
a Villa Pamphili: non risorgere più, città, ladra di
una vita intera, scompari nel funerale della tua
storia millenaria, associando
magari un trasporto di prima classe,
dimentica di libertà inquisitoriali, onori, salvezza –
qualità segrete al tuo mare lontano
dove mi bagnai funesto e ragazzo nella rena –
Associando, associando, non contemplando
aspettando le Fini, fuggendo pianti e desiri.
BERLINO 1978

a Giovanni Giudici

Rimasto alle Sponde inquisito dal vecchio mare


o Berlino ormai libera
da me un tempo, col Muro
incandescente, onnipresente visitata. O Berlino città
senza pari ricercata
capitai per caso e fui
vittima designata, ragazza – ero un giovane ragazzo
altisonante e sonoro
nelle albe immense
desiderando metamorfosi
razziali, biondo con l’orecchino in salvo, il destriero alato
verso la povera stravolta
mano melodiosa.
Di lì scrissi su un biglietto della decrepita pensione
Hotel Luftbruke, Dudenstrasse 65, poche parole di
tenebra...
Ecco il ricordo fiammeggiante: dicono che fra 15 minuti
sarò salvo, intero e già folle testimone...
Arrestato, sì, per aver perso il Visa: il visa dei celesti
abbandonato in un tram dell’Est – di Berlino Est, ma
nel giorno della morte sarò, lo prometto presto o
tardi saprò – sarò ancora più calmo e innocente.

In galera, o in attesa di andarci; non so niente più, mi si


spacca la mente perduta ai soli e alle acque vaganti
di una fontana lucana.
Mi immergo in voi – terrestre e mortale. Lontani oleandri
bianchi, purpurei fiori
e lavanda, ginestre, libellule che volando a pelo sfiorano
le rane gracidanti. Mi pizzico: sogno! Impaurito e
remoto
come l’eternità, in una galera per passare il tempo fuori
di me.
Addio sogni! Chi mi porta sventura o malora? Tutto va
male,
tutto ritorna dall’abisso del niente, i sentimenti sono
pupazzi alla berlina, o Berlino nazista.
Mi puntino pure il mirino addosso: sparino, parta il colpo
giustiziero della mia cattolicità, o di una tragica
frivolezza che mi
occupò in vergogna. Che brutta figura in Italia quando si
saprà: arrestato per aver perso il visto dato ad un
giovane zazzeruto...
Il mio primo viaggio al Nord!
Budda, ho paura di te, del tuo Nirvana... Cos’è? Non
m’assicura il Dopo, la nuova Era, il bacio di un
angelo chiamato vita!
Feroce intrigarsi dentro una gabbia dopo pellegrinaggi in
teatrini cabaret e pornoshop. Oh, il sesso tanto
liberato e circonciso, tanto impaurito. Passeri, molti,
cinguettando io senza magia ritmi lazzaroni, io,
canzoni: non più la voce adolescente, garrula.
Questo vuole il mondo da me, insostenibile rondine,
rondò del Dio capovolto e normale.
Restare lì, scrivendo in gabbia dipinta mille poemi, mille:
sale, scale, scalini, ascensori di un poema Anni
Trenta, Unter der Linden e rimpianto laconico di
Croci Uncinate, di Svastiche Perenni vagolano nel
buio immite del mio scontento invernale.
Ho paura, grido, grido, alla guardia carceraria, al suo
spiarmi dietro la grata, e infernali messaggeri mi
spingono verso il Ponte dei Sospiri dopo il Muro
Atroce,
atrox murus – piedi e croci – morte!

W il non comune comunismo di base tradito in gioventù,


penso
al mio Tevere fatale, laggiù volando, stravolando
per boulevards parigini, inquieti prima dell’anno
Duemila...
No, sono in gabbia, alla mercé prezzolata di aguzzini,
polizia prussiana, la più bionda che ci sia: scarica
feroce di seme e adrenalina, ma non piango,
sottomesso al mio karma maledetto e privato,
giocoliere di sventura. Lavandare, nel cuore,
s’agitano, sulla Lucania al vento nelle vasche finali
di Sant’Alessio dove m’immergo, o acque ristoratrici
nella memoria sconfitta dei giorni.
Non mi piace sapere, ignoro è il mio motto perduto, le
sirene dell’Aldilà spingono la verità nel tuo sogno
lontano, o strega soave, poesia da ristorante,
maramalda del tempo senza Ellissi, buco-assolta,
assolta ma nemica mia nemica ignara di bontà, lassù
nel tuo attico borghese mantenuta, ed io, libero
aedo incompiuto e santo, presunzione di chi non ha
mai fatto il Male, o forse una volta, dominato da
Stelle lontane, mentre tu odiavi, carcassa dei miei
coglioni, il mio bene, ma ora prigioniero di una
Berlino che sfuma ad Ovest, ad Est, nella pura
Concentrazione io erede di Hitler e di Anna Frank
mi dimetto da poeta
per la tua gioia immonda,
come se fossi costretto a vivere sempre qui, in gabbia,
guardando gli alberi stranieri agitati da un vento
sconosciuto che li sfina; io fermato, perquisito,
pronto ad essere trasmesso nei Campi di
Concentramento del Domani.
Oh lo so che torneranno, lo so!
È strepitoso, cara Berlino, essere in regola e fuggire via,
essere in regola con i visa, i test e le follie del
mondo, e non capire mai perché i fermati – gli altri
fermati muoiono,
lontano dalle patrie svenevoli e consumiste, lontano per
sempre da ogni luogo che si chiami Italia.
IO È UN ALTRO

a R.

IO

Mi dà fastidio l’io che è entrato in me.


Forse solo il tentatore è un re, il vero re
cercato nell’Abisso
dell’incerto sapere
e non sapere chi vuole la morte o il bene.

ALTRO , o DOPPIO etc.


Lasciate la vita
atroce impostura
chi vuol sepoltura
giri al largo da me.

IO

Te ne dovrai andare
nel mondo dei più.
Non tremare, sospiro.
Ve ne dovrete andare
nel mondo dei meno.
Non illudetevi infeste immagini di gloria,
vi ho lasciato
al primo che passa
della Storia.
Chiudete al Male
le porte del bene,
ma intanto per eros
non morrete.

ALTRO

Mangio, ginnastica regale vergo l’anulare verga nel


profondo turchino di una bocca sdentata Mi scopro
surreale
vivente e lamentoso
Chiudete le porte, non sono più l’Innocente!

IO

Le streghe non passeranno; né i morti tanto allegri in


compagnia di se stessi all’alba improprie scale
salendo verso l’etra
santa e sdata del Passato.

ALTRO

Entrerà senza rumore un cameriere.


Bellino, con le mani in tasca, sul pacco frugale e
indigesto, un mezzo sorriso di compiacenza virile:
l’ideale alla teatrale sera prima di andare a spasso
sul mare.
Sarai il Tentato o sarai il Tentatore?

IO

Non ordinerò la pasta né il rituale timballo. Prendo il


treno in salita nel sogno di spazi – salgo il sereno in
camera di piazza. Accolgo la nuova Musa all’erta nel
fuoco, ricacciato nella dura dimensione dell’Ellissi. E
dell’Antipatia.

ALTRO

Sbagli tutto, ardente, prudente perdente fifone, tu che


sono io l’altro che è me, l’Avversario delle tue gesta,
e non sai di essere finché sarai due, il numero due:
un corpo e un’anima bastarda che deve crescere
all’unità di Dio.
Lo sai, ma non hai coraggio.
Devi essere Uno: la simpatia è privilegio solo di chi è
uno; tutto il resto è dominio del Nemico, l’antipatico.
Ascolta la lezione solenne: simpatia è dunque dono degli
Dei, e del Dio unico cantato da Budda Cristo e
Maometto; per farti traghettare da Caronte aspetta
la simpatia, la pietà.
Dal primo io, all’ultimo io con simpatia. E baci, cartoline,
messaggi d’auguri, ce l’hai fatta!
Per questo prega con me (fra te e me) dissociato per una
dissociata Musa che non ha mai peccato o oscurato
il Verbo sacro, e non paga il Sabato...

IO

Mi aspetta il volo? Il magico arresto? Mi aspettano? Le


SS ?
L’AVVERSARIO

Non furono immagini, raggianti e regali immagini del


reale salutare il mio forte: il forte di ogni ora
rimescolata, nella siesta o controra delle brame
assolute.
E trascorsi i secoli in ghingheri trasecolammo con
scheletri tardivi di Musa antiquata lungo le cime dei
monti Tiburtini invano cercati da mani infantili.
Non cercammo i cuori lacerati e indecisi né il lieto
sapore dei muscoli d’Acciaio.

Sì, immagini, rumori: mai il mio forte, il vero forte, o


panforte della poesia – truccata idea dei sensi
inquieti o calpestati singhiozzi nel letto ospite e
ospitale, orinale mentre tendo l’orecchio alla salita
delle scale, le mani collegiali chiuse e derise dentro
la palma umida, liquida, vivendo al capestro le
sensazioni virginali.

Stanze illuminate, poi. Garbate ingiurie del vino, ma il


giorno è passato ormai, orfano innamorato
agitandomi in piedi, in ansia: apro la finestra nel
freddo lunare
spio la mortalità terrestre e serale: tombale silenzio, e
noia, noia
calamità naturale del poco amarsi nel riaccendere la luce
perché svaniscano gli incerti fantasmi della notte.
PRIMA DELLA GUERRA DEL GOLFO

Sul mio petto colpevole e oscuro nei suoi battiti sepolti, o


Arabia non mettere una stella di Davide: riscattami,
leggero, inerte; salvami dal tuo nemico giurato,
Israel, a te uguale nel culto del Dio
Assoluto;

Hai ragione, o Arabia, nel cacciarmi lunatico aedo che


insegue i tuoi figli circoncisi e beati nel sorriso:
luogo di festa e di mare nei denti.
Sarò perseguitato – è l’unica
fine che merito, dice una vocina querula e stonata: la
Persecuzione – le poesie, mie, di tutti, non fermano
la Guerra, le Guerre totali – a presto Signori! a
presto, basta aspettare, e nel cassetto ecco le poesie
mai stampate; tutte al rogo, o nel camino che brucia
un bicchiere davanti, è finita!

Eccoli lì che dormono i versi in panca sbilenca comprata


a Porta Portese, prima della terminale
salubre idiota scalata di una carriera suicida.
Forse andrò in mano ai delatori e pagherà in contanti la
collera divina. Ma esiste questa collera o il suo
sinistro Avversario?

O Mohamed profeta abbi pietà del Mondo


che vuole morire per Forza Atomica!

Le Coca-Cola faranno il resto: il restante resto dei resti


nel deserto antico dei pozzi isterici di Petrol –
L’amore sarà perturbata tensione in lattine vuote.
Così
vedo languire tutti intorno a me.

Abbasso le energie pesanti e leggere viva la candela, il


lume di cera – Mostravano belli i volti incorrotti al
Seme spietato della Corruzione.
ARABIE II

a Giuseppe Conte

Vedo tutti morire intorno a me: e non posso impedirlo, o


città natale innaturale che mi desti le terrestri e
mortuarie nascite, vergognosa città piena di
extracomunitari eslegi, ilari nella ricerca del vuoto,
del nulla.

Reso da una notturna ansia che divide il cuore


impotente, sono inerte e porto il ricordo di ciascuno
di voi, amici; sento il tardo
rimorso di sapere che le nostre devozioni sono inutili
sfoghi;
invano piango i lutti con voi
che, amici rimasti, sempre piangeremo.

Questi devoti cuori antichi sempre piangono, sempre,


sempre piangeranno – come in un autunno
moribondo il freddo che avanza
ci spinge nel letto dei defunti, nel lutto aspro del
rassegnarsi, e niente accora più del ricordo.

Siete anche voi impotenti. E Dio non c’è, o è assente –


ma Dio è grande, islamico, reale, glorioso accidente
della sua regalità, Dio non c’è a consolare gli
inconsolabili afflitti dalle violenze dei superbi, tetri,
tristi drogati di sera...

Così, credo, anche per me verrà – fatale congiura dei


sensi – la Fine: sarai travolto da un’auto in corsa, o
al rogo in una camera a gas,
dice una Vocina, o pugnalato
in qualche profumato giardino,
di Marrakesh o Lecce, di Tangeri o Gabès. Di me,
irresoluto, sciolto dal corpo strapazzato non resterà
che una riga o due insepolte
dentro una lettera non spedita
che ingiallirà non letta.
In quella riga c’è il tremore
della mia vita bassa e assolta
assolta, pingue e assassina.

Varia rovina svarierà nel miele: i garzoni odorosi di


arance
non lasceranno più tracce
della loro esuberanza. Nessuno
mi ricorderà, nessuno, neppure voi amici superstiti...
Non potrete più gridare, allora, andate nelle baracche, a
vedere gli emarginati, il terzo mondo
degli esuli di colore, o arabi ladri per bisogno in Italia.
Famiglie tutte intere, sette figli, minimo, con le tette
delle madri sformate da mille parti; l’ultimo figlio
ancora avvinghiato al seno materno o al suo
biberon; una bottiglia di birra, dentro il latte della
Centrale.
Adorate forme dove passa
indisturbata la ferrovia e nel rumore assordante della
ricchezza che va al Nord i ragazzini perdono le
gambe.
O Arabia, paese di frontiera, i tuoi figli gelati sono la
risposta di ogni primavera.
IN CALABRIA

Davanti immacolate montagne nel sole meridiano


indicano
al viandante la sosta e la calma.
Ma fino a quando? E io chi sono se ancora ardo di voluttà
segreta nel giorno finito, anzi nei giorni finiti del
mondo caduto?

La casa è decrepita come piace a me, ma troppo tardi, mi


dico, è arrivata, come tutto ormai tardi è arrivato
agli umani.
Panni stesi al balcone al vento del Pollino, letti disfatti,
aurore così si placa nel risentimento la vita che ci è
data vivere.
Il mio io è distrutto, non esiste: la realtà è un nome
assiderato. Il mio io non c’è – è merda d’uccello a
volo sulle case dai tetti sconnessi dove la pioggia
suona il suo ritmo incalzante nella notte scura di
luna.
La leopardiana natura
ancora esiste e insiste per poco, mi prega di non
sprecarla con lo sguardo ossessionato da vacanze
blasfeme, perdoni e incastri silenziosi di memorie
austere, prigioniere di fiati industriali, di chimere
inquinanti di forsennata plastica portata da famiglie
impotenti per lussuriosi figli con l’orecchino d’oro
e la catenina ubriaca.

Forse un tempo credevo a Dio: vivevo in eterno il giovane


corpo, il breve corpo della gioventù del mondo ora
malato di plastica suicida e omicida, nel ghetto dei
pensieri tutti uguali della massa che vuole scongiuro
e disamore, odio e portate al ristorante
di plastica atomica per eroina digiuna. Oggi è a me,
inetto
indagatore di disperate speranze giovanili che faccio
guerra, non cambiando la fine della vita
in rinascita perenne. Mi faccio guerra senza sapere il
male.

O Dio di latta, ogni qualvolta ti penso, tu esisti. Io penso


trovarti, illuso!, in una chiesa di cemento o acqua
ragia.
Devo dunque convertirmi, baciare la terra manipolata e
avvelenata, seguire su una montagna di Pollino una
vecchia centenaria di Crosia che si chiude in una
tomba di cemento e svaria nel bunker la sua assenza
di psicologia: un garage l’accoglie non un fico o un
ulivo millenario, e così si ritempra al calore
dell’estate incipiente che mi toglie le forze poche del
domani antico.
Morire per lei, per la terra, sarà facile disguido, facile
avventura: per me, ostile terrore ladro, paura.
PITTORI, PITTURE
AI GIOVANI PITTORI

La pittura è colore e dolore – si snatura il colore quando


manca la vita e se cercassimo invece dei nuovi
pittori gli artisti del domani, un domani misterioso –
un affrancamento dal silenzio del cuore?
Tutto per me, idiota, resta enigmatico: se i quadri
valgono li trasforma l’Essere: Bisogna non cedere
alla tentazione del Maligno, ai mercanti d’arte, alle
sirene critiche, alle gallerie: i pittori giovani allegri e
suicidali, allergici e atomici
zeppi di roba bucata al mare davanti a Dio s’incoraggino
a vicenda nell’intreccio sapido dei foschi pensieri
vincitori e della manualità bugiarda del domani:
gemelli inesausti e dolcemente rabbiosi di una vita
metropolitana
che si disfa in latente cenere astrale.

Loro, i pittori opposti ai senili poeti languide carogne


succhianti sperma livido di morti cancrenosi nella
lingua italica – loro, sì, ci tengono alla gioventù dei
sorrisi smielati e delle porte aperte.
Troveranno un Maligno, vestito da Benigno che su tetti
remoti calpesterà un cielo d’ansia, e noi, poveretti,
continueremo a guardare col naso all’insù il volo
celeste dell’anima che ingrigita
ci ha dimenticato, lasciando i pennelli a mani più ardite e
complici.

Noi possiamo solo testimoniarlo: l’affronto superbo al


colore
prima di riposarci per sempre.
CALCATA

Impara l’arte, suona un secolare adagio da non seguire


nell’arte di mettere da parte le parti per il tutto, il
piacere della pittura e la sua distruzione, come per
la poesia ormai sconfitta, e poi salpa per un mare
senza orizzonte liscio come l’olio prima che diventi
tempesta, inquisisci il cuore di colori innocenti e
inattuali – e libera il mondo così testimoniando,
venerando, liquido Assoluto – nei giorni verdi di
Calcata.

Calcata, mio paese di gioventù, come Bolsena, come


Orvieto, come Nardò!
Oh Calcata, come Calcutta, come Bengasi o Bengodi, o
Colon rifratto nel perdono!
Calcata, musica di arpe e mandolini immortalata per
macchie terrestri
in macchia maculata turrita città
di paese selvatico, beffa di artisti negativi per un’arte
negativa, anni Sessanta e poi Settanta fino alla Fine
dell’infezione, della peste lazzarona, Apocalissi,
Spergiuro, – vorace abbandono dei Corpi.

Ognuno di noi, Calcata, spento o cielo è chiamato: Bivio


infernale, deve scegliere!
o è scelto? Devi scegliere! Tu hai
deturpato pittura, colore, pennelli per l’Eternità. Auguri
molti da chi resta indietro e non vuole né preci né
saluti.

Da chi resta a contemplare indiato solo il Dio maiuscolo


degli esuli, il bene dei poveri, giovani poveri cuori
del Duemila che qui alla Calcutta di Calcata agita il
suo ultimo stendardo di Gloria.

Siamo soli – percorriamo l’estremo cammino


nel tramonto sterile e fantasioso
apriamo le porte al sogno.

Sogniamo crudeli per la rinascita Oggi (o ieri o domani) è


un altro
giorno, l’io ha perso, evviva!
a Mario Schifano

Non regalare quadri provvisori se vivi bene senza


sentimenti, o immerso nel male dove più eterno più
eterno è il mare dipinto
o la luce di un Angelo di passaggio; più scura la luce se
scatena il cuore o io che resisto al Tempo
fisso in una smorfia epocale, arrivando alla alata tua
tanaluna lupa di mille colori stranieri vicino a
Carceri Divine e Regine piene di gioventù
delinquente, vicino a Gianicoli solatii, a madri
ragazze salutate dalle sbarre ferrate prima di
partire per non so dove non so dove con la mano in
mano o pittore tardi ritrovato
dopo anni di esilio subito
ricominciato in un giorno
d’Autunno, per girare un film sul compleanno di Moravia,
tra gli anni dell’Avvenire sospeso e un Passato glorioso
che non sappiamo dimenticare.
RITROVATE
A BILL, DAL 1967

Al tuo giovane Dio ormai senza sorriso o forse puro,


purissimo riso, ragazzino nel fiore dell’orgoglio
materno ormai gualcito dalla natura indolente nel
ricordo di pochi, antichi giorni in questi luoghi di
martirio reciproco avrei voluto soltanto, o gloriosa,
dire: «Dal Tempo, che pur non esiste, nasce il male
di potergli sfuggire, non dalla morte né
dall’angoscia di una deflagrazione irrisolta nel mare
del nulla.

Morto, sei vivo, mentre noi vivi siamo morti. E


aspettiamo di rinascere con la tua orfana voce che
lontano dalle Sinistre Porte s’aggira per vane gesta
e nell’erboso prato giunge a fare sacrificio di sé:
eroe malato di allucinazioni: mentre serena è la
notte e passa sfinita una puttana troppo consultata,
che ringrazia il cielo, nella sua patetica superstizione per
il guadagno che rallegra la sua casa; la voce, certo,
di un giovane senza occhi, per non vedere un mondo
disingannato, o prostituzioni
che allungano le notti dei libertini, orge fastose e
separate
per vizi profondi e superbi. O con la voce di lei, vecchia
giovinetta
immota a tanto strazio suicidale perché ormai tutta
stremata, ma senza piaghe nell’anima toccata. Che
accetta la folla che le affolla intorno i giorni solitari
che l’amore più grande e consumato conservano
intatto per tutti, in attesa.

E tutta la sapienza del mondo non basta a consolare, pur


nella consolazione del salto, dello svelamento
estremo, terribile, il suo emotivo, passionale andare
verso la Porta d’Oro: correzione fatale dell’effimera
vita che l’assale.

Sappilo: in questo sogno di millenni con la confusione in


testa, la tua solenne madre aspetta Circe e Orfeo,
contemporaneamente.
Settimane e anni che non esistono ma passano
inesorabili,
scalfiscono la tua contemplazione dell’ordinaria
esistenza:
diserzione che non evade la solitudine che ci attanaglia
le viscere.

Eri tu la sua vita, la vita di tutti, la realtà del sentimento


e dell’intelligenza, la verità la follia la chimera il
sonno
dal quale non ci si sveglia più.
Ed ora manchi, confessa,
almeno a questo appuntamento».
L’OMBRELLO DI ELSA

L’ombrello di Elsa è un eroe che cavalca le tempeste del


cuore un’aquila che sfida le tristi giornate.
L’ombrello di Elsa
fugge il sereno e s’avventa sull’umido piovoso inverno
della vita caduta, nella primavera impacciata s’avventura
per mano.

Canta le mestizie dell’estate al suo colmo quando agosto


rompe la stagione calda con le piogge e il sole
mescolati
smisurati da un settembre agli inizi Allora vibro
all’unisono col mare in burrasca, settembre è il mio
mese; il Leone il segno di Elsa, che mi vuole sempre
accanto, la nascita
è lontana, la vita ormai mi guarda col sapore della fine
prossima e ne tremo.

Allevare la morte è impresa difficile per chi è ricacciato


nella dura dimensione di un ombrello.
INQUIETE LARVE
1988

Può esserci innamorato


più fedele di me? Che io
sia un re lo sai solo tu
e il comune sogno ferito.

Non vivrò eternamente.


Smettila, ma non guarire!
Piovuto da un cielo sconosciuto, arrivato per caso a
Campo dei Fiori toccasti l’essenza sublime,
guardasti uscito da casa senza soldi – così non
comprai le castagne autunnali – volli ritornare ed eri
sparito: sogno del sogno mai tradito:

così mio venditore, mio accidente legale scelsi la via del


già noto: fermai un traffico ignoto
ai terrestri, cercai chi non troverò mai – all’erta, in
guardia capitano sono qui ignaro come un pesce
in attesa di essere, ahimè!, pescato...
O giovane arturo dai sogni ribaldi o rimbaldini,
convitato di pietra lavica, duro specchietto disadorno per
le allodole celestiali, gli insonni deliri calpestando
vai alla ventura dei giorni in musichetta funebre:
spazia il tempo degli affari meschini, bacia la voluttà
nei campi terrestri dove una madre ancora s’affanna
a spiegare il tremolio del passato,
rincuorandosi di non aver tutto sbagliato o mentito
all’irato.
1987

Un invito in pizzeria. Coi guanti bianchi mi serviresti se


fossi di là, lontano dal tavolo ammiccando
ai clienti volenterosi nel seguire il tuo farnetico
ambulante cielo dove ti reclini pensando al sogno di
una vita mai vissuta. Dunque perdona la vecchiaia
del cammino percorso, l’estrema giovinezza della
luce nei tuoi occhi di smalto, io sono io – le notti
fugaci passate insieme ricordo di un grande Iddio.
O città nequitosa, invalida regni nell’interno rumore del
traffico insolente (perdente, ossidato
in cellule capricciose, non risorgenti) chi si spaura
davanti governa senza tregua nel dietro infernale,
apparendo nei fiumi – il fiume lento laggiù dove la
mia città sprofonda cantando l’abisso dei morti – un
tempo pescatori bambini cercavano invano pesci
volanti.
TOSSICO

Scappi in terra di nessuno.


Guarda l’estate: al suo colmo è grigia e già spenta ormai
fredda come le tue truccate vene niente la riscuote, è già
finita.

Come il nostro seme liberato che ridicoli sensi ha


scatenato l’amore dei corpi e non l’anima paga di
sussurri e sospiri.

Chiudi dunque al primo venuto la porta del tuo agile


cuore mendico, prega la vita di lassù premio ai
poveri demoni celesti.
1989

a R. Peyrefitte

Le marchette costano troppo a Capri.

Tutto costa – anche Capri a se stessa costa – nel


purgatorio ferito di oggi – per mantenere intatta una
fama mondiale. Ma non è preferibile Procida la
proletaria, la povera senza Axel Munthe o i grandi
zii di un tempo innamorato di un luogo remoto
dove le barche alitate dal vento elevate, sospese dalla
luna fresca mangiavano i denari del crudele
demonio della sera inumata dai volenterosi maschi?

Troppo costa Capri alla vita.

Così ora se mangio frutta e verdura in Capri la bella


cartolina di sensazioni austere altere, abitate da
poveri cristi morti in guerre straniere
scopro il giovanetto felice che ride di sé e canta
fortunate canzoni di mare
al Sole unico amico
di risvegli malati
di poeti stremati
da gabbie intestine, salate.
Ieri un famoso libro mi tenne compagnia; oggi, due
luglio, una strana pioggia estiva lava le sporche case
di via de’ Pettinari, ed io aspetto dopo aver pulito il
cesso nell’afa romana, sudando, pregando
nella casa dove ormai vivo da vent’anni e qualcuno,
uccello di malaugurio,
ha profetato che ne uscirò morto –
meglio lasciarla molto prima, sì, in fretta: I gatti non ci
sono più, l’odore è rimasto; nel cielo nuvole strane
annunciano il temporale oltre la pioggia – è stata finora
fitta e silenziosa

Chi ama pensa al destino immenso alla privazione di


tutte le libertà.
Forse non verrai, l’acqua ti fermò
dentro un bar dove drogate fanciulle ti porteranno in
salvo, ad una riva remota.

Io, sempre io – finto io – calmo leggo le righe del nostro


aspro esilio.

Ma se anche tu più bello venissi a me uguale ti vorrei a


come eri
se più bello venissi e più leggiadro uguale ti vorrei a
come eri, modesto negli occhi e con le piaghe sulla
bocca minuta da baciare.
O bocca strepitosa non invecchiare
l’anima di chi ti bacia!

Ma se vieni ancora né bello né brutto Non vieni, non


vieni, nella casa del peccato, come se tu non fossi
più, come dimenticato.

Più che morto non sei, più di morire non si può, ma


ancora non sei morto, no?, e allora perché non vieni,
né bello né brutto come sei, come venivi una volta
abbracciato alla carne t’accetterei ugualmente
anche tossico spento con gli occhi ciechi, dove sei,
perché non vieni?
Dove ti sei fermato? Perché non vieni, non vieni come?
Pallido sei? Brutto o bello vieni, vieni, basta che io
non credo che tu non sei. Più.
Lascio indietro le stanze e le strade il povero corpo
lascio; solo il numero di telefono che suona assente
ora mi resta – spero di saperne di più, domani molto
di più, per certo sarà il cuore a saperlo. Oggi il
silenzio è d’oro dopo il silenzio viene l’alloro.

A Rocca Imperiale, Rocco esplose nell’ira dei giusti –


salute ai suonatori, ai viaggianti veggenti – ai cari
sodali di un’ora. Non verrà mai la fine dei giorni
insieme:
con la mano non so placare
il dubbio adultero del peccato.
Scaricato alla stazione di Martina Franca fra trulli
autunnali e polverosi fichi d’India riversi sul suolo
arso di mia Puglia materna – abbandonato alle
fredde rotaie di un treno per Bari livido di una
rabbia mattutina
ho pregato il Dio feroce degli esuli

L’esilio comincia dove finisce la terra sacra degli amanti


perpetui oltre la morte dove il cuore impazzito sale
le scale della sorte Dio della velocità ferma
dell’attimo fuggente rapiscimi in una notte senza
fondo
dove l’addio consumato fra pallide lenzuola nasconda
l’ulteriore figlio sconsacrato.
O stella della sera proteggimi; mentre spudorato giro lo
sguardo al cielo stellato che non trova risposta al
dolore umano.

O stella schiva aspettami lì salpando insieme verso


mondi trasparenti saltando i mille anni luce che ci
dividono e potevano essere uguali e finiti,

o stella notturna è morta Rita nella città di pietra.


Seguì a ruota Domenica Bucini decrepita contadina
inurbata che mi alleviò anni di malattia, il mio
vissuto così poco
funzionale alla poesia.
Tutte e due non sposate
zitelle e amiche come me:
una 46 anni, l’altra 91

Vicine di casa, mi avete seguito in un coro di angele,


sonanti e calme, ora mi aspettate, siete lì in quella
stella della sera così serena, così in attesa.
L’Eros è incerto e d’intesa dubbiosa – preferisco la rosa
col suo vano profumo anche se la sua essenza misteriosa
supplica il cuore cresciuto
a ricordare il maggio odoroso di un tempo che fu.

O rosa, rosita, rosetta aperta, schiusa, sbocciata come un


sesso castigato ti lascio nel giardino dei frutti
proibiti non ti colgo più
ad una vita famosa.
CONGEDI
GATTI

Siete miei prigionieri prigionieri dell’amore dunque


anche il tetto vi è proibito per ragioni di forza
maggiore e la vostra vita passa e ripassa in due sole
stanzette umide dove vi rinchiudo quando esco per
serate di gala sinistra Io sono vostro prigioniero
prigioniero di tutto
anche dell’aria che respiro o dell’abiezione raggiunta in
liberi orgasmi di sventura.
Non voglio giocare più.
Non sono Leopardi ormai, e neppure Kavafis. Chi sono
dunque? La domanda è pertinente più di ogni
risposta evasiva o paradossale («un poeta» =
«un buffone») alla quale si può obiettare certo
che il nulla e il tutto sono la stessissima cosa – gatti
amorosi permettendo, e, al contrario dei gatti, in
natura i poeti
non esistono.
AD UN GATTO

Piccolo schiavo del Siam – adorabile siamese in gabbietta


arrivato trovando in un albergo provvisorio e
incostante
un poeta vespertino e illustre tenebroso – (creatura
senza senso per i vivi) non ti accolsi bene,
nascondendoti all’infedele perpetua
amministratrice di troppi gatti intorno silvestri e
domestici invano, annusando la razza diversa e
razzista.

Non aprii le porte del tuo castello né m’avventurai con te


alla ricerca dell’assoluta continenza pasquale – ti
lasciai perdere come un ragazzetto moccioso:
tu aspetti ancora di vivere in non so quale universo,
ultima vera incarnazione,
la colpa mi divora e mi affanna: io, io solo ho pianto
la tua perduta caritatevole forma.
AD UN CANE

Senza correzioni o stesure seconde: così allo sbaraglio


nel regno del Patetico carta dei poeti malinconici
prima, prima della Disgregazione, ti scrivo
cara Lupetta dopo una notte insonne per averti persa e
non più ritrovarti, smarrirti dietro i muri di una
strada in salita della decrepita Roma
capitale del mondo dei vivi,
dove, quasi arrivati al Gianicolo
vivemmo le più belle passeggiate!

Ero da te stregato, ora lo so, cane, cane allegro nelle


furie naturali
e nei baci ardenti, nel pelo fulvo d’Amore – ora lo so ti ho
perso, ripensando le notti strette in cui spuntavi
carina carina dal tuo misero giaciglio nel Freddo
dell’inanimato corridoio: tutta la casa diventato per
me. Innocente
più di ogni innocente, palpebra di pianto, hai dato una
lezione di umiltà – il silenzio altissimo di chi
non ha voce o lacrima per protestare ma accetta il duro
destino con gli occhi della mente, guardando
spaurita il mondo.

Persa o rubata, piccola, fa lo stesso: augurarti che ti


abbia trovato qualcuno preso subito d’amore folle
per te è poco!
Vorrei per un’altra volta rivederti mentre ti porto il piatto
di salute e ti lego a me in un ballo gattesco in cui
parlando mi accorgo
che la mia vera voce, o luce nelle tenebre!, è quasi
spenta e uccisa se ha saputo rimproverarti, odiosa:
tu che eri
la purezza della natura vittoriosa.
CONGEDO

Così, nell’estremo pericolo t’aspetto, mia infranta fine


desolata – incompiuta, piena
di una rinascita futura oltre il soma Io, aperto
all’inguaribile vuoto.

Non vale raccogliere dati sulla fame dei corpi o dei


luoghi dove t’inseguo o vita lieta ancora nel ricordo
stremato del Passato.
Smetto il breve piagnisteo: inferni e paradisi scomparsi
la catastrofe virulenta, e tu, tu Dio umano, divino,
eterno
con cui piangere invano la perdita e l’orrore di tutte le
vane stregate parole pronunciate nei secoli che non
siano preghiera:
dove s’afferma l’incerto domani o il Male dell’Avversario.

Ecco, chiedo venia e perdono a tutti coloro che sono


contenti di passare: passeremo, passeremo gridano
le anime perse dei dannati.
Non passeranno gli dei oltranzisti!
Non mi so affrontare nell’addio – l’addio al mondo dei
più, ai mari ai soli alle lune melodiche, né prevedere
il principio
né nominare l’Innominabile.
Io sono l’Innominato!

In musica inseguo la mia danza finite le stagioni, le


vocazioni.
Non c’è più niente in me, piangi.
Galoppante invidia –
insidia verso i nervi del cuore giochi e specchi di parole
pacchi e spacchi del ventre materno non significa niente
dunque devi partire
maledire mentre si galoppa
preso in fallo e il niente del tutto ahimè si smarrisce e si
assomma anche la morte, anche l’addio prossimo o
ritardato alla vita Consumando me stesso
spaurito testimone nel temporale eventuale di un’anima
che vola via.

I miei giorni, ad uno ad uno passano – e lo strazio del


futuro aumenta. Davanti c’è un mare cristallino, un
luogo crudele e spaventato,
per il dopo-fine non basta
a dare un senso al Passato
o al Presente. Meglio chiudersi in un assorto silenzio, in
una sacrestia, pregare, piagato, il Dio degli esuli,
degli umili o il Budda-Siddharta che ci attende
promettendo un niente di niente, un finto Nirvana...
C’è attesa sfidante e sfibrata.
C’è bianco ardore negli occhi impuri.
C’è pena di un viaggio perduto dove si è smarrito l’onore.
Forse tutto perderò, ogni misura ogni stato. C’è miracolo
di rivederti sempre più insano e abitudinario, con i
giornali che negano il tempo degli addii, se tu
vorresti cancellarlo dalla memoria dei vivi.

Carcasse umide ormai i corpi, Satana adolescente mi


guarda con un gatto spiaccicato
sulla strada carrozzabile, fuori da un incubo il sogno di
me in salute e bravo ragazzo di un film dell’orrore:
succubo di un incubo procuratomi invano – per
sapere ciò che non si deve sapere, né chiedere al
Budda o al Cristo perché ci destinò alle minacce, ai
soprusi, al grado inferiore dell’Anima.
La vedo tutta lì la sorte mia: unico interesse di giornate
smarrite ormai è dietro di me, e tanta avanti ne
avrei potuto avere, con dedizione e calma al
quotidiano scorrere del tempo.
Ignoro perché Qualcuno abbia deciso il contrario!
Poveri, pochi anni
sono rimasti, gelidi, limitati; li dubito e li annuso
sperando di moltiplicarli e cedo deluso al rimpianto
calunnioso – non so più poetare, lo so, l’idea lucente
del nulla stasera non aggiunge allegra compagnia.
Oh come è finita la speranza! Dio non punirci ancora
se siamo vivi.
Proclama sul fascino
IL FASCINO

L’arcano fascino dell’amore tradito che fa tremare il


sogno e l’incubo e poi si avvera, s’incista in maniera
che un’anima perduta, di sera,
tocca con mano alata il goloso,
sospirato tradimento, incerto e vero: il tradimento del
tradito, aspettiamo!
Qualcuno invece, mortificante osanna dirà: Che fascino
ha il tradimento?
Non è più affascinante e gaglioffo virtuoso e immondo un
amore felice?
Ma chi tremerà come trema il mondo se non sente il
fascino della persona amata, non la rincuora e se
esce di casa, sale in macchina, in autobus, in taxi e
va all’appuntamento, al delirio
del destino innamorato che può morte pretendere o vita
presente, sangue, ma sempre ti esclude, ti annienta
solidale nel silenzio dei sensi.
Cambiamo immagini al fascino
del poeta allora: se l’innamorato
è fedele? La fedeltà non esiste
dirà l’avvocato del Diavolo,
la Sfinge a tre Teste, l’Orrore Brutto, e allora pensate ai
pochi attimi di tempo, ore, minuti, secondi forse che
vi concede la persona amata, che per voi ha fascino:
in un letto a palpitare di lussuria: così circondata da
un’aureola, come fosse una luce di santità la seguite
con gli occhi della memoria, la rimpiangete, la
perdonate, la baciate sulle labbra fredde e intrise di
tradimento. La verità è che tradire ha fascino,
violento e incorruttibile, e i traditori andrebbero
puniti, marchiati a sangue, bruciati vivi, sulla
pubblica piazza!

Una morte lenta legata alla gelosia dell’amante che non


sa darsi pace, e alla fine propone, invece del sangue
purificatore e smentito, un viaggio!

Ecco, ecco, nel viaggio il Fascino aumenta, ritorna


sublime, nel viaggio tutto si sublima, si canta, si
balla, e la persona amata vi guarda, beata mentre si
vola, o in treno, o in nave si fugge verso le Isole
Felici o il Paradiso.
Allora sarete in Paradiso, e chi può dire che lì tutti,
compreso Dio, non abbiamo fascino?
MARILYN

Marilyn, Marilina, come una canzone marinera Marilina


se ne andò all’alba, uscì dalla favola stupida che fu
la sua vita.
Qualcuno si ricorda una foto di lei, povera creatura
ignorante, anzi di te, mia bionda sorellina senza
pace ormai con Carson McCullers, Karen Blixen le
streghe sono tornate! Fuggiamo dall’intelligenza, e
in più c’è Miller Arthur il tuo pigmalione feroce
Arturo come Rimbaud dalle suole volanti, no,
nemmeno a parlarne, un borghese meno capace di
reggere il confronto con la tua follia di sorellina
stupida e innocente che vuole stare con le scrittrici,
gli intellettuali. Che noia!
Sperando che resti sempre Marilina, Marilyn, bionda
sorellina, oca giuliva purtroppo con la nevrosi
giusta. Qualcuno, un cantastorie di favole
apocalittiche
dovrebbe cantare il modo
in cui partisti dal mondo dei vivi!
Delitto o suicidio, ma sempre Venere in agguato a
punirti, e al cui capriccio tutto il tuo sangue ancora
si ravviva dopo la morte alata e non cercata, e
invaghirsi di te è un mistero testamento e leggenda
di spaesati di vigliacchi untori dell’eros la tua calda
voce di sorellina, la tua sostanza è impalpabile
ormai, rende concrete gioie serene della nostra
generazione perduta che ti amò, mitica, o anche
prima come ballerina, certo, una bambola di carne,
non ha letto Freud, per fortuna può far più male che
bene, ma tu volevi difenderti, o forse esistere oltre
l’apparenza
del tuo corpo muliebre e immortale nella sua mortalità
lasciato ai corvi, ai nani, ai masturbatori solitari, nel
ricordo di chi ti vede;
vecchi bavosi e frustrati.
Ci volevano nervi più saldi, e tu non l’hai avuti per
resistere alla sfida del tempo. Per questo ci piaci:
perché fosti
una vittima, una sconfitta
dal tempo e dalla storia infausta dei nostri giorni
peccatori.
Ho amato molto il telefono oggi mi rimanda solo
sgomento.
Il telefono strumento libero e appassionato di conversari
lugubri e obliqui, allegri sin da ragazzo, adolescente
e più invano parlando d’amore che di altro passai la
vita al telefono, ora forse rimpiango tutti quei
telefoni neri segno negli anni Cinquanta di
modernità apparente, irrisolta che sognarono un
corso normale di gioventù alla ricerca.
O risate al telefono! O annunzi di viaggi, o carezze e
bestemmie al telefono. E oggi il telefono muto non
riporta più nessuna parola amica. Finì l’epoca del
vecchio telefono
che rimanderà l’addio finale non potrò leggere il mio
necrologio, virtù di esperti critici per farmi piccolo.
Non leggerò il coccodrillo.
Il querulo al telefono
delle spazzature è sparito.
Se telefonando a Dio risponderò allora felice con Dio
glorificherò il telefono.
ROSSO E NERO PER SERGIO VACCHI

Rosso sangue, nero morte per pari sono, in sangue


violenza, in nero lutto
e giorni lugubri, sangue
che si rapprende su corpi
innocenti e diventa nera
atra morte abbaiante
e ululante per campi distesi cimiteri in penombra;
sconsacrati. Ma anche, ironia, un nastro di macchina
da scrivere, il mio può
essere nero e rosso, si mischiano insieme i due colori,
per dare armonia
al foglio, alla poesia
e lascino dietro
le immagini del dolore
o i trionfi delle arti
figurative, la pittura
amata e odiata!
Rosso un cuore, rossa una formica calpestata
dall’infanzia
colpevole, una mafia
senza rumore che ti uccide senza risponderti di che
colore è; è rossa, è nera, in rosso e in nero travestirsi per
testimoniare l’oltraggio in un tramonto rosseggiante
prima del disfarsi del giorno nella tetra notte senza
luna.
Chi non ha paura di morire scagli la prima pietra: adoro
la lapidazione; così il sangue non sarà più rosso e la
morte non sarà più nera.
Una visita volante al tuo studio non sarebbe stato il
risultato voluto: sapevo di incontrare un artista –
vuoi essere apprezzato solo per la pittura, merce
aliena oggi dove l’arte è combattuta, derisa.
Ecco, guardi, signore, solo la pittura la mia pittura, i miei
quadri, i miei folli disegni per lei che è poeta
smaliziato e certosino, – dice una vocina; non
s’arrenda subito, guardi, domani è un altro giorno.
Ed io guardo, contemplo, rimiro, ascolto la musica
dei colori la invidio, avrei voluto essere io il poeta
della luce, dei glicini, del Sole.

O amico innamorato del colore alla finestra i vicoli del


paese dove risiedo talvolta s’intravedono diversi,
mangiati, poveri illusi, e c’è nel cielo, mentre il sole
sta calando, il rumore sordo e accecante dell’Estate.
Il mio paese si chiama Rocca imperiale, sul mare
Jonio.
Ma fino a quando? Fino a quale Apocalisse segreta?
I vicoli, i vicoli coi gatti antichi arabi, famelici, ossuti,
limitati – le torme dei gatti randagi; le vecchie dalle
stridule voci di una volta, ecco mi guardano,
spingendomi al ricordo.
Aspetto la sera. Immota calma, nell’ora incerta; e laggiù
il mare senza vento della Calabria jonica tanto
diversa dalla tua solare tirrenica.

Gatti e rondini, rondini e gatti dalla tua Calabria più forte


più guardinga, più pericolosa più solenne, meno
orientale, arcaica avventurosa, primitiva, celestiale
e poi lì, nella memoria stampati, i glicini rievocatori.
Sì, il satori meraviglioso dei glicini!
I glicini della mia infanzia!
Il profumo estenuante che divora il satori e lo rende
destino! I glicini di Tropea, di Briatico, di Capo
Vaticano sparsi all’ombra intatta delle madri sotto
l’apparenza integra della morte!
Io solo a guardare i glicini lontano profugo di un mondo
remoto.
Come debbo sparire dinanzi alla bellezza del Creato!

O immagine decapitata quando la vita allenta i freni: lo


sguardo del pittore sa, ferma intera la verità di un
attimo e resiste all’Epifania del Reale: attendiamo la
rivelazione!

Il poeta fallisce.
Stravolta Jonica, stravolto mare!
Tutto cambia certo, ma in peggio – assistere allo scempio
ignoto del paesaggio calabro mi rende furioso,
insensibile e lontano. Ecco la vecchia strada
panoramica regina di Grecia Grande manomessa,
uccisa, sradicata, non c’è più un fico d’India ai bordi
né i pini secolari e le sorelle cicale che rumorose e
fragranti come lucciole illuminate da Dio, fanno
corteo alle nostre notturne passeggiate.
In nome del Traffico Perenne questa strada è stata
manomessa; e nessuno piange, nessuno si dispera.
IL NULLA
Trascolorano tutti i colori
i colori annullano se stessi
si rimane ciechi a guardare
fettuccine mie bambine
rimanete intatte, vereconde
ricordate tanti «restaurants»
tante preghiere di misericordia
prandiale inesistenza, vuoto.
Mie gocciole d’oro, lasagne,
manicaretti, spaghetti,
frizzuli, albertinetti
ormai lontani dal passo
giovanile dell’ubriaco pentito.
I bambini mostri leggeri
consumano fumetti criminali
si preparano alla guerra totale
anch’io acido come un ragno
cui hanno distrutto le reti
della fame permanente
aspetto un allievo moscerino
per metterlo in guardia
dalla Visione.
Nel verde giocavano ragazzi: ora quando scrivo
giocarono devo intendere al lettore
capace di salti di qualità perdonando i vizi altrui:
senza amore io li vidi nel tenero verde giocare parlandosi
il lungo linguaggio dei corpi assassini crescendo,
moltiplicando.
Ore incantate passarono
in tanto sollievo guardando come un vecchio leone
finché mi decisi a partire.
I ragazzi palpitavano ancora.
Io ero tremante e distante.
Mi ritirai a casa, in maniera, in finzione aspettai nel letto
illuminato dalla bianca luna.
Arrivò l’amore e mi calpestò.
Sono ancora a questo dunque: a rievocare dentro una
scucita coperta giapponese, in prosa ritmica e
baciata, lunga di seme la presenza cacciata dello
sguardo di un ragazzo fuggito in Germania.
Chiese aiuto, e fummo sordi e solidali, ubriachi al vento
dello Jonio – ma era minorenne e il padre lo ghermì
vittorioso come la morte!
Traditore, menagramo, sporcificante assedio dei tuoi
sensi inesistenti, come ti detesto!
Contravvenendo al vangelo dei giusti che rinnego per te
rinnegato che offendi la Scrittura, ma non è la mia
anima piena del Tutto che ti odia, bensì qualcosa in
me che chiamo Ragione;
le parti basse affievolite dal sonno
premono per spremere la linfa vitale
che in te non arriva mai al cielo dei Rimorsi.
Il tuo prossimo libro: piange la tua carne bastonata
dall’omicidio commesso
sul tuo rozzo corpo di provinciale malspeso.
Tu hai sporcato poesia, sporcherai anche morte!
Laggiù, oltre il telefono,
riposi in un letto matrimoniale
aspetti la sposa vera, la spirale
tratterà i dovuti suicidi.
Aspirare l’inverno o il vento
battendo sugli infissi d’alluminio
non c’è speranza oltre i secoli bui
del martirio. Attendo
il tuo corpo, l’anima è volata via.
Ti aspetto col buio, nel buio.
E se la tregua convince le bellezze davanti a me – nel
letto sfatto saranno – o come presente il cuore
vandalo verso la fine trova la tregua al nascere e al
morire – sintassi estrema prima di morire, morire.
Unica parola vietata, sincope, deragliata, la fine, di
tutto...
Sei Dio forse
solo perché t’ho amato
e ora inguaribile
ritorno a te
bestemmia, insulto
emblema casto del Passato.
Scilla e Cariddi
Santa Maria degli Angeli
un giovane poeta
si estasiava
davanti al Tabernacolo.
Fuggiva il peccato
in compagnia di sodali
confessava i suoi mali
a un prete lancinato.
Penso alla vita trasparente e severa di mattina alzando le
ossa nel cuore
crepato dall’ansia; e potrei morire disgregato,
addormentarmi precipitare nel vuoto della Peste,
continuando a macerare i giorni passivo ospite di un
corpo.
Finora ho vissuto, bene o male, non importa, né mi
rassegna l’eventualità livida
di non chiudere la porta al vento del domani.

Ma forse la vita attenta ad una incolume saggezza,


invece che crescere verso uno sterminato abisso in
cui sempre più sprofonda – lucente solitudine
che non si placa. Sarò vecchio e insano fino alla soglia
del Mai.
Non si muore subito.
Si muore poco a poco
in ogni giornata,
impercettibilmente
in attesa di Lei
ci si copre la testa
per entrare nella Chiesa
in espiazione di peccati
mai commessi o tentati.
Al dunque
togliersi gli occhiali –
gli occhiali ciechi non guardano
ritentando il massacro, una poltrona
vuota, l’affitto da pagare

non perdono ribellioni


ad amici e colleghi.
Addio cuori, addio amori
foste i benvenuti, gli adorati
ascoltati meno
per non intrecciare
meschine figure, o suicidi.
Così si scriveva una volta:
carcasse di ingenuità
per volare alto, sacrificare
al nemico, infinito.
Oggi tutto ha perso senso
senza tregua minaccia
anche voi amori, anche voi cuori.
La sedia di paglia si è rotta, ne conservo solo lo
schienale.
Fu regalo di un amico defunto ormai sparito, suicida,
arrivato nel buio calmo degli Inferi.
A presto mi dice nel sogno a presto dentro la stufa
aspettando l’Inverno dove butterai lo schienale e
della vecchia sedia non resterà traccia, come noi
mortali.
Diventerà fuoco, poi brace piena di tizzoni ardenti
sfrigolando nel pianto sommesso della cenere.
Tu, tu,
sempre tu
calzando mattutine babbucce ti riscalderai al fiato
solenne di una statua
bottiglia di Centerbe.
Il didietro – pardon il retto
non funziona più, una fistola
o ragade l’ha infettato.
Allergie successive hanno
reso odioso il Karma dei poveri.
Le possessioni diaboliche
lasciano spazio alla musica
di Mozart, il resto è prosa.
I poeti animali parlanti
sciagurano in bellezza versi
profumati – nessuno li legge,
nessuno li ascolta. Gridano
nel deserto la loro legge di gravità.
Vorremmo ancora cantare lasciarci andare alla musica
romanticheggiare il Passato il museo d’ombre
che lasciammo in vita nella memoria.

Invece i gatti sono morti, la città è sbiadita in un incubo –


le belle speranze di giovinezza deluse, come si
rispetta in un copione pronto per l’uso il poeta della
Domenica.
Il freddo e il caldo:
dove sono le differenze?
o del mare di Sicilia
dov’è il suo contrario
o il mio soma già vecchio
oltre le età ancora
da attraversare?

Dove tutto insonne


va verso la sua fine
se la fine è immota
non vuole movimento
né lo pretende.
Hai il sonno dei nomadi
riverso nel letto
pure hai parlato
in un sogno pesante
come un fanciullo
dormendo.
Ora, tra i morti, mio libero fratello tra i morti di un
lontano cimitero sarai di sudore vuoto e di sangue
freddo solo del calore della terra; se batterà d’estate
ancora il sole calmo nel cielo senza nuvole
e il pianto dell’amante resterà
secco fissato sulla guancia asciutta indistinto amore ti
porterà fra i venti alla distruzione. E il nulla ti sarà
compagno fedelissimo e insaziato.
Saresti morto di AIDS
poeta assassinato
se fossi ancora restato
fra i vivi incerti

chi ti piange è perduto


al ricordo e al passato.
Dentro un’agenzia di viaggi
si abbandona il mondo
più forte nel profondo
batte il nostro cuore.

La salvezza
all’istante
lo sguardo esitante
di un bambino festante
al suo cane adorato.
Fugace è la giovinezza
un soffio la maturità;
poi avanza tremando
vecchiaia e dura, dura
un’eternità.
Oggi, dopo una notte d’insonnia
coltivata da mille barbiturici
pillole colorate che danno ansia
ripresi a scrivere poesia
contro la poesia, con pudore
fastidio, inesorabile destino,
con la certezza idiota dei deboli.
Le cene scroccate ai ricchi erano elemosine bandite dalla
mensa della fretta.
O rimbaldino consiglio di una gioventù perduta, smarrita,
incredula di trovarsi al pianto del domani. Così i
ricchi ancora ti guardano (guardano il poeta)
mangiare con simpatia o commiserazione;
contenti, qualcuno che tu mangi
al loro posto per diete sadiche fasulle tralasciando ogni
dieta umana tipo Auschwitz: altrimenti, poverini,
ingrassano nell’anima, e gli altri non potendo fare a
meno di pensare come i poveri siano volgari,
materialisti.
CONGEDO

I critici ostili li ho amati invano.


Ora il Buddismo me li tiene lontani.
Dio mi assolva i peccati letterari.
Quelli sessuali non sono né tali
né osceni reati da prigione, lager
o manicomio. Se sono un expoeta è
solo colpa mia. I critici li perdono.
APPUNTI PER UN ROMANZO IN VERSI
Accendendo la stufa a ghisa per contemplarla assiderato
dal tepore aspettando l’amico di un tempo per
urlare vane parole e verità una vita del tutto
sprecata in una sciroccosa mattina d’inverno è quasi
Natale, forse in città iniziando un nuovo libro
o leggendo il giornale
citazioni dopo citazioni
ho pescato nel torbido
la morte che mi diedi
nel fitto della gola
non esce più un urlo:

questo potrebbe essere l’inizio di un romanzo in versi:


rifarmi Poeta Assoluto
per raccontare le peripezie idiote di una nevrosi arrivata
alla meta, o scongiuro a metà senza approdi
metafisici
o calamità teologiche:
il mondo sta sparendo
non vale sentirsi male
con la febbre o altro.

La giornata, anzi le giornate passano rubando il tempo


alla noia: si mangia, t’ingozzi di cibo niente carne
per carità
molta verdura e pane e pasta sono rimasto contadino
nell’animo; andare in campagna, come dicono,
sarebbe un sogno ora che l’immaginazione è spenta,
l’urlo dentro è immoto forse camperemo tanto, non
lo so – me lo auguro, dinnanzi alla fine sono
inquieto: nessuna verità è certa: l’Ambiguo sente il
bisogno di morire prima di morire
ma ha una paura fottuta.

Dirlo in poesia come mettere la vita in versi.


Così abito a Roma
città capitale della Eroina nella casa della mia gioventù
prigioniera di altri miti
ormai decaduti:
la Poesia.
Tre gatti:
ne ho poetato abbastanza
per ignorarli adesso
nel canto dell’insonnia e del furto non ho mai plagiato
nessuno eppure i malcresciuti mi andavano a sangue
ora che le donne avanzano come streghe a
ricordarmi
la mia natura virile.
Epigramma o no, viaggio o no prendo spesso i treni o
vado in auto, con qualche vittima rimediata alla
Stazione
dai capelli rossi o biondi non fa niente, però la vita è lo
stesso a sedici anni
mi piace spiarla
riaverla, io vecchio ormai decrepito incapace d’amore.
Ho perso un foglio, o forse lo ritroverò dove un ragazzo
non più ragazzo, ormai superata l’età dell’errore
scrisse una sera, ieri sera forse, o l’altro ieri, non
ricordo, una poesia, o meglio delle frasi che mi
riguardavano: ora ne sono rimaste su un altro foglio
alcune che riporto qui ad edificazione dei miei
denigratori: «Non saremo mai così affettuosi con noi
stessi, la miseria ci colpisce da luoghi inconsueti e
vicini per poter dire sei... Per quanto ti sforzi di
apparire, separati dall’odio per amore di...». Per
amore di che?
E perché pormi tante domande? Chi sono io, mentre
scrivo la terza pagina di questo poema o romanzo in
versi? Vogliamo fare il punto? Allora cominciamo: ho
una casa a Roma, ed una a Rocca Imperiale
sfrenatamente libertina: sogno ad occhi aperti
accoppiamenti poco giudiziosi, mentre scrivo e
penso con orrore
alla giornalista che deve intervistarmi.
Vorrei urlare ma non posso, sono solo e fuori domina solo
Madama Eroina! Sulla stufa ho messo bucce intere
d’arance e una carota che ogni tanto mordicchio.

Salito in casa in fretta con un’idea di sopravvivenza


sperai di restare solo di non dare da mangiare ai
gatti, precipitandomi a testimoniare la vita che non
diedi a nessuno tranne a me, o ai miei gatti selvaggi:
oggi ho capito di essere maledetto, di non
coordinare più i pensieri verso mete proibite o
amiche, ma solo desiderare di morire non morendo,
anzi rinascendo, risuscitando, gridando grazie a
Jahveh, a Budda, a Cristo, a tutti i santi... Così uscii
di casa per andare ad una cena, invitato da una
scrittrice maliarda, non miliardaria, pazienza che
aveva una figlia sciupata e nana, almeno così scrisse
il Poeta nell’anno di grazia
1993, agli sgoccioli ormai, affrettandosi
verso la guerra atomica, e noi riscaldandoci con stufe
fumose e gelide... Ahimè!
Siamo così perfetti e limitati a contemplare il sole di
dicembre, a sperare in scongiuri di morte ai nostri
poveri nemici,
ma non c’importa (se)
(se) (se) il tè (se)
farà miracoli, andrei in puzza urlando meraviglie del
mondo quando il Poeta vorrà avere ragione e
mentirà.
Non siamo più capaci
di mentire, ci arrendiamo
ad un’eterna suggestione di canto spirando l’estremo
palpito nel sole di dicembre inoltrato.

Italia mia, ora che indarno vedo l’ingiustizia sento di non


poter opporre niente alla fatalità, né di poter
cantare con salute e felicità la patria morta, o con
ridicolo accento urlare Italia, Italia
perché la vecchia Italia non c’è più.
Resta grigia, plumbea, di massa, nemica ai poeti una
colonia americana. Vorrei mangiare – proposito
allegro ai sinceri – una pasta al sugo e delle polpette
o in un poema popolare vero e non finto, da poeta
contadino e non borghese, io
che sono nato in città,
la giovane campagna piena di compagnia: contadini
giovani e rossi di salute: io solo pieno di verità di un
giorno o di un’ora, ma quando dovrò aspettare i
solchi acerbi
dove spuntano le nuove messi o il fatale gracidare di una
rana nel fosso, o un ruscelletto prima di superare
l’Inverno o il povero Natale che non amo più.
Entro finalmente nella mia realtà o eternità ma subito
viene interrotta perché il campanello suona e sale
un fantasma di Cefalù: scavo nell’esistere inquieto
ogni sensazione fino al delirio; ora però avrei voluto
continuare a contemplare dopo l’estasi del
quotidiano: pulire la cacca ai gatti, lavare i piatti,
scopare, la polvere, i sogni d’oro mentre il poeta –
domestico avanza negli anni la ventura della vita
insulsa e limitata.
C’è un poeta che strimpella e canta pieno di energia,
lontano invece a vicolo del Moro una tarantella
giuliva mi ricorda l’infanzia. E il Natale viene senza
più sacralità. Viene come viene un ragazzo d’oggi ai
primi amori, con fiacca, senza durezza o violenza,
ma infine canta e geme se viene, e venendo sviene
con me, poi mi rifugio nella stufa, vorrei entrarci,
diventare calore ardere ben bene fino alla
consunzione.

Quattro stagioni, il mio progetto.


Registrare poetando, ora siamo a Natale, l’Inverno è
pieno: oggi a Roma c’è un bel solicello caldo
andando con la schiena gobba fino a Villa Pamphili,
snervato, raccogliendo rami umidi e fumosi per
terra, in mezzo alla terra fredda di fine dicembre.
Con me, preso nella buca delle lettere, un foglietto
vagante dove si prescrive e presenta poesia. Mi
ricordo come in incubo di aver scelto il mestiere di
poeta invece del mestiere di vivere. Sbaglio
colossale come chi scrive
nel risvolto che la poesia consiste nel pensare nella
lingua...
Quale lingua mi chiedo? Lingua d’oro, lingua d’argento:
avessi fatto la puttana sarei ora accontentato in
questa Italietta di merda e cenere!
Smetto così di scrivere per immagini: fantasia e
memoria! Sono stanco, aiutatemi, ancora una
giornata davanti a me. Mentre Myosotis pensa alle
acciughe, lì, dentro il frigo, Belinda fa la vezzosa, e
Belindo miagola i suoi amori io aspetto, trono di
sangue, ancora e ancora lo sperma gelido delle mie
masturbazioni, e chi s’è visto, s’è visto.
Prima di pulire casa, ma forse oggi, a tre giorni dalla
Fine dell’Anno, arriva Teresa, una ragazza intravista
in un night: figlia del sud aspetta un destino di
puttana, ma per ora non lo sa, né eccita la memoria
delle femministe: così farà le sue pulizie, pulirà col
suo sangue le nequizie e i dispetti dei gattacci: loro
sì i veri padroni della casa che abitano a tempo
pieno mentre io vagolo con le mie angosce mattutine
e serali, svuotato, reso nullo dalla Scrittura. Ieri
rileggendo un racconto non finito ho pensato di
riscriverlo, o meglio, di ricominciare l’inizio
ripetendo l’inizio per arrivare alla fine dell’inizio,
per capire la molla, lo scatto, il vero significato della
vita...
Presunzione, forse, ma aggirarsi con la Signora Morte
davanti ogni mattina è terribile, rendendole
omaggio, calmandola nei suoi indiscreti strepiti...
Ma oggi la giornata prevede Teresa, dopo la
partenza del fantasma, e caso mai le solite pipì
gattesche, animali che rendono la mia giornata più
libera da me stesso, e dunque più prigioniera.
Stamane sulla macchina da scrivere c’era un loro ricordo
accusatore, ed è vano picchiarli, come è vano
andare alla RAI , per parlare di G. Benn che distrugge
tutto nella sua metafisica del nulla, oltre lo strazio
delle parole.

Suona un clarino, il terzo della RAI dove collaboravo per


tenermi in vita: è l’ultimo giorno dell’anno, dovrei
ricapitolare la mia povera vita di scapolo poeta,
invece di piangere su chi è assente, chi si dimentica
passando gli anni furiosi, da Penna a mia nonna, gli
affetti mozartiani insomma come i gatti che mi
guardano tristi mentre l’anno se ne va, e con lui se
ne vanno tutte le speranze di vittoria.
Leggi, dunque, Lettore, la caparbia sentenza di un poeta
poco saggio come l’invito a vivere la vita, orrore,
senza pessimismo, come fosse l’ultimo amore,
l’estrema vicenda dentro il Sole, il Sole tenero di
prima estate, ora che è freddo fuori, e tutto cambia
il domani tranne la musica delle semplici cose o la
fortuna di chi sa vivere la quotidianità. Detto per
niente sul respiro musicale di un gatto randagio che
si sperde nella voce anelante di desiderio
di chi non desidera più niente, neppure passare il guado
col traghetto caronteo del 1993. Ci è stato tolto il
futuro, a meno che non lo si viva in questa ansia di
distruzione, prima dell’avvento di ogni anormale
atomica
menzognera, senza affetti o pietà.

La Polvere è Storia: Alfredino, chi si ricorda più, o


l’attentato a Papa Wojtyla, la morte del giovane fascista
Alibrandi, nero sì, ma anche giovane e bello amato
in nome del mio inguaribile estetismo, o le sorelline
rapite Silvia e Micol, mi vengono in mente
o per continuare la guerra del golfo le bombe di Chirac
il sole di Mururoa;
ecco l’anno se n’è andato, gli auguri sono stati fatti,
nessuno pensa a morire anche se io a Berenice dico
che importa per me e per il mondo è che nel nuovo
anno non si muoia.
Mi avvio verso Villa Pamphili: mi ripeto mentre la testa
duole come in ogni mattina che ho fatto male a non
portarmi dietro un bloc-notes per segnare qualche
verso vagante, nomi fascinosi: Domenico, Manuele e
ancora tanti arrivati al mio talamo di morte. Ma lo
farò, lo farò.
Penso che laggiù fuori
del divino sole la mia casa giace, con i suoi gatti e il
telefono che squilla a vuoto. La celebrità mi
proibisce ormai di tenere il numero sull’elenco, non
sono più elencato. Un amico mi porta un torrone in
regalo, e io senza la stufa Sacra che si è rotta soffro
un po’
di freddo, mentre preparo nel sole di Villa Pamphili
radiosa nell’inverno romano una cena fatta di
lenticchie e peperoncino comprata a Campo dei
Fiori.

La Santità: ecco il mio approdo o la partenza definitiva.


Nient’altro voglio o aspiro. Potrei,
ne ho i mezzi o talenti scrivere una nuova Commedia, in
endecasillabi sciolti invece che terzine, ma a che
servirebbe? Non certo a salvare l’anima.
Non c’è richiesta sul mercato.
Così aspetto di capire chi sono, o meglio, chi sono stato o
diventato, nel ricordo nostalgico di un paese
contadino dove vissi
ragazzo imberbe e ora malato malato della malattia della
morte.
Di nuovo ecco la ripetizione: non so a chi potrà
interessare, detto in prosa, dopo aver fornicato con
pentole e fornelli. Sono diventato un perfetto
casalingo, chiuso in casa, sognando Dio o il
misticismo. Scorro le novità librarie: Teresa d’Avila,
San Giovanni della Croce: ma la mia croce qual è?
I gatti ridono sornioni, dentro una cassetta, la loro
casetta:
i giochi di parole mi stuccano, le rime mi inquietano
come muse spente e annegate: la vita passa davanti
alla stufa di ghisa, eroina delle mie giornate.
Non so abbandonarmi al flusso del tempo: la poesia è
tutta digerita. Fuori febbraio annuncia primavera;
partirò per la Sicilia, la Poesia resterà unica padrona di
Roma.
Telefonando avrò notizie,
scongiurerò eventi, crescite e rinascite, sempre di meno
in questo mondo infetto.
APPENDICE
LA VITA IDIOTA

Se non avesti mai l’amore che volevi, non era colpa mia
se non l’avesti mai ma era la colpa di nessuno che
diveniva di tutti colpa e compassione per chi finì
sotterra. Se non avesti mai che pianti nei tuoi occhi
baciati di nascosto nel sonno ansioso d’un risveglio
senza domani, figlio della promessa non mantenuta
che invano scalpitavi
per un riconoscimento che non venne, non infierire ora
contro di me la tua rabbia senza sepoltura che viene
lenta a marcire l’anima che solo allieta il tuo ricordo
– di quando eri. Se le rivoluzioni ora pretendono la
mia scoraggiata presenza, questi anni della
rivoluzione violenta che tutto vuol distruggere per
niente ricostruire, la mia smaniosa voglia di
autodistruzione non devo cercar di confondere con
quella di questi figli dell’ira. Chi non pecca scagli la
prima pietra e chi non è tentato non sarà salvato ma
tu tentato e tentatore, lo so, non ti ritroverò perché
sei rinato.

1968

Ma se anche tu più bello venissi a me ti vorrei uguale a


come eri
se più bello venissi e più leggiadro uguale ti vorrei a
come eri, modesto negli occhi e con le piaghe sulla
bocca minuta da baciare.
Ma se non vieni né bello né brutto
perché non vieni né bello né brutto? allora perché non
vieni, non vieni? come se tu non fossi più, come se
tu non esistessi più,
se non fossi più. Più che morto non sei, più di morire non
si può, ma ancora
non sei morto, no?, e allora perché
non vieni né bello né brutto come sei, t’accetterei
ugualmente anche spento con gli occhi ciechi, dove
sei, perché non vieni?
sei veramente morto? Perché non vieni, non vieni come?
pallido sei? brutto o bello vieni, vieni, basta che io
non creda che tu non sei. Più.

A UN POETA

Ora lo so: quel figlio a te non nato, paradosso, scherzo


della natura, ero io; e tu dunque mi fosti più che
fratello, iddio, ladro di cuori, maestro, mi fosti
padre.

La gente non capirà, dirà la solita mania di esibire il


proprio spampanato self di giovinetto in progress;
non mi addolora tutto ciò, mi esalta, se non fosse
l’atroce sgomento di sapere che neppure tu capirai.
Ti spiego. Era il tempo del modello su cui costruirsi
dell’Imitazione; nella irrealtà in cui vivevo unica,
maledetta realtà eri tu, la spina della carne la giocai
a carte, puntai sulla tua dolce violenza tutto ciò che
avevo; ed eccomi qui perso ad ogni altro destino che
non sia il tuo.
Ma come per ogni altro padre è giusto che il figlio anche
il più amoroso e fedele si ribelli – in una lunga
rivolta che pecca contro la speranza di essere padre
– anzi lo faccia a brani se vuole crescere, essere
padre di se stesso, una volta per sempre, così a me
si richiedeva la dolorosa prova: fare scempio del mio
amore per te, appena figlio già degenere figlio,
prodigo figlio che non tornerà mai alla casa del
padre.
Ma tu non mi hai voluto. Non ti sei prestato alla
manovra.
Come antivedendo tutto, nella tua disperata saggezza.
E dunque ora non ti posso rinnegare.
Rimani a confondere i miei piani.
Eppure mi ti accostai pallido e vergognoso come un
infante a cui non resta da fare che prenderlo per
mano, ma tu, la tua superbia mista ad amarezza,
assai mesta di tanti rompiscatole intorno, mi evitasti
sia pur dolcemente come fossi il solito questuante.
Non hai capito, o hai finto prudente e misericordioso e ti
ho per questo odiato tanto da non voler essere
veramente quel tuo figlio non nato.
Mi hai rinnegato due volte, poeta
dolceardente non fatto per la paternità. Ma io resto
inchiodato alla tua immagine struggente in un
transfert diabolico e patetico della mia ansia alla tua
poesia.

1963

Canzoni estenuate che cantavi a sera


prima del mio rincaso piene di nostalgia
per un perduto bene.

*
La pioggia ha fermato la mia uscita ai vetri rigati della
finestra della nostra ultima stanza – dove resto a
controllare che tutto resti intatto come lo volevi tu,
il poetico disordine – a guardare per la via lucida di
pioggia gli ombrelli saltellare fra le pozzanghere;
chiudendo gli occhi ho creduto di risalire il tempo
passato, di spogliarti come una volta prima di
andare a letto, fra le matte risate e il solletico
reciproco, ho smarrito il cervello al pensiero calmo
ormai che non ci sei più e non mi consolo ancora.
Ragazzo mio è bastata un po’ di pioggia – tanto da
non poter uscire e perdermi nel brusio della città
dove tutti i ragazzi mi parlano di te – per farmi
cadere nella più tetra disperazione.

Il mio suicidio vivente amore che non ritorni nell’estate


che ritorna uguale e gaia nell’aria calda dell’estate e
calmo si stende il cielo fino all’orizzonte lontano,
non è ancora consumato il mio suicidio vivente amore
che ti sei privato
di questo grande amore.

La vergogna del sesso sconclusionato che l’eterne piste


percorre con il giusto fratello che s’ubriaca
dell’amore per l’originario incesto non concede
tregua al mio purgatorio; l’angolo della perdizione è
un misfatto che danna ad occhi chiusi, occhi crepati
dalla malinconia di te fanciullo mio che mi tradisci
con gli avvoltoi interi della Rivoluzione;
consumo fiumi d’inchiostro, aspetto
che il neghittoso e perfido mare bollito in pentola mi
purifichi del tuo petto d’uccellino la fuga, l’oblio non
bastano all’incontro con il nulla che mi s’aggrappa
addosso.

Perpetravi silenzi, penetrati di sgomento li smaltivi fuori


alla deriva, lontano dagli occhi, condonavi alle
libidini il tuo massacrato amore, il tuo fracassato
cuore che scontava la rabbia nella sabbia, lungo le
canne, le flessuose canne, le fratte, le caverne, il
fiume nero e lento; scandivi nel sonno il tuo sorriso,
il tuo fragile rimorso di bambino assetato di sangue,
e ora hai il disordine nel cervello, l’anima cresce
vituperosa, affamata di simpatie e mattie; l’analisi,
l’inturpita analisi del tuo io pimpantissimo (fregato,
ferito, raffinato) porta alla conclusione che il
mutamento, schiamazzo dell’anima, ti divora:
e non stagnante il desiderio del tutto sciagura contro le
ortosessue, scalfisce le tenerezze, descrive il non
ritorno; il tentatore ha vinto: sobillazioni sobillano
alla non tregua, allo sconforto del rincoglionito:
scervellate snellezze di exbimbo limitrofo al vero
pragma; lo conforterai al pragma, al gesto o dolce
ardente spento che straluni come celicola al
chiarore dello squallore?

1967

Il tuo fresco possesso era lo spasimo vitale che sigillava il


nostro amore in una gioia senza speranza; nel letto i
corpi adolescenti sapevano i trucchi dell’assenzio
per stordirsi fino all’impassibile grazia; entravi in
me con la foga dei tuoi ingenui anni di ragazzo ai
primi baci; e se sbagliavi la mira ancora inesperto di
inquiete possessioni, rimanevi ai margini, incombevi
separato nell’insuccesso, delizia esile era il tuo
appoggiarti scorato.

Alla fine, incerto inferno, facevo strada materno,


t’insinuavi inarcato restando immoto allo strazio.
Dove non eri amore in quegli attimi?

La tua assenza sgomina l’inganno del tempo trattenuto


corrono le stragi del cuore
che non contano più
verso il loro destino
il dolce segreto del grembo svelato.

Sfuma il punto
del nostro incontro lontano
nel ricordo di poche occasioni
ma tu resisti immoto ad ogni urlo
come in un sordo delirio
mi fai segno di desistere
di smettere la lotta
contro il tempo che non perdona.

Per cercare ragazzi ci trascinammo affannati e senza


parlare fino lì stanchi nel buio senza speranza al
sesso pagato e risuc-chiato da mille bocche voraci;
ma scesi per ispezionare il primo posto, la realtà
prima sporca nei calzoni di merda gialla do-po il
maleodorante armeggiare il glande smisurato che
sortì l’effetto dovuto fra mani ascelle e lezzo
indaffarato a smista-re gli schizzinosi verso altre
mete meno selvagge; con il ragazzo comunista che
insisteva, capitato lì per caso, così di-ceva, a
spiegarci che la tradivamo la rivoluzione, o almeno
la ritardavamo vivendo così pericolosamente arresi
al vizio peren-ne: l’estetico indugiare, mano morta
sui fiorenti selvaggi che ti guatavano senza batter
ciglio al contrario di questo qui, moralista e
ravveduto e chissà perché capitato lì per caso che
alla fine voleva farci una pippa.
Allora avevamo solo dieci lire in tasca.

Luna sparviera che guardi i miei amori di pura sensualità


l’angoscia lungamente aspettata fa festa ormai per
ogni incontro o diletto solitario. Non resta il bacio
senza bocca.

Chi ricorda più la tua atroce bellezza a quindici anni,


quando ti conobbi
lacero e sporco – ladro
dei miei spauriti sensi
e ora strazio dei miei sogni agitati?
Chi dirà più la gentile potenza del tuo sesso quando
umile e lieto
in una sacra libidine entravi in me
strazio alla mia voluttà inerte?
In un settembre mite di sole se
palpiterà l’aria di un vento leggero e le tue calde mani
soavi e tremanti presto nel letto dei nostri amori
insani ritorneranno a stringermi come mi
stringevano fino a delirare di un amore pieno di
dolcezza, se l’angoscia che m’accoglie e ripaga di
ogni arida speranza di ritrovarti – te, ragazzo
delirato in un sogno
finito male –
se la morte invitata a questa vita
ancora inviolata dalla morte
ma senza più le tue calde soavi mani – mani struggenti e
dolce-tremanti
una furtiva, servile delicatezza –
se la morte arriva
mi prenda di nascosto assorto al ricordo di te col
membro che penetrava
umile e lieto.
1967

Se – tutti questi se che fanno ressa nel mio avverso


giorno ad altro intento ormai, vanità e disinganno –
se
piangevi innamorato
ti consolavo col mio strano amore
che lo so non ti bastava se tu
eri nato per amare le ragazzine tenere di madre
dall’odore acre, di donna ai primi mestrui, se d’un
amore spasimavi che spendevi in un pianto
accorante, era la gelosia che mi travagliava quando
disperato uscivi, colombo senza ali, in cerca della
volata colomba.
Non si ricorda più la giovinezza quella gelosia trattenuta,
non si ricorda più di te – la giovinezza è sparita – e
anche te.

Manuele è una primizia che tutti assaggiano: succulenza


idiota come la gelosia per il giovane e barbuto poeta
che si dà le arie per la prima volta al caffè coi let-
terati importanti; l’apparenza unica realtà inganna i
compratori della mobilità che non pensano che il
non movimento, la contemplazione sia l’unica
salvezza per stringere da presso il proprio io in
disarmo; se s’affolla-no parole nella testa lasciarle
depositare come fos-sero mai nate le parole nella
testa ma trovate dentro la giostra luccicosa della
giovinezza assediata dalle prostituzioni.

La notte aspetto nel silenzio calamitoso e le avventure


vorrebbero dilaniare il tuo ricordo in riso osceno,
incubo terreno mentre tu non appartieni più al mio
rossore quando mi parlano di te come se fossi morto
ai giorni futuri, per le strade carnali di questa
sudicia vita; allora angelo diseredato anche dal
vento che scon-quassava la tua capigliatura tutti i
venti del malotico cielo sapessero il mio soffio
armonioso sulla tua immagine distrutta che paziente
ricamo nel ricordo assediato da mille sospetti rivinti
a furia di pensare alla prima volta quaggiù, al primo
abbraccio 1968
da ERGASTOLO

VII

Ora s’accende il ricordo; ed è l’unico sentimento che mi


nasce ancora dentro, lieve, furtivo di te, dei tuoi
giorni scontati nell’ergastolo, nel limbo del silenzio
futuro. Mi hai puntato come un vincente sulla ruota
della fortuna poetica, ma senza pietà vedovo mi hai
lasciato, dopo avermi conquistato, battuto per anni
dietro la furia della follia.
Sono rimasto attaccato a te, sublime maschera
della finzione e della verità, portatrice di favole
spaventose e reali, luminose e parlanti. Nella tua
casa t’aggiri e pensi di continuo al miracolo
che non rinasce della rinascita, e gli amanti morti, le
madri morte non sorridono più; né posso farti
capire, arrivare con urgenza la foga della mia
simpatia o del rimpianto amaro di non più vederti.
Non stringo alleanze con il diavolo, né cerco di
corrompere ragazzine inquiete e strette nelle loro
vestine di bambine viziate che vogliono evadere
come tu un giorno uscisti, in epoca triste e nera, di
fascismo trionfante, dalla casa paterna per laurearti
eccelsa romanziera.
Non sono né notturno né solare; non posso dare alcuna
virtuosa assicurazione di farti ridere, e pure sono un
personaggio comico, un affare cretino
per chi non ama quel di più che è la poesia delle sfere
magiche e incantate, nei rapporti umani, nelle
bieche sguardate di traverso dei nemici del sesso o
dei bestemmiatori del supremo giudice che di là dai
luoghi, dalle stelle piange la nostra avvenuta
riconciliazione e la rivomita sul mondo ombra
dell’antico mondo esploso mettendo in bocca una
pasticca allucinata...
da ANGELO

Non sono né invincibile né Dio; ma mortale assaporo i


sapori più forti della vita e vomito, considerandomi
fallito agli occhi di Dio.
E tu, donna, vienimi incontro.
Portami in salvo. Brucia le resistenze.
Satana mi vuole perduto e peccatore.
Io devo smettere l’orgoglio
di sapermi diverso, irreale
amante dei diversi.

L’unica cosa che non mi spiegasti, o sublime, è la


differenza che ci divide dall’oggi. Io ero diverso,
chiuso, gracile, inesperto, e se t’incontrassi ora,
nessuno sbaglio ripeterei pur di rivederti trionfante
e regina, ma forse tu mi volevi com’ero allora, così ti
piacqui, per niente solare, investigando il tetro mio
io per diletto e desiderio di sentirti superiore. Ma
no, già deliro, fuggo, paranoico, la verità.
Non si tratta di altera e velleitaria superiorità.
La ragione è tua, le nostre strade sono diverse, separate
per sempre. Tutto è andato come doveva andare,
senza condanne a morte reciproche, senza
assoluzioni, ed una parola in più non spiega niente,
tranne la mia fame di te, di tue notizie bellicose per
denigrare o innalzarti. Ma tutto si racchiude nel
mistero di questa diffidenza e divisione, che ti portò
a scoperchiare le tombe dei suoi cari morti, per
vedere il tuo sacro e furibondo terrore.

Oscena è la mia imaginazione. Scarsa di solari risultati.


Vorrei, da solo, scivolare verso l’amore – riempire di
baci i corpi mortali; creare dal nulla la mia eternità.
Elisa, perdona, abbi pietà. Il mio sangue versato per una
ingiusta causa merita l’oblio del mondo, la
perdizione infame?

Non credi all’amicizia, ai suoi valori, altrimenti


prenderesti il telefono in mano, e ti scioglieresti, con
semplicità, come la prima volta, conoscendoci:
«Sono io».
Ma il punto è che non credi all’amicizia, in qualsiasi
forma si manifesti. Credimi, telefonando tutta la
distanza colmeresti che, separandoci, non ti fa
credere all’amicizia. L’amicizia è l’amicizia, e basta
come direbbe un famoso tautologo, ma è molto,
tantissimo: è la riserva dei giorni per colmare il
vuoto e la solitudine dei millenni che ancora ci
restano da vivere, non sapendo come meglio
affrontarli, oltre che fra lacrime e stridor di denti.
Per questo non sei stata mai amica: se è bastato un
malessere o un amore per farla smettere come un
vestito usato, o una incerta, scialba carta da parati.

*
Ho deciso di non più frequentare la tua perfidia immonda
di terrestre consumato dall’invidia delle mie celesti
opere che nel mondo illuminando la verità del
destino, il fato aguzzino dei soavi ragazzini
incatturabili dai mostri osceni e turpi come te,
lasciano l’irrealtà, per sprofondare nella mia
straordinaria coscienza. Dilato il mio giudizio su di
te, corruttore di bambini e straripante lemure che al
ristorante mi afferri e con le tue stregate parolette
di scostumato poeta di periferia, m’infilzi,
bivaccando presso i barbari drogati dell’Assoluto
Relativo.
Non sei niente, ma vorrei assistere al tuo funerale.
Vederti mentre mi vedi
venire al tuo funerale senza poter obiettare a questa
assente presenza che sarei io, a lutto vestita, in
attesa di sparlare di te al ristorante con i miei
cortigiani.

Cristo derelitto, falso Dio – merito l’Inferno


per averti profanato, scritto
così, falso Dio che raggela
i cuori di merda!

Non sono un poeta maledetto:


dovrei tremare, falso Dio
vaticanesco,
sbertulato, vivi
la tua romanzeria con il fariseo più dedicato al Signore:

Madama, madonna!
Sette vizi capitali
sono nella mia gonna!
*

Manchi di carità, lo sanno tutti. Ma non è questo che


voglio imputarti, né denunciare la tua falsità, anche
se so che vai in giro proclamandomi volgare e
invidioso di te. Cerchi di denunciarmi ai posteri,
essendo io ignobile, ordinario: il mio stile impestato
di tutti i veleni del mondo.
Tutte accuse che accetto non tanto perché vengano da
te, illusa trampoliera delle tue pazze passioni
inconcludenti, ma solo rigirandomi nel letto delle
mie insonnie e delle mie idee innate, pesco nei
ricordi i gesti estremi e osceni che riferiti al mondo,
gettati in pasto alla plebe o alla canaglia possano
renderci infelici e pazzi di rabbia.
Ricostruisco la tua vita con me, ne metto in luce lo
sfacelo, lo strazio compiuto dagli anni, prima che
sugli altri su te stessa, e fin qui niente di male, se
non ci fosse poi la certezza che tu, proprio tu, amica
mia nemica, deplori e detesti di essere spiata, e
tronchi l’amicizia appena sai che qualcuno ti spia.
(Quale peccato ho commesso per infangarti così?
Per mancare di simpatia verso di te, come tu manchi
di carità per me? Non ritorni indietro, e leggendo
questa sconclusionata invettiva non ti viene di
correre da me, e baciarmi sulle mie palpebre di
sogno?
La droga mi divora: ed è certo che morirò: forse tu allora
non avrai più pace, o così spero.) Ma sì, gridalo
forte, gridalo al mondo, sono un corruttore, ma non
arriverò mai a raccontare tutte le nostre turpitudini,
o gli amori consumati sulle scale con tanta severa
dolcezza, mentre tu mi confessavi disperata di non
aver mai veramente goduto nel sesso!
Manda ora in forze i tuoi amici
a difenderti, rovina pure la nostra, inesistente,
reputazione: – resta intanto per gli altri nella
memoria il ricordo reale della tua definitiva scelta:
mi hai tradito, e tradendo me, sei diventata devota
di un culto tradito, Rimbaud, perché io sono il nuovo
Rimbaud, anche se hai convinto i critici, al
ristorante, del contrario: sarei invece il Diavolo.
Forse tiri fuori dal cuore la parte peggiore, accusi il
prossimo tuo innocente di troppo amor proprio,
amore di sé, e basta! Come se tutto fosse stato
dettato dall’amore di sé, mentre invece sei ancora
una volta proiettiva: i misfatti del mondo li vedi tutti
fino in fondo, essendo dei peccati una grande
conoscitrice, e dunque prendi atto di avermi mezzo
ammazzato, privandomi del tuo amore.

«Morire è un’arte, come ogni altra cosa, nel creato.


Io la esercito con totale bravura di ruffiana celeste e
impostura
brava di consigliera notturna.
Suprema al punto di sembrare
tortura.
Suprema al punto di sembrare vera.
Forse potreste dire che ne ho la vocazione.»

Non ho memoria. Non ricordo di averne mai avuta


veramente, e, dimenticando tutto o quasi, solo mi
meraviglio di come invece sfrenatamente mi ricordi
ancora di te. Sento forte una voglia pazza di
stringerti a me, di abbracciarti, baciarti, di piangerti
addosso tutte le mie lacrime, di urlare la mia
innocenza. Sappilo: finché vivremo ci sarà qualcuno,
io, che pensandoti ogni giorno ringrazierà Dio di
averti conosciuto e amato, e mi proibirò di rinascere
di una rinascita che non ti prevede con me per
l’eternità!
Ci danneremo, reincarnandoci domani e poi domani.
Come fosse un compito
giornaliero di studente ti spoglierò di ogni finzione, ogni
calamità di recitazione, e la falsità volandosene,
potrò sezionare il comune agire, il soffrire, i tuoi
mancati e perduti amori, i viaggi in Grecia, il tuo
nemico tramonto di donna infelice d’invecchiare,
alla vita legata solo per paura di perdere il vile
corpo, come me d’altronde, intossicato da questa
paura enorme, livida di rabbia per chi resterà in
vita. Vedi, dunque, senza memoria, solitaria amante
del dolore, la mia stella brilla antica nel tuo cielo
d’ansia. Credi di startene sicura nella tua casa
confortevole e liberale; non sai che ti spio, amandoti
di un amore increscioso e sublime, da manuale
sadomasochista, e spiandoti con la mia vista
d’aquila, la mente, il terzo occhio della impura
mente che ci lega al cosmo, non puoi fare niente!
Ogni ribellione è vana. Neppure appellarti ai tuoi amici
del cuore: gli ultimi approdi al tuo cuore deserto di
chincagliera innamorata come me della vecchia
morte totale di chi decide, per amor tuo,
venerazione e santità spregevole ma necessaria in
questo mondo ladro di sensazioni non legate al
corpo, alla materia, di uccidersi, ad un tuo cenno
squisito e imperioso di solare trafficante di poeti. Gli
ultimi amici senza perdono di vivere una vita dopo di
te priva di interesse, avendo smarrito il carnefice
che eri, senza talento, per le loro catastrofiche
esistenze di paria mentali. Ti salva da questa mia
scellerata libertà di rievocarti, di saperti decaduta e
sofferente, sollievo cercando al caldo dell’agosto
cittadino,
che non puoi abbandonare per le vacanze, nella paura di
trovarti sola e smarrita in un mare che non ti
prevede, senza il telefono dove organizzi le tue
giornate di solitaria, portandoti fino ad una bettola,
un’osteria qualsiasi i tuoi innamorati e dove
incontrandoti sento cantare la tua voce strana e
ilare ai giovani ragazzi rivoluzionari, per una totalità
di attimi, di rifugi nelle schiere segrete del nulla
eterno, in cui forse io troppo mi compiacqui,
intrattenendoti, e la nostra povera corpa o soma
sanguinario non volle troppo troncare i legami per
salire ad un’amicizia spirituale. Non sono il tuo
Arjuna. Perdonami tutto, cessa il tuo orgoglio
mostruoso, considerami un burino pazzariello figlio
di nessuno che ha bisogno di te per morire in pace.
Abbandona i partigiani del nulla, scroccatori di una cena,
o poeti falliti come me che sperano in una
presentazione al grande editore.
Ti trascini ovunque per sparlare di te, non te ne accorgi?,
solo di te. Non devi più denigrarti. Lasciati andare;
bella biondina mia, dagli occhi color del mare!
Ma ecco il musone che è in me riesce fuori e grida, senza
ironia: «Io senza memoria ricordo ogni gesto, ogni
attimo del nostro incontro passato; ogni virtù
stampata in faccia che ignoravamo, pensando nella
Trasparenza di aggirarci contenti e immortali, e
senza riconoscenza, e ora petulante mi lamento,
querelo se tu mi manchi all’abbraccio con
l’eternità...».

*
Se tu provi gli stessi sentimenti da me provati per colui
che rovinò la nostra povera amicizia, allora hai
ragione nel difenderti dalla mia febbre di vederti, e
parlarti, anche se soltanto dovresti pensare che non
fu mia intenzione mettere fra me e te quel bandito
sanguinario, forte solo della sua innocenza collegiale
smarrita in marchette.
Quel ragazzo ha sfigurato la nostra amicizia, sia pure, ma
il tuo punto debole, il mistero resta per me sempre
misterioso. Non riesco a decifrare l’Enigma. Tu
isolata resti dal mio destino e niente può
coinvolgerti.
Sei forse Dio?
Dimmelo prima di morire, tu e io, non so dove
rinascendo, e dove è previsto, in questo nulla che è
il mondo, di non incontrarci senza la frattura oscena
dei corpi.
Fa’ che io morendo non sappia nulla della tua morte
prematura, pur essendo vecchia come il mondo, ed
io giovane sia in effetti così vecchio da rasentare lo
sforzo del Dio ignoto a rinnovare le sue cellule
clandestine
in mille stelle nascoste ai miei occhi indagatori.
Ho peccato contro di te. Ho spento la voglia di
abbracciarti nel corpo del mio assassino potenziale,
ma tutto è avvenuto a mia insaputa, per la prima
volta vivendo ho sentito di essere agito, e che tutte
le manovre per riavvicinarti non servivano.
da POESIA TRE

Mi aggiro come un fantasma dentro casa: rileggo i


magnifici scritti del passato o salto il pasto divenuto
incubo e martirio del proprio enunciato: l’uomo è ciò
che mangia.
Così scolo montagne di vino annacquato e la vita in città
splende di orrore di aria tumefatta e ligia al servizio
del cancro più pestifero e sonoro!
Non ci sono speranze di eternarsi nel divenire di un
giorno uguale all’altro: solo i gatti insistono a non
fuggire, a calmare la voglia di seme e sangue!
da COLOSSEO

UN NEMICO DELLA POESIA

Che i poeti meritino il disprezzo universale se ancora si


occupano dei loro malcerti amori e fissazioni
stravaganti, eros di minoranza nel viaggio comune
verso l’indocile bestia che possiede e avanza verso
la rovina. Predichino piuttosto il salto, lo
svelamento, la conclusione nelle braccia della
modernità a tutti i costi.

INSIEME A ELSA E ALDO

Con allegra tristezza vi ho guardato senza più ragionare


bassamente
acratici tiranni senza amor filiale
della vostra anarchia e sete di affetto.

Vi ho studiato forme vive della morte, te generosa artura


e te braccato amico: mutanti figli del non-
mutamento,

mentre il cameriere bellino del ristorante portava i segni


delle nostre acerbe fami, delle vostre carenze di
parole cercate umilmente dentro il piatto, e alla fine
ho pensato all’onda che avanza della morte nostra e
sospirando ho capito che
eravamo al limitare, ormai morti
e senza alcun dispetto.
da UNDICI EROTICHE

Numerato i peli del tuo pube,


uguale a tutti i ragazzi saputi:
giunge il pelo alla radice,
il sesso passeggero
per pisciare.
da DONNA DI PARADISO

HITLER

Manchi di carità, lo sanno tutti. Ma non è questo che


voglio imputarti, né denunciare la tua falsità, anche
se so che andrai in giro dicendo che io sono un tuo
nemico, e cerco di denunciarti ai posteri, essendo
che sono volgare; e che la mia scrittura è volgare;
tutte accuse che accetto non tanto perché vengono
da te, illusa trampoliera delle tue passioni pazze e
inconcludenti, ma solo rigirandomi nel letto delle
mie insonnie pesco nei ricordi l’atto che so ti può
fare impazzire. Io ricostruisco la tua vita; ne metto
in luce lo sfacelo, lo strazio che hai compiuto prima
che sugli altri, su te stessa, e fin qui niente di male,
se non ci fosse poi la certezza che tu proprio non
ami di essere spiata, e tronchi le amicizie appena sai
che qualcuno ti spia. Sì, gridalo forte, gridalo al
mondo, io ti spio e dunque ti denuncio. Manda in
forze i tuoi amici a difenderti, rovina pure la mia
reputazione letteraria: resta intanto per gli altri
nella memoria il ricordo che sei una scrittrice di
successo, da romanzo popolare. E questo tu, non te
lo puoi perdonare, anche se hai comprato con le
cene al ristorante i signori critici che si accaniranno
su di me.
Infanghi l’amicizia, l’amore, fai uscire la parte peggiore
degli altri, accusi il prossimo tuo innocente di troppo
amor proprio, amore di sé. Come se tutto fosse
dettato dall’amore di sé, mentre invece sei al solito
proiettiva, i misfatti nel mondo li vedi tutti fino
all’ultimo perché sei piena di peccati, o come diceva
in una recensione famosa
il tuo ex migliore amico, assomigli a Hitler.

TU SEI PERSA

Ho provato a scriverti una lettera, ma riscrivendola ho


ricacciato il dolore buio di averti perso, e
strappandola ho capito che siamo separati per
sempre. Per sempre ripete nel cervello una vocina
maligna,
per sempre cantano fuori nella città
assolata, le forti apparenze dell’esistere.
Io ti odio ancora e quando resto a pensare per ore al
nostro dissidio, la volontà
diabolica di farmi male, non mi fa trasfigurare il tuo
ricordo, la memoria dove ti ho perso e mai più
ritrovato, sicché questo lamento infinito
eternamente svolgerà le sue
malinconie, non ce la farà a risalire la china dell’allegria,
perché tu sei persa, sei persa, per sempre, ed io
odiandoti, scaccio la vita; innamorato della tua
assenza, calpesto il tempo e le stagioni, solo
ammirato di quando stavo con te, giovane poeta in
cerca di fortuna e riscatto.

1975
da GATTI E ALTRO

(VARIANTE)

Un gatto aiuta il risveglio: arriva in fretta da stanze


perdute nel freddo, quando apro la porta della mia
camera, più calda, più vissuta
dove oggetti disparati
sono la delizia per lui.

Miagola basso per farsi aprire se io distratto penso al


nulla o al giorno da affrontare senza forze ulteriori.
da UNA POESIA

Tu sai che io uso la psicanalisi per capire le azioni


umane, per cui non do un giudizio morale sui fatti
che mi capitano.
Dunque interpreto il tuo prendere la mia agenda come
una protesta “inconscia” che tu però potevi
motivarmi,
in ogni caso tu capisci che un’amicizia non vale
un’agenda anche se messa sbadatamente nel posto
sbagliato.
da COLOSSEO E ALTRI LUOGHI

Mi sono accorto di aver amato, nella mia vita, tre


assassini, infatti erano anche drogati e fumavano
l’hashish.
Avrebbero anche ucciso, me senz’altro.
Il personaggio a cui mi sento più vicino è Oscar Wilde
perché patì la colpa. Fu, come disse a Gide, colpito.
Io sono un colpito
dal destino, e non riprenderò più.
Neppure la poesia, una volta
che la vita resta niente, mi soddisfa, mi sembra anzi,
talvolta, un’attività volgare.
La voglia di vivere ha lasciato il posto all’amore; il cuore
è spento però. Non ho mai pensato che l’amore fosse
legato al denaro.
Orrore, siamo vissuti in un vieto romanticismo.
Per scrivere ho bisogno del Tavor;
altrimenti sono in preda di deliri e fantasticazioni; nel
letto dormo sperando di sognare: solo il sogno mi
soddisfa. Scrivere dovrebbe essere quasi come
sognare, per chi, come me, non vuole inventare.

L’invenzione la trova un peccato.

A PIER PAOLO PASOLINI

Non mi rassegnerò mai alla tua morte.


Sei stato così indispensabile per me, così necessario che
a pensare che la terra più non ti prevede, e la vita ti
ha abbandonato urlo di un dolore senza tregua o
pace in qualche conforto. L’idea che non avevi
nessuna voglia di morire, pur se come tutti i poeti la
morte l’avevi tante volte invocata, fino ad
esorcizzarla, mi fa terrore.
Non volevi morire, lo so; non così almeno, ucciso,
dilaniato, calpestato, e questo limite assurdo del
destino mi colpisce come una violenza incredibile.
Vieni a dirmi perché sei morto, perché ci hai lasciato, se
esiste Dio in qualche parte del Creato!
Tu solo eri intelligente e padre tanto da acquietare la mia
fame e sete di pianto!

Vedi: ti rendo omaggio con qualche stenta rima; tu mi hai


voluto poeta, ed io mi sono reso tuo schiavo, tu hai
difeso in me la diversità e io ho compensato il mio
fare con la tua cortesia di lettore attento e curioso.
Com’eri intelligente, caro Pier Paolo, com’eri strano
e misterioso; come ci hai lasciato qui tutti orfani di
un padre che non volle mai essere padre ma che lo
era, negli atti, e nelle parole, più padre di tutti, più
maestro.
Ti ho tradito anch’io tante volte, ma eri così presente,
così sempre necessario da dover distinguere con te
ogni riga che scrivevi per non sentirmi soffocato; ma
tu amavi tanto la tua libertà da amare nella tua
quella altrui, e la mia consigliavi amorosamente
distratto e divino.
Non mi consolerò mai della tua scomparsa, e ti andrò
cercando ormai solo in quel pianto che è la memoria
dove non c’è spazio per la vita, o per l’ansia di
incontrarti ancora, a Sabaudia, al ristorante, a casa
di Elsa o di Laura!

Vere lacrime mi bagnano le guance, ora, e scrivendo


questa mia testimonianza non mi vergogno di essere
sentimentale. Ci si accorge di tutto l’amore che si
aveva per qualcuno solo nell’atto pratico della sua
morte.
Non la volevo, né la prevedevo. E ora che è una realtà
che offende e brucia dentro senza tregua, scusa,
caro se ricordo al mondo quello che, morendo, ha
perso.
Una luce, uno spazio infinito di poesia, un cuore
tormentato e quieto nella sua voglia di vivere.
I tuoi nemici avranno gongolato. Uno di meno, hanno
detto. Vergogna! Vergogna! Piangete, ragazzi,
almeno voi la morte di Pier Paolo; nessuno più di voi
può essere lì dove Pier Paolo voleva vivere e
operare.

DOPO UN ANNO, FEROCE GIORNO IN CUI UN POETA È CADUTO,


1976

Pasolini sparito, ucciso come un cane bastardo in una


sgomenta periferia di fango in un giorno di
novembre mai più ritornerai in questa Italia del
miracolo dove la tecnocrazia fra poco trionferà, il
conformismo dei nuovi padroni, laidi nazisti atei o
cattolici di un dissenso solo nominale che perseguita
i diversi, distruggendo ogni anarchia, ogni bellezza
ideale; vista mai dimenticata per te vivendoti
accanto per tanti anni ormai poeta dimenticato,
incrostato nelle tue menzogne radiose di poeta civile
sublime compagno di notti in terra ferma parlando
di libri e di amori.

Pasolini, ti hanno ucciso, non meritavi di morire né di


vedere lo scempio del tuo corpo sacro mentre tutti i
poeti ermetici neorealistici o avanguardisti coprono
con le loro poesie di fetore l’umile Italia e il mondo,
né sanno quando tutto prenderà la via dell’Eterno e
le morte stagioni sapranno l’odore della tua
scomparsa immedicabile ferita mi avanza per tutto il
resto della vita abbandono il sentimento e la fortuna
vuole che io sappia.

MADRE

Madre, per quanto gli altri poeti ti hanno esaltato e


onorato io,
degenere figlio, non ti assolvo.
Nella impura angoscia di sapermi
figlio da te generato a questa brutale diversità, piango la
tua solenne
maternità.

Non c’è mai stata dolcezza, amore, carezze di madre, ma


solo il rimprovero di esser nato, l’odio feroce della
mia carne, del mio misterioso sesso, in te: una sacra
avventura era cominciata
per me, prima da te misconosciuta,
che mi avresti voluto mediocre e sposato infantilmente
innamorato di una moglie che fosse la tua cara
nuora, l’immagine sbiadita di te, gelosa, per i miei
figli che non avrò mai.

Mi rifiuto, madre, di crescere al mondo orrendo dei padri


e delle madri
consumo il mio peccato, l’ingenuo
guardare il mondo come se fosse sempre la prima volta,
non rifiutato,
in solitudine.
Quanto ho sofferto nel contemplare
da ragazzo la vita che violenta scorreva anche nella mia
assenza piena
di presentimenti scoraggiati di trasformarsi in qualsiasi
presenza, salutare;
un modo nuovo di esistenza!

Guardavo ovunque i miei coetanei andare insieme, nelle


indimenticate sere col ciuffo al vento, l’aria
spavalda, di chi possiede, e nel possedere è
posseduto; fiero che questo possesso sia condiviso e
capito con un solo sguardo dal compagno da me solo
avuto in sogno,
nel pianto astruso della ragione.

E il cugino, il cugino che vidi allontanarsi allora,


ragazzino, impedito dalla vostra cieca paura
moralistica a frequentarmi, e divenuto ora
la mia bestia nera, il mostro sanguinario che vuole fare
giustizia di me?
Ma allora non mi eri di conforto!

Ora questo risentimento che non sa perdonarsi di essere


tale, così acre e volgare, mi fa paura, si vendica
contro di te che godevi a vedermi
solo, alle finestre, piangere tutte
le mie lacrime.

Madre, non tornerà più giovinezza l’età più breve, l’unica


della vita
che si possa ricordare con piacere!
Non c’è viso, nella dolorosa memoria, che venga a
consolare le mie
tetre notti, al tavolo di lavoro,
al tavolo delle mie disperate insonnie.
Non c’è che l’arida solitudine,
lo sgomento di sapermi, unico
su tutta la faccia della terra, diverso: che non ama, non
riamato, la madre
o forse il contrario, non so, sono ingiusto?
Ricordi, madre
i capelli lunghi?
Era tutto in onore tuo.
Non ti preoccupavi neppure del mio corpo magro,
asciutto, di giovinetto cresciuto troppo in fretta,
come in genere fanno amorose tutte le madri. Solo
eri capace di rimproverarmi per le lenzuola
macchiate di acerbo, meraviglioso seme!

E ora so che voglio solo morire.


Al mondo rifiuto ogni amore,
ogni tentativo di riscatto,
di redenzione in un affetto
e se amato tento di riamare
è solo la mia voglia sciagurata
di annientamento che si fa avanti,
immutata, a trasformare il rapporto
in un inferno in cui è meglio morire.
Madre che mi hai ucciso prima di
espellermi dal tuo arido ventre
di quanto amore, privandone me,
hai privato l’innocente mondo!
Madre perché mi mettesti al mondo?
INEDITE

Non merito aiuti né misericordie.


Cantando la scenata ai gatti di casa mia, rivolgo
all’Assente il vangelo di una rosa rossa; portiamola
alla vita che è passata, o al cuore che non batte più.

Innamorato io? Dove e in che spazio questo amore si


svolge e chi contempla nella notte orrorosa in cui
aspetto il sonno benedetto; ma non dormo e mi
chiudo in me pensando al mattino o all’avvenire, o
alla certezza di te.

Tu non guardi. Né io spento a caso, nella vigilia del


sonno, do pace
ai miei nervi snervati.

Tu non accechi. Fuori in un lunedì di primavera


i fiori cantano la fine
della vita per chi la lasciò incatenato agli sguardi.

*
La morte vuole morire con me. Dormire solo
annali di tempo morto
prima della rinascita
quando saremo soli.

Siamo caduti in un inverno terribile dove non c’è più


spazio per giovinezza e amore. Pensiamo solamente
ai poveri morti che ci guardano chiudendo gli occhi
ai fasti del Passato. Ridendo allora contempliamo il
futuro che ci esclude: smozzicati crani di persone in
maschera beviamo alla fonte perenne di eternità un
falso elisir che ci spegne per sempre.

Amore distrutto stasera arrivi in casa mia nell’incendio


del pensiero, e rivedo indietro per sorreggermi a te
involucro di carne e sangue, ancora aspettarti per
dormire abbracciati.
Lo sapevi quello io volevo, ora non so più quello che amo;
sono cambiato, forse l’amore è finito quello totale
intero di una volta. Oggi ci sono solo le ceneri
dell’amore.
Notizie sui testi

Per ciascuna delle otto raccolte maggiori si forniscono i


dati bibliografici delle prime edizioni, così come,
eventualmente, delle plaquette in cui gli stessi testi sono
apparsi prima di confluire nel volume (o, come nel caso di
io e Gatti e altro, ripresi successivamente).
Sono altresì trascritti i testi dei risvolti e delle quarte di
copertina. Laddove sono stati sostituiti nel passaggio da
un’edizione all’altra è presente anche il testo della nuova
redazione. Spesso di firma illustre, essi compongono nel
loro insieme una pur larvale antologia della critica.
Sono inoltre registrate le varianti, peraltro esigue fino a
Serpenta, degli eventuali passaggi delle poesie da
un’edizione all’altra, così da fornire un quadro più
attendibile della loro conduzione a stampa.

Invettive e licenze
□ Invettive e licenze, Garzanti, Milano 1971. Volume di 136
pagine. Nel colophon: «Finito di stampare / il 24 febbraio
1971 / dalla Aldo Garzanti Editore s.a.s. / Milano». Risvolto
di copertina di Pier Paolo Pasolini:

Ecco il miglior poeta della nuova generazione. (A me ormai poco


importa che ci sia una nuova generazione; e del resto non ho mai
fatto uso di una simile categoria, che mi sembra retorica e di seconda
qualità. Ma Dario Bellezza ci terrà, giustamente, alla sua gioventù.
Perché non riconoscergliela? Inoltre egli forse, dati i caratteri della
sua poesia, non sarà alieno dal ricorrere a categorie collaudate,
abitudinarie e un po’ all’antica.) Da dove viene Dario Bellezza? Da un
mondo vecchio che egli, accecato dal suo dolore e dalla sua
mancanza di libertà, non ha potuto o voluto o osato riconoscere come
vecchio. Non ha assunto a stato d’animo il dato di fatto che esiste
anche una «vecchiaia recente», che una nuova prospettiva schiaccia
contro la vecchiaia vecchia e antica. Non parlo soltanto della
letteratura. Infatti Dario Bellezza almeno lessicalmente ha preso ben
poco dalla letteratura: ha preso dai giornali, dalle riviste letterarie
dell’ultimo decennio, dai dibattiti, dal linguaggio medio, dai cascami
letterari passati a un livello inferiore o al parlare comune dei
privilegiati, dal dizionario piccolo borghese professionale. Anche la
durata delle sue poesie è casuale, come pezzi di articoli di giornale
ritagliati da una forbice che ha il potere di isolarli e sospenderli
contro il vuoto di un’infinità atroce. Del letterato italiano vecchio (e
nuovo) Dario Bellezza ha solo il culto del rigore. Rigore applicato al
più miserabile e infamante (lui crede) dei lamenti maledetti, ma
tuttavia rigore. Quasi istintivamente e diabolicamente, Dario Bellezza
ha capito che, se mai avesse potuto essere compreso e amato dai vili
suoi colleghi, ciò sarebbe accaduto in nome del suo rigore. Quindi si
è messo a descrivere le forme e gli oggetti delle sue angosce (che
ogni buon collega e semplice lettore non può che considerare
abominevoli) come se fossero forme e oggetti dell’assoluto: come le
bottiglie e i vasi di Morandi. Nessun compromesso, nessuna
complicità, nessuna facilitazione, nessuna concessione, nessuna
deroga: nemmeno il sollievo di un sottotitolo gradevole, di una nuda
citazione. In panni di benpensante, rigido e quasi calvinista,
antiquato come si deve, Dario Bellezza offre la sua merce atroce...
Ma in cosa consiste questa atrocità, questa bruttezza che io, in una
sorta di discorso libero indiretto, vivo attraverso la lettura di un
destinatario medio e di un critico di professione? Tale atrocità
consiste in una eccessiva coscienza di avere raggiunto la libertà e di
viverla. Questo «eccesso» ostentato di coscienza rivela da una parte
in Bellezza l’orrore conformista per la propria presunta colpa (per cui
egli è il primo piccolo borghese che giudica se stesso), dall’altra
scopre in lui una capacità di illudersi che stringe il cuore. Egli in
realtà non è libero mai, in nessun momento, per nessuno. È
inviluppato nella sua vita privata come in un vestito sporco, chiuso
nel suo caso come in uno stambugio dall’aria irrespirabile. Il lettore
assiste al suo annaspare (che ha la certezza della vera poesia
«antica»), al suo inveire, al suo consentirsi giudizi si di sé che
sembrano liberi e sono in realtà autolesionistici, perché in comune
con chi non è libero essi hanno ben radicata l’idea di venire esercitati
su una materia disonorevole.
Himmler un po’ pretesco di se stesso, Dario Bellezza fa la spia
della sua vita mal spesa, brancolando verso il futuro dove non lo
attende nulla, se non la ripetizione del suo stato. Ma è questa la vera
«carriera» di un poeta. In una società razzista egli dovrà vivere per
forza la libertà: ma non la cercherà (intuendo che la libertà non è
desiderata dall’uomo, da nessun uomo).
Egli, anzi, continuerà a «cercare Padrone», ad «andare verso
ubbidienza»: e ne sarà compensato attraverso il riconoscimento della
sua poesia dissociata dalla sua realtà.

Dalla riedizione (giugno 1991) nella collana «i Garzanti


Poesia» (Garzanti, Milano) il risvolto di Pasolini è espunto e
sostituito con una quarta di copertina redazionale:

Quando venne pubblicata nel 1971, accompagnata da un’entusiastica


e impegnativa presentazione di Pier Paolo Pasolini, Invettive e
licenze, la prima opera poetica di Dario Bellezza, fu oggetto
dell’interesse della critica, di un notevole successo di pubblico e di
un feroce dibattito.
Con il suo verseggiare coraggiosamente provocatorio,
estrosamente anticonformista e anarchicamente refrattario
all’ideologia, con l’ostentata sopravvalutazione delle vicende private
dell’autore, con una accesa sensualità e una sorprendente facilità di
comunicazione, Bellezza si faceva portavoce e protagonista di una
ribellione inedita e radicale, che trovava nella poesia il suo campo di
battaglia e la sua bandiera.
Oggi, spenti gli umori polemici di quella stagione, è finalmente
giunto il momento di tornare a leggere, con animo più sereno,
un’opera che già allora si poneva al di fuori della dialettica tra
avanguardia e tradizione, fedeltà e tradimento, poetica
dell’emarginazione e sperimentalismo. Per riconsiderare il rapporto
tra la scrittura di Bellezza e la letteratura, e riscoprire il senso e il
destino più autentici della sua poesia.

INFANTE DI UNA INFANZIA UN PO’ CRESCIUTA

Il penultimo verso, «“Faccia da porco, stronzo


bocchinaro”», è sostituito nella ristampa 1991 con «“Dio
del sesso rotto a tutti i corpi”».

LA VERGOGNA DEL SESSO SCONCLUSIONATO

Le ultime due strofe compongono nel testo del 1971


un’unica strofa.

SIMILE A GIACOBBE CHE LOTTA

Nel penultimo verso, «sommesso succhiare» è sostituito


nella ristampa 1991 con «sommesso rubare».

Morte segreta
□ Ergastolo (indicata in apparato con E ), con
un’introduzione di Giovanni Raboni, in «Almanacco dello
Specchio», n. 5, Mondadori, Milano 1976, pp. 207-20. La
sequenza comprende tredici poesie numerate con cifre
romane, tutte anepigrafe, alcune accolte in volume con
titolo: I, Sono chiamato dai sensi a rispettare natura →
Scherzo per Catullo e Verlaine; II, Non ha importanza con
chi farai l’amore → Amore amore; III, In un lugubre
smorzarsi dell’autunno; IV, È Dio che muore con me; V,
Perché venisti solo a notte a cazzo dritto; VI, Poi mi accorgo
che l’io, il prode nemico attaccato; VII, Ora s’accende il
ricordo; ed è l’unico sentimento, mai più accolta in volume
(vedi Appendice); VIII, Stasera la depressione è rivenuta
incalzando; IX, Non sarai tu ad uccidermi, faccia d’angelo;
X, Dio può pensare se stesso essendo; XI, Arriva un
ragazzetto biondo da Venezia, si rivolge; XII, La somma
finale del nostro pensare è zero; onde; XIII, Ritorna
primavera, e con essa ritorna gioventù → Ad Anna Maria
Ortese.

□ Morte segreta, Garzanti, Milano 1976. Volume di 112


pagine. Il colophon riporta: «Finito di stampare / il 7
gennaio 1976 / dalla Aldo Garzanti Editore s.p.a., / Milano».
Il risvolto di copertina è anonimo, probabilmente
attribuibile all’autore:

L’autore vorrebbe che questo libro fosse letto dai giovani, dai ragazzi;
che essi cioè facessero giustizia da sé di un «corpus» poetico a loro
consacrato. Esso, rozzo, raffinato, vuole non identificarsi con i valori
della società costituita, disprezzata quel tanto che ha permesso un
margine di libertà all’autore di sentirsi poi ancora capace di scrivere
poesie. Il che, lo si ammetta, diventa sempre più difficile e raro. Né
l’autore ha voluto capire la morte, la sua morte, per ripiego o rivalsa,
o per un vezzo ironico. Egli infatti ha cercato di parlare di una morte
che riguarda tutti. Segreta quel tanto che basta a farla nota al
mondo, come morte ideologica, morte dell’anima, in un mondo
corrotto e violento. Le poesie sono state scritte alla maniera antica
da chi si accorgeva che stava delegando un altro a scriverle, più
poetico dell’autore stesso e che doveva per forza di cose parlarci
della sua morte. Lette come un giallo, o un romanzo che s’insegue
poesia dopo poesia, il libro prende alla gola per intensità e dolore.
Nessuno sa come andrà a finire tanto sfacelo e tanta disperazione. E
questa morte dunque è solo un pretesto per chi assalito dai mostri
del Potere, si è ribellato, ha dato scandalo e strazio di sé, ha ucciso
come San Giorgio il drago, e si è infine ammalato, è morto. Ma ogni
morte è una rinascita e Dario Bellezza spera di farcela a portare a
compimento un suo progetto ambizioso, un ritorno al «Paradiso», per
ora proibito, per sola virtù di poesia.
Accolto, con Invettive e licenze, il suo precedente libro di poesie,
come il miglior poeta delle nuove generazioni, D.B. ha compiuto un
esorcismo: letterato, ha portato la «letterarietà» a un diapason
infinito e perfetto, fingendo di essere un grande poeta, senza forse
avere la coscienza di esserlo. Ma nessuno sa di essere un grande
poeta. Neppure Rimbaud. Certo, leggendolo, si senta il lettore
giovane trascinato verso i voli più alti della poesia; qui interessano
solo i grandi temi, le grandi tragedie, e ogni sconfitta ha il sapore di
un ritorno al grembo materno dove è stata perpetrata, per la prima
volta, la prima «morte segreta».

LA SOMMA FINALE DEL NOSTRO PENSARE È ZERO; ONDE

v. 3 a me stesso:] a me stesso; E
I vv. 8-13, in E , hanno una diversa scansione:

mi va per traverso, il nettare degli Dei mi provoca


diarree. Così è duro vivere sviluppando i pensieri
e intrecciandoli come coriandoli alla maschera buffa
che io sono, innamorato di non morire mai, neppure
per sbaglio o per far piacere a Madama Morte! Per cui
scivolo nella stanza fatata delle mie notti solitarie

v. 20 a me stesso,] a me stesso; E

ARRIVA UN RAGAZZETTO BIONDO DA VENEZIA, SI RIVOLGE

vv. 13-14 sono quelle che / io traccio] sono quelle / che io


traccio E

NON SARAI TU AD UCCIDERMI, FACCIA D’ANGELO

v. 12 per troppo] per il troppo E


vv. 18-19 coraggio / senza minacce] coraggio, senza /
minacce E
IN UN LUGUBRE SMORZARSI DELL’AUTUNNO

v. 6 d’offuscarsi] di offuscarsi E
v. 15 vero,] vero E

AMORE AMORE

vv. 23-24 troppo presto / o troppo tardi] troppo / presto o


troppo tardi E

Libro d’Amore
□ Libro d’Amore, Guanda, Milano 1982. Volume di 80
pagine, n. 89 della collana «Quaderni della Fenice» diretta
da Giovanni Raboni. Nel colophon: «Finito di stampare / nel
mese di settembre 1982 / dalla Tipolitografia Lodigraf
s.p.a., Lodi». Quarta di copertina anonima ma attribuibile a
Giovanni Raboni:

Dolente fino allo spasimo, al ribrezzo, al rifiuto, l’amore cui questo


libro si intitola non ha davvero, a prima vista, niente di lieve e
gioioso: è un amore «senza lode», che lascia solo «amaro nella
bocca» ed è prerogativa (o condanna) delle generazioni «possedute
dalla morte»; un amore nel quale, e per effetto del quale, persino
l’atto supremo del piacere è vissuto e descritto come «bianco lutto».
Amore, insomma, come non-acquisto e non-conoscenza, perdita
totale, senza compensi, di sé e dell’altro, recupero cruento e fatale
del buio originario. Ma gli estremi, si sa, sono destinati a toccarsi o,
meglio, a rovesciarsi, a confondersi l’uno nell’altro: ed ecco che,
nella misura reale della pagina, nel concreto funzionamento della
macchina figurale, l’eros negativo e blasfemo (e dunque, per usare
un aggettivo burocraticamente insensato, «osceno») di questa poesia
lascia trasparire a lampi sempre più fitti il proprio rovescio luminoso,
il proprio doppio o fantasma di tenerezza, di letizia e, perché no?, di
innocenza; e la stessa «diversità» del desiderio e del suo oggetto,
sentita dapprima come reclusione, come fonte inesauribile di
abominio e di scacco, viene sollevata in un vortice inatteso di
stupefazione e di grazia, collocata in una sorta di tabernacolo, di
trasparenza gaudiosa. Effetto, certo, della tenace, «eroica»
sregolatezza della materia evocata – ma anche, e soprattutto, di una
pronuncia capace, al di là dell’apparenza, di dissolvere ogni eccesso
e di abbattere ogni eloquenza: la pronuncia, è il caso di dirlo, di un
poeta giunto ormai alla propria interna «classicità», al controllo
naturale e sovrano dei propri strumenti, della propria voce.

Nella seconda edizione (ottobre 1992), nella collana


«Fenice contemporanea» diretta da Giuseppe Conte e
Valerio Magrelli (Guanda, Parma), la quarta originale è
sostituita da uno scritto di Valerio Magrelli:

Pubblicato da Guanda nel 1982 e ristampato l’anno successivo, Libro


d’Amore riflette per intero, nella sua perentoria brevità, la vicenda
poetica di Dario Bellezza. Il testo si compone di quattro sezioni
redatte tra il 1969 e il 1981, ma la sua lingua percorre tutta l’opera
senza che sia possibile indicare particolari salti di registro. In tal
senso, questo sconvolto canzoniere erotico (dalla sezione omonima, a
quella intitolata De profundis, dal visionario e allucinato Donna, al
più disteso capitolo di Sesso) esibisce un’estrema compattezza, o
meglio sembra sorgere appunto dall’estremismo di una conquista
insieme esperienziale ed espressiva.
Ispirato alla sacra famiglia dei maledetti francesi (giù giù fino allo
scandaloso «San Genet» rivelato da Sartre), Libro d’Amore si colloca
nel segno dell’ossimoro, cioè di quella figura retorica che consiste
nell’unione degli opposti. Unione degli opposti all’interno di un
rapporto omosessuale: in certo modo è questo il centro, doppiamente
contraddittorio, intorno al quale ruota la raccolta, «lo sfacelo e il
malefizio» di un «lupanare d’angoscia». Prezioso e violento, salvifico
e dannato, il sesso evocato in queste pagine si dibatte tra un cielo
mistico («quasi Dio mi vedesse») ed una terra irrimediabilmente
profanata: «Amore che non eri ghiotto di parole / residuo osceno
della mia vomitazione [...] Mio cordoglio, mia derelizione». Bellezza,
infatti, imprime alla materia più bassa e desolata le movenze della
grande oratoria barocca, e torna all’eterno tema della Vanitas per
cantare la caducità di un «tempo di prede-caine», «inferno deserto /
degli Anni», «stagione porca degli Orchi» o «notte suicidale».
Sapientissimo e crudo, questo dettato alterna un registro alto e
arcaizzante alla brutalità del gergo, applicando un sontuoso
campionario di figure e di coloriture a un lessico corporale, materico.
Ecco allora apparire apocopi, assonanze, allitterazioni, iperbati e
anafore. Tuttavia, la cifra preminente di un repertorio stilistico tanto
ricco va forse individuata nei poliptoti («tradito e traditore», «io la
penetrazione / e lui il penetrato»), tracce di una colluttazione
psichica e sensuale in cui l’amante tenta di fondersi con l’amato.
Proprio dall’impossibilità di tale unione scaturisce il torvo e corrusco
Autoritratto conclusivo, che nella dolorosa ridda linguistica delle sue
invettive tesse l’orrore di una solitudine senza più redenzione.

LA PROMESSA RAGAZZO SPASIMO AMORE

L’ultimo verso, «Perché si smorza la fiamma incollerita?»,


nell’edizione del 1982 compone una strofa a sé.

io
□ io, Mondadori, Milano 1983. Volume di 104 pagine; nel
frontespizio: «io / 1975-1982». Il colophon riporta: «“Io” /
di Dario Bellezza / Collezione Lo Specchio / Arnoldo
Mondadori Editore / Questo volume è stato impresso / nel
mese di ottobre dell’anno 1983 / presso le Arti Grafiche
delle Venezie di Vicenza / Gruppo Mondadori / Stampato in
Italia – Printed in Italy». Risvolto di copertina di M.F.
[Marco Forti]:

Dal suo primo tempo poetico, quello dell’inquieta, turbata eleganza


di Invettive e licenze, alla più corposa, magmatica linea eloquente di
Morte segreta, Dario Bellezza sembra essere pervenuto all’equilibrio
più alto, quello di una maturità intermittente che in sé abbia
assorbito i momenti cruciali, le evidenze e le ombre di tutta
l’esperienza. Con questo Io prende le mosse dai toni, dall’intensa
gestualità drammatica di Morte segreta, come è avvertibile
soprattutto nella prima sezione del libro, «Il viaggiatore d’ombra».
Qui un sontuoso e a volte luttuoso artificio, un’ironica enfasi
deformatrice, una gravità stravolta agiscono e si compongono in
suono, colore, atmosfera. Bellezza sa affrontarvi il rischio del
confronto coi grandi temi della morte, dell’umana insensatezza,
dell’essenza e dell’assenza di Dio, del destino del poeta, così come si
coagulano, ad esempio, nella esemplare «In memoriam» per Pasolini.
Commuove e colpisce in queste poesie il rimpianto e il lamento per la
bella gioventù che sfuma, per la maturità che tarda o si fa dolorosa,
si affida alla luce radente di una vocazione che si maledice, al quasi
broncio poetico che si specchia nel tutto o nel niente dell’esistere.
Ma lo sviluppo del libro consente a Bellezza la conquista di una
misura e di un andamento anche più lievi: affiorano i temi dell’amore
e del disamore, lampeggiano nel buio i paesaggi romani, le scene di
una omosessualità dichiarata e dolente. L’io si esibisce più cauto,
Narciso sfuma con la sua giovinezza in uno specchio offuscato.
Incantevoli e nuove saranno in quest’ambito le poesie dedicate alla
gatta randagia Belinda, unica compagna di un naufragio terrestre,
figuretta felice e guizzante in cui il gatto randagio Bellezza si
specchia. Fino a cogliervi l’immagine lieve dell’altro, quando non -
qui e altrove – quella più solenne ed occulta dell’Altro, di un Dio
distante e vendicatore, curiosamente più mediterraneo che cristiano.
Insomma il Dio lampeggiante di un maudit che ha ben letto e messo a
frutto il suo Baudelaire. Qui è, forse, la chiave di volta e la cerniera
del libro: la matrice occulta da cui nasce a tratti il suo illimpidimento
successivo, una versificazione scandita di classica eleganza, dove l’io
sa essere voce lirica che testimonia fermamente la pena e il disagio
di esistere.

□ Gatti e altro, Fermenti, Roma 1993. Plaquette di 40


pagine, pubblicata nella collana «Iride» a cura di Amanda
Knering, con sei tavole di Francesco Paolo Delle Noci e un
ritratto di Sergio Vacchi. Nel colophon: «Finito di stampare
nel mese di febbraio 1993 / dalla Tipografia Art. “Aldo
Palombi” 00166 Roma, Via V. Sartori, 80 / per conto della
Fermenti Editrice». La sezione Gatti comprende le seguenti
poesie, già apparse nella sezione eponima di io: Alzarmi,
darti luce mentre; Mi contempli se scrivo; Rimorso a
guardarti nelle confusiones; Cessa di puntarmi come il
cane; Una giornata di maggio, piovosa; Mi tremano i polsi,
si fa per dire; Miosotis; Sfortunata; La gattità; Gatti, occhi.
A queste si aggiungono Gatti 1983 (poi, con il titolo Gatti,
ne L’avversario; (Variante), mai più accolta in volume (vedi
Appendice) e probabile riscrittura, per la prossimità
tematica, di Alzarmi, darti luce mentre; Inquiete larve, poi
ne L’avversario, con il titolo Ad un gatto; Alla lupetta di
nome: Giotto, poi ne L’avversario, con il titolo Ad un cane.
La sezione altro comprende una intervista di Maurizio
Gregorini su Testamento di sangue, già in «Blu», 5 (VII),
1992; lo scritto Dario Bellezza: la mia Roma, già in
«Poesia», 53, luglio-agosto 1992; infine il testo del risvolto
di Pasolini per Invettive e licenze.
La plaquette è anticipata dalla traduzione in spagnolo,
Gatos, traduzione e presentazione di Luis Quirante e
Francisco Chica, Newman, Malaga 1991; quaderno n. 33
della serie «Newman/Poesia» per i soli testi poetici fino a
(Variante).

RIMORSO A GUARDARTI NELLE CONFUSIONES

In io il primo verso recita: «Rimorso a guardarti nella


confusione;».

UNA GIORNATA DI MAGGIO, PIOVOSA

Nel terzultimo verso, «contagocce» in io non è seguito da


punto.

Serpenta
□ Colosseo (indicata in apparato con C ), Colosseo. Apologia
di Teatro (indicata con CA ), vedi Libro di poesia

□ Serpenta, Nuccio Galluzzo, Sciacca 1985 (indicata con


S85 ). Plaquette di 38 pagine. Nel colophon: «“Serpenta” di
Dario Bellezza è stato stampato in edizione fuori
commercio da Vito Quaranta tipografo in Sciacca in
centoquindici copie il 9 Dicembre 1985». A p. 7 la nota
dell’autore:

Queste poesie fanno parte di un libro più complesso e articolato che


vado scrivendo da qualche anno. Il suo titolo complessivo è Il demone
meridiano. Mi è sembrato giusto darne un’anticipazione non solo in
rivista, ma data la scarsa diffusione in questo presente momento
della poesia, in un volumetto di Nuccio Galluzzo, amico.

A p. 9 un’epigrafe da Leopardi: «L’uomo resta attonito di


vedere verificata nel caso proprio la regola generale». Privo
di indice, il volumetto comprende, con numerazione
romana da I a X: Fuggono tutti i giorni miei; Non so dove
andare, dove dirigere i miei fiati (quindi aggiunta nel
volume del 1987 a Il ricordo smemora fuori del tempo); Il
porto clandestino ai baci; Se è giovanetto, il corpo
maschile; Forse m’impiglio in pigrizia, non riesco; Ma il
quotidiano insiste. Ed io volo; Il ricordo smemora fuori del
tempo; Roma (con il titolo Roma 1986 nel volume del 1987;
il medesimo testo, anepigrafo, è stato infine riprodotto in D.
Bellezza, una poesia, pastello di Flora Graiff, Osnago,
Pulcinoelefante, 2002, edizione n. 4875); Poi ci sarà la
nebbia, verrà l’inverno; Verde.

□ Piccolo canzoniere per E.M., Edizione del Giano, Roma


1986 (indicato con PC ). Plaquette di 48 pagine, nella collana
«Testi scelti da Italo Evangelisti», con due opere di Sergio
Vacchi e Giuseppe Guccione. Colophon: «Stampato per
conto dell’EDITRICE IANUA / dalla Tipolitografia Alpha Print
s.r.l. – Roma / nel febbraio 1986». Contiene XIII testi con
numerazione romana (pp. 5-31), di cui nove accolti in
Serpenta (1987), tre in Libro di poesia, più una prosa di
Bellezza dove si racconta del rapporto con Elsa Morante
(pp. 33-40). Indice: Dopo una rottura (1972) (poi in
Serpenta); Una voce roca e assolata (1972) (poi in Serpenta
con il titolo Una voce roca e assoluta); Dopo «La Storia»
(1974) (poi in Serpenta, anepigrafa); O Regina (1975) (poi
in Serpenta con il titolo Regina di morte); Non amare i
mortali (1975) (poi in Serpenta anepigrafa e senza il primo
verso); Invettiva (1986) (poi in Serpenta con il titolo
Riprendiamoci la vita); Oltre l’oblio (1978) (poi in
Serpenta); Odi et amo (1979) (poi in Libro di poesia con il
titolo Maestà); A Elsa tentata di morire (1984) (poi in
Serpenta con il titolo A Serpenta tentata di morire);
L’estremo riposo (1985) (poi in Serpenta); Amato o no il
mondo era vero (1985) (poi in Libro di poesia, con il titolo
Dio); Se io fossi donna (1985) (poi in Libro di poesia); Dopo
la fine (1985) (poi in Serpenta).

□ Donna di Paradiso, Edizione del Giano, Calcata 1992


(indicata con DP ). Volumetto di 68 pagine, nella collana «i
Poeti del Giano», con una lettera inedita di Elsa Morante
non datata riprodotta in facsimile alle pp. 5-6 e un ritratto
della scrittrice di Sergio Vacchi. Si tratta di una nuova
edizione di Piccolo canzoniere per E.M. Sono qui aggiunti
cinque testi tra Se io fossi donna (XII in PC ) e Dopo la fine
(XIII in PC ), per complessive 18 poesie. Alle pp. 9-13 un
Dialogo su E.M.; alle pp. 57-63 il Congedo dell’autore, che
riprende, ampliata, la Nota finale di PC (in questa seconda
versione si fa riferimento all’edizione delle Opere di Elsa
Morante, apparsa in due volumi dei «Meridiani» Mondadori
con l’introduzione di Cesare Garboli tra il 1988 e il 1990);
alle pp. 65-66 una Nota filologica di Davide Bracaglia, che
qui si riproduce, non priva di inesattezze. In effetti le rare
varianti delle poesie della plaquette, rispetto a PC ,
sembrano attestarsi come sviste tipografiche (numerose sia
in PC che in DP ), ciò che induce a leggere DP come una
ristampa a cui Bellezza ha aggiunto a distanza di sei anni
alcuni testi, piuttosto che una vera e propria nuova raccolta
di tutte le poesie dedicate a Elsa Morante; pertanto si è
ritenuto più opportuno rispettare l’autorevolezza delle
raccolte maggiori e mantenere come definitiva la lezione di
Serpenta, per le poesie già accolte in PC , nonché quella di
Libro di poesia e L’avversario per i rimanenti testi. Indice
delle poesie: Dopo una rottura; Una voce roca e assolata;
Dopo «La Storia»; O Regina; Non amare i mortali;
Invettiva; Oltre l’oblio; Odi et amo; A Elsa tentata di
morire; L’estremo riposo; Amato o no; Se io fossi donna;
Elsa e Neruda (poi ne L’avversario, con il titolo L’ombrello
di Elsa); A Bill, dal 1967 a Elsa (poi ne L’avversario, con il
titolo A Bill, dal 1967); Insieme a Elsa e Aldo (ripresa da
Colosseo); Hitler (ripresa dal romanzo Angelo e mai più
accolta in volume, vedi Appendice); Tu sei persa (mai più
accolta in volume, vedi Appendice).
Testo del Congedo:

Ho scritto queste poesie, tranne l’ultima composta dopo la morte di


E.M., nell’arco di circa quindici anni. Non pensavo di metterle
insieme: però alla fine, un senso forse extraletterario l’avranno pure.
Pochi giorni prima che morisse Elsa Morante, ho consegnato il
piccolo canzoniere ad Antonio Porta; con l’accompagnamento di un
«congedo» che congedo definitivo non voleva essere. Mi trattenevo
un piccolo spazio per riappacificarmi con la divina Elsa. Ma gli eventi
sono precipitati, come si dice. Il canzoniere non ha più il destinatario
reale, non è più un pettegolezzo provvisorio; è consegnato alla mia
storia di poeta, se non a quella di Elsa. Il congedo com’era scritto
non valeva più.
Ha ragione Garboli: non sapremo mai come Elsa ha preparato il
suo «Addio». Possiamo forse, umiliata dalla sua veste reale ormai
vecchia, decrepita, immaginarcelo. La malattia avrà potuto umiliarla;
lei ha desiderato fortemente la morte; poi forse alla fine, quando sarà
stato troppo tardi, si sarà ritratta. Non era umana la psicologia di
Elsa, ma disumana, dunque letteraria. Ecco perché si può
ricostruirla. La fine è stata tremenda: un rantolare, e dentro il
normale rantolare un urlo, un urlo sommesso. Ecco perché io non
posso fare di questa materia, poesia: è troppo dolorosa, come non ho
potuto scrivere nessuna commemorazione o necrologio; perché Elsa
per me non era solo l’autrice di tanti libri stupendi, ma Elsa, con la
quale avevo furiosamente litigato, che non mi voleva più vedere, che
è morta senza avermi perdonato.
O chissà!
Garboli ha ragione; citando una sua pagina estrema: «Di tutte le
voragini fra cui ci muoviamo alla cieca nessuna è tanto cupa, e per
noi stessi inconoscibile, quanto il nostro proprio corpo. Lo si definì
sepolcro, che ci portiamo appresso; ma la tenebra del nostro corpo è
più astrusa per noi delle tombe». Ormai è morta; il suo ultimo
meditare sul suo corpo malato non l’ha riscattata; e invano disse a
Jean-Noël Schifano: «se rimango in questa clinica non esco viva di
qui». Per scrivere aveva bisogno di camminare. Ed Elsa non poteva
più camminare. Quello che Garboli si chiede è questo: «In questo
sepolcro e nell’astrusità di questa tenebra Elsa ha vissuto più di tre
anni; di questo viaggio che è stato l’ultimo fra di noi, non ha potuto
raccontarci nulla e non sapremo mai nulla. Questo è un pensiero più
angoscioso ancora di quello della sua morte».
*
Elsa Morante si è lasciata lentamente avvelenare da questa idea
della morte; ai tempi in cui la frequentavo mi rimproverava di
privilegiare questa sua immagine negativa (la parte di Edipo che
aveva tragicamente esplorato, in concorrenza con Pasolini, ne «Il
mondo salvato dai ragazzini»), piuttosto che il lato Arturo, solare e
felice di vivere. Non ero d’accordo; caso mai mi ritagliavo di lei,
amica, un’immagine che più si avvicinava alla mia, melanconica e
fuggiasca, per troppo amore della vita, della vita stessa. Ma in lei
però la morte era un linguaggio da esplorare; e un poeta come me
andava a nozze in tanta mortuarietà esibita e recitata. Nella vita di
Elsa (prescindendo dall’opera) la morte si distendeva dialetticamente
in narrazione, non rimaneva un urlo isolato e desolato per chi ha
paura, non sapendola affrontare, ma diventava rimozione dell’umano
per qualcosa che non si conosce. La morte domina, è vero
(«Aracoeli» è il trionfo della morte) ma questo appressarsi della
morte non è mai triste, tranne le considerazioni in prima persona che
la Morante può fare nei suoi libri; e che prevedono l’ineluttabile
senza rimpianti apparenti, ma con un rimpianto grandissimo perché
si lascia la vita reale, con le sue croci e le sue delizie. Non è triste del
tutto perché, alla fine, la Morante la morte non la vede; non la sa
“vedere”; è una bambina e se la suggerisce a se stessa, subito la
scarta come un’ipotesi oscena, immonda; quello che occupò
veramente Elsa fino al limite della psicosi è la vita: nonostante il
decadimento fisico, la vecchiaia. Scrisse negli ultimi anni: «Io non so
misurarmi con l’orrore della morte. La paura mi tiene fra quei corpi
che scelgono piuttosto la vita nel lager. Io, Manuel, resto chiuso qua
nel lager: dove ogni atto è una degradazione, e qualsiasi libertà si
sconta con la frusta. E il recinto del lager è una semplice rete di fili,
carichi di una corrente letale. Basterebbe toccarli con un dito e si è
fuori, al di là del lager. Ma al di là c’è l’orrore supremo della morte
che li rende, per i più, intoccabili. E dunque si rimane dentro il
carcere senza uscita, murati fra due orrori: la sopravvivenza e la
morte, l’una e l’altra impossibili».
Quando lessi «Aracoeli» rimasi impressionato da quanto fosse
autobiografico il personaggio, Manuel, che dice io: quasi un doppio
tragico e malato come appunto era malata Elsa; a tutti gli effetti la
rappresentava come è stata negli ultimi anni della sua vita. La
curiosità spergiura e volgare per il lettore consisterà nel chiedersi e
capire perché la Morante si è voluta identificare con un tipo umano
così mediocre all’apparenza, e soprattutto omosessuale dichiarato,
intellettuale fallito che va alla deriva in Spagna verso lidi incogniti
anche a se stesso per cercarsi un’identità nel passato, alla ricerca
della madre morta. Ma questi sono fatti critici: io sono stato
chiamato solo a testimoniare, nel bene e nel male, la grandezza di
Elsa, o anche il suo lato esterno, esteriore, privato, legato ai
detestabili pettegolezzi provvisori. Ma questo non c’entra niente,
qualcuno potrà dirmi, con la sua opera; certo, dirò io: ma le mie
poesie sono solo un atto ambiguo e ambivalente d’amore; segno di
una mia generosità che Elsa Morante, davanti al secolo e all’eterno,
non ha avuto con me. Ed ormai è troppo tardi per riparare qualsiasi
torto subìto.
*
Ho pensato anche alla strana coincidenza fra il recupero nei miei
cassetti di queste inedite poesie d’amore per Elsa, ed il fatto atroce
che nel frattempo stava morendo, o quasi. Io speravo sempre che
guarisse. Già una volta era avvenuto il miracolo: la storia di Elsa non
era ancora compiuta. Proprio un anno prima, lo stesso giorno della
sua morte, aveva vinto il premio “Medicis”. La sua gloria era salita.
Quei tre giorni che passai a ritrovare le mie poesie furono febbrili e
malati; non reggevo di stare in compagnia di Elsa; mi ammalai quasi,
e quando arrivai dall’editore ero stremato. Intanto Elsa agonizzava.
Schifano mi chiese qualche poesia su di lei, e mi raccontò che era
stato riconosciuto in clinica. Dunque Elsa era cosciente, e dunque
anche cosciente sarebbe stata al momento della sua morte definitiva.
Piansi. Qualcuno mi pregò di scrivere una poesia per la sua dipartita,
ma inorridii: non ne ero capace. Non trovavo lo stimolo: non sapevo
più rievocarla. Ero spento per lei. Non sapevo come chiamarla a me.
Lei era nel mondo dei più. Non avrebbe più scritto. Io ero un povero
infelice, un matto che si ostinava ancora a pensare a lei. Ora aveva
finito di soffrire, la morte, come per Leopardi, tanto invocata, era
arrivata. Invano poi, il giorno dopo, avrei letto molti giornali, anche
stranieri, per cercare un brandello di Elsa. Negli scritti di circostanza
non la trovavo più. Solo in qualche foto della sua mezza età, quando
io l’avevo conosciuta e frequentata, ritrovavo la mia Elsa, la mia
madrina letteraria, la gran cerimoniera che mi aveva introdotto nei
misteri delle lettere.
*
Deve essere entusiasmante per uno scrittore ricevere un viatico
verso la gloria postuma da parte di Cesare Garboli; lo hanno avuto,
fra gli altri, Parise, la Ginzburg, Sandro Penna e ora Elsa Morante.
Mi chiedo se, dal mondo dei morti, Elsa sarà contenta delle varie e
complicate interpretazioni del suo amico Cesare... Penso di sì, che il
tutto le sia piaciuto dall’al di là; d’altra parte, Garboli incarna fra gli
ultimi ormai in Italia, la figura del critico ottocentesco che giudica e
manda; temibile il suo giudizio e atteso talvolta invano: non scrive
mica di tutti, Garboli. Però c’è da dire che nonostante gli sforzi di
Garboli gli ultimi libri della Morante (la seconda fase, più tragica e
urgente della prima) non hanno mai ricevuto una sua interpretazione
definitiva, esaustiva... Non me ne voglia Garboli, se lo contraddico,
ma nell’ultima Morante c’è qualcosa di più del suo stesso destino
terribile, c’è la prefigurazione di quello che sta per capitare
all’umanità. Dunque la Morante, pur tradendo, alla fine, in parte, la
sua preziosa arte, è una scrittrice profetica, lungimirante: ha
scandagliato l’orrore del mondo di domani. Nel periodo insomma che
va da «Il mondo salvato dai ragazzini», passando per «La Storia» fino
ad «Aracoeli», la Morante ci dà un ritratto del mondo contemporaneo
e futuro veritiero: sembra sempre dirci che il sonno della ragione
genera mostri. Di qui anche la nostra reciproca simpatia, legata alla
contingenza, dal mitico ’68, da me vissuto in maniera dissociata,
l’artista che era in me, lacerato nel dubbio dell’azione. La Morante
ed io in quegli anni, gli anni della Contestazione, ci vedevamo tutti i
giorni. Lei stessa mi diceva che ero, in parte, per la mia carica
anarchica, il modello del personaggio Davide di «La Storia». Il giorno
della battaglia di Valle Giulia, maggio ’68, mi aspettò esultante ai
tavolini del caffè Rosati, a Piazza del Popolo, sotto casa sua. La
Morante, da sempre accusata di disimpegno politico, voleva
testimoniare una diversa forma di impegno, quello totale, dell’arte
messa al servizio della rivoluzione. E questo forse ha tolto ai suoi
ultimi libri la bellezza di uno stile magico e inconfondibile.
La sua fortuna critica, ragionata nell’indice da Garboli, mi sembra
abbastanza “sfortunata”, limitata per una scrittrice di così alto
valore; i motivi sono vari: o perché l’ha danneggiata essere la moglie
di Alberto Moravia (per venticinque anni!) o per il suo carattere
difficilissimo. Moravia diceva che quando la conobbe, Elsa era dolce
e remissiva, ma in seguito divenne tragica e ossessiva, aggressiva e
violenta, sicché da ultimo il suo celebre marito nella biografia scritta
a quattro mani con Alain Elkann ha confessato, poco prima di morire,
che desiderò addirittura di ucciderla: confessione gravissima e che
non fa onore a Moravia. Non è di poco conto studiare di uno scrittore
tutto quello che i contemporanei ci hanno lasciato come ricordo o
testimonianza, anche i pettegolezzi, anche le carte private, anche le
lettere, o le registrazioni, o le foto, se ci sono vanno bene. Un mio
rammarico è di non aver mai registrato le telefonate che mi faceva,
alle cinque di mattina, Sandro Penna. Di Virginia Woolf, anche per il
culto che le hanno votato le femministe, o di Oscar Wilde, o Marcel
Proust noi sappiamo tutto, anche troppo, e così anche di molti
scrittori italiani, come D’Annunzio o Pirandello: l’ora in cui si
alzavano, chi vedevano, cosa mangiavano, se andavano bene o male
di corpo. La scrittura può avere un rapporto persino, come il denaro,
con le feci trattenute! Ma per Elsa Morante si tende a rimuovere
(non succede invece per una sua rivale francese, Marguerite
Yourcenar), e appena si vuol far sapere qualche cosa della sua non
tanto (per me) misteriosa vita (che si svolse, tranne i viaggi, quasi
tutta a Roma, e in parte vicino a un personaggio pubblico come il
marito Moravia) ecco che qualcuno comincia a starnazzare, come
un’oca del Campidoglio per la lesa maestà della sua regina. Tra i
calunniatori (ma devo dire che essendo uno scrittore in proprio non
ci tengo a svelare segreti di nessuno, lo scrivo così solo per
incoraggiare alle biografie qualche studentessa ricercatrice), ci sono
dunque io, che pure ho scritto due libri romanzati su Elsa, «Angelo»
del 1979, e «L’amore felice», dell’86.
Non risulto mai in una qualsiasi nota biografica di Elsa, pazienza!
L’imperativo primo era di rimuovermi, eliminarmi completamente
dalla vita di E.M. E così facendo si immeschinisce proprio la svolta
epocale della sua letteratura che si fa registrare con «Il mondo
salvato» quando era fiorente l’amicizia di Elsa per me. Scrivo questo
non per polemizzare, ma per affermare una mia tensione ad esistere.
Non vorrei che a furia di stare zitto io venga del tutto cancellato non
dico solo dalla vita della Morante o di Pasolini e Moravia, ma dalla
mia stessa vita che si è inesorabilmente intrecciata, nel bene e nel
male, con la loro. Ed in questo mio breve sfogo vorrei anche sfatare
una leggenda che perseguita la Morante: che fosse cioè un’isolata,
quando invece è vero tutto il contrario, frequentando fin quasi si può
dire agli ultimi suoi giorni di vita personaggi emergenti della cultura
di allora, da Agamben, a Sofri, da Carlo Cecchi a Fofi, dalla Cherchi a
Calasso, da Fleur Jaeggy a Berardinelli, dalla Ramondino a Palandri,
alla Cavalli. Tutta gente che in seguito la ricorderà e celebrerà. Elsa
amava i giovani, la gioventù, inesorabilmente.
E nella sua estrema ricerca degli ultimi anni è riuscita a coniugare
una suprema moralità che credeva fosse il fine ultimo dell’arte e la
proiezione dei simboli narrativi della sua crisi esistenziale prodotta
dalla morte di Bill Morrow e l’avvicinarsi della vecchiaia e della
morte. Soprattutto in «Aracoeli» questo paradigma è evidente: che
non c’è scampo dallo sterminio in massa che la morte produce sui
viventi e così la ricerca, da parte del protagonista, della madre
diventa il viaggio nel passato della Morante stessa alla ricerca delle
prime ragioni del vivere. Non si può dunque fare a meno del’ultima
produzione della Morante che si pone in atteggiamento critico e
forse di ripudio della prima. Certo, strada facendo, la Morante ha
perso quella freschezza narrativa che aveva all’inizio ma ha
acquistato un peso che in «Aracoeli» l’ha portata a confrontarsi,
secondo me, con Céline. Ricordo che a Piazza Navona dove spesso
andavamo a prendere il gelato con Sandro Penna, – piazza che Elsa
diceva essere la più bella del mondo – la Morante insisteva molto sul
nesso fra bellezza e verità come fine dell’arte, e si sdegnava se
qualcuno la tacciava di scrittrice d’evasione, non impegnata. Per lei
l’impegno consisteva nel sottoporre il suo demone ad una ricerca
esistenziale che la portasse a non confondere il piano della scrittura,
ovvero del linguaggio, a quello della verità: atteggiamento che
poteva lui solo riuscire a rappresentare la realtà, non vista come un
feticcio da dissacrare, ma come apparizione da adorare. Non so se
sia stata sempre all’altezza della sua poetica, non sta a me dirlo, ma
il suo tentativo di superare il neorealismo, l’avanguardismo, a lei
contemporanei, si pone come sacrificio di un’artista che aveva grandi
doti per raccontare anche soltanto la favola della nostra umana
confusione, del nostro disperato e assurdo agitarci in un mondo ostile
e nemico.
Nota di Davide Bracaglia:

Il presente volume riunisce, in parte rielaborate, in parte trascritte,


composizioni ordinate lungo un arco di tempo che va dal 1972 a oggi.
La ragione possibile di una tale riproposizione da parte dell’autore si
lega alla volontà di riunire per la prima volta insieme frammenti di
un rapporto, biografico e ideale, che lo ha legato con E.M. Le
composizioni già edite provengono da Piccolo canzoniere per E.M.
(Edizione del Giano) e da Serpenta (Mondadori).
Questo materiale viene qui riunito per la prima volta, in una silloge
ideale, a siglare in maniera in qualche modo definitiva il bilancio di
un legame che è stato sì quotidiano, ma anche intellettuale e poetico.
Alcune composizioni («Dopo una rottura», «Una voce roca e
assolata», «Dopo “La Storia”», «O Regina», «Oltre l’oblio», «A Elsa
tentata di morire», «Invettiva», «L’estremo riposo» e «Dopo la fine»)
provengono dalla precedente raccolta pubblicata dalla stessa
Edizione del Giano. Mandate in stampa prima della morte di E.M.,
infatti, sono state però edite nel 1986 e successivamente rivedute e
riscritte per l’edizione mondadoriana di Serpenta nel 1987. Assenti in
Serpenta ma pubblicate nel Piccolo canzoniere erano invece «Non
amare i mortali» e «Amato o no».
Tra le più notevoli e interessanti variazioni testuali dell’attuale
materiale poetico risultano essere, inoltre, una poesia del 1972, «Una
voce roca e assolata», il cui titolo in Serpenta risultava essere
divenuto «Una voce roca e assoluta», segno evidente di un
ripensamento da parte dell’autore in vista di un effetto meno
perentorio e più adatto alla comunicazione diretta, come del resto è
nelle intenzioni artistiche di tutto il presente ciclo.
Oppure, la caratterizzazione dell’interlocutore celato sotto lo
pseudonimo di Serpenta, nella presente stesura dà luogo (in «A Elsa
tentata di morire» e in «Dopo “La Storia”») a un particolare uso delle
maiuscole e dei corsivi, rispetto all’edizione precedente, finendo con
il connotarsi come un tono affettivo più elegiaco e meno astratto.
Premeva evidentemente all’autore qualificare il rapporto con il
destinatario nella maniera più diretta di un legame vissuto giorno per
giorno. Si notano inoltre alcuni cambiamenti nei titoli nonché
aggiunte e ripensamenti formali («Una voce roca e assolata» reca in
testa un verso assente in Serpenta, oppure in «Dopo “La Storia”» al
verso 18 si legge potevi ove prima era dovevi: onde attenuare il tono
più impersonale dell’edizione mondadoriana). Come pure in «O
Regina», al quinto verso della seconda strofa si legge sburellata,
neologismo di matrice dantesca, invece di sbudellata attestato dal
volume del 1987. Inoltre in «Oltre l’oblio», al primo verso della
ultima strofa si ha saltimbanco in luogo di cretino.
Per finire, tutta la sezione di «Odi et amo» è recentemente
apparsa, quasi del tutto rielaborata, in una composizione, «Maestà»,
pubblicata nell’ultima raccolta di Dario Bellezza edita da Garzanti, il
Libro di poesia. Ove, tra l’altro, è presente l’attuale «Se io fossi
donna» con titolo immutato dove, in modo più esteso e visionario,
viene aggredita la struttura linguistica della poesia, dando luogo a
una composizione totalmente diversa. Qui, notevoli sono tra l’altro
una sostituzione di verso al numero tre (invece dell’attuale «che
domina che cosa vuol dire di se stessa» si leggeva, nel Libro di
poesia, «che domina cosa vuol dire di sé, significar»), nonché
l’aggiunta, anch’essa forte di suggestione dantesca, di tutto il verso
successivo «per verba non si può dopo l’ideologia». O i quattro versi
interamente assenti nella presente edizione (tra il verso 10 e il verso
11) ma restaurati nella pubblicazione di Garzanti.
Per l’attuale occasione l’autore ha aggiunto tra l’altro cinque
inediti, «Elsa e Neruda», «A Bill, dal 1967 a Elsa», «Insieme a Elsa e
Aldo», «Hitler» e «Tu sei persa», reputando essere giunto il momento
di affrontare in maniera più diretta, trascorso un certo numero di
anni, fatti e persone che drammaticamente hanno scandito i tempi di
una vicenda umana e di un’amicizia ormai rese pubbliche.

□ Poesie d’amore (indicata con PA ), con un’introduzione di


Silvana Castelli, in L’anno di poesia, a cura di Roberto
Mussapi, Jaca Book, Milano 1986, pp. 155-70. Sequenza di
sette poesie: le prime quattro (L’amore uccide ciò che ama;
Arturo ritrovato col tuo cappelletto; Scriverti è starti un po’
vicino; Per Pasquale Ciliento) sono state accolte in Libro di
poesia in versioni che si discostano notevolmente da queste
e che sono qui riproposte integralmente. Le ultime tre
(Fuggono tutti i giorni miei; Non so dove andare, dove
dirigere i miei fiati; Oh verde senza passione per chi lo
scaccia) sono già presenti in S85 , quindi in Serpenta (1987),
ma qui sono datate in calce: la prima «7 giugno 1985», le
altre due «1985».

□ Undici erotiche, L’Attico, Roma 1986 (indicata con UE ).


Plaquette di 22 pagine, nella collana «A due voci» diretta
da Fabio Sargentini e Antonio Debenedetti, copertina di
Sergio Ragalzi. Nel colophon: «Di questo libro sono state
stampate 500 copie non numerate, formato cm. 13x18,
dalla Litografia Bruni per conto de L’Attico Editore. Inoltre
sono state stampate 100 copie numerate, formato cm.
21,7x30, contenenti ciascuna quattro litografie originali di
Sergio Ragalzi, numerate e firmate a mano dall’artista, e
stampate da Marco Noire in Torino».
Privo di indice, il volumetto comprende, con
numerazione romana da I a XI, poesie che andranno
perlopiù a comporre la sezione Lodi del corpo maschile in
Serpenta: Il tuo corpo adorato più non tocco; Giovane
laggiù nel tuo letto; Ragazzo laggiù, tesoro nascosto; Vuole
la poesia come un bambino; Anche perché sono
innamorato; Né maschile né femminile, il suo sguardo; Non
è realtà che m’intriga; Anima vedova senza veggenza;
Ormai non resta che battere; Ancora riesco a scrivere
d’amore; Numerato i peli del tuo pube, quest’ultima mai
più accolta in volume (vedi Appendice).

□ Serpenta, Mondadori, Milano 1987. Volume di 96 pagine.


Nel colophon: «“Serpenta” / di Dario Bellezza / Collezione
Lo Specchio / Arnoldo Mondadori Editore / Questo volume
è stato impresso / nel mese di marzo dell’anno 1987 /
presso la Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. / Stabilimento
A.G.V. di Vicenza / Stampato in Italia – Printed in Italy».
Risvolto di copertina anonimo, ma attribuibile a Marco
Forti:

Un’energica, dolorosa omogeneità regge Serpenta di Dario Bellezza,


libro percorso da un senso di morte che quotidianamente si consuma
nel vivere, mina il vivere e lo rende miseria, eppure unico e sublime
patrimonio di chi scrive. Poeta solo, smarrita ormai la giovinezza,
dannato dall’omosessualità un tempo gloriosa ed ora anch’essa
trepidante e sconfitta, il protagonista di questi versi sa che l’ansia e
la passione hanno divorato il passato, e con esso anche la possibile,
lacerata felicità di un tempo. Sintesi di questo stato d’animo, di
questa nuova consapevolezza è nella bella e quasi funebre poesia
intitolata «Verde», che apre alla seconda delle tre ampie sezioni che
formano il libro, intitolata «Lodi del corpo maschile». Quasi il
racconto e romanzo in versi di una vicenda che riduce il poeta
all’attesa amorosa, al ricordo dell’amore per un corpo efebico sempre
pronto a sfuggirgli, a lusingarlo, a scomparire. Un’altra vicenda, che
consente all’autore di trovare il proprio riscatto nella sofferenza,
anima la sezione che dà il titolo al volume, rievocazione di un
impossibile amore per una Donna prossima a morte o già scomparsa
nella morte definitiva. Di questo amore il poeta ricorda i sensi che
non poterono congiungersi, ma anche i sentimenti che suscitarono
l’idillio e a momenti la passione, ora angelica e ora diabolica, che
sapeva divenire musica di grande orchestra. È qui, certo, uno dei
luoghi più alti della poesia di Bellezza, dominata in tutto il libro da
un’ombra di malinconia. Un alternarsi di accensioni, di invocazioni
che sanno infine aprirsi alla meditazione, al grido dell’equilibrio
ferito, della sua declamata commedia.

FORSE M’IMPIGLIO IN PIGRIZIA, NON RIESCO

v. 5 ricordi] ricordi: S85


v. 6 se danno] quelli che danno S85
v. 7 dimenticati: un fiume] dimenticati. Un fiume S85
v. 8 a Roma città di una vita] a Roma, la mia città di una
vita. S85

ROMA 1986

Testo di Roma, in S85 :

Ovunque si può mangiare; ovunque si può sedere:


il silenzio è dei tempi, e la buona morte
sorride all’angelo della vita
come fosse lo specchio della memoria
a falsare la prospettiva da riprendere
come un film per rivedere la vita
dunque viverla, dunque rispedirla al creatore
che non crea più nessuna creatura!

MA IL QUOTIDIANO INSISTE. ED IO VOLO

v. 8 quotidiano:] quotidiano S85


v. 13 gioioso immondo] porco e immondo S85
v. 14 di pioggia:] di pioggia, S85
v. 16 scorre] corre S85

POI CI SARÀ LA NEBBIA, VERRÀ L’INVERNO

Testo di S85 :

Poi ci sarà la nebbia, verrà l’inverno:


la stufa arderà piano la legna; noi soli
incatenati alla solitudine rimpiangeremo
il vizio di saperci dannati... No,
invero voglio distanza, non amo mischiarmi
in sentimenti con gli altri. In una parola:
non so amare. La mia religione dunque non fu
l’amore, in questo dopomillennio di paure
scontate che di notte fanno capolino
nei sogni di un malato.

ORMAI NON RESTA CHE BATTERE

In UE si attesta come variante de Il tuo corpo adorato più


non tocco. Infatti tra i vv. 6-7 sono stati espunti i seguenti
versi:

con l’acqua che bolle sul gas


bolle la sudicia pianta
per gli sporchi capelli
di lontano borbotta nella pentola
ci chiama senza rancore
di essere lasciata lì
a consumare tutta l’acqua

NON È REALTÀ CHE M’INTRIGA

In UE il testo non è suddiviso in strofe.

ANIMA VEDOVA SENZA VEGGENZA

v. 2 sconfitta –] sconfitta UE

VERDE

In tondo in S85 . Tutti i vocativi «O» sono qui resi con «Oh».
La terza e la quarta strofa sono unite.
v. 9 dunque] dunque. S85
v. 15 fortunati preziosi immortali] fortunati, preziosi,
immortali, S85
v. 32 divinità] Divinità S85
v. 34 scivoleremo] scivoleremo nel duro gorgo. S85

IL TUO CORPO ADORATO PIÙ NON TOCCO

v. 5 smessi;] smessi: UE
v. 8 pentola –] pentola UE
v. 9 borbottando ci chiama] borbottando che ci chiama UE
v. 16 stanza.] stanza UE

SE È GIOVANETTO IL CORPO MASCHILE

v. 1 giovanetto] giovanetto, S85


v. 8 d’usignolo] di usignolo. S85

ANCORA RIESCO A SCRIVERE D’AMORE

In UE il primo verso compone coi successivi un’unica strofa.


v. 2 Come] come UE
v. 8 opposte] opposta UE
vv. 9-11 gioie / della fugace pallida mano; / o corpo
dell’amore mio salvato] gioie della / fugace mano, oh corpo
dell’amore mio UE

ANCHE PERCHÉ SONO INNAMORATO

v. 7 infelici] infami UE

VUOLE LA POESIA COME UN BAMBINO

v. 3 urlare] cantare UE

RAGAZZO, LAGGIÙ, TESORO NASCOSTO

v. 4 o scempio] oh scempio UE
v. 6 manipolato] masturbato UE
v. 18 penso: potessi] penso. Potessi UE

SOTTOPONTE

In C e in CA la seconda strofa si suddivide in due strofe a


partire dal v. 22.
v. 21 per la cattiva polizia che s’aggira!] per la cattiva
madre polizia che si aggira! C CA v. 30 creatura
teneramente affaticata] ragazzo teneramente affaticato C
CA

GIOVANE LAGGIÙ NEL TUO LETTO

Testo di UE :

Giovane laggiù nel tuo letto


ingordo di ragazzo non consoli
la mia tetra malinconia,
o il contagio dei giorni futuri
tutti cancellati dal tempo
finale del supplizio

Il tuo corpo è di sale


leccato invano nel letto
delle sabbie; il tuo sesso
è d’oro, i peli un bosco
lontano; io salgo e scendo
le scale del tuo ardore.

Dopo il corpo è vuoto


sterile il suo bosco
dove ignaro dormi
Il letto disfatto e pieno di attorcigliate coperte
intorno alle tue gambe snelle,
al sesso dritto come un fuso
sesso adorato, vilipeso
mortale mia sera

IL PORTO CLANDESTINO AI BACI

v. 7 ere] ore S85


v. 15 eletti] eletti. S85
FUGGONO TUTTI I GIORNI MIEI

In tondo in S85 .
v. 2 o oscura luce dagli occhi incantatori.] o luce oscura
degli occhi incantatori S85
v. 4 una volta:] una volta S85
v. 5 i baci, gli abbracci, i turbamenti] i cani, le gazzelle, i
turbamenti S85
v. 10 vola via] vola via... S85

UNA VOCE ROCA E ASSOLUTA

In PC e DP è aggiunto un primo verso: «Non ho fatto in


tempo a dirti nulla».
v. 1 Sprecare] sprecare PC DP
v. 8 cesellato] cesellata DP
v. 10 innocente:] innocente PC DP
v. 12-14 Non ho proferito / giuste libertà al mio inconscio /
e tu sai più di quello che traspare:] Non ho proferito giuste
/ libertà al mio inconscio e tu / sai più di quello che
traspare: PC DP
In PC DP il v. 15 segue il 14 senza spazio tipografico.
v. 16 maternità:] maternità PC DP

DOPO UNA ROTTURA

v. 1 nella speranza] con la mia speranza PC DP


v. 6 tormento] tormento, DP
v. 7 lei] lei PC DP
v. 8 prova] prova, PC DP
v. 12 e tu, Serpenta,] e lei PC DP
v. 14 Destino».] Destino. PC DP
v. 17 ingiustizia.] ingiustizia». DP

QUANDO SARAI CHIAMATA IN PARADISO (PERCHÉ


In PC DP i primi due versi costituiscono un’unica strofa con i
successivi.
v. 3 un’eco] un’Eco PC DP
v. 4 un’eco] l’Eco PC DP
v. 5 per ringraziarti] a ringraziarti PC DP
v. 18 dovevi fare] potevi fare PC DP

COME NON È VERA LA VERITÀ RACCONTATA

In PC DP è aggiunto un primo verso: «Oh, sapessi come sono


infelice!».

RIPRENDIAMOCI LA VITA

Il testo di PC DP è in tondo e composto di un’unica strofa.


v. 7 e cireneo] o cireneo PC DP

OLTRE L’OBLIO

v. 8 normale,] normale PC DP
v. 15 il cuore] il mio cuore PC DP

REGINA DI MORTE

In PC DP è assente la data in calce «1975».


v. 15 più:] più, PC DP
v. 17 sbudellata] sburellata PC DP

A SERPENTA TENTATA DI MORIRE

Il testo è in tondo in PC DP .
v. 4 distruzione] distruzione, DP
v. 13 per questo] Elsa!; per questo PC DP

IL RICORDO SMEMORA FUORI DEL TEMPO

Testo di S85 :
Il ricordo smemora fuori del tempo
il corpo decade senza fretta
lì nella campagna m’aggiro
pauroso di restare, fermo
il corpo decade ma con giudizio
la testa è pesante, il cuore fermo
il sole quello di tutte le estati
sconfitte e vittoriose in città
sperando di sfuggire alla morsa.
Idiota che ascolti le canzoni
di dieci anni fa fermati
ad ascoltare me liquido emblema
del tempo che s’aggira fermo
di muoversi contento per gli umani
assediati da morti e ancora morti
senza elemosina piangendo il domani.

Testo di Non so dove andare, dove dirigere i miei fiati in


S85 :

Non so dove andare, dove dirigere i miei fiati


stanchi e voluttuosi di perdente sconfitto
della vita, ma celesti sogni mi sfiorano
indicando la vera via da seguire, fuga in avanti
ordine sparso di eventi, musica sublime
alle mie orecchie esercitate di satiro
artista e assassino. Basta parlare di me,
pensiamo al futuro, dove se sono previsto
o scongiuro!, la verità di un attimo calma
il passato splendore degli eventi e fiati
che ritornano impulsivi fino alla fine.

L’ESTREMO RIPOSO

Le prime tre strofe ne compongono un’unica in PC DP .


v. 3 O celeste] Oh! Celeste PC DP
v. 13 un amico] l’amico PC DP

DOPO LA FINE

Il testo è in tondo in PC DP .
v. 2 dell’agonia,] dell’agonia terribile, PC DP
v. 3 giullare] giullare, PC DP
v. 8 vai] va’ DP

Libro di poesia
□ Colosseo, Barbablù, Siena 1982. Plaquette di 28 pagine,
n. 16 della serie «Quaderni di Barbablù». Privo di indice, il
volumetto comprende la serie: Colosseo; Invettiva;
Naufragio; La fine delle fini; Amore (con il titolo Nella città
di Virgilio in Libro di poesia); Eros; Un nemico della poesia
(mai più accolta in volume, vedi Appendice); Al circo
Massimo; Sottoponte (poi in Serpenta, 1987, con dedica
«Ad Aldo Busi»); Insieme a Elsa e Aldo (mai più accolta in
volume, vedi Appendice); I giovani padri. La stessa
sequenza è mantenuta in Colosseo. Apologia di Teatro. Alle
pp. 26-27 la nota di Dario Bellezza:

Mi sono chiesto, ritrovando questo mazzetto di miei versi in un


cassetto pieno di polvere – versi che potevano datarsi verso il ’68,
anno fatidico e perverso quanto mai, e in più, fatemelo sospirare,
avevo solo poco più di vent’anni – mi sono chiesto, ripeto, perché non
li avessi inclusi nel mio primo libro Invettive e licenze che è del 1971:
forse mi sembravano troppo “attuali” o “audaci” per i tempi; forse
non c’entravano per niente con la struttura interna di quel mio
fortunato libretto; o forse allora non mi andavano, mi dispiaceva
l’erotismo affogato, la provocazione a tutti i costi, il “maledettismo”
ostentato: erano lì immoti a ricordarmi troppo “vissuto” o troppo
“privato” come si direbbe oggi. A rileggerli ora che è passato tanto
tempo credo sia giusto pubblicarli (in parte finirono in riviste
d’epoca) da “soli”, fuori da qualsiasi libro: mi accingo a pubblicare
infatti altri due libri riassuntivi di tutto il mio fare poetico fino ad
oggi, «Libro d’Amore» per Guanda; e «Io» da Mondadori, che
raccoglie tutto quello che ho scritto di valido dopo «Morte segreta».
C ’è in me una volontà di fare il punto, di cambiare aria proprio in
un’età che vuole confronti e autocritiche per andare avanti; se
convenga insomma essere poeta oggi in un mondo destinato alla
follia barbara della sua distruzione per mano nemica, Atomica o
altro; non conviene, è la risposta, la mia, ma è stato così, in un’altra
vita, se mai ci sarà data, potremo essere diversi, senza alcuna follia,
ma ora... Ecco, questi vecchi versi mi intristirono, ma mi resero fiero,
quasi protervo: io non avevo tradito il mio ultimo e più radioso
vangelo: ero quello lì, il ragazzo che usciva fuori prepotente nel suo
errore di sbagliare sempre, come un personaggio di romanzo
neoromantico più che poeta. Com’ero da giovane? Ero già
Postmoderno dopo le ubriacature della Neoavanguardia letteraria;
ero postmoderno nel gesto, nella “vita”, straparlando di morti e
rinascite. Ero postmoderno nel sesso visto come vuoto residuo di
un’incarnazione passata; nel sapermi diverso-non diverso in tutte le
contaminazioni degli Eros e degli Stili. Questi vecchi versi
racchiudono oltre al sapore della mia trascorsa giovinezza anche un
modo di concepire la poesia assoluto e intrigante, certo vicino a
Rimbaud e a Dylan Thomas, a Kavafis e a Pasolini: i miei maestri del
tempo. Ora metterli insieme mi sembra rendere omaggio ad un me
stesso che non c’è più, oltre che ai miei maestri: mi sembra di voler
adorare il passato: questo passato inimitabile che è l’infanzia di un
poeta e di una poesia.

□ Colosseo. Apologia di Teatro, Pellicanolibri Edizioni,


Catania 1985. Volume di 88 pagine, n. 9 della collezione
«Inediti rari e diversi» scelti da Dario Bellezza. Il colophon
riporta: «Finito di stampare nell’aprile 1985 / da Grafiche
Signorello S.r.l. – Catania / per conto della Pellicanolibri
Edizioni». Risvolto di copertina di Anna Maria Galvagna:
Colosseo e Apologia di Teatro risalgono agli anni fra il ’68 e il ’69.
Versi, nel primo caso, pièce, nel secondo, che testimoniano, anche dal
punto di vista filologico, la prima produzione di Dario Bellezza, allora
appena ventenne negli anni della contestazione.
Scrive l’autore a proposito di Colosseo: «Questi vecchi versi
racchiudono oltre al sapore della mia trascorsa giovinezza anche un
modo di concepire la poesia assoluto e intrigante, certo vicino a
Rimbaud e Dylan Thomas, a Kavafis e a Pasolini: i miei maestri del
tempo». E racchiudono ancora la sofferenza del giovane poeta che
non riesce a partecipare ai riti dei suoi coetanei perché gli è preclusa
la capacità a credere in un futuro migliore: «E del dolore l’eco più
assordante è che non venga risarcito – mai».
Apologia di Teatro è invece un testo d’invettiva precipitato d’un
fiato sulla pagina scritta e per questo intatto nella sua rabbia e nella
sua carica eversiva. Il tipo d’invettiva usata, che talora fa pensare ai
giambi velenosi di certa lirica catulliana, col fare volutamente ricorso
ad un linguaggio crudo, è perfettamente strumentale alla sferzata
“contro” che l’autore imprime ad ogni riga. Contro il perbenismo,
contro la falsa morale, contro la gretta religiosità, contro..., perché
«l’unica forma di lotta contro la società costituita [...] è vendere cara
la pelle». A tutto ciò va aggiunto quel pizzico di surreale che pervade
ogni pagina, quel mistero che deriva dal non poter più capire se (e in
tal caso quando) la pantomima inscenata dai detenuti del carcere
minorile lascia il posto alla rappresentazione del vero. Se poi teniamo
conto che siamo di fronte ad un’opera di teatro, il gioco delle finzioni
si complica. Ma in fondo il suggerimento di Bellezza potrebbe essere
che non vale la pena interrogarsi o affannarsi nel tentativo di
separare i due piani, del reale e dell’irreale, che non sono poi così
distanti come spesso si crede.

A p. 7 la dedica a stampa: «A Elsa Morante / amica del


tempo». Alle pp. 11-12 la Nota dell’autore, che riproduce
con minimi aggiornamenti la stessa alle pp. 26-27 di
Colosseo.
□ Poesie d’amore (PA ), vedi Serpenta. Le prime quattro
poesie sono state accolte in Libro di poesia in versioni
completamente riscritte (L’amore uccide ciò che ama →
Dice O.W., pp. 67-68; Arturo ritrovato col tuo cappelletto →
Arturo R., pp. 69-70, con il testo interamente in corsivo;
Scriverti è starti un po’ vicino → Cuore di pietra, pp. 71-72;
Per Pasquale Ciliento → La patria è la lingua, pp. 47-48); la
prima stesura è dunque riprodotta integralmente.

□ Piccolo canzoniere per E.M., vedi Serpenta.

□ Liliana Petrovic, Roma, Edizione del Giano, s.d. (indicato


con LPG ).

□ Libro di poesia, Garzanti, Milano 1990. Volume di 126


pagine. Nel colophon: «Finito di stampare / il 20 gennaio
1990 / dalla Garzanti Editore s.p.a. / Milano». Risvolto di
copertina di Franco Brevini:

Nella sua sarcastica referenzialità, il titolo di questa sesta raccolta di


Dario Bellezza rammenta il paradosso dello scrivere versi in una
società in cui la poesia conta sempre meno. L’unica sfera in cui essa
sembra conservare un residuo di legittimità è quella dell’io: «eccomi
[...] / affondare il bisturi della poesia / sopra il mio corpo lasso».
Vivisezione, dunque, più che autoconoscenza. Le irregolari partiture
strofiche del testo lungo, al quale il poeta romano ritorna, dopo io
(1983) e Serpenta (1987), appaiono lo scenario di uno psicodramma,
in cui il desiderio erotico si fa contorcimento e gesticolazione.
Attraverso gli inferni della devianza metropolitana, tra interni
asettici e mortuari, caserme e stazioni, il poeta trascina un disperato
desiderio di abbattere il muro di una solitudine che si richiude ogni
volta su di lui. Ma insieme sconta l’impossibilità della tragedia, se a
contrapporsi è il proprio doppio ironico, come nel Dialogo fra un
attore e un poeta innamorato, recitato da due dramatis personae, che
dibattono l’inconciliabilità vitalistica di letteratura e amore. Tutta la
raccolta è segnata dallo scontro di un personaggio, che vorrebbe
essere sublime, con una realtà comica, bassa, in un clima di sfacelo,
in cui soccombe definitivamente la mitologia romantico-decadente
del poeta («Sono un grumo di orrore / e vivacchio fra i miei gatti /
ruffiani»).
«Il viaggiatore d’ombra», già conosciuto in io, si misura qui con il
declino della giovinezza, che aggiunge una nota di dolente distacco,
all’origine di una pronuncia più ferma e desolata, non senza punte
gnomiche. Ma non manca neppure la rabbiosa e straziata
invocazione di un paradiso dei sensi, da cui il protagonista patisce
l’esclusione. Anche in Libro di poesia, invariabilmente in prima
persona e al presente, Bellezza si conferma poeta dell’urgenza, non
meno che della pesantezza e dell’opacità del vivere. Quanto Penna
era solare e greco, altrettanto Bellezza è notturno e barocco. Ma egli
sa che soltanto ponendo in opera una serie di mediazioni
manieristiche può evitare che il peso della sua stessa materia
autobiografica lo schiacci. E infatti il profilo stilistico della sua
scrittura appare ancora una volta baudelairianamente caratterizzato
dall’impiego di strumenti aulici («il fuggire canto da ogni beltà»),
inclinanti verso il bisticcio e la figura etimologica, per la
rappresentazione di un’acre esperienza del corporeo.
Delimitano l’ultima sezione, in cui Bellezza torna a misurarsi anche
con la poesia civile, due testi, che recuperano uno schema illustre
come il poemetto deambulatorio di tipo foscoliano e carducciano, poi
ripreso dalle Ceneri di Gramsci. I luoghi presso i quali il poeta
pronuncia il suo discorso sono il Colosseo e il circo Massimo. Rovina
e notte e «un pianto / senza lacrime» segnano l’estremo approdo di
questa epopea della vita nera, posta di fronte al tutt’altro che solido
nulla di questi anni.

□ Donna di Paradiso, vedi Serpenta.

MAESTÀ

Testo di PC DP :
Chiuso e stretto nella mia follia derubo
il tempo stretto della mia arida ardia:
non c’è ricerca ma vuoto,
con nuove parole senza senso
ahimè festeggiando in excelsis
il mancato trasloco, burla
in vitro, in salamoia, in furore
in accidente mortale, in clausura:
questo fu il tempo dei vani strepiti
dell’assenza di poesia, del cercare
e non trovare, mentre fuori piove
la pioggia dei Secoli e delle Apocalissi
col vento lacero su uno straccio
bagnato come me in ascoltando
la vita come fu o sarà
menzognera estate o libro di virtù
sciagurato.
Già aussi l’ivresse paranoïque
dovrei usare per raggiungerti
o amarti, bella deità, sconfino morente
del mondo, zoccolante vecchietta di morte
e rinascita effimera, caduta, dici, per tua
volontà e così cercando di negare il Dio
al quale vorresti credere, oh Elsa.

T’incontro fra mille impegni


mondani ancora a piazza di Spagna
aggredendo tuo marito, inneggiando
al Cazzo, al melofreno della viaccia zozza
in zoccoli viola di morte, portamale
sventurata come fosca strega di Medioevo
incipiente, ma il mondo, spero, non finirà
come ti auguri, sapendo che devi lasciare
tutte le primavere e tutte le età.
Io non mi crederei spiando, vorrei
inventare favole sublimi, tenerti testa
in maliziose inoffensive malvagità.
[Il diavolo esiste, e anche il Peccato;
tu ne sei l’incarnazione più vorace,
anche se giornali settimanali alla moda
non fanno che negare ogni sua sostanza
e immanenza nel lurido mondo di quaggiù.]
Decidere di non più inventare, salpare
verso incogniti lidi, cercare
la zazzeruta deità che non sei tu,
forse sta in Eldorado. Dio! Manchi,
mancai, amai l’approdo di te stessa, cioè
me nei verdi antichi anni miei
mentre scirocca la Ciela, la figura
del Male, la troia vivente
e vacante nella rilettura infausta
del Duemila o press’a poco, prima
che tutto si rimescoli e sperda come il vento
nella foresta dei simboli vuoto di Lui
il Dio dei Mari, dei Cieli e delle Stelle!
Oh volgarità, bisogno d’inviolate labbra;
o viso amico, o amica, o ferita, o bisogno
di morte, o tranello letterario, o la sua
metafora consustanziale al Tavor Uno,
alla Modalina, al Transene, catività
ulcerosa, o quindi, o voli, o voilà,
proprio perché nessuno capisca
proprio perché nessuno sappia,
scomparendo, viaggiando, illimitati.

SE IO FOSSI DONNA

Testo di PC DP :

Se io fossi donna intanto, se donna fossi


e non sono: chiedetelo a donna la donna
che domina che cosa vuol dire di se stessa:
io, figlio del mio secolo d’oro e bomba
chiederei a me donna di scrivere
i capolavori che agli uomini, ai maschi, sì
di genere maschile intendo, sono vietati
come la peste oh donne vituperate
affannate dall’uomo che le circuisce,
vi seduce, donne, e vi lascia
e dunque potete solo riscattarvi
nell’Arte e nel Sublime, tutte
fiere di santità, come sante e caste
perché la castità porta in Paradiso:
quello sulla terra, dei vivi,
e non dei morti mortali senza sesso
nel buio e tetro ALDILÀ !

Se fossi donna uscirei nuda


svestita almeno per strada
per mostrare il mio sesso inutile
e commosso ai passanti inquieti
e chiedere invano un obolo, un passaporto
per la vita da vivere e non vissuta.

Se fossi donna vorrei essere Elsa o Anna


senza martiri o sofferenze gratuite
o Virginia sposa esemplare senza il marito
noioso e protettivo: spogliarsi
dei mariti bisogna, o donne, per crescere,
e moltiplicarsi nella vita dello Spirito!
Abbasso Katherine senza il mal sottile,
come Kafla: altra donna mondiale, un po’
lesbica, diciamo la verità.

Vorrei essere quello che sono:


ogni donna è un uomo e un uomo è una donna:
filosofia insegna a dirlo, gridarlo
sotto i cieli della sera, davanti
al Dio sconosciuto e adorato, o adorabili
donne fuggenti negli abissi celestiali
del Mondo scorrente verso il Nulla
poco glorioso.

Se fossi donna come sono e fui


E sarò per sempre, vorrei avere un figlio
Clandestino, un figlio mio: me stesso:
trionfo di Narciso ucciso dal Padre
Despota ingiurioso Padre della vita
Nata male, nata morta!

I GIOVANI PADRI

v. 14 morte:] morte CA
v. 22 del loro cuore] del loro / cuore C CA

DIO

Il testo è in tondo in PC DP e non è suddiviso in strofe.


v. 4 sonno] sogno PC DP
v. 5 Sogno] sogno PC DP
v. 7 raggelavano] consolavano PC DP
v. 11 sincero] vero PC DP
v. 12 ragione silenzio] ragione o silenzio PC DP

LA PATRIA È LA LINGUA

Testo di PA , datato in calce «1984».

PER PASQUALE CILIENTO

Una mattina il bene e il bello si confondono;


nessun urrà per l’opera inaudita e inudibile
da chi come me non spazia più nei sentieri
della poesia. Forse sbagliai arte, la sovrumana
pittura non cercai con accanimento; non avevo
mestiere; così passo ad invidiare i pittori.
Ma quali? Quelli mentali, tutti figurativi
e anormali, astratti e immaginosi, vigliacchi
nel rifiuto dell’antico e della tradizione,
ma virili nell’accettazione del Caos
del mondo moderno. Creatori d’immagini, sì,
beati, mentre il poeta s’arrangia anche
in parole avanguardistiche affermando, magra
consolazione, che la sua patria è la lingua!
Ciliento, scuoti il poeta, discreto infantile
tessitore d’inganni, scuotilo, con la tua magia:
fallo fuori con gli occhi della mente bruta;
calpesta l’orgoglio di chi rimane attaccato
alla Realtà! La Realtà non esiste, ma esiste
un mattino in cui ci si sveglierà perfetti
e ciechi nella ridondanza dei corpi,
o della loro fresca resurrezione. E noi saremo
là, angeli di fiamma e di ghiaccio, a cantare
la gloria del Signore per aver saputo
dipingere l’orrore del mondo moderno,
Lucania o New York non ha importanza.

O, LE SALUTARI CORRENTI DELLA GIOVINEZZA

v. 1 O, le salutari] O le salutari LPG


v. 3 la vita che scorre!] la fine che scorre! LPG
v. 24 sereno e saggio;] serena e saggia; LPG
v. 26 colore forte] color forte LPG

NELLA CITTÀ DI VIRGILIO

In C e in CA le ultime due strofe ne compongono una sola.


v. 3 ricordi] ricordo C CA v. 24 alla eterna] all’eterna C CA v.
31 tra] fra C CA v. 32 – il nulla] il nulla C CA

DICE O.W.
Testo di PA , datato in calce «1985»:

L’amore uccide ciò che ama:


tu sei lontano, il ricordo di te mi assassina
la mia o tua autodistruzione dicesti
in un momento di vita, guardandomi dal letto sfatto
sotto la coperta giapponese; non ho avuto coraggio
e il male è lontano; tu potresti recriminare,
io piango sconsolato, stupidamente
non vedendoti dietro alla ventura, senza viaggi
promessi e fatti. Amore! Avevi ragione:
sono senza dignità, un vigliacco:
non ti ho comprato le tue stampe indiane rubate
col garzone o paggio incontrato a casa mia.
Non ti facevi più, ma io tremavo sempre
complicazioni giudiziarie; sono un pazzo, ho strippato:
guardo dalla finestra la neve dei nostri pomeriggi insieme:
con te non mi addormentavo, poi scattò con un mostro
la solidarietà maschilista che tu non avevi:
non te ne fregava niente di essere uomo o donna
o cerbiatto inseguito da mille lupi
che hanno ferito la tua vita folle e cara.
Perdonami di averti ucciso dentro di me!
Perdonami di ancora vivere una vita non più
rischiarata dal tuo sorriso di mendico affamato.

ARTURO R.

Testo di PA , datato in calce «1985»:

Arturo ritrovato col tuo cappelletto


regalato vai verso la vita, e non vuoi
morire anche se le sirene dell’Aldilà
ti chiamano: sono stato io ad impedire
la nostra comunione di anime ferite;
io, poeta da strapazzo, senza innocenza,
che si gratifica come può e non sa
credimi veramente gratificarsi. Mi rivolgo
a te e sento di non perdonarmi alla fuga
impossibile e silenzioso verso le scale della follia:
sono solo all’incontro necessario con me stesso; vorrei
soccorrerti, bruciarmi in te, volare,
spiegarmi se veramente esiste Dio; oh! lato della
mia casa perduta dove sono restato come un vedovo
inconsolabile, non fuggirò più i ricordi
che mi assediano; vivo di luce riflessa e prigioniera:
chiamami, chiamami, candela che si spegne. Vorrò
punirmi e vivere per peccato di presunzione:
non ho il coraggio di farmi fuori, né voglio
qualcuno che mi distolga dai suoi affari sinistri:
prego, prego per me, per la mia accidia santa.
Io ho sconfitto l’amore, io sono benedetto!

CUORE DI PIETRA

Testo di PA :

Scriverti è starti un po’ vicino;


ma sarà una lettera non spedita,
l’esilio è certo, la paura di vederti
immensa, ma ancora parlarti, non sentirsi solo
sembra un sogno ormai svanito nella leggenda
del tuo nome miracoloso. Svegliami, esulta
svegliati dal sonno mortale dell’eroina,
welcome eroina! prima della crema lenta
in competizione con l’amico «guru» di rampa
Brancaleone. Io sono solo, nessuno ascolta
il mio richiamo nella notte, cercarti mi spaventa
come fossi il privilegiato della sorte a morire.
Non so andare incontro alla morte; mi sembra assurdo
che la vita mi aspetti al di là delle porte infere
o paradisiache o vuote di tutto, anche il nulla
è mortale o la speranza di indiarci.
Non ascoltare la mia sirena notturna
il canto è spento, la luce non più accesa:
odio la mia vita che si riflette immota
in uno stagno putrido e senza fondo.
Ora tutto mi parla di te: il Neurobiol
che prendesti la prima sera per disintossicarti:
mentre ti stringevi a me urlavi: «Salvami, salvami!»
ma io non sono stato capace di dedicarti un’ora sola
della mia vita, ignoro se le telefonate anonime
che ricevo mi vengano da te che spii dalla mia voce
il mio pianto. Amore, m’insegnasti l’amore ed io
ti ho abbandonato. Però che orrore la fuga
col Demonio di nome Angelo; rubandomi le ghinee
date senza dignità, è vero, ma per darti una ragione
di fuga.

COLOSSEO

v. 1 Amori] amori C CA v. 2 di una Madre] di mia madre C CA


v. 3 il patetico piccolo mondo] il piccolo-borghese mondo C
CA v. 8 gli umidi] i tuoi umidi C CA v. 9 all’unica sorte
possibile: la carne] all’unico destino possibile: quello della
carne C CA v. 10 fa strazio] che fa strazio C CA v. 13
Povertà:] povertà C povertà; CA v. 15 non essere, come
allora,] non essere come allora C CA v. 18 umiliato e stanco,]
umiliato dal non / sapere dove andare, dove sbattere la
testa – C CA v. 20 una cavia potenziale] una potenziale cavia
C CA vv. 21-22 nella / mente] nel / cervello C CA v. 22 fato]
destino C CA v. 25 compro...] compro, C CA Tra i vv. 25-26 in
C e in CA si trovano i seguenti versi: «nella mia ridicola
povertà, con lusinghe / recitate di indigente studente che /
studia all’Università.»
v. 28 vita,] vita; C CA v. 29 sdanno] snodano CA
v. 62 familiare:] familiare; C CA v. 79 non muta] non ti muta
C CA

INVETTIVA

v. 11 in nuvole nere] in una nuvola nera C CA

NAUFRAGIO

v. 41 lacrimose,] lacrimose CA

LA FINE DELLE FINI

v. 7 la mi supplica: muori prima di me] la mia supplica, di


eliminarti prima di me C CA

EROS

v. 30 universale] universale, C CA v. 38 abbandonato]


abbandonato... CA In CA e in volume è espunto l’ultimo
verso presente in C : «dopo averlo inutilmente leccato...».

AL CIRCO MASSIMO

In volume sono espunte le prime due strofe presenti in C e


in CA :

Ti cerco al circo Massimo, in ogni altro ragazzo


abietta sfida contro il tempo che respira
i miei perduti anni, le mie provvisorie notti.

Ti cerco per non trovarti. L’amore vuole gli atti


insulsi, le ricerche che non approdano a nulla:
condizione leopardiana, ma senza la poesia
di Leopardi.
v. 18 mutanti...] mutanti C CA v. 19 Basta una stagione per
vederli sfiorire.] che basta una stagione per vedere sfiorire
C CA v. 22 Natura,] natura, C CA v. 25 poesia] la poesia C CA

L’avversario
□ Donna di Paradiso, vedi Serpenta.

□ Gatti e altro (indicato con G ), vedi io.

□ L’avversario, Mondadori, Milano 1994. Volume di 96


pagine. Il colophon riporta: «“L’avversario” / di Dario
Bellezza / Collezione Il Nuovo Specchio / Arnoldo
Mondadori Editore / Questo volume è stato impresso / nel
mese di gennaio 1994 / presso la Arnoldo Mondadori S.p.A.
/ Stabilimento di Verona / Stampato in Italia – Printed in
Italy». Risvolto di copertina di Maurizio Cucchi, non
firmato:

Se fin dagli esordi la poesia di Dario Bellezza si è alimentata di forti


contrasti interni, nel suo nuovo libro agisce ancora più netto un
corpo a corpo ininterrotto con un avversario tanto più arduo quanto
più mutante è la sua identità. Chi è, infatti, questo oscuro oppositore,
questo nemico? Il Male, senza dubbio, capace di sfiancare e
corrodere le nostre coscienze e la nostra società. Ed è il fantasma
della morte, lo «strazio del futuro» sempre più incombente. Ma è non
di meno la poesia stessa, che il poeta riconosce come utopia di
salvezza nel contempo altissima e fragile, e che vorrebbe combattere,
in nome di un esistere non più esiliato dal reale, ma che pure sente
come irrinunciabile richiamo di verità.
In questo scontro con i differenti volti del suo avversario, Dario
Bellezza continua la sua testimonianza in versi ora segnati da una
naturale grazia lieve, ora magmatici e coinvolti in un dichiarato
autobiografismo, che trova nell’eros momenti di incanto o sordidezza
in cui si dibattono i suoi «poveri demoni celesti». Compone così un
libro a volte lirico, a volte aperto in una narrazione che attraversa
luoghi e fasi della storia contemporanea, da Roma a Berlino, al
mondo mediterraneo e arabo. Ma sempre, nei diversi passaggi, nella
varietà inquieta delle occasioni che ne muovono la voce, domina in
Bellezza il sentimento di trovarsi immerso nelle cose eppure
estraneo, provvisorio, «avventizio» consapevole del mondo.

L’esemplare con dedica dell’autore a Elio Pecora e a


Roberto Deidier, conservato nell’archivio privato di Elio
Pecora, riporta due correzioni autografe a matita, accolte
nella presente edizione: a p. 16 (Il sonno è una piccola
morte, qui a p. 554), il v. 5, «io aspetto la morte», è corretto
in «io aspetto la notte»; a p. 65 (1989, qui a p. 601), al v. 5,
il punto in fine di verso è cassato.

A BILL, DAL 1967

v. 2 purissimo] inestinguibile DP
v. 22 giovane] ragazzo DP
v. 24 o prostituzioni] o le prostituzioni DP
v. 26 orge] le orge DP
v. 27 per vizi] per i vizi DP
v. 28 vecchia giovinetta] vecchietta antica e giovinetta DP
v. 29 strazio suicidale] strazio o rivolgimento suicidale DP

L’OMBRELLO DI ELSA

In DP la seconda, la terza e la quarta strofa ne compongono


un’unica.
v. 14 inizi] inizi. DP
v. 18 che mi vuole] ella mi vuole DP

GATTI

Testo di G :
Siete miei prigionieri
prigionieri dell’orrore dunque
anche il tetto vi è proibito
e la vostra vita passa e ripassa
in due stanzette umide dove vi rinchiudo.

Io sono vostro prigioniero


prigioniero di tutto
anche dell’aria che respiro
o dell’abiezione raggiunta
in mille orgasmi di sventura.

Non sono Leopardi ormai, e


neppure Kavafis. Chi sono
dunque? La domanda è pertinente
più di qualsiasi possibile risposta
alla quale si può obiettare
che il nulla e il tutto
sono la stessissima cosa.

AD UN GATTO

Il v. 6 e il v. 13 sono assenti in G
v. 1 Siam –] Siam G
v. 9 all’infedele] alla infedele G
v. 16 pasquale –] pasquale G
v. 17 ragazzetto] ragazzotto G
v. 21 incarnazione,] incarnazione G
v. 22 mi affanna:] mi affanna, G
v. 24 la tua perduta caritatevole forma] la tua / perduta
carità. G

AD UN CANE

v. 8 decrepita Roma] decrepita, vecchia Roma G


v. 11 le più belle] le nostre più belle G
v. 13 cane allegro] cane spento e allegro, G
v. 14 d’Amore –] di Amore G
v. 21 hai dato] mi hai dato G

Proclama sul fascino


□ Proclama sul fascino, Mondadori, Milano 1996. Volume
di 64 pagine. Il colophon riporta: «“Proclama sul fascino” /
di Dario Bellezza / Collezione Il Nuovo Specchio / Arnoldo
Mondadori Editore / Questo volume è stato impresso / nel
mese di aprile dell’anno 1996 / per conto della Arnoldo
Mondadori S.p.A. / presso Milanostampa S.p.A. – Farigliano
(CN ) / Stampato in Italia – Printed in Italy». Risvolto di
copertina di Maurizio Cucchi, non firmato:

La poesia è spesso un atto d’amore non corrisposto, mosso dal


fascino della vita che concede qualche sprazzo lucente e poi tradisce,
lasciando il posto a un’ombra d’abisso, a un’infinita solitudine. Dario
Bellezza ha sempre patito e assecondato l’attrazione risucchiante di
questo inganno, ha cercato «l’estasi del quotidiano» senza mai
placarsene, sentendosi debole «ospite di un corpo» sospinto verso il
nulla, dando prova nei suoi versi di un impossibile, quanto tenace,
desiderio di assoluto. Tutto questo si avverte benissimo in Proclama
sul fascino, che è anche un rinnovato gesto di fiducia nella parola
poetica, per la verità che contiene, per la sua capacità di esprimere
sempre vitalmente l’emozione e il dolore dell’esistere. Ed è un libro
nel quale Bellezza si muove secondo diversi stili e registri, dalla
fluidità della confessione lirica a un inizio di romanzo in versi,
ponendo però al centro la bellissima sequenza di testi brevi intitolata
Il nulla. Qui la pronuncia è delicata e limpida, il segno si fa sottile ma
incisivo, e descrive un volo d’anima veloce: nelle cose, nella castità
del peccato, nella fuggevolezza del tempo, nella visione della morte,
eppure anche nello sguardo «di un bambino festante».
R.D.
Indice dei titoli e dei capoversi

I titoli delle sezioni interne alle singole raccolte sono in


maiuscolo, quelli delle poesie in tondo, i capoversi in
corsivo.

1987
1988
1989

A Bill, dal 1967


A Braibanti uscito di prigione
A Carlo Betocchi
A E.
A E.M.
A Elsa Morante
A Judith
A M.C.
A Marcos – Pinochet
A Pier Paolo Pasolini
A Pier Paolo Pasolini
A Serpenta tentata di morire
A un poeta
A. e D.
A. e D.
Accendendo la stufa a ghisa
Ad A.R.
Ad Anna Maria Ortese
Ad Hart Crane
Ad un cane
Ad un gatto
Addio cuori, addio amori
Ah! – le piaghe del tempo rimarginano a stento
Ai giovani pittori
Aids
Aiutami ti prego a rendermi solo
Al capezzale dei giorni insieme vissuti
Al circo Massimo
Al dunque
Al mio respiro fugge l’astio del giorno
Al tuo giovane Dio ormai senza sorriso
All’Ambra Jovinelli
Alla fermata del tram, a mezzanotte
Alla follia, non badate, datemi retta!
Alla rivoluzione
Alzarmi, darti luce mentre
Amato o no il mondo era vero
Amleto
AMORE
Amore amore
Amore che non eri ghiotto di parole
Amore distrutto stasera arrivi
Amore mio ragazzo di diciassette anni
Anche del mare talvolta si è stanchi
Anche perché sono innamorato
Ancora riesco a scrivere d’amore
Ancora ti ama il mio cuore mutevole
Anima vedova senza veggenza
Anni e costellazioni investigati
Apologia
APPENDICE 1968-1988
APPENDICE 1970
APPUNTI
Appunti
APPUNTI PER UN ROMANZO IN VERSI
Arabie II
Arriva un ragazzetto biondo da Venezia, si rivolge
Arriverai nella mia tomba lunare
Artificiale, fuori della natura, calpestato
Arturo R.
Arturo ritrovato col tuo cappelletto
Ascoltare il respiro, il soffio
Ascoltavo la morte nel mio sogno
Autobiografia solenne
AUTORITRATTO

Bagno notturno in cui mi abbandono


Berlino 1978
Brontola il vento al mio richiamo
Bruciavi d’amore e voluttà
Bruciavo d’amore e voluttà

C’è attesa sfidante e sfibrata


C’è un pianto dentro di me: la vita
Calcata
Canzonetta
Carlo Marx vinse la guerra dei cento soli
Carpe diem, Orazio I, 11
CASA
Cerchi solitudine, e la trovi
Cessa di puntarmi come il cane
Che ci sto a fare? A prendere congedo
Che durezza, che orrore in te
Che i poeti meritino il disprezzo universale se ancora
Che io legga la Terapia del Feticismo di Stekel
Che morte leggera questa immane agitazione
Che si spezzi il cuore
Che vita! Ridotto a vecchiezza
Chi odia le Forme è alla fine della vita?
Chi ricorda più la tua atroce bellezza
Chiuso e stretto nella follia derubo
Cieco nella perfezione varco
Cinema in penombra che m’accoglievi
Ciò che in polvere è stremato
Colosseo
Colosseo che mi hai cresciuto agli Amori
Com’è cambiata la mia vita!
Come consolazioni a sventure non richieste
Come d’esiliato vivere implacabile tutto
Come il sonno si agita nel mio cervello
Come l’insonne insonnia s’insabbia
Come le stelle da secoli spente
Come non è vera la verità raccontata
Come sei lontana da me, ormai, antica affittuaria
Come si fa a resistere alle lacrime?
Come terrore di elevarsi a cime
Commiato alle angosce. Non calzerò più
Con allegra tristezza vi ho guardato
Con quale sesso mi verrai incontro
CONGEDI
Congedo
Congedo
Congedo
Corpo violato
Così hai rotto un frenetico ritmo del sangue
Così parlo alle ombre
Così t’aspetto. Di notte entro
Così, nell’estremo pericolo
Credo, morte aspettando, di rifare
Cristo derelitto
Cullavo la tua disperazione
Cuore di pietra
Cuore di pietra, bosco dell’indistinto

Da ricordare: camomilla
Dalla storia dei nostri poveri giorni
Dalle profonde letargie del mio destino
Davanti immacolate montagne
DE PROFUNDIS
Delatore, spia
Delinquente mio delinquente
Dentro un’agenzia di viaggi
Di là ti masturbi senza lode
Di nuovo ecco la ripetizione
Dialoghetto
DIALOGO FRA UN ATTORE E UN POETA INNAMORATO
Dice O.W.
Dicono che non sia un poeta raffinato
Dio
Dio mi moriva sul mare
Dio può pensare se stesso essendo
Diranno che ero un gran depravato
DISAMORE
«Domani sarò sola
DONNA
Donna conforme e vicaria del male
Dopo la fine
Dopo un anno, feroce giorno in cui un poeta è caduto,
1976
Dopo una rottura
Dormivi o eri sveglia quando materna
Dov’è la sterilità che t’accompagna
Dove la notte calza la mattina
Dove riposi io guardo
Dovrei ritornare quello che ero: ragazzo battagliero
Dura legge sapere che niente

E abbandono morte. Giocattolo di Dio


È avventizio il mio essere reale
È di aprile il sereno cielo
È Dio che muore con me
E dunque, caro, addio da dentro l’anima
È il tuo corpo santo che m’illude
È molto più gatto lui di lui...
È notte nel cuore e il viaggio all’Inferno
È tardi. Roma fuori è già fredda
«È vero, sono un ragazzo di strada, io
Ecco di nuovo il foglio netto
Ecco i tranquilli giorni, le muse inquiete
Eccomi ancora nel mondo iniziato
Eri nudo, per me: gli occhi avevano
Eri una emozione per vivere
Eros

Factum est
Factum est, gridai andando
Fare, sbirro del proprio corpo, tutto
Felice te passero (impudicizia mi spinge
Finché cadrà la parola odio nasconderai
Fino in fondo ho bevuto il calice dell’amarezza. Ma è
Folle è ritrovarti. Folle è
Forse m’impiglio in pigrizia, non riesco
Forse mi prende malinconia a letto
Fosse l’ultimo amore il tuo
«Frocio arrepentito, escremento del demonio
Fu sul tram che t’incontrai
Fu, nel passato, la mia una illusa visione
Fugace è la giovinezza
Fuggono tutti i giorni miei
Fumavi sigarette drogate
FUORI DI ME

GATTI
Gatti
Gatti, occhi
Già da te mi distacco, inquieto testimone
Giovane laggiù nel tuo letto
Gli ultimi dieci minuti
Grato senza eccesso
Guarda così ancora la sedia blu
Gusbi, Gusbi, dico al gatto giallo

Hai il sonno dei nomadi


Hai tutte perdute le ore del sonno
Hitler
Ho amato molto il telefono
Ho deciso di non più frequentare la tua perfidia
Ho paura. Lo ripeto a me stesso
Ho portato il mio vecchio corpo rotto da malattie
Ho provato a scriverti una lettera, ma
Ho scritto svariate poesie sulla mia casa
Ho sognato un trasloco (quale? dirà il lettore
Huston

I bambini mostri leggeri


I coatti
I critici ostili li ho amati invano
I due fratelli
I giovani padri
I poeti animali parlanti
I ragazzi drogati, guardie del corpo
Ieri sono ritornata a darla
Ieri un famoso libro mi tenne compagnia
Il delitto sarà consumato domani
Il didietro – pardon il retto
IL DOPO
Il fascino
Il fradicio ponte e l’eccitato andare
Il freddo e il caldo
Il gatto dorme, innocente
Il mare di soggettività sto perlustrando
Il mio AIDS, alla francese SIDA
Il mio suicidio vivente amore che non ritorni
«Il mondo non è più quello di una volta.»
IL NULLA
Il padre
Il passato delle felicità. La sigaretta
Il pensiero, quando tutto è stato pensato
Il porto clandestino ai baci
Il ricordo smemora fuori del tempo
Il serpente inquieto che indugiava
Il sonno è una piccola morte
Il tè bollente e i pasticcini
Il Tevere si perde nella notte
Il tuo corpo adorato più non tocco
Il tuo fresco possesso era lo spasimo vitale
Il vento t’abbassò al rango d’una sguattera
IL VIAGGIATORE D’OMBRA
IL VIAGGIATORE D’OMBRA
Immobile delitto privo d’amore
Immortale
Impara l’arte, suona un secolare adagio
In angoscia mi lacero; il consumo
In Calabria
In memoriam
In quel molle giovanile quaderno
In quest’ora stremata della notte ho cercato
In un lugubre smorzarsi dell’autunno
Infante di una infanzia un po’ cresciuta
Innamorato io? Dove e in che spazio
INQUIETE LARVE
Insieme a Elsa e Aldo
Invece di questa città natale
Invettiva
IO
Io e Dio
Io è un altro
Io, eroe notturno, notturnamente ero
Isole vidi nel sogno dal mare

L.S.D.
L’amicizia è tutto
L’amore uccide ciò che ama
L’ansia divorò tutto, in città, la città natia
L’antica poesia si chiamò lingua degli dei
L’arcano fascino dell’amore tradito
L’asilo nella città più insidiato
L’attore è la voce dell’Assente
L’AVVERSARIO
L’avversario
L’Eros è incerto
L’estremo riposo
L’età del ferro
L’immaginario è scoperto dai giornali
L’insonnia che mi prende
L’ombrello di Elsa
L’ombrello di Elsa è un eroe
L’ubriachezza molesta che uccide, e tu
L’unica cosa che non mi spiegasti, o sublime, è
L’unigenito sole si sfiocca nella bile
La casa zeppa di straniere pulci
La distruzione è l’unico movimento dell’eterno
La fine del mondo
La fine delle fini
La fine, la fine è prossima...
La freschezza animale del tuo corpo
La gattità
La leggera sciarpa avvolgi intorno
La mattina, birre, «salade», un po’ di caviale
La mia casa, l’entrata
La mia discesa nel più infantile dolore, in te
La mia poesia è mentale
La morte vuole morire
La notte aspetto nel silenzio calamitoso e le avventure
vorrebbero
La notte, infedele peccato di amanti
La patria è la lingua
La pioggia ha fermato la mia uscita ai vetri rigati
La pittura è colore e dolore
La promessa ragazzo spasimo amore
La Santa
La sapevi lunga. Imposte
La sedia di paglia si è rotta
La somma finale del nostro pensare è zero; onde
La tua anima bisognosa di Dio
La tua assenza sgomina
La tua nonna tanto simile alla mia, innocente
La vedo tutta lì la sorte mia
La vergogna del sesso sconclusionato
La vergogna del sesso sconclusionato
La vita che vivo non è mia
La vita è sogno di giornate ardenti
LA VITA IDIOTA
Lacrima amoris
Laggiù, oltre il telefono
Lascio indietro le stanze e le strade
Le botte cadevano forte sul mio cranio
Le cellule tue sono dissolte
Le cene scroccate ai ricchi erano elemosine
Le chiavi del caso
Le fosche licenze del non-amato
Le gambe le cosce l’ardente
Le illogiche parole dell’amante
Le intermittenze del cuore, a freddo
Le marchette costano troppo a Capri
Le muse
Le pazienti fami dei giovani diversi
Le pazzie dei disadattati sanno l’odore
Le scie alate della tua morte oscura
Le trombe squilleranno
Legge di natura lo schiaffo
Leggiamo le mie possibilità amorose
Leggo ancora i poeti contemporanei
Lei, la nera, li guarda
Leuconoe, quando io e te si muoia
Li saluto tutti come da una partenza
Lingua, tu non rispondi, né apri
Lo scomodo alibi dell’Indifferenza rapace
LO SGUARDO PUNISCE CHI GUARDA
LODI DEL CORPO MASCHILE
Luce, luce per i miei occhi stanchi
Luna sparviera che guardi i miei amori di pura sensualità

M’aggiro fra ricatti e botte e licenzio


M’è rimasto poco tempo
M’impaura la mia incerta voce
M’imprigioni insonnia e ti ripeto
Ma il mare
Ma il Poema della vita che sto scrivendo
Ma il quotidiano insiste. Ed io volo
Ma mi accora la tua foto
Ma non saprai giammai perché sorrido
Ma se anche tu più bello venissi
Madre
Madre, per quanto gli altri poeti
Maestà
Mai stato 1
Mai stato 2
Manchi di carità, lo sanno tutti. Ma non è questo
Manchi di carità, lo sanno tutti. Ma non è questo
MANIERA
Manuele è una primizia che tutti assaggiano: succulenza
Marilyn
Marilyn, Marilina, come una canzone
Maschere
Mentre aspetto scrivo
Mi aggiro come un fantasma dentro casa
Mi chiedi di arrivare
Mi contempli se scrivo
Mi costringi, esserino dolcissimo
Mi dà fastidio l’io
Mi fa paura tutto ciò che tu vedi
Mi ributto in piedi alla Stazione
Mi sono accorto di aver amato
Mi sveglio di soprassalto la mattina
Mi sveglio e non dormo ahimè! L’anello
Mi tremano i polsi, si fa per dire
Mia pazza solitaria notizie all’osteria
Miosotis
Mondo liberati di me
Monumentale bric-a-brac, mia parte
«Morire è un’arte
Morte segreta
Abbasso Muerte

Naufragio
Né maschile né femminile, il suo sguardo
Né pipistrelli né serpi
Nel presente
Nel tempo e nello spazio
Nel verde giocavano ragazzi
Nell’arido seguire dell’irrealtà
Nella città di Virgilio
Nella luce fioca mi lecco
Nella mia notte il pessimo tuo mattino
Nella villa padronale dove m’invitasti c’era il tuo
Nessuna notte risarcirà quella notte
Niente si offre per l’ultima volta
«Non c’è altra donna fuori di me
Non c’è mostro più mostro di te
Non c’è niente di meglio che barare
Non ci tieni più
Non credi all’amicizia, ai suoi valori
Non devo pagare niente
«Non è colore, o luce, riverbero o ombra
Non è la carne, la musica dei tempi, l’oblio
Non è realtà che m’intriga
Non furono immagini, raggianti e regali
Non guardare fuori dello Specchio
Non ha importanza con chi farai l’amore
Non ho memoria. Non ricordo di averne mai avuta
Non ho Paradiso: la vita fugge
Non invento più
Non m’accende amore
Non merito aiuti né misericordie
Non mi rassegnerò mai alla tua morte
Non mi rimane che scrivere e andare via
Non mi vedi sgocciolare per casa
Non posso che maledirti, senza comprensione
Non posso pensare al futuro. L’amata
Non raggiungerò il Sublime perché sono vivo
Non regalare quadri provvisori
Non sarai tu ad uccidermi, faccia d’angelo
Non scrivermi più, illusa illusione di ritrovarmi
Non si muore subito
Non si vedrà per tutto l’inverno
Non so che forma scegliere per esprimere
Non sono capace di solenni peccati
Non sono né invincibile né Dio;
Non ti abbandonare ai sogni
Notte, peccato
Notturno orinatoio autunnale
Numerato i peli del tuo pube

O Chirico Chirico incontrato


O città nequitosa, invalida
O giovane arturo dai sogni ribaldi
O Narciso inesprimibile e leggero che fuggi
O stella della sera proteggimi
«O tabù piccoli e grandi
O verde senza passione per chi lo scaccia
O, le salutari correnti della giovinezza
Occhi – salute mi abbandonò
Occhi occhi lucenti
Oggi, dopo una notte d’insonnia
Oh! La tua inquietudine... Che resti qui nella stanza
Oltre l’oblio
Ora alla fine della tregua
Ora che i millenni invano ti sfiorano
Ora che il mio destino si rischiara
Ora che non lo faccio, l’eros
Ora lo so: quel figlio a te non nato
Ora s’accende il ricordo; ed è l’unico sentimento
Ora, tra i morti, mio libero fratello
Ormai ho scelto castità. Il predone che ero
Ormai non resta che battere
Oscena è la mia imaginazione. Scarsa

Pallido, scarmigliato. I tuoi capelli


PARANOIA
Partì l’eroe, aggraziato fanciullo
Parto all’alba e arrivo
Pasolini Ginsberg Sandro Penna
Pasolini sparito, ucciso come un cane bastardo
Passa il tempo senza il Dio dell’Amore
Passavi per bugiardo: e chi dice menzogne
Pensai tutto il giorno, pensai
Penso alla vita trasparente
Penso che dovrei avere un figlio
Per amore di solitudine rimasi solo
Per cercare ragazzi ci trascinammo affannati e senza
parlare
Per Giorgio De Chirico
Per rinascere aspetta che le madri epilettiche
Per risvegliar mattina la mia
Per salvarci insieme nell’abisso
Per sempre
Per un rifiuto
Per una mattina il male e il vero si confondono
Perché non s’accende la mia carne
Perché se il poeta è ridotto a svolgere
Perché venisti solo a notte a cazzo dritto
Perpetravi silenzi
Perpetravi silenzi
Piccolo schiavo del Siam
Piovuto da un cielo sconosciuto
PITTORI, PITTURE
Più felice forse aprendo il frigorifero
Poi ci sarà la nebbia, verrà l’inverno
Poi mi accorgo che l’io, il prode nemico attaccato
Polvere e cenere
Pratiche attività
Preghiera
Prendo il sonnifero immortale e lunare
Prima che tutti si finisca nei campi di concentramento
Prima della Guerra del Golfo
Prima un bacio
Può esserci innamorato

Qual è la verità? M’interrogo


Quale sesso ha la morte?
Quali menzogne cristalline dalle tue cartoline
Quali non sono gli ultimi dieci minuti
Quando mi alzo alzo lo sguardo
Quando sarai chiamata in Paradiso (perché
Quando si abbandona la strada
Quante albe ci videro in piedi
Quanti anni sono passati! Tanti vergini
Quel giorno santo che arrivasti a me
Questa città che nasconde e confonde
Questo circo Massimo
Questo desiderio di naufragio mentre tu vaghi
Questo nel dolore è compimento felice
Questo tuo rifiuto che nel letto la carne registra
Qui mi abbandono al flusso vitale

Racconto l’affamato scontro di due vite


Ragazzo, laggiù, tesoro nascosto
Regina di morte
Reso leggero e pesante dalla vita trascorsa in cento
Rimasto alle Sponde
Rimorso a guardarti nelle confusiones
Rinuncio ad usare metafore e analogie
Ripassare di lontano e vedere
Riprendiamoci la vita
Ritorna primavera, e con essa ritorna gioventù
RITROVATE
Roma
Roma – o altissimo sparire di una città di pietra
Roma 1986
Roma 1989
Roma: le piazze austere verniciate
Rosso e nero per Sergio Vacchi
Rosso sangue, nero morte

S’attarda la rivoluzione in conversari


Salgo e scendo le scale di una casa non più
Sarebbe come scomparire dietro l’opera
Saresti morto di AIDS
Scappi in terra di nessuno
Scaricato alla stazione di Martina Franca
SCHERZO
Scherzo per Catullo e Verlaine
Scilla e Cariddi
Scriverti è stare un po’ vicino
Se è giovanetto il corpo maschile
Se il Tempo non è più oscurato dalla tua luce
Se in macchina, pauroso di ogni traffico
Se io fossi donna
Se io fossi donna intanto, se donna fossi
Se nelle belle notti di luna allarmavi
Se non avesti mai l’amore che volevi, non era colpa mia
Se penetravo il ragazzo ribelle
Se per i ricordi l’anima trasalisce
Se sono morto e affogo i dolori nel cercarmi
Se telefono per mentirti, delirando
Se tu provi gli stessi sentimenti da me provati
Se – tutti questi se che fanno ressa
Se un poeta, io, regalo al cupo silenzio
Se viene la guerra
Sei Dio forse
Sembra che m’abbandoni la follia
Sento come decrepitezza questo corpo volante
Sento il caldo e il freddo nelle mani
Senza correzioni o stesure seconde
SERPENTA
SESSO
Sfortunata
Siamo caduti in un inverno terribile
Sicario che rintocchi i dolci baci
Siete miei prigionieri
Simile a Giacobbe che lotta
Smarrii un libro di poetesse
Smussa le tue femminine parti, angoscia
Solo col mutamento ritornerai
Solo l’erezione stravolgendo il sole
Solo nel sogno ritornerai, ma
Solo operai nel mio silenzio deserto
Solo, solitario, davanti a me
Sonno e polvere
Sono chiamato dai sensi a rispettare natura
Sono gesti di morte i tuoi
«Sono una iena che ha denunziato il suo rivale
Sospiravi attendendo che facesse
Sottoponte
Spiata fin nelle ultime mosse
Sprecare tutto è facile e senza tempo
Spunta il sesso infantile
Stasera la depressione è rivenuta incalzando
Sterile figlio della notte feconda
Sterminate primavere d’ebbrezza
Sto nel letto. A contemplare il soffitto
STORIA PERSONALE (1974)
Stornellano i lumelli la loro lontananza
Sul mio petto colpevole e oscuro
Sulla mia vita scatenata non entri

T’HO BUTTATO VIA


T’ho forse offesa, scaldata troppo nella speranza
Tardi apparisti, sacra immagine!
Tempestosa e inquieta respiri la notte
Tempo, il tempo, mi assedia
Terribile Eros, o angoscia
Ti aspetto col buio, nel buio
Ti basta un filo di cotone, un pezzo
Ti cadono i capelli, qualcuno
Ti cerco in una voglia sottintesa
Ti leccavo fra le sporche lenzuola
Ti spingerò nell’ombra. Figura
Tossico
Traditore, menagramo, sporcificante assedio
Trascolorano tutti i colori
Tu non guardi. Né io
Tu non sapevi di guru. Che il rapporto
Tu sai che io uso la psicanalisi
Tu sei il sonno. E quando arrivi
Tu sei persa
Tu vai dallo psicanalista e paghi
Tutti i giorni sonnolenti passati dentro il mio castello
Tutti i nostri intrighi
Tutto rifiuto. Niente ho visitato.

Ultimo dei nostri addii


Un gatto aiuta il risveglio
Un giorno come un altro
Un invito in pizzeria. Coi guanti
Un nemico della poesia
Un poeta
Un pugno di mosche in mano, la vita mia?
Un ragazzo e il suo teatro, i suoi coetanei
Un trasloco
Una giornata di maggio, piovosa
Una sottile linea della mano
Una vita sprecata. La più pura di tutte
Una voce roca e assoluta
Uscita da una tomba

Vaga anima di flagelli sovrana


Vai a rubare ad una città lontana
(Variante)
Variante
Variante tre, la mia casa
Vedessi dove vivo adesso. L’architetto ha
Vedo tutti morire intorno a me
Verde
Verso la notte lo strazio liberava
Verso ubbidienza il fato m’avvia
Vieni, uccidimi, fammi santo
Voglio dimostrare ai miei nemici
Vorremmo ancora cantare
Vuole la poesia come un bambino
Vuoto d’eventi, in effetti

1) I certi principi del divano apparente


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Tutte le poesie
di Dario Bellezza
© 2015 Mondadori Libri S.p.A., Milano Pubblicato in accordo con Grandi &
Associati, Milano Ebook ISBN 9788852060144

COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO | PROGETTO GRAFICO: GIANNI CAMUSSO | LUIGI
ONTANI, PINEALISSIMA, 1981, MASCHERA IN LEGNO DI PULE DIPINTA CON COLORI NATURALI
CON IDA BAGUS ANUM, COLLEZIONE PRIVATA, COURTESY L’ARTISTA E GALLERIA LORCAN O’NEILL

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