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Realismo Arte

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Realismo

La storia dell’uomo si basa sul principio dell’Eguaglianza, anche se ancora non è riconosciuto in tutto il
mondo. Durante lo sviluppo delle diverse gerarchie sociali, l’idea di eguaglianza, all’inizio, era una
speranza che non si poteva raggiungere facilmente ma, con il tempo, venne rivendicata soprattutto dai più
umili (lavoratori). I Greci la chiamavano “isonomia” (ìsos: uguale; nómos: legge), ovvero l’uguaglianza
di fronte la legge che durante la storia avrà molti alti e bassi, finendo per essere un fondamento della
civiltà occidentale. Nel XIX secolo, il riscatto di questo principio (da parte degli umili) è affidato al
cristianesimo (rovescia le gerarchie nel mondo ultraterreno). Contro questa teoria vi era una rivelazione la
quale diceva che le gerarchie sarebbero rimaste uguali. Il brano sostiene che le rivoluzioni del Settecento
non sono riuscite a cambiare la struttura gerarchica della società. Sebbene la ricchezza borghese abbia
preso il posto della nobiltà come criterio sociale, i principi di libertà,
uguaglianza e fratellanza enunciati nelle dichiarazioni dei diritti dell'uomo non hanno eliminato le
disuguaglianze presenti nella vita quotidiana.

Nel corso dell’Ottocento, l’insoddisfazione delle classi dirigenti e la consapevolezza dei problemi che
affliggevano la società, favorì la formazione di ampi dissensi. La rivoluzione industriale provoca profondi
cambiamenti anche dal punto di vista sociale, poiché i contadini abbandonano le campagne e si
trasferiscono nelle città per lavorare nelle industrie però gli operai sono sfruttati, sottopagati e costretti a
lavorare in ambienti malsani. La tensione sociale era altissima ed a partire dal 1848, esplode in tumulti e
azioni di protesta, nasce così in Francia il Realismo: i pittori realisti abbandonarono i soggetti storici e
letterari e si dedicano all’approfondimento degli aspetti sociali, alle tematiche legate al lavoro e ai fatti del
loro tempo. Il realismo pittorico riproduce oggettivamente la realtà senza alcuna aggiunta emotiva da
parte del pittore e senza interpretazioni personali così come avviene nella letteratura realista di Balzac,
Zola e Flaubert e in quella verista, in Italia, di Verga.
Le origini del Realismo vanno ricercate anche nella crisi delle tendenze spiritualistiche del romanticismo,
nel sorgere del Materialismo storico con la pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista dei filosofi
Marx e Engels (1848) e nel fiorire delle dottrine positivistiche.
A differenza del Romanticismo, che aveva considerato l’opera d’arte come il prodotto della capacità
creativa del singolo artista, il Positivismo elaborò l’idea di un’arte frutto di un determinato ambiente
geografico e sociale e che solo all’interno di tale contesto poteva essere compresa. Il Positivismo spinse
l’artista ad assumere un atteggiamento oggettivo, neutrale nei confronti del soggetto da rappresentare
quindi il vero scopo dell’artista è quello di imitare con la massima fedeltà possibile, la natura e la realtà
umana nei suoi minimi particolari.

REALISMO E NATURALISMO IN LETTERATURA


Negli stessi anni in cui in Francis si afferma il Realismo si assiste al nascere del Naturalismo che descrive
con metodo scientifico la realtà. Uno dei più grandi romanzieri è Balzac che nella sua Commedia umana
dà voce a centinaia di personaggi di diversi classi sociali diventando esemplari.
Emile Zola è considerato il padre del Naturalismo letterario di cui il narratore aspira a lavorare in modo
scientifico e impersonale descrivendo i temperamenti e i comportamenti dei personaggi dopo aver
acquisito una documentazione. Lo scopo di questa osservazione scientifica è la denuncia sociale, in cui si
descrive la società francese dove si analizza il condizionamento biologico e ambientale che affligge
l’uomo. Zola è capace di innovare il linguaggio e far parlare anche chi, di solito, non ha voce.
Gustave Coubert
Il 1848 in Europa è caratterizzato da rivolte popolari, che prendono spunto dalle rivolte antimonarchiche
francesi. Anche l’arte, quindi in questo clima di tensioni, subisce una crisi d’identità. (Gli artisti non
possono più scappare dalla violenza e dal sangue che li circonda, non potendo più realizzare opere su
mondi incantati e mitologici). Così nascono i movimenti realisti con l’intento di realizzare ciò che era
quotidiano e vero, per documentare la realtà nel modo più distaccato possibile.
Il primo pittore realista è Gustave Courbet, nato a Ornans nel 1819 da una famiglia benestante.
Inizia a formarsi da autodidatta, dedicandosi allo studio del vero di alcuni dipinti del Louvre.
Con le sue opere suscita la reazione di molti critici, i quali non accettano il suo modo di rappresentare la
realtà in maniera così oggettiva. Nel 1855, all’Esposizione Universale di Parigi, alcuni dei suoi quadri
vengono rifiutati perché esprimono una realtà giudicata troppo brutale o volgare; risponde a questo rifiuto
facendosi prestare i soldi del padre e costruendo nei pressi dell’Esposizione, il “Padiglione del Realismo”,
nel quale espone quaranta dei suoi dipinti (atto di nascita ufficiale del Realismo). Nel 1861 fonda una
propria scuola nella quale incoraggia gli allievi a sviluppare il proprio stile. Nella sua pittura, i temi non
sono né sociali né politici, egli si limita a far parlare la realtà così com’è, arrivando a scandalizzare anche
i suoi stessi sostenitori.
Nel 1871, l’artista partecipa all’insurrezione della Comune di Parigi ma in seguito alla Restaurazione
viene condannato come sovversivo e costretto a vendere tutte le sue opere.
Muore in solitudine nel 1877 in Svizzera.

GLI SPACCAPIETRE
Nei suoi dipinti, Courbet si concentra sui piccoli fatti quotidiani dal punto attento e oggettivo ma
Impersonale. Questi quadri furono dipinti nel 1849, due oli su tela di ispirazione identica ma il più grande
è andato distrutto durante i bombardamenti su Desdra nel 1945.
In entrambi i dipinti viene rappresentato un manovale che frantuma dei sassi per ricavarne ciottoli mentre
in quello perduto appare anche un giovane, a sinistra, intento a sollevare una cesta piena di pietre e viene
raffigurato di spalle. Entrambi stanno guardando solo i sassi e non alzano lo sguardo; per quel poco che si
vede, i loro volti sono inespressivi.
Ogni dettaglio è raffigurato con assoluta precisione, con intento quasi documentario: le toppe sulle
maniche della camicia, lo strappo del panciotto, le calze bucate, gli zoccoli consumati dell’adulto; la
camicia a brandelli del ragazzo; gli strumenti di lavoro e di lato sotto un cespuglio vi sono una pentola, un
cucchiaio e mezzo filone di pane che accenna al misero pasto degli spaccapietre.
Il paesaggio è spoglio, essenziale e scuro, per mettere in evidenza i due protagonisti. I colori terrosi
contribuiscono a comunicare un senso di tristezza e di povertà.
Il pubblico ebbe una reazione violentissima di fronte a questo quadro: non solo non accettò che un artista
potesse dare così tanta importanza a due insignificanti lavoratori (laddove la pittura aveva ben altri
compiti, celebrare la bellezza, gli eroi, la storia) ma si scandalizzò, si offese persino, vedendo che Courbet
li aveva rappresentati per quello che erano.
Non solo i pittori. Anche i fotografi, nel XX secolo, hanno raccontato il lavoro con scatti come
Salgado (uno dei più grandi fotografi dei nostri tempi) che con i suoi reportage in Africa ha raccontato la
vita nelle campagne, la semplicità del lavoro e la disperazione dei migranti. Fra le sue fotografie più
famose, in bianco e nero, ci sono quelle realizzate nella miniera d’oro della Serra Pelada, in Brasile, dove
migliaia di persone sono ritratte mentre trasportano sacchi di fango arrampicandosi sulle pareti di una
cava.
UN FUNERALE A ORNANS (Musée d’Orsay)
Dipinto fra il 1849 e 1850, presentato al Salon. È una tela di grandi dimensioni e rappresenta un semplice
funerale di campagna nella città di nascita dell’artista.
Il dipinto si compone di sessanta figure a grandezza naturale che indossano gli abiti dell’epoca.
Al centro del dipinto si apre la fossa, scavata malamente e tagliata dal bordo della tela in modo da
coinvolgere lo spettatore, con un teschio nel bordo simbolo della caducità delle cose terrene.
Intorno vi è il corteo dei dolenti che sono contadini e gente del popolo, non sono idealizzati o abbelliti ma
sono raffigurati come realmente sono in modo obiettivo
Il defunto è anonimo e si intravede appena la bara, a sinistra, coperta in parte da un drappo bianco e
portata da 4 necrofori che rimandano a una semplice vita di provincia. Quasi tutti i personaggi vestono di
nero che li accomuna e li rende uguali, diventando un inno all’egualitarismo.
La scena si estende in modo orizzontale, Courbet intende monumentalizzarla ma ne interrompe lo
svolgimento come in una ripresa fotografica che coglie solo una parte. Da sinistra parte la processione
funebre con a capo il parroco e dietro di lui altri religiosi e ministranti tra cui uno guarda verso lo
spettatore per renderlo partecipe dell’evento. Le donne si raggruppano sulla destra distanti dagli uomini
come si usava nell’Ottocento e si notano alcune di loro che piangono e asciugano le lacrime.
Il paesaggio ha dei colori terrosi e lividi, tanto che uno dei suoi critici scrisse che deve essere disgustoso
essere sepolti a Ornans.

Jean-François Millet
Nato nel 1814 in Normandia, iniziò la sua formazione da molto piccolo a Parigi, per sopravvivere si
adattò ad una produzione pittorica di soggetto storico-mitologico fino a quando si avvicina alla Scuola di
Barbizon e la sua visione artistica è quella della vita contadina.
Il mondo contadini che raffigura presenta forti coinvolgimenti lirici e sentimentali, con un Realismo che
interviene con soggetti pervasi di sentimentalità.

LE SPIGOLATRICI (Musée d’Orsay)


Raffigura tre contadine intente a raccogliere le spighe di grano cadute o rimaste sul terreno dopo la
mietitura. Due delle protagoniste sono chine sul campo mentre la terza, parzialmente di spalle sta
ammazzettando delle spighe e contrapponendosi alle prime due.
Avendo la testa rivolta all’osservatore, esse voltano le spalle alla fattoria, di cui si intravedono i tetti, e
soprattutto agli enormi covoni di grano, frutto di un raccolto abbondante e fortunato che un
sovrintendente sta sorvegliando a cavallo e a cui loro non hanno accesso. La linea dell’orizzonte è molto
alta, delimitando il campo d’azione delle donne rappresentate con grande capacità d’introspezione
realistica. I volti appaiono abbrutiti dalla fatica, la pelle bruciata dal sole, le mani deformate
dall’estenuante lavoro; gli abiti ruvidi e opachi hanno toni cromatici bassi e cupi. I corpi delle donne sono
così abituati alla posizione china che sembrano non potersi più rialzare, come suggerisce la figura a
destra.
Sul fondo, la luce intensissima e abbacinante del sole a picco rende l’atmosfera piatta e quasi polverosa.
Questa straordinaria luminosità, che proietta la scena in una dimensione sacra ed eterna.
Il dipinto non fa trasparire alcun giudizio morale, non vi è né ribellione né denuncia nei confronti di un
lavoro così umile ma dovevano semplicemente esaltare l’eterna grandezza del lavoro umano.

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