Ricerche Follia, Parte Mia
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specifiche divinità. Partendo da questa concezione magico-religiosa, la cura non poteva che essere collegata
strettamente alla dimensione del sacro. Infatti il sacerdote ricopriva anche il ruolo di medico.
Con lo sviluppo della cultura greca si assiste però anche al passaggio da una primitiva interpretazione magica
della malattia ad una concezione naturalistica, che si afferma con la medicina ippocratica.
Nell’antica Grecia, caratteristica dell’opinione popolare era ritenere la malattia mentale un'emanazione del
volere di divinità malvagie e persecutorie, come Manìa o Lyssa, Pan o Dioniso, Ecate o le Furie. I sintomi
caratteristici della follia erano il girovagare senza scopo e l’inclinazione alla violenza; certi comportamenti
irrazionali fuori dalla norma venivano interpretati come rottura del modo di pensare ordinario e apertura
verso esperienze di tipo mistico e metafisico. Ne derivava una sorta di rispettosa venerazione per cui il “folle”
appariva circondato da un alone di sacralità e le sue parole e i suoi atti venivano sentiti come espressione di
verità profonde e misteriose. Questo concetto popolare non lasciava nessuna possibilità di terapia del malato
mentale. I casi leggeri erano lasciati andare per conto loro come oggetto di disprezzo, di ridicolo o di
prevaricazione. I violenti erano relegati in casa, spesso incatenati, aspettando che gli dei, che li avevano resi
folli, li curassero. Sul piano giuridico, ogni comportamento contro la legge veniva giustificato, perché la
malattia mentale era considerata come punizione ricevuta dagli dei. Il rapporto divinità- follia è ben
testimoniato dalla produzione letteraria omerica. Al tempo di Omero si pensava alla psiche come ad un
respiro di vita, ad una forza quasi palpabile che fa vivere l’uomo. Inoltre essa persisteva dopo la morte come
spirito del defunto, ma non si può assolutamente collegare al nostro concetto di personalità: le passioni di cui
gli eroi si fanno portatori, per esempio l’ira di Achille, sembrano indotte temporaneamente dall’esterno, si
manifestano e svaniscono con la stessa facilità. Appare “dato” dalla divinità il coraggio di Achille che
combatterà soltanto quando gli dei gli infonderanno l’ardore necessario; “date” dagli dei la fedeltà di Penelope
che non vuole risposarsi e l’audacia di Telemaco, quando per la prima volta parla coraggiosamente contro i
Proci per opera della dea Atena. La follia vera e propria è rintracciabile in molti episodi dell’Odissea, ma
soprattutto dell’Iliade (e del "ciclo" di poemi o tragedie ad esse collegati). Possiamo ricordare Ulisse, che
simula la pazzia per evitare di partecipare alla spedizione contro Troia, ma viene smascherato dal rivale
Palamede; Aiace, che sgozza un intero gregge di pecore convinto che si tratti di guerrieri nemici e, una volta
tornato in sè, si uccide per la vergogna; Polifemo, che viene ritenuto folle dai suoi compagni allorché invoca
aiuto contro “Nessuno” che lo vuole ammazzare. Nell’Odissea tuttavia, si affaccia una prima implicazione di
ordine morale che aprirà poi la strada alle situazioni descritte dalla tragedia: l’eroe commette “hybris”, supera i
limiti che gli sono consentiti e con questo richiama su di se la punizione divina. La tragedia classica attinge a
piene mani dal patrimonio mitico in cui la follia figura come elemento ricorrente. In un meccanismo in cui
l’uomo è preda di forze contrastanti che lo schiacciano in una condizione di inferiorità senza uscita, come una
marionetta in balìa degli dei dell’Olimpo, la follia rappresenta spesso l’unica soluzione possibile. Ricordiamo
a titolo d’esempio la figura del già citato Aiace e quella di Oreste, la follia sanguinaria delle Baccanti, la pazzia
di Ercole e quella, intesa come accecamento e incapacità di scorgere l'evidenza, dell'orgoglioso e sventurato
Edipo. Del resto lo stesso Dioniso, il dio della tragedia, è strettamente collegato al delirio, all’uscita di senno,
all’alterazione mentale connessa all’abuso del vino E’ noto che la cultura greca ha dato un grande contributo
in campo filosofico: perciò i maggiori pensatori si sono espressi anche sul tema della follia. Socrate affermava
che la follia è il contrario della saggezza, anche se non si può definire follia l’ignoranza in generale, ma (per la
maggioranza degli uomini) “ l’ingannarsi su ciò che per lo più è ben noto”. Per esempio viene chiamato “ folle”
chi pensa di essere tanto alto da dover piegare il capo per entrare o uscire dalle porte della città, o tanto forte
da riuscire a sollevare le case, o da impegnarsi in imprese unanimemente considerate impossibili. Per Socrate,
erano fenomeni prossimi alla pazzia il” non conoscere se stessi e avere delle opinioni su ciò che non si
conosce”. Il suo discepolo Platone dipinse l’anatomia dell’anima; infatti collocò l’elemento razionale nel
cervello, l’elemento irascibile (thymòs) nella regione cardiaca, l’elemento desiderante nei visceri. Questa
triplice divisione in ragione, passione, temperamento è stata paragonata a quella teorizzata da Freud in Es,
Ego, Super–Ego. La follia è oggetto della speculazione platonica sia nel Timeo sia nel Fedro. Nel primo
afferma che la disarmonia tra il corpo e la mente provoca delle distorsioni mentali, fondate sulla manìa o sulla
grande ignoranza. Nel Fedro analizza e descrive 4 tipi di pazzia: profetica, telestica o rituale, poetica e erotica.
La pazzia profetica rappresenta una "malattia" momentanea, tipica delle poche persone capaci di giungere
alla forma più alta di possessione o "entusiasmo"; questa era caratteristica degli sciamani che entravano in
trance, come ad esempio la Pizia dell’oracolo di Apollo a Delfi o la Cassandra immortalata nell'Agamennone
di Eschilo. La pazzia telestica o rituale rivestiva tipicamente un valore di liberazione dai bisogni istintivi.
Questa catarsi poteva avvenire solo attraverso riti religiosi caratterizzati da danze orgiastiche accompagnate
da musica incalzante. La follia poetica, dovuta alla possessione da parte delle Muse, era descritta come uno
stato di ispirazione particolare che le divinità concedevano all’artista per facilitargli il processo creativo.
La follia erotica era infine collegata all’amore umano, che nella cultura greca includeva rapporti sia
omosessuali che eterosessuali. Platone esprime la sua opinione anche in campo giuridico: infatti i malati
mentali con comportamento psicopatico dovevano essere rinchiusi in una casa di correzione per 5 anni e se
non miglioravano venivano uccisi. Inoltre prevedeva pene severe per i parenti che non si occupavano dei
pazzi. Per questi ultimi del resto esistevano regole ferree in materia di matrimonio, di eredità e di altri temi di
importanza legale. Platone ha una valutazione forse arcaica, ma sicuramente positiva della follia. Egli ritiene
che essa una sorta di invasamento o possessione di carattere sacro, e che per questo, come dice nel Fedro,
possa essere apparentata alla divinazione, alla poesia, all’eros e, attraverso l’eros, alla filosofia stessa. In
qualche modo, nell’orizzonte platonico, la follia è cosa che eccede il piano umano, ma lo eccede con una
potenzialità rivolta nella direzione del divino. Di tutto questo non c’è assolutamente più nulla in Aristotele,
dal quale la pazzia è vista come eccedente il piano umano, ma soltanto, e senza alcuna eccezione, per scadere
nella condizione della bestialità. A parte quest’atteggiamento specifico verso la manìa, le novità di Aristotele
rispetto a Platone sono sostanzialmente due: la prima è una rigida partizione antropologica che permette di
escludere dall’ambito umano queste forme di devianza e quindi di arrivare ad una patologizzazione integrale
della follia; la seconda è l’unificazione, non più soltanto analogica, ma sinergica, fra medicina e giustizia nella
loro funzione punitiva e repressiva. Un concetto innovativo di follia venne presentato dal medico greco
Ippocrate (450-377 a.C), che si può considerare il "padre" anche della medicina moderna. Con lui, alla visione
religiosa della psichiatria si sostituisce una concezione che attribuisce le cause delle malattie a fenomeni
naturali. Ippocrate tentò di fornire una spiegazione ricorrendo all’arte medica, in accesa polemica con quelli
“che ammantandosi nel divino” definivano sacra “questa affezione" per mascherare la loro incapacità di
curarla. Con lui e i suoi seguaci, la follia diventa una malattia del cervello, di cui essi per primi tentarono una
classificazione che comprendeva l’epilessia, la mania (stato di eccitazione anormale), la malinconia (stato di
depressione anormale), l'isteria e la paranoia: questa prima classificazione delle malattie mentali, nei
successivi venticinque secoli, venne appena modificata. Il concetto medico di follia, come è elaborato negli
scritti ippocratici, si basava sulla interazione di quattro umori del corpo – sangue, atrabile, bile e flegma – che
erano prodotti dalla combinazione di quattro elementi della natura (caldo, freddo, umido e secco). Le
persone venivano raggruppate in uno dei quattro corrispondenti temperamenti – sanguigno, collerico,
melanconico e flemmatico – e la classificazione si pensava riflettesse il motivo principale della loro
inclinazione. Il funzionamento della personalità si svolgeva ad un livello ottimale quando si raggiungeva la
crasi, cioè l'equilibrio nell’interazione fra forze interne ed esterne. La lotta tra queste forze, detta discrasia,
indicava la presenza di un umore corporeo eccessivo, che doveva essere tolto con la purificazione. In
conclusione, e con i dovuti limiti, Ippocrate può essere considerato il padre della moderna medicina e
psichiatria, anche perché propone al terapeuta un'accurata osservazione dei sintomi, che tenga conto della
biografia del paziente e del suo ambiente di vita, e attribuisce notevole importanza alla qualità del rapporto
medico- paziente. L'importanza che Ippocrate riveste rispetto alla storia della follia può essere giustamente
apprezzata da queste due brevi citazioni, estratte dall'opera dedicata alla smitizzazione del "morbo sacro":
- Non credo che la” malattia sacra” sia più divina o sacra di ogni altra malattia, ma al contrario che abbia delle
caratteristiche specifiche e delle cause definite.
-Gli uomini dovrebbero sapere che nient’altro che da là [dal cervello] vengono gioie, delizie e divertimento; e
per questo specialmente acquistiamo la vista e le conoscenze e vediamo ed udiamo. E a causa dello stesso
organo diveniamo folli e deliranti e ci assalgono le paure e il terrore talvolta di notte e talvolta di giorno…Tutte
queste cose le sopportiamo dal cervello quando non è sano. La visione ippocratica della medicina e della
psichiatria ha caratterizzato il periodo classico della storia greca e ha influenzato significativamente la
medicina romana, tramite il lavoro di alcuni medici greci che si erano trasferiti nella capitale dell’Impero. A
Roma le credenze superstiziose popolari continuarono a influenzare il trattamento dei malati mentali, che
erano dimenticati, banditi, perseguitati, privati della libertà di azione e giudicati incapaci di curare i loro
affari privati e pubblici. Nel I sec. d.C. Celso, l’autore classico degli otto volumi “De re medica”, si occupò a
lungo di malattie mentali. Egli non era medico, ma la sua cultura enciclopedica gli permise di fare il punto
sulle conoscenze mediche all’inizio dell’era cristiana. Le classificazioni erano per lo più le stesse del tempo di
Ippocrate, pur essendo la terminologia leggermente diversa. Celso utilizzava la parola “insania” per designare
la mania e il furore. La frenesia era sempre accompagnata da febbre; la classificava tra i disturbi che
colpiscono il corpo in modo completo e allo stesso modo era considerata la follia, in opposizione alle malattie
che ne colpiscono solo una parte. All’insania e alla frenesia, Celso aggiungeva un terzo tipo di disturbo
mentale: il delirio allucinante a volte allegro, altre volte triste, generale o parziale. L’originalità delle idee di
Celso sta nell’importanza che egli conferì alla valutazione del rapporto individuale medico-paziente. Celso
sostenne che una relazione di questo tipo potesse avvenire attraverso l’uso di tecniche specifiche per sollevare
pazienti depressi e per calmare i maniaci; inoltre egli consigliò l’uso appropriato del linguaggio della musica e
possibilmente qualche attività di gruppo, come quella della lettura ad alta voce, anche con errori voluti per
attirare l'attenzione del malato. Lucio Anneo Seneca, filosofo stoico del I secolo d. C, fu in un primo periodo
precettore e consigliere di Nerone, nell'illusione di poter realizzare con questo principe una forma di
"dispotismo illuminato". Fallito miseramente questo tentativo, Seneca si ritirò a vita privata dedicandosi alla
meditazione e alla produzione filosofico-letteraria. Celebre risulta, per la descrizione che ce ne ha lasciato
Tacito, la dignità con cui seppe affrontare la morte impostagli dal tiranno, suo antico allievo. Nonostante
l'apertura a varie correnti filosofiche, che come per Cicerone ci permette di parlare nel suo caso di eclettismo,
dalle opere di Seneca si evince che il pensiero che lo influenzò maggiormente fu lo stoicismo. Si giustifica con
l'adesione a questa filosofia ellenistica, diffusasi a Roma a partire dal II sec. a. C. con Panezio di Rodi e
Posidonio di Apamea, la concezione che Seneca ha della pazzia: infatti la dottrina stoica predica il controllo
totale delle passioni e identifica il "sapiens" in colui che riesce a non farsi dominare dagli istinti più
irrazionali. Nelle "Lettere a Lucilio[1]", Seneca sostiene che "…nessun nemico ha portato tanta offesa agli
uomini quanto le loro passioni. Questa sfrenata e pazza sete di piacere sarebbe imperdonabile se gli stessi
colpevoli non soffrissero le conseguenze delle loro azioni. E a buon diritto questa loro sfrenatezza li tormenta:
infatti ogni passione che oltrepassa i limiti stabiliti dalla natura diventa fatalmente smisurata e
incontrollabile. L'uomo moderato trova nella natura il suo limite, mentre le vuote fantasie che nascono dalle
passioni sono sconfinate...". Accanto a questo concetto allargato di pazzia affiora in parallelo l'accenno alla
follia intesa non solo come malattia dell'anima, ma anche del corpo: alla pazzia "che è curata dai medici" si
riferisce per esempio laddove[2] afferma che la follia come patologia "deriva da una malattia", "è effetto di
debole salute", è determinata "dall'umor nero". Sembra così configurarsi per Seneca un doppio livello di
pazzia: quella "filosofica", che si presenta come antitesi della saggezza, e quella "medico-patologica", che
allude alla vera e propria malattia mentale. In quest'ottica risulta particolarmente comprensibile il parallelo
fra ira e pazzia, ricorrente più volte nelle opere senechiane[3]. Scrive per esempio il filosofo: "Nessuna via è
più veloce dell’ira per arrivare alla pazzia. Perciò molti hanno continuato sulla strada dell’ira, non riuscendo
più a recuperare la ragione che avevano perso: la pazzia condusse verso la morte Aiace, spinto alla follia
dall’ira. Gli iracondi invocano la morte per i propri figli, la povertà per sé stessi, la rovina per la loro casa, e
negano di essere adirati proprio come i pazzi negano di essere fuori di senno"[4]. Forse però l'esempio più
impressionante della follia in atto si può leggere nel teatro tragico di Seneca e in particolare nell'Herculens
furens, dove il delirio del protagonista viene presentato in modo fortemente drammatico con tutti gli aspetti
cruenti tipici del gusto di quell'epoca.La pazzia viene evocata in forma tragica e potente già all'inizio
dell'opera, quando Giunone evoca contro Ercole la schiera orrenda delle Furie capeggiate da Megera[5].
Alla fine della vicenda il cerchio si chiude: la pazzia ritorna all'improvviso sotto forma di allucinazioni, che
inducono Ercole ad uccidere in modo orribile prima i figli e poi anche la moglie.
Nell'epoca di Traiano (98-117 d.C) visse Celio Aureliano, di Cartagine. Lo ricordiamo per la sua polemica nei
confronti della violenza contro gli "insani": egli raccomanda invece il ricorso alla musica e la cura con erbe e
consiglia di affidare il folle al medico anziché al filosofo. La medicina romana si avvalse infine dell’importante
contributo di Claudio Galeno (129-201 d.C). Questo medico, grande difensore e divulgatore delle teorie di
Ippocrate, operò una commistione, diversamente dal medico greco, tra speculazioni filosofiche e osservazioni
cliniche. Riaffermò una serie di teorie ippocratiche a cui affiancò elucubrazioni filosofico–teologiche. Anche
se l’autore non fu alieno da tendenze mistiche e sintetizzatore più che innovatore, gli scritti di Galeno sono di
estrema importanza poiché, grazie al suo eclettismo, ci ha fornito una profonda sintesi della medicina greco–
romana. Influenzato dalle idee filosofiche aristoteliche, Galeno considerò l’uomo come un organismo formato
da parti semplici, ma articolate tra loro con uno scopo; esse non erano però riducibili.
Credette che la natura fosse il risultato “della mescolanza e della separazione delle cose" e ripropose la teoria
degli elementi posti a fondamento della natura: per Galeno nei polmoni era posta l’aria, nelle ossa la terra, nel
sangue l’acqua, nell’anima il fuoco. I quattro elementi rappresentavano quattro qualità: il secco, il freddo,
l’umido, il caldo. Come gli ippocratici, Galeno sostenne la teoria dei quattro umori e considerò la malinconia
e i deliri violenti come una conseguenza di un loro squilibrio. Con i quattro elementi rappresentanti le
quattro qualità elaborò una teoria sui temperamenti, secondo la quale i sanguigni possedevano in eguale
misura le quattro proprietà, i flemmatici erano caratterizzati da un eccesso di acqua, i collerici di fuoco e la
secchezza era propria dei malinconici. Studiò accuratamente l'anatomia e la neurofisiologia, individuando
nel sistema nervoso centrale e in particolare nel cervello la sede delle funzioni psichiche e dell'anima
razionale: e a questo organo affidò lo stesso ruolo riconosciuto da Ippocrate, sostenendo perfino che alcune
malattie mentali erano conseguenza di una lesione cerebrale. La sua idea della follia fu in generale quella di
un propugnatore della medicina, contrario alla superstizione e convinto sostenitore dell'origine naturale e
biologica della pazzia ("quando il cervello diventa troppo caldo o troppo umido, troppo freddo o troppo secco,
alterazioni causate dagli umori, l'uomo diventa alienato"). Anche se non fu alieno dal filosofeggiare ed ebbe
tendenze mistiche trattando l’isteria ed i disturbi mentali, non solo fu un sostenitore dell’impostazione
medica ippocratica, ma dette un suo personale e fondamentale contributo. La concezione della pazzia come
malattia e quindi come oggetto della medicina raggiunge con Galeno l’acme della sistematizzazione e della
sintesi di una lunga tradizione; al contempo tuttavia è proprio con Galeno che comincia la decadenza del
pensiero e della pratica medica. Successivamente, in seguito allo spostamento della capitale a Costantinopoli,
la medicina bizantina si fonderà sulle cognizioni del passato e l’indirizzo medico nella ricerca della cause
della follia si limiterà ad una riproposizione delle teorie precedenti. I romani contribuirono in maniera
significativa in psichiatria soprattutto nella definizione degli aspetti giuridici della malattia mentale. Il
classico testo legale della tarda romanità il Corpus Juris Civilis specificò che i vari disturbi - follia, ebbrezza,
ed altri – che, se presenti al momento in cui l’atto criminale era commesso, potevano diminuire la
responsabilità del reo per la sua azione. Per quanto ci è noto, tuttavia, l’esame psichico del colpevole era
condotto dal giudice; i medici non venivano interpellati su questo punto e nella maggioranza dei casi coloro
che erano considerati malati mentali, compresi coloro che oggi sarebbero classificati come psicopatici
criminali, erano affidati a parenti o guardiani, nominati da autorità giuridiche. Inoltre vennero promulgate
leggi che regolamentavano la capacità del malato mentale di sposarsi, di divorziare dal coniuge, di disporre
della proprietà, di scrivere un testamento e di testimoniare. Durante il regno dell’imperatore Giustiniano
molti ammalati mentali, per i quali nulla si era fatto attraverso adatti mezzi terapeutici, furono sistemati nelle
istituzioni per i poveri e gli infermi, forse come conseguenza degli influssi del cristianesimo.
Il mito di Didone è stato raccontato per più di duemila anni con trasmigrazioni geografiche e culturali, e con
trasformazioni più o meno significative: ogni forma di ri-narrazione del resto è segno di vitalità della storia
ma anche una forma di interpretazione e di iscrizione della storia stessa nelle coordinate di gusto e
ideologiche del momento in cui viene ripresa (Bono-Tessitore 1998).
Nonostante Didone – Elyssa sia una figura orientale e nord-africana, la cui storia è attestata almeno dal terzo
secolo a.C., il mito occidentale di Didone posa la sua fortuna essenzialmente sui versi del quarto libro
dell’Eneide, dove Virgilio lo raccoglie dalle fonti precedenti e racconta, sullo sfondo storico e ideologico della
Roma di Augusto. Fin dall’inizio e tutta la storia della passione della regina per Enea è presentata come “follia
d’amore”, gravata dalla percezione delle connotazioni negative di una passione violenta e incontrollabile,
pronta a degenerare in conseguenze funeste, contrarie alle regole di comportamento sociale e religioso.
“Ardet amans Dido traxitque per ossa furorem” (Eneide IV, v. 101): ha assorbito nelle ossa il furore morboso.
“Furor” è il termine che caratterizza le reazioni e i gesti di Didone: nell’episodio ricorre tredici volte nelle
diverse declinazioni: “furor – furibunda – furens – furiis”, sia nella narrazione del narratore, sia nelle
osservazioni degli altri personaggi. Invece, a proposito di se stessa, la regina ricorre a due termini
estremamente significativi e patetici: “demens” (Eneide IV, v.370) e “insania (Eneide IV, v.595), con i quali
esprime la perdita della “mente”, cioè l’abdicare delle facoltà razionali alla “insania”, la malattia, alla follia
incontrollabile; “inops animi “(Eneide IV, v. 300), senza più la facoltà di controllo, Didone si lascia dominare
dalla funesta passione che esplode in un crescendo progressivo; cancellando la dignità del suo
ruolo,”bacchatur per urbem”, vaga per la città con gesti e abiti discinti consoni alle Baccanti, le Menadi
invasate del corteo di Dioniso, finché il funesto delirio la porta al gesto finale del suicidio.
Il 10 Dicembre 1936 moriva Luigi Pirandello, lo scrittore che nelle sue opere interpretò a pieno le nuove teorie
del Novecento. Se indossare una maschera è per l’uomo l’unico tentativo possibile di sentirsi accettato, è la
follia l’unica strada verso la libertà Il 10 Dicembre del 1936 muore Luigi Pirandello, uno dei più importanti
scrittori, commediografi e poeti italiani. Lo scrittore è tra i primi intellettuali europei a rappresentare,
attraverso le sue opere, la crisi dell’uomo del Novecento, dovuta all‘affermarsi di nuove teorie filosofiche
(Freud sostiene l’esistenza di una pluralità dell’io; Bergson parla di pluralità della realtà: Simmel di
“relativismo conoscitivo”). Non esiste dunque nell’uomo una sola identità e non esiste nemmeno un solo
modo di vedere ed interpretare la realtà ( da qui nasce l’incomunicabilità tra gli esseri umani).
Per essere accettati, principalmente in società, gli uomini tendono quindi ad indossare una maschera
(fingendo di avere una sola e ben definita identità) ma rinunciando così alla libertà. Per Pirandello, l’unico
strumento per riappropriarsene è la follia. Luigi Pirandello e le maschere che intrappolano gli uomini
Gli uomini quindi, per essere accettati nella società devono indossare delle maschere e interpretare dei ruoli.
Questa identità costruita è però qualcosa di rigido che ci si autoimpone, sforzandosi di essere coerenti, e
sopprimendo la propria vera natura. “Ciascuno si racconcia la maschera come può la maschera esteriore.
Perché dentro poi c’è l’altra, che spesso non s’accorda con quella di fuori. E niente è vero!“. (Luigi Pirandello,
L’umorismo). Allo stesso modo, l’uomo dovrebbe accettare che non esiste una vera comunicazione tra gli
esseri umani. Ognuno di noi, dunque, ha la sua verità, il suo punto di vista sulla realtà ed è chiuso nel proprio
mondo con le proprie opinioni e non riesce a entrare in sintonia con gli altri. Ogni uomo finge di
“comunicare”, ma in realtà i rapporti tra gli uomini (anche all’interno della famiglia) sono caratterizzati da
ipocrisia e falsità. “Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo
intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me;
mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli
l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai“. (Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore).
Così facendo, gli uomini si intrappolano in “prigioni” talvolta soffocanti, ma ciò è a loro avviso necessario per
non essere allontanati dagli altri. Luigi Pirandello è infatti l’autore italiano che più si avvicina a questo tema e
la propone anzi come strumento con cui ogni uomo potrebbe riuscire ad evadere dalla condizione alienante
impostagli dalla società e salvarsi dal dolore. Il folle infatti è libero, seppur condannato all’esclusione dalla
società. Tutti i personaggi delle opere di Luigi Pirandello sono infatti apparentemente improbabili, ma nel
loro disordine e marginalità, risiede una ricchezza soffocata dai pregiudizi della società e, cosa più
importante: risiede la loro autenticità. “Perché trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi
davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la
logica di tutte le vostre costruzioni! Eh! Che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una
loro logica che vola come una piuma! Volubili! Volubili! Oggi così e domani chi sa come! Voi vi tenete forte,
ed essi non si tengono più. Volubili! Volubili! Voi dite: << questo non può essere!>> e per loro può essere
tutto.” ( Luigi Pirandello, Enrico IV atto II). In fondo, la follia è solo una normalità che non riusciamo ad
inquadrare ma che sogniamo di raggiungere. Mattia Pascal e i suoi compagni sono di solito additati come
emarginati e nevrotici da compatire. In realtà sono il simbolo della verità che trionfa sulla menzogna. E il
modello da cui ripartire per costruire un mondo migliore Anche un orologio fermo segna l’ora giusta due volte
al giorno». Fu Hermann Hesse a pronunciare questo iconico aforisma, che ancora oggi ammalia ogni lettore
non soltanto per l’efficacia dell’immagine scelta, ma soprattutto perché ci ricorda continuamente come non
esista una definizione assoluta di giusto o sbagliato. Anche nel disordine, nella marginalità, in quello che
sembra minare le nostre certezze, risiede una meraviglia inaspettata, una ricchezza soffocata dai nostri
pregiudizi e dalle nostre paure. Luigi Pirandello è stato l’assoluto maestro di questa riflessione sulle
profondità dell’animo umano: nelle sue opere ha sempre dato ampio spazio a personaggi apparentemente
improbabili, a funambolici capovolgimenti dell’ordine naturale della società, a scelte e comportamenti a
prima vista incomprensibili e distruttivi agli occhi di chi vi si approcciasse con fare superficiale. Tuttavia, c’è
un nucleo più profondo da cogliere, un insegnamento perpetuo e prezioso: la finzione può gridare delle verità
che la realtà non può nemmeno sussurrare. E la follia, talvolta, è solo una normalità che non riusciamo ad
inquadrare, ma che sogniamo di raggiungere. Per questa ragione i personaggi pirandelliani suscitano in noi
un’impressione ambivalente, oscillante tra la presa di distanza e la voglia di interpretarne le gesta. Sono come
dei giocolieri che si esercitano con le nostre emozioni, clown che sanno strapparci un sorriso e
contemporaneamente instillarci il seme positivo di un dubbio malinconico. Così finiamo per provare
compassione per quelle cosiddette maschere nude che crediamo sull’orlo del cedimento emotivo: per Mattia
Pascal, creduto morto e privato della sua identità, che torna e scopre la relazione tra la sua vecchia compagna
e il suo migliore amico, prima di visitare la sua stessa tomba; per Vitangelo Moscarda, che vede crollare il suo
castello di sicurezze quando realizza che l’immagine di ognuno di noi non è che un frammento in ogni
sguardo che incrociamo; per i sei personaggi in cerca d’autore, che attendono ansiosi il completamento delle
loro vicende, creati da una mente che li ha poi abbandonati. E così per tutte le altre creature di Pirandello,
sensibili ingegni che hanno individuato la crepa nel grigio muro della realtà e vi si sono introdotti con dolore,
ma anche con rinnovata consapevolezza. La loro presunta pazzia è solo la condanna di chi ha troppa paura
per compiere il loro stesso tragitto. È la condanna di una società inchiodata alle sue malsane consuetudini,
avvezza ad indossare maschere di falsità per compiacere qualcuno, a celarsi dietro mille volti fino al punto da
dimenticare quello originale. I protagonisti immaginati da Pirandello si crucciano di essere stati sradicati, ma
presto si rendono conto di aver barattato volentieri il loro posto in quella collettività inautentica, dove tutti
fingono sapendo di fingere. Dove la libertà è subordinata alla convenienza. Solo chi esce da questo flusso
contorto e perverso può sperimentare una vera sensazione di autonomia. Ecco in che modo la follia può
fungere da base per il mondo di domani. Ecco perché da essa dipende la nostra salvezza. Perché quello di
Pirandello non è solo un atto d’accusa a chi preferisce denigrare le particolarità dell’altro piuttosto che
mettersi in discussione, ma un monito sentito: a lasciarci alle spalle i contatti e le abitudini che nuocciono al
nostro benessere, a superare quegli ostacoli materiali e morali che intralciano il cammino verso la felicità, a
fare scelte coraggiose e in cui crediamo a prescindere dalla maligna disapprovazione degli altri. Solo mettendo
un freno alla nostra smania di piacere a tutti i costi, solo risolvendo questa nevrosi che ci attanaglia potremo
scegliere liberamente chi essere. Non c’è vittoria che valga più di questa. “Prima di giudicare la mia vita o il
mio carattere, mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io. Vivi i miei dolori, i miei dubbi, le
mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha
la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare“. Il male di vivere, la frantumazione dell’io, follia e
maschere. Sono solo alcuni dei concetti che, immediatamente, ci rimandano a un unico protagonista del
panorama letterario italiano: Luigi Pirandello. Completamente calato nella crisi del secolo, quello tra la fine
dell’800 e gli inizi del 900, con il crollo delle certezze scientifiche, una grave crisi nazionale e l’assenza di
qualsivoglia sprone di positività nei confronti del mondo circostante, i suoi scritti sono ad oggi il pane
quotidiano degli studenti che, spesso si nutrono delle sue parole anche solo per emozionarsi, imparare a
scrivere e riflettere su importanti argomenti e tematiche. Crisi esterna ma anche interna, quella dell’uomo che
non sa più vivere in una società che sente di non appartenergli. “Notiamo facilmente i difetti altrui e non ci
accorgiamo dei nostri“. Una frantumazione dell’io più intimo, che da uno diventa nessuno e al contempo
centomila.
Che si cala nei panni di un altro uomo e gira il mondo sperando di trovare la propria strada senza più esser sé
stesso. Forse, proprio grazie a questo, ritrovandosi. Le maschere alle quali siamo tutti condannati, perché
sono a volte l’unico rimedio a una forma di nascondiglio segreto, dove tutti possiamo essere ciò che in realtà
non siamo, mostrando forti o deboli, sacri o profani, laici o cattolici, tutto a seconda di ciò che la società
ricerca e, talvolta, ci impone. Non è un caso se Luigi Pirandello è stato spesso associato a Freud e alla sua
psico-analisi. Ogni realtà, ogni uomo, vive per lui in un flusso continuo e perpetuo di cambiamento,
nell’irrazionalità dei giorni che fluiscono e scorrono come acqua dalla sorgente, a cui spesso sfugge il
raziocinio e lascia basiti e in tempesta. “La vita o si vive o si scrive, io non l’ho mai vissuta, se non scrivendola“.
America, 1976.
Il capitalismo cresce.
Il sogno americano sfuma, sgretolandosi in una profonda alienazione.
La guerra in Vietnam non è quella di Forrest Gump, la guerra in Vietnam è uno dei più grandi fallimenti
dell’America.
Taxi Driver, però, non ci racconta il fallimento della guerra all’interno della guerra stessa, ma all’interno
dell’essere umano, del reduce incapace di comprendere la sua esistenza nel mondo.
Robert De Niro, Travis Bickle, è la solitudine dell’uomo, ancora prima di essere l’uomo. Cosa vuol dire essere
un uomo nell’America di quegli anni? Il tassista osserva, ma non capisce.
Qui subentra il capolavoro; Scorsese ci dipinge un processo degradante all’interno della psiche del
protagonista, la sua epifania folle, con pennelli profondamente poetici.
Tutta la narrazione si evolve lentamente, luci soffuse, musiche malinconiche, malinconiche di un mondo che
si è sperato potesse esistere, ma che non esisterà mai.
Travis prova a vivere la realtà, quella che gli è stata imposta al suo ritorno, ma non può accettare questo
mondo, non dopo il Vietnam, ma forse questo mondo è ancora peggio ai suoi occhi. Ecco il disgusto, la rabbia
repressa, la voglia di integrarsi, di iniziare a esistere e di non barcollare più in una sospensione anonima, fuori
dal mondo, inizia a manifestarsi in lui.
Prova a uscire con una donna, angelica, la porta a vedere un porno. Lei schifata, lui non ne comprende il
motivo. Si tratta di una scena molto potente, mostra le menzogne del mondo, gli ipocriti costumi.
Travis Bickle: «La solitudine mi ha perseguitato per tutta la vita, dappertutto. Nei bar, in macchina, per la
strada, nei negozi, dappertutto. Non c’è scampo: sono nato per essere solo».
Il mondo è sporco, va ripulito. Travis vuole essere l’eroe che lo ripulirà, ma nessuno lo considera tale; egli è un
tipo di uomo che va scansato, non ascoltato, solo gli uomini tutti d’un pezzo possono salvare il mondo.
Salvare una ragazzina prostituta, eliminare da questo infame mondo gente marcia come può esserlo un
pappone: Travis ha trovato un significato. Con una furia omicida e la cresta in testa, il protagonista simula una
pistola con le sue mani, sorride e preme il grilletto, uccidendo un mondo fasullo e, al contempo, la sua
inquietudine.
Travis Bickle: «Ah sì certo, ah ah… Vaffanculo figlio di puttana, ti ho visto arrivare sai, pezzo di merda, avanti,
avanti su, io non mi muovo, non mi muovo dai, prova a muoverti tu, e muoviti… Non ci provare stronzo. Ma
dici a me? Ehi con chi stai parlando? Dici a me? Eh, Non ci sono che io qui. Di’, ma con chi credi di parlare tu?
Ah sì è e, va bene… ».
Tutti conoscono questa battuta, ma il suo significato? Travis contro il mondo, o contro la sua sporcizia? Forse
Travis contro se stesso, il suo demone, la sua solitudine, contro il fallimento di un sogno che per una
generazione è stato inculcato nelle ingenue menti speranzose. Il sogno di un mondo migliore, un mondo
sincero e fatto di condivisione. Travis contro il suo essere un traumatizzato, un reduce che nessuno ha aiutato,
un reduce che infine viene proclamato eroe pur di non ammettere che sia un malato, pur di non ammettere
che sia una conseguenza dell’incubo americano.
Nella scena finale ci si chiede se Travis sia tornato normale o meno, ma io non credo. Lui ha solo capito che il
mondo non può essere cambiato; nascondersi nella solitudine è, a volte, la scelta migliore.
Taxi Driver è la poesia di un mondo fallito prima ancora di provare a essere migliore, la malinconia di un
sogno sgretolato, la dolcezza di una consapevolezza quanto mai amara.
La connessione tra eros e mania si rintraccia, ma secondo prospettive e dinamiche differenti, anche nella
rielaborazione euripidea del mito di Medea. Abbandonando la patria Colchide e infrangendo
sanguinosamente i propri legami famigliari, la donna barbara segue Giasone nel viaggio di ritorno verso la
Grecia: una traversata marina che Medea affronta — come ricorda retrospettivamente il coro della tragedia —
“con il cuore folle d'amore” (Euripide, Medea 432). La dimensione fortemente anancastica del desiderio
amoroso viene poi ribadita dallo stesso Giasone che ha beneficiato dell'aiuto di Medea per la conquista del
Vello d'oro: era stato lo slancio della passione amorosa, il potere di Eros a “costringere” Medea, a indurla, con
la forza di una necessità ineludibile, a venire in soccorso dell'eroe greco, con l'altrettanto inevitabile
conseguenza di tradire la propria patria e i propri genitori. Una dimensione erotica che — nel gioco lessicale
della tragedia — sembra radicarsi nella concreta urgenza della carne, nei bisogni della sessualità: il letto
knizei, “gratta”, “irrita” il corpo di Medea, ma ancor più il suo phren, il suo “animo”, rendendo lancinante la
percezione della mancanza e del bisogno insoddisfatto nel momento in cui una “sventura” viene a
interrompere le consuetudini e i piaceri del talamo (Euripide, Medea 599 ss.). Quando infatti la tragedia
euripidea ha inizio, l'amore è ormai solo un simulacro del passato, un elemento della memoria mitica e
biografica del personaggio. Tradita da Giasone — che contrae una nuova unione con la figlia del re di Corinto
—, Medea finisce per polarizzare ogni energia psichica nel furore distruttivo della vendetta, nella reattività
esasperata della separazione: il suo thymos, il tradizionale centro delle emozioni, viene di fatto assorbito e
identificato nella dimensione ossessiva e totalizzante della collera contro chi le ha fatto “ingiustizia”, contro
chi, venendo meno ai patti e alle promesse della 13 philia, l'ha “offesa” e “disprezzata”. La ferita dell'abbandono
sembra, in un primo momento, immobilizzare la donna in un silente ripiegamento su se stessa: con lo
sguardo fisso a terra, senza rispondere a coloro che le stanno vicino, Medea rimane seduta in casa,
ripensando con dolore e nostalgia alla propria terra lontana. Ma quando si scuote da tale torpore, esplode,
senza transizioni, in una “nube” di gemiti e di lamenti che suscitano preoccupazione nella fida nutrice,
consapevole del fatto che la tempesta emotiva non si placherà fino a quando non riuscirà a colpire un
concreto bersaglio, fino a quando non “si abbatterà” sui corpi e sulla vita altrui. Insistiti sono infatti i richiami
al particolare e temibile profilo temperamentale dell'eroina: bareia phren, “animo grave” e “violento”, agrion
ethos, “carattere selvaggio”, deine, donna “terribile”, e ancora deina tyrannon lemata, “volontà tremenda” ed
eccessiva propria di chi è abituato a comandare e ad essere “signore assoluto” (Euripide, Medea 24 ss.).
Altrettanto significativi sono i tratti che paiono rinviare più strettamente all'ambito medico, legando
l'alterazione emotiva e mentale a un quadro di disordine psicofisico: Medea è una madre dysthymoumene,
una madre in preda ad uno stato di dysthymia, ovvero di “abbattimento”, di “scoraggiamento”, di
“depressione”, secondo le accezioni testimoniate anche dagli scritti ippocratici. Tale disturbo e la sua esiziale
evoluzione sembrano avere peraltro un risvolto (se non una causa) sul piano somatico: l'eroina viene definita
infatti con lo stesso aggettivo, megalosplachnos, che, nella tradizione medica, designa il malato affetto da
“viscere gonfie”, da viscere eccessivamente ingrossate per la presenza di cholos. Termine, quest'ultimo, che
indica l'umore della “bile”, ma che è anche, nel dramma, ripetuto sinonimo di orge, “ira”, “collera”. E come nei
casi già considerati, il turbamento della mente e delle facoltà psichiche si lascia subito cogliere dall'esterno in
alterazione inquietante dell'aspetto e dello sguardo: l'occhio della donna diviene torvo e feroce, è uno sguardo
taurino, uno sguardo da leonessa che ha appena partorito (Euripide, Medea 106 ss.).
Tuttavia, quando Medea si presenta sulla scena dinanzi al coro delle donne — dopo aver fatto ampiamente
intendere dall'interno della casa la propria dolorosa esasperazione — , il suo comportamento appare
sorprendentemente controllato e ragionevole, del tutto distante dalla concitazione che le urla precedenti
avevano palesato. Di fatto, per tutta la durata del dramma, l'anima furente di Medea mostra di oscillare tra
diverse modalità verbali. Vi è anzitutto lo stimolo alla lamentazione e all'invettiva — a “dire male” del marito
fedifrago — , stimolo che essa asseconda nell'esplicito intento di kouphizein, di “dare sollievo” alla psyche
oppressa (Euripide, Medea 470 ss.). E' una forma di glossalgia — così verrà poi definita da Giasone — , un
“disturbo”, un “dolore della lingua” che si trasforma in una loquela sfrontata ed impudica, in una sequenza
torrenziale ed ossessiva di accuse e di recriminazioni. Ma, in altri momenti, Medea è capace di adottare il
registro espressivo opposto, definito dalla dimensione dei malthakoi logoi, della “parole morbide” e
carezzevoli che si insinuano nell'animo di chi ascolta, piegandone le resistenze e addormentandone le paure.
In modo abbastanza singolare, gli uomini che parlano con Medea sono consapevoli dell'effetto suasivo di tali
discorsi e della minaccia sottesa alla pacatezza della comunicazione. E, non di meno, tutti cadono nella
trappola di colei che, scena dopo scena, si conferma abilissima manipolatrice dei diversi interlocutori,
mostrando di essere thymoumene, incandescente per la passione vendicativa, e insieme bouleuousa te kai
technomene, fredda elaboratrice di piani e di intrighi (Euripide, Medea 402 ss.).
14 Agli spazi del dialogo — come luogo di scontro, di inganno o di controllo dell'avversario — si succedono,
nel corso del dramma, ripetute sequenze monologiche o paramonologiche, in cui Medea, isolandosi da ciò
che le sta intorno e prescindendo dalla presenza del coro, si concentra su stessa per analizzare la propria
situazione e insieme le concrete possibilità di azione. La progettazione della vendetta si trasforma in un
esame di alternative e in un vaglio di rischi e di elementi di sicurezza, in un sapiente gioco di forme ed
aspetti verbali: facendo un insistito uso del futuro, essa immagina ogni fase del proprio agire e poi,
transitando al perfetto, ne vede mentalmente il compiuto realizzarsi, verificando in anticipo la tenuta del
progetto nel suo insieme. Se la tragedia consiste in larga parte delle parole di Medea — si sviluppa attraverso i
suoi discorsi — lo spazio scenico reale, luogo dell'effettiva interlocuzione dei personaggi, viene doppiato e in
certa misura fatto esistere dalla scena interiore, dal teatro che la donna costruisce con se stessa e in se stessa.
Medea interagisce con la propria fratta costellazione psichica, rivolgendo esortazioni, ammonimenti, parole
di approvazione o di biasimo alle diverse parti in cui la sua soggettività si è scomposta: essa parla non solo al
suo thymos, al suo furore collerico, ma anche al suo cuore, alla sua mano, chiama se stessa per nome,
ricordando alla Medea che è quello che Medea sa e conosce (Euripide, Medea 401 ss., 1056 ss., 1236 ss.).
L'eroina subisce la sofferenza e il trauma dell'abbandono, ma al contempo eccita se stessa, alimenta il proprio
furore: kinei kradia, kinei cholon “muove” — come sottolinea il testo euripideo (vv. 99 ss.) — “il proprio
cuore e la propria ira”. E quanto più si dispiega tale scenario psichico, tanto più autonomi e soggettivi sono i
termini del suo discorrere. Se all'inizio del dramma Medea può ancora invocare gli dei perché vedano quel
che
essa patisce, poco più avanti troverà sufficiente fare appello al proprio sé per passare all'azione.
Nella lucida crudeltà del personaggio, il monologo si piega peraltro ad essere non solo strumento di
deliberazione e specchio attendibile di dinamiche interiori, ma anche ulteriore mezzo di finzione e di
inganno. Quando simula di volersi riconciliare con Giasone, per attestare il proprio ravvedimento in maniera
più credibile, Medea riferisce all'eroe il discorso che avrebbe fatto a se stessa: un sorta di autorimprovero in
cui, dandosi della “sciagurata” e tacciandosi di “insania”, essa avrebbe deciso di mutare atteggiamento:
“Disgraziata, perché continuo a comportarmi da pazza?” (Euripide, Medea 872 ss.). La presunta sincerità
della forma monologica diviene così artificio di teatro e di simulazione nella simulazione.
Il percorso della vendetta trova il suo momento culminante nell'infanticidio: Medea comprende freddamente
che attraverso quest'atto potrà colpire nel modo più grave e doloroso il marito fedifrago, privandolo della
discendenza, della continuità della stirpe e del nome, elementi irrinunciabili per il sistema androcratico
greco. Ma lo svolgersi dei pensieri le rende al contempo evidente il “male” enorme, “due volte tanto”, che
dovrà infliggere a se stessa, azzerando la propria maternità. Nel celebre e paradigmatico monologo che
precede l'esecuzione del crimine, Medea, lacerata tra istanze opposte, respinge più volte i propositi omicidi.
“Addio ai progetti di prima”— essa dice sollecitata dalla presenza dei bimbi, dall'immediata ed elementare
percezione della loro fisicità: il respiro, l'occhio luminoso, la tenera pelle che sollecitano il senso e il rispetto
di un legame che non può essere cancellato o offeso (Euripide, Medea 1036 ss.). Ma poi di nuovo riaffiora
l'ossessione — come per Aiace — del riso dei nemici, dell'oltraggio ricevuto che deve essere lavato nel sangue.
15 La decisione finale, la conferma del disegno criminoso si compie attraverso una sorta di paralogismo:
prevedendo la vendetta a cui i propri figli potrebbero essere esposti dopo la morte del re di Corinto e della
nuova sposa di Giasone, Medea vede l'uccisione della prole come una necessità imposta dalle circostanze. La
motivazione tutta soggettiva si trasforma così in una costrizione che si impone al soggetto dall'esterno:
poiché essi comunque “devono morire”, “li ucciderò io che li ho messi al mondo” — conclude Medea
riappropriandosi, in modo "perverso", di quei corpi che hanno avuto origine da lei (Euripide, Medea 1060 ss.,
1240 ss.). Ma lo scarto del ragionamento è evidente poiché l'origine di quella minaccia esterna — l'eventuale
vendetta dei Corinzi e dei famigliari del sovrano — sarebbe in ogni caso la diretta conseguenza del piano
attuato da Medea. E se è costretta ad uccidere, è però anche obbligata ad un atto di rimozione, a un
momentaneo, ma necessario oblio prima di affondare la lama: “per questo breve giorno dimenticati dei tuoi
figli e poi piangi” (Euripide, Medea 1247 ss.). Con assoluta consapevolezza intellettuale — la consapevolezza
di chi sdoppiandosi si vede e si parla —, essa riconosce “quali mali” sta per compiere, ma afferma anche la
loro inevitabilità: thymos kreisson ton emon bouleumaton (Euripide, Medea 1079). Espressione di esegesi
controversa, da molti intesa come positivo e atroce riconoscimento che la furia vendicativa domina e dirige
(kratei) ogni altra facoltà deliberativa e raziocinante della mente: il thymos istruisce i progetti vendicativi e
guida Medea fino all'estrema soddisfazione della sua pulsione distruttiva, con quell'infanticidio tanto più
scandaloso quanto più accuratamente premeditato. Ma un'altra lettura è pure possibile, secondo quanto
ci testimonia anche la tradizione antica. Il medico Galeno, discutendo le teorie etiche di Crisippo, prendeva
in considerazione le parole di Medea come esemplare riconoscimento di una situazione in cui la ragione
viene alterata e deviata dall'elemento passionale: dalla collera che come un cavallo ribelle finisce per
travolgere l'auriga (Gli insegnamenti di Ippocrate e Platone 4,6,147 ss.). D'altro canto, anche Eraclito, sia pur
secondo una differente prospettiva, aveva detto: “E' difficile combattere contro il proprio thymos: ciò che
vuole lo
compra a prezzo della vita” (21 B 85 Diels-Kranz).
La follia di Medea fra strumento del patriarcato e resistenza femminista
Uno dei punti su cui maggiormente si concentra la rilettura femminista dell’opera di Euripide è proprio il
rapporto fra femminilità e follia e su come quest’ultima, in particolare, derivi da una tradizione discorsiva
patriarcale. Ad esempio, la critica letteraria Shoshana Felman afferma come la retorica patriarcale abbia
etichettato come folli le donne che si rifiutano di essere sottomesse e di tacere davanti al predominio degli
uomini che, al contrario, appaiono come gli unici detentori e dispensatori della ragione. Nel quadro dei
discorsi patriarcali, inoltre, la follia è utilizzata anche come strumento per spiegare e minimizzare la
differenza femminile, trovando una propria legittimazione nell’assegnazione alle donne di qualità
animalesche e mostruose: Giasone, infatti, minimizza la rabbia di Medea per il suo abbandono etichettandola
come folle e paragonandola a una creatura animalesca, suggerendo, in tal modo, la perdita della sua
femminilità e, in generale, della sua umanità.
Tuttavia, ribaltando e riformulando quanto detto fuori dai limiti del discorso patriarcale, la follia di Medea
può essere parimenti considerata come strumento di resistenza femminista: in contrasto con la perdita di
femminilità, sanità mentale o umanità, infatti, la follia è l’emblema del rifiuto della protagonista di tacere
davanti all’egemonia machista. La follia di Medea, quindi, è molto di più rispetto a una nozione patriarcale di
patologia femminile ma è un atto di rinuncia intenzionale e calcolato nei confronti dei ruoli di genere in cui
tenta di confinarla il sistema patriarcale greco. Il machismo greco esige e ordina che Medea rimanga in
silenzio, etichettandola come folle quando non rispetta questo diktat, ma la protagonista, attraverso la voce e
il corpo, si impone sulla presenza patriarcale dando implicitamente spazio a tutte le donne della Grecia del VI
secolo.