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Rossini (Andrea Chegai)

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La Cultura

1621

L’OPERA ITALIANA
Fabrizio Della Seta, Bellini
Paolo Gallarati, Verdi
Luca Zoppelli, Donizetti
Andrea Chegai

Rossini
Esperite le pratiche per l’acquisizione dei diritti di pubblicazione delle immagini, la
casa editrice rimane a disposizione di quanti avessero a vantare ragioni in
proposito.
© il Saggiatore S.r.l., Milano 2022
Sommario
Raccontare Rossini oggi
1. Retroterra culturale e percorsi di formazione
2. «Cimarosa non è morto»
Debutto veneziano e costruzione di un’identità
3. Verso un ampio orizzonte
4. Tancredi e L’Italiana in Algeri
Immaterialità e corporeità vis-à-vis
5. Nelle secche della memoria
1814
6. Restaurazione politica e affermazione professionale
Quasi un’aporia per Elisabetta e Rosina
7. «Tutto cangia a poco a poco»
Nuove prospettive sui generi: «Otello» e «Cenerentola»
8. Messaggi dal passato
Epos, mito classico e mito biblico (1817-19)
9. La donna del lago
Un’enclave romantica nel progetto restaurativo
10. Passato e futuro si incrociano
La fase napoletana va a concludersi
11. Commiato dall’Italia ed epilogo di una tradizione
«Semiramide», Venezia 1823
12. Mediazione e autorappresentazione nei primi anni
parigini
1823-28
13. «Senza punto pensare a risvegliarne l’ardore»
«Guillaume Tell» e la mutevole idea di libertà
14. Un altro Rossini?
Nota discografica
Glossario
Composizioni di Gioachino Rossini
Bibliografia
L’Archivio Storico Ricordi di Milano
La serie «L’opera italiana» si apre con cinque volumi dedicati
rispettivamente a Rossini, Donizetti, Bellini, Verdi e Puccini.
In questi nomi si compendia la stagione più rappresentativa e
universalmente amata del melodramma per la diffusione che i
loro capolavori hanno avuto sin dall’inizio e continuano ad
avere in ogni teatro del mondo. Ideali destinatari di questi libri
sono il lettore curioso, desideroso di accostarsi al teatro lirico
attraverso un tipo di ascolto consapevole, che è insieme
piacere, comprensione, sorpresa, riflessione artistica e storica,
provocazione estetica e morale; lo studente delle superiori o
dell’università, interessato a capire come funziona la
drammaturgia del teatro cantato e quali affinità e differenze
possiede rispetto al teatro di parola e al cinema; l’appassionato
intenditore che intende approfondire la conoscenza dei singoli
musicisti con uno sguardo globale sulla vita e sull’opera, di
solito trattate separatamente, qui invece intrecciate in forma
narrativa in modo da illuminare la personalità del singolo
attraverso le scelte artistiche, le lettere, i documenti; tutti
coloro, infine, che si sentono attratti dalla bellezza e dalla
forza espressiva della musica.
L’arco cronologico è assai ampio. Dall’età napoleonica alla
Prima guerra mondiale e oltre, il melodramma ha subito
enormi trasformazioni: la drammaturgia, le forme poetiche dei
libretti, lo stile musicale sono cambiati, stimolando la scelta di
nuovi contenuti e soggetti inconsueti. Nel giro di un secolo, in
modo diretto o indiretto, le parole e la musica del melodramma
italiano sono penetrate in ogni strato della società pre- e
postrisorgimentale, e hanno accompagnato la vita della
nazione, rispecchiando le trasformazioni dei gusti, delle
aspirazioni, delle idee, in perfetta armonia con quanto
avvenuto in Europa. Il che imponeva di collocare l’opera non
solo nel contesto biografico, artistico e culturale di ogni
singolo musicista, ma anche sullo sfondo storico, politico e
sociale di un mondo in evoluzione. E questo non solo perché
le carriere di Rossini, Donizetti, Bellini, Verdi e Puccini si
sono svolte anche, in parte, all’estero, e questi musicisti hanno
composto opere francesi di imprescindibile importanza, ma
perché il melodramma italiano, che ha dato al nostro
Romanticismo diffusione internazionale, ha importato nella
cultura italiana argomenti, temi drammatici e spunti narrativi
derivati da fonti straniere, mettendola così in contatto con un
immaginario artistico e letterario destinato, altrimenti, a restare
praticamente sconosciuto.
I giovani terminano gli studi superiori nella convinzione che
in Italia non sia esistita una forma di teatro degna del paragone
con le grandi tradizioni straniere. «L’opera italiana» mostra
loro che non è così e che, nel dramma cantato, la forza dei
sentimenti (attraverso cui passano le idee), rappresentati in atto
attraverso la musica, raggiunge la stessa potenza espressiva
della forza delle idee (attraverso cui passano i sentimenti),
trasmessa dal teatro di parola: il fine raggiunto da entrambi è
quello comune di realizzare un teatro inteso come “vita
potenziata”. Si tratta semplicemente di saperla cogliere, questa
vita, attraverso le infinite possibilità espressive del canto
inteso come espressione del vissuto e del pensiero che lo
alimentano.
Paolo Gallarati,
curatore del progetto
L’OPERA ITALIANA

Andrea Chegai Rossini


Luca Zoppelli Donizetti
Fabrizio Della Seta Bellini
Paolo Gallarati Verdi
Virgilio Bernardoni Puccini
Rossini
A Gemma e ai suoi nove anni
Raccontare Rossini oggi

Pubblicità delle opere teatrali di Rossini edite da Ricordi,


Gazzetta Musicale di Milano, dicembre 1892; Milano, Archivio Storico Ricordi

Su Rossini, uomo e artista, molto è stato scritto e molto si


continua a scrivere. Disponiamo di studi pioneristici tuttora
utili, di lavori rifondativi prodotti nell’ambito della Rossini
Renaissance (fenomeno di ampio raggio che abbraccia la
dimensione esecutiva e quella scientifica), di riviste specifiche,
di edizioni di libretti e partiture, di pubblicazioni destinate alla
didattica e di studi specialistici dedicati anche ai recessi di una
produzione molto vasta, oppure volti a riconsiderare
complessivamente l’opera e la figura del compositore alla luce
di nuovi orientamenti della musicologia internazionale.
Oggi più che in passato, Rossini appare quindi una questione
aperta. Gli apporti della ricerca concorrono a una più
approfondita conoscenza dell’autore, ma è soprattutto
progressivamente mutato il punto di vista critico. Ormai
Rossini non è più soltanto l’emblema di una cultura al
tramonto (quella della Restaurazione) e ha acquisito una estesa
identità storica, oltre che artistica. La sua sofisticata
drammaturgia, che ha visto contrapposti sostenitori e
detrattori, è meglio compresa tanto nel genere comico quanto
nel serio anche grazie a una più accurata messa a fuoco del
sistema produttivo coevo e delle modalità compositive sue
proprie. La distanza fra noi e l’autore, vissuto agli albori di
una modernità che però non è più la nostra modernità, se non
si è ridotta tende oggi a essere esibita e a costituire di per sé
una qualità drammaturgica (per esempio attraverso le regie che
hanno voluto rimarcare la sua inattualità o anche alterità
rispetto a noi).
Tutto il suo teatro (e quasi tutta l’altra sua musica) è oggi
disponibile, anche se solo una piccola parte delle opere appare
con regolarità nei cartelloni dei teatri. Ma la discontinuità
stessa con cui la produzione rossiniana si propaga ai nostri
giorni – opere stabilmente di repertorio, opere che vi rientrano
e vi restano, opere riprese più di rado e altre solo
eccezionalmente come documenti – diviene meritevole di
considerazione quando si tratti di affrontare l’autore in una
prospettiva storica. Quella discontinuità ripropone infatti le
originarie condizioni di esistenza dell’arte rossiniana, che
sfrutta un preciso codice comunicativo, redditizio e funzionale,
applicato a generi e contesti diversi in prodotti diversamente
longevi. In questo senso (ma solo in questo) la musica di
Rossini “funziona” per noi come funzionava per gli spettatori
di primo Ottocento, essendo stato Rossini l’artefice (o la
causa) dell’affermazione di un canone teatrale, formulato
dapprima sulla base prevalentemente delle sue musiche, poi
escludendole, quindi gradualmente riammettendole.
L’originalità e la longevità dei titoli non erano del resto, al
tempo di Rossini, obiettivi primari, mentre lo era l’“incontro”
delle opere inscenate, ossia il rispetto delle consegne. Quella
di Rossini, e soprattutto del Rossini italiano, è musica
concepita per il suo presente; giunge infatti a noi, salvo rare
eccezioni, dopo lunghi intervalli temporali in cui è stata
accantonata, o rimossa, a vantaggio di titoli più aggiornati.
Questo libro non ambisce pertanto a scandagliare in modo
esaustivo una produzione ampia e diseguale, né a cogliervi i
tratti di una diffusa eccellenza, bensì a darne conto
storicamente, per ciò che significò al tempo e per quanto (e
come) può ancora significare per noi.
Rispetto a venti o trent’anni fa è anche migliorata la nostra
conoscenza dell’età rossiniana, ovvero, in senso lato, della
musica italiana del primo trentennio dell’Ottocento, e si sono
ampliate le possibilità di avvicinare la produzione di quel
periodo, a lungo ristretta a pochi titoli sopravvissuti ai margini
del repertorio. Ascoltare per intero almeno alcune opere dei
“classici” Cimarosa, Paisiello (inattivi negli anni di Rossini,
ma ancora rappresentati), Zingarelli, Mayr, Manfroce o Paer,
assieme ad altri autori degli anni cosiddetti “di transizione”, è
oggi possibile; i titoli riversati su disco o disponibili in rete
crescono con lenta ma regolare cadenza. Composizioni sparse
dei più moderni (e più vicini a Rossini) Pavesi, Pietro
Generali, Giuseppe e Luigi Mosca, Morlacchi, Coccia o Pacini
non figurano più solo sul leggio di pochi musicologi interessati
a questioni morfologiche, allo studio dei soggetti o della
vocalità, ma vi si può effettuare qualche sopralluogo tramite le
più comuni piattaforme sul web. Questi nuovi orizzonti di
ascolto consentono anche una più appropriata
contestualizzazione della musica di Rossini. Il quesito da
sempre associato al Pesarese, ovvero se egli apra o chiuda
un’epoca, ci appare oggi sotto altra luce: una prospettiva
combinata di “lungo Settecento” (idealmente esteso sin dentro
l’Ottocento della Restaurazione) e di “lungo Ottocento”
(retrogradato a inglobare gli eventi rivoluzionari), come
antidoto alla rigidità di sinossi e cronologie o di una visione
unilaterale del fenomeno, mette in evidenza la coesistenza di
“lunghe durate” e di perentorie rotture, di tradizione e
innovazione; in Rossini vi sono le une e le altre.
La collocazione storica di Rossini è anfibia: in bilico fra
Rivoluzione e Restaurazione (e con in Francia una nuova
Rivoluzione alle porte, verso l’epilogo della carriera di
operista), essa concorre a rendere sfumato il profilo
dell’artista, che attraversò svariati e contrapposti scenari
geopolitici con una capacità di adattamento in cui ancora si
riconosce l’eredità dell’antico regime riguardo alle funzioni e
ai limiti dell’arte (il compositore di musica come prestatore
d’opera super partes). Egli infatti raggiunse e impose uno stile
sovraregionale, al di là delle differenze sociali e politiche; uno
stile privo del contrassegno di una scuola, in pochi anni
divenuto universale ed esemplare per i suoi contemporanei. La
sua formazione si era sviluppata al di fuori della tradizione
napoletana e l’insegnamento più autorevole a lui impartito,
quello del bolognese Stanislao Mattei, riguardò
l’apprendimento dei princìpi del contrappunto e della
composizione, certo non del mestiere teatrale. Il caso di
Rossini non fu sporadico (Cherubini, Mayr o Paer ebbero tutti
una formazione eterogenea) e in questa nuova condizione
professionale si coglie un netto passaggio di consegne rispetto
alla tradizione operistica tardosettecentesca, che ancora aveva
trovato in compositori “napoletani” come Paisiello o Cimarosa
indiscussi punti di riferimento. La capillare diffusione e
l’identità inequivocabile del suo linguaggio melodrammatico
spiega anche perché, nell’Italia postunitaria, si guardasse a
Rossini come al padre nobile della nazione e non solo in senso
melodrammatico, malgrado la reticenza del Pesarese nei
confronti degli scottanti temi dell’attualità politica.
Una monografia su Rossini non può procedere con passo
regolare. La svolta successiva al 1829, data della prima
rappresentazione del Guillaume Tell, ultima opera teatrale del
compositore trentasettenne, determina una ben nota
asimmetria del percorso biografico rispetto alla produzione
successiva, da quell’anno in poi limitata alla musica da camera
e pianistica, a composizioni d’occasione e al genere sacro.
Quel lungo e definitivo silenzio, per quanto riguarda nuove
produzioni teatrali, ha trovato nel corso del tempo molte
spiegazioni, ma appare oggi più un falso problema che una
questione su cui valga la pena di interrogarsi ancora. Tuttavia,
chi scriva o legga dell’autore non lo può considerare un
semplice dato di fatto: fino al 1829 abbiamo più musica che
vita, più il Rossini artista che non l’uomo Rossini; da quel
momento in poi avviene il contrario, prolungandosi per un
quarantennio i suoi contatti, le testimonianze di e su di lui, la
sua influenza sul mondo musicale e teatrale. Dal 1829 Rossini
si nega come operista a un mondo in rapida trasformazione,
ma ne è un osservatore tutt’altro che inerte; il suo tardo
“dilettantismo” si profila come una posizione d’eccellenza
dettata da lucida autocoscienza. In altre parole, Rossini in
quegli anni di relativo silenzio non cessa di appartenere alla
storia della musica e della cultura, non solo italiana.
In questo libro, suddiviso in quattordici capitoli di diversa
estensione e scansione temporale, ma seguendo con elasticità
una linea cronologica, si investiga sul fenomeno Rossini da
svariati punti di vista. Solo tre opere sono trattate in un
capitolo specificamente loro destinato; più spesso titoli affini o
temporalmente ravvicinati vengono raggruppati in base alle
condizioni operative del compositore o alla recezione del
pubblico, che poté familiarizzare con la produzione di Rossini
attraverso molteplici e prolungate esperienze d’ascolto e
visione. Raramente le opere discusse sono analizzate per
intero; ci si sofferma di preferenza su casi selezionati, e il
primo piano è riservato ora al dettato testuale del libretto e
della partitura, ora alle vicende legate alla produzione, ora al
giudizio dei contemporanei o della stampa coeva. Il dato
biografico, anche di quanti operarono a fianco di Rossini o
collaborarono con lui, è discusso assieme alle opere,
considerate non astratte creazioni dello spirito ma prodotto di
artisti che si riconobbero o meno nella società e nella cultura
di appartenenza. Maggiore sarà la sintesi per gli anni della
formazione rossiniana (all’incirca fino al 1810) e per quelli del
silenzio teatrale (1830-1868).
Libro più da leggere che da consultare, quindi, indirizzato
anche a un pubblico di non specialisti che può giovarsi della
bibliografia riportata alla fine del volume.
Ringraziamenti
Il mio primo ringraziamento va al curatore della collana, Paolo
Gallarati, che proponendomi la scrittura di questo libro ha
confidato nell’utilità di uno sguardo dal basso, ossia dal
Settecento di cui più mi sono occupato, per l’inquadramento
complessivo di un fenomeno, quello rossiniano, che per la sua
stessa collocazione temporale si sviluppa in mondi diversi,
rivolgendosi a orizzonti altrettanto eterogenei.
Desidero poi esprimere la mia gratitudine ai numerosi amici
e colleghi che anche senza esserne consapevoli mi hanno
fornito negli anni più di uno spunto utile alla stesura delle
pagine che seguono. Fra questi vorrei menzionare almeno
Ferdinando Abbri, Marco Beghelli, Tommaso Codignola,
Fabrizio Della Seta, Eleonora Di Cintio, Paolo Fabbri, Roberto
Gigliucci, Saverio Lamacchia, Lorenzo Mattei, Raffaele
Mellace, Reto Müller, Franco Piperno, Alessandro
Roccatagliati, il compianto Antonio Rostagno, Giada Viviani,
Luca Zoppelli. Un ringraziamento particolare va agli studiosi
che mi hanno anche reso partecipe di loro pubblicazioni in
corso di stampa: Daniele Carnini, Andrea Malnati, Emanuele
Senici. Non dimentico infine gli studenti di musicologia a
Roma Sapienza, cui ho proposto in anteprima alcune delle idee
qui espresse e che hanno concorso alla loro messa a punto.
1. Retroterra culturale e percorsi di
formazione

Quando Rossini vi nacque, a fine febbraio 1792 (la data del 29


è quella di battesimo), Pesaro e le altre città delle Marche e
della fascia nord-orientale dello Stato Pontificio godevano di
una certa vivacità mercantile e culturale. Ancona era porto
franco, Senigallia sede di una fiera che attirava visitatori da
tutta Italia; svariati piccoli ma antichi atenei si affiancavano a
quelli di Bologna e Ferrara (Urbino, Camerino, Fermo,
Macerata). Le accademie e le società agrarie prosperavano,
anche su influenza del vicino Veneto, e il tenore di vita nelle
comunità adriatiche rurali era migliore di quello del Lazio,
dove ancora prevalevano la pastorizia e l’allevamento brado.
Papa Pio VI Braschi (1717-1799), che si adoperò per
l’unificazione mercantile e agraria del Pontificio, come il
predecessore Clemente XIV era originario della vicina area
emiliano-romagnola. Pesaro, già patria di letterati e antichisti e
a capo di una Legazione dello Stato Pontificio, vantava una
biblioteca pubblica, una cappella musicale presso il duomo e
un teatro dalla storia prestigiosa e di buon livello: il Teatro del
Sole, fondato nel 1637, dove si rappresentavano
prevalentemente opere buffe a carnevale e drammi sacri in
occasione dell’autunnale ricorrenza di San Terenzio con
relativa fiera (24 settembre).
Per il carnevale del 1788-89 il teatro procurò un ingaggio al
padre di Gioachino, Giuseppe Rossini, nato nel 1764,
suonatore di tromba e corno appresi direttamente dal genitore,
Giovacchino come il nipote, “trombetta” della comunità di
Lugo di Romagna, luogo di origine della famiglia. Più o meno
in concomitanza, a Giuseppe, detto “Vivazza” forse per il
carattere franco e godereccio, fu offerto l’incarico di trombetta
municipale che già deteneva a Lugo; si stabilì perciò a Pesaro,
con madre e sorella, nella primavera del 1790. Procurarsi il
sostentamento con la musica significava nel suo caso non tanto
condurre vita artistica ma, più propriamente, operare in seno
alla comunità e alla sua amministrazione, dovendo scandire a
suon di tromba i momenti cruciali della vita civica quali le
adunanze del consiglio, le uscite pubbliche del gonfaloniere, la
recita dei bandi nei luoghi deputati della città. L’apporto
musicale del “trombetta” veniva quindi a inquadrarsi nel
soundscape della città, al pari delle campane, dei canti di
lavoro o processionali e di altre sonorità ambientali prodotte
dalle attività umane. Da questa posizione di qualche rilievo
poteva anche discendere il coinvolgimento nella vita teatrale e
spirituale (opera e solennità liturgiche).
A Pesaro, Giuseppe conobbe Anna (Nina) Guidarini, nata nel
1771, sua vicina di casa e figlia di un fornaio locale, e la sposò
il 26 settembre 1791; le loro furono nozze riparatrici, vista la
nascita di Gioachino a distanza di circa cinque mesi. Anna,
sarta a domicilio, aveva buona voce e orecchio per la musica
(che però leggeva appena), doti che sfociarono qualche anno
dopo in una carriera teatrale non trascurabile come
primadonna comica nei teatri marchigiani ed emiliano-
romagnoli, svolta per circa un decennio a partire dal 1798. Fra
gli autori da lei frequentati Cimarosa, Paisiello, Gazzaniga,
Portugal, Mayr, Pietro Carlo Guglielmi, Mosca, Weigl, i quali,
in diversa misura, costituirono lo scenario compositivo ove
anche la musica di Rossini andrà a collocarsi. Tuttavia della
trasmissione didattica dell’opera a livello famigliare non si sa
molto. Il compositore, musicografo e collezionista belga
Edmond Michotte, intento a conservare il mito di Rossini,
appannato nell’Europa di secondo Ottocento dall’affermazione
di altri modelli artistici, in Rossini e sua madre. Ricordi della
sua infanzia (dalle frequenti conversazioni che ebbi con lui)
confeziona del romanzo famigliare rossiniano un’immagine
elegiaca ma generica dal punto di vista delle attività
artistiche.1 L’obiettivo del biografo fu soprattutto quello di
avvalorare lo spessore morale del compositore, almeno
nell’ambito della famiglia, per la quale Rossini nutrì
effettivamente devozione e attaccamento.
Nello stesso anno, a seguito dell’aggregazione di Pesaro alla
Repubblica Cisalpina, Giuseppe, come altri dipendenti della
Municipalità, prestò giuramento al nuovo governo. La
pregressa appartenenza di Giuseppe alla comunità civica, pur
in un ruolo di modesta levatura ma aperto al confronto con le
istituzioni e con la gente comune, fu forse all’origine del suo
vivace coinvolgimento nei movimenti repubblicani che si
diffusero un po’ ovunque. In questa circostanza Giuseppe mise
a frutto come poté le sue conoscenze musicali e teatrali: si ha
notizia della sua partecipazione a un ballo pantomimico di
carattere patriottico dal titolo La presa di Capua, rappresentato
nel maggiore teatro cittadino, e del suo contributo alla
propaganda repubblicana con un inno di cui si millantava
autore. Il reinsediamento pontificio nel 1799-1800, di quella
casereccia attività rivoluzionaria gli fece pagare lo scotto:
Giuseppe fu arrestato a Bologna nel settembre del 1799 e restò
in carcere, a Pesaro, fino all’estate successiva. È probabile che
l’incarceramento del padre abbia instillato nel piccolo quella
nota diffidenza o addirittura ostilità nei confronti dei repentini
cambiamenti di scenario politico con i quali in futuro sarebbe
stato più volte messo a confronto. Non è poi da sottovalutare
la scossa emozionale prodotta dai turbolenti anni novanta sulla
sua personalità in via di formazione, se in tarda età Rossini
dovette ammettere al suo biografo Azevedo che «sans
l’invasion des Français en Italie, j’aurais été probablement
pharmacien ou marchand d’huile».2 Il processo di
rigenerazione delle coscienze e della costruzione di un’identità
sociale rinnovata fu lento e prese avvio dalla discesa di
Napoleone in Italia (1796), per culminare negli eventi
risorgimentali. Di recente è stata avanzata l’ipotesi che i
cambiamenti, improvvisi e di segno opposto, intercorsi in
quegli anni abbiano influito su elementi peculiari dello stile di
Rossini quali la ripetizione eletta a sistema compositivo,
ricerca edonistica del piacere ma anche condizione
malinconica e atto compulsivo prodotto da stress post-
traumatico. Aspetti indotti dal suo presente e dai quali ebbe
origine una musica pure “al presente”, accantonata per gran
parte del successivo Ottocento e poi recuperata in quanto
espressione di modernità; ci torneremo più avanti.3
In ogni caso il trasferimento della famiglia prima,
temporaneamente, a Bologna e poi a Lugo (1802) non impedì
il proseguimento degli studi ordinari di Gioachino, con
l’aggiunta del francese e della musica. I rudimenti teorici,
appresi a casa propria, li aveva irrobustiti a fianco del padre
con la pratica del corno, strumento di rilievo nelle opere
teatrali dell’epoca, la cui conoscenza gli avrebbe giovato in
seguito. Dopo l’evanescente figura del novarese Giuseppe
Prinetti, fabbricante di liquori con la passione per la spinetta, a
Lugo la cura dell’educazione musicale del giovinetto su
interessamento di padre Giovanni Sassoli passò ai due fratelli
don Giuseppe e don Luigi Malerbi (rispettivamente 1771-1849
e 1776-1843). Giuseppe, allievo di Giovanni Battista Vitali e
Angelo Tesei, divenne nel 1792 maestro di cappella presso la
collegiata dei SS. Petronio e Prospero e scrisse musica sacra
nello stile napoletano corrente; Luigi, organista al Carmine dal
1791, fu compositore più improvvisato del fratello ma non
privo di ingegno: alcune sue composizioni tastieristiche sono
animate da uno humour che troveremo anche nel Rossini dei
Péchés de vieillesse. A lui si attribuisce, in data incerta, una
Fuga, dove la fuga è quella «della Sig.ra Marianna Bertolazzi
per unirsi in matrimonio con il Sig.r Giuseppe Morandi ambi
di Lugo […] Dedicato al merito singolare delli Sig.ri due
Sposi». All’avventuroso episodio e alla successiva unione in
matrimonio alludono didascalie inserite direttamente in
partitura quali «Medita la fuga, e parte con cautela, e timore»,
«Si dichiarano Sposi», «Disgusto, e lagnanze del Paroco»; non
mancano neppure il «Vanno in Letto» e la «Consumazione del
Matrimonio» con veementi passi in contrattempo a mani
alterne, prima del festoso epilogo.4
Su un piano più propriamente educativo, la biblioteca dei
due fratelli Malerbi poté fornire al giovanetto partiture dei
grandi autori del passato e dei più illustri contemporanei, da
Händel e Bach fino a Gluck, Mozart e Haydn. La prassi
didattica dell’epoca, a fianco della dimensione esecutiva,
prevedeva il confronto diretto con i modelli compositivi più
accreditati mediante esercizi di lettura, trascrizione e
imitazione, utili ad acquisire automatismi di scrittura che
potevano essere poi applicati alla composizione individuale.
Trascrivere in partitura le parti staccate di un quartetto per
archi – così veniva perlopiù confezionata la musica da camera
a stampa – tralasciandone una o più da completare in
autonomia, consentiva di impadronirsi del linguaggio
dell’autore e al tempo stesso di mettere alla prova le proprie
conoscenze di armonia e contrappunto. Saper scrivere in
polifonia, armonizzare un basso o una melodia, imbastire una
composizione ampia a partire da motivi semplici tratti da
esempi autorevoli, elementi di base di una didattica più
eclettica che sistematica, riusciva utile in qualsiasi genere di
componimento, a prescindere dal contesto ecclesiastico che
costituiva la cornice di queste prime esperienze musicali
rossiniane. Fra 1801 e 1804 si ebbero anche le prime esibizioni
del giovinetto nelle piazze locali (Fano, Ravenna, Imola), alla
viola, come maestro al cembalo e come cantante.
Ultimo decisivo passo nella formazione professionale di
Rossini fu il trasferimento a Bologna (1804), in quegli anni
secondo Stendhal «quartier generale della musica italiana»,
trasferimento effettuato anche per favorire l’attività teatrale
della madre, che tuttavia si allontanò progressivamente dalle
scene, forse per problemi vocali. Dopo alcune esperienze
imolesi, nell’autunno 1805 Gioachino fu di scena al Teatro del
Corso di Bologna, dove sostenne la parte del piccolo Adolfo
nella Camilla, ossia il Sotterraneo di Paer, titolo fra i più
influenti del già trentaquattrenne compositore parmigiano, le
cui sorti, a Parigi molti anni dopo, si intrecceranno con quelle
di Rossini. Il tredicenne ebbe in quello spettacolo i suoi
momenti di rilievo, quantomeno sul piano attoriale. In II,IV
Adolfo entra in scena bendato e canta un breve terzetto col
Duca Uberto (il padre) e Camilla (la madre); in III,I partecipa
in compagnia di Camilla alla grande scena del sotterraneo,
dove il fanciullo viene meno e sfiora la morte in braccio alla
madre. A quell’apparizione altre ne seguirono, in chiesa e
all’Accademia Filarmonica, di cui venne a far parte nel giugno
del 1806; secondo la Righetti Giorgi, sua quasi coetanea e
futura prima Rosina nel Barbiere di Siviglia, già da quelle
prime comparsate Gioachino manifestò maestria e
disinvoltura. Non era per altro inusuale, già nel Settecento, che
futuri compositori si formassero nel canto, spingendosi anche
un poco oltre le consuete pratiche corali, come accadde ad
artisti che proprio nell’opera avrebbero trovato la loro
consacrazione (fra questi Graun, Hasse, Giuseppe Farinelli).
Pare quindi che in casa Rossini si predisponesse per il
giovane una carriera di cantante: lo attesta la scelta di altri
insegnanti quali il già citato don Angelo Tesei (1769-1825),
maestro di cappella e autore di musica sacra, e soprattutto
Matteo Babini (1754-1816), tenore bolognese e figura fra le
più rilevanti della scena operistica internazionale, ritiratosi
dalle scene appena nel 1805 e quindi aggiornato sulle tendenze
del teatro. La sua storia personale coincide con quella della
progressiva affermazione del ruolo di tenore serio di nuovo
genere rispetto alla tradizione settecentesca, in cui, salvo
eccezioni, si confinava quel registro vocale a parti secondarie,
spesso in presenza di connotazioni negative, senza svilupparne
più di tanto il lato sentimentale o “ideale”. Babini, secondo
Brighenti «passionatissimo» di politica, affrontò invece anche
ruoli mossi da ardore civile, in un repertorio che, a fine
Settecento, abbandonata la linea metastasiana imperiale, si
andava riorganizzando in direzione di drammi a orientamento
repubblicano (il che non sarà dispiaciuto al Vivazza). Di qui la
sua predilezione per personaggi turbolenti e al centro
dell’azione quali Volodimiro, eroe eponimo nell’opera di
Boggio e Cimarosa (Torino 1787), Pirro nell’omonima opera
di De Gamerra e Paisiello (Venezia 1787), Ataliba nel Pizzarro
di Bianchi (Venezia 1787-88), Bruto nella Morte di Cesare di
Sertor e Bianchi (Venezia 1788-89): tutti soggetti animati da
una spiccata vena antitirannica. La partecipazione di Babini
come protagonista al Pimmalione di Sografi e Cimador
(Padova e Venezia 1790), riproposto anche al Théâtre Feydeau
di Parigi (stesso 1790), lo avvicinò alle teorie roussoviane
sulla sinergia di pantomima e canto; risulta inoltre che si
trovasse ancora a Parigi attorno al 1792, nel periodo in cui
l’attore Françoise-Joseph Talma, simpatizzante per la causa
rivoluzionaria, lavorava presso il Théâtre Français,
ribattezzato Théâtre de la République. Quel palcoscenico,
lasciando libero corso alle idee repubblicane, accoglieva
drammi di Shakespeare, Voltaire e Chénier. Apprezzato anche
dalle teste coronate, Babini fu sensibile alle rivoluzioni di fine
secolo più della maggioranza dei suoi colleghi italiani e se ne
rese partecipe con l’esecuzione di un Inno patriottico in onore
della guardia civica al Teatro Nazionale di Bologna, e
contribuendo all’inaugurazione del Teatro Nazionale di
Ferrara, città annessa alla Repubblica Cisalpina, nel 1798. La
sua assenza dalle scene negli anni a cavallo di secolo fa
ipotizzare che Babini avesse preso parte ai combattimenti che
culminarono nella battaglia di Marengo e nel trattato di
Lunéville (1801).
È probabile che la coscienza scenica di Babini e la rinnovata
caratterizzazione del profilo vocale tenorile – per il quale
divennero fondamentali, secondo la testimonianza del medico
illuminista Benedetto Frizzi,5 lo studio della lingua, la cura
della recitazione, le conoscenze letterarie e teatrali derivate
dalla frequentazione della cultura francese – abbiano
influenzato il giovane Rossini, cui le lezioni di Babini saranno
servite anche anni dopo, quando a Napoli ebbe a che fare con
tenori di prim’ordine destinati a ruoli da protagonisti. Nei suoi
tardi ricordi, Rossini confidò di ritenersi ancora debitore dei
consigli ricevuti da Babini nella stesura delle parti vocali del
Demetrio e Polibio e di essersi avvicinato, tramite il cantante,
alla produzione italiana di Cherubini, ormai dimenticata. Il
linguaggio dell’opera seria sul modello di Sarti, maestro di
Cherubini e già autore della più celebre intonazione del Giulio
Sabino, doveva essergli ben presente se, come pare, ancora
negli anni di Parigi Rossini suonava al pianoforte il Giulio
Sabino di Cherubini al cospetto dell’anziano compositore;6
opera seria a lui resa nota da un suo eccellente esecutore
(Babini aveva incarnato il ruolo di Giulio Sabino al King’s
Theatre di Londra nel 1786).
Già inserito nell’ambiente colto bolognese grazie ai buoni
uffici di Babini (il ravennate Jacopo Landoni, allievo di
Cesarotti, e il lucchese Giambattista Giusti, traduttore di
Sofocle e di altri classici, lo iniziarono alle belle lettere: Dante,
Ariosto, Tasso), fra 1805 e 1806 Rossini irrobustì la
conoscenza degli strumenti ad arco con Francesco Rastrelli,
primo violino in S. Petronio e al Comunale di Bologna, per poi
proseguirla al Liceo Filarmonico, prima scuola laica di musica
in Italia esemplata sul modello del Conservatoire parigino,
come avvenne anche a Napoli, durante il decennio francese. Al
Liceo, Rossini studiò in modo discontinuo il violoncello e
ampliò la propria conoscenza degli archi, del pianoforte e,
dalla primavera 1807, del contrappunto con padre Stanislao
Mattei (1750-1825), che si era insediato nell’istituto l’anno
stesso della sua fondazione (1804). Fu questo il rapporto
didattico più durevole nell’articolata formazione del giovane
Gioachino e si protrasse fino al termine dell’esperienza liceale,
nel 1809. Allievo di padre Martini, francescano come lui,
Mattei fu a tutti gli effetti suo successore per cariche e
prestigio. Ebbe una concezione accademica della
composizione; non era difatti prerogativa degli studi liceali
finalizzare la teoria alla pratica, né tanto meno al mestiere di
operista, estraneo a qualsiasi contesto formativo (quanto
ambito da tutti i compositori in erba, chi più chi meno). Un
approccio didattico del genere tuttavia non guastava alla
formazione dell’operista – dopo Rossini, anche Morlacchi e
Donizetti furono allievi di Mattei –, giacché nella stesura di
una partitura teatrale non mancavano momenti che
richiedevano una buona conoscenza del contrappunto.

Supplemento straordinario dedicato a Rossini della Gazzetta Musicale di Milano,


29 febbraio 1892; Milano, Archivio Storico Ricordi

Due pagine dal libretto di Camilla ossia il Sotterraneo di Paer (Bologna, 1850):
nel cast (a destra) compare il nome di Rossini nel ruolo del piccolo Adolfo

Se si considerano i protagonisti dell’educazione di Rossini,


essa apparirà in definitiva meno disorganica di quanto non
sembri a prima vista: canto, pratiche strumentali multiple in
diverse famiglie di strumenti, armonia e contrappunto
delineano un quadro ben organizzato, che l’interruzione degli
studi non avrebbe in fin dei conti reso più precario. Alla
frequenza del Liceo si affiancava infatti una consuetudine
meno strutturata ma altrettanto efficace sul piano educativo: la
frequentazione del teatro, ossia un’intensa militanza come
maestro al cembalo su cui si innestò, con febbrile rapidità,
l’attività compositiva. I teatri con cui ebbe modo di
collaborare furono quelli territoriali, lungo la fascia padana o
adriatica: Senigallia, Lugo, Forlì (1806), Faenza, Rovigo
(1807), Fano, Pesaro (1808), Bologna (1809) e infine Ferrara
(1810), una volta smarcatosi dal Liceo, con una licenza che
decretò anzitempo il termine dei suoi studi regolari, a quanto
pare in corrispondenza dell’avvio delle lezioni di “canto
piano” e canone da parte del Mattei.7
Ma prima di cimentarsi sistematicamente con la
composizione teatrale, Rossini affrontò come tanti altri
operisti in pectore i generi sacro e strumentale. Il primo era
derivazione diretta degli studi di contrappunto e delle pratiche
corali, il secondo ottima scuola per imparare a condurre e
intrecciare motivi musicali di diverso carattere. Per entrambi i
generi occorrevano modelli; e come già al tempo dei Malerbi,
furono per lui strategiche le biblioteche e le raccolte private
bolognesi: l’archivio musicale del Liceo, in buona parte
formato o riorganizzato da padre Martini, e la collezione del
marchese Massimiliano Angelelli, che acquistava per proprio
uso e consumo musica tedesca a stampa, da cui “il
Tedeschino” – soprannome a lui affibbiato forse dallo stesso
Mattei – apprese i rudimenti dello stile classico.8
Puntualmente, attorno al 1808 gli giunsero i primi incarichi
compositivi ufficiali, a metà fra esercizio accademico e
professionismo nascente: alcune sezioni della tradizionale
Messa del 2 giugno a S. Luca, e la cantata Il pianto d’Armonia
sulla morte di Orfeo come saggio finale del Liceo. Su testo del
gesuita Girolamo Ruggia (1748-1823), docente di retorica ed
eloquenza, il brano presenta una sinfonia dai toni ora gluckiani
ora haydniani, con vaste campiture in modo minore e sferzanti
figurazioni degli archi. Se nell’uso dei fiati l’autore manifesta
già una certa personalità, le sezioni vocali, solistiche (un
tenore per Armonia) o per coro maschile, si mantengono in
linea con lo stile in auge nel teatro di impronta
classicheggiante.
Intanto Rossini aveva ottenuto anche la sua prima
commissione al di fuori dell’ambito scolastico bolognese:
un’intera Messa da eseguirsi in S. Maria in Porto a Ravenna
nel giugno del 1808.9 Essa appartiene al gruppo di
composizioni propiziate in quello stesso periodo dal ricco
commerciante Agostino Triossi, di una decina di anni più
anziano di Rossini e in seguito massone e carbonaro (morì
esule a Corfù nel 1822). Col giovanissimo Rossini, Triossi
aveva intrattenuto un rapporto anche di natura economica: gli
custodiva i risparmi cui corrispondeva un piccolo interesse che
Gioachino, sentendosi già capofamiglia e manifestando
precocemente quella vena di investitore che lo sosterrà per
tutta la vita, mostrava di apprezzare (secondo tarde
testimonianze, mise così da parte un gruzzolo di tremila
scudi).10 Fra le composizioni prodotte per quel contesto, un
paio di sinfonie e le Sei sonate a 4 per archi, concepite come
intrattenimento privato durante le villeggiature al Conventello,
nella compagna ravvenate, e contraddistinte dalla presenza del
contrabbasso di cui Triossi era buon esecutore, a fianco dei
due violini e del violoncello. L’anziano Rossini le retrodatò al
1804, forse per esaltare la sua precocità o attribuendo a tutta la
raccolta la data di alcuni singoli brani o singole idee; si tende
oggi a collocarle attorno al 1808, a un livello di formazione
più avanzato.
L’autore diede una valutazione ingenerosa di questi suoi
primi «orrendi» componimenti strumentali da camera, che
circolarono nell’Ottocento soprattutto tramite le trascrizioni
pubblicate da Ricordi nel 1828 (come quartetti per archi nella
formulazione tipo, adattando violoncello e contrabbasso a
viola e violoncello), da Schott a Parigi sempre nel 1828 (come
“quartetti concertanti”), da Breitkopf & Härtel (per
pianoforte), ancora da Schott per soli fiati. Si tratta in ogni
caso di brani di sfuggente collocazione stilistica – ne è
sintomo anche l’oscillazione terminologica fra “sonata” e
“quartetto”, prima che il compositore si risolvesse per la prima
denominazione – che hanno determinato un fitto dibattito
critico. Sarebbe sbrigativo ricondurli sic et simpliciter allo
studio della Wiener Klassik, di cui non si rispecchiano i canoni
formali, e improprio d’altra parte avvalorarne la derivazione
da modelli quartettistici alternativi – Stamitz, Vanhal o
Krommer non sembrano rientrare nelle frequentazioni
rossiniane – oppure, ancora, la loro precipua matrice italiana:
lo stile cameristico di Cimarosa o Paisiello è decisamente
meno ricercato dal punto di vista ritmico-armonico e più
lineare e amabile nei profili melodici, mentre dal melodismo
napoletano Rossini qui si distacca. Le Sei sonate, anche
laddove non suonino haydniane, non foss’altro per la presenza
di due strumenti di registro grave e l’assenza della viola,
rivelano però l’influenza di Haydn oltre che nella
pianificazione complessiva (la scelta e la successione delle
tonalità dei brani richiamano l’op. 76, edita nel 1799, e
all’interno dei singoli movimenti vengono introdotti rapporti
di terza, frequenti nei quartetti del maestro tedesco) anche nel
carattere e nella struttura dei motivi, in estrema sintesi nei
fondamenti del linguaggio, incline a soluzioni spiritose e
sorprendenti; ma ciò non toglie che nella conduzione
complessiva i brani rossiniani appaiano contraddistinti da
un’inventiva scientemente “sregolata”. Quanto alla forma, si
alternano schemi di sonata monotematica e bitematica;
all’interno dei singoli movimenti figurano tanto sezioni di
sviluppo esemplate sulla forma sonata d’oltralpe, quanto più
sintetiche “diversioni” finalizzate a preparare la ripresa, come
nel sonatismo di marca italica, in parte avvicinandosi ai
modelli descritti anni prima dal più noto teorico italiano
dell’epoca, Francesco Galeazzi (Elementi teorico-pratici di
musica, 1791-96). Non mancano infine spunti “caratteristici”
come nella Tempesta (l’Allegro conclusivo della Sonata sesta),
in cui Rossini mette a punto soluzioni stilistiche che
riaffioreranno in altre sue tempeste operistiche e dove già
appare il “crescendo rossiniano”, che, pur non essendo un
marchio di fabbrica come si pretendeva un tempo,
contrassegna tanta parte della sua produzione strumentale e
vocale. Rossini queste composizioni le approntò per gratificare
Triossi (frequenti gli assoli del contrabbasso: un bell’esempio
nel Moderato finale della Sonata terza), sé stesso e altri
dilettanti, lontano dall’ambiente accademico; furono quindi,
per lui, un cimento da affrontare senza troppe remore.
Complessivamente, il linguaggio non si avvicina neppure a
quello del melodramma, anche se la conoscenza dello “stile di
conversazione”, tratto caratterizzante del quartetto classico –
vale a dire il confronto umoristico e gli avvicendamenti fra
motivi e fra strumenti intesi alla stregua di personaggi sonori –
sarà riuscita utile all’autore nella pianificazione dei brani
d’assieme dell’opera. Da siffatte esperienze cameristiche
potevano infatti discendere quegli automatismi di scrittura
indispensabili per il compositore di teatro; anche Donizetti,
compiangendo la morte del musicofilo bergamasco Alessandro
Bertoli, del repertorio quartettistico ricordava soprattutto
l’efficace ed economica utilità didattica: «Non scorderò mai
che per mezzo suo imparai a conoscere tutti i quartetti
d’Haydn, Beethoven, Mozart, Reicha, Mayseder etc. che poi
mi giovarono tanto per condurre un pezzo con poche idee».11
Il genere sinfonia, che ebbe un ruolo di rilievo nella
produzione del giovane Rossini, merita un discorso a parte. Il
modello, nei compositori italiani fra tardo Sette e medio
Ottocento, da Zingarelli a Mayr, Pavesi, Rossini, Bellini,
Mercadante, Donizetti e oltre, è sempre più raramente, col
passare degli anni, quello classico in tre-quattro movimenti
disgiunti, né obbligatoriamente quello della ouverture
operistica italiana. Perlopiù si tratta di brani assai succinti in
un unico movimento articolato in due sezioni secondo la
successione lento-allegro; a tutti gli effetti sinfonie
accademiche, composte direttamente in istituti di formazione
musicale oppure destinate a essere eseguite in apertura di
intrattenimenti musicali presso accademie filarmoniche
(Rossini frequentava in quegli anni l’Accademia Polimniaca e
i Concordi, presso i quali divenne nel 1809 «Maestro Direttore
della Musica de’ serali suoi trattenimenti»;12 con quel ruolo
nel maggio 1811 concertò Le stagioni di Haydn). La finalità di
questo cimento compositivo era duplice: conseguire il dominio
della strumentazione e la capacità di costruire un discorso
musicale disponendo della sola orchestra, ossia senza un testo
guida. Al tono solenne delle sezioni introduttive fanno
riscontro la verve e lo humour di quelle rapide; nello
svolgimento del brano i motivi vengono fatti transitare fra
sezioni timbricamente contrapposte e acquisiscono così un
carattere differenziato. Ancora una volta si tratta di elementi
utili in ambito operistico; e in questa prospettiva, l’adozione o
meno, sul piano formale, di criteri sinfonico-classici diviene
una questione tutto sommato secondaria.
Fra le prime quattro prove sinfoniche primeggiano per
maturità e inventiva la Sinfonia detta del Conventello e la
Grand’overtura obbligata a contrabbasso, ancora collegate
alla figura di Triossi e risalenti agli anni delle loro comuni
villeggiature (1804-08). Nella prima si susseguono elementi
grammaticali “viennesi” ma la concezione formale
complessiva è originale e fondata sull’avvicendamento di
motivi piuttosto che su articolate strutture sintattiche. La
sezione iniziale segue in parte la strategia delle introduzioni
dei primi movimenti di molte sinfonie mature di Haydn: un
gesto magniloquente in apertura, in unisono, seguito da un
languente motivo all’oboe (tutto italiano) e poi da un passo
fortemente tensivo su un ostinato ritmico, in minore,
finalizzato a determinare uno stato di attesa, prima dell’arguto
e brillante primo tema della sezione in tempo rapido, in
maggiore. Ma si immagini questo primo tema all’apertura di
una scena d’opera comica: la scrittura vivace e dinamica
sarebbe adeguata anche al sostegno della recitazione; al di là
dei generi, il linguaggio manifesta evidenti similitudini. A quel
primo tema rapido seguono altri motivi di carattere
concertante affidati al violoncello, che diviene
momentaneamente protagonista, prima della conclusione con
la ripresa del più “sinfonico” tema iniziale.

Anonimo bolognese, ritratto di padre


Stanislao Mattei, seconda metà del Settecento;
Bologna, Civico Museo Bibliografico Musicale
La Grand’overtura pure rivela modelli tedeschi per la
configurazione dei temi e a livello della cornice formale, ma di
quei modelli non riproduce l’effetto complessivo. Non vi è un
solo motivo che non potrebbe essere scritto da Haydn, alcuni
anche da Mozart; la struttura si accosta alla forma-sonata
tripartita. Tuttavia l’ascoltatore non avrà cognizione della
sintassi formale né di quell’illustre retaggio, attratto
dall’umorismo che caratterizza l’ingegnoso trattamento dei
fiati. Nel secondo gruppo di motivi della parte mossa, i fiati si
richiamano, imitano e avvicendano, polarizzando l’attenzione
e al contempo distogliendola dai modelli d’oltralpe.
In definitiva, la pratica sinfonica prefigura scenari
melodrammatici, lasciando affiorare solo di quando in quando
le derivazioni viennesi; e le potenzialità teatrali di alcuni di
quei brani in effetti si concretizzarono. Diversamente da
Bellini, che saccheggerà le sue sinfonie giovanili alla stregua
di un serbatoio per le sue prime opere e recupererà motivi in
origine solo strumentali anche in brani vocali, Rossini
mantiene le sue mutuazioni all’interno del macrogenere
sinfonico. Dalla Sinfonia del Conventello origina il primo
motivo dell’Allegro di quella del Signor Bruschino (gennaio
1813); la Sinfonia in Mi bemolle, scritta per Bologna (1809),
verrà rielaborata e riproposta in apertura della Cambiale di
matrimonio (novembre 1810), mentre un’ulteriore Sinfonia in
Re (Bologna 1808) fornirà idee motiviche a quella
dell’Inganno felice (gennaio 1812).
Oltre a queste pratiche accademiche, la rapida affermazione
di Rossini come compositore a tempo pieno è scandita da altri
componimenti sacri, non sempre di sicura identificazione, e
dall’approntamento di arie destinate a opere altrui, secondo il
costume dell’epoca; fra queste la cavatina per tenore «Dolci
aurette che spirate», concepita per una ripresa ferrarese del
Podestà di Chioggia di Ferdinando Orlandi, con Rossini al
cembalo (1809-10), e poi riproposta al Liceo in un saggio
estivo. Va notato che contrariamente ad altri compositori –
Salieri, educato all’opera e introdotto alla corte di Vienna dal
maestro Gassmann; Cherubini, discepolo di Sarti e suo
assistente per alcuni anni; Donizetti, che affiancò o sostituì
Mayr in più occasioni; oppure i compositori di area
napoletana, che nei conservatori condividevano le pratiche
operistiche con i rispettivi maestri – Rossini non volle o non
poté vincolarsi a un unico maestro di riferimento specializzato
nel melodramma. La sua fu una pratica acquisita sul campo,
come cantante, strumentista o maestro al cembalo; “passando”
in quegli anni le partiture di altri ebbe modo di prendere le
misure della musica drammatica del tempo.
Per l’avviamento professionale furono per lui anche più
determinanti i contatti diretti con gli interpreti. Innanzitutto
sua madre, che aveva cantato in opere buffe degli autori più in
voga, quindi la compagnia dei Mombelli, Rosa Morandi con il
consorte Giovanni, compositore, o il basso bolognese Luigi
Zamboni. Domenico Mombelli, tenore d’opera seria, vedovo
di Luisa Laschi, prima Contessa nelle mozartiane Nozze di
Figaro, si era risposato con Vincenzina Viganò, nipote di
Boccherini, figlia di Onorato e sorella di Salvatore, anche lei
formatasi come danzatrice. La coppia di artisti mise al mondo
dodici figli, fra cui Ester e Maria Anna, entrambe apprezzate
cantanti coinvolte dal padre nel battesimo della prima opera
seria rossiniana, Demetrio e Polibio (Roma 1812), su libretto
di Vincenzina. Venne così a configurarsi una troupe a struttura
famigliare, inusuale nel melodramma ma molto diffusa nel
mondo del ballo pantomimico da cui la famiglia di Vincenzina
proveniva. È per altro verosimile che almeno alcuni brani del
Demetrio risalgano all’epoca degli studi bolognesi di Rossini
(non più addietro, come si è pure ipotizzato); fra questi, in
qualche sua forma e ancora disgiunto dall’opera, il quartetto
«Donami omai Siveno», una delle pagine più ammirate della
produzione giovanile rossiniana, forse composto per un
intrattenimento privato ed eseguito ai Concordi nel 1810. Data
l’incertezza che grava sull’effettiva datazione dei singoli brani
di quell’opera e sulla sua costituzione interna (a fianco di
musica rossiniana vi è probabilmente la mano di Domenico
Mombelli), nonché sui motivi dell’inusuale ritardo fra
composizione e rappresentazione, conviene porsi nell’ottica
del pubblico del Teatro Valle e trattarne a tempo debito, ossia
quando, a fronte di svariati titoli già rappresentati, nel 1812
Rossini non sarà più solo un giovane di belle speranze.

Giovanni Sasso, ritratto di


Rosa Morandi Morolli, litografia Ricordi;
Milano, Archivio Storico Ricordi

Come giovane di belle speranze Rossini si presentò invece


all’impresario del San Moisè di Venezia, Antonio Cera.
Artefici dell’incontro i coniugi Morandi e soprattutto la
senigalliese Rosa, scritturata presso lo stesso teatro e che in
futuro incrociò altre volte partiture rossiniane. La proposta di
ingaggiare il Pesarese fu una soluzione di ripiego, dovuta al
ritardo nel completamento del cartellone, ritardo sanato con La
cambiale di matrimonio, debutto operistico rossiniano (3
novembre 1810). Cera tuttavia doveva già sapere chi fosse
costui, non tanto per le sue composizioni quanto per aver
avuto Rossini a che fare con Teresa Adelaide Carpano,
cantante protetta dal marchese Francesco Cavalli, predecessore
di Cera al San Moisè. In occasione di una messinscena a
Senigallia, Rossini, seduto al cembalo, l’aveva messa in
ridicolo esplodendo in una fragorosa risata dopo una
sfortunata cadenza vocale (ma lavorerà ancora con lei alla
prima del Turco in Italia, quando la Carpano interpretò Zaida).
Ciononostante, sorpreso dalla disarmante sfrontatezza del
giovane apprendista, il marchese gli avrebbe offerto il proprio
sostegno.13 È solo un aneddoto, ma comprova quanto fosse più
importante per l’aspirante operista farsi notare fra le quinte dei
teatri anziché nelle aule dei conservatori.
SUGGERIMENTI DI LETTURA

Elementi sull’infanzia del compositore in LOSCHELDER 1972;


l’attività bolognese di Rossini in qualità di cantante è
testimoniata in RIGHETTI GIORGI 1823. Su Michotte, il suo
rapporto con Rossini e la sua collezione rossiniana GOSSETT
2014. Su Babini e la vocalità tenorile fra i due secoli BRIGHENTI
1820 e RICE 1994. La formazione compositiva di Rossini può
essere ripercorsa attraverso i commenti alle sue prime opere; al
riguardo vedi soprattutto GALLINO 1990 e GIUGGIOLI 2014.
Sulla figura di Triossi, la sua condizione di esiliato e le sorti
della sua biblioteca personale si veda GIUGNI 1962. L’influenza
di Haydn su Rossini è analizzata in GON 2014; le proprietà
strutturali del crescendo rossiniano in GON 2017; alcuni effetti
del rossinismo sulla produzione strumentale di Bellini in
CHEGAI 2008. Una ricapitolazione delle questioni inerenti alla
produzione sacra giovanile di Rossini in SULLA 2021. Per uno
sguardo d’assieme alla sinfonia italiana dell’Ottocento vedi
ROSTAGNO 2003. Sulla didattica musicale di quegli anni,
nonché sulla didattica esercitata da Rossini verso suoi allievi,
vedi Tavola rotonda 2018.
DA ASCOLTARE

Pianto di Armonia sulla morte di Orfeo


in Cantatas, vol. II, Juan Diego Flórez, Coro Filarmonico e
Orchestra della Scala, dir. Riccardo Chailly, Decca 1998 sgg.
Dolci aurette che spirate
in Arie inedite, Ernesto Palacio, Slovak Philharmonic Choir,
Radio Bratislava Symphony Orchestra, dir. Carlo Rizzi, NAR
Classical 2018
Messa di Ravenna
Jerzy Gruszczynski, Filarmonica Zielonogorski, Orchestra
Sinfonia, dir. Silvano Frontalini, Halidon/Musica Dorica 2015
Sei sonate a quattro
Ensemble de I Virtuosi Italiani, Tactus 2004
Sinfonie accademiche
in Overtures (complete), Prague Sinfonia Orchestra, dir.
Christian Benda, Naxos 2013 sgg. (4 CD)

1. Retroterra culturale e percorsi di formazione


1 Il tardo memoriale fu pubblicato sulla Cronaca Musicale, Pesaro 1913;
vedi MICHOTTE-Scritti, pp. 139-146.
2 AZEVEDO 1864, p. 21.

3 SENICI 2019, pp. 215-229 e SENICI 2020.

4 Il brano, conservato presso la Biblioteca Comunale di Lugo di Romagna, è


leggibile nella trascrizione di Jolando Scarpa all’indirizzo
https://imslp.org/wiki/Capriccio_(Malerbi%2C_Luigi); verificato nel maggio 2022.
5 Cfr. RICE 1994.

6 HILLER 1855, pp. 112-115.

7 HILLER 1855, pp. 78-79.

8 ZANOLINI 1875, p. 8.

9 AZEVEDO 1864, p. 49 e GRLD 2016, p. 381.

10 MORDANI 1871, p. 22.

11 Cfr. ALBORGHETTI-GALLI 1875, p. 73 (Vienna, 15 maggio 1842, lettera al


Dolci).
12 GRLD 1992, p. 12.

13 HILLER 1855, pp. 102-105, AZEVEDO 1864, pp. 33-35.


2. «Cimarosa non è morto»
Debutto veneziano e costruzione di
un’identità

Antonio Quadri, ubicazione approssimativa del teatro San Moisè,


oggi non più esistente, sul Canal Grande a Venezia (1828)

Rossini esordì a Venezia nel novembre del 1810 e trovò la città


in uno stato di relativa decadenza. Secondo un censimento
risalente a quei mesi, la popolazione risultò essere in sensibile
calo rispetto alle stime antecedenti e la tendenza si confermerà
in seguito (le 150 000 unità di inizio secolo si ridussero di
circa un terzo attorno agli anni quaranta). La Serenissima di un
tempo stentava a riprendersi dallo smarrimento dovuto alla
caduta della secolare repubblica (1797); la condizione
emotiva, sul piano sociale e individuale, ebbe nelle Ultime
lettere di Jacopo Ortis di Foscolo il più efficace
rispecchiamento letterario (1802). Contraddistinsero quegli
anni un ridimensionamento economico e politico, difficile da
accettare dopo secoli di autonomia, e il susseguirsi rapido di
scenari politici alterni (occupazione francese, passaggio
all’Austria dopo Campoformio e nel 1805 cessione al Regno
d’Italia napoleonico, fino alla restituzione agli austriaci nel
1814, la cui dominazione si sarebbe conclusa solo col
plebiscito del 1866, appena terminata la Terza guerra
d’Indipendenza, con annessione al Regno d’Italia). I privilegi
della classe dominante, le cui prerogative oligarchiche
avevano generato un crescente indebolimento dello stato nel
corso del XVIII secolo, transitavano adesso su figure politiche
allogene, che tuttavia – a differenza di quanto avvenne a
Napoli nel decennio francese – non incisero sensibilmente
sulla vita teatrale, contraddistinta da forte identità e da
tradizioni difficili da scalfire appunto perché determinate da
una lunga governance repubblicana e fondate sulle regole del
mercato piuttosto che sulla presenza di dinastie reggenti. Le
farse comiche in un atto, genere cui appartiene La cambiale di
matrimonio, rappresentano un eccellente esempio di continuità
in anni turbolenti; il numero e la frequenza con cui furono
proposte al pubblico nei decenni a cavallo fra i due secoli,
specialmente nei teatri di San Benedetto e San Moisè, ne
fecero un tratto caratterizzante della drammaturgia dell’epoca.
Il San Moisè, fra i più antichi e gloriosi teatri veneziani, si
era da tempo specializzato nel genere comico; la prima fase
produttiva di Rossini, contrassegnata, oltre al resto, da cinque
farse di successo decrescente, coincise col tramonto di quel
teatro che avrebbe chiuso i battenti nel 1818. Anni dopo
Giuseppe Carpani attribuì alla farsa una connotazione
crepuscolare e vi individuò i segni del declino operistico, a suo
avviso evidente nel complessivo abbassamento della qualità
compositiva:
La brevità indispensabile di questi piccoli drammi non
lasciando campo al maestro di sfoggiare tutto il suo talento,
lo obbliga, per grande ch’ei sia, a confondersi nella folla
dei mediocri, a fare dei finaletti che non contano; ed un
duetto, un’aria ed un quartetto tutt’al più sono i pezzi, ne’
quali è loro permesso di segnalarsi.1
Tuttavia di farse ne scrissero compositori di buona o ottima
levatura come Paer, Mayr, Nasolini e, più in prossimità di
Rossini, Pavesi, Gnecco, Pucitta, Coccia, Generali,
prevalentemente a inizio carriera. Espressione di un teatro
musicale poco dispendioso e di pronto uso (poche comparse,
poche mutazioni di scena, nessuna risorsa scenotecnica di
rilievo, frequente assenza del coro), le farse costituirono un
felice compromesso fra brevità ed efficienza; vi era anche la
possibilità, molto praticata, di programmarne due in una stessa
serata, col medesimo cast e balli pantomimi di contorno, per
rendere più vario lo spettacolo. Il successo del genere consentì
agli impresari di far circolare i prodotti migliori e di rinnovare
con relativa facilità il repertorio, talvolta attingendo a
commedie francesi (operazione già in auge prima delle
dominazioni transalpine), senza dover ricorrere ai più
dispendiosi drammi giocosi di moda nel secondo Settecento e
senza rinunziare alle situazioni sceniche che il pubblico
mostrava di apprezzare. Sono infatti sempre presenti, oltre a
una vivace introduzione e a un conciso finale, almeno un paio
di arie, un paio di duetti, un concertato a guisa di finale
intermedio: ovvero i momenti più significativi di un dramma
giocoso in un’“opera pocket” ad alta densità musicale. Il che
rendeva le farse un efficace cimento per acquisire padronanza
nelle forme drammatiche del genere comico, nonché un’ottima
opportunità editoriale: il Catalogo di vendita di Giovanni
Benzon – all’epoca il “Giovanni Ricordi di Venezia” – registra
nel 1818 più brani espressamente tratti da farse che non
spartiti ricavati da opere serie o buffe. Prima però di inoltrarsi
in queste iniziali esperienze sceniche rossiniane conviene
aprire una parentesi per inquadrare le peculiarità del rapporto
fra testo, musica e scena nel primo Ottocento; poche
considerazioni trasversali, a prescindere dai diversi generi.
Rispetto al medio Settecento, il rapporto fra parole e musica si
è invertito: al predominio dell’elemento verbale, ossia della
parola intonata in modo sillabico e declamatorio – nei
recitativi, di cui vi è gran copia sia nel dramma per musica sia
nel dramma giocoso – ha fatto gradualmente seguito la netta
prevalenza della parola cantata. Raccogliendo una tendenza
già in atto, in epoca rossiniana i versi deputati al recitativo
(“versi sciolti”, ossia settenari ed endecasillabi in libera
successione) si sono drasticamente ridotti quanto a numero,
lasciando spazio a strutture strofiche di diversa estensione
(strofe liriche, perlopiù isometriche) dove il compositore
poteva dare libero corso al canto, secondo modalità variabili in
base ai casi e alle opportunità. In alcune sedi come il teatro
San Carlo di Napoli, il recitativo semplice – quello più
asciutto, sostenuto dal solo basso continuo – è ormai pressoché
soppresso a vantaggio del recitativo strumentato, che
nell’opera italiana settecentesca di impianto tradizionale
veniva praticato solo nei momenti salienti; nei recitativi
strumentati l’orchestra, ridotta o anche al gran completo, si
alterna al canto e sostiene la declamazione in stretto
collegamento col momento drammatico. Ne trae vantaggio la
continuità.
Ma non è solo una questione di dosaggio (meno recitativi,
più canto), bensì delle molteplici funzioni tributate ai versi
lirici nell’opera di primo Ottocento. Per gran parte del
Settecento ciò che nell’opera “succede” a livello
fattuale/visibile, vale a dire l’azione drammatica, era espresso
dal recitativo; il “pezzo chiuso”, ossia l’aria solistica di
impianto strofico, aveva soprattutto il compito di formalizzare
e amplificare gli effetti sentimentali delle vicende in atto.
Anche in presenza di più cantanti simultaneamente in scena,
uno canta, gli altri ascoltano e tacciono; e chi tace e ascolta
non resta inerte, ma avrà modo di replicare solo alla scena
successiva. Se nell’opera seria di impronta metastasiana duetti,
terzetti o concertati erano appunto rari, con la conseguenza che
affetti uguali o contrari venivano espressi in brani diversi,
dalla seconda metà del Settecento i pezzi d’assieme, vere e
proprie conversazioni in musica sviluppatesi, inizialmente,
soprattutto nell’opera buffa, divengono più ampi e frequenti,
in quanto efficaci momenti di sintesi dell’azione drammatica.
Così, nel primo Ottocento, l’azione viene per gran parte
risucchiata dalle strofe liriche e il flusso delle vicende è nel
complesso più cantato che declamato. Azione drammatica e
relative implicazioni affettive e psicologiche non appaiono più
come momenti separati, ma si distribuiscono in modo elastico
e variabile, con la possibilità di espandersi nel canto spiegato,
sia nei brani solistici, sia nei pezzi d’assieme in cui si ha la
compresenza di azione e reazione.
Carlo Ritorni (1786-1860), lucido commentatore dell’opera
di primo Ottocento, aveva ben chiara, nel 1841, la portata
storica di Rossini in questo processo, identificando nel
Pesarese un punto di arrivo irrevocabile:
In tal maniera la ricercatezza delle melodie, il dilettamento
che nasceva dall’udire l’ingegnose combinazioni di più
voci simultanee, secondate e sostenute dalla forza e varietà
istrumentale, introdussero quell’opera che chiamerò per
antonomasia rossiniana: perciocché se non nacque
veramente pel Rossini, né senz’esso sarebbesi rimasta dal
fiorire la moderna copia musicale, egli fu che la condusse
all’ultimo culmine della raffinatezza, e d’una leggiadria
tutta propria di quel suo unico ingegno.2
Non sfugge allo scrittore reggiano la funzione strutturante
dell’orchestra, che sostiene e rifinisce il canto e l’azione, o
addirittura la determina, raggiungendo con Rossini livelli di
virtuosismo prima impensabili nell’opera italiana. Le battute
dei personaggi che agiscono sulla scena subiscono un effetto
moltiplicatore grazie al gioco di specchi attivato dagli
interventi strumentali.
Il dramma giocoso del secondo Settecento aveva influenzato
l’opera seria anche per quanto riguarda l’inserimento di ampie
sezioni di canto e azione collettiva a inizio o fine atto:
introduzioni e finali sono già di prammatica in anni
antecedenti all’epoca rossiniana, sia nell’opera comica sia in
quella seria. L’opera non inizia più con un recitativo –
finalizzato a riepilogare l’antefatto e introdurre
l’intrigo –, con un duettino o un breve concertato, come un
tempo, ma con una significativa e ampia scena d’assieme,
densamente strumentata e talvolta arricchita dalla presenza del
coro. Capita pure che nelle scene situate al centro di un atto la
successione non sia più quella settecentesca di recitativo
seguito dal pezzo chiuso (aria singola o brano d’assieme) ma
piuttosto il contrario, di modo che i personaggi si presentano
cantando anziché declamando. Gli atti, infine, non terminano
che raramente con una scena monologica, com’era nel vecchio
dramma per musica, ma con un’ampia sezione drammatica
“finale” – particolarmente estesa se si tratta di finale centrale,
del primo atto di un’opera in due atti, del primo o del secondo
in un’opera in tre atti – ove si prevede il concorso di tutti i
personaggi principali, con o senza coro, e in cui la musica
serve soprattutto ad abbracciare l’azione, sostenendo la
recitazione; se, di quando in quando, nei finali l’attenzione si
sofferma sui singoli personaggi, tramite le espansioni del canto
o il rallentamento del tempo, ciò capita in modo episodico
rispetto alla fluidità complessiva della scansione temporale.
La drammaturgia d’epoca rossiniana (e, prim’ancora
dell’opera, del libretto chiamato a tracciarne l’impianto
complessivo) è orientata a conseguire la maggiore coesione
possibile fra l’azione e le dinamiche affettive: ne escono
notevolmente accentuate l’ampiezza e la varietà dei singoli
“numeri”, ossia dei segmenti drammatici e musicali dotati di
una loro precisa identità e contraddistinti dallo svolgimento di
un’azione organica e compiuta. Pure le arie del Settecento
potevano essere contrassegnate da numeri, ma il numero in
quel caso identificava l’aria per sé stessa, non la situazione che
la generava, relegata al recitativo antistante. Il “numero”
ottocentesco, indicato solo in partitura, si spinge invece a
inglobare situazioni drammatiche eterogenee: recitativi,
sezioni corali, brani solistici o d’assieme a loro volta articolati
in sezioni, il tutto con ampia partecipazione dell’orchestra.
Viene quindi predisposta una segmentazione aggiuntiva
rispetto a quella del libretto (costituita dalla semplice
successione delle scene); nel numero tutto avviene sulla base
della struttura drammatico-musicale, e in uno stesso numero,
che ingloba personaggi e sezioni diverse, possono anche essere
comprese più scene: le uscite o le entrate dei personaggi non
determinano alcuna interruzione, ma servono ad articolare la
realizzazione musicale.
A un impianto contraddistinto da un “codice binario”, ossia
dall’alternanza di recitativo e pezzo chiuso, fa ora riscontro
un’architettura concepita per vaste campiture drammatiche.
Affine è però la forte direzionalità impressa ai singoli numeri
di nuova concezione, organizzati in modo da far coincidere il
momento apicale della situazione drammatica (tragica o
comica) con la chiusa del numero stesso, raggiunta in modo
rettilineo tramite l’avvicendamento di momenti cantabili e di
sezioni più animate. Il modello tipico del numero ottocentesco,
da Rossini al Verdi del periodo centrale, prevede, nelle arie, la
presenza di un recitativo introduttivo (detto anche “scena”),
seguito da un “cantabile” statico, da un “tempo di mezzo”
(cinetico) e infine da un epilogo (musicalmente animato, ma
statico e contemplativo quanto a contenuti visibili), che dal
tardo Settecento prende il nome di “cabaletta” o “stretta”; nei
duetti si aggiunge un “tempo di attacco” dialogato e dinamico
subito dopo la scena introduttiva. La successione, nota con la
sommaria locuzione di “solita forma”, è descritta per la prima
volta dal compositore e teorico Abramo Basevi in relazione
all’opera di Verdi (Studio sulle opere di Giuseppe Verdi,
Firenze 1859) e da allora è stata assunta un po’
dogmaticamente come un passe-partout discusso e discutibile
quanto utile per afferrare la costruzione drammatica dell’opera
italiana di primo e medio Ottocento. Attendersi il rispetto di
questo impianto in modo ortodosso sarebbe però sconveniente,
e improprio considerare eccezioni i numeri che non
presentassero questa sequenza. In epoca rossiniana capitano
ancora numeri strutturati in modo settecentesco, con recitativo
e aria a seguire, oppure arie e duetti di due tempi (Lento e
Allegro, cantabile e cabaletta) corrispondenti ad altrettanti stati
d’animo dei personaggi, oppure ancora, all’opposto, “grandi
scene” che addirittura travalicano l’organizzazione tri- o
quadripartita del numero idealtipico, incorporando, come si
vedrà, segmenti drammatici assai più ampi.
Siffatta opera “a numeri” – con una formula semplificativa
non più dramma per musica, bensì melodramma – è anche
frutto di un ripensamento dei princìpi generali della
drammaturgia che governavano l’opera del Settecento,
soprattutto in relazione al concetto di intreccio. Il modello
metastasiano ma anche il dramma giocoso esigevano la
compresenza di svariati fili drammatici fra loro collegati (ossia
“intrecciati”) ma inconciliabili nella sostanza; dalle pulsioni e
repulsioni individuali scaturiva la trama (ancora un termine
tessile), e questa non poteva volgere a un epilogo se non
quando le peripezie principali e secondarie avessero trovato
una loro soluzione. Per conseguire, come di prammatica, il
lieto fine, occorreva dipanare il nodo determinato dalla
compresenza di svariate peripezie (e di qui l’importanza
strategica dei recitativi, giacché le arie si limitavano a
inquadrare un singolo punto di vista). La tendenza di fine
secolo fu invece quella di focalizzare la drammaturgia e
l’attenzione sulle prime parti e sull’antagonista di turno. La
struttura a numeri così articolati come quelli d’epoca
rossiniana (orientati a un fine) era quindi anche l’esito di una
semplificazione, tutta a vantaggio di una maggiore espansione
della dimensione lirica.
Gaetano Rossi (1774-1855), librettista della Cambiale
rossiniana e di altri due titoli fra i più rilevanti della
produzione italiana del Pesarese (Tancredi, 1813; Semiramide,
1823), merita un posto di primo piano nella schiera dei poeti di
teatro che a inizio secolo contribuirono a consolidare il nuovo
impianto drammatico. Rispetto al compositore esordiente,
Rossi attorno al 1810 già vantava una consumata pratica nel
mestiere, con oltre quaranta libretti intonati dai compositori
più operosi quali Zingarelli, Mayr, Trento, Nasolini, Gnecco,
Generali, Pavesi; pratica corroborata anche dalla lunga
militanza come ispettore di scena al Filarmonico di Verona che
andava ad aggiungersi al suo altrettanto durevole rapporto
collaborativo con la Fenice di Venezia. Alla figura del
librettista “letterato e drammaturgo”, con qualche eccezione
ancora prevalente nel Settecento, nel suo caso va decisamente
a sostituirsi il profilo di un librettista “uomo di teatro”, che
pone al servizio dell’esercizio poetico le proprie esperienze di
messinscena. Emblematico il reimpiego nei suoi libretti di
versi scritti in precedenza: un metodo, quello degli
autoimprestiti, già invalso nella pratica musicale e presente,
per finalità simili e di natura ugualmente “economica”, anche
nella stesura dei testi per musica entro un sistema produttivo in
continuo assestamento e che mirava alla massima
funzionalità.3
Nel 1810 Rossi aveva all’attivo anche alcune delle opere più
acclamate prima dell’avvento di Rossini, quali Adelaide di
Guesclino (1799), Gli Sciti (1800), Ginevra di Scozia (1801),
Gli americani (1805), tutte a firma di Johann Simon Mayr
(1763-1845). La coppia Rossi/Mayr costituì uno dei più
riusciti sodalizi del nuovo secolo e ancora in tarda età Rossini
ricorderà il maestro bavarese come l’operista di riferimento di
quegli anni.4 Si tratta di un dato non trascurabile nella
costellazione dei problemi storiografici suscitati da Rossini e
dal suo successo, che determinò di lì a poco l’accantonamento
di autori fino a poco tempo prima in auge, sopraffatti dalla
notorietà del Pesarese. Il che induce a chiedersi quali fra gli
elementi del linguaggio rossiniano abbiano polarizzato
l’interesse del pubblico e siano stati riconosciuti come nuovi o
migliori rispetto alla musica dei predecessori; e se davvero i
primi anni del secolo debbano essere intesi come anni di
transizione (quindi instabili, privi di punti di riferimento, di
incerto profilo artistico), oppure se non sia la percezione
odierna a essere abbagliata dall’astro più luminoso che occulta
la vista di ciò che sta appena dietro di lui. Che in quegli anni si
vivacchiasse, in attesa di una nuova e più sicura guida,
scomparso Cimarosa e pressoché cessata l’attività operistica di
Paisiello, è ipotesi gravata da un preconcetto evoluzionistico e
riscuote sempre meno consensi; la varietà estrema delle scelte
compositive, per quanto riguarda la natura dei soggetti, le
tipologie dello spettacolo musicale e al tempo stesso il
progressivo consolidarsi di nuovi codici a livello
drammaturgico, costituì piuttosto un fertile humus su cui la
pianta rossiniana non ebbe difficoltà a prosperare. Rossini
sarebbe così, più plausibilmente, figlio dei suoi tempi.
Per Mayr, Rossi ai suoi esordi aveva scritto anche una farsa
di successo (Che originali, 1798); forte dell’esperienza di altre
numerose composizioni del genere, affrontò il libretto per
Rossini con una certa nonchalance. In una sua lettera a Mayr
emerge la ferma predilezione per il maestro tedesco, cui è data
ampia facoltà di proporre il soggetto di un’opera. Privilegio
non accordato all’esordiente e per lui ancora ignoto Rossini:
… l’altra mia inezia [La cambiale di matrimonio] fu da me
scritta senza sapere il compositore, che, d’altronde, doveva
essere un principiante; perciò senza insieme communicare:
Ma Mayr è tutt’altra cosa: Mayr ha tanti talenti, come
Maestro, tante cognizioni, come uomo colto, tanta
esperienza, come pratico del Teatro, che non può non
essere utilissimo il suo parere sull’argomento, quando non
ne abbia egli di scelti…5
La ricerca da parte di Rossi di un soggetto conveniente si
indirizzò verso una commedia in prosa di Camillo Federici,
autore popolare in quegli anni, dal titolo identico ma con
sottotitolo significativo (La cambiale di matrimonio ossia la
semplicità, 1791). La «semplicità» è quella di Slook, maturo
negoziante nordamericano (canadese per la precisione, in
Federici chiamato Fitz Young), giunto a Londra per contrarre
matrimonio con la figlia del commerciante Mill, Fannì, in
cambio di un lauto accordo economico tutto a vantaggio del
padre di lei. Di fronte all’energico rifiuto della fanciulla e per
amore del quieto vivere, Slook si mostrerà generoso,
tramutando la cambiale in una sorta di dote per il matrimonio
di Fannì con Edoardo. Un epilogo non troppo dissimile da
quello del Matrimonio segreto di Cimarosa (lì era un mansueto
aristocratico a effettuare la rinunzia, qui uno stravagante
forestiero, ma la morale è la stessa: mai avere preconcetti).
L’immagine dell’americano viene a conformarsi secondo
stereotipi che si sono protratti fino a noi: ricco, goffo nel
vestire e nei modi, tendenzialmente ingenuo (la «semplicità
d’America» cui ci si riferisce in I,VI). Un carattere che al
lettore o spettatore italico di quegli anni iniziava a essere
familiare; l’onda lunga della guerra dei Sette anni (1756-1763,
con coinvolgimento dell’America britannica) e
dell’Indipendenza americana (1776) aveva destato vasta eco
nelle gazzette e nei dibattiti e la nuova realtà nordamericana
iniziava ad affiancarsi al mondo incaico, azteco o in genere
amerindo, che gli era stato per lungo tempo più noto, anche
tramite il teatro.
Frontespizio della prima edizione del libretto della Cambiale di Matrimonio,
Venezia, teatro di San Moisè, 1810

Motivo di impegno per Rossi sarà stata anche la necessità di


rendere compatibile la figura comica di Slook col profilo di
Nicola De Grecis (1773-1827?), buffo dalle flessibili
caratteristiche vocali – dominava lo stile sillabato ma non gli
erano estranei i passi di grazia, le fiorettature e i trilli – capace
quindi di destreggiarsi fra ruoli di basso nobile, cantante o
buffo caricato e di lì a poco reimpiegato da Rossini nei ruoli di
Germano e di Gaudenzio, rispettivamente nella Scala di seta e
nel Signor Bruschino. Rilevante anche la presenza come Mill
di Luigi Raffanelli (1752-1821), basso prossimo al ritiro dopo
un quarantennio di onorata carriera e da tempo specialista di
farse, genere in cui aveva esordito al San Moisè nel 1796. Il
sodalizio artistico con Teresa Strinasacchi e Giambattista
Brocchi gli aveva fruttato l’affermazione al Théâtre Italien su
invito del Console Bonaparte (1801), ma dal 1806 la sua
presenza al San Moisè era di nuovo abituale. Già “buffo
caricato”, se ne apprezzavano ormai soprattutto le doti
mimiche e attoriali, in grado di intrattenere, ma all’occorrenza
anche di commuovere (per Rossini sarà anche Tarabotto
nell’Inganno felice e Bruschino padre). Come in tanta sua
produzione successiva, l’opera rossiniana fu quindi disegnata
sugli interpreti principali, De Grecis, Raffanelli e Rosa
Morandi (Fannì), grazie alla quale Rossini aveva avuto
quell’incarico.
La duttilità di De Grecis è valorizzata sin dalla cavatina di
“sortita” con cui Slook si presenta al pubblico, «Grazie…
grazie… Caro amico!» (I,VI, N. 3), che mostra alcuni elementi
primari del linguaggio rossiniano come lo stile “parlante” a
guida orchestrale, un elastico declamato che accompagna
l’arrivo del personaggio, fra riverenze maldestre, espressioni
di allegrezza e di affettazione. De Grecis recita cantando e solo
in chiusa gli è concessa qualche sommaria coloratura.
L’orchestra ha qui una funzione trainante: determina la
scansione delle battute del canto e stabilisce la cornice sonora
in cui i personaggi si collocano; una serie di arguti motivi in
successione, fra loro congiunti e replicati con una ritmica a
carattere di ostinato, conduce l’azione in scena, come sempre
in progressiva accelerazione. Sono modalità compositive già
presenti nell’opera di tardo Settecento in scene d’assieme e
finali – sezioni in cui la musica si riferisce più alla situazione
che non ai singoli personaggi – apprese da modelli eccellenti
ma anche tramite l’esercizio sinfonico.
Il terzetto in I,VIII («Quell’amabile visino», N. 4) e il duetto
di I,XI («Dite presto, dove sta», N. 6) presentano altre due
situazioni topiche, sia pure ancora a uno stato iniziale:
rispettivamente, l’accumulo di voci in crescendo nella stretta
finale, e il convulso sillabato a raffica, caratteristico di tanto
teatro comico anche rossiniano, impiegato con finalità
retoriche molto variegate – timore e ansietà ma anche
irritazione, determinazione e sentenziosità – e associato nel
duetto a visibile inquietudine (Mill teme di vedersi sfuggire
l’occasione e fronteggia la flemma di Slook). In Rossini è una
condizione che si verifica con assiduità: presenza di elementi
grammaticali desunti dalla tradizione a lui antecedente ma
effetto amplificato e rinnovato nei tempi e nei modi. Il
lusinghiero verdetto con cui l’impresario Cera rassicurò la
madre di Rossini del successo veneziano del figlio («Cimarosa
non è morto»)6 va allora ricondotto non tanto a una ipotetica
affinità di stile fra i due maestri – riesce difficile considerare il
giovane Rossini un seguace del maestro aversano – ma
all’auspicio che l’opera italiana, comica soprattutto, possa aver
trovato un nuovo ideale punto di riferimento in totale
continuità “linguistica”. Disporre di uno stesso vocabolario
non rende simili due penne diverse.
Parallelamente alla messa a punto di nuove farse per il San
Moisè, e ancora scritturato da Cera dopo il successo della
Cambiale, in quegli stessi mesi Rossini iniziò a farsi notare
anche fuori Venezia grazie ad altri titoli. Come si vedrà nello
spazio loro dedicato, si trattò di opere eterogenee che gli
permisero di confrontarsi con diversi codici melodrammatici,
ottenendo un successo alterno. Le restanti quattro farse
veneziane che nonostante qualche rovescio gli consentirono di
affermarsi a livello locale fra gli specialisti del genere,
mantennero invece l’impianto incalzante e serrato che
contraddistingue quella tipologia drammatica. All’epoca, con
qualche approssimazione, la farsa era così configurata:
sinfonia seguita da un’introduzione (N. 1), un pezzo chiuso
scelto fra aria, cavatina o duetto (N. 2), una cavatina o un’aria
di altro personaggio (N. 3), un brano d’assieme in cui i nodi
drammatici vengono al pettine (uno pseudo finale intermedio,
N. 4), altra aria minore prevalentemente di una seconda parte
(N. 5), un’aria importante e/o un duetto in funzione di svolta
(variamente ai NN. 6 o 7), quindi il finale (N. 8), spesso
secondo l’impianto del finale “a catena” – una successione di
tempi statici o dinamici culminante in una stretta – di origini
settecentesche, tipologia per altro impiegata con regolarità
nelle opere vere e proprie di Rossini (nel finale centrale).
Tuttavia, in un genere che genere non fu ma piuttosto un
“taglio” drammatico – gli elementi costitutivi delle farse
restano quelli dell’opera buffa – la tipologia dei soggetti
prescelti poté svariare considerevolmente. In Rossini, al
mondo angloamericano della Cambiale fanno seguito
l’ambientazione italica e mineraria dell’Inganno felice, quella
francese e agreste della Scala di seta, mentre partenopea è la
cornice dell’Occasione fa il ladro e cortigiano il contesto del
Signor Bruschino. La sostanza drammatica ne è condizionata e
si sviluppa in analogia con l’ambientazione.
In questo lotto di componimenti, L’inganno felice, in prima
l’8 gennaio 1812, è senz’altro quello più rilevante e all’epoca
premiato da maggior successo, e l’unico contraddistinto da
numerose riprese in Italia e occasionalmente all’estero,
condizione non ovvia per una farsa (niente a che vedere con
l’omonimo titolo di Palomba/Paisiello, su altro soggetto).
L’autore del libretto e di altre due fra le restanti farse
rossiniane, il veneziano Giuseppe Maria Foppa (1760-1845),
fu come Rossi figura di raccordo al passaggio del secolo; la
sua produzione oscilla fra le tradizionali tematiche
settecentesche e l’interesse crescente per soggetti di
derivazione estera. Sovente ispirato da fonti francesi (il solito
Corneille, ma anche l’illuminista Marmontel e il
“rivoluzionario” Beaumarchais) e fra i primi a ridurre
Shakespeare per le scene dell’opera, non virò con la stessa
convinzione di Rossi verso soggetti propriamente romantici e
cessò di scrivere libretti nella seconda decade del secolo,
prima che le nuove tendenze si affermassero in modo
irreversibile. Quanto ai contenuti, le vicende inscenate
nell’Inganno felice dovettero apparire piuttosto familiari allo
spettatore dell’epoca.
Nel Settecento lo sviluppo minerario e metallurgico aveva
raggiunto i massimi livelli; l’ambientazione fosca, le tristi
vicissitudini patite da Isabella, la presenza di personaggi
ambigui (i due bassi comici, Tarabotto e Batone, non hanno un
profilo farsesco e sono emotivamente coinvolti nella vicenda,
manifestando solidarietà o avversità) riconducono alla
comédie larmoyante e da lì al genere semiserio. Non è un caso
che a creare il ruolo di Isabella fosse il contralto Teresa
Belloc-Giorgi (1784-1855), che aveva in repertorio ruoli
patetici come la Nina di Paisiello, Camilla e Griselda nelle
omonime opere di Paer, e che dopo vari successi in opere serie
o comiche, anche rossiniane, sarà la prima Ninetta nella Gazza
ladra, opera semiseria per eccellenza (1817). Oltre al solito
Raffanelli (Tarabotto), l’interprete di spicco fu Filippo Galli
(1783-1853), qui Batone, voce mozartiana e rossiniana di alto
livello e artista destinato a creare ruoli di primo piano lungo
tutta la produzione italiana del Pesarese, sia nel genere buffo
(Mustafà, L’italiana in Algeri, 1813; Selim, Il turco in Italia,
1814), sia in quello serio (Maometto nel Maometto secondo,
1820; Assur, Semiramide, 1823). Nato come tenore, forse a
seguito di una malattia aveva ripiegato sul registro di basso
“cantante” (basso-baritono), riuscendo a conservare ampia
estensione vocale e dominio delle colorature.
La trama dell’opera rinvia a un antefatto lontano: dieci anni
prima, Isabella, moglie del duca Bertrando, era stata calunniata
dal consigliere Ormondo con l’accusa di infedeltà per essere
stato da lei respinto. Condannata a morte e abbandonata alla
mercé delle onde, viene salvata dal minatore Tarabotto, che la
spaccia per sua nipote. Nella farsa, Isabella tenta di
riavvicinarsi al duca che ancora l’ama, ma deve fronteggiare le
nuove insidie di Ormondo, superate nel lungo, efficacissimo
finale notturno «Tacita notte oscura» (I,ultima, N. 9), con la
condanna dei traditori e il ricongiungimento della coppia,
pagina caratterizzata da fluidità e intenerimenti che stavolta
davvero suscitano reminiscenze cimarosiane; i concertati sono
invece ridotti al minimo. Prevale in questo lavoro il tema della
fedeltà coniugale sul modello della boccaccesca Griselda,
ancora così in voga e talora dotato di risvolti latamente sociali;
il disegno complessivo della trama sfiora le tematiche
dell’opéra à sauvetage, genere caratterizzato da trame
politiche e da vicissitudini quali oppressione, ingiusto
incarceramento, liberazione o assoluzione finale a seguito
dell’intervento di un potente convertito alla causa
rivoluzionaria. Nella loro genericità, gli spunti politici sono
stemperati alla luce del comico, che però a sua volta risente
della malinconica e austera cornice, con tanto di crimine
pregresso, che grava anche sul buffo Batone: a lui capita di
riconoscere Isabella e la reazione è quella di un colpevole
svelato. «Una voce m’ha colpito» termina con una trepidante
cabaletta in cui appare il cosiddetto “stile misto”, a metà fra
sillabico e vocalizzato e altro contrassegno della vocalità
rossiniana, che consiste nell’appoggiare un gruppo di note
veloci alle singole sillabe: la parola ne viene dilatata
trasformandosi in una ghirlanda sonora (I,V, N. 5). Il duca
Bertrando, tenore, manifesta invece un animo gentile; la sua
cavatina è impreziosita dalle volute del flauto, come si addice
agli innamorati, ma era stato pur sempre lui a condannare la
consorte innocente («Qual tenero diletto», I,II, N. 2). A
Tarabotto spetta di attenuare il patetismo delle situazioni ed
egli adempie al suo compito borbottando con prudenziale
pragmatismo, prima nell’introduzione in duetto con Isabella
(I,I, N. 1), quindi in terzetto con Isabella e Bertrando, durante
il riconoscimento dei due sposi a «(Quel sembiante, quello
sguardo)», I,VIII, N. 4.
Le restanti farse rossiniane attingono a diverse tipologie di
commedia senza le ibridazioni della precedente e consentono
di introdurre altri elementi portanti della drammaturgia
rossiniana dei primi anni. La scala di seta (9 maggio 1812),
ancora su libretto di Foppa, si uniforma ai canoni della
commedia d’intrigo. Deriva da un recente opéra-comique
francese, L’Échelle de soie di François-Antoine-Eugène de
Planard, rappresentato a Parigi nel 1808, a sua volta una
riscrittura di The clandestine marriage di George Colman e
David Garrick, fonte primaria anche del Matrimonio segreto di
Bertati per Cimarosa. Nella trama si rileva infatti, a seguito di
un fitto gioco di similitudini, un dispositivo comico presente in
tanti libretti dell’epoca, quello del matrimonio di convenienza
sventato per volontà di una coppia segretamente precostituita,
che genera però una nuova e accettabile opportunità
matrimoniale (vedi anche sopra alla Cambiale). Qui, un
vecchio tutore (Dormont) vorrebbe far sposare la pupilla
Giulia – che ama segretamente Dorvil, il quale si serve di una
silenziosa scala di seta per raggiungere l’amata – con
l’abbiente Blansac; l’innamoramento di questi per la cugina di
Giulia (Lucilla) obbliga Dormont a rivedere i suoi piani.
Eccetto De Grecis (Germano), l’opera si avvalse di un cast di
minor rilievo rispetto ai casi precedenti. Maria Cantarelli,
allora quasi agli esordi e primadonna nelle vesti di Giulia,
svolse una discreta carriera fino ai primi anni trenta. Indossò
anche i panni di Rosina e di Desdemona a Livorno, nell’estate
del 1821, ma non ebbe nel novero delle sue apparizioni alcuna
altra prima rossiniana. A Raffaele Monelli, tenore di mezzo
carattere e già nel cast dell’Inganno felice, fu affidato il ruolo
dell’innamorato Dorvil; la sua è presenza ricorrente in quegli
anni al San Moisè, e cantò anche il ruolo di Lindoro
(L’italiana in Algeri) in teatri del Nord Italia. Merita una
segnalazione infine Gaetano Dal Monte (Dormont, secondo
tenore), altra presenza ricorrente in quegli anni al San Moisè;
nel 1815 al San Benedetto tenne a battesimo prime di Farinelli,
Pavesi, Coccia e Nicolini.

Filippo Galli;
Milano, Archivio Storico Ricordi

Il profilo di questi artisti conferma che anche come cantanti ci


si potesse formare alla scuola della farsa e che in certi casi non
si riuscisse ad andare molto oltre. Tuttavia per questi interpreti
non di spicco o ancora a inizio carriera, e senza ottenere un
successo duraturo (La scala di seta non ebbe riprese di rilievo
anche se fu recensita con favore, nonostante qualche eccesso
in termini di ricchezza motivica e impiego dello strumentale),7
Rossini approntò alcune delle pagine più brillanti sul piano
vocale fra quelle da lui scritte fino a questo momento; vi si
delinea, fra l’altro, uno dei princìpi fondativi della sua
drammaturgia, già evidente in questi anni, vale a dire la
progressiva e sempre più incalzante incidenza della musica
rispetto ai valori testuali/librettistici. In ogni momento della
storia dell’opera la dimensione musicale non attiene soltanto al
piano estetico, bensì diviene essa stessa una funzione
drammatica orientativa e propulsiva in grado di “fare scena”;
questa funzione in Rossini assume un rilievo addirittura
prevaricante rispetto alla semantica della nuda parola, a
vantaggio di una semantica della “parola cantata” assunta a
valore drammaturgico. Che la musica risucchiasse nel suo
alveo la parola “letteralmente” intesa era stata una prerogativa
del melodramma fin dai suoi esordi, nonché fonte di infinite
discussioni teoriche sulla corretta proporzione delle due
dimensioni verbale e musicale, in un senso o nell’altro. Con
Rossini, l’appropriazione del testo da parte del canto e la sua
restituzione destrutturata attraverso le trame vocali solistiche o
d’assieme raggiunge uno dei suoi vertici e investe la
caratterizzazione dei singoli personaggi e della situazione in
cui essi sono calati. Il pubblico è indotto ad ascoltare il canto,
anziché il testo, in una misura mai prima raggiunta,
ricavandone indicazioni drammaturgiche puntuali, anche a
prescindere dalle parole; per dirla con Marco Beghelli, le
partiture rossiniane si articolano per «“figure” sonore astratte
ricorrenti di opera in opera e prive sia di una reale identità
melodica, sia di un valore semantico extramusicale».8 Viene
meno ogni presupposto imitativo – ancora ben presente, per
esempio, nella produzione dei “napoletani” – ricavandosi la
musica una propria autonomia semantica e drammaturgica.
Ciò spiega perché l’idea che un compositore potesse
assurgere al rango di “drammaturgo” divenendo il “primo
autore” delle sue opere, nell’opinione pubblica del tempo
quanto negli studi specialistici odierni si stabilizzi a partire
dalla figura di Rossini. La questione è di grande portata e non
può essere trattata in modo spiccio e totalizzante: Monteverdi,
Händel o Mozart furono drammaturghi secondo altre regole,
quelle della loro epoca e del sistema produttivo di riferimento.
Un punto fermo però lo si può individuare con certezza e
consiste nel ruolo esercitato dalla stampa periodica coeva in
commenti e recensioni di opere rossiniane, che asseverarono la
percezione della centralità del Pesarese nel sistema operistico
sovraregionale di quegli anni. Un’opportunità che in Italia
mancò ai compositori della generazione precedente – a
eccezione forse di Paisiello (e di Cimarosa, ma post mortem),
però in misura sicuramente più contenuta – e che a inizio
Ottocento poté essere garantita a Rossini da una sempre
maggiore diffusione dell’informazione musicale e dalla nascita
di periodici specializzati. La stampa concorse
progressivamente anche all’istituzione di un’idea diffusa e
prevalente di “rossinismo”, ossia l’affermazione di un “codice
rossiniano” in campo d’opera, da considerarsi in parte come
un distillato della tradizione antecedente, in parte come un
nuovo ritrovato proprio perché quella tradizione, nel
rossinismo, appare condotta alle sue estreme conseguenze (e
motivo ora di plauso ora di critica); e a quel rossinismo, al
tempo stesso sintesi e innovazione, altri compositori andarono
più o meno intenzionalmente a uniformarsi.
A seguire tre casi emblematici nella Scala di seta di
appropriazione e amplificazione musicale di porzioni testuali
appositamente congegnate.
L’introduzione «Va’ sciocco, non seccarmi» (I,I, N. 1) è
costruita sui tentativi di indagare nella vita sentimentale di
Giulia condotti da Germano, servo intrigante segretamente
innamorato di costei, e dalla cugina Lucilla. Niente di concreto
accade, solo una rapida successione di scambievoli battute sul
matrimonio e sul destino di Giulia, che sarà deciso di lì a poco
dal tutore. La realizzazione musicale si avvale dell’alternanza
di momenti solistici in cui i personaggi vengono caratterizzati
(le insulse avances del servo, l’amore segreto custodito da
Giulia) e di sezioni d’assieme fra cui la stretta finale («Ma
prima un affare»): il libretto, che stabilisce
programmaticamente un “a tre”, porge al compositore
l’occasione di esaltare attraverso la musica una situazione di
per sé piuttosto neutra che diviene frenetica. La rapidissima
scansione terzinata del testo da parte di Germano si
contrappone al canto scandito delle due donne; la comicità si
realizza quindi nello spazio della drammaturgia musicale –
non della situazione in sé – e ne costituisce un asse portante.
Effetti senza causa, ma in grado di condurre il pubblico in un
territorio propriamente melodrammatico, ove la costruzione
della scena – sul piano visibile ma anche nello spazio mentale
popolato dall’intreccio delle voci dei personaggi – è raggiunta
attraverso una serie di eventi, vocali più che fattuali, acustici
più che visivi.
Il quartetto «Sì che unito a cara sposa» (I,VII, N. 4) segna il
momento più intrigante dell’intreccio con la compresenza in
scena di Blansac, Dorvil e Germano, tutti collegati a Giulia
sulla base di equivoci e fraintendimenti, e si avvale come al
solito nei concertati di momenti di dialogo alternati a sezioni
contraddistinte dall’addensamento delle battute dei
personaggi, fino alla totale sovrapposizione. Il primo insieme a
«I voti unanimi, la tenerezza» coincide con la promessa
d’amore (fittizia) di Giulia a Blansac e con i mugugni di
Dorvil e Germano, nei rispettivi “a parte”. Se la musica
inquadrasse i personaggi uno per uno, in modo distinto,
avremmo una lettura analitica dei medesimi ma non della
situazione, con perdita dell’effetto comico (non c’è niente di
comico nel contenuto delle singole battute). Rossini dispone
invece le entrate a canone su un identico impassibile motivo,
meccanizzandole e spersonalizzando i singoli personaggi a
vantaggio della situazione complessiva, che viene così
imbastita sulla base di un grottesco e irrealistico automatismo.
Qualcosa di simile avverrà nel «Confusi e stupidi», il
concertato di stupore che ha reso così celebre il finale primo
dell’Italiana in Algeri; ma il concetto di base gli preesiste.
Il principio dell’appropriazione del testo da parte del
compositore, fino alla trasfigurazione del testo stesso, si
estende infine ai brani solistici, inerenti ai singoli personaggi
anziché alla situazione, come invece avviene nei concertati.
Lucilla si rivela non insensibile al corteggiamento di Blansac;
in I,IX (N. 5) canta fra sé e sé la propria disposizione di spirito
in una convenzionale aria bistrofica:
Sento talor nell’anima
un dolce movimento,
che lusinghiero e tenero
mi va parlando in sen.
Allor se un caro sposo
avessi al fianco mio,
quanto nel cor desio
sarìa compito appien. (parte)
Il testo poetico riconduce al mondo degli affetti ideali che
aveva improntato tanto Settecento. Il «dolce movimento»
dell’anima, «lusinghiero e tenero», l’immagine del «caro
sposo» al fianco dell’amata, il desiderio del cuore appagato
nell’amore evocano un sentimento di stabilità coniugale.
Rossini immagina però un personaggio diverso e predispone
un’aria rapida (Allegro) e in tempo di marcia, in cui la
“commozione” dell’animo è raffigurata da due vivacissimi e
penetranti ottavini che si intrecciano al motivo del canto. La
soluzione prescelta verte sull’eccitazione dei sensi ed è
consona più all’ebrezza della seduzione – prefigurata dal
recitativo precedente – che non alla pacifica quiete domestica.
La raffigurazione teatrale di Lucilla slitta dal testo alla musica:
un tradimento del senso del testo letterario, lieve ma
sintomatico, che si converte in effetto comico.
Le ultime due farse, L’occasione fa il ladro (originariamente
“burletta”, 24 novembre 1812, libretto di Luigi Prividali su un
soggetto di Eugène Scribe) e Il signor Bruschino, ossia Il
figlio per azzardo (27 gennaio 1813, testo di Foppa), niente
aggiungono né tolgono al panorama qui abbozzato. Il successo
decrescente, soprattutto al confronto con L’inganno felice, non
fu dovuto alla qualità musicale, costante nei suoi alti e bassi,
né presumibilmente ai cast impiegati, in cui figuravano anche
cantanti già noti a quel teatro e al pubblico, ma piuttosto
all’assuefazione per un certo tipo di spettacolo e alle sue
caratteristiche di fondo. A Venezia le farse rossiniane
restarono pressoché senza seguito in Rossini o altri, e
divennero per l’autore un serbatoio di spunti per
autoimprestiti: il duettino dell’introduzione del Signor
Bruschino ebbe almeno cinque rielaborazioni successive.
Teresa Belloc;
Milano, Archivio Storico Ricordi

A quest’ultimo titolo rossiniano, uno dei pochi solenni fiaschi


della carriera del Pesarese, cancellato la sera stessa del debutto
fra i fischi del pubblico, furono addossati demeriti in realtà
piuttosto diffusi all’epoca in cronache e recensioni, anche oltre
l’ambito rossiniano: gli eccessi nello strumentale, la
confusione generata dall’intreccio di parti vocali e parti
strumentali, l’artificiosità del canto. Al di là delle bizzarrie e
della regressione buffonesca di alcuni momenti, come la
balbuzie comica di Bruschino figlio a «Padre mio… mio…
mio… Son pentito… tito… tito» (I,ultima, N. 8), in tempo di
marcia funebre (idea tutta di Rossini, con ripetizioni assenti
nel libretto), Il signor Bruschino manifesta in modo palese e
anche sorprendente in sede farsesca soluzioni retoriche e
compositive derivate dalla conoscenza dei classici viennesi.
Difficile per esempio non cogliere riferimenti all’umorismo
haydniano nella sinfonia – che slitta rapidamente dai toni
seriosi dell’avvio, all’effetto rumoristico degli archetti che
percuotono i paralumi dei leggii e infine allo stacco melodico
del tema principale – o reminiscenze mozartiane nel terzetto in
I,VI (N. 4) «Per un figlio già pentito» e nell’aria di Sofia «Ah
donate il caro sposo» (I,IX, N. 5). Fin dal recitativo
quest’ultima – interpretata dalla primadonna Teodolinda
Pontiggia, soprano destinato a breve carriera – si atteggia a
parte seria, un po’ Donna Anna, un po’ Fiordiligi, un po’
Vitellia: al celebre rondò «Non più di fiori», con corno di
bassetto, sembra alludere la cabaletta finale (qui lo strumento
concertante è un fagotto, spesso sostituito dal corno inglese).
L’intento di Foppa/Rossini, quello di suscitare o resuscitare il
ricordo di tanti rondò tristrofici di prime donne o “musici” –
nel Settecento il primo uomo castrato – è chiarissimo. Ma ciò
che a noi pare un intrigante riferimento al recente passato
operistico sembrò all’epoca forse solo un’anticaglia, una
soluzione residuale già tante volte praticata nel genere buffo,
per un brano che nella fattispecie «non offre che un canto
spezzato, un arpeggio continuo, un’intuonazione difficilissima,
ch’ora ferma negli acuti, or ne’ bassi precipita; ed una sincope
eterna».9 Non a caso le stravaganze del Signor Bruschino
trovarono un estimatore in Jacques Offenbach, che riprese
l’opera, rielaborata e tradotta in francese, ai Bouffes Parisiens
nel 1857; il pubblico vi avrà visto una satira del Rossini che
più conosceva e che aveva amato o detestato negli anni della
militanza parigina del compositore.
Un insuccesso non era comunque sentenza inappellabile e
rientrava nella naturale fisiologia di una carriera operistica. Di
sicuro la caduta del Signor Bruschino, nonostante i timori di
Rossini, poco o niente avrà inciso sulla disposizione del
pubblico del Tancredi, alla Fenice, appena una decina di giorni
dopo (6 febbraio 1813), consacrazione definitiva dell’autore
cui ci si dedicherà fra qualche pagina, dopo una ricognizione
sull’altra dimensione dell’apprendistato operistico di Rossini:
quello svolto in simultanea su piazze diverse da Venezia, non
meno strategiche per la sua affermazione sovraregionale.
SUGGERIMENTI DI LETTURA

Sulla situazione politica ed economica di Venezia a primo


Ottocento vedi WOOLF 2005 e PILLEPICH 2005; alcuni dati
statistici in ROSSI 2009. Su Carpani GALLARATI 1999a; su
Ritorni FABBRI 1981. Programmazione e tradizione del teatro
di San Moisè in MIGGIANI 1990; per il genere della farsa
BRYANT 1989, BRYANT-MIGGIANI 1989, CAGLI 1989, GIRARDI
2012 e, anche su aspetti morfologici, SALA 2014. I cantanti
Raffanelli e Galli sono presentati rispettivamente in PAISSA
1989 e MIOLI 1994. L’immagine operistica dell’americano agli
occhi degli europei, qui in merito alla Cambiale di
matrimonio, è discussa in POLZONETTI 2011. Alcuni elementi
della drammaturgia di Gaetano Rossi in MIGGIANI 2000; su
Foppa, GON 2011 e BEGHELLI 2012, pp. XV-XXXIV; sull’Inganno
felice vedi anche CAVICCHI 1998. Lo sviluppo e le origini
mayriane del concertato finale in BALTHAZAR 1991. La
tradizione anche post-rossiniana della farsa, in riferimento
soprattutto a Donizetti, in BINI 1994. Sul Signor Bruschino
rielaborato da Offenbach, EVERIST 2009.
DA ASCOLTARE

La cambiale di matrimonio
Vito Priante (Tobia Mill), Julija Samsonova (Fanny), Daniele
Zanfardino (Edoardo Milfort), Giulio Mastrototaro (Slook),
Tomasz Wija (Norton), Francesca Russo Ermolli (Clarina),
Württemberg Philharmonic Orchestra, dir. Christopher
Franklin, Naxos 2011
L’inganno felice
Kenneth Tarver (Bertrando), Corinna Mologni (Isabella),
Lorenzo Regazzo (Tarabotto), Marco Vinco (Batone), Simon
Bailey (Ormondo), Czech Chamber Soloists, Brno, dir.
Alberto Zedda, Naxos 2005
La scala di seta
Teresa Ringholz (Giulia), Alessandro Corbelli (Germano),
Ramón Vargas (Dorvil), Natale De Carolis (Blansac),
Francesca Provvisionato (Lucilla), Fulvio Massa (Dormont),
English Chamber Orchestra, dir. Marcello Viotti, Claves 1999
L’occasione fa il ladro
Elizaveta Martirosyan (Berenice), Fanie Antonelou
(Ernestina), Gianpiero Ruggeri (Don Parmenione), Mauro
Utzeri (Martino), Garðar Thór Cortes (Alberto), Joan Ribalta
(Don Eusebio), Württemberg Philharmonic Orchestra, dir.
Antonino Fogliani, Naxos 2012
Il signor Bruschino, ossia Il figlio per azzardo
Alessandro Codeluppi (Florville), Maurizio Leoni
(Gaudenzio), Elena Rossi (Sofia), Dario Giorgelè (Bruschino),
Antonio Marani (Filiberto), Clara Giangaspero (Marianna),
Massimiliano Barbolini (Bruschino figlio), Vito Martino
(Commissario), I Virtuosi Italiani, dir. Claudio Desderi, Naxos
2004

2. «Cimarosa non è morto»


1 CARPANI 1824, p. 28 (Lettera II, 12 dicembre 1804).
2 RITORNI 1841, p. 33.

3 Cfr. SALVAGNO 2016, pp. 232-233. Le affinità professionali fra Pavesi e Rossini
si spiegano anche alla luce di modalità operative condivise, fra le quali trova posto
la figura unificante del librettista veronese.
4 HILLER 1855, pp. 98-99.

5 Carteggio Mayr III, pp. 1-2: 1 (Venezia 15 dicembre 1810, Gaetano Rossi a
Mayr, Brescia).
6 GRLD 1992, pp. 31-32 (Venezia 9 gennaio 1812, Antonio Cera a Anna
Guidarini Rossini, Bologna).
7 Furono censure frequenti in quegli anni, nella supposizione di una invasiva
influenza della musica d’oltralpe sugli operisti italiani: «Il Sig. Maestro Rossini
[…] è ammirabile per aver saputo alla fervida sua fantasia, coll’elaborato suo
studio, conciliar la perfett’armonia di un ammasso di motivi, di contrattempi, di
passaggi di tuono che si succedono l’un l’altro e nel cantabile e nel vibratissimo
istrumentale, ma che talor rendono un po’ lunghetti i pezzi, come lo è anche la
sinfonia» (Giornale dipartimentale dell’Adriatico, 12 maggio 1812, cit. in GIRARDI
2012, p. 15). Simili critiche erano state mosse anche a Pietro Generali, «mai sazio
nel suo giuoco istrumentale» (Quotidiano veneto, 21 giugno 1804). La
sua Isabellaebbe scarso effetto «sebbene non manchi una buona dose di crescendi, e
si succedan i motivi istrumentali a bizzeffe l’un sopra l’altro» (Giornale
dipartimentale dell’Adriatico, 29 dicembre 1812).
8 BEGHELLI 2018b, p. 84; cfr. anche SENICI 2019, pp. 23-30.

9 Giornale dipartimentale dell’Adriatico, 30 gennaio 1813, cit. in GIRARDI 2012,


p. 20.
3. Verso un ampio orizzonte

Frontespizio del libretto a stampa della prima assoluta della Pietra del paragone
con annotazioni autografe di un entusiasta Giovanni Ricordi;
Milano, Teatro alla Scala, 1812; Milano, Archivio Storico Ricordi

L’attività di Rossini fra 1811 e 1812 – anno densissimo, con


ben sette opere rappresentate – fu caratterizzata da un
andamento pendolare a lui favorevole in termini di mestiere e
di buona circolazione del nome. Tra una farsa veneziana e
l’altra, il compositore riuscì a piazzare svariati titoli per altre
destinazioni e in generi diversi: dramma giocoso, dramma
serio per musica, dramma quaresimale. All’età di vent’anni la
sua formazione di compositore teatrale italiano poteva così
dirsi completa, e in questa avvincente ascesa professionale gli
furono determinanti, ancora una volta, i contatti con la parte
più dinamica del sistema produttivo, quella del palcoscenico.
Il primo titolo rappresentato fuori Venezia fu il dramma
giocoso L’equivoco stravagante, in scena il 26 ottobre 1811 a
Bologna – già legazione apostolica, ora parte dell’effimero
Regno d’Italia di marca napoleonica e città adottiva del
compositore (ma fu questa l’unica prima felsinea della sua
carriera) –, in quel Teatro del Corso dove sei anni prima
Rossini era apparso in qualità di cantante in erba nella Camilla
di Paer. Il suo ingaggio comprendeva l’incarico di maestro al
cembalo per l’intera stagione con l’obbligo di concertare tutti i
titoli in cartellone. Il libretto della nuova opera era di Gaetano
Gasbarri, un napoletano trapiantato a Firenze attorno al 1799,
di incerto profilo biografico e fino al legame con Rossini noto
soprattutto per la collaborazione col compositore romano
Valentino Fioravanti (autore di rilievo stimato da Cimarosa e
da Rossini stesso, oggi caduto nell’oblio) e qualche anno dopo
distintosi per un bizzarro adattamento semiserio da Goethe
(Carlotta e Verter, musica di Carlo Coccia, Firenze 1814). Il
soggetto dell’Equivoco sviluppa due temi distinti, collegati un
po’ forzatamente. Il primo è quello dell’istruzione femminile,
provvisto di una sua tradizione nella commedia (Molière) e nel
dramma giocoso settecentesco (per esempio nelle Donne
letterate di Boccherini/Salieri, 1770), assai consono alla città
accademica per eccellenza. A questo argomento si intreccia il
tema pure attualissimo della messa in ridicolo della declinante
figura del cantante castrato, “castrataccio” nel libretto di
Gasbarri, simbolo di antico regime e di un teatro che si dava
ormai per tramontato; negli anni della dominazione francese la
questione era molto sentita anche a livello morale, oltre che
estetico. Questo secondo spunto è per altro sovrapposto allo
scambio di identità sessuale giacché è la dotta Ernestina a
essere creduta, nel secondo atto dell’opera, un evirato in vesti
femminili (da qui il titolo). Si tratta però soltanto di una
menzogna a fin di bene, architettata dal cameriere Frontino,
volta a distogliere l’interesse del promesso sposo Buralicchio,
giovane «ricco» e «sciocco» prediletto dal padre Gamberotto
ma sgradito alla giovane, in favore di Ermanno, finto
precettore mediamente erudito ma sinceramente innamorato di
lei. Nella fantasiosa ricostruzione di Frontino (II,III), a
Ernesto/Ernestina sarebbe stata preclusa la carriera teatrale e
imposto l’obbligo della divisa militare, che in seguito
Ernestina vestirà davvero per fuggire dal carcere in cui era
stata ingiustamente rinchiusa per diserzione (denunciata da
Buralicchio) e convolare a giuste nozze con Ermanno.
La condizione paradossale dell’“evirato soldato” (i castrati
non più utili a teatro possono pur sempre dedicarsi alla vita
militare) e la salacità dei doppi sensi e di alcune battute a
sfondo sessuale – ma niente di diverso da quanto si poteva
leggere in alcuni drammi giocosi goldoniani – fecero abbattere
la scure della censura appena dopo la terza rappresentazione
dell’opera, nonostante il buon successo di pubblico. Fra le
motivazioni vi era anche l’aggravante che certe “sconcezze”
venivano amplificate dal canto e dalle maliziose ripetizioni di
parole predisposte da Rossini al fine di renderle, se possibile,
ancora più efficaci.1 Rossini, obbligato per contratto a restare a
disposizione del teatro, prese la cosa di malanimo e durante le
prove del morigeratissimo Trionfo di Quinto Fabio di
Domenico Puccini diede in escandescenze, brandendo un
bastone all’indirizzo dei coristi, che reagirono denunciandolo
all’autorità. L’intemperanza giovanile (l’unica in una carriera
contraddistinta da distacco e autoironia) gli costò l’arresto, un
breve fermo e un’ammonizione.2 Tali provvedimenti non
servirono però a mitigare la sua irritazione, esacerbata da un
ruolo, quello di maestro concertatore che, punto sul vivo come
autore di un lavoro poco fortunato per motivi da lui
indipendenti, iniziava a sentire estraneo.
La figura del finto castrato e finto militare fu però del tutto
adeguata a Marietta Marcolini (1780-1855), cantante di
origine fiorentina da quel momento in poi presenza ricorrente
in produzioni rossiniane. In carriera almeno dal 1799, la
Marcolini aveva al suo attivo già numerose prime di opere di
autori correnti, fra cui Mayr, Pietro Carlo Guglielmi,
Cimarosa, Tritto, Nicolini, Morlacchi. Di bella presenza, voce
di contralto e perciò efficace surrogato dei sempre più rari
castrati, aveva già cantato en travesti ruoli maschili (fu Achille
nel Sacrifizio d’Ifigenia di Mayr, Brescia 1811, e l’eroe
eponimo nel Quinto Fabio di Bologna). Oscillando con uguale
perizia fra i generi serio e buffo, avrebbe di lì a poco vestito i
panni di Ciro nel Ciro in Babilonia (1812), di Clarice nella
Pietra del paragone (1812), di Isabella nell’Italiana in Algeri
(1813), di Sigismondo nell’opera omonima (1814), tutte prime
rossiniane cui fecero seguito, per alcuni anni, partecipazioni in
riprese di quelle opere e in altri titoli non rossiniani. Nel suo
vestire i panni di una donna creduta castrato si può allora
scorgere uno spiritoso doppio fondo, confidando nella pronta
risposta di un pubblico ormai avvezzo ad ascoltare contralti
femminili in vesti maschili (un espediente occasionalmente
praticato anche nel secolo precedente); l’esibizione in una
stessa opera della molteplice identità scenica della Marcolini
divenne fattore di comicità. In II,IV Ernestina, vedendo
Buralicchio scosso dalla notizia dell’evirazione (cui lei è
ovviamente estranea), vorrebbe consolarlo con «un’ariettina
tenera», ossia cantando, nonostante fossero letteratura e
retorica le sue occupazioni predilette, e questo innesca un
gioco parodistico che trasforma il duetto successivo «Vieni
pur, a me t’accosta»3 (N. 13) in un’improbabile scena di
seduzione di Ernestina, creduta Ernesto, verso un reticente
Buralicchio, che teme un’aggressione sessuale (prefigurata dal
canto deciso e infiorettato di lei, creduta lui) e paventa, con
evidente doppio senso, «un scoglio / entrando in alto mar»,
fino alla rissosa cabaletta conclusiva. A confermare
implicitamente l’identità femminile di Ernestina, in termini di
codici melodrammatici, vi era la presenza di Ermanno nel
ruolo di innamorato, un tenore che mai amerebbe un castrato
(lo farebbe semmai un soprano femminile); la parte,
significativa anche per il rilievo dei brani cantati, spettò a
Tommaso Berti, figura di secondo piano scomparsa presto
dalle scene, ma che Rossini utilizzerà ancora nell’Occasione fa
il ladro e nel Signor Bruschino.
Il gioco di scatole cinesi si conclude con il rondò di
Ernestina in II,XIII (N. 18) «Se per te lieta ritorno»: la
protagonista, in vesti maschili (quando agli occhi di
Buralicchio era parsa un uomo in vesti femminili), si procura
da sola la propria liberazione dal carcere inneggiando alla
guerra e all’amore, sostenuta da musica marziale all’indirizzo
di un imbelle coro di soldati che ne trae incitamento alla vita
militare. Il finale nichilista e irridente – Buralicchio, deriso per
essere caduto nell’equivoco, rinunzia a Ernestina, scandendo
un solenne «non me ne importa un fico / degna di me non è» –
suona come un colpo di spugna a tanto dramma giocoso del
passato – ma vedi anche La cambiale o La scala di seta – in
cui anche chi fosse rifiutato o sconfitto nell’amore sapeva
ritrovare nel conforto della classe o dello status sociale
equilibrio e consolazione.
La disavventura del ritiro dalle scene dell’Equivoco
stravagante a causa della censura e lo sconcerto del
compositore trovarono rapida consolazione con l’inaspettato
successo ottenuto dall’Inganno felice rappresentato a Venezia
(gennaio 1812), cui fece seguito, un paio di mesi dopo, il
ritorno in terra emiliana con un’opera di soggetto biblico, Ciro
in Babilonia, o sia La caduta di Baldassare, al Teatro
Comunale di Ferrara il 14 marzo, in periodo di quaresima, che
costituì il primo saggio rossiniano in un genere con cui sei
anni dopo si sarebbe nuovamente cimentato producendo uno
dei suoi lavori più rilevanti del periodo napoletano, Mosè in
Egitto (1818), poi adattato per le scene parigine. La città gli
era nota sin da giovanissimo; nel carnevale del 1798-99 vi si
era esibita la madre Anna Guidarini in opere di Mayr, Gardi,
Cimarosa. Anni dopo, nel carnevale 1809-10 fu Gioachino
stesso a sedere al cembalo del Teatro Comunale per concertare
Il podestà di Chioggia di Ferdinando Orlandi; forse già in
quell’occasione venne intercettato dal conte Francesco Aventi,
comandante della Guardia nazionale e poeta dilettante, che nel
1812 gli affidò l’intonazione di un modesto dramma
quaresimale, tradizionalmente attribuito allo stesso Aventi ma
scritto da altri, tratto dal libro profetico di Daniele 5,1-30 (la
corrispondenza si limita però ai soli episodi del banchetto di
Baldassare e della profezia di Daniele: il resto è d’invenzione).
Il coinvolgimento della Marcolini, con cui Rossini aveva già
lavorato a Bologna, nel ruolo di Ciro en travesti, rafforzò il
loro sodalizio artistico.
Le stagioni di quaresima, quando realizzate, erano
contraddistinte dalla scelta di argomenti a sfondo morale,
spesso di origine veterotestamentaria. Drammi così concepiti
potevano però staccarsi in un secondo tempo dal legame con
quel periodo dell’anno liturgico, guadagnando una propria
autonomia; adattandosi ad altri contesti, l’originaria
connotazione spirituale lasciava il passo a una recezione
pienamente melodrammatica e i drammi finivano per rientrare
nell’ordinaria circolazione teatrale. Ciro in Babilonia conobbe
riprese in stagioni carnevalizie (vedi Scala di Milano, 1818),
estive (anche a Ferrara nel 1823, con Rosmunda Pisaroni nel
ruolo di Ciro, da costei più volte preso in consegna) o
autunnali. Riguardo al dramma sacro come genere, Rossini si
collocò in una tradizione cittadina già piuttosto solida: negli
anni immediatamente precedenti, in stagione di quaresima, al
Teatro Comunale di Ferrara erano andati in scena Debora e
Sisara di Sernicola/Pietro Alessandro Guglielmi (1808, in
prima a Napoli nel lontano 1788), Il Saule di Salfi/Andreozzi
(1809, Napoli 1794), Il Trionfo di Davide di Lucchesi?/Rispoli
(1810, Napoli 1787), Il Trionfo di Giuditta di Fiori (dal
Metastasio)/P.A. Guglielmi (1811, in prima a Napoli nel 1791
col titolo di La morte di Oloferne). Contrariamente all’opera
rossiniana, erano tutti titoli di remota ascendenza partenopea,
giunti a Ferrara per strade diverse e spesso dopo molteplici
riprese intermedie. Forse a seguito del rilievo politico e sociale
del conte Aventi, suo sponsor, col giovane Rossini si azzardò
la scommessa di un’opera nuova, non già di tradizione ma
«appositamente scritta» per il Comunale, come specifica il
libretto originale, testo e musica.
In questo «dramma con cori», oggi poco ascoltato ma non
sgradito all’epoca, nonostante il severo parere espresso molti
anni dopo da Rossini, si riscontrano tutte le costanti del genere
quaresimale:

l’intreccio amoroso consono al melodramma serio di


qualsivoglia estrazione: qui il legame matrimoniale fra
Ciro e Amira su cui si staglia minacciosa l’ombra di
Baldassare, il quale, sconfitto Ciro, rapisce Amira col
proposito di obbligarla a un legame con lui. Ciro tenterà
di liberarla aiutato da Arbace ma verrà catturato e
inviato a morte assieme alla consorte; solo il
contrattacco dell’esercito persiano li sottrarrà al
supplizio;
l’intersezione di potere, relazioni affettive e dimensione
spirituale: sovrani, condottieri e tiranni, come nel
melodramma di soggetto non quaresimale, coltivano
una sfera affettiva più o meno legittima che ne
condiziona le gesta. Nel Ciro, Baldassare usa il proprio
successo militare per sopravanzare l’avversario anche
sul piano sentimentale. Ciro tenta di riavere la moglie
con una segreta e avventurosa azione individuale e non
tramite una battaglia;
la distribuzione strategica di elementi dell’intrigo
biblico in corrispondenza dei numeri richiesti in
un’opera (cavatine, rondò, concertati, finali). L’innesco
della peripezia è generato dal primo duetto di
Baldassare e Amira, «T’arrendi: alfin dipende» (I,II,
N. 2), un violento faccia a faccia ch’è anche fra i
momenti migliori del lavoro; la prefigurazione del suo
esito è invece collocata nella successiva cavatina del
contralto con coro, «Veh come pallido» (I,IV, N. 3), che
slitta repentinamente dal compianto per il re sconfitto
espresso dai soldati di Ciro, affranto per la perdita della
sposa («Ah! come il mio dolor»), alla sua
determinazione per la riscossa col sostegno del suo
popolo («Alla vendetta, all’armi»);
la presenza di preghiere, invocazioni, scene profetiche o
divinatorie, spesso con la partecipazione attiva del coro.
Nel Ciro risaltano le profezie contrapposte di Daniele e
dei Magi: il primo vaticina la distruzione di Babilonia e
la spartizione del regno, i secondi la vittoria di
Baldassare e l’uccisione della coppia reale persiana. In
II,IX figura la preghiera con violino concertante –
strumento emblematico della cultura musicale ebraica
moderna – di Amira prigioniera, un’invocazione al
«Nume de’ numi» («Deh! per me non v’affliggete»,
N. 12) conclusa da una brillante cabaletta di coloratura
in cui l’elemento spirituale viene risucchiato dal vortice
della vocalità («E al duol di quest’alma / soccorri dal
Ciel»).

In una più tarda recensione anonima della prima veneziana al


teatro di San Luca, con la Pisaroni e il celebre ma non
specificamente rossiniano tenore Tacchinardi4 nel ruolo di
Baldassare, pubblicata sulla Gazzetta privilegiata di Venezia il
13 marzo 1816, si passano in rassegna con toni poco elogiativi
nei confronti del librettista i “punti di scena”, che
all’articolista paiono scontati e fuori moda:
Il suo autore alla deficienza di cognizioni ha voluto
supplire con lo zelo della buona sua volontà, affastellando
in quest’opera tutti o gran parte di quei così detti punti di
scena, che a dispetto del buon senso e della storica verità si
lusingano di ottenere in Teatro un sicuro effetto: qui
abbiamo la madre prigioniera col puttino, il padre che
travestito d’ambasciatore viene a trovar la consorte, il
tiranno che sorprende e scopre gli sposi amanti, e dopo
varie altre consimili rancidissime risorse abbiamo anche il
tanto celebrato rondò con le catene, e così sia!
Il recensore si riferisce alla scena I,IX e seguenti, di carattere
patetico e avventuroso (la presenza di un «tenero pargoletto»
di metastasiana memoria e il travestimento di Ciro per
avvicinare la consorte), alla scena di prigione di II,II, aperta
per altro da una ragguardevole sezione orchestrale in modo
minore e con fiati dall’effetto lugubre secondo i dettami del
genere, e più oltre all’aria di Ciro inviato al supplizio
(«T’abbraccio, ti stringo», II,XII, N. 14). Avrebbe potuto anche
segnalare il finale ultimo, uno statico tableau a vicenda ormai
conclusa, alla maniera settecentesca. La recensione assume
toni meno affilati quando, dopo lo pseudo Aventi, parla di
Rossini. Una delle chiavi del successo del Pesarese è colta con
lucidità, anche se sotto traccia:
La musica è di Rossini; tanto dovrebbe bastare per
formarsene un’idea vantaggiosa, specialmente in Venezia,
ove tanto, e tanto frequentemente si ebbe campo di
apprezzare i talenti di questo giovine compositore. Il suo
Ciro però avrebbe potuto qui fare pompa maggiore delle
sue bellezze, se la sola o almeno la prima fosse delle opere
qui sentite di questo maestro. Bella è la musica, che noi
attualmente ascoltiamo a S. Luca, ma soffriamo spesso
l’inconveniente di ricordarsi il Tancredi, L’inganno felice,
L’Italiana in Algeri, La pietra del Paragone: bella è la
musica del Ciro, ma sarebbe per noi più bella, se mancante
quasi intieramente non fosse di novità. Le rimembranze
dolci, sono però anche sempre grate, e tanto più grate ci
devono essere in questa occasione, se raccomandate ci
vengono da una felicissima esecuzione.5
Alla base di questa valutazione vi è la pregressa notorietà del
compositore a Venezia, dove alcune delle sue migliori
produzioni erano già state ascoltate in prima o quasi (La pietra
del paragone, Milano 1812, a Venezia era giunta l’anno
successivo). La “mancanza di novità” del Ciro ha quindi
origine nella fama delle opere lì rappresentate dal 1810 in poi:
ma ad onta di ciò, le «rimembranze dolci» che la sua musica
produce costituiscono una facilitazione da accogliersi “con
gratitudine”.
Detta in altro modo, la riconoscibilità dello stile rossiniano e
la costanza delle sue soluzioni compositive si tramutano in un
elemento vantaggioso alla presenza di buoni interpreti
(decisivi per il successo, ancora prima della qualità della
musica). Il pubblico, che ascolta le opere certo non nel loro
ordine di composizione o prima rappresentazione – una prima
assoluta può essere seguita da una prima locale o da semplice
ripresa di opera già nota –, è messo in condizione di farsi
un’idea complessiva degli autori più alla moda e di assimilare,
per il tramite delle diverse intonazioni, gli elementi
caratterizzanti del linguaggio teatrale, più che la loro
filogenesi. Il suo orizzonte di attesa, con H.R. Jauss, si fonda
su aspettative precise e precostituite; i concetti di originalità e
unicità nella cultura teatrale italiana di questi anni tendono a
confondersi col concetto di abitudine, l’eccellenza con la
familiarità. Le similitudini di opera in opera vengono segnalate
sui periodici talora con accondiscendenza, più spesso con
spirito polemico, come si vedrà anche oltre; ma in ogni caso la
critica dei periodici, perlopiù anonima, attiva un movimento di
opinione che viene a convergere sui nomi più accreditati,
suscitando l’interesse del pubblico dei lettori, e soprattutto sul
nome di Rossini (con Habermas, «Ciò che è sottoposto al
giudizio del pubblico acquista “pubblicità”»).6
La carta stampata, nel caso, fa il gioco dei migliori e
contribuisce a renderli tali: il processo non inizia con Rossini
ma con Rossini trova il suo culmine. Le numerose gazzette
settecentesche di informazione generalista, diversamente
longeve e dalla periodicità quanto mai varia – fra le più
diffuse, in periodi diversi, la Gazzetta di Napoli, il Diario
ordinario di Roma, la Gazzetta universale, le Notizie dal
mondo e la Gazzetta toscana di Firenze, la Gazzetta
enciclopedica di Milano, il Corriere milanese nonché molte
altre con carattere locale –, divengono prodighe a cavallo dei
due secoli di notizie teatrali; e soprattutto cambia, nel tempo, il
senso dell’informazione musicale.
Il processo è complesso e può essere qui riassunto solo per
sommi capi. Per buona parte del Settecento l’informazione
musicale ha un carattere strategico; non vale per sé, ma serve a
dar corpo alla notizia politica. Una visita di stato, la
celebrazione di matrimoni, nascite e genetliaci vengono
inquadrate nel loro valore civico e rituale e riassunte al lettore
nei momenti cardine: il Te Deum, i cortei, le celebrazioni
liturgiche, le feste a palazzo e le serate a teatro compongono
un quadro organico che abbraccia la giornata dei festeggiati e
suscita nel lettore senso di appartenenza. L’evento teatrale e
musicale è parte di un evento di maggiore portata che lo
ingloba e questo spiega perché i dati, in casi simili, siano
spesso lacunosi (dell’opera inscenata si potevano omettere gli
autori senza che della notizia venissero alterate le funzioni).
Nella seconda metà del Settecento si inizia invece a dare
ragguagli più precisi dello spettacolo: gli interpreti, gli autori,
lo scenografo o il costumista vengono menzionati con
maggiore regolarità, seppure tributando loro consensi sommari
e ristretti a formule convenzionali (rari i dissensi: in quei casi
meglio omettere). La notizia va quindi ad assumere una
valenza specificamente teatrale e funge da battage
pubblicitario per teatri, impresari e artisti (nonché per le
corone che fossero alla base del sistema e lo supportassero), a
partire dal tamburino che annunzia lo spettacolo (il suo
“lancio”), fino alla recensione e al commiato dagli artisti che
sovente accompagna la conclusione delle rappresentazioni o
dell’intera stagione. Fra i nomi dei compositori teatrali più
spesso menzionati sulle gazzette allo scorcio del secolo, quelli
di Traetta, Sarti, Cherubini, Prati, Paisiello, Cimarosa e pochi
altri. Quando Rossini si affaccia al mondo dello spettacolo
operistico trova quindi il terreno già dissodato, pur ancora in
assenza di vera stampa specializzata (ma già dal 1804 erano
apparsi i due periodici maggiormente dediti a musica e
melodramma, i milanesi Giornale italiano e Corriere delle
dame). La formazione di un’opinione pubblica borghese in
merito ai fatti dell’opera si era quindi già avviata; Habermas
ne sintetizza le conseguenze:
L’arte, liberata dalle sue funzioni di rappresentanza sociale,
diventa oggetto della libera scelta e della mutevole
inclinazione. Il “gusto”, dal quale deriverà da allora in poi
il proprio orientamento, si manifesta nel giudizio non
specialistico dei profani, poiché nel “pubblico” ognuno può
rivendicare una sua competenza.7
La centralità dei cantanti viene formalizzata a ogni pezzo
giornalistico: a loro è dedicato lo spazio maggiore in quanto
elementi chiave della produzione (ed era prassi che cantanti di
vaglia richiedessero “accomodi”, talvolta segnalati dalla
stampa, per adattare l’opera alle loro misure, assumendo in
certi casi un ruolo coautoriale). Il valore del dramma, ossia del
libretto, oggetto di discussione erudita nelle stesse recensioni,
è subordinato alla sua resa, cui concorrono la qualità della
musica e la piena rispondenza alle esigenze degli interpreti. E,
nell’opinione pubblica, a Rossini vengono riconosciute da
subito queste peculiarità.
Il Ciro ebbe la ventura di un’altra recensione non favorevole
ma significativa, in occasione di una ripresa a Livorno nel
1818:
Non parleremo della tessitura del Dramma, genere di cui
altre volte si è ragionato. Parleremo della musica… ma che
ne diremo? Il celebre Gretry interrogato sulla differenza
che passava fra lo stile di Cimarosa e quello degli Autori
moderni, rispose che il primo poneva giudiziosamente il
pilastro in orchestra, e la statua sul palco, ma che gli altri
facevano il contrario. Infatti oggi l’orchestra canta, ed i
cantanti accompagnano. Una lussuriosa armonia che
sovente degenera in assordante frastuono si è sostituita alla
soave melodia italiana che godeva del primato sulle altre
nazioni. Tromboni, ottavini, serpentoni, timballi, tube, e
quanti altri istrumenti che servivano un giorno ai soli
carnevaleschi Baccanali, s’impiegano senza misura nella
moderna armonia, e fra poco ci dobbiamo aspettare di
sentire in Teatro il suono delle campane, lo sparo
dell’artiglieria, ed il rimbombante cappello chinese. È un
peccato che il genio vivace del bravo Rossini si lasci
trasportare eccessivamente da questa mania di novità,
mania che lo porta troppo spesso ad imitarsi in tutte le sue
produzioni. Una volta aveva l’Italia la tragedia e la
commedia in musica. Ora non v’è più distinzione, ed il
solo vestiario è quello che differir fa l’Opera seria
dall’Opera buffa. Una riforma è necessaria, o l’Italia non
avrà più musica.8
Il sopravvento degli strumenti sul canto, in contraddizione con
le prerogative dell’opera italiana di tradizione, primariamente
vocali, è questione antica e viene sollevata per abitudine. Già
il Metastasio – in quanto, ai suoi tempi, drammaturgo
“primario” – nel suo epistolario si appella più volte ai
compositori con cui era in contatto affinché contenessero il
ruolo dell’orchestra, nelle arie e nei recitativi accompagnati,
così da non soffocare il canto (e la parola) e non tradire la
verosimiglianza della scena. A Gluck, Jommelli o Traetta, fu
attribuito un orientamento esterofilo (verso Francia e
Germania) riguardo all’impiego degli strumenti, al loro
dosaggio, al rapporto con la voce; Paisiello e Cimarosa invece,
secondo i più, ricondussero l’opera italiana alle sue nobili
origini, con la totale centralità del canto. Rossini, altro
“tedeschino”, agli occhi della critica si colloca nel solco di una
tradizione sensibile ai linguaggi musicali stranieri, cui si
attribuisce – in modo astratto o fittizio – una presunta
decadenza dell’opera, che non trova ovviamente riscontro nei
fatti.
L’epilogo del discorso critico del giornalista livornese è però
rilevante e storicamente significativo. Che Rossini (e non solo
lui) impieghi nei diversi generi, serio e buffo, un identico
vocabolario compositivo, è cosa nota e ciò era evidente anche
ai contemporanei, compresi i teorici meno favorevoli alla sua
causa. Fra questi il veneziano Andrea Majer (1765-1837), un
conservatore, che nella sezione sullo «Stato presente della
Musica Italiana» del suo Discorso, fondata in parte sulla
denigrazione del rossinismo imperante, lamenta
la confusione dei differenti generi; l’inconcludenza e
trivialità delle cantilene; l’accozzamento di cento motivi,
meno quell’uno che ci vorrebbe; l’intemperanza di uno
stile furioso, ditirambico, intento solo a sbalordire gli
orecchi, senza curarsi di penetrare nel cuore; gli sbalzi
irregolari e frequenti di tempo e di tuono, senz’alcuna
relazione colle parole; la seccaggine delle mille volte
replicate cadenze, variate soltanto nelle figure; l’assurdità
del coro obbligato perpetuo […]9
Riserve accomunate da un elemento di base: l’incolmabile
distanza fra il dramma e la sua veste sonora, la quale nel
giudizio di Majer sembra avanzare per proprio conto, con
l’obiettivo di incantare e stupire anziché commuovere. Ed è
una valutazione non lontana dalla realtà, anche se quello
sbilanciamento non produsse la decadenza dell’opera presagita
dal critico ma piuttosto un suo nuovo indirizzo. In quegli anni,
e in Rossini soprattutto, il contenuto musicale non si relaziona
necessariamente col contenuto drammatico: vocalità,
strumentazione, giunture fra strumenti e voce, trattamento del
coro quando presente, impiegano soluzioni simili e trasversali
di genere in genere. Rossini non si prefigge di adeguare il
proprio stile a personaggi o contesti diversi, ma piuttosto
adatta i personaggi alla propria musica, di cui si serve per
stabilire un contatto con il pubblico, che lo identifica come
autore primario delle proprie opere, per un concetto di
autorialità che travalica la tipologia di spettacolo, serio o buffo
che sia. Non è né sarà sempre così, di opera in opera e di anno
in anno, neppure in Rossini; ma molta della fama che da subito
egli seppe procurarsi è riconducibile a questa trasversalità
stilistica, fattore costitutivo della sua drammaturgia.
Per concludere col Ciro in Babilonia, vi è un aneddoto che
molti anni dopo Rossini volle rievocare nella sua
conversazione vacanziera con il compositore e critico musicale
Ferdinand Hiller, e cade qui a proposito riguardo alla funzione
drammatica dello strumentale nell’opera rossiniana.10 Alle
prese nel ruolo di Argene con Anna Savinelli, cantante di
terz’ordine già all’epilogo di una breve carriera come seconda
donna, e dovendo gratificarla in II,XI almeno con un’“aria del
sorbetto”, appena prima della scena dell’addio di Ciro, Rossini
svolse l’intera parte vocale sull’unica nota che la Savinelli
sapeva emettere correttamente (il Si bemolle) e riservò
all’orchestra l’articolazione e la formalizzazione del discorso.
Di necessità, virtù: ne esce un brano sentenzioso ed efficace
(«Chi disprezza gl’infelici», N. 13), in cui le parti strumentali
integrano l’azione mancante nel canto. Rossini avrà presente
quella soluzione anche in tarda età; fra i suoi Péchés de
vieillesse appaiono infatti alcuni brani vocali su una o due
note.
Il puzzle della formazione dell’autore nei vari generi di teatro
musicale, praticati per volontà o per caso, va a intanto
completarsi. A distanza di circa due mesi dal Ciro ferrarese e
appena pochi giorni dopo La scala di seta veneziana, ebbe
luogo l’esordio romano del compositore, assente in città, col
Demetrio e Polibio (Teatro Valle, 18 maggio 1812), “dramma
serio” di argomento storico antico (siriano e partico, per buona
parte d’invenzione) sulla scia della tradizione del dramma per
musica metastasiano, di cui vi sono molteplici reminiscenze.
Vincenzina Viganò Mombelli imbastì come meglio poté un
testo a metà fra vecchio e nuovo. Datato è per esempio il
dispositivo drammatico dell’agnizione risolutiva, per di più
multipla. Polibio, re dei Parti, trattiene presso la sua corte
l’amato Siveno, creduto figlio del defunto Minteo, ministro di
Demetrio, re di Siria. Demetrio, col nome di Eumene,
terminata la guerra si reca presso Polibio come messaggero del
re di Siria per farsi restituire Siveno, il quale solo in corso
d’opera scopre di essere il figlio di Demetrio. Dopo qualche
tribolazione quest’ultimo potrà svelarsi a sua volta e approvare
il matrimonio di Siveno con Lisinga, figlia di Polibio, che
Demetrio aveva rapito per avere in cambio Siveno. Pur con
soli quattro personaggi l’intreccio è complicato, per giunta non
utilmente: situazioni plurime di questo tipo (Siveno amato da
tutti e tre i restanti personaggi, ma per motivi fra loro
inconciliabili) avevano senso nel dramma per musica
metastasiano, con le sue porte girevoli e la costellazione di arie
finalizzate a sviluppare individualmente gli affetti generati
dalla peripezia. Sono invece meno appropriati in un’epoca in
cui duetti e concertati, fondati sulla simultaneità, costituivano
essi stessi il nocciolo del dramma, come anche qui avviene.
Queste mediazioni, tuttavia, rientrano nella prassi di quegli
anni, fra tradizione italiana seria e “punti di scena” moderni
(brani d’assieme, arie con coro) di cui non si poteva fare a
meno.
Come altrove in queste pagine, cade qui opportuna una
digressione su cosa attorno agli anni dieci rendesse possibile
un tema apparentemente fuori moda come quello di Demetrio
e Polibio e su quale fosse il suo posto nel contesto teatrale
dell’epoca. Per quanto riguarda la scelta dei soggetti,
l’orientamento del teatro musicale serio di fine Sette e primo
Ottocento non si lascia imbrigliare facilmente; in anni
contraddistinti dalla frammentarietà politica e culturale e
scossi, su piazze importanti quali Venezia, Bologna, Roma o
Napoli, dagli eventi rivoluzionari di fine secolo, l’opera
assimila e riproduce tanto l’istinto di conservazione di antiche
specie teatrali, quanto il nuovo che avanza nelle forme più
disorganiche. È sintomatico che per inquadrare il periodo qui
discusso si ricorra così spesso alla formula “fra Rivoluzione e
Restaurazione”, per Carpani e Stendhal un “interregno” fra i
predecessori di Rossini e Rossini stesso (definizione che,
mettendo sullo stesso piano prodotti teatrali di diversa matrice,
si trasforma in un giudizio estetico preventivo e sommario).11
A un moderno soggetto francese poteva essere affiancato nello
stesso teatro e nella medesima stagione un vetusto libretto
metastasiano o zeniano, stravolto nelle forme a causa di tagli e
aggiustamenti, ma pur sempre connotato nel segno della
tradizione; storia antica, medievale e moderna si
sovrappongono, confondendosi coi relativi sviluppi mitici o
epici. Al Teatro Valle, subito prima del Demetrio, fra le nuove
produzioni si notano l’ennesima rivisitazione della Didone
metastasiana per la musica di Valentino Fioravanti, guarnita di
nuova introduzione, nuovi duetti e rondò ma col solito
monologo tragico finale, icona del XVIII secolo (9 giugno
1810); l’Alzira di un promettente “napoletano” come Nicola
Manfroce, soggetto volterriano già diffuso nel Settecento
operistico e qui rivisto da Gaetano Rossi (10 settembre 1810);
una Berenice, regina d’Armenia di Niccolò Zingarelli su testo
di Jacopo Ferretti ispirato al Lucio Vero di Apostolo Zeno,
vecchio di oltre un secolo (12 novembre 1811). A fianco di
questi titoli, non mancano riprese di opere più recenti come il
Don Giovanni mozartiano (11 giugno 1811) o la Leonora di
Paer (primavera 1813). Novità e riprese non rispondono quindi
a una stessa logica di fondo né a un avanzamento in senso
cronologico, visto che il nuovo può essere più vecchio del
recupero di drammi già circolanti.

Giovanni Sasso, ritratto di Marietta Marcolini;


Milano, Archivio Storico Ricordi

Il rapporto col concetto di potere, stabile e rassicurante in tanto


teatro serio settecentesco, dove virtù e impero andavano a
braccetto, si è scompaginato e si riconfigura adesso di caso in
caso, misurandosi con circostanze reali e specifiche; e anche
laddove l’allegoria politica ancora si avvalga dei canoni
dell’antichità classica, impiega codici non univoci. È finita
l’epoca in cui la figura del duce o del duce romano rinviava
ipso facto al moderno soglio imperiale; i concetti di romanità o
di impero, sullo scorcio del secolo, adombrano contenuti
diversi e anche contrastanti: in certi casi – vedi Napoli o
Roma – ancora orientati all’esaltazione dei valori tradizionali,
in altri – a Venezia o nelle città maggiormente esposte ai
movimenti rivoluzionari – ai riscoperti valori repubblicani, dal
Metastasio appena sfiorati prima del suo trasferimento alla
corte cesarea. Ambiguità presenti anche nella definizione dei
generi: l’opera seria del versante “riformato” si avvicina ai
generi tragici d’oltralpe, producendo forme ibridate (anche
Rossini a Napoli tenterà quella strada in Armida o Ermione); il
dramma giocoso cede gradualmente il passo alle commedie
derivate da fonti estere, agli opéras-comiques politici o
sentimentali, alle più economiche farse, o a opere buffe
rigenerate secondo il gusto ottocentesco.
Di grandi nomi ve ne sono molti ma manca un nome
grandissimo, prima di Rossini. O almeno grandissimo per noi:
non c’è dubbio che i contemporanei ebbero di Zingarelli, P.C.
Guglielmi o dello stesso Mayr una considerazione più
generosa di quanto oggi non si riservi loro, attanagliati come
siamo dalla sindrome del “periodo di transizione”. E se è vero
che non possiamo far finta che Rossini o Verdi non siano
esistiti, una valutazione delle opere di inizio Ottocento
effettuata solo dal punto di vista di un passato per noi più
recente e più fulgido rischia di comprometterne una visione
corretta.
Di certo nel melodramma italiano di primo Ottocento non
sussistono un canone o un paradigma, dati i frenetici
andirivieni dei compositori italiani da e per l’estero e la loro
capacità di mettere a frutto la propria formazione in altri
contesti ricavandone a loro volta un arricchimento. Ciò
implica un concetto esteso di italianità che includa l’influsso
del teatro lirico francese, del teatro di prosa e della
pantomima. Sarti, Francesco Bianchi, Paisiello, Cimarosa,
Spontini, Cherubini e Paer furono tutti artisti di levatura
internazionale che esportarono musica italiana ma anche
adattarono il linguaggio dell’opera italiana agli orientamenti
vigenti nelle realtà in cui vissero: Londra (Bianchi e
Cherubini), San Pietroburgo (Sarti e Cimarosa), Parigi
(Bianchi, Paisiello, Spontini, Paer e Cherubini), la Germania
(Paer e Spontini); in alcuni casi la loro identità di compositori
italiani ne uscì rimodulata e forse attenuata. Gli stessi
Cimarosa e Paisiello conclusero la carriera con titoli di varia
connotazione e talora poco “napoletani”. Il primo si indirizzò a
soggetti di nuova concezione tanto nel comico (Il matrimonio
segreto, Vienna 1792, sulla scia delle Nozze di Figaro) quanto
nel serio (Gli Orazi e i Curiazi divennero la pièce di punta al
declino della Repubblica di Venezia nel 1796-97, con finale
funesto per la parte degli sconfitti); a fronte di titoli
tradizionali per Napoli, l’Artemisia (Venezia 1801) era munita
di un vibrante finale tragico che Cimarosa non fece a tempo a
ultimare. Paisiello, reduce dall’insuccesso parigino della
Proserpine napoleonica (1803), si congedò dal pubblico
partenopeo con un’allegoria politica (I pittagorici, 1808); ma
nell’anno della sua scomparsa (1816) al Fondo tornava in
scena la Nina risalente al 1789-90 (al San Carlo ancora nel
1827), confermando quale fosse ritenuto in piena
Restaurazione il “vero” Paisiello.
Il panorama operistico all’avvento di Rossini è quindi più
complesso di quello che si profilava nei decenni precedenti e
non manifesta uno sviluppo lineare come era avvenuto per la
prima scuola napoletana, per il teatro metastasiano o
goldoniano, o per quello gluckiano e suoi derivati. Negli autori
dell’età prerossiniana, operativi già nel Settecento fino agli
anni rivoluzionari e oltre, convivono tendenze diverse e
perfino opposte, in relazione alle necessità anche politiche del
momento. Ma questo profilo ben si attaglia pure a Rossini, il
quale anche prima del periodo francese – quando si trovò a
adattare per l’Opéra due suoi titoli napoletani – manifestava lo
stesso eclettismo di molti suoi colleghi nell’approccio a
soggetti d’opera tanto diversificati per contesto e contenuti.
Tornando a Demetrio e Polibio, il modesto libretto della
Viganò-Mombelli è dunque in linea con la pluralità del
momento e, nelle sue sovrapposizioni di intrigo classico e
morfologia moderna, persino emblematico. La datazione della
musica rossiniana resta incerta, e incerto il ruolo esercitato da
Rossini in questa sua prima romana, sede che di lì a poco
sarebbe divenuta per lui fondamentale. Non vanno prese alla
lettera le dichiarazioni rilasciate a Hiller, secondo cui
Demetrio sarebbe stato composto per intero prima delle
frequentazioni liceali bolognesi; probabilmente l’opera fu
approntata in un lasso di tempo più ampio (secondo Carnini a
Bologna fra 1808 e 1811),12 forse in ordine sparso, e conobbe
rielaborazioni e integrazioni dell’ultimo momento anche per
mano di altri (lo stesso Domenico Mombelli che l’aveva
procurata). Una tempistica, questa, coerente con altre
attestazioni di Rossini, il quale asserì che l’opera venne
composta a pezzi e pagata alle singole consegne, e che la
prima messinscena avvenne pressoché a sua insaputa (in tarda
età Rossini si confonderà sul luogo). Significativo il ruolo
tributato da Rossini agli insegnamenti di Babini, ottima guida
in un’opera in cui il ruolo tenorile assume un rilievo
ragguardevole (per altro tenore di carattere assai ambiguo,
Demetrio/Eumene, padre affettuoso ma anche aggressivo e
vilain nei confronti dei figli degli altri). Si trattò in fin dei
conti di un prodotto autogestito dalla compagnia Mombelli,
costituita, ricordiamolo, da Domenico, tenore e compositore;
dalla figlia Ester, soprano; dall’altra figlia Maria Anna,
contralto, ossia il “musico” nel linguaggio dell’epoca, in
quanto sostitutivo del castrato; dal figlio Alessandro, secondo
tenore. Dopo Roma l’opera approdò, con simile cast, in
svariate piazze di Romagna ed Emilia (1813), con cast in parte
modificato a Milano, Monza e Como, dove riscosse il plauso
di Stendhal (fra 1813 e 1815), e poi ancora a Verona e Bologna
(1814), residenza dei Mombelli, nel solito Teatro del Corso già
luogo di avventure e disavventure rossiniane, prima di
prendere la sua strada con altri interpreti. L’ultima ripresa
documentata avvenne al Fondo di Napoli, nel 1838; qualche
traccia rinvia a dubbie rappresentazioni a Vienna e Dresda
(1818).
Demetrio e Polibio racchiude anche uno dei brani che
Stendhal riteneva degni di Mozart o Cimarosa: il quartetto
«Donami omai Siveno» (II,II, N. 10). Demetrio e Polibio
tengono in ostaggio rispettivamente Lisinga e Siveno e
pretendono uno scambio che effettivamente si realizza al
momento della scoperta che Siveno è figlio di Demetrio. Ma i
giovani non intendono separarsi e se Polibio li vorrebbe tenere
presso di sé entrambi, Demetrio reclama solo Siveno. La
situazione è turbolenta e il quartetto, potenziato da musica
flessibile e attenta a valorizzare le oscillazioni umorali dei
personaggi, assorbe in sé azione psicologica e azione visibile,
assecondando il gusto di un pubblico già avvezzo a simili
dispositivi musicali.
Quello che polarizza l’attenzione di chi insegua ipotetici
legami con Mozart o Cimarosa è però il nuovo tipo di
trattamento cui nel Demetrio viene sottoposto il testo verbale.
Un bell’esempio è offerto dall’aria di Siveno «Pien di contento
in seno» (I,I, N. 2), in cui egli si appresta a ricevere la mano di
Lisinga ed esprime l’ebrezza del momento sin dalla prima
enunciazione del testo, tramite le colorature del canto. Queste
le risorse vocali impiegate nella prima strofa:

TESTO VERBALE SCRITTURA VOCALE, SCRITTURA VOCALE,

I ESPOSIZIONE II ESPOSIZIONE E RIPETIZIONI

Pien di contento in ritmo puntato, terzine di grado


seno appoggiature o arpeggiate

men volo al caro appoggiature, terzine terzine di grado


oggetto a caduta o arpeggiate

per te felice appieno gruppetti, appoggiature appoggiature, poi gruppetti e


terzine

questo mio cor sarà. appoggiature singole gruppetti, poi scalette


e doppie

… … …

Il contenuto sentimentale (gioia, eccitazione) viene


immediatamente trasfigurato nella pura vocalità, la parola in
suono. Un compositore di altra generazione avrebbe in prima
istanza esposto il testo più letteralmente e individuato un
motivo, limpido e memorabile, che lo lasciasse ben intendere
(la “bella semplicità” del Settecento), riservandosi di
arricchirlo alle successive repliche. Rossini impone invece una
propria idea di cantabilità che implica la subitanea
trasformazione della parola in strutture canore; anche a una
prima esposizione appare qualche figurazione ornamentata ed
è già possibile intuire dove, in seguito, il compositore (o
l’interprete) aggiungerà altre colorature,13 perché la melodia è
concepita in quella prospettiva e prevede una sorta di
“ascoltatore implicito”, già compreso nelle trame del discorso
sonoro.14 Ciò pone anche il problema di cosa si debba
intendere per cantabile/cantabilità in Rossini, i cui motivi non
sono mai facili, né memorabili (poche e celebratissime le
eccezioni). Ma anche laddove non si assomiglino fra loro
contengono sempre qualche elemento comune e si richiamano
a vicenda; l’obiettivo di fondo resta quello di trasferire il
portato semantico dalla parola alla parola cantata, dotata di un
proprio codice di espressione e comunicazione: il momento
drammatico perde sostanza verbale ed è risolto nel canto, in
cui si realizza.
Se l’opera per i Mombelli parve agli spettatori romani un
prodotto convenzionale ancorché di eccellente fattura
(soprattutto per il contributo vocale della famiglia di artisti,
verso cui la critica locale manifestò palesi simpatie),15 il
pubblico milanese che assistette entusiasta al melodramma
giocoso La pietra del paragone, eseguito alla Scala dal 26
settembre 1812 per 53 repliche (incarico a lui procurato per
interessamento di alcuni fra i cantanti più vicini a Rossini), si
trovò di fronte a una raffigurazione corrosiva della società del
tempo, con alcune generalizzazioni riconducibili alla
tradizione comica. Il librettista Luigi Romanelli (1751-1839),
sulla breccia da una ventina d’anni, era presenza ricorrente nel
maggiore teatro milanese; la sua attività si prolungherà fino al
termine degli anni venti ma solo qui s’intreccia con quella di
Rossini, che farà rappresentare alla Scala altre tre sue opere in
prima esecuzione assoluta. In questa circostanza Romanelli
tratteggiò uno spaccato sociale di vaghe ascendenze
goldoniane, in un contesto rurale ma nell’orbita urbana («un
popolato e ricco borgo poco lontano da una delle principali
città d’Italia»). Anche qui, come nei drammi giocosi di metà
Settecento, abbiamo la dialettica fra classi sociali diverse
espressa da personaggi di varia estrazione: la contessa Clarice,
la baronessa Aspasia e il conte Asdrubale, ma anche donna
Fulvia, il cavalier Giocondo e la coppia buffa Macrobio e
Pacuvio. E anche qui si indugia sul disallineamento fra titoli
nobiliari, nobiltà d’animo e ricchezza materiale, sulle rivalità
affettive dietro cui si cela la convenienza economica, sul
mondo delle professioni e della cultura, che vivacchia alle
spalle delle classi abbienti, tentando in qualche modo di
interloquire o interferire. Di letterati ve ne sono due, ben
diversi fra loro: Pacuvio, poeta fallito e irriso (è lui a partorire
la canzonetta «Ombretta sdegnosa / del Missipipì», I,VIII, N. 6,
che Fogazzaro metterà in bocca allo zio Piero in Piccolo
mondo antico, 1895), e il giornalista Macrobio, «presuntuoso e
venale», figura nuova nel mondo dell’opera, che nel duetto
con Giocondo a I,III (N. 2) ostenta il potere detenuto dalla
sottocultura dell’informazione, di cui si vorrebbe servire per
trarne vantaggi personali («Mille vati al suolo io stendo / con
un colpo di giornale»).
Il ritratto della professione giornalistica è malevolo e
sicuramente non sembrò estraneo al pubblico della città
moderna per antonomasia, dove l’opinione pubblica – siamo in
epoca napoleonica – era gestita dalla carta stampata anche in
ambito musicale. A Milano spettatori e lettori erano
culturalmente più vari che nella placida e abitudinaria Venezia
e iniziavano in quegli anni ad apprezzare cronache teatrali che
trattassero d’opera espressamente, e non più solo come evento
mondano o perché inscenata, l’opera, in concomitanza di
eventi politici. La partecipazione ideale del lettore dei
periodici alla vita teatrale lo risarciva in parte dall’essere di
fatto escluso dalla realtà politica, che (come Rossini) si
limitava a osservare con diffidenza e disorientamento. Qualche
anno prima a Milano era stato fondato il Corriere delle dame e
Macrobio sembra volergli far concorrenza («Son tanti i
virtuosi / e di ballo, e di musica, clienti / del mio giornal, che
diverrà frappoco / l’unico al mondo», I,XIV). Nell’aria al N. 8,
«Chi è colei che s’avvicina?», Macrobio si conforma agli
stilemi dell’aria di paragone settecentesca, assecondati dalla
scrittura iterativa di Rossini, e sciorina una sequenza di figure
degne di un moderno Teatro alla moda, con argomenti non
troppo diversi da quelli che un secolo prima avevano messo
alla berlina Vivaldi, ma prospettando a quella bizzarra galleria
di personaggi teatrali la notorietà garantita nel bene e nel male
dalla carta stampata. Un riscatto che può avvenire solo previa
benevolenza del giornalista.
Clarice e il conte Asdrubale manifestano un reciproco
interesse alla fine premiato senza che però sia loro risparmiata
tutta una serie di prove declinate in chiave comica.
Inizialmente, le due cavatine contrapposte generano una
situazione delicatamente umoristica (I,IV-V, NN. 3-4). A quella
di Clarice («Quel dirmi, oh dio! non t’amo…») il conte,
nascosto, fa eco per gioco fino alla cabaletta di lei («Eco
pietosa…»), caratterizzata da suggestioni mitiche e condotta
su un modello melodico che Rossini recupererà di lì a poco nel
«Di tanti palpiti» del Tancredi; nella sua cavatina invece
Asdrubale si abbandona per finta alla propria diffidenza nei
confronti dell’amore («Se di certo io non sapessi», I,V, N. 4).
Ma il profilo dei personaggi non si compie nella dimensione
sentimentale. Più oltre ai due spetterà un travestimento a testa:
lui da mercante turco nel finale primo (I,XVII, N. 10), creditore
del conte ossia di sé stesso datosi per fallito, al fine di misurare
la fedeltà delle pretendenti e gli affetti dei veri amici ma
prestandosi anche al gioco comico dell’italiano storpiato
all’ottomana; lei, in II,XV, da capitano dell’esercito, Lucindo,
fratello di Clarice, intenzionato a portarla via con sé, col
sostegno di un coro di soldati. Si tratta di una situazione che
Marietta Marcolini, prima Clarice, aveva già affrontato
nell’Equivoco stravagante ed è qui finalizzata a portare allo
scoperto l’amore di Asdrubale. Lui glielo manifesta nella
cabaletta «Più bramar non so che morte», a conclusione
dell’aria «Ah! se destarti in seno» (II,XVIII, N. 18), ove la
disperazione per la temuta perdita degenera in una vocalità
forsennata: parole singhiozzate a ritmo puntato che producono
un effetto grottesco ma convincono Clarice della sincerità
amorosa di lui. Il carattere farsesco dell’opera si estende così
anche alla prima coppia; il dramma giocoso di un tempo,
dotato di una moltitudine di registri da cui non era escluso il
patetico, ha ceduto il passo a un’opera buffa “totale”, che
direttamente nel finale ultimo, ossia senza un confronto
razionale in recitativo, premia anche i personaggi più insinceri
(Fulvia e la baronessa, persa l’occasione di sistemarsi col
conte, si consolano con Pacuvio e Macrobio).
Nel cast due vecchie conoscenze: oltre alla Marcolini
(Clarice, contralto), che si adoperò per procurare l’ingaggio
milanese al compositore e che fu presenza costante nei
momenti strategici della carriera rossiniana in quei primi anni,
Filippo Galli (Asdrubale, basso), ancora agli inizi di una
proficua collaborazione con Rossini. La parte di Giocondo
spettò a Claudio Bonoldi (1783-1846), tenore lombardo
assiduo alla Scala e dal profilo vocale anfibio. Più in là nel
tempo vestì anche ruoli concepiti per cantanti dalla tessitura
più grave, come il mozartiano Don Giovanni o Assur nella
Semiramide; Rossini lo impiegò di nuovo in altre tre prime. Il
livello dell’esecuzione e la caratura degli interpreti favorirono
il successo dell’opera, e Rossini entrò nel novero dei
compositori graditi tanto alla buona società milanese16 quanto
al regime francese (una sua cantata da camera celebrava i
temporanei successi napoleonici in Russia). Ne derivò un
contratto scaligero per altre due opere e forse a quella stessa
occasione può essere fatto risalire un primo interessamento per
il brillante compositore da parte dell’impresario Domenico
Barbaja.
Il futuro trasferimento partenopeo di Rossini partiva quindi
da lontano e beneficiava del diffuso consenso che il
compositore aveva saputo procurarsi in appena due anni di
attività teatrale. La carriera e l’arte di Rossini hanno già infatti,
attorno al 1812, una loro identità, scomponibile nei seguenti
aspetti:

acquisizione di un linguaggio compositivo orientato


non a padroneggiare e diffondere le peculiarità di una
scuola di appartenenza, bensì eclettico, determinato
dalla familiarità con la musica tedesca (per
strumentazione e organizzazione formale), dalle
pratiche apprese in sede didattica e accademica, dalla
frequentazione del mondo dell’opera e degli autori più
in voga. La vocalità, pur approvvigionandosi di un
formulario collaudato, manifesta tratti inconfondibili
per la centralità che si procura nel discorso musicale e
per la ricchezza delle risorse di cui dispone. Le strutture
melodiche sono incardinate in dispositivi ritmici limpidi
e avvincenti, spesso di carattere iterativo; l’orchestra
mette al servizio del dramma una varietà timbrica e
dinamica irreperibili nei predecessori;
rapporti confidenziali con cantanti già in carriera
(Babini, i Mombelli, Marcolini, Belloc-Giorgi, Galli),
vantaggiosi per lo sviluppo di una scrittura vocale
specifica e audace, nelle molteplici tipologie vocali
disponibili (castrati al tramonto, vedi più oltre il
rapporto con Velluti, contralti emergenti, tenori in
evoluzione, soprani di coloratura), e forieri di ulteriori
contatti presso teatri a conduzione impresariale (San
Moisè di Venezia, Comunale di Ferrara, Scala di
Milano);
cooperazione con alcuni fra i librettisti più operosi e
sensibili alle novità per quanto riguarda la scelta dei
soggetti e le forme sceniche (Rossi, Foppa, Romanelli),
a fianco di altri ancora debitori delle tipologie
drammatiche tardosettecentesche (Viganò-Mombelli, lo
pseudo Aventi): da qui il dominio di forme musicali
vecchie e nuove, concise (arie singole, duettini) oppure
di ampio respiro (arie con coro, duetti, terzetti,
concertati, introduzioni e finali), nonché una buona
dose di autocoscienza della propria identità artistica;
frequentazione precoce di svariati generi teatrali (farsa,
dramma giocoso, dramma quaresimale, dramma serio
per musica);
diffusione sovraregionale di alcune delle prime opere,
in prima o in replica, anche in questo caso senza
precipua afferenza a un’area culturale specifica;
crescente notorietà conseguita attraverso segnalazioni e
recensioni, anche di carattere analitico, pubblicate sulla
stampa periodica.

Con simili credenziali le attività veneziane poterono


proseguire senza visibili interruzioni: dal fiasco del Signor
Bruschino nel gennaio del 1813 si giunse, a distanza di pochi
giorni, al Tancredi, debutto rossiniano alla Fenice, e qualche
mese dopo all’Italiana in Algeri al teatro di San Benedetto.
Due opere di enorme successo e contraddistinte da peculiarità
sceniche e compositive così divaricate da rendere
improponibile un’ipotetica reductio ad unum e che tuttavia
conferirono all’autore un’identità ancora più marcata. In
genere sono ritenute un punto di partenza per la scalata
internazionale; ci piace qui considerarle già come un punto di
arrivo.
SUGGERIMENTI DI LETTURA

Sull’Equivoco stravagante e il suo librettista, BEGHELLI 2014 e


ANZANI-BEGHELLI 2014. La biografia e l’attività della Marcolini
sono esaminate in GON 2007; su Aventi e la dubbia paternità
del libretto del Ciro in Babilonia, FABBRI 1994a. Un’analisi ad
ampio raggio delle opere di soggetto veterotestamentario in
PIPERNO 2018. CIARLANTINI 1996 tratta del pensiero critico di
Andrea Majer in contrapposizione a quello di Carpani. Una
vivace rilettura dell’“aria di sorbetto” e affini in BEGHELLI
2018a. Per la complessa genesi e la diffusione di Demetrio e
Polibio si veda la ricostruzione di CARNINI 2018 e soprattutto
CARNINI 2020b. Sulla costituzione volatile e rinnovabile, di
ripresa in ripresa, dell’opera d’epoca rossiniana DI CINTIO
2017. I periodici e la critica musicale nella Milano di primo
Ottocento sono discussi in SENICI 2015; la formazione del
pubblico milanese, anche in chiave politica, in SORBA 2015.
DA ASCOLTARE

L’equivoco stravagante
Petia Petrova (Ernestina), Marco di Felice (Gamberotto),
Marco Vinco (Buralicchio), Dario Schmunck (Ermanno),
Monica Minarelli (Rosalia), Eduardo Santamaria (Frontino),
Czech Chamber Choir, Czech Chamber Soloists, Brno, dir.
Alberto Zedda, Naxos 2002
Ciro in Babilonia, ossia La caduta di Baldassare
Riccardo Botta (Baldassare), Anna Rita Gemmabella (Ciro),
Luisa Islam-Ali-Zade (Amira), Maria Soulis (Argene), Wojtek
Gierlach (Zambri), Giorgio Trucco (Arbace), Giovanni
Bellavia (Daniele), ARS Brunensis Chamber Choir,
Württemberg Philharmonic Orchestra, dir. Antonino Fogliani,
Naxos 2004
Demetrio e Polibio
Sofia Mchedlishvili (Lisinga), Victoria Yarovaya (Siveno),
César Arrieta (Eumene), Luca Dall’Amico (Polibio), Camerata
Bach Choir Poznań, Virtuosi Brunensis, dir. Luciano Acocella,
Naxos 2016
La pietra del paragone
Raffaele Costantini (Asdrubale), Anke Herrmann (Fulvia),
Agata Bienkowska (Clarice), Anna-Rita Gemmabella
(Aspasia), Dariusz Machej (Macrobio), Gioacchino Zarrelli
(Pacuvio), Alessandro Codeluppi (Giocondo), Teru Yoshihara
(Fabrizio), Czech Chamber Chorus, Czech Chamber Soloists,
dir. Alessandro De Marchi, Naxos 2004

3. Verso un ampio orizzonte


1 GRLD 1992, p. 19 (Bologna 31 ottobre 1811, Quirini al Direttore della Polizia
Generale, Milano).
2 GRLD 1992, p. 20 (Bologna 8 novembre 1811, Direzione degli Spettacoli a
Quirini).
3 La “mossa” iniziale del brano risuona, modificata, nel «Cruda sorte»
dell’Italiana in Algeri, sempre per la Marcolini.
4 Nicola Tacchinardi (1772-1859), livornese, fu tenore di timbro scuro e
baritonale. Cantò per tre decenni in Italia e in Francia (Théâtre Italien), ma non
tenne a battesimo alcuna opera di Rossini; nondimeno si distinse in importanti
riprese di Eduardo e Cristina (Venezia, La Fenice, 1820), Otello (Senigallia 1828)
e Donna del lago (Firenze 1832), all’epilogo della propria carriera. Rare le sue
apparizioni napoletane.
5 Gazzetta privilegiata di Venezia, 13 marzo 1816, p. 4.
6 HABERMAS 1962, p. 32.

7 HABERMAS 1962, pp. 47-48.


8 Gazzetta di Firenze, 28 febbraio 1818, p. 4.

9 MAJER 1821, pp. 160-161.

10 HILLER 1855, pp. 100-101.

11 Cfr. al riguardo CARNINI 2020a.

12 CARNINI 2020b, p. XXVII; cfr. anche HILLER 1855, pp. 78-87, AZEVEDO 1864, pp.
62-64.
13 Lo spiega bene Zedda, anche in riferimento al contributo dell’interprete nella
selezione e nel dosaggio di ornamentazioni originali o meno: «Nel caso di Rossini
sono le sue stesse scelte compositive, basate su iterazioni simmetriche di
microstrutture fortemente caratterizzate e sulla ripetizione frequente di frasi
identiche con identiche parole, a pretendere varianti. Si badi che molte volte si
tratta di spunti vocali impostati su cellule musicali di per sé poco espressive quali
scale, arpeggi, roulades, discese cromatiche, quartine in progressione. Queste
formule, asemantiche per antonomasia, lasciano all’interprete scarse possibilità di
mutare espressione, di variare dinamica e agogica. Non dunque per rispettare una
tradizione soggetta a invecchiare e a trasformarsi si deve ricorrere alla variazione,
ma per ragioni eminentemente espressive, per fornire all’interprete e all’ascoltatore
ulteriori emozioni» (Alberto Zedda, Aspetti della vocalità rossiniana nell’opera
buffa e nella seria, https://www.albertozedda.com/aspetti-della-vocalita-rossiniana-
nellopera-buffa-e-nella-seria, verificato nel maggio 2022).
14 Sul concetto di “ascoltatore implicito” BUTT 2010.

15 Cfr. il Giornale politico del Dipartimento di Roma (23 maggio 1812), cit.
in CARNINI 2020b, p. XXXII.
16 In una lettera alla madre del 29 agosto Rossini sintetizza l’atmosfera conviviale
di quegli incontri, a lui particolarmente gradita: «L’Altro ieri Fui a Pranzo dal Gran
Ministro [dell’Interno] e fui la cara persona della tavola non meno che della musica
che dopo pranzo si fece per Divertimento. [Alessandro] Rolla mi vuol bene come se
fossi suo Figlio» (GRLD 2004, p. 23).
4. Tancredi e L’Italiana in Algeri
Immaterialità e corporeità vis-à-vis

Incisione della facciata della Fenice di Venezia, pubblicata da Giuseppe Sardi


il 16 maggio 1792, giorno della sua inaugurazione

La prima opera alla Fenice per il carnevale 1813 fu il Teodoro


di Stefano Pavesi su libretto di Gaetano Rossi, andato in scena,
come di consueto, il 26 dicembre del 1812, all’apertura della
nuova stagione teatrale; una vicenda ambientata in Perù e
fondata sul confronto etnico fra l’amerindo, ingenuo e
istintivo, ligio ai propri avi e dèi, e l’europeo, invadente e
incauto ma non privo di generosità e segreto amante,
corrisposto, di una indigena appartenente alla casta delle
Vergini del sole (le vestali incaiche). Il tema era stato già
inscenato sul teatro musicale (vedi La Vergine del sole,
musicata fra gli altri da Cimarosa nel 1788, e Alonso e Cora,
allora rinomata nella versione di Mayr, 1803). La matrice di
questo soggetto, diversificato in numerose varianti nei titoli e
nell’intreccio dotate però di evidenti affinità nei contenuti, è
riconoscibile nel «resoconto storico» Les Incas, ou La
destruction de l’empire du Pérou di Jean-François Marmontel,
pubblicato con dedica a re Gustavo III di Svezia nel 1777,
tradotto in italiano a Venezia nel 1778 e forse influenzato dal
Saggio sopra l’Imperio degl’Incas (1753) di Francesco
Algarotti; argomento per altro già diffuso sin da Alzire ou Les
Américains (1736) di Voltaire, a sua volta oggetto di
rielaborazioni operistiche italiane nel Sette-Ottocento da parte
di Zingarelli, Manfroce, Verdi. Tenendo conto che il testo del
Tancredi fu tratto dall’omonima tragedia di Voltaire
rappresentata alla Comédie-Française nel 1760, se ne può
dedurre che Gaetano Rossi, autore di entrambi i libretti
veneziani, abbia voluto ricondursi, nella Venezia del
napoleonico Regno d’Italia, a tematiche illuministe forse già
superate ma ancora ben presenti al pubblico almeno a livello
dei motivi di fondo, quali il sottile confine tra fede e
fanatismo, il dialogo o il conflitto interculturale, i legami
sentimentali interetnici, l’esilio politico come strumento dei
governi deboli o illeciti, la virtù come legittimazione del
potere.
Al pari delle opere di ambientazione peruviana, anche
Tancredi poteva vantare svariati precedenti di cui uno vicino
nel tempo, il dramma di Luigi Romanelli ancora con la musica
di Pavesi, alla Scala, nel gennaio del 1812. La carriera del
compositore cremasco (1779-1850), intrapresa circa dieci anni
prima e proseguita fino agli anni trenta, viene così a
intrecciarsi con quella di Rossini. Capiterà di nuovo, in forme
più o meno ravvicinate; i due in più di un’occasione vennero
in soccorso professionale l’uno dell’altro: nel 1812 Rossini
prestò a Pavesi il finale del Ciro in Babilonia per l’Aspasia e
Cleomene programmata per Firenze, e anni dopo lo scambio
avvenne in senso contrario, quando Rossini prese un’aria da
Odoardo e Cristina di Pavesi, del 1810, e la inserì nel suo
Eduardo e Cristina (1819). Assieme a Luigi Mosca (in misura
minore al fratello Giuseppe) e a Pietro Generali, Pavesi
condivide con Rossini alcuni tratti compositivi che ne fanno
uno degli operisti a lui stilisticamente più vicini: la cura
meticolosa della strumentazione, l’intelligibilità della condotta
musicale e drammatica costituita da elementi linguistici
semplici, l’impiego di tipologie formali in rapida evoluzione
rispetto agli schemi tardosettecenteschi. Questi aspetti
conferirono anche a Pavesi una propria identità e suscitarono
ammirazione ma anche perplessità nella critica a stampa che,
come avveniva con Rossini, non si fece sfuggire l’occasione di
individuare affinità e somiglianze fra le sue opere.
Sembra che il Tancredi scaligero di Pavesi non sia mai stato
ripreso; Teodoro riapparve in scena almeno fino alla ripresa di
Firenze, nel 1818: un successo comunque di corto raggio. Il
Tancredi di Rossini, dalla prima del 6 febbraio 1813, per oltre
un ventennio contribuì invece come nessun’altra opera
dell’autore a codificare il “fenomeno Rossini” anche a livello
internazionale, con rappresentazioni a Vienna, Barcellona,
Lisbona, Londra, New York e altrove, raccogliendo al
contempo il favore di illustri letterati non italiani come
Stendhal, Byron (che citò l’opera nel suo Don Juan) o Goethe.
E fu soprattutto grazie al Tancredi che la musica di Rossini
giunse nei salotti; nelle inserzioni pubblicitarie di copisti o
stampatori, la presenza di brani rossiniani, riadattati per
molteplici formazioni vocali o strumentali, sarà d’ora in poi
predominante.1
Quello della musica a stampa a destinazione privata fu un
mercato vivacissimo e in progressiva espansione, che si snodò
parallelamente a tutta la carriera teatrale di Rossini e, in
misura minore, di altri operisti. Era costituito non solo da
adattamenti di musica teatrale per vari organici cameristici, ma
anche da trascrizioni pianistiche, estratti di pezzi favoriti,
fantasie dalle opere, variazioni e potpourri, valzer e ballabili
sui temi più celebri: una varietà che se da un lato rendeva
disponibili quelle musiche a varie tipologie di esecutori,
dall’altro determinava l’allontanamento dall’originaria
sostanza drammatica dei brani e la loro riconversione in
prodotti astratti, da fruire in ambiente domestico, a beneficio
di dilettanti. Fu quindi anche un processo di appropriazione
culturale, sostenuto da una memoria teatrale vaga, forse, ma
tenace.
Nell’ambito di un codice linguistico e drammatico
riconoscibile, peculiare di un’epoca e familiare al pubblico (in
questo caso certe affinità con altri compositori costituirono per
lui un vantaggio, consentendogli di muoversi su un terreno
condiviso), Rossini si distinse per la qualità della “cantilena”,
non nel senso di semplice pregevolezza melodica, bensì per
l’efficacia della dimensione vocale in toto, comprensiva di
declamazione, impiego retorico e diversificato delle
colorature, canto a solo, canto d’assieme. In lui si compie in
modo paradigmatico la trasformazione irrevocabile della
parola in canto, con conseguente slittamento semantico dal
livello verbale a quello sonoro/vocale a un grado mai prima
raggiunto; la parola viene messa a fuoco in passaggi di “stile
spianato”, ma più frequentemente – nel cosiddetto stile
“misto”, a mezza strada tra il sillabico e il vocalizzato – è
suddivisa in figurazioni melodiche simmetriche e ricorrenti,
mentre nel canto di coloratura o “fiorito”, letteralmente si
liquefà nella melodia e viene dispersa nel vortice delle
ornamentazioni al punto da diventare irriconoscibile: in ogni
caso la musica in Rossini conta più della parola.

Avviso della ripresa del Tancredi al Teatro


Comunale di Ferrara per la quaresima 1813

Sono, questi, gli ultimi conseguimenti di un percorso storico di


lunga gittata comunemente noto come “belcanto”, che sarebbe
riduttivo ascrivere all’epoca rossiniana (le sue origini
risalgono alla poetica della meraviglia del barocco), ma che
con Rossini trova il suo punto culminante. La questione di
fondo va appunto individuata nella sostanza del melodramma
come genere: la vocalità non è intesa unicamente alla stregua
di un rivestimento sonoro della parola, ma diviene un tramite
di contenuti propriamente melodrammatici. La componente
edonistica non è estranea al belcanto, ne è anzi la forza
motrice, e la grande stagione dei castrati e delle primedonne di
Sei-Settecento ne costituisce l’emblema, provocando la
contrarietà di tanti scritti estetici e letterari che hanno
abitualmente rimproverato al melodramma la sua incapacità di
elevarsi a “dramma musicale”.
La contrapposizione di melodramma e dramma musicale
scorre infatti come un fiume carsico nella storia del teatro
d’opera: si delinea con la progettazione di un teatro alternativo
a quello metastasiano, la cosiddetta riforma di Calzabigi-
Gluck, che guarda al modello francese, sempre attento al
valore semantico della parola, si afferma e poi dilaga
nell’Ottocento romantico, che culmina nel Musikdrama
wagneriano. Incuneata fra questi due momenti di alto rilievo
teorico oltre che artistico, l’opera rossiniana se ne distacca per
la sua vocazione astratta e immateriale, che la pongono su un
altro versante anche rispetto al realismo dell’incipiente opera
romantica (che difatti, con pochissime eccezioni, determinerà
la rimozione dal repertorio dell’opera rossiniana). Secondo
Rossini, come si è detto e si dirà, la musica a differenza delle
arti figurative non è un’arte imitativa; di conseguenza il canto
non deve propriamente riflettere il senso delle parole o
imitarne i contenuti espressivi, ma raggiungere una propria
espressività “fantastica” e irreale: l’ornamento e il vocalizzo
sono connaturati alla melodia e non unicamente una
superfetazione concepita per assecondare il narcisismo dei
cantanti.
Fra i tipi vocali impiegati, ampio rilievo è conferito in
Rossini alla donna musico, ossia il contralto, erede del
contralto castrato, voce duttile impiegata tanto nel serio (l’eroe
eponimo del Tancredi, e prima ancora i ruoli di Siveno nel
Demetrio e Polibio e di Ciro nell’opera omonima) quanto nel
buffo (Isabella dell’Italiana in Algeri e altri ruoli comici
interpretati dalla Marcolini), caratterizzata da considerevole
estensione e da una vocazione per la coloratura analoga a
quella del soprano. Al mezzosoprano vanno in genere ruoli di
seconda donna (unica eccezione il paggio Isolier, nel Comte
Ory); il soprano incarna invece le parti di amorosa, in
qualsivoglia genere, e nei cast figura come primadonna oppure
come “prima buffa” nelle opere buffe. Fra le voci maschili, il
tenore – spesso di registro baritonale, ma con importanti ruoli
per tenore contraltino – è impiegato di frequente nel repertorio
serio, inizialmente non nelle parti di amoroso bensì in quelle di
padre altolocato, a seguito ancora una volta della tradizione
antecedente quando per il ruolo di amoroso si propendeva per
voci di castrato. A Napoli, anche a seguito della preminenza
del soprano Isabella Colbran nonché dell’influenza francese
d’epoca napoleonica, le cose sarebbero cambiate: reclutare una
“seconda primadonna” contralto fu in genere evitato, e il
registro di tenore ebbe più spazio anche nel ruolo di amoroso.
Infine il registro di basso, detto “caricato” se dal carattere
comico fortemente accentuato, “nobile” nel caso di un rango
sociale e di uno spessore sentimentale elevati. Anche il
registro grave maschile non va privo di colorature; ma più
spesso si prediligono lo stile parlante a guida orchestrale e il
sillabato rapido e convulso, che in alcuni casi può raggiungere
una velocità vertiginosa e che costituisce uno dei tratti
emblematici della vocalità rossiniana.
Con questi presupposti, la presenza di intersezioni fra i
generi buffo e serio trova più di una legittimazione: il canto di
coloratura viene infatti applicato anche ai personaggi comici,
lo straniamento linguistico o i concertati più dinamici si
rinvengono sovente anche nell’opera seria. Soluzioni, queste,
attestate anche prima di Rossini, ma che con Rossini
raggiungono esiti ardimentosi e sorprendenti, provocando
nello spettatore una condizione di stupore che è stata
interpretata anche come l’estremo lascito dell’epoca barocca;
soluzioni già negli anni trenta dell’Ottocento ritenute eredità di
un mondo lontano e considerate inconciliabili con l’estetica
romantica.
Dall’intento di concedere al canto la massima espansione
deriva anche la tendenza, ravvisabile nei libretti di quegli anni
e nella fattispecie in quelli di Gaetano Rossi, a semplificare al
massimo lo spessore psicologico dei personaggi rispetto alle
fonti originali. Come è stato da più parti rilevato, ben poco
resta di Voltaire nel Tancredi di Rossi; ma valutare un libretto
d’opera sulla base della sua aderenza al soggetto originale non
è mai un criterio corretto. Il soggetto originale è conservato
nella misura in cui può risultare conveniente alle logiche
proprie dell’opera; nel processo di transizione fra generi (per
esempio dal teatro di prosa al teatro lirico) occorreva lasciare
alla musica lo spazio che le è necessario, perché soprattutto
tramite la musica prendono forma i personaggi, a maggior
ragione nel repertorio prim’ottocentesco caratterizzato dalla
progressiva contrazione dei recitativi. La percezione diffusa
dell’autorialità del musicista che, come si è visto, con Rossini
si concretizza, deriva anche dal progressivo trasferimento di
responsabilità in direzione della musica e del canto.
Fu questa l’arringa difensiva di Carpani, datata 10 febbraio
1818, nei confronti di un anonimo recensore berlinese che
aveva tacciato il Tancredi d’essere nient’altro che una «vescica
piena d’aria», ossia una composizione priva di significanti e
articolate strutture armoniche. Per un ascoltatore tedesco esse
costituivano il senso profondo della musica, il suo fondamento
e la sua sostanza, laddove Rossini nel Tancredi la sostanza la
pone al canto, e non nel suo sostrato profondo, quello
costitutivo dell’armonia:
… quando voi mi chiedete che vi abbia mai di solido in
questa vescica d’aria, il Tancredi del Rossini, che vi sia di
splendente in codesta meteora del cielo italiano moderno,
che di pregievole in questo tutto e nulla, che di bello in
questa musica civetteria, che d’inarrivabile in questo non
plus ultra degl’Italiani d’oggidì? io vi rispondo a quanta
voce ho in corpo: Signor da Berlino, v’è cantilena, e
cantilena sempre, e cantilena bella, e cantilena nuova, e
cantilena magica, e cantilena rara. Signor sì. Questo
gioiello introvabile, questo vanto difficile, se non
esclusivo, degl’Italiani, questo sole, a cui voi voltaste
troppo dottamente le spalle, risplende d’un pieno meriggio
nella musica del Rossini.2
Il giudizio di Carpani è in definitiva una valutazione storica,
oltre che l’esternazione di una predilezione personale: in
Rossini egli coglie il vertice di una tradizione dalle origini
lontane, che considera un connotato dell’arte musicale italiana.
Nelle sue pagine abbondano come di prammatica i riferimenti
a Pergolesi, Traetta, Sacchini e a tanti altri operisti
settecenteschi; la “meteora” Rossini gli appare quindi tutt’altro
che inattesa e imprevedibile. In alcune comunicazioni
dell’anno precedente a Giuseppe Acerbi, direttore della
Biblioteca italiana e suo corrispondente di fiducia, il concetto
era stato già messo a punto con acribia: Rossini «ha una tinta
sua propria, che lega l’antico col moderno» (28 maggio 1817);
«Non ha passi nuovi, ma li accozza in una maniera tutta sua,
ed anche il sentito maneggiato da lui pare nuovo» (26 marzo
1817); «Rossini è il solo compositore veramente originale in
Italia, e quel ch’è curioso, originale rubando a man salva; ma
lo fa in modo che a guisa degli stomaci ciò che prende di non
suo lo trasforma in chilo e diventa suo sangue. Sparisce il furto
e brilla la proprietà» (16 maggio 1817).3 Sono aspetti rilevabili
anche nel Tancredi e che lo distinguono da titoli precedenti pur
dotati di qualche affinità nella morfologia di alcuni momenti,
quali Ginevra di Scozia di Rossi-Mayr (1801) in cui
Ariodante, musico contralto in abiti maschili, come Tancredi
fa dell’eroismo cavalleresco il suo carattere prevalente.
Per altro il confronto fra arte tedesca e arte italiana, ognuna
coi propri connotati, attiene prevalentemente alla dimensione
critico-estetica e niente ha a che fare col successo riscosso dal
compositore già all’epoca anche in paesi di lingua tedesca. Nel
dicembre del 1816, per esempio, l’opera di Rossini furoreggiò
a Vienna con Tacchinardi nel ruolo di Argirio. L’anonimo
recensore veneziano,4 certamente sollecitato dalla recente
inclusione della Serenissima divenuta Lombardo-Veneto
nell’Impero austroungarico, presenta quel successo come un
sintomo dell’integrazione fra le due culture:
L’Opera qui (Italiana) rinforzata dal Tachinardi ha fatto
furore alla seconda recita in cui si diede il Tancredi del
Rossini. La musica e i cantanti piacquero moltissimo. La
Nazione Tedesca ha mostrato che per quanto stimi la
musica dotta sa anche valutare più d’ogn’altra la musica
bella, ed essere falso che preferisca lo stromentale, in cui
essa primeggia, al vocale che la Natura assegnò agli
Italiani.
Quanto alle caratteristiche dell’opera, se Pavesi nel suo
Tancredi scaligero ebbe a disposizione un cast costruito alla
maniera settecentesca, con soprano femminile (Carlotta Haeser
come Adelaide, l’Amenaide rossiniana), soprano maschile
(l’esperto castrato Angelo Testori, Tancredi) e tenore in
funzione di antagonista (nel ruolo di “Orbassano”, Andrea
Nozzari, destinato a un importante futuro rossiniano), a
Rossini spettarono i soliti cantanti scritturati per il Teodoro,
vale a dire Elisabetta Manfredini, da lui già impiegata nel
Ciro, soprano “sfogato” (ossia di ampia estensione) nel ruolo
di Amenaide, il contralto Adelaide Malanotte Montresor per
quello en travesti di Tancredi (uno dei ruoli che le diede più
fama anche negli anni a seguire), il basso Luciano Bianchi in
quello di Orbazzano; il registro di tenore era riservato al padre
Argirio (Piero Todran). I due Tancredi inquadrano quindi,
pressoché in contemporanea, condizioni estetiche e operative
diverse che attestano la convivenza in quegli anni di abitudini
in via di accantonamento – l’impiego dei sempre più rari
castrati nelle parti maschili – e di nuove logiche vocali,
orientate ad assegnare il ruolo di musico al contralto
femminile, tipologia vocale assai apprezzata pur con alcune
riserve da parte dei teorici più conservatori per motivi di
verosimiglianza.5
Veronese di origine, Adelaide Malanotte (1785-1832) vestì
con regolarità abiti maschili in opere serie di rilievo: era stata
Enrico conte di Leicester nell’Elisabetta regina d’Inghilterra e
Fingallo in Fingallo e Comala, entrambe di Pavesi (Torino
1809 e Reggio Emilia 1810), Zamoro nell’Alzira di Manfroce
(Roma 1810), il Conte di Lenox nella Maria Stuarda regina di
Scozia di Pietro Casella (Firenze 1812), Teodoro
nell’omonima opera di Pavesi; di lì a qualche anno apparirà
alla Fenice come Caio Valerio nelle Danaidi romane di Pavesi
(1816) e come Achille nell’Ira di Achille di Francesco Basili
(1817), per tacere dei numerosi altri ruoli en travesti da lei
incarnati, anche in riprese di opere rossiniane. I suoi Achille,
Arsace, Ariodante o Caio Valerio rappresentarono un elemento
di continuità: ruoli simili fino a venti o trent’anni prima
sarebbero stati d’appannaggio dei castrati. Viceversa i castrati
non ebbero a disposizione personaggi come Enrico, Fingallo o
Lenox, congiunti a soggetti di nuova generazione. La figura
del contralto en travesti costituisce quindi un raccordo fra
culture teatrali diverse intersecate senza nette cesure.
Ed è tutto il Tancredi rossiniano a spaziare in un’atmosfera
in qualche modo atemporale, di sospensione del senso storico;
certo non è un’opera che guardi al futuro, ma piuttosto
l’epifania di un fugace presente. Il Settecento è terminato, ma
vi è rievocato nelle tessiture vocali dei personaggi principali
(Tancredi, contralto femminile, fu occasionalmente contralto
castrato). Le situazioni più intense della vicenda si stemperano
in una dimensione puramente canora che ne attenua la portata
emotiva a vantaggio di una più immateriale raffigurazione di
sentimenti e situazioni. Le tinte fosche delle opere veneziane
attorno allo scadere del secolo decimottavo sono qui sostituite
da una levità cavalleresca che capiterà di rado nelle opere del
successivo periodo romantico.
Ad apertura di sipario la questione di fondo è subito
individuata da un sodalizio di voci maschili. Nella Siracusa
dell’anno 1005, in lotta con i saraceni, si stipula un solenne
giuramento alla patria («Fede o morte», I,II, N. 1), un tòpos
sempre più frequente nell’opera ottocentesca. Argirio,
Orbazzano e coro maschile fanno corpo unico, vale a dire il
padre di Amenaide e il pretendente di lei nonché fiero
avversario di Tancredi esule, col consenso dei cavalieri. Va
quindi a profilarsi sin dall’introduzione un confronto fra
registri vocali a coppie contrapposte, tenore e basso vs soprano
e contralto, caratteristico di questa fase storica del
melodramma. Nella stretta finale si lascia fluttuare il tenore
sulle roboanti affermazioni del basso («e contento in tal
momento» per Argirio, «Sempre illesa in guerra, in pace» per
Orbazzano e coro): l’esultanza politica di Argirio, che ha a
cuore la patria, e le torbide aspirazioni personali di Orbazzano
si traducono in forme simboliche mediante il gioco dei registri
e la disposizione delle voci; al recitativo seguente il compito di
fissare i caratteri individuali già affiorati nella penetrante
vivezza del canto.
È ancora il coro maschile – ossia il consesso sociale, mosso
da senso civico ma sordo alle istanze sentimentali dei singoli –
a costituire il trait d’union con la successiva cavatina di
Amenaide (I,III, N. 2). L’invito alle nozze le viene formulato
dagli scudieri: la sillabazione del testo verbale che Rossini
ascrive al coro, sostenuto da preziose inserzioni orchestrali, è
un ritrovato multifunzionale sia nel comico sia nel serio e
serve qui a sottolineare l’importanza strategica del momento
(«Più dolci e placide – Spirano l’aure / in sì bel giorno […]
compi la speme del genitor»). Ancora si inquadra la famiglia e
soprattutto il tormentato rapporto padre/figlia come nocciolo
fondante del dramma individuale (confermato dalla
minacciosa aria di Argirio «Pensa che sei mia figlia», I,VII,
N. 4). Amenaide raccoglie l’invito con distesa cantabilità in
«Come dolce all’alma mia», ma lo personalizza in direzione di
Tancredi nell’intimità segreta del suo “a parte” «(E tu quando
tornerai / al tuo ben, mio dolce amor!)»: il metodo è invalso
nella librettistica laddove si faccia declamare al personaggio,
fra sé e sé, ciò che nella realtà egli si limiterebbe a pensare. La
sonorizzazione di questo pensiero fugace costituisce l’oggetto
della cabaletta, in cui le movenze cavalleresche del coro si
avvicendano alle febbrili e segrete aspettative di Amenaide.
Il tema delle relazioni famigliari in rapporto alla figura
paterna era una costante sin dal dramma per musica
settecentesco, in un’epoca in cui il modello patriarcale –
secondo una scala gerarchica che discendeva dalla maestà
divina a quella regia per giungere al pater familias – venne
messo in crisi per motivi economici (la prevalenza del
primogenito sui cadetti, la diffusione del celibato con calo
delle nascite, il rischio di estinzione delle famiglie
aristocratiche) e per il diffondersi dei princìpi di uguaglianza e
del diritto alla felicità individuale. Durante la dominazione
napoleonica e la Restaurazione vi fu però la tendenza a
ripristinare l’assetto tradizionale delle gerarchie famigliari
rafforzando nuovamente la patria potestà, tentativo infruttuoso
di arginare un processo ormai avviato. Il teatro rossiniano si
diffuse in quegli anni di debole e forzata regressione; i
problematici rapporti padri/figlie, diversamente risolti, ne
danno conto, in Tancredi ma anche in opere decisamente
avanzate come Otello, La donna del lago, Bianca e Falliero,
Maometto secondo.
Tornando a Tancredi e alla costruzione dell’intreccio, il
panel dei personaggi principali trova compimento con l’arrivo
del grande assente, dopo lo stacco del mutamento di scena
(dalla Galleria di palazzo al Parco con vista sul mare). La
cavatina di Tancredi (I,V, N. 3) si presenta come un quadro
naturalistico in cui spaziano i ricordi e le aspirazioni amorose
del protagonista, su un andamento di barcarola infarcito di
fugaci richiami ornitologici a oboi e flauti (I,v). Viene così
delineato un legame a distanza con Amenaide prima del
confronto diretto dei due; la cabaletta «Di tanti palpiti», in cui
Tancredi pregusta l’emozione dell’incontro con l’amata di un
tempo, divenne rapidamente uno dei morceaux favoris di
Rossini: dotata di straordinaria vitalità extrateatrale, verrà
parodiata da Wagner nel terzo atto dei Meistersinger von
Nürnberg (1868) come emblema dell’opera italiana. Il motivo
principale del brano, vivace e arguto nell’avvicendamento di
figurazioni binarie e ternarie vitalizzate da salti di lieve entità,
è sintatticamente chiuso e ben squadrato; le ripetizioni interne
e un ambito ristretto all’intervallo di quinta ne agevolano la
memorizzazione e lo rendono facilmente replicabile a
orecchio. In questa semplicità prossima a scadere nel banale è
la chiave del suo successo, che si espanse ben oltre la ristretta
schiera degli amatori dell’opera per raggiungere un’ampia
notorietà anche nelle fasce sociali più basse, sfruttando
l’osmosi fra i diversi registri dell’arte, elevata, folk o popolare.
Niente in quel motivo dà corpo alle «pene» di Tancredi
menzionate nel testo poetico; si prefigura semmai il loro
superamento attraverso la sensualità del canto. E in ciò si
coglie anche la vocazione di fondo di quest’opera: stemperare
il pathos degli affetti individuali in lieve trama sonora; rendere
trasparenti le opacità dell’animo, limitando quanto possibile
nei pezzi chiusi la fisicità dei confronti diretti. Il duetto N. 5 di
Amenaide e Tancredi, «L’aura che intorno spiri» (I,VIII), si
colloca difatti sul piano puramente ideale, senza prevedere
neppure un segmento di azione visibile, come invece richiesto
dagli orientamenti correnti per i numeri d’assieme. La scrittura
poetica del brano manifesta continuità rispetto ai tanti duetti
settecenteschi fondati sul ritrovarsi degli amanti e nuova
partenza amorosa. Il prototipo, ancora ben noto a primo
Ottocento, è quasi sicuramente «Ne’ giorni tuoi felici» che
Aristea e Megacle cantano alla fine del primo atto
nell’Olimpiade del Metastasio (1733), di cui il duetto
rossiniano, in quattro tempi, costituisce un’amplificazione nel
suo trascorrere dalla concitazione del tempo di attacco
(«L’aura che intorno spiri», Allegro giusto), quando il ritorno
di Tancredi si profila come un presagio di sventura reso
tangibile dalle nervose articolazioni melodiche in orchestra e
canto, all’“a due” che sancisce comunione di affetti ma
incertezza del futuro («Quale per me funesto», Andante), al
succinto tempo di mezzo ove Amenaide impone nuova
separazione forzata («Parla omai. – Mi lascia, e parti»,
Allegro), alla disillusa cabaletta («Quando, oh ciel, quest’alma
amante», Allegro). Niente di fattuale/visibile accade e niente i
personaggi si comunicano al di là di un reciproco amore,
turbato dai limiti che ne mettono a rischio la realizzazione:
circostanza ancora incomprensibile per Tancredi, in quanto
Amenaide (come Megacle nell’Olimpiade) non ha cuore di
rivelare la promessa matrimoniale contratta suo malgrado, e
mai si menziona il nome di Orbazzano.
Come in tanto Settecento serio, i nodi della vicenda
emergono tutti assieme durante un recitativo (I,XII-XIII), in cui
le due coppie di voci femminili e maschili vengono a contatto.
Tancredi esce allo scoperto e, non riconosciuto, offre i suoi
servigi allo stato mentre apprende con sdegno delle imminenti
nozze di Orbazzano e Amenaide, la quale trova però il
coraggio di rifiutarle apertamente. L’ira del padre cresce
quando Orbazzano mostra e legge una lettera di lei, in realtà
indirizzata a Tancredi, dove pare che Amenaide abbia
contratto un segreto accordo col sultano Solamiro. Al
tradimento delle regole famigliari, dettate dal padre, si
aggiunge quindi il presunto tradimento dello stato: le due
dimensioni, in un’epoca come quella napoleonica che vide
appunto il rafforzamento della patria potestas messo in crisi
dai modelli rivoluzionari, non sono slegate e si configurano
come il rispecchiamento simbolico l’una dell’altra.
In questo frangente Amenaide non ha più alleati o sodali e
persino Tancredi non crede alla sua fedeltà. L’accumulo di
elementi narrativi e fattuali nel recitativo consente al finale
(N. 7), che ha come input il colpo di scena causato dalla lettura
della missiva, di svolgersi nella sola dimensione emozionale.
Dopo il teso concertato di stupore a 6 voci («Ciel che lessi! Oh
tradimento!», I,XIII), l’azione pone al centro l’isolamento di
Amenaide, con le consuete fluttuazioni nell’andamento, fra
alternanze dialogiche e ricorrenti primi piani sulla
protagonista. A «Quanto fiero è il mio destino!» la veste
melodica assume un carattere lacrimevole corrispondente alla
condizione emotiva di lei; la presenza orchestrale diviene
stentata, assecondando la “scena”. L’orchestra scompare quasi
del tutto nell’episodio successivo, che suona “a cappella” in
quanto i fiati presenti hanno solo funzione di sostegno («Gli
infelici affetti miei»); senza la pulsazione ritmica garantita
dall’accompagnamento degli archi la percezione del tempo
diviene astratta, gli affetti universali, e statica la scena (una
sorta di tableau). La ricomparsa dell’intera orchestra riporta
alla concretezza del dramma («Vendetta! Rigore»); ad
Amenaide e Tancredi è concesso un ultimo accostamento
vocale («Chi duol sì orribile»), prima della esplosiva stretta
finale che figurazioni melodiche minimali, ossessivamente
reiterate, rendono martellante e fatalistica («Quale infausto
orrendo giorno»): una ulteriore conferma del ruolo giocato
dall’elemento ritmico nella drammaturgia rossiniana.
Frontespizio del libretto a stampa
per la prima assoluta dell’Italiana in Algeri,
Venezia, Teatro di San Benedetto, 1813;
Milano, Archivio Storico Ricordi

Per Tancredi e Argirio tutto verte quindi su una questione di


coscienza, fra difesa dello stato e affetti personali in apparenza
traditi; ma la loro reazione è inizialmente discorde. Il padre
cede alla responsabilità del suo ruolo; nel recitativo e aria N. 8,
«Oddio! – Crudel! – qual nome» / «Ah! segnar invano io
tento» (II,II), decreta la condanna a morte della figlia, non
senza metastasiane esitazioni e subendo pressioni divergenti
da parte di sezioni corali pro e contro Amenaide (la presenza
attiva dei cori prim’ottocenteschi è viceversa una condizione
non più “metastasiana”); la cabaletta finale sancisce la
risoluzione ultima e al tempo stesso l’irrisolutezza del dubbio
(«Perdonate questo pianto»). Tancredi prende invece le difese
di lei pur temendola infedele; nel duetto N. 11 «Ah, se de’
mali miei» (II,VIII) si ricostituisce il sodalizio con Argirio
mentre le trombe annunziano il duello con Orbazzano. Il suo
ergersi a difesa dell’amata si interseca, secondo i princìpi
classici dell’intreccio di punti di vista diversi ma congiunti, col
progressivo riemergere di Amenaide dalla propria condizione
di solitudine, espressa nella lunga sequenza delle carceri (II,IV-
XI) secondo step progressivi:

l’appassionata cavatina «No, che il morir non è» (II,IV,


N. 10), in un solo tempo di andamento moderato e come
tante cavatine tragiche settecentesche priva di cabaletta,
che qui avrebbe sortito un effetto banalizzante. Il brano,
di squisita fattura, è impreziosito dal corno inglese
obbligato, strumento della solitudine romantica (ancora
un accavallamento fra passato e futuro prossimo);
il recitativo in II,V-VI, in cui Amenaide ritrova il
conforto paterno e la speranza della liberazione da parte
di Tancredi;
la preghiera per Tancredi e sé medesima nel cantabile
all’avvio del N. 12 «Giusto Dio che umile adoro» (II,x),
seguita dalla notizia della vittoria di Tancredi e della
morte di Orbazzano, da cui scaturisce una trepidante
cabaletta con coro («Ah! d’amore in tal momento»).

Con questo percorso di rinascita avrebbe potuto concludersi la


parabola del personaggio, non fosse per la questione emotiva e
sentimentale irrisolta della smarrita fiducia di Tancredi, che ha
combattuto per Amenaide solo per mantenere fede a un
generoso patto d’amore ma senza più credere in lei. Le
vicende individuali e affettive della primadonna e del musico
debbono quindi essere caricate di nuovo interesse; nel libretto
di Rossi, magistralmente condotto, ciò avviene a II,XII-XIII (nn.
13-14), una sorta di falso finale nella Gran Piazza di Siracusa,
quando il tripudio del popolo per la ritrovata concordia nel
segno di Tancredi viene incrinato da un secondo duetto,
discordante, di Tancredi e Amenaide, condotto secondo il
principio dell’incomunicabilità – «Lasciami: – non
t’ascolto» – che già caratterizzava il loro primo. L’ira dell’eroe
a lungo trattenuta esplode nel tempo d’attacco, cui corrisponde
più supplichevole la replica di Amenaide; entrambe le voci
dispongono qui di colorature che istituiscono un rapporto
dialettico fra i due personaggi. Seguono le oscillazioni umorali
tipiche del genere: avvicinamenti (nel cantabile a seguire),
ripulse (nel tempo di mezzo), comune e reciproca
manifestazione di indignazione (nella stretta finale).
Sono adesso mature le condizioni per dare spazio all’eroe
eponimo (il musico), che fino a questo momento ha vissuto, si
può dire, all’ombra della primadonna e che d’ora in poi viene
decisamente e definitivamente in primo piano. Le scene II,XVI-
XVIII alle falde dell’Etna presso la «Catena di montagne,
burroni scoscesi, torrenti che precipitano» sono infatti per lui.
L’entità del testo poetico assegnatogli non sembrerebbe così
cospicua se questa sequenza non fosse concepita per dar
seguito a uno degli organismi musicali più ampi e
drammaturgicamente abnormi dell’opera ottocentesca,
praticato con qualche rara anticipazione a partire dall’epoca di
Mayr e Paer fino a quella di Donizetti: la cosiddetta “Gran
Scena”, di cui si sono recentemente occupati gli studi di
morfologia e storia dell’opera. Le tradizionali sezioni di un
singolo pezzo chiuso vengono lì amplificate al fine di creare
un’unità drammatica coesa ma articolata che consenta al
personaggio – il o la protagonista – di restare in scena il più
possibile come parte attiva e di interagire con altre entità
drammatiche. La successione standard degli eventi segue su
grande scala i princìpi di base della cosiddetta “solita forma”,
vale a dire l’avvicendamento di sezioni cinetiche e sezioni più
statiche, secondo lo schema:

scena in recitativo, anche con coro;


cavatina in un solo tempo;
transizione in recitativo alternato a sezioni corali;
aria multipartita.

Rossini non fu il primo compositore a esercitarsi con questa


macrostruttura, né Tancredi la prima sua opera a includere una
Gran Scena. Vi erano stati infatti i casi di due cantate, Il pianto
di Armonia sulla morte di Orfeo (1808) e La morte di
Didone,6 e del Ciro in Babilonia; ma pare che proprio in
Tancredi per la prima volta si impieghi scientemente
quell’accezione in relazione alla disposizione poetico-musicale
sopra descritta, disposizione reperibile nelle opere rossiniane
una decina di volte in tutto. L’ultimo numero solistico del
Tancredi veneziano per Adelaide Malanotte è quindi così
configurato:

1. Preludio [Andante sostenuto, 4/4, Mi bemolle


magg.] e Scena, «E dove son? – Fra quali orror mi
guida»
2. Cavatina «Ah! che scordar non so» [Andante, 6/8,
Do magg.]
3. Coro «Regna il terror» [Allegro, 3/4, Mi bemolle
magg.], Recitativo dopo il coro «Fra’ Saraceni io
dunque son?»
4. Marcia «Qual suon? – Che miro!…» / «Solamir
d’Amenaide» [Moderato, 4/4, Do magg.] e Aria
Tancredi, nelle sezioni: «Or che dici? – Or che
rispondi?»
[A piacere – Allegro, 4/4, Mi bemolle magg.], «È
questa la fede» [Andante, 3/4, Sol magg.], «Sì, la patria
si difenda»
[Allegro – Più lento – Allegro – Più lento – Più mosso,
4/4, Mi bemolle magg.]

L’impiego unificante della tonalità di Mi bemolle, dal


preludio, al coro e poi ancora nell’Aria finale, e la presenza
ricorrente del coro stesso rendono compatta questa pur
debordante sezione, che costituisce anche una contropartita al
rilievo assegnato ad Amenaide sin dal finale primo. Sullo
sfondo di uno scenario montuoso dove risuonano le
acclamazioni dei Saraceni al campo, Tancredi riflette in piena
solitudine; la cavatina «Ah! che scordar non so», dai contorni
melodici vaghi e sfumati come ricordi del passato che
riaffiorano, si approvvigiona di elementi decorativi inanellati
in modo variabile, e ciò concorre a conferire al brano un
carattere meditabondo. Incontrati fugacemente Amenaide e
Argirio, prende corpo la risoluzione dell’eroe di morire per la
patria estinguendo così il dolore per il tradimento che crede di
aver subito («Sì, la patria si difenda», sezione finale della Gran
Scena). Tutto pare volgere al tragico; solo le parole
pronunziate da Solamiro morente, ferito da Tancredi,
sgombreranno ogni dubbio, riconciliando la terna principale
nel più accomodante lieto fine («Tra quei soavi palpiti»,
II,ultima, N. 17).
Il finale tragico concepito per la ripresa di Ferrara (già città
rossiniana) nella quaresima dello stesso 1813, ancora con la
Malanotte nel ruolo protagonistico, trova quindi più di una
legittimazione: sul piano della configurazione drammatica del
secondo atto, in cui si lascia intendere che la sfida di Tancredi
ai Saraceni altro non sarà che un suicidio camuffato da
eroismo; sulla base del soggetto originale di Voltaire; infine, in
relazione alla stagione ferrarese in cui la ripresa andò a
collocarsi, quella di quaresima, quando si sarebbe potuto
cogliere nella lotta all’infedele un tratto caratterizzante
dell’opera, esaltato dal sacrificio dell’eroe. Fu però un
insuccesso che sollecitò Rossini a ripristinare prontamente la
prima versione lieta, salvo rilevare in tarda età la maggiore
novità dell’altra.
Di finali tragici l’opera seria ne aveva conosciuti svariati,
nella lunga epoca metastasiana (Didone muore fra le fiamme
di Cartagine dal 1724 in poi, Catone fuori scena dal 1728)
quanto nel breve e intenso periodo delle opere di soggetto
tragico circolanti in epoca postrivoluzionaria (La morte di
Cesare, La morte di Cleopatra, La morte di Mitridate, La
morte di Semiramide). Eppure il finale infausto del Tancredi
ferrarese manifesta tratti inusuali e sorprendenti e farebbe
anche oggi il suo effetto se fosse possibile ascoltarlo più
spesso. Le varianti del testo poetico – a partire dalla Gran
Scena che a Ferrara culmina col rondò con coro «Perché turbar
la calma» – furono approntate dal conte bresciano Luigi Lechi
(1786-1867). Ragguardevole figura di medico, chimico e
mineralogista con la passione per la musica e la letteratura, a
Milano era stato compagno di studi di Manzoni e di
Confalonieri; più tardi intrattenne rapporti di amicizia con
Foscolo. Vicino ad ambienti carbonari, venne coinvolto nei
moti del 1821 e subì perquisizioni e incarceramenti. Nel 1848
presiedette il governo provvisorio bresciano e nel 1860
divenne senatore del Regno d’Italia. Il dato biografico suo più
noto ai musicologi fu però il rapporto adulterino intrattenuto
per decenni con Adelaide Malanotte sposata Montresor,
legame che sicuramente favorì la configurazione della celebre
variante ferrarese all’indirizzo di lei. Variante determinata
quindi da questioni sentimentali ma condotta con acribia, e
non tanto sulle tracce di Voltaire come si suole affermare,
quanto nell’intento di realizzare un finale che concedesse
spazio adeguato alle capacità attoriali della Malanotte,
altrimenti dissolte in una generica esultanza collettiva. In
Voltaire Tancrède cade esanime dopo una fugace
raccomandazione all’indirizzo di Aménaide («Gardez de
suivre / ce malheureux Amant, et jurez-moi de vivre»), che
però di lì a poco segue l’amato nell’Oltretomba, mentre Lechi
affida a Tancredi morente uno stentato e intenso monologo in
versi sciolti su cui si chiude l’opera, lasciando la scena spoglia
e priva di ulteriori commenti:
TANCREDI Tu m’ami? – A questi detti io sento
che m’è grave il morir.
AMENAIDE Dunque, gran Dio,
così mia fé…
TANCREDI Quel pianto
mi scende al cor… ma… oh Dio… lasciarti io deggio.
Già la morte s’appressa… io già… la sento.
Argirio, ascolta, ecco de’ voti miei…
di mia fede l’oggetto… a quella mano
or la mia destra insanguinata unisci;
di sposo… il nome io porterò alla tomba…
e tu sarai mio padre? – A vendicare…
la mia patria… la sposa…
vissi,… d’entrambe degno… amato, io spiro
ora d’entrambe in seno…
ogni mio voto… è già… compito… appieno.
Amenaìde… serbami
tua fé… quel… cor ch’è mio,
ti lascio… ah! tu di vivere
giurami… sposa… addio.
Volendo sintetizzare Voltaire, avrebbe potuto, il Lechi,
sbrigarsela con qualche verso per Tancredi accompagnato da
adeguate didascalie e con un breve coro conclusivo su «notte
funesta» o «giorno d’orror», nel solco della tradizione
librettistica italiana. Il modello di riferimento è invece quello
tragico alfieriano sulla scorta di Saul, Mirra o Filippo (la
morte di Isabella), risalenti agli anni ottanta del Settecento,
dove con meticolosità si inseguono gli ultimi frammentati
proclami dei personaggi prima della loro dipartita. Rossini
coglie pienamente lo spirito dell’iniziativa e predispone una
intonazione minimale che si estingue di pari passo alle forze di
Tancredi. Per ottenere l’effetto gli sono sufficienti un recitativo
strumentato che con estrema lentezza riproduce i puntini di
sospensione di cui il dettato poetico è costellato, quindi, agli
ultimi quattro settenari e senza alcuna netta cesura, una
cavatina – nel senso settecentesco di aria breve – sottrattiva e
smaterializzata: trenta battute in tutto che nell’esecuzione di
Lucia Valentini Terrani (Pesaro 1982) occupano da sole quasi
tre minuti di musica rarefatta e priva di qualsiasi richiamo alla
tradizione antecedente anche in materia di tragico musicale.
Tutto troppo arrischiato e inusuale per il teatro musicale
dell’epoca perché questo finale alternativo potesse stabilizzarsi
come finale definitivo dell’opera. Quello definitivo resta il
tradizionale primigenio finale lieto.
La capacità di adattamento e la destrezza nel gestire situazioni
impreviste costituivano un banco di prova per qualsiasi
compositore d’opera. Reduce dalla sperimentale messinscena
ferrarese, appena di ritorno a Venezia a Rossini fu data
l’opportunità di riscattare la tiepida accoglienza riservata al
teatro di San Benedetto alla sua Pietra del paragone in prima
locale (stessa primavera 1813), con interpreti di vaglia come la
coppia comica Marcolini-Galli. Quella traballante stagione del
secondo teatro veneziano fu messa in sicurezza dall’impresario
Giovanni Gallo con la ripresa estemporanea di un titolo di
successo quale Ser Marcantonio di Pavesi, in attesa che Carlo
Coccia terminasse La donna selvaggia, che però tardava (andò
in scena soltanto a giugno, verso la fine della stagione). Per
fare presto, si affidò a Rossini un libretto già esistente, ancora
una volta di provenienza milanese, quello dell’Italiana in
Algeri di Angelo Anelli, alla Scala con la musica di Luigi
Mosca nell’estate del 1808. Alcuni spezzoni del libretto furono
modificati o approntati ex novo forse dallo stesso Gaetano
Rossi e probabilmente d’intesa col compositore. In poche
settimane la nuova partitura era pronta; il fatto che Rossini
conoscesse i cantanti principali e le loro propensioni gli fu di
aiuto e il 22 maggio 1813 l’opera andò in scena, restandovi per
più settimane.

«Pappataci che mai sento» dalla partitura autografa dell’Italiana in Algeri;


Milano, Archivio Storico Ricordi

Con questo brillante e inatteso exploit, Rossini andò a


occupare ulteriori spazi di ascolto, dopo le farse e l’opera
seria, gratificando il pubblico locale con un dramma giocoso
appositamente composto per Venezia; il San Moisè, La Fenice,
il San Benedetto avevano così tutti potuto disporre di opere
rossiniane in prima assoluta. L’identità di un compositore
prescindeva dai singoli generi e veniva a profilarsi attraverso
la riconoscibilità dello stile, in Rossini più marcata che in altri,
e la disseminazione di titoli in teatri e ambiti diversi la
favoriva, soprattutto quando si trattava di titoli così eterogenei.
Fra Tancredi e L’italiana, apparse a distanza di appena tre
mesi l’una dall’altra, intercorrono esorbitanti differenze di
sostanza teatrale. I generi seri e buffo in epoca rossiniana non
vanno intesi difatti soltanto come espressione di un diverso
contesto (storico vs borghese, con ambientazione distanziata
nel tempo o viceversa attualizzata), oppure di una divergente
attitudine al pianto o al riso, oppure ancora di una minore o
maggiore rispondenza a una sorta di realismo scenico, nel
Rossini di questi anni categoria introvabile. Più propriamente,
cambia il modo con cui i personaggi si costituiscono quali
entità drammatiche.
Nel genere serio, sulla scorta delle consuetudini
settecentesche, le motivazioni personali risiedono nella sfera
ideale: amore, ambizione, orgoglio o tradimento valgono per
sé stessi e non necessitano di una caratterizzazione esistenziale
e individuale per determinarsi. I livelli verbale e vocale
procedono per astrazioni: difficilmente i personaggi esprimono
ciò che è loro soltanto, ma piuttosto ciò che di loro attinge a
una dimensione universale. Nell’opera buffa, viceversa, i
bisogni materiali prevalgono e dell’elemento affettivo,
poniamo l’amore, si colgono anche o soprattutto le
implicazioni pratiche a livello individuale e sociale – l’eros,
ma anche la ricerca del benessere, nonché il rispetto o la
svalutazione di convenzioni quali matrimonio, eredità o dote.
Nel comico, e soprattutto in quello rossiniano, trova ampio
spazio anche la metanarrazione (o forse, dato il contesto,
metarappresentazione); in quei casi la presenza ordinatrice del
compositore si percepisce tramite le sue intromissioni nel
dettato scenico: da qui il gusto per l’eccesso (situazioni
semplici e neutre che vengono gonfiate a dismisura dalla
musica), l’ironia drammatica (la musica e il canto determinano
soluzioni non esplicitate o contrastanti rispetto al testo
poetico), l’irrazionale (laddove la musica prenda possesso dei
personaggi determinandone l’azione anche a prescindere dalla
loro volontà).
A Venezia, fra febbraio e maggio 1813 il pubblico ebbe
dunque modo di apprezzare di Rossini ora la dimensione
“virginale” (Stendhal) e arcadico-guariniana (Goethe) del
Tancredi, ora quella più irriverente e sfrontata nella «follia
organizzata» dell’Italiana (Stendhal). La pienezza del
successo rossiniano attorno al fatidico 1813 deriva anche da
quell’accostamento vincente. Come e più di Tancredi,
L’Italiana restò a lungo nel repertorio dei teatri e servì da
apripista per altre opere buffe dell’autore (per esempio a
Roma, dove andò in scena all’Argentina circa un mese prima
del Barbiere di Siviglia, con simile cast), nonché, nel
Novecento, per la Rossini Renaissance (Vittorio Gui la riprese
a Torino nel 1925).

«Nella testa un campanello» dalla partitura autografa dell’Italiana in Algeri;


Milano, Archivio Storico Ricordi

Il libretto di Anelli aveva nel 1808 e conserverà anche in


Rossini una latente connotazione milanese. Certo non per lo
strano caso della bella milanese Antonietta Frapolli, rapita nel
1805 dai pirati e consegnata al bey di Algeri, presso il quale si
sarebbe trattenuta qualche tempo senza gran danno. A questa
cronaca fittizia e costruita a posteriori sulla base di dicerie e
luoghi comuni – l’episodio è narrato da Nino Bazzetta de
Vemenia (1880-1951),7 noto per le sue falsificazioni – si
associa, ben più fondato, il tema patriottico suscitato dal coro
degli schiavi italiani che Isabella guida alla rivolta. Nel 1801
la Cisalpina, con a capo Milano, aveva riorganizzato le proprie
forze armate e nel 1805 la Guardia Reale Italiana era stata in
grado di tenere testa all’esercito austriaco ad Austerlitz. Gli
schiavi italiani rievocano nel libretto milanese e poi veneziano
quei transitori trionfi («Pronti abbiamo e ferri e mani / per
fuggir con voi di qua… / Quanto vaglian gl’Italiani / al
cimento si vedrà», II,XI, N. 15); poco oltre Lindoro, raggiunto
da Isabella nell’harem, rammolito dalla prigionia o dalle
delizie del serraglio, viene spronato da costei in una prima
strofa che potrebbe figurare in un melodramma irredentista:
«Pensa alla patria, e intrepido / il tuo dover adempi: / vedi per
tutta Italia / rinascere gli esempi / d’ardire e di valor».
Gli accenti libertari del rondò di Isabella, rivolti alla nazione
che ancora non era («per tutta Italia»), saranno esaltati da
Rossini con una messa in musica volitiva e sferzante per una
applauditissima Marcolini – parte «écrit avec amour», come
precisa maliziosamente un suo biografo8 –, e scandita dal coro
che ormai vede in Isabella una guida sicura. A riprova di
quanto fossero connotati, quegli spunti furono soppressi nella
messinscena di Napoli nel 1815, quando la fase murattiana
volgeva drammaticamente al termine. Al Teatro dei Fiorentini
prese il posto del rondò, per mano di Rossini, l’aria «Sullo stil
de’ viaggiatori» (Giacinta Guidi Canonici nel ruolo di
Isabella), che neutralizza la portata patriottica – lombarda, più
che veneta – dei versi originali a vantaggio di generiche
strategie di fuga, e anche il coro dei prigionieri in subbuglio fu
decurtato all’essenziale.
Il biografo rossiniano Azevedo si servì di «Pensa alla patria»
per proporre un sommario allineamento ideologico fra Rossini
e Beethoven,9 entrambi cresciuti artisticamente sotto il sole
napoleonico ed entrambi, secondo Azevedo, partecipi in quella
fase storica degli ideali libertari. L’intromissione dell’elemento
politico, mutuato dalla versione per Mosca, nell’opera
rossiniana finì però per contrassegnare, stemperati gli ardori
nazionalisti della Cisalpina e accresciute a dismisura le risorse
vocali della protagonista, solo una fra le mille risorse delle
«femmine d’Italia» celebrate da Haly nella sua aria (II,VII,
N. 13), vale a dire la scaltrezza nel gestire gli eventi (la
«Cruda sorte» può essere vinta facendo leva sul fatto che «tutti
la bramano, / tutti la chiedono», I,IV, N. 4, con risapute
allusioni sessuali), l’arte della seduzione (nei confronti di
Mustafà), l’attaccamento all’innamorato (Isabella è stata
catturata mentre era alla ricerca di Lindoro, suo amato o,
secondo Taddeo, suo cicisbeo),10 e infine il carisma e l’ardore
patriottico (nel rondò). Alcune erano situazioni consuete nel
comico: L’italiana in Algeri si colloca infatti nel solco dei
melodrammi sul tema delle astuzie femminili, che non passa
mai di moda e non conosce sbarramenti di classe sociale. Il
personaggio di Isabella deve qualcosa alle “buffe” disinibite e
audaci dell’opera napoletana, alla Locandiera goldoniana e da
lì a tanta librettistica giocosa e alle sue filiazioni
tardosettecentesche per quanto riguarda l’autonomia
decisionale delle donne e la loro capacità di pianificare le
proprie tattiche. Si vedano, per esempio, la marchesa Violante
Onesti nella Finta giardiniera di Petrosellini/Mozart (1775)
che si finge Sandrina – stavolta uno strategico declassamento
di scala sociale – per ritrovare l’amato che nel frattempo l’ha
dimenticata, oppure i sodalizi, le macchinazioni e le
messinscene dei più noti personaggi femminili del teatro di Da
Ponte per Mozart. Casi ancora più evidenti in Cimarosa, autore
delle Astuzie femminili per antonomasia (libretto di Palomba,
1794) e, molto prima, dell’Italiana in Londra (libretto di
Petrosellini, 1778), intermezzo comico premiato da
straordinario successo: anche all’estero, al cospetto di culture
diverse, a Nord come a Sud, l’italiana sa raggiungere il suo
obiettivo (prevalentemente amoroso). Pure Isabella, risolutiva
per le dinamiche dell’azione, potrà raggiungere il suo obiettivo
che però non è più solo amoroso: la sua diviene una smania di
autoaffermazione su tutti i piani compreso quello militare, vedi
appunto l’episodio della liberazione dei prigionieri (II,XI e
sgg.), e anche in questo sta la singolarità del personaggio.
Alla dimensione femminile nell’Italiana in Algeri si associa
lo scenario esotico che riconduce alle turcherie settecentesche
di cui il Ratto dal serraglio di Mozart resta il titolo più noto
(1782). Contrariamente però al Singspiel mozartiano, il turco
non è qui il generoso e lungimirante sovrano della tradizione
illuminista. Nel Ratto mozartiano lo scontro di civiltà è assai
contenuto: il sultano Selim, voce recitante (e perciò
personaggio dotato di raziocinio, non compromesso con
passioni sconvenienti), si dimostra ampiamente
occidentalizzato per retorica ed etica e il contrasto, semmai, si
manifesta al confronto col versante oltranzista dell’islamismo
radicale rappresentato da Osmin (voce di basso), che nella sua
cattiveria estrema risulta però poco credibile e volge
risolutamente al grottesco. Nell’Italiana il ruolo di buffo
caricato spetta invece a Mustafà – a Venezia 1813 ancora il
basso Galli –, bey senza compromissioni con questioni di
moralità e di moralità politica («Altra legge io non ho che il
mio capriccio», I,II). Raggirato e sbeffeggiato, quando non si
rende ridicolo da solo declamando in una lunga gag la propria
incoronazione a «pappataci» (II,IX-ultima), è piantato in asso
dalle sue truppe, si lascia scappare sotto il naso la nutrita
comitiva di italiani e torna docile e remissivo dalla moglie
Elvira che lui stesso aveva ripudiato nel tentativo di far sua
Isabella.
Questa miscela di tradizioni e tematiche apparentemente
difficili da conciliare (italianità, femminilità, esotismo e
patriottismo) produce risultati irripetibili grazie a un libretto
ingegnoso e alla felice vena creativa rossiniana confermata
dalla sinfonia iniziale, troppo celebre per essere passata sotto
silenzio, anche perché essa risulta paradigmatica a livello
formale del sottogenere della “sinfonia rossiniana” d’opera
(pur non essendo questo il primo caso in cui tale forma si
esplica, che risale quantomeno all’Inganno felice, 1812).
Questa tipologia di brani si profila come un allegro di sonata
senza la sezione centrale dello sviluppo. Lo precede a mo’ di
preambolo un’introduzione in tempo lento (come in tanti primi
movimenti delle sinfonie non operistiche di Haydn), di
carattere interlocutorio e finalizzata a determinare uno stato di
attesa per lo svolgimento successivo della sinfonia; in quella
dell’Italiana l’introduzione mostra un andamento frastagliato
in cui si avvicendano un sordo pizzicato, alcuni motivi
cantabili e perentori unisoni che segmentano il discorso
musicale impedendogli di acquisire stabilità. L’allegro
seguente presenta come di norma tre gruppi tematici:
scalpitante ma leggero nella strumentazione il primo; più
cantabile e tornito il secondo (uno spumeggiante ping-pong fra
oboi, clarinetti e ottavino); scattante e iterativo il terzo, su cui
si imbastisce il crescendo che porta alla ricapitolazione
dell’allegro, variata nella strumentazione e nel giro tonale, e la
seconda volta alla conclusione. Data l’assenza di sezioni di
sviluppo intermedie, caratteristiche dello stile classico, il
baricentro di simili brani è sbilanciato verso la sezione
terminale con l’effetto di accrescere la curiosità del pubblico
per poi strappargli l’applauso, in prossimità dell’apertura di
sipario. L’impianto formale praticato da Rossini risponde
quindi a una strategia dell’attenzione; le sue sinfonie, quando
adottano questo schema (prevalente da lì ad alcuni anni), si
riferiscono all’evento – lo spettacolo d’opera in sé –, non ai
contenuti specifici del dramma inscenato, con cui come in
tanto Settecento non manifestano legami di alcun tipo. Questo
spiega perché Rossini reimpiegò alcune sinfonie, spostandole
da un’opera all’altra, senza neppure tener conto dei generi
serio e comico.
Se un’affinità di fondo fra sinfonia e opera sussiste, risiede
nella sintesi briosa che si ritrova tanto nell’una quanto
nell’altra. Il libretto di Anelli e le sue aggiunte veneziane
presentano sollecitazioni comiche tutt’altro che lineari, dati i
diversi piani e contesti – italianità, femminilità, esotismo,
scontro di genere, confronto di culture, i retroscena politici o
l’espediente farsesco del pappataci, finto titolo onorifico degli
amanti insaziabili che lusinga l’orgoglio di Mustafà.11 Spetta
alla musica realizzare tali sollecitazioni, tenendo assieme ciò
che a logica pare difficile da conciliare; di conseguenza la
comicità di Rossini si sviluppa nei repentini capovolgimenti di
prospettiva e nell’irrazionalità che risucchia le aspirazioni dei
personaggi. Ma non nel senso di un giudizio morale espresso
nei loro confronti, finalità del tutto estranea all’universo
comico rossiniano, bensì in quello di una loro intermittente
trasformazione in astrazioni spersonalizzate. Appena passioni
e aspirazioni si manifestano in forme tangibili, esse vengono
frustrate e degradano immediatamente dal piano degli affetti a
quello degli effetti musicali, e quindi in comicità irrefrenabile.
L’architettura complessiva del primo atto è eloquente e può
essere sintetizzata con l’ausilio di qualche parola-chiave:

NUMERO CONTENUTI

Introduzione Scene da un matrimonio musulmano: aspirazioni amorose


(I,I, N. 1)
«Serenate il di Elvira nei confronti del marito e degradazione di Mustafà
mesto ciglio» verso il capriccio

Cavatina Aspirazioni amorose di Lindoro verso Isabella


Lindoro (I,III,
N. 2)
«Languir per
una bella»

Duetto Trasformazione comica dei requisiti del matrimonio che


Lindoro- annichilisce i desideri di Lindoro
Mustafà (I,III,
N. 3)
«Se inclinassi
a prender
moglie»

Coro e Aspirazioni amorose di Isabella e loro repentina sostituzione


cavatina con strategie di sopravvivenza
Isabella (I,IV,
N. 4)
«Quanta
roba! quanti
schiavi!»

Duetto Camuffamento delle aspirazioni di Taddeo verso Isabella in


Isabella- un falso legame famigliare
Taddeo (I,V,
N. 5)
«Ai capricci
della sorte»

Aria Mustafà Aspirazioni amorose di Mustafà verso Isabella


(I,VIII, N. 6)
«Già
d’insolito
ardore nel
petto»

Finale I (I,X- Finzione di Isabella nei confronti di Mustafà; dopo il


XIII, N. 7) ritrovamento di Lindoro, diversivi di Isabella nei confronti di
«Viva, viva il Mustafà e suo disorientamento.
flagel delle
donne»

Sistematica l’alternanza fra i proponimenti di carattere


amoroso e il loro scadimento in direzione di situazioni
comiche (fondate su trasformazione, camuffamento, finzione,
disorientamento), e un primo esempio in tal senso si ha
nell’Introduzione. I toni concilianti del coro d’apertura
«Serenate il mesto ciglio» sanciscono una condizione di
minorità delle donne, «nate solamente per servir»; nel
serraglio tale condizione dev’essere accettata anche dalla
reticente Elvira, conscia suo malgrado di non suscitare più
alcun interesse nel consorte. Il bey Mustafà rincara la dose e
sovrabbondando in colorature sin da queste sue prime note,
come spesso capita nelle sezioni lente delle sortite rossiniane,
conferma la sua preminenza e decreta il superamento di
qualsiasi vincolo morale. Segue avversione montante nei
confronti di Elvira («Cara, m’hai rotto il timpano») con
relativa accelerazione del tempo, quindi l’esplosione della
frenetica stretta «Più volubil d’una foglia». Non è più un
semplice battibecco giacché nel testo della stretta si impiegano
la prima o la terza persona senza instaurare un dialogo.12 I
personaggi sembrano attraversati da una scarica elettrica che
quasi per contatto procura loro convulsioni verbali e canore,
velocissime, replicate. Il gusto (elettrizzante) per l’eccesso
porta Rossini a compiere un percorso già intrapreso dall’opera
buffa del secolo precedente, dove però strette finali e
sillabazione rapida non raggiungevano risultati così estremi e
lontani da qualsiasi parvenza di verosimiglianza. Detta in altro
modo, Rossini si impossessa dei personaggi, mentre questi
ultimi ne subiscono l’invadenza deformante: oggetti nelle sue
mani.
Questi avvicendamenti – esplicitazione di desideri e
aspettative e loro repentino stravolgimento di fronte alla
materialità dell’esperienza – proseguono nei restanti numeri. I
toni pastosi e accalorati della cavatina di Lindoro «Languir per
una bella» (nella prima veneziana l’esperto tenore Serafino
Gentili), che lamenta la lontananza da Isabella, sono spazzati
via dal convulso tempo di attacco del duetto successivo,
generato dall’imposizione di Mustafà che lo vorrebbe
ammogliato con la ripudiata Elvira («Se inclinassi a prender
moglie»). Una prospettiva che allarma e nevrotizza Lindoro,
distogliendolo dalle sue malinconie amorose: prende il loro
posto una sillabazione isterica del testo, adottata anche da
Mustafà che con altra disposizione di spirito cerca
animatamente di convincerlo; il legame matrimoniale, prima
vagheggiato, diviene ora uno spauracchio comico. Lo slancio
amoroso di Isabella espresso dalla sua cavatina («Cruda sorte!
amor tiranno!») declina invece in opportunismo: l’accettazione
della vicinanza di Taddeo, spasimante o forse cicisbeo
costretto a fingersi suo zio, e la montatura da lei imbastita nel
finale primo, quando pare voglia acconsentire al
corteggiamento di Mustafà, ne fanno una donna dal
temperamento eminentemente pratico. L’incontro insperato
con Lindoro, che si avvia al connubio forzato con Elvira,
scompagina di nuovo lo scenario emotivo, prima con il più
celebre dei concertati di stupore («Confusi e stupidi incerti
pendono», I,ultima, N. 7; testo in parte modificato per
Rossini), su un ingegnoso ostinato ritmico che congela
l’azione relegandola al piano esclusivamente mentale, poi con
una stretta di carattere rumoristico, «Nella testa ho un
campanello», a partire da versi per lo più nuovi. Di testo, o
versi, in realtà non si può quasi più parlare, e forse nemmeno
di canto, qui ridotto a un parossistico sillabato su onomatopee
mutuate dal linguaggio infantile («dindin», «bumbum», «crà
crà», «tac tà»): una di quelle «Stramberie di Pensieri
d’Argomento di Metro d’Azione» che Rossini richiederà
ancora nel 1815 allo stesso Anelli, in occasione di un progetto
librettistico non attuato.13
In entrambi i momenti gioca un ruolo decisivo la ripetizione
straniante di nuclei ritmico-motivici essenziali (che già
caratterizzava la stretta del finale primo di Tancredi),
recentemente interpretata anche come formalizzazione
musicale di stress post-traumatico, a seguito di mutamenti
storici irreversibili e dell’assenza di certezze; ripetizione che
diviene espressione di una condizione implicitamente
“moderna”, anche nel senso di modelli di percezione rinnovati
rispetto alla tradizione melodrammatica.14 Ma c’è dell’altro. Si
tende a descrivere «Nella testa ho un campanello» come un
momento di follia collettiva; ma sarebbe una follia molto ben
concertata, in quanto ogni personaggio o gruppo di personaggi
per esprimere il proprio sconcerto si attribuisce razionalmente
una qualità sonora specifica (campanello, cannone, cornacchia,
martello), mentre la follia non ha raziocinio per definizione. Il
senso teatrale del passo è più quello di una intromissione
metanarrativa del compositore, che si impossessa dei
personaggi e li converte in oggetti sonori, ulteriore
degradazione della loro corporeità: fine della finzione teatrale
e spazio al puro gioco sonoro. Fine anche delle naturali
pulsioni dei personaggi, ridotti qui ad autonomi e manipolati al
punto che essi non “rappresentano” più loro medesimi, bensì
l’autore. È sicuramente buffo ma non c’è più molto da ridere:
questa alterazione psichica agisce sul senso profondo di un
teatro comico che, portato agli estremi, si appresta ad
allontanarsi definitivamente dai suoi fondamenti illuministi,
che consistevano nella restituzione in forme artistiche e teatrali
delle alchimie della vita sociale. La sostanziale credibilità che
contraddistingueva serve e servi, borghesi e aristocratici,
stranieri e indigeni, professioni e istituzioni è qui demolita e
prosciugata di ogni possibile riferimento morale e sociale.
Questo celebre finale consente quindi di circoscrivere alcune
altre proprietà della comicità rossiniana, soprattutto a
confronto con la precedente intonazione di Luigi Mosca
(1808), che oggi è possibile ascoltare.15 Simili comparazioni,
si dice di solito, non andrebbero mai fatte. In questo caso è
però legittimo, se non altro per la prossimità temporale e
geografica delle due opere (i milanesi ascoltarono anche la
versione rossiniana, nel 1814 al Teatro Re e l’anno successivo
alla Scala). Al di là della disuguale maestria compositiva,
preme rilevare la diversa – anzi, diametralmente opposta –
posizione del compositore rispetto alla propria opera. Mosca
si mantiene estraneo ai suoi personaggi. Sostiene gli attori e li
fa muovere correttamente sulla scena, senza forzarli e senza
imporgli soverchi vincoli tramite la musica, omogenea e
scorrevole (occorre però ricordare che Mosca non ebbe a
disposizione di quel finale le sezioni più stimolanti, approntate
per la Fenice nel 1813). Se vi fu comicità, fu quindi grazie agli
interpreti, lasciati liberi di agire sulla scena. Rossini viceversa
interferisce di prepotenza col palcoscenico e gestisce lui stesso
comicità e personaggi mediante andamenti serrati, effetti
ritmici cronometrici, dinamiche estreme, vocalità intrepida. Il
principio di autorialità che con Rossini transita in direzione del
compositore è dovuto anche alla sua presenza nello spettacolo
e alla regia sonora da lui stesso predisposta per le proprie
opere.
SUGGERIMENTI DI LETTURA

Per una visione complessiva della produzione seria di Rossini


a partire dal Tancredi, TORTORA 1996; vedi anche EMANUELE
1997. In DELLA SETA 2018 si riflette sul modello sociale della
patria potestas e la sua influenza sull’opera; su famiglia e
matrimonio vedi anche BARBAGLI 1996 e LOMBARDI 2008. La
diffusione anche extraoperistica di «Di tanti palpiti» è discussa
in SENICI 2018. La tradizione della Gran Scena è oggetto della
trattazione di MALNATI 2017. In BIANCONI 1994 un’analisi delle
strutture ritmiche impiegate del celebre concertato
dell’Italiana in Algeri; FABBRI 1998 mette a confronto le due
intonazioni del libretto di Anelli in Mosca e Rossini. Sul
comico rossiniano vedi anche GALLARATI 1999b e GALLARATI
1999c. Sul belcanto – origini, evoluzione, esiti rossiniani – i
classici CELLETTI 1968, CELLETTI 1996 e più recentemente
ZEDDA 2013.
DA ASCOLTARE

Tancredi
Ewa Podles (Tancredi), Sumi Jo (Amenaide), Stanford Olsen
(Argirio), Pietro Spagnoli (Orbazzano), Anna Maria di Micco
(Isaura), Lucretia Lendi (Roggiero), Capella Brugensis,
Collegium Instrumentale Brugense, dir. Alberto Zedda, Naxos
1995
La morte di Didone
in Cantatas vol. I, Mariella Devia, Coro Filarmonico e
Orchestra della Scala, dir. Riccardo Chailly, Decca 2015
L’italiana in Algeri
Agnes Baltsa (Isabella), Ruggero Raimondi (Mustafà), Enzo
Dara (Taddeo), Frank Lopardo (Lindoro), Patrizia Pace
(Elvira), Anna Gonda (Zulma), Alessandro Corbelli (Haly),
Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor, Wiener
Philharmoniker, dir. Claudio Abbado, Dg 1989

4. «Tancredi» e «L’Italiana in Algeri»


1 Un esempio di qualche anno successivo: «L’umilissimo Professore G.B.
Scharmann riceverà al di lui negozio di Musica in Venezia, Bocca di Piazza, le
sottoscrizioni di chi vorrà gentilmente onorarlo, per l’associazione della sua nuova
Riduzione in Quintetti, per Flautto, Violini, Viola, e Violoncello: il Tancredi del
celebre Rossini» (Gazzetta privilegiata di Venezia, 30 ottobre 1819, p. 4). Per la
circolazione di riduzioni e arrangiamenti operistici vedi il Catalogo Numerico
Ricordi, dal 1808 al 1870, disponibile anche on-line
(https://www.digitalarchivioricordi.com).
2 CARPANI 1824, pp. 74-75.

3 JACOBS 1988, vol. II p. 445; vol. I pp. 426-427 e p. 434.

4 Gazzetta privilegiata di Venezia, 28 dicembre 1816, p. 2. Per un quadro delle


rappresentazioni rossiniane alla Wiener Hofoper (Staatsoper)JACOBSHAGEN 2015,
pp. 122-124.
5 Andrea Majer deplora «la sostituzione delle donne ai castrati, i quali avevano
almeno l’apparenza d’uomo; laddove nulla può darsi di più ridicolo, che il vedere
delle fanciulle sostenere i personaggi di Giasone, di Pirro, di Orazio,
di Tancredi ec.» (MAJER 1821, p. 167).
6 La cantata fu eseguita al San Benedetto di Venezia il 2 maggio 1818,
protagonista Ester Mombelli, ma la data di composizione è antecedente e risale al
1811 circa.
7 Luci e penombre di Lombardia. Donne ed amori, ville e misteri di Milano e del
Lario, Omarini, Como 1921.
8 AZEVEDO 1864, p. 78.

9 AZEVEDO 1864, pp. 80-82.

10 Cfr. I,V e II,VIII, nel senso di innamorato svenevole. Il libretto tuttavia sembra
giocare un po’ coi ruoli maschili e la loro identità. Il comportamento di Taddeo,
“compagno” d’Isabella e suo amante a tempo perso, è quello che più si attaglia alla
figura storica del cicisbeo: ma Taddeo è basso buffo e questo lo rende poco consono
al ruolo, e Isabella non è ancora sposata. Lindoro, tenore, del cicisbeo innamorato
ha il carattere e il profilo vocale, e Isabella lo ama di amore sincero (il che poteva
accadere anche nei confronti del proprio cicisbeo).
11 Il «Pappataci» è un insetto, ma qui come ruffiano o cornuto, in riferimento a
Mustafà e al suo progetto di rifilare la moglie Elvira a Lindoro. Il Vocabolario della
Crusca (terza edizione, 1691) alla voce “Becco” riporta una occorrenza
nella Clizia di Machiavelli (II,v): «O ella in uno anno diventerà puttana, o ella si
morrà di dolore: ma del primo ne sarai tu d’accordo seco, che, per un becco
pappataci, tu sarai desso!».
12 «[MUSTAFÀ] Più volubil d’una foglia / va il mio [“suo” per Tutti gli altri e il
coro] cor di voglia in voglia / delle donne calpestando / le lusinghe e la beltà».
13 GRLD 1992, p. 93.

14 Cfr. SENICI 2019, pp. 31-53, 127-139, 215-229.

15 Direzione di Brad Cohen, Czech Chamber Soloists Brno, CD Bongiovanni


2275/62, 2004.
5. Nelle secche della memoria
1814

Antonio Basoli, bozzetto per L’Aureliano in Palmira, dalla Collezione di Scene


Teatrali, Bologna, 1820; Milano, Archivio Storico Ricordi

Il rapporto col passato costituisce per il compositore di teatro


una condizione operativa permanente, un presupposto da cui
derivano successi e insuccessi, opere destinate a tramontare e
altre consegnate a un durevole apprezzamento. L’esito delle
scelte effettuate non è assicurato in partenza: tradizione o
innovazione, quando l’una quando l’altra, non sono garanzia
di successo. Rendersi epigoni – ossia inseguire orientamenti
riconoscibili e certificati – diviene dal primo Ottocento in poi
un criterio meno rassicurante di un tempo; gli imprestiti di uno
stesso autore da propria musica sono individuati con maggiore
facilità da recensori benevoli o malevoli, che disponendo di
più spazio iniziano a soffermarsi sul prodotto oltre che
sull’evento. Se uno degli elogi ricorrenti per il compositore
teatrale settecentesco era stata la sua capacità, vera o presunta,
di rinverdire i fasti dell’opera napoletana di inizio secolo – una
sorta di età dell’oro in realtà già poco presente al pubblico
della seconda metà del secolo – all’epoca di Rossini la
giuntura con la tradizione era argomento controverso. Sempre
più difficile per noi discernere quanto gli illustri modelli del
passato incidessero sul successo o insuccesso delle nuove
opere, anche a seguito dei mutevoli contesti politici e sociali –
cambiavano i punti di riferimento e anche il gusto – e di
quell’“accelerazione del tempo” che segna una cesura fra il
tramontato antico regime e il nuovo secolo; dalla Rivoluzione
francese in poi «il futuro che accelera accorcia continuamente
il ricorso al passato».1 Capita nella critica di quegli anni di
imbattersi nell’elogio di Rossini in quanto erede di Cimarosa e
Paisiello, ma è poco credibile che il suo successo dipendesse
da questa sorta di pedigree (piuttosto la sua fama), per altro
sfuggente nella sostanza e più un elemento simbolico di
identità culturale che non altro.
D’altra parte l’opportunità di distinguersi a tutti i costi da
quanto precede ricavandosi uno spazio personale autonomo
viene avvertita in forma attenuata dall’operista del tempo, che
non si confronta con placidi scaffali di libri con cui dialogare a
distanza, ma con un pubblico reattivo e suscettibile. Nel primo
Ottocento inoltre, a effetto del susseguirsi sempre più rapido di
cambiamenti storico-sociali, inizia a prevalere la memoria a
breve termine, funzione essenziale di una nuova percezione
del tempo. In ambito musicale e teatrale la condizione
primaria per l’esercizio di tale memoria fu il consolidamento
del concetto stesso di repertorio; un repertorio fondato sulla
rotazione di titoli favoriti, prevalentemente rossiniani. Si
divenne più propensi a instaurare confronti fra passato recente
e attualità e persino a prefigurarsi cosa ci si dovesse attendere
dal futuro: all’operista, sottoposto al giudizio degli spettatori,
il difficile compito di conciliare l’orizzonte di attesa,
determinato dall’esperienza (ossia dalla memoria), che non
può essere completamente disatteso pena l’insuccesso, con un
tasso di innovazione variabile e soggetto a molteplici
condizioni (argomento, cast, stagione, teatro e contesto
sociale); innovazione che si avvia a essere, con intensità
crescente nel corso del secolo, uno dei requisiti per un’opera
che volesse affermarsi nello scenario corrente, ricco e
diseguale.
La produzione rossiniana negli anni antecedenti alla
Restaurazione è per il suo rapporto col passato in una
condizione di equilibrio precario, almeno finché Rossini – in
realtà assai presto – non diventerà “memoria” di sé medesimo,
autosufficiente e autoreferenziale al punto da lasciar affiorare
nella propria produzione, trasfigurati e fatti propri, gli elementi
di tradizione di cui il pubblico necessitava per sentirsi a suo
agio. Il passato nel Tancredi è un passato in filigrana; l’opera
seria vi appare controluce, rievocata e distanziata, in quello
che si presenta come un mondo a sé stante; nell’Italiana
l’opera più sfrontatamente buffa è portata alle sue estreme e
imprevedibili conseguenze. In altri casi Rossini si trovò invece
a ripercorrere strade già battute senza il distanziamento o
l’energia raggiunti nei titoli precedenti.
Le tre opere rappresentate nelle diverse stagioni del 1814 per
motivi differenti sono accomunate da questa condizione.
Nell’Aureliano in Palmira – rappresentato alla Scala il 26
dicembre 1813 in apertura della stagione di carnevale, forse in
sostituzione di un’opera di Joseph Weigl che non poté aver
luogo a causa della guerra scoppiata fra Francia e Austria – il
librettista Felice Romani rielaborò un soggetto romano
imperiale fra i più sfruttati, ispirandosi da vicino alla Zenobia
in Palmira di Gaetano Sertor, già musicata da Anfossi (1789)
e da Paisiello (1790). Nel Turco in Italia (Milano, Scala, 14
agosto 1814), il solito Romani si ricondusse all’omonimo
libretto di Caterino Mazzolà (Dresda 1788, per la musica di
Franz Seydelmann), dove si intrecciano due filoni di lungo
corso: la turcheria (d’esportazione, giacché siamo a Napoli) e
il metateatro, nelle vicissitudini connesse alla stesura di un
dramma buffo da parte del Poeta. La miscela è ingegnosa ma
spiazzante e la bibliografia rossiniana, a partire da Stendhal, ci
informa che il pubblico del 1814 non apprezzò l’opera,
ritenendola in fin dei conti un’Italiana in tono minore (per
quanto possa essere stato rilevante, Filippo Galli, che
interpretò il principe turco Selim, aveva tenuto a battesimo la
parte di Mustafà). Infine Sigismondo (Venezia, La Fenice, 26
dicembre 1814), l’opera più problematica delle tre e almeno in
prima edizione uno dei pochi fiaschi rossiniani. La diffusione
di soggetti polacchi da circa un ventennio interessava tanto
l’opera francese quanto l’opera italiana; ma la scelta non
premiò il ritorno di Rossini a Venezia, anche se, come spesso
accadeva, l’insuccesso iniziale non impedì che Sigismondo
godesse di una certa circolazione negli anni a venire.
Per i primi due titoli Rossini, all’epoca ventiduenne, si trovò
a incrociare la strada di un quasi esordiente Felice Romani, di
lui poco più anziano (1788-1865), reduce da due rilevanti
affermazioni in opere musicate da Mayr (La rosa bianca e la
rosa rossa, Genova 1813; Medea in Corinto, Napoli 1813), e
grazie agli uffici dell’impresario Francesco Benedetto Ricci,
genovese come Romani, da poco sotto contratto a Milano e
destinato a legare il suo nome a quello dei maggiori
compositori attivi in epoca successiva (Bellini, Donizetti,
Mercadante, Meyerbeer, Pacini, persino Verdi ai suoi
sfortunati esordi come operista buffo in Un giorno di regno,
1840). “Librettista di mestiere”, come è stato definito
accentuandone la professionalità, il prestigio pluridecennale e
il potere contrattuale che ne conseguì, dotato di una
formazione filologica e letteraria che lo spinse alle soglie della
cattedra universitaria, attivo anche come critico musicale e
direttore della Gazzetta piemontese, Romani si produsse nel
teatro musicale serio e buffo, restando in attività fino ai primi
anni cinquanta, nel bel mezzo dell’era verdiana, da cui rimase
tuttavia escluso a favore di librettisti di nuova generazione
come Cammarano, Piave, Somma. Al pari di altri suoi
colleghi, in quegli stessi anni trasse i suoi drammi anche da
fonti estere (Byron, Hugo, Scott); il salto qualitativo risiede
però non tanto nei soggetti prescelti, quanto nella limpida
organizzazione strutturale e poetica, a vantaggio di una pronta
rispondenza musicale. I libretti maturi di Romani rispettano le
convenzioni musicali dell’epoca, pur impiegando una
considerevole varietà di soluzioni metriche (con forte
prevalenza dell’ottonario) e strofiche (con quasi totale
prevalenza di misure strofiche pari, su base due: 2, 4, 6, 8
etc.). Niente è lasciato al caso e al ghiribizzo: il principio
dell’autorialità poetica è adesso subordinato all’efficacia
dell’opera musicata, che concede al librettista la sua parte di
popolarità.
Questa inversione di prospettiva rispetto alla figura e alle
modalità operative del poeta per musica settecentesco,
orgoglioso della propria autonomia, non si realizzò in poco
tempo e il Romani che collaborò con Rossini nel 1813-14 era
ancora un raffazzonatore di libretti preesistenti. Tuttavia
Aureliano in Palmira fu più una riscrittura che una
rivisitazione; se il plot resta grosso modo quello del dramma di
Sertor (probabilmente avendo sottomano la versione di
Venezia 1799), la stesura poetica e la pianificazione formale
vengono totalmente ripensate. Il che non ne fa un dramma di
nuova concezione, anche per la decisiva e ingombrante
presenza nel ruolo di Arsace del primo soprano Giovanni
Battista Velluti (1780-1861), uno degli ultimi castrati ancora in
attività sulle scene teatrali2 e l’unico con cui Rossini ebbe a
collaborare direttamente; la tradizione del dramma per musica
è quindi tenuta in debito conto e l’opera si abbina al Demetrio
e Polibio degli esordi rossiniani piuttosto che al più recente
Tancredi.
Velluti, di origine marchigiana come Rossini, aveva esordito
attorno al 1800 e nel 1814 era ancora nel pieno della sua
carriera con all’attivo oltre una ventina di opere cantate in
prima assoluta (Andreozzi, Tritto, Zingarelli e soprattutto
Giuseppe Nicolini i suoi autori favoriti); dal suo curriculum
emerge una certa propensione per Roma e Napoli, territori da
sempre favorevoli agli evirati cantori. Alla Scala di Milano si
era già esibito nelle stagioni carnevalizie del 1809 e 1810; in
quella del 1809 aveva condiviso il palcoscenico con l’astro
nascente Isabella Colbran, emozionatissima al suo esordio
scaligero come Volunnia nel Coriolano di Nicolini (a Velluti il
ruolo eponimo), ben prima che il destino di lei si legasse a
quello di Rossini.3 Merita una menzione anche la neoclassica
Ifigenia in Aulide di Romanelli per la musica di Vincenzo
Federici (sempre nel 1809) in cui a Velluti spettò il ruolo di
Achille, caro ai castrati di tutte le epoche (stavolta alla Colbran
il personaggio eponimo).
Com’è noto, Velluti e Aureliano non piacquero né al
pubblico né a Rossini, ad onta di un considerevole dispiego di
mezzi nell’allestimento e, una volta tanto, del tempo non
risicato concesso per l’approntamento della partitura (circa tre
mesi). Il Corriere milanese, pochi giorni dopo la prima, pur
con toni concilianti individua le cause dello scarso effetto
dell’opera proprio nella musica di Rossini, che ebbe ricadute
anche sulla resa dei cantanti:
Rossini, in cui stanno riposte tante speranze, ha dormito
questa volta come il buon padre Omero, colla differenza
per altro che il cantor greco riposa di tempo in tempo, e
che il compositor pesarese si è addormentato per lunga
pezza. […] Tancredi in Siracusa è il più bel componimento
musicale dei nostri giorni, Aureliano in Palmira per
riguardo all’effetto, non par opera di Rossini: l’uno mi
rapisce e mi incanta; l’altro mi stanca e mi annoia; ma che
monta? Quand’anche il sonno di Rossini non fosse quel
d’Omero, sarebbe il riposo dell’aquila; questo nobile
ingegno, rinvigorito da nuova lena, ripiglierà quando che
sia i suoi rapidi voli.
Allorquando la musica non va a grado, difficilmente
possono piacere i cantanti. Se Velluti meriti la celebrità che
accompagna il suo nome, aspetto giudicarlo in altra
circostanza. Per ora m’accontenterò d’annunziare, che o
fosse indisposizione di voce, o particolare disgusto, o altro
motivo ch’io ignoro, Velluti non fece maggiore
impressione sull’animo del pubblico di quel che fatto ne
abbia l’ultima delle donzelle palmirene al seguito di
Zenobia.4
Dell’evento abbiamo anche una vivace e sgrammaticata
testimonianza del giovane tenore Giovanni David, reclutato
per la stessa stagione ma in quei giorni convalescente dal
vaiolo; testimonianza forse di parte ma conforme al resoconto
giornalistico per la componente esecutiva:
L’opera scritta dal maestro Rosini non ha fatto niente
incontro, e il secondo atto è stato fischiato mortalmente, i
cantanti il signor Veluti a fatto la figura della seconda
parte, il tenore dicono che ha una bella voce, ma è un vero
salame, la prima donna la Corea si è sostenuta nel aria del
primo atto; queste sono le novità sincere del opera e come
tutti dicono; il ballo a fatto un fanatismo.5
Non sembra che le sfortune dell’opera – per altro relative, date
le numerose repliche nelle settimane a seguire nonché la sua
lunga permanenza nel repertorio6 – dipendessero quindi
soltanto dalla sciagurata prova di un Velluti fuori forma e
troppo ostinato nelle colorature. La vicenda, narrata anche da
Radiciotti, di una ipotetica querelle fra cantante e compositore
a causa del mancato rispetto delle ornamentazioni originali, è
sicuramente un mito, per altro contraddittorio rispetto alle
prerogative della vocalità rossiniana.7 Più probabile, invece,
che la musica e tutto il cast fossero al di sotto delle aspettative,
in particolare il tenore Luigi Mari (Aureliano), che di lì a poco
raccolse i suoi maggiori successi a Venezia e a Lisbona, e il
soprano spagnolo Lorenza Correa (Zenobia), che alla Scala
cantò anche opere di Mozart.
Come pure è falsa l’opinione che l’insuccesso rimediato da
Velluti sia da recepire come un sintomo dell’irreversibile
declino delle voci di castrato. Costante, negli anni successivi,
la presenza di Velluti in area veneta e altrove; uno dei suoi
maggiori successi fu il ruolo di Armando d’Orville nel
Crociato in Egitto di Meyerbeer alla Fenice nel 1824, poi
riproposto altrove. Già apprezzato a Monaco, Vienna e San
Pietroburgo, nel 1825 Velluti si esibì a fianco di una
giovanissima Maria Malibran di fronte al pubblico londinese,
che da tempo non ascoltava castrati in scena, rinverdendone
per un’ultima volta i fasti; vi ripropose anche Aureliano in
Palmira. È vero d’altra parte che il ruolo di Arsace dopo la
prima scaligera divenne appannaggio dei migliori contralti in
attività. Ne furono interpreti, nei primi anni, la Pisaroni (Nord
Italia), Carolina Bassi (area padana), la Malanotte (Toscana). Il
rapido deterioramento dell’opera, sintomo anche della sua
vulnerabilità, fu notato da alcuni recensori: sulla Gazzetta
privilegiata di Venezia, in occasione di una ripresa al Teatro
San Luca nel 1820, si avvisarono i lettori che «tanti
cambiamenti e tante sostituzioni sono state fatte, che appena
rimangono i nomi ed alcuni dei pezzi dell’originale» (11
settembre 1820, p. 3). Evidentemente chi scrisse quelle parole
aveva o fingeva memoria della configurazione originale di
Aureliano, che pur menomato lasciò le scene – perlopiù scene
minori – soltanto nei primi anni trenta, quando l’attività
teatrale di Rossini era da poco cessata.
La tessitura del dramma non brillava per originalità, ma non
era questa una prerogativa del genere serio, specie in presenza
di evidenti implicazioni politico-allegoriche. Vi si ritrova il
dispositivo drammatico zeniano e metastasiano (Lucio Vero,
Adriano in Siria), su labili fondamenti storici, del duce romano
invaghito della regina straniera sua nemica, la quale si è però
già data a un principe orientale (qui Arsace). Dopo svariati
tentativi di dividere con la forza la coppia a lui ostile,
Aureliano con magnanimità unisce i due amanti e guadagna un
vantaggio politico, rendendoli suoi alleati. Nella Milano del
1814, al crepuscolo del Regno d’Italia congiunto alla
dominazione napoleonica, un simile argomento assumeva un
valore emblematico, analogo a quello di tanti drammi per
musica concepiti nel passato per altre sovranità imperiali e
fondati sulla romanità; fu forse un soggetto superato ma non
inattuale, al pari della ripresa del fortunato Quinto Fabio di
Nicolini in quella stessa stagione, con Velluti ovviamente nel
ruolo del generale e console romano (a Giovanni David la
parte del dittatore Lucio Papirio, alla Correa quello di Emilia).
Alcuni momenti dell’opera rossiniana – quasi del tutto priva
di autoimprestiti grazie al tempo concesso all’autore per la
composizione – meritano di essere conosciuti e
contestualizzati. La scena di prigione con cui inizia il finale
primo (I,XII, N. 6) rinvia a modelli settecenteschi che Romani e
Rossini ben conoscevano (per esempio il Giulio Sabino di
Giovannini/Sarti, 1781): un’ingiusta segregazione prelude
all’incontro amoroso e poi alla stretta finale concitata con
partecipazione dell’antagonista. Al nostalgico cantabile di
Arsace «Chi sa dirmi, o mia speranza», impreziosito da
languenti figurazioni ai fiati, trasposizione sonora della
solitudine del personaggio, seguono l’incontro con Zenobia e
annesso duetto («Va’: m’abbandona, e serba»), quindi la scena
a tre con Aureliano e infine la stretta con coro. Il tenore
impiegato come antagonista rispetto a una coppia di soprani
concordanti negli affetti, in terzetti di questo tipo – lo schema
è replicato nel secondo atto, II,XIII-XIV, N. 11 – costituisce la
prosecuzione di una tradizione consueta nell’opera seria di
secondo Settecento, quando il tenore iniziò avere un ruolo
progressivamente più rilevante e fu messo a reagire con voci
acute di diversa tipologia. Il testo di Romani e, nell’a tre,
l’intonazione di Rossini («Ah! sento che assai / lo sdegno
frenai» canta Aureliano) attenuano però la portata dello
scontro, che lascia spazio alla commozione e a un’intima
solidarietà; la disposizione conciliante ed eufonica delle parti
vocali preannunzia l’epilogo lieto, come si conviene a quel
genere di spettacolo.
Nella stretta che conclude il primo atto, a partire da «Questo
ultimo addio» (I,xv, N. 6) si riascolta in funzione di
accompagnamento orchestrale il crescendo conclusivo della
sinfonia d’apertura, uno dei brani strumentali più celebri
dell’autore, recuperato con lievi modifiche anche
nell’Elisabetta regina d’Inghilterra (1815), dove fra l’altro si
verifica la stessa inclusione del crescendo nel finale primo, e
nel Barbiere di Siviglia (1816). L’inserimento di elementi della
sinfonia nel corpo del dramma è palese anche nel recitativo
strumentato di Arsace fra i pastori in II,VI (stavolta si tratta
dell’attacco della sinfonia), compreso nella Gran Scena del
castrato (II,V-VIII, N. 9, ed è sintomatico che Romani abbia
subito acquisito quel ritrovato formale, la Gran Scena,
stabilitasi di recente). La sinfonia dell’Aureliano,
successivamente sganciata dalla sua posizione originaria,
nasceva quindi integrata all’opera (a quell’opera), secondo un
procedimento tentato di quando in quando anche nel secolo
precedente (Gluck, Mozart) a favore di una concezione del
dramma più unitaria rispetto a quella comunemente praticata
nei teatri italiani, ove la sinfonia segnala solo l’inizio dello
spettacolo con contenuti musicali del tutto autonomi. Indizi,
questi, dell’impegno profuso per un’opera e un’occasione
percepite come rilevanti.
Un cenno anche sul duetto di Aureliano e Zenobia «Se
libertà t’è cara» (II,III, N. 8), che reca con sé un’aura profetica.
Il testo verbale, letto separatamente dalla musica, è aspro e
doloroso: Aureliano fa leva sul suo potere di vita e di morte
per convincere Zenobia ad abbandonare Arsace. Il canto
simultaneo a «(Prima costanza mia)», carezzevole e di
ammirevole eleganza formale, come in altri momenti
dell’opera tradisce il rispetto e la considerazione reciproca dei
due personaggi. Sono pur sempre tenore e soprano, ovvero il
nucleo generatore di tante situazioni amorose dell’opera nei
decenni a seguire; ma, data l’attribuzione del ruolo di primo
uomo al castrato, un loro eventuale connubio non può aver
luogo e resta confinato all’astrattezza della dimensione canora.
In questo senso la presenza di Velluti è davvero crepuscolare.
Alcune recensioni colsero pienamente la matrice neoclassica
dell’opera. Dopo una messinscena al Teatro della Pergola,
sulla Gazzetta di Firenze (23 maggio 1816, p. 4) il nome di
Rossini, per i «giudiziosi chiaroscuri della parte
instrumentale», la «sublimità di stile», la «regolarità di
condotta», la «novità di pensieri», viene affiancato a quello di
Händel, Gluck e Haydn. Molto apprezzati stavolta gli
interpreti, in particolare Giuseppina Ronzi nel ruolo di
Zenobia; lo «stile di canto niente “vellutato”» contrassegna,
con un umoristico doppio senso, l’avvenuto passaggio di
testimone (il ruolo di Arsace andò alla Malanotte).
Mentre le fortunate riprese di Tancredi e dell’Italiana in Algeri
al milanese Teatro Re (dal nome dell’impresario Carlo Re,
inaugurato giusto nel 1813) lo risarcivano dello scarso
successo scaligero di Aureliano in Palmira, Rossini trovava
altro genere di consolazione nell’alcova di Amelia Canziani
(1784-1848), aristocratica milanese dal 1805 vedova del conte
Francesco Ludovico Barbiano di Belgioioso d’Este e già
madre di due figli. Il 17 febbraio 1814 con una buona dose di
autoironia confessava la relazione alla madre: «Io stò bene
Inamorato come un as’asino ma questo mi rende felice e in
conseguenza lo dovete essere voi pure».8 L’8 giugno lo
troviamo in villeggiatura nella secentesca villa Belgioioso
Brivio Sforza a Merate, in Brianza: «Eccomi in Campagna in
ottima Salute vicino alla mia cara morosa e scrivendo musica
per Genova veramente passo una vita beata»; in quella stessa
occasione pianifica anche un incontro fra l’amante, presto in
viaggio per Firenze, e la madre.9 Alla Belgioioso Rossini
dedica la cantata da camera a due voci Egle ed Irene (1814,
conosciuta anche come «Non posso, oh Dio, resistere») e fa
dono dell’autografo del Tancredi.
Già nel gennaio 1814 Rossini aveva però raggiunto Genova,
allora nell’impero napoleonico francese, con l’incarico di
comporre la seconda opera seria di carnevale per il teatro
Sant’Agostino. Vi fu un rinvio e nell’occasione il compositore
coordinò una ripresa del Tancredi (29 gennaio). Gli
sconvolgimenti politici della primavera del 1814 con
l’abdicazione di Napoleone e il suo esilio all’Elba (6 aprile),
l’occupazione di Genova da parte delle truppe inglesi, la
rivoluzione del 20 aprile che a Milano decretò la fine del
Regno d’Italia e aprì le porte agli austriaci, fecero naufragare il
progetto cui a giugno, come si è visto, Rossini ancora
lavorava. Dall’ingaggio alla Scala per la stagione estiva, quella
di minori pretese, ebbe origine Il turco in Italia, scritto in
condizioni di emergenza e con l’aiuto di un collaboratore
restato ignoto, utilizzato non solo per i recitativi semplici e per
l’aria minore di Albazar (N. 12) ma addirittura per due brani
rilevanti come la cavatina di Don Geronio (N. 2) e l’intero
finale ultimo; questo collaboratore fu a lungo identificato in
Vincenzo Lavigna, futuro maestro di Verdi, ipotesi suggestiva
ma ormai screditata sulla base di confronti sugli autografi.
Il successo fu incerto e dopo alcune recite l’opera venne tolta
dal cartellone. Una recensione apparsa sul Corriere delle dame
registra le perplessità del pubblico attribuendole agli
imparentamenti con sue precedenti composizioni di successo:
La musica di quest’opera buffa è anzi tanto grande, quanto
lo è la celebrità del maestro; poiché egli ha in essa come in
suo centro rammassate le sparse bellezze e giojelli metrici,
che trovansi dispersi nella Italiana in Algeri, nella Pietra
del paragone, ed in altre opere scritte da questo bravo e
giovane compositore. Ed in ciò fare, il sig. Rossini ha forse
considerato che essendo la poesia di questo dramma un
transunto di rancio libretto, scritto a Dresda per mettere in
ridicolo i costumi degli amanti e de’ mariti italiani; così
egli ha voluto folleggiare con se medesimo, facendo un po’
il pazzo amoroso colle bellezze delle precedenti sue
composizioni. L’Italiana in Algeri aveva bisogno di un
marito; ed il fecondo ingegno del poeta e del maestro han
servito da testimoni a maritarla col Turco in Italia.10
Il giudizio del giornalista è poco limpido e sembra vertere
sulla scoperta di imprestiti che in realtà, nel Turco, quasi non
ci sono, trattandosi di opera scritta per buona parte ex novo.
Ciò che la recensione conferma altro non è che l’identità del
linguaggio rossiniano, evidente anche in assenza di imprestiti,
che dava adito ora a elogi, per senso di appartenenza a un
codice teatrale condiviso, ora a equivoci e ambiguità. Una
peculiarità dello stile rossiniano consisteva, si è visto, nel riuso
anche trasversale di modelli ritmici e melodici, a fronte di
tipologie formali che andavano compattandosi rispetto alle
opzioni compositive praticate dai predecessori (da Mozart a
Mayr); la resa teatrale era garantita proprio dalla
riconoscibilità di una stessa mano. Nella valutazione di simili
giudizi critici occorre quindi tener conto che l’ascoltatore
dell’epoca poteva avere ancora presente un più antico modello
d’opera, costituito da pezzi chiusi diversificati anche nella
dimensione formale e stilistica, quando Rossini costruisce il
proprio linguaggio su criteri inflessibilmente economici.
Non era Il turco un’opera di effetto immediato neppure nella
sua fonte settecentesca e questo influì sull’esito delle prime
messinscene. L’impianto del libretto di Romani, che si servì
del testo di Mazzolà più di quanto non avesse fatto con quello
di Sertor per Aureliano in Palmira, è a tratti laborioso.
L’attenzione dello spettatore viene continuamente deviata dalle
vicende amorose dei protagonisti alla figura del poeta
Prosdocimo, il quale, intento a imbastire il soggetto di un
dramma, scruta gli altri personaggi e interagisce con essi,
orientandone i comportamenti (in questo non mancano le
affinità col Don Alfonso mozartiano). Il metateatro era di casa
nel Settecento buffo, ma nell’Ottocento si presenta come un
artefatto poco in linea col gusto corrente; e fu questo un altro
degli elementi che resero meno fluida la recezione del Turco in
Italia, anche negli anni successivi alla prima, e discordante il
giudizio critico. L’elemento turchesco – o a tratti zingaresco
per la presenza della gitana Zaida, astrologa e già amante di
Selim da lui abbandonata – non è a dispetto del titolo il fulcro
dell’azione, né lo diviene il confronto umoristico fra culture, in
passato indirizzato a far risaltare le virtù e i limiti del “turco
generoso”; l’esotismo introduce piuttosto un elemento di
imprevedibilità che rompe il fragile equilibrio della bizzarra
coppia Geronio e Fiorilla, maturo e pavido lui, giovane
inquieta e scapestrata lei (nel libretto originale la si definisce
con una certa ironia «donna capricciosa, ma onesta»).

Luigi Rados, ritratto di Giovan Battista Velluti; Milano, Archivio Storico Ricordi

Rispetto all’Italiana in Algeri, oltre all’elemento distintivo del


gioco metateatrale, vi sono svariate situazioni invertite con
consapevole simmetria, oltre all’ambientazione (Napoli, non
un paese musulmano); questi fattori rendono incomprensibile
come Il turco possa essere stato a lungo ritenuto, anche dalla
critica, una pallida copia dell’opera precedente. Se Isabella
sfruttava la sua avvenenza per illudere Mustafà e recuperare
Lindoro, riuscendo a conseguire i suoi proponimenti, Fiorilla
aspira a essere infedele e se ne vanta («Non si dà follia
maggiore / dell’amare un solo oggetto», I,V,); di Selim si
invaghisce davvero, come lui di lei, e per averlo intraprende
un duello amoroso con Zaida, che però, dopo peripezie e
travestimenti, risulterà vincitrice. Solo questa circostanza, e la
minaccia del consorte Geronio, su suggerimento di
Prosdocimo, di rispedirla dai genitori, con conseguente perdita
della dote e dell’onore, la fa recedere dai suoi propositi di
infedeltà. L’accomodamento finale ci riporta a tante unioni
forzate dalla convenienza dell’opera buffa settecentesca. Selim
esercita per suo conto una sorta di turismo sessuale in un’Italia
che reputa generosa e accondiscendente, ma alla fine ringrazia
e si riprende di buon grado la zingara Zaida; Mustafà invece
tornava dalla moglie Elvira sbeffeggiato e deluso. Il Lindoro
dell’Italiana è un innamorato debole e pavido ma
sostanzialmente sincero (quindi tenore); Geronio è invece solo
«un marito scimunito» (e perciò basso buffo; lo cantò Luigi
Pacini, già coinvolto nell’Occasione fa il ladro, Venezia
1812). In entrambe le opere si allude alla condizione del
cavalier servente, in un’epoca in cui il cicisbeismo, legato alla
cultura aristocratica del Settecento, si avviava al definitivo
tramonto. Ma se Taddeo (secondo basso buffo) era stato
veicolo di comicità anche greve, Don Narciso è un tenore
sentimentale innamorato di Fiorilla (più simile a Lindoro
quindi). Alla prima lo interpretò Giovanni David, che Rossini
ritroverà a Napoli; vestì i panni di Fiorilla Francesca Maffei
Festa (1778-1835), dopo una lunga militanza italiana di ritorno
da Parigi, dove aveva cantato in opere di Cimarosa, Paer,
Pavesi.
Le migliori pagine della musicazione rossiniana sono i pezzi
d’assieme, duetti e concertati. Ve n’è in abbondanza degli uni
e degli altri, secondo una tendenza unanime del teatro di primo
Ottocento. Il primo atto oltre all’introduzione (N. 1) conta un
duetto (N. 6), un terzetto (N. 4), un quartetto (N. 5) e il finale
(N. 7); ma anche le tre cavatine di Geronio (N. 2), Fiorilla e
Selim (N. 3) finiscono per saldarsi a situazioni di assieme, in
questi ultimi due casi generando uno pseudoduetto. Il secondo
atto presenta una cavatina con coro (N. 9), due duetti (N. 8 e
N. 10), un quintetto in maschera (N. 14, pagina
apprezzatissima all’epoca: sono note sue repliche in corso di
spettacolo), un coro (N. 13), un’aria con pertichino e coro
(N. 15), il finale (N. 16); le due arie pure e semplici sono
destinate a seconde parti (NN. 11-12). Nell’opera buffa la
comicità è quasi sempre prodotta dall’interazione dei
personaggi, a maggior ragione in un dramma in cui gli intrecci
sentimentali e le condizioni sociali appaiono così articolate
(nonché multiple: sia Fiorilla sia Selim intrecciano più legami
amorosi contemporaneamente).
La cavatina di Fiorilla (la già citata «Non si dà follia
maggiore») cui fa seguito il duettino con Selim («Cara Italia,
alfin ti miro», I,VI) disattende l’approfondimento della
dimensione individuale a vantaggio di una reciproca
seduzione, istantanea e superficialissima (N. 3). Cessata la
presentazione di sé medesimi – breve, in quanto non c’è molto
da conoscere – l’incontro sancisce nella stretta finale una
raggiunta intesa («Cara mano al sen ti premo») ma anche la
sostanziale vacuità della medesima («Non è poi così difficile
questi turchi [Selim: «queste donne»] a conquistar»).
Ovviamente non c’è parvenza di amore; già corroso
dall’interno (Geronio ha appena appreso dal responso degli
zingari che egli continuerà a essere «sciocco e gonzo»),
l’istituto matrimoniale vacilla di fronte alla curiosità destata in
Fiorilla dal principe esotico. Il piano tonale coeso, predisposto
per questa successione di eventi, dimostra che Rossini aveva
concepito il tutto in un solo blocco. Nel celebre successivo
terzetto (I,VIII, «Un marito scimunito!», N. 4) si intersecano i
diversi piani drammatici dell’opera e vengono a confrontarsi
lo scorno subito da Geronio, che ha sorpreso la moglie in
compagnia del turco, il segreto turbamento di Narciso,
cicisbeo sentimentale che vede messa a repentaglio la sua
liaison con Fiorilla, e il compiacimento del Poeta che ha
finalmente individuato il soggetto giusto per il suo dramma.
Attraversa il brano una formula melodica ricorrente, sorridente
e aggraziata (allusivamente ricavata dal motto «Così fan
tutte!» che Don Alfonso scandisce nel terzetto dell’opera
mozartiana, andata scena alla Scala nel periodo della
gestazione del Turco), che con superiore distacco getta un velo
di ironia sulla situazione, fino all’improvvisa e precipitosa
stretta finale. Come spesso avviene nelle opere buffe del
Pesarese, lo spettatore è catturato dall’abilissima conduzione
dei pezzi chiusi il cui interesse musicale prevale rispetto ai
contenuti strettamente drammatici; i personaggi si rendono
semplici intermediari dell’autore perdendo credibilità, ed è
questo uno dei tratti sostanziali del comico rossiniano.
In alcuni altri casi spetta invece alla forma musicale
garantire evidenza comica a quanto succede in scena. La
struttura del duetto di Fiorilla e Geronio in I,XIII (N. 6)
rispecchia il repentino cambiamento di umore dei personaggi e
il ribaltamento nel corso del brano delle rispettive posizioni di
forza. Lo schema adottato prevede l’impiego di motivi identici
per frangenti opposti: non vi si applicano i princìpi rettilinei
della “solita forma”, bensì una sorta di forma ternaria con
ripresa e cabaletta finale (A | B | A’C), meno articolata ma
efficace, secondo questa logica:

PERSONAGGI ALCUNI VERSI DEL MUSICA CONTENUTO DRAMMATICO


LIBRETTO

GERONIO Per piacere Allegro 1 Azioni inquisitorie di Geronio


alla signora Sol nei confronti di Fiorilla e
che ho da far progressivo vantaggio di lui
gruppo di
vorrei sapere.
motivi A

Alle corte: in
casa mia
non vo’ turchi
né italiani;

FIORILLA No, mia vita, Andantino 2 Supplica di Fiorilla, progressivo


GERONIO mio tesoro; Mi convincimento di Geronio
se vi adoro bemolle
ognun lo sa.
B
Voi crudel, mi
fate oltraggio?

No, Fiorilla,
v’amo anch’io

FIORILLA Ed osate Allegro 3 Sdegno simulato e inversione


GERONIO minacciarmi! Sol delle parti a vantaggio di Fiorilla
Maltrattarmi!
FIORILLA A’
spaventarmi!
Perdonate…
Mi lasciate.

FIORILLA (Con marito di stesso 4 Sottomissione di Geronio e


GERONIO tal fatta tempo tacita accettazione dei tradimenti
ecco qui come Sol
si fa).
C
(Me meschino!) (cabaletta)
Ah! No, ben
mio…
(Cosa ho fatto!)
In pace io
torno.

Si ascolta la stessa musica di sfondo (gruppo motivico A-A’)


quando Geronio attacca Fiorilla (1) e quando a lei si arrende
(3) e lo scambio motivico rimarca lo spessore pressoché nullo
di lui e la prevalenza di lei nei rapporti di coppia, sancita dalla
cabaletta bipartita finale. Il procedimento sottolinea anche
l’efficacia della finzione e della persuasione ipocrita (2, grosso
modo al centro del brano), di casa nell’opera buffa, dove non
si esita a mentire per acquisire un vantaggio nel quadro del
vincolo matrimoniale.
Non è però una vittoria femminile, bensì una sconfitta per
entrambi i contendenti. Il recitativo strumentato e aria di
Fiorilla «Squallida veste e bruna» (II,XVI), preceduto dalla
lettura della missiva con cui Geronio mette alla porta la
moglie, ripristina infatti una sorta di equilibrio mediante una
scena patetica che suscita il ricordo dell’opera seria. Fiorilla
non canta in solitudine ma alla presenza di un coro
moraleggiante e impassibile che le rimprovera la sua condotta.
Prosdocimo, sempre più soddisfatto del suo dramma, vi funge
da pertichino: il piano comico si insinua così nel registro
patetico e lo indebolisce dall’interno. Un po’ come avviene in
Così fan tutte, il coro gnomico che chiude il finale secondo
blandisce il pubblico («… lieve è l’error, / se sorge da quello /
più bello l’amor»), introducendo una morale che non deve né
può convincere nessuno (Fiorilla torna dal marito solo perché
Selim le ha preferito Zaida).
Ebbe le sue ragioni, Massimo Mila, nel definire Il turco in
Italia «manifesto di dolce vita» riferendosi all’esuberanza ma
anche al vuoto interiore che caratterizzarono quella stagione
del cinema e della cultura italiana, quando per l’appunto si
iniziò ad apprezzare nuovamente quest’opera riuscita a metà.11
Quale obiettivo esattamente si prefiggessero Romani e Rossini
resta poco chiaro; nella loro crepuscolare e un po’ bizzarra
ricognizione su temi e generi diversi (turcheria, commedia
d’intrigo, metateatro), e intrecciando piani comici sfasati –
turco in vacanza, moglie astuta e marito credulone, zingara,
poeta di teatro, cicisbeo – si recuperano amplificandoli alcuni
contenuti di fondo dell’opera buffa, quali l’incerta
corrispondenza fra sentimento e vincoli sociali: il solo a
provare amore sincero è il cicisbeo, mentre Fiorilla e Geronio,
che languidamente nel finale si dichiarano «vite» e «olmo»
l’una per l’altro, sono irrisi dal poeta che si serve di loro per
sollecitare la propria vena comica. L’unione esotica di Selim e
Zaida, ricongiunti dopo essere stati messi alla prova
dall’ingerenza di Fiorilla, è alla fin fine anche l’elemento più
esogeno in un quadro tutto occidentale di legami di pura
opportunità.
Fra insuccessi e successi di stima, la frequentazione milanese
degli anni 1812-14 consentì a Rossini anche di intessere i
primi contatti con Giovanni Ricordi, ex copista intento a
raccogliere manoscritti musicali da pubblicare presso la
propria casa editrice, fondata nel 1808. Qualche decennio più
oltre la ditta Ricordi programmò un’edizione di opere
rossiniane ridotte per canto e pianoforte che l’anziano Rossini
accolse con diffidenza, temendo che i suoi segreti di bottega –
fra cui le trasmigrazioni di qualche genere da un’opera
all’altra – potessero risaltare con maggiore evidenza che non al
semplice ascolto:
L’edizione da voi intrapresa darà luogo (con fondamento) a
molte critiche, poiché si troveranno in diverse opere gli
stessi pezzi di musica: il tempo e il denaro che mi si
accordava per comporre era sì omeopatico, che appena
avevo io il tempo di leggere la così detta poesia da
musicare: la sola sussistenza de’ miei dilettissimi genitori e
poveri parenti mi stava a cuore…12
Se a teatro l’identificazione del “già sentito” poteva costituire
un vantaggio piuttosto che un danno, la testualizzazione degli
autoimprestiti assumeva un valore confirmatorio rischioso
soprattutto agli occhi della critica specializzata. E a
prescindere dalla excusatio rossiniana, piuttosto goffa (il
mantenimento dei genitori che rendeva necessario un impegno
professionale a getto continuo), monumentalizzare e
cristallizzare a stampa il proprio lavoro di un tempo, lui così
avvezzo all’estemporaneità, al guizzo creativo dell’ultimo
minuto e alle soluzioni di ripiego, dovette sembrargli
un’operazione disturbante, estranea alla propria personalità e
al proprio metodo operativo, che ebbe nel palcoscenico e nel
pubblico in sala il suo baricentro.
Pubblico che gli sfuggì all’ultima sua prima veneziana
antecedente al trasferimento a Napoli, quel Sigismondo dato
alla Fenice per il carnevale 1815 (26 dicembre 1814) da
sempre annoverato fra gli insuccessi rossiniani e riconosciuto
come tale con sardonica autoironia dal compositore, che ne
recuperò svariati brani in lavori futuri. L’opera, montata forse
utilizzando pagine composte per il dramma genovese mai
ultimato, si avvalse di un libretto dalla genesi singolare,
riportata alla luce da Marco Beghelli. Giuseppe Maria Foppa,
di cui Rossini aveva già musicato tre farse anni prima, imbastì
il dramma avvalendosi di un tòpos narrativo che, per il tramite
della novella di Griselda con cui si chiude il Decameron di
Boccaccio, guadagnò la sua massima notorietà e gli esiti
teatrali più durevoli. Foppa aveva seguito lo stesso modello in
due libretti antecedenti, L’inganno felice (per Rossini, Venezia
1812) e La donna selvaggia (dramma eroicomico per Carlo
Coccia, Venezia 1813). Il tema dell’“innocente perseguitata”
possiede un certo grado di universalità nelle culture di antico
regime ed è attestato da numerosissime fonti letterarie
medievali e moderne, con ripetute contaminazioni (Petrarca,
Chaucer, Boccaccio, Ariosto, Zeno e altri). Un marito
altolocato, raggirato da un traditore per proprio personale
vantaggio, si convince dell’infedeltà della consorte che viene
condannata a morte o bandita; salvata da un benefattore, ella
vivrà sotto mentite spoglie e lontana da tutti fino al momento
in cui potrà rivedere il marito e dimostrarsi innocente a danno
del traditore che le aveva procurato l’ingiusta punizione.
Nell’Inganno felice, farsa insolitamente malinconica, la triste
sorte tocca a Isabella, moglie del duca Bertrando.
Abbandonata alla mercé delle onde, è salvata dal minatore
Tarabotto che propizia il ricongiungimento della coppia.
Simile successione di eventi è presente anche nella Donna
selvaggia, a sua volta rielaborazione di un dramma tragico in
cinque atti dello stesso Foppa intitolato Matilde, ossia La
donna selvaggia, andato in scena al Sant’Angelo di Venezia
nel 1800 e stampato più volte negli anni seguenti. Ne fu tratto
un ballo pantomimico (autore del programma lo stesso Foppa),
al San Benedetto per la Fiera dell’Ascensione del 1800 e poi
circolante fino al 1810 circa; altri balli furono composti sullo
stesso tema. Rispetto all’Inganno felice, la vicenda del
dramma ha una cornice storica meglio individuata; il ruolo del
marito caduto in errore passa a Ildeprando, duca longobardo di
Spoleto dal 773 al 778. Foppa si avvalse degli Annali d’Italia
di Lodovico Antonio Muratori ma la sua ricostruzione storica
si limita al nome del duca (traballante la collocazione
temporale, nel dramma data attorno al 1200, nel libretto per
Coccia attorno al 1300, in ogni caso mai quella giusta, né ha
riscontri la vicenda attinente alla consorte). Il passaggio dalla
tragedia al dramma eroicomico per Coccia, con la coppia
Marcolini-Galli, indusse Foppa ad aggiungere un personaggio
buffo secondo le tendenze dell’opera semiseria. Ildebrando
viene a sapere dell’inganno già nel finale primo; il secondo
atto è destinato al commovente ritrovarsi degli sposi.
L’opera di Coccia ottenne successo; sul Giornale
Dipartimentale dell’Adriatico del 26 giugno 1813, proprio
sulla base della notorietà del tema trattato, furono mossi elogi
al dramma, che «non potea aver diversa sorte nel nuovo
aspetto in cui appare adesso». Ciò valse d’incoraggiamento per
Foppa, che nel 1814 adattò lo stesso impianto narrativo a un
“nuovo” soggetto drammatico ispirato stavolta alla storia
polacca, guardando più all’Inganno felice che alla Donna
selvaggia. Nacque così il Sigismondo. La rievocazione storica
è ugualmente vaga: nella dinastia reale polacca degli Jagelloni
i Sigismondo furono due con l’aggiunta di Sigismondo III
Vasa, ma non si registra alcun matrimonio con una figlia di un
Re di Boemia (qui Ulderico, pure non attestato), né alcun
Sigismondo impazzì per aver condannato a morte la moglie
(qui Aldimira). Può essere forse colto qualche riferimento alla
figura di Sigismondo II Augusto (1520-1572) e al suo doloroso
matrimonio con la lituana Barbara Radziwiłł (1520-1551),
osteggiato dalla corte fino al probabile omicidio di lei per
avvelenamento; ma la tessitura drammatica di Foppa è diversa
e confezionata nell’intento di piegare gli elementi storici
superstiti alla rappresentazione dell’“innocenza riconosciuta”
di una moglie ingiustamente accusata.
Parafrasando una formula di rito nella letteratura per il
teatro: «ciò che non è vero, è verosimile». Al librettista non
preme qui la drammatizzazione di fatti realmente avvenuti,
bensì la prosecuzione di un congegno drammatico funzionale,
secondo un principio di continuità più che di rinnovamento. Al
di là dell’oggettiva attualità della storia polacca – le tre
spartizioni della Polonia fra Austria, Russia e Prussia del 1772,
1793, 1795 e la scomparsa dello stato dalle carte geografiche
avevano destato vasta eco internazionale – ci si accontenta di
una generica “tinta” per trovare ospitalità in una ben
collaudata tradizione francese e italiana, iniziata con la
Lodoïska di Cherubini (Parigi 1791) e che giungerà ad
annoverare oltre una quarantina di titoli fino ai margini della
produzione verdiana (Un giorno di regno, noto anche come Il
finto Stanislao, 1840). Lo stesso Rossini avrà modo di
musicare a Roma, nel 1815, un altro soggetto di quella filiera,
Torvaldo e Dorliska su testo di Cesare Sterbini, opera
semiseria; il libretto è ambientato «in una provincia del Nord
dell’Europa» senza ulteriori precisazioni: ad avvicinarci al
contesto polacco è stavolta la fonte, un episodio del romanzo
libertino Les amours du chevalier de Faublas di Jean-Baptiste
Louvet de Couvray, pubblicato in tre parti fra 1787 e 1790, da
cui era stato tratto anche il soggetto di Lodoïska, musicata fra
gli altri da Cherubini e da Mayr (1796).
Tornando a Sigismondo e date queste premesse, si tratta
quindi, qui come in altri drammi di quel taglio, di soggetto
storico? Sì, se il concetto di “storia” lo si intende alla maniera
antica, come Historia di vicende esemplari, gnomiche, dotate
di un evidente contenuto morale (ancorché quasi
immaginarie). No, qualora per “storia” si alluda a un processo
storico che veicoli cambiamenti di mentalità o un mutato
sfondo sociale; ovvero una storia in cui, con Koselleck, sia in
gioco «la storia stessa e non una storia di qualcosa», che è
«formulazione moderna, propria dell’epoca moderna. Solo con
questo passaggio, che precede di poco la Rivoluzione francese,
l’antico termine in uso si trasforma in un concetto centrale del
linguaggio politico e sociale».13 Nel Sigismondo le vicende
sono autonome rispetto alla cornice che le inquadra; le
motivazioni dei personaggi si riconducono alla nozione
settecentesca di sentimento ed essi non si fanno portatori di
idee che attengano a un piano concretamente storico. Dopo
alcune avvisaglie d’epoca rivoluzionaria, per questo ulteriore
passaggio occorre attendere l’opera romantica italiana, oppure
il francese grand opéra (solo in parte il grand opéra
rossiniano, come si vedrà). I personaggi di quella pseudo-
storia che aveva animato i teatri di antico regime per secoli
non erano certo nella posizione di cogliere la lacerante frattura
fra “esperienza” e “attesa” quale si addice a chi si riconosca
parte di un mondo in rapido mutamento, in cui «il tempo viene
esperito in una pluralità di strati, non più come dato naturale
ma come modo di compiersi e risultato dell’agire umano».14
Di qui, anche nel Sigismondo, la replica di dinamiche e
congegni drammatici preesistenti. Cambia la cornice, non la
concezione del dramma.
La ripetizione/variazione di uno stesso tema, rassicurante da
un lato, poteva trasformarsi, si è visto, in un’arma a doppio
taglio al cospetto di un recensore malevolo. Luigi Prividali,
librettista in proprio (era stato anche l’autore de L’occasione fa
il ladro per Rossini) e collaboratore di diverse testate, mosso
da invidia professionale nei confronti di Foppa, portò allo
scoperto le affinità di contenuto fra quei drammi e confezionò
una stroncatura esemplare di quello che per lui fu solo un
misero aborto, dato prima in burletta a S. Moisè sotto il
bizzarro nome dell’Inganno felice, poi riprodotto in opera
buffa a S. Benedetto col titolo di Selvaggia, ed ora
ricomparso per nuova fatalità alla Fenice in costume
polacco con una genealogia di dinastie tutte nuove, non
mai conosciuta da storia veruna.15
Anche all’intonazione di Rossini è spesso addebitato un
atteggiamento retrospettivo che nei tardi ricordi del
compositore attraverso la testimonianza di Hiller, annoiò gli
spettatori, i quali però, forse per rispetto dell’autore del
Tancredi, non giunsero a turbare la rappresentazione
suscitando la gratitudine di Rossini, annoiato pure lui.16 Il
biografo Azevedo racconta che neanche l’approvazione degli
orchestrali tranquillizzò il compositore, diffidente del giudizio
di quanti non fossero direttamente implicati nella scena.17 Il
cast fu tuttavia di prim’ordine e contava alcuni fra gli
interpreti più adusi al canto rossiniano quali la solita Marcolini
(Sigismondo en travesti), Elisabetta Manfredini (Aldimira, era
stata Amenaide), il tenore Claudio Bonoldi (Ladislao, era stato
Giocondo nella Pietra del paragone); la relazione vocale fra le
due prime parti era quindi affine a quella del Tancredi e in
quegli anni assai di moda.
La partitura di Rossini, oggi ripresa solo di quando in
quando, non manca in ogni caso di momenti ragguardevoli.
Nella successione degli interventi di tenore e contralto,
dall’introduzione alla cavatina di Sigismondo, si accosta il
rimorso di Ladislao che ha tradito Aldimira («L’immago
tiranna», I,I, N. 1) alla scena di delirio di Sigismondo, nella
sua immaginazione sconvolta perseguitato da quello che lui
crede essere lo spettro della moglie (la cavatina prevede
interruzioni dovute allo stato d’ansia di Sigismondo, N. 2).
L’ostinato agli archi e gli assoli dell’oboe all’apparire di
Sigismondo riconducono alla tradizione delle scene lugubri del
secondo Settecento; l’esuberante cabaletta finale costituisce il
rispecchiamento di una condizione mentale alterata («Ah
perduto ho il caro bene», I,III). La dimensione fantastica
riaffiora in I,XI, quando anche Ladislao alla vista di Aldimira
teme che ella sia un’ombra «dall’Averno uscita fuore»; una
situazione non nuova nel filone dell’“innocente perseguitata”,
qui utilizzata per dar corpo a un rimorso misto a terrore che né
Ladislao né Sigismondo sembrano poter superare. Nonostante
il successivo duetto con Aldimira sotto mentite spoglie, il
finale primo presenta Sigismondo ancora in preda ai suoi
incubi (I,XVII, N. 9); un atto intero, quindi, sotto il segno
dell’alterazione psichica, anche in presenza dell’oggetto della
colpa: poté forse essere questo uno dei fattori di noia per il
pubblico, ma il progetto di Foppa/Rossini, volto al
congelamento dell’azione, era tutt’altro che convenzionale.
Il secondo atto inverte la prospettiva e mette al centro la
ritrovata regina; il riconoscimento definitivo avviene nel
duetto con Sigismondo in II,IV, «Tomba di morte e orrore»
(N. 12); alla cabaletta finale l’ebrezza del momento si converte
in una febbrile sillabazione («Affetti teneri»). È il ritorno alla
dimensione reale e terrena, e da lì Aldimira afferma la sua
personalità. Ne apprendiamo lo spessore, nell’imminenza della
battaglia al fianco di Sigismondo contro l’esercito del padre
che intende vendicarla, al recitativo strumentato e aria di II,XI
(N. 15): nella sezione lenta Aldimira è moglie fedele e pietosa
(«Ah signor, nell’alma mia»), in quella mossa finale, con coro,
lascia affiorare le sue doti guerriere («Fra l’armi intrepida»); la
cabaletta sancisce la sua rivalsa anche come donna di potere.
Tanta autorevolezza le servirà per sostenere il consorte
sconfitto e ancora in preda al pentimento in un’aria con
pertichino e coro dotata di considerevole forza drammatica,
che dallo sconforto ascende progressivamente all’ebrezza del
ritrovato amore («Alma rea! il più infelice», II,XVI, N. 17: è la
Gran Scena di Sigismondo).
Insomma, i requisiti del successo, che pur gli mancò, erano
presenti anche in Sigismondo. Se l’opera non piacque non fu
dovuto alla distribuzione delle parti, né al soggetto trattato, né
al nocciolo drammatico di fondo (lo schema aveva funzionato
fino a poc’anzi: perché non avrebbe potuto funzionare
ancora?). C’è un fattore di imponderabilità, negli esiti
conseguiti all’epoca da una messinscena operistica. Del
pubblico di primo Ottocento non sappiamo granché: ne
conosciamo solo a grandi linee la composizione (eterogenea),
le consuetudini, la capacità di trattenere più o meno a lungo il
ricordo delle proprie esperienze teatrali e la disposizione di
spirito nel valutarne di nuove. Come ha rilevato Giovanni
Morelli, il profilo del pubblico lo si coglie piuttosto nella
biforcazione fra una letteratura italiana mai del tutto popolare,
quasi ininfluente sull’opera quanto autorevole, e un genere
popolare di per sé come l’opera, che però riproduce in scena
soprattutto letteratura estera (ed è prevedibile pertanto che si
trattasse di un pubblico più onnivoro che selettivo). Oppure, il
pubblico lo si trova riflesso nella letteratura vera e propria,
quando essa si volga a vicende teatrali, vedi i casi di
Massimilla Doni di Balzac (anche in riferimento a Rossini) o
di Madame Bovary di Flaubert (il riferimento è Donizetti);
pubblico, però, in quei casi reso a sua volta personaggio.18 Gli
spettatori raramente scrivono per loro conto riguardo alle
proprie esperienze teatrali; le gazzette d’altra parte ci
restituiscono solo una pallida immagine di come andarono le
cose a teatro, una sera o l’altra, e il giudizio critico non di rado
si attarda su questioni drammaturgiche maturate sul solo
libretto e che rispecchiano soprattutto la formazione erudita,
l’impostazione teorica o le ambizioni professionali del
recensore. Possiamo avvicinarci alla mentalità degli spettatori
sulla base di un periodo medio-lungo ma sempre di riflesso, a
partire dalle collezioni private di musica superstiti,
dall’editoria musicale, dal repertorio e dalle sue continuità e
discontinuità: soggetti che mutano orientamento, operisti in
declino e altri in ascesa. Il che per altro non dice tutto:
Sigismondo giunse nel momento apicale della fama di Rossini
a Venezia, ma ciò non fu sufficiente a garantirgli il successo.
Le riprese dell’opera non mancarono, in misura anche
maggiore di titoli rossiniani reputati migliori: una decina circa,
perlopiù concentrate nel biennio 1819-20, quindi non a ridosso
della prima come in genere capitava – ma in opere di
successo – e frutto piuttosto di recuperi finalizzati a sfruttare la
fama conseguita dall’autore con la ripresa di qualche titolo
meno scontato. Una messinscena in particolare merita
attenzione per il suo valore storico, quella del Teatro
Comunale di Bologna nell’autunno del 1827, già segnalata da
Marco Beghelli. La prefazione a cura della direzione del teatro
ne illustra le caratteristiche in modo succinto:
Serbata in esso rigorosamente la tessitura, e condotta
dell’argomento nel modo dettato dal primo Autore, la
Società Impresaria, non dipartendosi dall’esempio altre
volte dato, e dalle circostanze consigliato, ha creduto
conveniente d’introdurvi qualche pezzo di Musica con tutte
le studiate avvertenze onde meglio servire alla riuscita
dell’azione drammatica, ed all’effetto musicale.19
Del Sigismondo premeva mantenere «rigorosamente» la storia
ma non la musica: dei 18 numeri complessivi solo 4
sopravvivevano intatti. I restanti subivano, oltre alle solite
decurtazioni, l’intromissione di materiali nuovi con
l’aspettativa che essi potessero «meglio servire alla riuscita
dell’azione drammatica». Assieme a qualche brano non
identificato, l’opera ospita adesso la cavatina «Il soave, e bel
contento» dalla Niobe di Pacini (Napoli 1826), una parafrasi
dalla Zelmira, ultima opera napoletana di Rossini, del 1822
(l’aria parafrasata è «No più affanni in me non sento», II,VII),
una ulteriore parafrasi, pressoché in chiusura, del rondò «Ah si
pera: ormai la morte» che Malcolm canta in II,III nella Donna
del lago (Napoli 1819).20 Trasformato in un guscio vuoto, il
dramma di Foppa si impasticcia con opere napoletane recenti
composte dopo l’originale Sigismondo. È una condizione che
viene a stabilizzarsi giusto in quegli anni: al lettore di una
qualsiasi storia dell’opera la cronologia degli eventi operistici
appare articolata in tappe progressive; al pubblico dell’epoca
si ripresentavano invece, in ogni momento della sua esperienza
teatrale e con continue modifiche e mutuazioni da un’opera
all’altra, titoli del passato a fianco delle ultime novità.
L’originalità di ciò che ascoltava non era determinante e tutto
verteva sulla molteplicità di un repertorio che si serviva della
memoria per costituirsi e sopravvivere.21
SUGGERIMENTI DI LETTURA

Sul rapporto fra autoimprestiti, memoria del pubblico e


mentalità di autori e ascoltatori SENICI 2010; vedi anche
STEINBERG 2004. I meccanismi compositivi fondati sulla
ripetizione sono discussi in SENICI 2013. La genesi e la fortuna
di Aureliano in Palmira in CARNINI 2019; l’analisi del libretto e
delle sue fonti in SCARTON-TOSTI CROCE 2020. Sulle
implicazioni politiche-napoleoniche di Aureliano si è
soffermato Carnini in Sed victa Rossini? Immagini di guerra e
clemenza nell’Italia napoleonica, relazione tenuta al convegno
Tosc@Bologna, 30 giugno 2015. Su Velluti, Nicolini e la
trasmigrazione di brani rossiniani, PIPERNO 2014. La genesi e
la diffusione del libretto del Turco in Italia in NICOLODI 2002,
sul cicisbeismo BIZZOCCHI 2008; una lettura dell’opera in
ISOTTA 1985. Per un’analisi dell’attività professionale di
Romani vedi ROCCATAGLIATI 1996, pp. 59-111. Una
ricostruzione delle fonti e delle varianti del soggetto di
Sigismondo in BEGHELLI 2012; la diffusione dei soggetti
polacchi attraverso alcuni casi campione in VIVIANI 2016.
DA ASCOLTARE

Aureliano in Palmira
Juan Francisco Gatell (Aureliano), Silvia Dalla Benetta
(Zenobia), Marina Viotti (Arsace), Ana Victória Pitts (Publia),
Xiang Xu (Oraspe), Zhyuan Chen (Licinio), Baurzhan
Anderzhanov (Gran Sacerdote), Camerata Bach Choir Poznán,
Virtuosi Brunensis, dir. José Miguel Pérez-Sierra, Naxos 2018
Egle ed Irene («Non posso, oh Dio, resistere», cantata)
in Rossini da camera, Maria Peters, Adriana Cicogna,
Massimiliano Carraro (pianoforte), Bongiovanni 2013
Il turco in Italia
Cecilia Bartoli (Fiorilla), Alessandro Corbelli (Don Geronio),
Michele Pertusi (Selim), Ramón Vargas (Narciso), Laura
Polverelli (Zaida), Roberto De Candia (Prosdocimo),
Francesco Piccoli (Albazar), Coro e Orchestra del Teatro alla
Scala, dir. Riccardo Chailly, Decca 1998
Sigismondo
Margarita Gritskova (Sigismondo), Maria Aleida (Aldimira),
Kenneth Tarver (Ladislao), Marcell Bakonyi
(Ulderico/Zenovito), Paula Sánchez-Valverde (Anagilda),
César Arrieta (Radoski), Camerata Bach Choir Poznań,
Virtuosi Brunensis, dir. Antonino Fogliani, Naxos 2016

5. Nelle secche della memoria


1 KOSELLECK 1979, p. 54.

2 Nel corso dell’Ottocento fino agli albori del nuovo secolo, i castrati
continuarono a operare nelle cappelle ecclesiastiche. Fra gli artisti ancora in attività
Domenico Mustafà, Pasquale Meniconi, Giuseppe Ritarossi, Giosafat Anselmo
Vissani, Giovanni Cesari, Vincenzo Sebastianelli, Domenico Salvatori, Alessandro
Moreschi (la lista è proposta e commentata in FELDMAN 2015, p. 260; vedi
anche RICE 2015). Va ricordato inoltre che, a inizio Ottocento, alcune delle migliori
cantanti di nuova generazione come la Pisaroni e la Boccabadati furono allieve di
castrati e ne raccolsero l’eredità.
3 Sull’episodio e le recensioni locali RAGNI 2012, vol. I, pp. 78-81.
4 Il corriere milanese, 28 dicembre 1813, cit. in CARNINI 2019, p. XXX.

5 GRLD 1992, p. 62 (Milano 28 dicembre 1813, Giovanni David a Francesco Sforza


Cesarini, Roma).
6 In CARNINI 2019 a pp. XXXIII-XXXVI si segnalano un centinaio di riprese dal 1814
al 1832.
7 RADICIOTTI 1927-29, vol. I, p. 130. Cfr. CELLETTI 1968 e più
recentemente CRUTCHFIELD 2013. Vedi anche GOSSETT 2009, p. 324: «Benché col
procedere della sua carriera le linee melodiche scritte da Rossini si fossero andate
facendo man mano sempre più floride, in nessun punto il compositore cercò mai di
definire del tutto i tipi di variazioni e le cadenze che sarebbero state tagliate su
misura (da lui o da qualche altro) delle qualità dei singoli cantanti».
8 GRLD 2004, p. 64.

9 GRLD 2004, p. 70.

10 Corriere delle dame, 20 agosto 1814, cit. in SENICI 2010, p. 76.

11 MILA 1968.

12 MAZZATINTI-MANIS 1902, pp. 284-285 (lettera del 1864).

13 KOSELLECK 1975, p. 24.

14 KOSELLECK 1975, p. 26.


15 Il nuovo osservatore, 27 dicembre 1814, pp. 861-862, cit. in BEGHELLI 2012, p. XC.

16 HILLER 1855, p. 99.


17 AZEVEDO 1864, p. 88.

18 Cfr. MORELLI 1988 e MORELLI 1986.

19Sigismondo, melo-dramma serio in due atti da rappresentarsi nel Gran Teatro della

Comune di Bologna l’Autunno dell’anno 1827, Sassi, Bologna [1827], p. 7.


20 Cfr. BEGHELLI 2012, pp. CXXII-CXXIV.

21 Anche in un’ottica strettamente psicologica «i concetti sono sempre, in ogni


istante, attivati in modo selettivo da analogie che il nostro cervello fa in
continuazione, nel tentativo di dare senso al nuovo e all’ignoto a partire dal vecchio
e dal conosciuto» (HOFSTADTER-SANDER 2015, p. 3).
6. Restaurazione politica e affermazione
professionale
Quasi un’aporia per Elisabetta e Rosina

Il teatro San Carlo di Napoli,


incisione per l’Atlante illustrativo di Attilio Zuccagni Orlandini, Firenze, 1845

Così girano i fati: e Cimarosa


e Paesello, ed Anfossi, e Puccini
non più sperin trionfi: e chi li spera
vedrà vota la sala e voti i palchi.
Regna sull’alme in tutta Europa ed oltre
il divin Pesarese: egli gridato
è l’unico Maestro e di novelli
musici modi trovatore ei solo.
Ma perché in tanto musical fulgore
fra le tenebre giace e l’ignoranza
l’Itala scena; e non v’à pur chi agguagli
o l’orme segua de’ miglior Poeti?
Con questa constatazione Giambattista Giusti, nella lirica I
teatri (il IV dei Sermoni, Piatti, Firenze 1827, pp. 37-38),
suggella il suo animato rapporto con Rossini. Il contatto fra i
due si era protratto per circa un decennio a partire dai primi
anni del secolo, quando l’ingegnere e letterato lucchese (1758-
1829), trasferitosi dalla Toscana nello Stato Pontificio, aveva
introdotto Gioachino alle belle lettere (Dante, Ariosto, Tasso,
non si sa con quale intensità e costanza), fino al trasferimento
del compositore a Napoli nel 1815. Al di là della patina
accademica nel rammarico per la perduta classicità, che Giusti
avrà maturato anche a seguito dell’influenza di Vincenzo
Monti (conosciuto tramite il fratello di questi, Francesco
Antonio, suo sottoposto nella Legazione di Bologna ove
entrambi operavano in campo idraulico), quei versi raffigurano
non senza una punta polemica il netto passaggio di consegne
dai «miglior Poeti» teatrali di un tempo, privi di seguaci, allo
strapotere del «divin Pesarese», un musicista, il quale,
annichilita la memoria dei compositori delle precedenti
generazioni,1 aveva imposto «novelli musici modi»
prerogativa soltanto sua. Per Giusti, nel solco di una tradizione
critico-letteraria secolare volta ad assicurare nelle mani dei
letterati il dominio delle scene, fu questo un segno di
decadenza. Se ne deduce inoltre che il principio di autorialità,
nel melodramma, era irrevocabilmente slittato dal libretto alla
partitura. L’opera in musica diviene da Rossini in poi una
faccenda precipuamente musicale, sostenuta da una
dimensione letteraria che non rivendica più per sé stessa un
ruolo di primo piano – per altro da sempre messo a repentaglio
dalle “prevaricazioni” della musica e del canto – ma che ha
ormai acquisito la consapevolezza della propria funzione e dei
propri limiti. Le fondamenta dell’opera continuano a essere
d’appannaggio letterario (nel disegno complessivo e nella
conduzione del soggetto sulla base di una tradizione tanto
poetica quanto musicale), tuttavia la sostanza drammatica
trova nella musica il suo radicamento.
Sul rapporto fra Giusti e Rossini meritano di essere
richiamate due altre vicende. Dopo lo sfortunato episodio del
Sigismondo veneziano (carnevale 1815) troviamo Rossini
ancora a Bologna, suo campo base in questi anni di frenetiche
peregrinazioni padane. Nei primi mesi del 1815 impartì lezioni
di musica alla nipotina di Napoleone, figlia di Elisa Baciocchi
da poco detronizzata dal governo della Toscana e di passaggio
a Bologna (Elisa morirà nel 1820 e sarà sepolta in San
Petronio col marito Felice). Fu quello uno degli ultimi contatti
di Rossini con la dinastia dei Bonaparte, se si eccettua un
episodio che lo legò in modo effimero alla figura di
Gioacchino Murat, cognato di Napoleone e re di Napoli.
Dopo la fuga di Napoleone dall’Elba, nel marzo 1815 Murat
lanciò di sua iniziativa un’offensiva nei confronti dello Stato
Pontificio, temendo una restaurazione borbonica sui territori
del Regno. Attraverso le Legazioni apostoliche, presidiate
dagli austriaci, raggiunse Rimini col suo esercito e vi concepì
un famoso proclama (datato 30 marzo, ma forse ultimato e
edito in data successiva a cura del giurista e patriota Pellegrino
Rossi), in cui, dopo aver dichiarato guerra all’Austria,
sollecitava gli italiani a combattere al suo fianco. Il suo
tentativo di conservare sovranità sul territorio italiano terminò
proprio a Bologna, dove entrò il 2 aprile trovandola priva di
resistenza da parte degli austriaci in ritirata; ritirata che si
tramutò in una nuova discesa in campo pochi giorni dopo, col
sostegno di Ferdinando I delle Due Sicilie. Dopo una
rocambolesca fuga sui due versanti del Tirreno forse nel
tentativo di recuperare la fiducia dell’Imperatore – erano i
giorni di Waterloo –, Murat improvvisò una risalita lungo la
Calabria, ma cadde prigioniero delle truppe borboniche che lo
giustiziarono il 13 ottobre.
Nei brevi giorni bolognesi, gli fu tributato dalla popolazione
entusiasta un evento celebrativo al Teatro Contavalli (la data è
incerta, presumibilmente entro la metà di aprile) durante il
quale risuonò l’Inno dell’Indipendenza composto per
quell’occasione da Giusti, fervente patriota, musicato e
addirittura cantato da Rossini (della partitura si persero subito
le tracce). A quello che da taluni storici è considerato il
documento politico che apre il Risorgimento (il proclama di
Murat) si aggiunse un brano di musica in cui nell’Ottocento si
è voluto vedere l’equivalente italiano della Marsigliese.
L’episodio assunse tinte malevole in un diffamatorio pamphlet
di Eugène de Mirecourt (Parigi 1855), giornalista e scrittore
consacrato alla denigrazione dei più illustri contemporanei,
dove si sostiene che poche settimane dopo la visita di Murat,
al ritorno degli austriaci in città, Rossini avrebbe trasformato
l’inno in un peana filoasburgico applicandovi il testo del
Ritorno di Astrea di Vincenzo Monti per compiacere il
generale austriaco Stefanini; l’operazione gli avrebbe fruttato
un salvacondotto con cui poté affrancarsi dall’incresciosa
situazione, tenendo conto anche dell’imminente trasferimento
in terra borbonica. Nelle parole del Mirecourt
Tout Bologne entendit les fanfares allemandes jouer la
Marseillaise italienne, que Joachim avait donnée à
Stephanini, sans en retrancher une note, et après avoir
seulement écrit sous la musique les vers du Retour de
l’Astrée.2
L’episodio è modernamente screditato (esiste davvero una
cantata sul testo di Monti, ma è di Joseph Weigl e fu eseguita a
Milano nel gennaio 1816). Nella sostanza l’aneddoto
assomiglia ad altri miti storiografici di quegli stessi anni,
analoghi nei contenuti, protagonisti Cimarosa e Paisiello. Al
primo è attribuito un inno di matrice repubblicana su testo di
Luigi Rossi eseguito nel 1799 in prossimità del Palazzo Reale
di Napoli, che al compositore costò la condanna e l’esilio (ma
sull’identificazione del testo e della musica di quell’inno, e
sull’esatto contorno della vicenda, sussistono dubbi). Paisiello,
da certuni ritenuto l’autore di un Inno del Re di Napoli poi
convertito in Inno delle Due Sicilie – attribuzione fasulla e
costruita successivamente nell’intento di asseverare una sorta
di identità nazionale borbonica – mise in musica nel 1808 I
pittagorici su testo dello stesso Monti (qui nelle vesti di
«istoriografo» filonapoleonico), inusuale e compromettente
dramma in un solo atto dedicato a Giuseppe Bonaparte e
colmo di allusioni alla repressione borbonica del 1799, salvo
essere poi riabilitato al reinsediamento di Ferdinando nel 1815.
Se pure la questione nell’inno rossiniano rivisto fosse vera,
non aggiungerebbe né toglierebbe niente al profilo del
musicista in quegli anni, che mantiene la configurazione del
prestatore d’opera secondo princìpi di antico regime: la
produzione artistica per lui (come per Paisiello o Monti)
necessita ancora di referenti socialmente riconosciuti e
accreditati, fossero un impresario, un governatore, un re o un
imperatore; un contesto politico improvvisamente mutato – e
quanto spesso mutò in quegli anni – non alterava il processo
della creazione artistica né modificava la posizione del
compositore nella scala dei valori sociali.
La vicenda dell’inno patriottico va a sovrapporsi a un evento
artistico più rilevante, le musiche di scena composte da
Rossini per l’Edipo coloneo nella traduzione in versi di Giusti,
pubblicato a Parma nel 1817 ma concepito anni addietro.
Genere assai frequentato da musicisti di lingua tedesca (si
pensi a Beethoven o a Mendelssohn), che tuttavia non trova
frequenti riscontri nei colleghi italiani di quel periodo, il cui
interesse per il teatro si concretizza nel melodramma e assai
più raramente in composizioni incidentali – ouverture,
intermezzi, musiche in funzione realistica come marce o
serenate – per il teatro di prosa; e difatti l’Edipo ha
caratteristiche proprie in virtù del considerevole apporto
corale. La stesura del testo drammatico fu iniziativa autonoma
di Giusti, traduttore per passione del teatro di Sofocle, in anni
di fervida attività letteraria e di rinnovato interesse per le
volgarizzazioni dei classici antichi (celebratissime quelle di
Monti e di Pindemonte). L’amore per le belle lettere si
accompagnò in Giusti a competenze filologiche e teoriche,
come dimostra la prefazione all’Edipo, un Discorso sullo stile
della tragedia italiana, tema molto sentito in epoca
neoclassica, in cui si concedeva alla letteratura la facoltà di
servirsi della musica nei luoghi deputati della tragedia:
E, se i cori, che sempre si cantavano in Grecia, cantaronsi
talvolta anco in Italia, e in un tempo che la musica era sul
nascere; perché, ora che quest’arte è divenuta quasi
perfetta, non facciam prova del suo potere anche in questa
importantissima parte della tragedia? A noi perciò parve
lodevol cosa il fare questo esperimento, e abbiam voluto
che i cori fossero posti sotto le note. E intanto, mentre per
noi si aspetta favorevole occasione, onde farla rappresentar
sulle scene, abbiam voluto render pubblica questa
traduzione, dello stile della quale, e in particolare di quello
de’ cori, giudicherà il lettore imparziale; dell’effetto, che
produrranno i cori cantati, ne chiarirà, quando che sia,
l’esperienza. [Discorso cit., pp. XXXV-XXXVII]
Il riferimento ideale fu forse l’Edipo tiranno con musiche di
Andrea Gabrieli che nel 1585 aveva inaugurato il Teatro
Olimpico di Vicenza, ove i cori erano stati oggetto di uno
specifico trattamento musicale. Da questo stralcio del
Discorso si evince poi che nel 1817 l’Edipo con le sue
musiche non era stato ancora visto in teatro. Più oltre il
riferimento a Rossini, mai menzionato direttamente, diviene
esplicito e i toni si fanno poco concilianti, con l’aggravante
della destinazione editoriale, non una gazzetta o un pamphlet,
ma una durevole edizione bodoniana:
Un celebre Maestro di Cappella pose in musica i miei Cori
e fu da me generosamente ricompensato. Poco dopo mi
accorsi che in molte carte mancavano gli
accompagnamenti. Mi rivolsi a lui ed egli ripigliò le carte;
e da un anno in qua, per quante istanze io gli abbia fatte,
non ò potuto riaverle. I suoi amici dicono, ch’egli così
meco procede per ischerzo; ma scherzi di tal fatta possono
assomigliarsi a quelli di certo famoso buffone, il quale
nella solennità di una festa e alla presenza d’un Re, che ne
prendeva diletto, rubava con mirabile destrezza le scatole
d’oro dalla saccoccia degli attoniti Cortigiani. [Discorso
cit., pp. L-LI, nota 11]
In conformità ai correnti metodi compositivi, Rossini (cui
Giusti dà del ladro) aveva rilasciato, previa ricompensa, una
partitura in prima stesura, riservandosi di intervenire in seguito
appena fossero noti gli esatti termini dell’esecuzione e
l’identità dei cantanti; e lì il discorso si era interrotto. Nelle
mani di Giusti restò quindi non un’opera incompiuta in senso
stretto, come Giusti sembra supporre, bensì una “partitura
scheletro”, ossia l’imbastitura completa almeno in senso
orizzontale del lavoro, bisognosa di essere perfezionata sulla
base di modelli lì abbozzati. Quella stesura riporta oltre
all’andamento, al tempo e alla tonalità dei brani, le parti vocali
solistiche o corali, quelle dei violini primi cui in genere è
affidata la linea melodica prevalente e quella del basso, ma
omette i raddoppi agli altri strumenti, i riempitivi armonici, le
ripetizioni, annotate solo in forma di rinvio.3 A seguito del
completamento della partitura per mano d’altri, attorno al
1818, l’animosità di Giusti fu sedata e la successiva edizione a
stampa del testo di Edipo tralascerà i riferimenti polemici a
Rossini (Bologna 1819).
La pianificazione del testo poetico tiene conto della sua
destinazione mista. All’endecasillabo tragico si alternano
recitativi in versi sciolti (settenari e endecasillabi) e strofe di
varia metrica per le arie e le sezioni corali degli stasimi.
Rossini affida il ruolo del Corifeo a un basso e le parti corali al
coro maschile formato da bassi, tenori I e II: l’esito è una
musica scura e ieratica, incardinata sui registri vocali prescelti,
inusuale non solo nella produzione del Pesarese ma anche
prendendo a termine di confronto il teatro grecizzante del
Settecento, di cui questa curiosa partitura non rappresenta in
alcun modo una continuazione. Momenti come l’aria con coro
«Per te novella gloria» (N. 2D) o il recitativo strumentato
N. 3A guardano da vicino all’opera seria di quegli anni con gli
immancabili assoli ai fiati, e non manifestano l’intento di
rievocare le tragedie per musica del secolo antistante.
Dimenticata anche dall’autore, la partitura fu riesumata molti
anni dopo, nel 1844, per interessamento dell’editore parigino
Troupenas, e fornì con un sensibile cambio di destinazione
alcune delle pagine corali a un trittico ispirato a Fede,
Speranza e Carità; l’esecuzione a Parigi nel novembre di
quell’anno suscitò l’interesse di Liszt, che dal 1847 realizzò
svariate trascrizioni della Carità.
Il rapporto instabile con Giusti rispecchia il clima di diffusa
inquietudine in quei mesi di transizione politica e per Rossini
anche artistica. Il suo trasferimento a Napoli venne a
coincidere col reinsediamento borbonico e più a distanza col
Congresso di Vienna (1814-15); simili convergenze hanno
assunto un carattere emblematico e indotto a porre l’intera
attività del Pesarese sotto il segno della Restaurazione,
deduzione ormai riconsiderata nei suoi fondamenti e che non
tiene conto della versatilità espressa dalla produzione
rossiniana, napoletana o meno, né di un processo artistico le
cui parole chiave sono appropriazione e trasfigurazione, certo
non conservazione.4
Per la prima volta nella sua esistenza Rossini, fino a questo
momento attivo in ambito padano, venne a contatto col mondo
e con la società centro-meridionale. A Roma era già
conosciuto più che per Demetrio e Polibio, per il Tancredi dato
al Teatro Apollo (ex Tordinona, della famiglia Torlonia) nella
stagione di carnevale del 1815, con Maria Marchesini nel
ruolo di Amenaide e Teodora Santerre in quello di Tancredi;
negli stessi giorni l’opera fu in scena anche all’Argentina. Il 26
giugno scriveva alla madre entusiasta delle sue altolocate
frequentazioni, per lui una conferma di quanto fosse azzeccata
la strada intrapresa: «Se vedeste che accoglienza ho in questo
paese restereste incantata Il Cavalier Canova Il Principe
N.N. Tutti mi vogliono ed io sono stato da tutti e come buon
Sovrano li ho felicitati».5 Una volta a Napoli, raggiunta
probabilmente il 27 giugno, il registro non cambia; l’ebrezza
della vita sociale, foriera di utili contatti, è ancora al centro dei
suoi interessi («Io Sto divinamente sono sempre da Duchi,
Principi, e Principesse», 23 agosto).6
Al pari di Venezia e Roma tappa di rilievo del Grand Tour,
coi suoi 400 000 abitanti la capitale borbonica era anche la più
grande città italiana (e la terza in Europa dopo Parigi e
Londra). Il turismo culturale e i governanti locali, potenti e
ambiziosi (prima i viceré spagnoli, quindi gli Asburgo, dal
1734 i Borboni), avevano favorito un sistema teatrale flessibile
che poteva soddisfare il fabbisogno del pubblico nei diversi
momenti dell’anno. In epoca rossiniana continuavano a essere
sovvenzionati dalla corona il San Carlo, quasi una dépendance
del Palazzo Reale, destinato all’opera seria nelle stagioni di
carnevale, quaresima, estate, autunno-inverno, e il Teatro del
Fondo (dal 1870 ribattezzato Teatro Mercadante) dove,
generalmente in primavera, si dava l’opera comica di qualità –
fra 1812 e 1815 fu lì eseguita anche la trilogia dapontiana di
Mozart – e valvola di sfogo per spettacoli più marcatamente
sperimentali. Vi era poi un certo numero di sale private di
antica tradizione come i Fiorentini e il Teatro Nuovo; in alcuni
di questi teatri minori e al Fondo si davano anche spettacoli
misti di prosa e musica, a effetto dell’influenza dell’opéra-
comique e delle riforme introdotte nel decennio francese. A
fianco delle novità, frequenti nei due Teatri Reali i
riallestimenti di opere lì prodotte o d’altra provenienza,
miscelando tradizione e ricettività. Lo sfarzo degli spettacoli
era fra le attrattive del San Carlo, che si avvantaggiava di un
sistema produttivo più stabile rispetto a quello vigente in altri
teatri italiani a partire dall’orchestra, diretta per molti anni con
qualche intermittenza dal violinista Giuseppe Maria Festa
(1771-1839, già attivo anche alla Scala e per un breve periodo
direttore dell’Opéra di Parigi), che contribuì a innalzarne il
livello. La compagnia di canto, il coro misto e il corpo di
ballo, formato da danzatori scelti e spesso di provenienza
francese, erano reclutati per tutta un’annata teatrale anziché
con contratti stagionali come solitamente accadeva altrove.
Giovanni Carafa duca di Noja sovrintendeva ai Teatri Reali;
ne era impresario il milanese Domenico Barbaja (1778-1841).
Già caffettiere e commerciante di munizioni durante le guerre
napoleoniche, «agile di membra, caldo d’ingegno, vispo,
arrischievole, ei cercò la fortuna nelle scommesse, nelle corse,
e nell’appalto autorizzato di quei rapidi scontri dell’umana
avidità»,7 ossia la roulette, d’importazione francese, al tempo
stesso gioco d’azzardo e di società e per questo adatto al
ridotto dei teatri. Dopo averlo testato alla Scala durante il
Regno d’Italia, lo introdusse nel 1808 nella Napoli murattiana
e più oltre in Sicilia, pare come ricompensa dello stato per
aver provveduto in proprio al completamento della strada di
collegamento fra Palermo e Messina.8 Dal 1809 la
responsabilità dei giochi fu abbinata a Napoli alla gestione dei
Teatri Reali; con una riuscita operazione di marketing,
l’impresario sommava così al finanziamento di cui godevano i
Teatri Reali gli incassi degli spettacoli e gli introiti di giochi,
caffè e ristorazione. Eccetto alcune interruzioni, Barbaja,
sempre popolarissimo, mantenne l’incarico fino al 1840. La
gestione in simultanea di vari teatri, che negli anni crebbero di
numero in dislocazioni geografiche diverse, gli consentiva di
compensare i periodi di magra e i successi applicando con
acume il principio della ripartizione del rischio.
Conclusa la stagione dei castrati, un tempo star assolute e
inamovibili, e anche la fase tardosettecentesca contraddistinta
da pacifica convivenza fra castrati, tenori emergenti e
primedonne soprano, nel periodo napoletano di Rossini le
compagnie di canto dei Teatri Reali avevano raggiunto una
precisa identità anche a effetto del recente decennio francese
(quando erano stati messi al bando i castrati e le prime donne
come musico, ossia en travesti) e si avvalevano di una batteria
di tenori di ultima generazione adatti a ruoli di primo piano. I
maggiori furono Andrea Nozzari, presenza ricorrente a Napoli
sin dal 1810, il versatile Manuel García e Giovanni David:
baritonali i primi due, contraltino l’ultimo, affiancati
all’occorrenza da Giuseppe Ciccimarra, buon prodotto locale.
A loro si aggiungevano il basso Michele Benedetti,
destinatario dei primi ruoli tragici per quel registro (era stato
Creonte nella Medea di Mayr, sarà il primo Mosè rossiniano),
e soprattutto la spagnola Isabella Colbran, primadonna seria di
grande reputazione che tanta parte avrà nelle opere e nella vita
di Rossini. La Colbran mantenne una posizione di assoluta
preminenza anche quando fu presente una “seconda
primadonna” – la Pisaroni – e al cospetto di tenori di così alto
prestigio (già nel 1816 guadagnava al mese quasi il doppio di
Nozzari, 500 ducati contro 282).9 In definitiva andò ad
affermarsi un quartetto di voci, o addirittura un quintetto, che
avrebbe condizionato non poco le scelte dei soggetti da
rappresentare, affidate a librettisti bene informati della realtà
locale. I Teatri Reali potevano infatti contare su poeti stabili
pressoché inamovibili (loro virtù e loro limite): Andrea Leone
Tottola e Giovanni Schmidt. La loro posizione si rafforzò nel
1813, quando, assieme a Giuseppe Palomba, pure di casa ma
specializzato nel genere buffo, col supporto del Carafa
chiesero e ottennero dal ministro dell’Interno di poter
stampare a proprie spese i libretti per rivenderli in
autonomia.10
Il decennio francese, a ridosso degli anni rossiniani, aveva
anche prodotto un rinnovato interesse per la cultura e
l’organizzazione amministrativa e scolastica transalpine; ciò si
tradusse in progetti di riforma dell’istruzione musicale e in
spettacoli d’opera nei quali la tradizione locale veniva
ripensata adeguandola al gusto francese (la cui influenza, entro
certi limiti, era percepibile nell’opera italiana da almeno
mezzo secolo). Il pubblico partenopeo si confrontò anche con
opere francesi in traduzione italiana come Edipo a Colono di
Sacchini (1808), La vestale di Spontini (1811, 1813 e oltre),
Ifigenia in Aulide di Gluck (1812). L’Ecuba di Manfroce
(1812) fu un caso a sé stante in quanto opera originale
concepita per Napoli, su soggetto francese ma di scuola
italiana (il calabrese Manfroce si era formato al conservatorio
della Pietà dei Turchini) e, a seguito della prematura
scomparsa dell’autore all’indomani del suo primo grande
successo, rapidamente sfociata nel mito. Rossini,
semisconosciuto a Napoli, si trovò quindi a fronteggiare una
tradizione comica autoctona assai evoluta – con cui in quella
sede si confrontò solo incidentalmente – e una tradizione seria
che nella postazione privilegiata del palcoscenico sancarliano
aveva attraversato tutte le fasi più significative nella storia del
genere, dallo strapotere metastasiano, alle riforme del secondo
Settecento, al neoclassicismo francesizzante e imperiale del
primo Ottocento.
Non si conosce con certezza la data dei primi contatti diretti
di Rossini con Barbaja, né abbiamo notizie precise sul
contratto stipulato fra impresario e compositore. Rispetto alla
ricostruzione di Radiciotti, recenti studi hanno meglio
precisato obblighi e mansioni di Rossini nella sua nuova sede.
L’impegno con Barbaja non doveva essere obbligatoriamente
di lungo corso, ma prevedeva una sorta di periodo di prova.
L’impresario attendeva infatti il conforto del pubblico, che
puntualmente gli giunse: il successo di Elisabetta regina
d’Inghilterra dopo il felice debutto al San Carlo, il 4 ottobre
1815, cresceva di replica in replica.11 Il commercio pressoché
quotidiano con Barbaja (i due erano commensali abituali,
anche se Rossini alloggiava presso il suo cassiere e non da lui)
produsse un sodalizio al tempo stesso artistico e
imprenditoriale.
Il cambiamento di scenario artistico in direzione di un teatro
di prestigio così consolidato come il San Carlo e la
congiuntura politica estremamente delicata al reinsediamento
dei Borbone, imponevano ogni sorta di cautela nel
confezionare un’opera che fosse davvero ad hoc. In una lettera
alla madre in data 4 luglio, dopo alcuni ragguagli di vita
quotidiana, Rossini proclama: «Ho scielto l’Argomento per il
Libro e mi sembra buono. il Cielo me la mandi buona».
L’8 agosto successivo, storpiando scherzosamente il nome
della regina (sovrapposto a quello della Colbran), precisa: «Il
Libro che scrivo a Per Tittolo Elisabella Regina d’Inghilterra
ossia i Paggi di Leicester Il Poeta e un po freddo ma la Musica
Sarà Calda».12 Fra le righe si coglie in siffatte dichiarazioni un
dato che balza agli occhi dello storico. «Ho scielto
l’Argomento», scrive Rossini. Preso alla lettera, un dettaglio
non da poco: si attesta che la selezione del soggetto sarebbe
stata effettuata dallo stesso compositore. La consacrazione di
Rossini come “autore” e drammaturgo a tutto tondo, «il
principale responsabile estetico di un’opera»,13 responsabile
anche dell’individuazione di un soggetto acconcio –
operazione finemente intellettuale e strategica, specie nella
Napoli di quei mesi –, avrebbe quindi raggiunto un punto
fermo. La questione si ripresenterà altre volte nella produzione
teatrale rossiniana, al cospetto di soggetti di nuova concezione
come Otello o Guillaume Tell; ma la soluzione del quesito
appare meno ovvia di quanto quella netta ma corriva
affermazione lascerebbe supporre. Proprio agli stessi mesi
risalgono altre due missive che sfiorano la stessa questione,
ancorché riferite a situazioni diverse. La prima, del 15 maggio,
è indirizzata a Luigi Prividali (Venezia, da Bologna) e si
riferisce a un progetto non realizzato, forse per Roma: «Hai
scelto ancora il soggetto per l’oratorio? Non trascurare ti prego
un’occasione così bella, e per me carissima: esaudisci i voti
del tuo amico».14 L’«occasione» val bene una supplica a
Prividali perché individuasse lui il soggetto quaresimale
idoneo. La seconda, dell’8 giugno, è nota più per il linguaggio
colorito e gli aspetti sessisti che non per la sostanza; Rossini si
rivolge al librettista dell’Italiana in Algeri, Angelo Anelli
(Milano), e gli suggerisce a modo suo le fasi successive del
lavoro:
Io devo comporre un’Opera nuova? e tu mi offri un libro
Vecchio: dov’è ito il tuo Genio la tua bella fantasia? ma per
Dio non mi credi forse capace di poter Investire di
Declamativa, espressiva, Parlante Musica i tuoi versi?
Senti. Donzelli Tenore A Gran Polmoni Gioventù e Buona
Figura. Galli Lo conosci. Remorini ha Buona Voce ma non
si picca col Senso Comune. La donna la Ignoro. Sciegli
qualche bel Argomento Antico, oppure Cercane uno il
quale si oniformi al mio bisogno Cioè. Per Il Tenore una
Parte Eroicomica. Per Galli Un Carattere Esagerato. Per
Remorini il Contraposto del secondo. e per la donna Un
Cazzo il quale possa addattarsi alla Cosi detta Pelosa di
quella donna la quale dovrà prestarsi per i nostri Parti.15
Le condizioni dettate dal compositore gli derivano dal cast
messo a disposizione dal Teatro Valle per un’opera buffa che
diverrà semiseria, per giunta con altro librettista (sarà Torvaldo
e Dorliska, su testo di Sterbini). Rossini rifiuta un libretto
«vecchio», ovvero già musicato (ignoriamo quale potesse
essere) e invita Anelli a scriverne uno anche di vecchio
stampo, purché appropriato alle misure dei cantanti che
eseguiranno la sua musica. Non esprime, Rossini, un parere
letterario o drammaturgico, ma si limita a richiedere
«caratteri» precisi che avrebbero potuto trovare ospitalità in
tanti soggetti diversi, sui quali non si pronunzia, manifestando
anzi un certo disinteresse. Un ruolo eroicomico che esalti la
bella presenza e la potenza vocale di Domenico Donzelli,
destinato ad affermarsi come tenore “di forza”; una parte
spiccata sul piano della recitazione adatta a un basso caricato
come Galli (già Mustafà nell’Italiana), ben distinta da quella
per Ranieri Remorini, basso dotato di bella voce ma meno
abile scenicamente. Il soprano ancora gli manca (sarà la quasi
esordiente Adelaide Sala), ma Rossini non rinunzia a un salace
motto di spirito.

Giacomo Pregliasco, figurino per Andrea


Nozzari come Sichemo, nel Sansone
di Francesco Basili, 1824; Napoli, Biblioteca
del Conservatorio «San Pietro a Majella»

Quanto è lecito dunque accreditare le parole di Rossini a sua


madre, ossia che a distanza di pochi mesi dalla lettera ad
Anelli – dove emerge ancora l’immagine tradizionale di un
Rossini “prestatore d’opera” – e in un ambiente a lui ancora
estraneo, avesse davvero «scielto» da sé il libretto
dell’Elisabetta napoletana? Appare poco realistico, in quei
frangenti, immaginare Rossini alle prese con la letteratura
teatrale italiana ed europea, alla ricerca di un soggetto
appropriato. In ogni caso, tra la condizione di un musicista di
corte settecentesco, avvezzo con poche eccezioni a intonare
pressoché alla cieca ciò che gli passava il poeta, spesso atto
per atto (quindi privo persino della visione d’assieme del
dramma che andava musicando), e quella di un Verdi, che
individuava personalmente i soggetti delle sue opere e li
rifondeva nella “selva” (una sorta di scenario da affidare poi a
un verseggiatore di sua fiducia), ci sono molte vie di mezzo. È
possibile che Rossini per Elisabetta abbia pronunziato l’ultima
parola, in presenza di una o più alternative, ma è altresì
probabile che sia stato adeguatamente instradato (da Schmidt?
da Barbaja? dal Carafa?).
La fonte principale del libretto, per giunta, era recente e in
quel momento nota solo a Napoli. Al Teatro del Fondo nelle
stagioni dal 1813 al 1815 si era dato Il paggio di Leicester di
Carlo Federici (1778-1849), dramma in prosa di genere
larmoyant, pubblicato nel 1825 a Napoli e nel 1836 a Milano,
forse ispirato a un romanzo di Sophia Lee (1750-1824).
L’adattamento di Schmidt prende spunto quindi da una novità
locale, sebbene Federici, giurista di formazione padovana –
figlio di Camillo, drammaturgo altrettanto prolifico: La
cambiale di matrimonio era tratta da una sua commedia –
fosse noto soprattutto nel Nord Italia e in particolare a
Venezia, dove vennero messi in scena altri suoi drammi fra
cui, nel 1801, una Maria Stuarda su soggetto affine a quello
che diverrà rossiniano, e a esso implicitamente collegato.
Giovanni Schmidt (1775-1839), di origine livornese ma da
tempo accasato a Napoli, effettuò una riduzione secondo i
princìpi più consueti. Compresse i cinque atti in due, con
l’espunzione di un personaggio; modificò il finale, in cui non
si fa riferimento alla successione di Elisabetta dopo la sua
morte, come invece avviene nel dramma (a vantaggio di
Giacomo), elemento fuori luogo, trattandosi in quel caso di
un’opera celebrativa per un recente reinsediamento al trono.
Quanto al resto, sussistono evidenti mutuazioni linguistiche
dal dramma al libretto: Schmidt sostenne, nella prefazione, di
essere andato a memoria sulla base dell’ascolto del dramma;
ma è più probabile che sia venuto in possesso del testo
manoscritto, di proprietà della compagnia di attori che ne
curava la messinscena al Fondo. Non fu comunque quella
l’unica fonte del testo musicato da Rossini. Svariati
parallelismi nel lessico e nella struttura di alcune scene
mostrano come Schmidt si fosse avvalso anche di Elisabetta
d’Inghilterra di Pavesi (libretto forse di Jacopo Durandi, di
gran lunga più antiquato),16 andata in scena a Torino nel
dicembre del 1809 e ripresa con modifiche a Brescia nel 1812,
intessuta a partire da fonti diverse che poterono forse
comprendere anche la Maria Stuarda dello stesso Federici. In
ogni caso il dramma di Pavesi verte su argomenti affini a
quello di Rossini: l’ostilità di Elisabetta per Maria Stuarda e la
sua genìa, l’amore di Elisabetta per Leicester (contralto en
travesti), già sposato segretamente con Metilde, figlia di Maria
Stuarda (il consueto conflitto fra amore e ragione di stato), la
trama complottistica ordita da Enrico conte di Essex, il
Norfolc del libretto rossiniano. Va rilevato infine che alcuni fra
gli interpreti principali dell’opera di Pavesi furono poi
scritturati per la messinscena sancarlina: Nozzari nel ruolo di
Leicester (a Torino nel 1809 era stato il conte di Essex),
Colbran in quello di Elisabetta (come a Brescia nel 1812); nel
caso di lei, la padronanza del ruolo a prescindere dalla diversa
musica fu quindi assicurata, secondo un principio piuttosto
frequente anche nel melodramma di epoche anteriori.
Insorsero numerosi contrattempi durante la preparazione
dell’opera anche a seguito dei capricci del tenore García
(Norfolc in Elisabetta) che disertò alcune prove per non
affaticare la voce e poter cantare anche in proprio: convocato
dal prefetto di polizia, dovette garantire la sua presenza per
non incorrere in penalità. Il debutto, stabilito per il 4 ottobre,
onomastico dell’erede al trono Francesco di Borbone, non
poteva essere rinviato. La stampa locale mantenne fino
all’ultimo un atteggiamento di cautela mista a diffidenza; sul
Giornale delle Due Sicilie, primo organo informativo di stato,
il 25 settembre 1815 apparve senza largo anticipo un articolo
di presentazione dell’incipiente stagione teatrale, ben noto agli
studi rossiniani, in cui l’evento principale era circonfuso di
incertezza e soffocato da informazioni di contorno:
Tutto è moto in questo momento nel nostro mondo teatrale;
da per tutto arrivano maestri di cappella, cantanti, ballerini,
artisti di ogni genere. In pochi giorni sono giunti il Sig.
Viganò, compositore rinomato di balli; la Signora Pallerini
ed il Signor Le Gros primi ballerini; il Signor Duport e la
sua giovine consorte, l’uno e l’altra sì applauditi sulle
nostre scene; il Signor Rubini destinato a cantare nel teatro
de’ Fiorentini; ed in fine un tal Signor Rossini maestro di
cappella che ci si dice venuto per dare una sua Elisabetta
Regina d’Inghilterra su questo stesso teatro di S. Carlo,
che risuona ancora de’ melodiosi accenti della Medea e
della Cora dell’egregio Signor Mayer. In mezzo a questo
movimento generale, il giovine figlio del nostro illustre
compositore Signor Tritta fa sperare una musica veramente
italiana sul Real teatro del Fondo; il maestro Prota un’altra
in quello de’ Fiorentini; ed il Signor Viganò un nuovo
magnifico ballo intitolato la Clotilde in quello di S. Carlo.
Queste disposizioni ci fanno presagire larghissimo
compenso all’inerzia in cui da qualche tempo sembravano
rimaste le nostre scene, ove la musica vocale nacque,
crebbe e giunse al maggior incremento della sua gloria.17
Si dava nell’articolo ampio spazio al ballo (da generazioni
apprezzato a Napoli almeno quanto l’opera e in una fase di
grande fulgore), con ben quattro artisti citati e il riferimento a
una quinta persona, e veniva segnalato l’arrivo in città del
ventunenne tenore Giovanni Battista Rubini (1794-1854), uno
dei grandi nomi della scena lirica ottocentesca ma all’epoca
solo una promessa e difatti reclutato da Barbaja per il teatro
minore dei Fiorentini, pure gestito da lui, dove canterà in
opere di Mosca e Fioravanti. L’epilogo è consacrato a tre
glorie locali: Giacomo Tritto, il cui figlio Domenico mette in
scena La parola di onore ossia Zelinda e Rodrigo, e il
semisconosciuto Giovanni Prota, autore del Cimento felice, ai
Fiorentini. A metà articolo si affaccia «un tal Sig. Rossini» che
«si dice venuto» per dare una propria opera sfidando il ricordo
di quelle di Mayr, suo illustre predecessore. In questo
panorama quasi totalmente partenopeo, in cui Mayr si colloca
come già celebre e gradito ospite – Medea in Corinto, 1813, fu
una nuova produzione, ma opere del sassone erano state date a
Napoli anche svariati anni prima –, Rossini appare quasi un
intruso privo di ascendenza locale e ben poco contava che
fosse l’autore del Tancredi, rappresentato mesi addietro nella
vicina Roma. Facendo un balzo in avanti di circa dieci anni, la
rievocazione della prima della Medea di Mayr in una
comunicazione privata del musicista dilettante e cavaliere
napoletano Alessandro Micheroux all’indirizzo di Giuditta
Pasta, sulla strada di Napoli per cantare in quella stessa opera
nel novembre del 1826, suona però come una sentenza (ma è
di fatto un netto giudizio storico) sulla musica teatrale di Mayr
al confronto con quella di un Rossini ormai star internazionale:
La Compagnia era stata sempre ottima. La Colbran e
Garzia nell’Apogeo della loro Carriera. Nozzari già grato
al Pubb.co pieno di vigore. etc.etc. – Qual meraviglia del
successo in un momento che nessuna Grande Opera di
Rossini non era stata ancora conosciuta! – Una mezza
buona composizione di Soggetti, le forze indebolite della
Colbran, la mancanza di Garzia e sopratutto la rivoluz.e
operata dalla musica di Rossini cagionarono un successivo
decrescendo, nell’effetto prodotto dalla Medea.
Da qui l’accorato invito di Micheroux alla giovane ma già
esperta diva, dove si registrano, per contrasto, gli elementi che
avevano determinato il favore accordato a Rossini da tanti
cantanti di vaglia:
… come mai dar la preferenza ad un Opera [Medea]
durante la quale non vi si offre mai l’occasione neppure
p[er] un istante di sviluppare il merito del v[ost]ro Canto,
quelle grazie di stile, quegli accenti piacevoli, con cui siete
certa di piacere, e mostrarvi superiore a quanti sieno
cantori in quest’Epoca? Come si può rinunziare di buon
grado alla metà delle sue forze, e più della metà quando si
pensa che nessun pubblico del mondo, che non sia avvezzo
al v[ost]ro talento potrà alle prime capire, gustare, ed
apprezzare il v[ost]ro talento Drammatico? Non ch’io
dubiti che avreste successo anche nella Medea – ma perché
ridurre un Pubblico ancora ad attendere la fine d’un Opera
per applaudirvi e perché dargli un’idea tanto incompleta di
voi Stessa.18
Tornando alla prima di Elisabetta, le cose andarono nella
direzione auspicata da Barbaja e da Rossini, il quale dopo la
prima stilò all’indirizzo della madre il solito vivace resoconto:
Finalmente è andata in Scena la Mia Elisabetta e questa a
fatto fanatismo. La Corte che era in teatro se ne andò dopo
l’opera per dar sfogo al publico che non poteva più frenare
il silenzio e ravisata che fù una rivoluzione d’applausi e
finalmente chiamato sul palco Scenico dove sarò stato 8
minuti per ricevere gli evviva. Spero che Sarete Contenta.
Il Libro è buono e La Compagnia e l’Orchestra me l’ha
eseguita a meraviglia. Domani Sortirà un Sonetto stampato
in mia lode e posdimani una Ode parimenti stampata dal
Famoso poeta Ponta Genovese.19
La prima annotazione riferita alla corte in sala allude a un
preciso rituale: l’allontanamento dal teatro era un fattore
positivo perché dava modo al pubblico di manifestare il suo
entusiasmo; il plauso degli spettatori infatti non poteva
precedere per regolamento quello dei sovrani e d’altra parte il
re non avrebbe mai accordato il suo consenso a un musicista
esordiente alla sua prima uscita pubblica, riservandosi nel caso
di farlo alle successive messinscene. La celebrazione letteraria
del successo – il sonetto e un’ode del poeta e improvvisatore
Gioacchino Ponta, noto anche per i suoi omaggi a Paganini e
Berio di Salsa – era pure un passaggio rituale, fra
glorificazione dell’evento e battage pubblicitario, e statuiva
l’acquisizione dell’artista in un consesso finalmente disposto
ad accoglierlo. E dopo qualche tentennamento persino il
conservatore Giornale delle Due Sicilie si rassegnò a
riconoscere i meriti dell’opera (31 ottobre):
Elisabetta regina d’Inghilterra è sempre più applaudita su
quelle scene di S. Carlo, ove si formarono e crebbero, alla
gloria dell’Italia ed all’ammirazione dell’Europa intera, i
grandi compositori dell’epoca più bella della musica; e la
sua Italiana in Algieri in quelle de’ Fiorentini, che
risuonano ancora de’ melodiosi accenti dell’immaginoso
Cimarosa e del tenero e passionato Paisiello.
Consacreremo qualche articolo de’ prossimi numeri
all’analisi delle bellezze di queste due produzioni; contenti
per ora di rendere al giovine maestro questa giusta
testimonianza di lode […]20
Anche in questo caso tuttavia non si dice tanto di Rossini
quanto del contesto in cui il «giovine maestro» andava a
posizionarsi, con atteggiamento di tutela nei confronti del
recente passato partenopeo: le scene del San Carlo, già
d’eccellenza per l’Italia e l’Europa (nell’«epoca più bella della
musica», che si dà per trascorsa), e quelle dei Fiorentini, che
furono di Cimarosa e Paisiello. Simile strategia comunicativa,
fondata sul buon nome della tradizione, proseguì il 18
novembre sul solito periodico, quando le progressive
ammissioni, a denti stretti, del successo rossiniano vennero
espresse attraverso gli elogi al cast e soprattutto alla Colbran,
da tempo astro locale, «la quale sostiene egregiamente col
canto e con l’azione il personaggio dell’Elisabetta, come
sostiene incomparabilmente quello della crudele Medea e della
passionatissima Cora».21 Ancora una celebrazione del passato
(Mayr) invocato come misura del presente. A quanto pare la
musica rossiniana sembrò agli organi di stampa locali e
ufficiali meno restaurativa di quanto non sia apparsa in seguito
alla critica.
«Io ho fatta una Musica degna di Rossini» aveva scritto il
compositore alla madre, a lavoro pressoché concluso, il 26
settembre.22 Niente di più vero, anche alla luce del fatto che
gran parte della musica di Elisabetta giungeva da sue opere
precedenti e andava così a costituire una sorta di “centone”;
capiterà ancora in lavori successivi quali La gazzetta, Adina,
Eduardo e Cristina, Le Comte Ory, tutte opere concepite con
procedure di collage, recuperando brani meritevoli di essere
riproposti (la chiave del successo era sempre la stessa:
«sentirlo replicar troppo mi piace»).23 In ordine cronologico
per data di rappresentazione, a fronte di un solo brano
totalmente originale (il duetto di Norfolc e Leicester al N. 11)
in Elisabetta si avvicendano imprestiti da Ciro in Babilonia
(marzo 1812), Demetrio e Polibio (maggio 1812), Aureliano in
Palmira (dicembre 1813, fra cui la celebre sinfonia poi ripresa
anche nel Barbiere di Siviglia), Il turco in Italia (agosto 1814),
Sigismondo (dicembre 1814). Se ne può trarre qualche
considerazione di massima. In primo luogo, le mutuazioni
provengono indistintamente da generi diversi: il serio, il
quaresimale, il buffo; l’omogeneità del linguaggio rossiniano,
rilevata più volte e col tempo familiare anche al pubblico
dell’epoca, almeno fino a questa fase compositiva consentì
all’autore (e non solo a Rossini), agili scavalcamenti di genere,
senza che ciò producesse stridenti contrasti. Secondo dato di
rilievo: Rossini per certificare la qualità non aveva bisogno
dell’originalità. Come già altre volte notato, è anzi probabile
che l’approvvigionarsi di musica già scritta e testata si
tramutasse per lui in un’ulteriore garanzia. Tanto più che il
tempo non gli era mancato; non fu moltissimo, quello a sua
disposizione per musicare Elisabetta, ma neppure così poco:
già a Napoli dall’inizio dell’estate e col libretto individuato ai
primi di agosto, Rossini a differenza di altre volte – si pensi ai
casi di Italiana o al Turco, opere scritte in emergenza – non fu
attanagliato da così strette tempistiche da rendere necessari i
numerosissimi autoimprestiti che pur si riscontrano nella sua
prima opera napoletana.
Rossini provvide a tutelarsi anche in altri modi: la scelta
delle fonti da cui prelevare musica già scritta cadde su opere
che reputava più o meno sconosciute a Napoli e che non
programmava di riproporre in quella città, anche perché
accolte in modo non favorevole (l’insuccesso non precludeva
che i momenti a suo giudizio migliori potessero rivivere sotto
altre spoglie). Il turco in Italia fu dato al Nuovo soltanto nel
1820, quando Rossini era ormai di casa, Demetrio e Polibio o
quel che ne restava addirittura nel 1838, al Fondo; quanto al
resto pare nient’altro. A conferma di questa strategia Rossini
non effettuò autoimprestiti dalle sue opere più celebri, il
Tancredi (dato di lì a poco al Fondo e poi al San Carlo) e
L’italiana in Algeri (ai Fiorentini già nel 1815, strategicamente
lì piazzata da Barbaja come supporto alla più ufficiale opera
sancarlina). L’eventualità che qualcuno potesse riconoscere
con precisione le sue musiche era quindi piuttosto remota.
Inoltre, nella prassi compositiva di Rossini le trasposizioni di
brani interi alla maniera settecentesca, quando una stessa aria
poteva viaggiare indisturbata di opera in opera, sono in netta
minoranza rispetto alla rielaborazione di spunti melodici,
accompagnamenti orchestrali o sezioni più o meno ampie
derivate da altre opere. Prevale all’epoca una concezione
modulare del comporre, in presenza di numeri di ampia e
articolata fattura: con queste premesse, un cantabile resta un
cantabile, una stretta resta una stretta e quelle sezioni
mantengono le loro proprietà drammatiche anche se trasfuse in
contesti diversi. La scrittura di musica nuova, in presenza di
altra musica acconcia allo scopo e «degna di Rossini», era
nella fattispecie superflua o addirittura azzardata; conveniva
andare sul sicuro con musica già collaudata.
Per giungere ai contenuti, il primo dato saliente di Elisabetta
regina d’Inghilterra è l’impiego di un soggetto storico
moderno e databile, pur in presenza di approssimazioni e di un
certo quoziente di invenzione. Figlia di Enrico VIII e Anna
Bolena, Elisabetta regnò dal 1558 al 1603; la relazione
affettiva col suo favorito Robert Dudley, conte di Leicester, si
sviluppò attorno agli anni sessanta e conobbe strascichi anche
negli anni ottanta, durante la guerra anglo-spagnola.
L’orizzonte temporale non era stato così netto nelle precedenti
opere “storiche”, e non lo sarà neppure nelle sue successive
opere serie italiane (solo Bianca e Falliero, data a Milano nel
1819, avrà contorni altrettanto precisi). La cerchia di Rossini
ebbe quindi il mandato di consegnare nelle mani di re
Ferdinando, appena reinsediato, un prodotto che recasse un
certo tasso di verità storica e che si presentasse come una serie
di fatti più che di vicende mitico-allegoriche sulla nozione di
potere – come quelle tratte dall’antichità classica – per
solennizzare un evento tangibile quale era stato il ritorno del
sovrano borbonico sul soglio regale. In altre parole, la scelta di
Elisabetta fu un modo per storicizzare l’attualità, rinunziando
a percorrere strade troppo battute; da un lato, confidando in
valori tradizionali della monarchia come la clemenza (quella
di Elisabetta verso la prole di Maria Stuarda, che richiama la
tolleranza manifestata da Ferdinando nei confronti dei
sostenitori dello sconfitto Murat); dall’altro, rintracciando
nella letteratura e nella storia estere, sempre più di moda, la
figura di un monarca fedele e illuminato altrettanto
emblematico ma meno musealizzato dello stuolo di sovrani del
passato remoto che si erano susseguiti nel teatro
viennese/metastasiano, a lungo il principale modello per il
teatro di corte europeo. L’antico regime fra Sette e Ottocento
non conosce barriere temporali invalicabili dal punto di vista
istituzionale e nelle sue espressioni rituali; cambiano semmai
gli abiti con cui quei valori si manifestano.
Al di là di tutto, un’opera così fortemente orientata, per la
quale occorreva ridurre al minimo il rischio d’insuccesso (i
timori di Rossini affiorano fra le righe dell’epistolario
famigliare), suscitava altri numerosi interrogativi. Innanzitutto,
come raffigurare, dopo le turbolenze del periodo francese-
murattiano, la regalità e il valore intrinseco del reinsediamento
al trono? Il libretto di Schmidt venne in soccorso del
compositore tramite la componente corale, emblematica in
apertura d’opera. Il coro dell’introduzione (N. 1) è un coro di
sudditi come in tanto teatro di corte: acclama la fine delle
ostilità («Più lieta, più bella», I,I), introduce la regina («Esulta,
Elisa, omai», I,II), inneggia a Leicester vincitore («Vieni, o
prode, e qui tergi i sudori», I,III). Il popolo esprime consenso
per l’azione militare e per il quadro affettivo che va a definirsi
riguardo alla regina e a Leicester, «invitto campione» e
«d’Elisa sostegno» (I,I). Seguendo le tendenze delle
introduzioni operistiche dell’epoca, l’elemento discordante è
pure subito individuato e si insinua nello scenario di concordia
qui approntato: per Norfolc, che ambisce al potere e ai favori
della regina, le esultanze iniziali del popolo suonano come
«voci funeste». Spetta a Rossini mettere in evidenza la
distanza fra il traditore e la cornice sociale che lo ospita suo
malgrado. Isolato, Norfolc canta “a parte” le sue prime battute;
le successive lo contrappongono in modo disarmonico al coro
per Leicester, cosicché sia evidente a tutti la sua alterità
rispetto al consesso cortigiano («Che smania! che affanno!»,
con musica in parte ripresa da un’opera di tutt’altro genere
come Il turco in Italia).
Seguono al N. 2 il coro e la cavatina di Elisabetta. Dopo il
coro, mutuato da Aureliano in Palmira («Esulta, Elisa, omai»),
il cantabile è introdotto da un ordito di clarinetto, flauto e
corno, ghirlande sonore a conferire decoro e femminilità al
personaggio: «Quant’è grato all’alma mia» è un omaggio alla
corte in sala, al di là della finzione drammatica. La cabaletta
«Questo cor ben lo comprende», ove si rielabora musica già
destinata ad Arsace in Aureliano (e poi ripresa anche nel
Barbiere di Siviglia), lascia affiorare la coesistenza nell’animo
della protagonista di senso dello stato e affetti privati, resa più
penetrante dallo slittamento del principio di sovranità verso il
genere femminile. «(Rivedrò quel caro oggetto)», cantato “a
parte”, assevera l’attesa febbrile dell’amato al ritorno dalle
imprese belliche in difesa della nazione e per la sottomissione
della Scozia.
Il recitativo che segue («Grandi del regno, è questo»),
strumentato com’era d’obbligo a Napoli, crea nella sua
ufficialità le condizioni per il coro di presentazione di
Leicester («Vieni, o prode, e qui tergi i sudori», I,III, N. 3) e
del successivo suo primo dialogo con Elisabetta. Si ha così
manifesta agli occhi del pubblico la terna dei personaggi
principali su cui la vicenda s’incardina. Segue il breve e
vibrante duetto fra Leicester e Matilde che innesca la peripezia
(«Incauta! che festi!», I,IV, N. 4); ostaggio degli inglesi, la
figlia di Maria Stuarda (in prima Girolama Dardanelli) aveva
contratto segreto matrimonio proprio con Leicester: ciò rende
impossibile il coronamento del sogno amoroso di Elisabetta e
dà adito a una vendetta che solo le virtù morali della regnante
sapranno scongiurare. La configurazione drammatica e la
rappresentazione della pietas di Elisabetta sono prefigurate sin
da questi primi numeri; resta da dipanare l’intreccio e
l’interesse consiste non nell’epilogo della vicenda, pressoché
scontato, ma nella successione degli eventi che dovranno
immancabilmente condurre al lieto fine.
Ma diamo prima uno sguardo più ravvicinato agli interpreti
principali. Il ruolo del vilain (Norfolc) fu affidato alla voce
tenorile di Manuel García (1775-1832). Come spesso in quegli
anni e a Napoli soprattutto, di tenori v’è sovrabbondanza senza
che il binomio soprano-tenore tipico della successiva opera
romantica – che prevede la forte caratterizzazione del registro
tenorile e l’unicità del medesimo nella terna degli interpreti
principali – si sia ancora definito: tenori furono pure Leicester
(Andrea Nozzari) e fra le seconde parti Guglielmo (Gaetano
Chizzola). Il buono e il cattivo, Leicester e Norfolc,
appartenevano quindi alla stessa tipologia vocale (tenore
baritonale), ma non si trattava di doppioni perché la voce di
García, in quella fase della carriera, era più acuta, il che non
gli precludeva ruoli bellicosi e fieri. La parte di Norfolc passò
in alcune successive occasioni a voci dalla tessitura grave,
secondo la prassi di assegnare i ruoli dei personaggi negativi a
baritoni e bassi tipica dell’Ottocento più avanzato.
I due maggiori tenori di Elisabetta ebbero carriere differenti
ma con sensibili punti di contatto. Nozzari (1776-1832), dopo
una lunga militanza giovanile in Italia come buffo o mezzo
carattere, cantò a Parigi in opere di Cimarosa, Farinelli e Paer;
dal 1810 era stato reclutato da Barbaja per Napoli dove
gradatamente sviluppò le sue doti nel genere serio. Da qui il
suo coinvolgimento in tutte le messinscene di maggior spicco
di quegli anni – fra queste La vestale di Spontini (1811 e oltre,
come Licinio), Ecuba di Manfroce (1812, come Priamo),
Medea in Corinto di Mayr (1813 e oltre, come Giasone) – e
più tardi nei ruoli rossiniani di Otello e Rinaldo. Fu il tipico
baritenore dalla tessitura centrale, più incline allo stile
declamatorio che alle colorature. Di origini sivigliane, García
svolse il suo apprendistato in Spagna, dove assunse anche
incarichi impresariali e contribuì alla diffusione locale
dell’opera italiana. Fu attivo al Théâtre Italien di Parigi e passò
nel 1812 ai Teatri Reali di Napoli gestiti da Barbaja, e come
Nozzari prese parte alle più importati prime del San Carlo,
prima di rivolgersi ad altri orizzonti (Londra, New York, dove
fu fra gli altri Don Giovanni e Otello, poi anche Città del
Messico prima di far ritorno in Europa). Carriere parallele, le
loro, eccetto che per l’attività compositiva, da García condotta
simultaneamente a quella di cantante virtuoso. Suo Il califfo di
Bagdad che dal Fondo passò al San Carlo (nel 1813), non
ininfluente sulla stesura del futuro Barbiere di Siviglia; in
alcune riprese locali dell’opera e in altre diverse messinscene
del 1813-15 cantò assieme alla seconda moglie María-Joquina
Sitchez detta Briones (1780-1864) e ovviamente alla Colbran:
una piccola ma robusta enclave di cantanti iberici attivi a
Napoli.
Quindi Isabella Colbran (1784-1845). Il nome del soprano
madrileno contrassegna in modo duraturo la biografia e la
produzione artistica di Rossini; il loro legame si configura
come un sodalizio artistico fra i più significativi nella musica
italiana dell’Ottocento. Recenti studi documentari hanno
contribuito a mettere in luce aspetti meno noti della grande
cantante; ne esce il profilo di una personalità forte quanto
problematica, ambiziosa e fragile, sensibile al denaro, vittima
del lusso, di ossessioni e di vizi che si esacerberanno nella fase
terminale della sua carriera e della sua esistenza, quando
perderà anche quelle certezze affettive – Rossini appunto – che
la sua arte le aveva in qualche modo procurato. Dopo aver
ricevuto la sua prima formazione in Spagna, fu di passaggio a
Bologna nel 1807 dove iniziò a distinguersi per le sue doti
vocali. Il suo esordio alla Scala di Milano avvenne nel 1808
nel Coriolano di Nicolini; seguirono altri successi a Venezia e
Roma, in ruoli legati alle tematiche classiche di moda in quegli
anni. Quando Rossini e la Colbran si incontrano in occasione
di Elisabetta, lei è localmente assai più celebre di lui; non
senza qualche controversia, l’appoggio di Barbaja, di cui era
l’amante, le aveva garantito una presenza durevole al San
Carlo dal 1811, con partecipazione come star indiscussa a
svariate prime assolute o locali di opere di Fioravanti, García,
Mayr, Farinelli. Non meno significativa la sua presenza al
Fondo: fu la Contessa nelle Nozze di Figaro di Mozart e
Donna Anna nel Don Giovanni (1814 e 1816). Dal 1815 la sua
attività si associò in modo inscindibile, seppure non esclusivo,
a quella di Rossini – apparve in tutte le sue opere serie per
Napoli e interpretò in prime locali anche ruoli non scritti per
lei, vedi Ninetta della Gazza ladra –, fino al termine della
produzione italiana del Pesarese con la Semiramide veneziana
del 1823, che coincise anche col ritiro dalle scene locali della
cantante, ormai sua consorte.
Un vivido ritratto della vocalità di Isabella Colbran è offerto
da un dispaccio da Napoli edito sulla Gazzetta di Firenze il 10
ottobre 1815 (p. 4), in corrispondenza dell’inizio della
collaborazione con Rossini per Elisabetta:
Un organo di voce sonoro e flessibile; una facilità ne’
passaggi di tutti i tuoni della musica; un sorprendente
slancio dal grave all’acuto; la soavità nella melodia; la
difficil’arte di penetrare nel fondo del cuore di chi
l’ascolta; e i moti d’una espressione analoga al tenero, o al
dignitoso Personaggio da lei rappresentato, sono le doti
caratteristiche, le quali dimostrano nella Colbran, che la
natura ed il talento hanno fatto a gara per formarne una
cotanto celebre Cantante. Quest’è il giudizio che le colte
persone hanno giustamente fatto sopra i meriti di questa
Virtuosa dopo che si è sentita cantare nei Drammi della
Vestale, della Medea, e della Cora, e recentemente l’aria
magistrale nel Primo Atto, ed il Duetto nell’Atto secondo
della Semiramide [La morte di Semiramide di Sebastiano
Nasolini, al San Carlo nell’estate del 1815].
Estensione ampia (dal Sol grave al Mi sovracuto) che le
derivava dall’aver iniziato la carriera come contralto per poi
irrobustire il registro acuto, dominio dello stile cantabile e
delle agilità, intensità nella recitazione supportata da fine
analisi dei propri personaggi: peculiarità che si constatano
nelle parti scritte per lei e quella della regina inglese,
contraddistinta da ardore, compostezza e decoro, non fa
eccezione. Nel già citato «Quant’è grato all’alma mia»
Elisabetta esprime devozione per lo stato attraverso uno stile
vocale carezzevole (nel cantabile), impazienza e segrete
palpitazioni amorose (nella vivace ma non esuberante
cabaletta, che scaturisce dalle patriottiche incitazioni del coro).
Il duetto con Norfolc al N. 6 («Perché mai, destin crudele»,
I,X), fra le pagine più efficaci dell’opera sin dal recitativo,
rompe il fragile equilibrio psicologico della protagonista e
lascia emergere il lato giustizialista di Elisabetta, che viene a
conoscenza del matrimonio stipulato in segreto da Leicester e
Matilda. Rossini predispone per il suo personaggio sorpresa,
turbamento e ira in successione tramite una vocalità non
unilaterale bensì varia e «flessibile», per riprendere un termine
impiegato nel pezzo giornalistico sopra citato. Regina e
amante tradita, Elisabetta stenta a comprendere ciò che le
viene raccontato da Norfolc, che aspira a un ruolo di primo
piano sbarazzandosi dell’avversario. Nel cantabile «Lacerar mi
sento il cor» il segreto compiacimento del traditore è
sovrapposto allo sconcerto della regina; la drammatica
circostanza giunge all’ascoltatore attraverso la simultaneità del
canto, in cui si esprimono aspirazioni divergenti. Elisabetta dà
infine sfogo al desiderio di vendetta, spronata da Norfolc, nella
cabaletta «Quell’alma perfida», in parte mutuata da Aureliano.
La profilazione dei personaggi e l’avanzamento della
peripezia, quindi, avvengono nel corso di un duetto, genere
drammatico prevalente nell’opera di primo Ottocento rispetto
alle arie di singoli personaggi in successione preferite dalle
drammaturgie antecedenti, quando la dialettica interiore o
interpersonale si manifestava in modo unilaterale sulla base di
confronti avvenuti nei recitativi precedenti. Nel duetto
l’interrelazione si drammatizza attraverso il canto e finisce per
dar luogo al vantaggio di un personaggio sull’altro. È qui
tematizzata l’influenza nefasta di Norfolc su Elisabetta; non a
caso la cabaletta viene “dettata” dal tenore, cui è riservato
l’attacco: la regina è tratta in inganno e lo segue, replicandone
in modo speculare i motivi e l’andamento ritmico.
I momenti in cui la regalità si afferma e predomina sono fra i
più significativi. La parte terminale del primo atto è concepita
come un’esibizione progressiva e irrevocabile della
supremazia di Elisabetta – pur nell’errore – sui contendenti.
Nel breve ma non trascurabile monologo con cui si avvia il
finale primo (I,XIII), Elisabetta sintetizza con accenti accorati la
propria condizione servendosi di due allusioni metastasiane:
«A che mai serve / aver doma la Scozia e salvo il trono, / se
un’infelice io sono?» e «Son Regina e amante» richiamano
situazioni affini nella Clemenza di Tito (la versione di Mozart
era andata in scena al San Carlo nel 1809), dove per voce
dell’imperatore si indugia sulla solitudine del potere e sulla
vacuità delle gesta rispetto alla povertà degli affetti, e ancora
più esplicitamente l’aria «Son regina e sono amante» della
Didone abbandonata, che per decenni era risuonata nei teatri
d’Europa come emblema della lacerazione sentimentale patita
dalla regina di Cartagine. La moderna Elisabetta segue le orme
dei predecessori, segnando un elemento di continuità
nell’immagine del sovrano di antico regime.
La finzione della proposta matrimoniale di Elisabetta nei
confronti di Leicester, imbastita nel prosieguo del finale primo
per portare allo scoperto il legame di questi con Matilde, copre
sdegno trattenuto a stento (i repentini cambi di registro a «Se
mi serbasti il soglio», I,XIV). La tensione sale ulteriormente nel
concertato di stupore «(Qual colpo inaspettato)» fino
all’esplosione d’ira che contrassegna la stretta (ripresa dalla
sinfonia, come avveniva anche in Aureliano), in modo
maggiore, secondo un’estetica preromantica che annette al
maggiore il senso di una certezza, quale essa sia (anche
tragica). All’evoluzione del personaggio, sulla base di una
valutazione solo politica che Elisabetta fa della realtà,
corrisponde un’evoluzione vocale che tocca molteplici corde
dell’animo umano fuorché quella della clemenza e della
rinunzia al bene privato a vantaggio dell’interesse pubblico,
valori riservati al secondo atto, ove si effettua un percorso
inverso, da cui per altro non sono escluse debolezze e cadute:
nel terzetto con Matilde e Leicester a II,IV-VI (N. 8) Elisabetta
obbliga la rivale a rinunziare al consorte per avere salva la vita
sua, del fratello e dell’amato. Tutto si ricompone però nel
finale secondo, quando il tradimento di Norfolc è ormai
evidente e solo l’intervento di Matilde ed Enrico salvano
Elisabetta dalla spada di lui. Da notare che il perdono si
esercita soltanto nel confronto dei figli di Maria Stuarda e ha il
sapore di una riconciliazione politica («Bell’alme generose»,
II,xv); Norfolc, che complotta e attenta alla vita della regina
fingendosi suo sostenitore, non è risparmiato («Fellon, la pena
avrai»).
Per concludere, il valore di quest’opera-centone non risiede
nella dimensione strettamente creativa, bensì in quella
organizzativa e strategica: a partire da materiali eterogenei, e
forte di un libretto concepito ad hoc, Rossini collega la
protagonista a un’idea politica specifica e inequivocabile.
Trascorso il 1815, la sede elettiva per Elisabetta restò infatti
Napoli, dove le messinscene dell’opera scandirono i decenni a
seguire: dopo una replica al Fondo nel 1816, al San Carlo
apparve quasi ogni anno, con rare interruzioni, dal 1817 al
1834. Il successo è quantificabile anche dal numero delle
serate (gli allestimenti raggiunsero le nove repliche nel 1818,
1819 e 1822).
Elisabetta poté tuttavia godere anche di una discreta e
prolungata circolazione extranapoletana. La longevità scenica
dell’opera suscitò le perplessità dello stesso Rossini, e la sua
replica all’impresario della Pergola di Firenze, che nel 1838 gli
chiedeva suggerimenti per un nuovo allestimento, non lascia
spazio a dubbi: «Nessuna istruzione potrei darvi sulla
Elisabetta, essendo scancellata dalla mia mente ogni
reminiscenza di Costumi, decorazioni, etc. Queste sono opere
da lasciare in riposo, date musica moderna al Pubblico amante
di novità».24 Noncurante di queste raccomandazioni (e forse
proprio perché si trattava di un centone, ossia di una
compilation del miglior Rossini di certi anni), l’impresario
allestì l’Elisabetta nell’autunno dello stesso anno, in quella
che fu probabilmente l’ultima ripresa italiana.
L’impegno partenopeo del compositore, prioritario ma non
vincolante, comportava qualche rinunzia ma non ostacolò
ulteriori sviluppi professionali. Per motivi politici e geografici
Roma rappresentava una valida alternativa e fu per qualche
tempo destinazione elettiva di opere rossiniane che per vari
motivi meno si adattavano alla capitale borbonica. Nei mesi
del trasferimento al sud, a Roma era andato in scena il
Tancredi, utile al compositore anche per propiziare ulteriori
scritture. Nell’autunno del 1815 Rossini si recò nella città
pontificia per una ripresa del Turco in Italia, che suscitò
entusiasmo, e per approntare l’opera di apertura della stagione
di carnevale al Teatro Valle, di proprietà della famiglia
Capranica e gestito da Pietro Cartoni, dove avevano già avuto
luogo riprese di sue opere (L’inganno felice, carnevale 1813-
14 e Il naufragio felice, ossia L’italiana in Algeri, il 14
gennaio 1815). Ebbe così origine Torvaldo e Dorliska (26
dicembre 1815) su testo di Cesare Sterbini, impiegato
pontificio e librettista quasi esordiente, di incerto profilo
biografico, che propose a Rossini un nuovo soggetto polacco
dopo Sigismondo, stavolta riconducibile a quel genere
semiserio che Rossini aveva sfiorato nella farsa più enigmatica
degli anni veneziani, L’inganno felice (1812).
La vicenda polacca assume in Torvaldo e Dorliska le tinte
fosche di un opéra à sauvetage, tipologia diffusa negli anni
postrivoluzionari – al Valle erano state proposti I fuoriusciti e
Leonora di Paer, 1809 e 1813 – ormai in procinto di essere
messa da parte. La caratterizzavano legami amorosi osteggiati
da potenti in un quadro di oppressione politica, con ingiuste
segregazioni, ricatti, attentati e liberazione finale. L’amore dei
due protagonisti, tenore e soprano, interpretati dall’emergente
Domenico Donzelli (1790-1873) e da Adelaide Sala, è
avversato dal crudele e goffo Duca d’Ordow – il solito Filippo
Galli, qui in vesti lugubri e grottesche – , che minaccia senza
successo la vita di lui e imprigiona lei nelle segrete del
castello. Il guardiano Giorgio, motore buffo della vicenda (il
basso bolognese Raniero Remorini, che Stendhal riteneva
migliore di Galli medesimo), e la sorella Carlotta cospirano
contro il duca; il ricongiungimento è propiziato dalla ribellione
del popolo che condanna il tiranno. Nonostante la presenza di
pagine considerevoli – come il terzetto di Torvaldo, Duca e
Giorgio in I,VIII («Ah qual raggio di speranza», N. 5), con la
svettante presenza sonora del tenore che lascia intravedere i
futuri sviluppi del ruolo, o il finale secondo, che inizia dal
furore dell’aguzzino per giungere all’irruzione dei liberatori
con una climax drammatica di notevole portata – , l’opera non
piacque al pubblico carnevalizio del Valle che si attendeva
forse di essere diversamente allietato (ma l’insuccesso non
privò Torvaldo di una buona circolazione nei due decenni a
venire).
La circostanza di quella poco fortunata messinscena fu
l’occasione per Rossini di un nuovo ingaggio da parte del
concorrente Teatro Argentina di Francesco Sforza Cesarini,
principe di Genzano (1773-1816) che fungeva anche da
impresario; destinato prevalentemente all’opera seria,
l’Argentina apriva solo nella stagione di carnevale e senza
regolarità, dovendo assoggettarsi ai dettami delle autorità
papali, una volta accertata la disponibilità finanziaria (a Roma
era proibito il gioco d’azzardo che a Napoli faceva la fortuna
dei teatri locali e di Barbaja). Il promotore dell’apertura
carnevalizia dell’Argentina in quell’anno era stato il segretario
di stato di Pio VII, cardinale Ercole Consalvi, musicofilo ed ex
allievo di Cimarosa, reduce dal Congresso di Vienna dove era
riuscito a ottenere la ricostituzione dello Stato della Chiesa. Su
un testo nuovamente approntato dal solito Sterbini,
nell’occasione preferito al più rinomato Jacopo Ferretti e in
cerca di rivalsa dopo il parziale insuccesso di Torvaldo,
nascerà in gran fretta Il barbiere di Siviglia, da sempre
considerato il capolavoro comico di Rossini e la sua opera più
rappresentata anche negli anni dell’oblio, prima della rinascita
novecentesca.
Amatissimo e familiare a tutti, ma tutt’altro che univoco e
scontato, il Barbiere rossiniano ci appare oggi in equilibrio
instabile fra tempi e mondi diversi e certo non il modello
primario del teatro comico rossiniano come a lungo si è voluto
credere, quantomeno per il fatto che il Barbiere è l’unica opera
buffa di Rossini dotata di un portato ideologico così forte e
l’unica chiamata in qualche modo a dialogare, storicamente se
non artisticamente, con predecessori di alto livello (Paisiello e
Mozart). Il libretto deriva dal Barbier de Séville di Pierre-
Augustin Caron de Beaumarchais (1732-1799), prima parte di
una ben nota trilogia da cui Da Ponte e Mozart avevano tratto
Le Nozze di Figaro (1786), inscenate anche in Italia, che ne
costituiscono il secondo episodio (La mère coupable, posta a
conclusione, non riscosse all’epoca lo stesso interesse da parte
dei musicisti). Il soggetto del Barbiere apparteneva quindi al
repertorio teatrale francese prerivoluzionario, non privo di
spunti sovversivi che venivano riproposti, parzialmente, nella
Roma restaurata ma accondiscendente di Pio VII. La vicenda
portava sulla scena due figure maschili di pari rilevanza ma
diverso rango: il Conte Almaviva e il barbiere Figaro che
familiarizzano, cooperano, s’intendono, sbagliano o
l’azzeccano, l’uno a fianco dell’altro, accomunati
dall’obiettivo di sottrarre Rosina al tutore Bartolo, che ambisce
alla ricca eredità di lei, ma con finalità diverse (matrimoniali
Almaviva, economiche e di prestigio Figaro). Il tutto già noto
al pubblico, in quanto Paisiello, nel 1782, aveva musicato un
Barbiere di Siviglia per la corte di San Pietroburgo che fu
eseguito anche in Italia e che dava adito a un confronto
implicito con l’opera di Rossini.
Grazie soprattutto alla esplosiva cavatina «Largo al
factotum», il Figaro del Barbiere è sempre stato inteso come
l’emblema dell’uomo moderno, self-made, campione di
destrezza e indifferente alle prerogative delle caste sociali e
quindi libero da vincoli e costrizioni. C’è del vero ma, come
hanno mostrato recenti riletture dell’opera purgate dal cliché
ideologico introdotto dalla tradizione critica, non si può che
prendere atto di un gioco di ruoli più sfumato che se non
ribalta la prospettiva certamente aiuta a meglio posizionare il
Barbiere nel suo scenario storico.
Le circostanze in cui maturò la prima messinscena del 20
febbraio 1816, narrate già molte volte e che qui si
ripropongono per quanto serve, furono oltremodo affannose.25
Nel novembre 1815 non vi erano ancora certezze sull’apertura
del teatro, finché dalle alte sfere pontificie non giunse a Sforza
Cesarini l’invito a programmare la stagione carnevalizia. Il
ritardo era sensibile: di norma, gli artisti più quotati in quel
periodo dell’anno erano già sotto contratto; si dovette scegliere
il soggetto, approntare il testo, mettere assieme una compagnia
e comporre l’opera in poche settimane. Per di più, l’inevitabile
slittamento della data d’inaugurazione comportava per
l’impresario una perdita di proventi, in quanto a Roma la
stagione carnevalizia chiudeva tassativamente all’inizio della
quaresima. Per l’opera seria non vi erano le condizioni giuste;
si ripiegò quindi su un’opera buffa, apparentemente meno
rischiosa. Ancora alla metà di dicembre Sforza Cesarini era
alla ricerca della primadonna e di altri membri del cast; e a
quegli stessi giorni risale l’intesa con Rossini, impegnato al
Valle. Il contratto, stilato il 26 dicembre, dà l’esatta misura di
quale fosse la struttura dei rapporti fra le diverse maestranze e
i vincoli sottoscritti dal compositore, che doveva mettere in
musica il dramma
a seconda delle qualità, e convenienze de Sig.ri Cantanti,
obligandosi ancora di fare occorrendo tutte quelle
variazioni che saranno necessarie tanto per il buon esito
della Musica, quanto per le circostanze, e convenienze de
med.i Sig.ri Cantanti, a sola richiesta del Sig.r Impresario
[…]26
Anche il buffo bolognese Luigi Zamboni (1767-1837), futuro
Figaro, fu intercettato facilmente; prima di passare al teatro
concorrente, il basso sosteneva al Valle il ruolo di Geronio nel
Turco in Italia. Come primadonna si pensò al contralto
Elisabetta Gafforini (1777-1847), molto esperta e molto
pagata. Era stata anche la prima Isabella dell’Italiana in Algeri
nell’originaria versione di Mosca, mentre pare non si fosse
ancora confrontata con intere partiture rossiniane. Non accadrà
neppure quella volta: la lunga trattativa non andò in porto
nonostante la mediazione di Zamboni, che era suo cognato.
Per ripiego si avvicinò negli ultimi giorni dell’anno la
bolognese Geltrude Righetti Giorgi (1793-1862), proprio in
occasione di quella scrittura tornata alla carriera teatrale dopo
una lunga pausa e che sarebbe divenuta la prima Rosina
nonché, l’anno successivo, la prima Cenerentola. Voce potente
ed estesa, versata nella recitazione: così la ritraggono i
contemporanei fra cui Louis Spohr che l’ascoltò a Firenze
proprio nel ruolo di Rosina. Di lei sono note anche prese di
posizione in difesa della musica rossiniana (Cenni di una
donna già cantante sopra il maestro Rossini, 1823).
Il dato più significativo, anche ai fini di una corretta
interpretazione del Barbiere rossiniano, è la questione del
tenore. Dopo aver vagliato diversi altri nomi, si tentò di
reclutare Giuseppe Spech, già Lindoro nell’Italiana data ad
Ancona nel 1814-15 e pure lui nel cast del Turco in Italia al
Valle. Questo poco conosciuto cantante si comportò come una
star e suscitò l’irritazione del duca, che virò su altri nomi pur
avendolo già messo sotto contratto; un incidente di percorso
che si rivelò determinante per l’identità e il livello del ruolo
tenorile, ma soprattutto per la caratterizzazione drammatica
che gli si volle conferire. La scelta cadde infatti su Manuel
García, reduce dal successo dell’Elisabetta napoletana,
ingaggiato all’ultimo momento e remunerato per l’intera
stagione di tre opere con 1200 scudi, a fronte dei 700 per
Zamboni, dei 500 più “beneficiata” per la Righetti (vale a dire
una serata a lei destinata come integrazione al contratto), dei
340 per Bartolomeo Botticelli (secondo basso nel ruolo di
Bartolo), e parecchio giù tutti gli altri. Il carnevale teatrale
all’Argentina poté quindi prendere avvio il 13 gennaio
giocando sul sicuro con L’italiana in Algeri, il cui ottimo
successo vanificò, stando alla testimonianza di Cesarini a
Carlo Mauri (Segreteria di Stato), «un partitaccio terribile che
era del Teatro Valle, che non faceva altro che procurare di far
star zitti tutti quelli che volevano applaudire».27 La presenza di
una claque ostile spiega almeno in parte il celebre fiasco
rimediato alla prima dal Barbiere, il 20 febbraio, prima del
«fanatismo Indicibile»28 delle repliche. Fiasco che il massimo
patrocinatore dell’opera poté risparmiarsi: Francesco Sforza
Cesarini era morto improvvisamente il 16 febbraio.
L’entrata in campo di García, per la fama, il valore
dell’interprete e il suo stesso compenso, aveva quindi
condizionato l’assetto dell’opera, che inizialmente non
prevedeva per quel registro vocale un cantante di così alto
rilievo. La scelta orientò anche la riformulazione del titolo, che
alla prima edizione romana e pressoché solo lì fu Almaviva, o
sia L’inutile precauzione, «commedia / del signor
Beaumarchais / Di nuovo interamente versificata, e / ridotta ad
uso dell’odierno teatro / Musicale Italiano» come riporta il
frontespizio del libretto, ossia un nuovo Barbiere di Siviglia
dopo quello di Paisiello. L’Avvertimento anteposto al libretto
precisava:
Chiamato ad assumere il medesimo difficile incarico il
signor maestro Gioacchino Rossini, onde non incorrere
nella taccia d’una temeraria rivalità coll’immortale autore
che lo ha preceduto, ha espressamente richiesto che il
Barbiere di Siviglia fosse di nuovo interamente versificato,
e che vi fossero aggiunte parecchie nuove situazioni di
pezzi musicali, che eran d’altronde reclamate dal moderno
gusto teatrale cotanto cangiato dall’epoca in cui scrisse la
sua musica il rinomato Paesiello.
Qualche altra differenza fra la tessitura del presente
dramma, e quella della commedia francese sopraccitata fu
prodotta dalla necessità d’introdurre nel soggetto
medesimo i cori, sì perché voluti dal moderno uso, sì
perché indispensabili all’effetto musicale in un teatro di
ragguardevole ampiezza.
Affermazioni equivoche qualora si prendesse alla lettera la
cautela usata da Rossini e Sterbini nel confronto con Paisiello,
che seppure ancora vivente – morirà a Napoli nel giugno
successivo – non poteva costituire una minaccia per il
successo dell’opera; la vecchia ipotesi che il fiasco della prima
del Barbiere fosse dovuto a non ben identificati supporters del
vecchio maestro tarantino, che certo godeva ancora di una
diffusa benevolenza,29 è destituita di fondamento.
L’inconsueto Avvertimento fu dettato essenzialmente
dall’intento di garantire l’originalità di quanto si sarebbe visto
e ascoltato in scena (per versificazione, situazioni, cori
integrati all’azione).
Anni dopo, in occasione di una ripresa dell’opera al San
Benedetto nella primavera del 1818, il recensore veneziano
colse nella nuova intonazione del soggetto tratto dalla
commedia di Beaumarchais (datata 1775) una sorta di sua
seconda vita sulle scene italiane, vista l’ormai limitata
circolazione della versione di Paisiello. Novità e continuità
ancora una volta si sostengono a vicenda, determinando un
asse temporale che consentiva la sopravvivenza, in qualche
forma, di testi teatrali del passato:
[Il libretto del Barbiere di Paisiello], non molto superiore
in merito alle solite nostre fanfaluche di simil genere, ha
potuto oscurare bensì e guastare, ma non intieramente
distruggere le infinite grazie dell’originale, e specialmente
la vivacità ed arguzia del suo veramente comico intrigo,
contribuì quindi esso pure a far rilevare tanto meglio i
melodiosi concenti dell’insigne compositore. Siccome però
quest’opera cominciava a trovarsi omai esclusa da quasi
tutti i repertori dei nostri teatri, e si poteva considerare
quasi come dimenticata, così nell’imbarazzo di trovare fra
molti libri vecchi pur uno, che meno degli altri indegno
fosse di ricomparire in iscena, s’appigliò il nostro Rossini
alla scelta di questo […]30
Il libretto del Barbiere di Paisiello, anonimo e a lungo
attribuito congetturalmente a Petrosellini,31 poco influì
sull’impianto drammatico di quello di Sterbini. È però di
qualche interesse rilevare che sia García (Almaviva) sia
Zamboni (Figaro) avevano già interpretato i due personaggi
con la musica di Paisiello (García all’Odéon di Parigi nel
1810, Zamboni alla Scala nell’autunno del 1811). Non è
escluso che fra le motivazioni che li spinsero ad accettare la
scrittura per la nuova opera di Rossini vi fosse anche il fatto di
essere già entrati nei due ruoli. García aveva anche interpretato
il Conte nelle Nozze di Figaro di Mozart (a Torino nel 1811 e a
Napoli nel 1814-15) e ciò gli avrà procurato una visione più
completa del personaggio.
Riscritto il libretto e invertito l’assetto del titolo rispetto alle
fonti (dal barbiere al conte, dal basso al tenore), spettava agli
autori ridisegnare una linea drammatica capace di tener fede
alla struttura narrativa del testo trovando altri equilibri (o
squilibri) al suo interno; e la cosa riuscì non senza qualche
ambiguità, come vedremo oltre. Il binomio costituito
dall’introduzione (N. 1, una novità nella breve tradizione del
soggetto) e dalla successiva cavatina di Figaro «Largo al
factotum» (I,II, N. 2) prospetta una situazione sbilanciata da
più punti di vista. In quella che resta forse la più celebre scena
d’opera buffa, il Conte si presenta sul finire della notte con
strumenti e suonatori sotto la casa del medico Bartolo, dove
vive segregata l’amata Rosina (il tema così diffuso della
segregazione femminile vira qui in direzione del comico:
nessuno può essere intimorito dalla figura del goffo tutore). Il
motivo iniziale del «Piano pianissimo» è recuperato dal coro
di apertura del secondo atto dello sfortunato Sigismondo, dove
il coro si interroga su cosa agiti l’animo del re («In segreto a
che si chiama?»). Mistero per mistero, Rossini approfitta
dell’analogia e il sillabato corale viene assegnato a Fiorello e
al coro dei musicisti da lui assemblato per accompagnare e
irrobustire la serenata del Conte a Rosina («Ecco ridente in
cielo»). La serenata ha la funzione di una cavatina; brano di
grande smalto vocale, come si addice al tenore eponimo e alla
situazione, non ottiene però il successo sperato perché la
gelosia non si apre. L’esito della prova contraddice insomma la
statura sociale/divistica di Almaviva/García. Il caos che ne
consegue nel canto e in orchestra, con gli importuni suonatori
che nel ringraziare il Conte rischiano di svegliare i dormienti e
di svelare la presenza di Almaviva in incognito, è una pagina
di formidabile comicità musicale (secondo un paradosso
tipicamente melodrammatico, nessuno in realtà si sveglia).
Quella reazione smodata è prodotta dall’abbondanza di
denaro: lautamente distribuito dal Conte ai suonatori, li
sorprende a tal punto che il loro entusiasmo passa la misura.
Almaviva di denaro ne ha fin troppo e questo rischia di
trasformarsi in un’arma a doppio taglio.

Manuel García come Otello, 1821 circa;


Parigi, Bibliothèque nationale de France

«Largo al factotum», cavatina di Figaro, a metà fra aria


operistica e canto realistico (vale a dire cantato anche nella
realtà immaginaria dell’opera, come se si trattasse di uno
spettacolo di prosa), raffigura invece un personaggio vincente
e dalla verve incontenibile, più di quanto non lo fosse nella
commedia francese o in Paisiello, dove anzi, barbiere per
ripiego, Figaro lamenta i suoi pregressi fallimenti come
letterato, da cui vorrebbe riscattarsi. La figura dell’artigiano
risoluto, popolano ma desideroso di affermarsi socialmente,
non è nuova nell’opera buffa, dove le professioni e i mestieri –
ben condotti o anche soltanto millantati – sin dal dramma
giocoso fungono da perno per tante situazioni drammatiche,
spesso contrapponendosi per l’ingegno e l’abilità di chi li
rappresenta all’inerzia dello statu quo sociale fondato su classi
sociali inamovibili. E anche Figaro ha i suoi predecessori. Già
da tempo si conosce il caso della cavatina di Cicala nel
Matrimonio per susurro di Caravita/Fioravanti (Lisbona 1803,
da lì in altri libretti e a Roma nel 1811) in cui appare un’aria di
catalogo piuttosto simile: perché di quella tipologia si tratta,
alla maniera di tanto Settecento comico (evidenti le analogie
testuali: «Larà là lera… / Ta ra là là… / Più bel mestiere / del
parrucchiere»). Sicuramente nuova è però l’esplosione di
vitalità musicale che ha reso la cavatina di Figaro l’emblema
dell’opera. Attingendo alle sue migliori risorse in materia di
gestualità vocale, Rossini dà voce a un personaggio
determinato e vincente che sembra primeggiare rispetto alla
malinconica rassegnazione del Conte, cui è andata buca la
serenata. Ma Figaro vincente lo diventa perché ha committenti
che lo sostengono e anche il Conte finisce per servirsi di lui,
previa ricompensa. In I,IV il barbiere chiede puntuali
assicurazioni e le riceve: «dunque oro a discrezione?»; «oro a
bizzeffe», assicura il Conte; e poco più oltre nel loro duetto
saranno definiti i termini dell’accordo («All’idea di quel
metallo», N. 4). In altre parole, il Conte continua a detenere il
potere che gli deriva dalla sua condizione privilegiata, ma gli
manca la determinazione per conseguire i suoi obiettivi,
imprigionato com’è nel suo ruolo. Quello di Almaviva e
Figaro è dunque un sodalizio interclasse basato su una
reciproca compensazione: a Figaro le idee, la decisione finale
al Conte. Pertanto il dramma non decreta il successo
individuale di Figaro bensì l’opportunità e la convenienza
reciproca di un’interazione virtuosa fra mezzi materiali, rango
e ingegno.
Inoltre, la vanagloria con cui Figaro si presenta in scena è un
fattore più comico che sostanziale. Il pubblico finisce per
simpatizzare per lui, attratto dall’esuberanza con cui inizia la
giornata lavorativa e dalla sicurezza ostentata, senza
preoccuparsi più di tanto della sua credibilità, del resto non
prevista dal ruolo di buffo che Figaro conserva ed esibisce a
ogni battuta. Incassata la fiducia del Conte, Figaro manifesta
assai presto i suoi limiti nel fronteggiare le astuzie femminili o
altre circostanze inaspettate. Nel duetto con Rosina (I,IX, N. 7)
viene battuto in prontezza dalla ragazza la quale ha già pronto
il biglietto per Lindoro – il Conte sotto mentite spoglie – che
Figaro intende suggerirle, e il barbiere ne è sorpreso e si
rimprovera («Già era scritto!… oh ve’, che bestia. / E il
maestro io faccio a lei!»). Per il finale primo Figaro
concepisce invece un’idea che si rivelerà fallimentare; la
propina al Conte sin dal loro duetto, spacciandola per una
«invenzione prelibata»: farlo introdurre in casa di Bartolo
travestito da soldato ubriaco per guadagnare la sua fiducia. È
la prima di una serie di gag che alimenta la trama essenziale ed
iterativa dell’opera, costruita sull’assalto oppure sulla difesa di
quello che Lorenzo Bianconi ha definito un «fortilizio» (la
magione di Don Bartolo), dimensione visibile di aspirazioni e
limiti dei personaggi. Il Conte non brilla per astuzia e si lascia
convincere da quella «testa universale»; ma l’espediente del
soldato ubriaco non può ragionevolmente funzionare: il finale
primo segna una débacle collettiva e la strategia di Figaro,
volta a far sì che il Conte possa avvicinare Rosina, va a monte.
Dopo una successione di vicende comiche legate alla finta
ebbrezza del finto soldato e alle sue pretese di dimorare in casa
di Bartolo, la situazione degenera e l’intervento pacificatore di
Figaro non serve a scongiurare l’arrivo della forza pubblica
(I,ultima). Il Conte si trae d’impaccio da solo dichiarando le
proprie generalità. L’ostentazione della sua superiorità di
rango è espressa in una eloquente didascalia:
Con gesto autorevole trattiene i soldati che si arrestano.
Egli chiama a sé l’Uffiziale, gli dà a leggere un foglio:
l’Uffiziale resta sorpreso, vuol fargli un inchino; il Conte
lo trattiene. L’Uffiziale fa cenno ai soldati che si ritirino
indietro, e anch’egli fa lo stesso. Quadro di stupore.
Un colpo di scena che, come di norma, dà avvio al largo
concertato e da lì alla scalpitante stretta finale. Lo “stupore” è
generato dal disvelamento delle credenziali di Almaviva: la
distanza sociale fra lui e gli altri gli consente di evitare
l’arresto e genera la situazione scenica più dilatata, grazie al
trattamento musicale, a suggello del primo atto.
Quasi in apertura di secondo atto, il nuovo travestimento con
nuova incursione del Conte in casa di Bartolo, stavolta sotto le
spoglie di un maestro di musica per Rosina (Alonso) in
sostituzione di Don Basilio, dato per malato (II,II e sgg.), si
avvale di strutture musicali elaborate con effetti a catena che
coinvolgono tutti i personaggi in successione, attraverso i
numeri seguenti:

duetto del Conte e Bartolo («Pace e gioia il ciel vi dia»,


N. 10). Il Conte, falsificando la voce, non è riconosciuto
e si procura l’accesso in casa di Bartolo;
rondò di Rosina con il Conte che funge da pertichino
(«Contro un cor che accende amore», II,III, N. 11).
Rosina è coinvolta nella simulazione richiesta dalle
circostanze e interpreta il suo ruolo alla perfezione: il
brano si ascolta come un “canto scenico”. La lezione
impartita da “Alonso”, al pianoforte, con Bartolo
addormentato, prevede che Rosina si eserciti32 mentre il
Conte negli accorati “a parte” la tranquillizza; sua
quindi la regia di questa bizzarra messinscena che
sembra volgere al meglio. Anche Bartolo si esibisce in
una stucchevole canzonetta, accennando a incerte
movenze di danza (N. 12); vi rimpiange l’epoca di
Caffariello (Gaetano Majorano, castrato morto nel
1783) e ciò lo identifica come vecchio anagraficamente
e superato in quanto a gusti musicali (lui medico
borghese, e non un aristocratico: Almaviva nel primo
atto si era invece dimostrato disinvolto nelle sue
capacità musicali, fra serenata e canzone alla chitarra);
Figaro entra in scena al recitativo successivo (II,III):
efficace spalla comica, sostiene la finzione di “Alonso”
e tenta di distrarre Basilio facendogli la barba, mentre si
procura con l’astuzia la chiave della gelosia; il diversivo
subisce però un primo stop giacché arriva inatteso Don
Basilio per far lezione a Rosina. Inizia così il quintetto,
brano di punta del secondo atto (N. 13). L’azione
consiste nel tentativo di estromettere Bartolo dalle
manovre volte a organizzare la fuga di Rosina.
Musicalmente è un eccellente esempio, per i concertati,
del ruolo spettante alla compagine orchestrale nella
gestione dell’azione scenica: schematici motivi
ricorrenti in orchestra determinano l’ossatura ritmica e
il fondamento armonico delle diverse sezioni del brano,
mentre in superficie le battute dei cantanti si
dispongono in modo razionale ma senza che la
naturalezza della recitazione ne venga mai alterata.
Quando se ne discostano per concedere spazio al canto
individuale o collettivo, la comicità slitta dall’elemento
visivo (l’azione) a quello propriamente
melodrammatico, vedi i replicati «Buona sera» con cui
ci si accommiata da Don Basilio, che alla fine si
persuade di essere malato: insignificanti dal punto di
vista testuale, ma efficacissimi nell’ottica operistica.
Non si riesce tuttavia a impedire che Bartolo si avveda
del complotto e metta nuovamente tutti alla porta nella
stretta finale, il cui fattore comico risiede stavolta nella
ritmica scalpitante costituita da figurazioni ternarie
reiterate fino al parossismo.

In questo avvicendamento di opportunità mancate e in assenza


di un vero intreccio, la soluzione della vicenda è affidata alla
chiave della gelosia che Figaro si è procurato (unica azione
concreta da questi portata a compimento). Resta da vincere
l’improvvisa resistenza di Rosina; seguendo il perfido
suggerimento di Don Basilio nella celebre aria della calunnia
(«La calunnia è un venticello», I,VIII, N. 6), Bartolo convince
la fanciulla che “Don Alonso” e Figaro altro non vogliono che
consegnarla al Conte (lei non sa di conoscerlo sotto le mentite
spoglie di Lindoro). L’equivoco che i due compari hanno
congegnato finisce per trarla in inganno e tutto rischia
nuovamente di precipitare perché Rosina, per ripicca, decide
di acconsentire al matrimonio con Bartolo.
Per superare gli ultimi ostacoli il Conte fa ancora tutto da
solo: svela la propria identità a Rosina (segue il terzetto «Ah
qual colpo inaspettato!», II,IX, N. 16, in cui, non senza indugi
dovuti alla lascivia del canto dei due innamorati, si concerta la
fuga, in punta di piedi su un accompagnamento orchestrale
saltellante); compra il sostegno di Basilio col dono di un
anello, procurandosi così un inatteso testimone di nozze;
infine, redarguisce e mette all’angolo il tracotante Bartolo,
facendo leva sull’ardore dei propri sentimenti e
sull’autorevolezza che gli derivano dalla superiorità di classe.
Con Saverio Lamacchia, che ha proposto una rilettura del
Barbiere rossiniano purgata da radicati automatismi critici, il
suggello dell’azione consiste in un grande e virtuosistico
rondò del tenore, preceduto da recitativo strumentato alla
maniera dell’opera seria, «Cessa di più resistere» (II,ultima,
N. 17), la cui frequente omissione in sede esecutiva,
adducendo come motivazione la sua inutilità perché l’epilogo
è ormai compiutamente prefigurato, altera la giusta
caratterizzazione dei personaggi. Il rondò infatti – genere
vocale cui le ultime generazioni di castrati, ossia i “primi
uomini”, affidarono molto del loro prestigio – riconsegna al
Conte il ruolo che gli spetta, in quello che si configura come
un atto di forza ai limiti della minaccia nei confronti del tutore
(«non cimentar mio sdegno: / spezzato è il giogo indegno / di
tanta crudeltà»). L’idea che del Barbiere comunemente si ha,
inalterabile nella coscienza collettiva, può determinare un
certo scetticismo nei confronti di questa lunga e faticosa
pagina, che senza dubbio rallenta l’azione e colloca il Conte su
un piedistallo da cui, a tratti, era già disceso; nondimeno il
rondò era stato previsto dagli autori: non se ne propone qui un
riscatto estetico ma una giustificazione sul piano storico e
culturale.
Diamo al Conte quel che è del Conte e facciamo adesso un
passo indietro, tornando al primo atto e in particolare alla
cavatina di Rosina, «Una voce poco fa», fra i brani di punta
dell’opera e all’epoca il più replicato in scena su acclamazione
del pubblico (I,V, N. 5). Piacevolmente scossa dalla canzone
che il Conte, su istigazione di Figaro, le ha appena cantato
sotto la finestra («Se il mio nome saper voi bramate», I,IV,
N. 3), che rimedia all’insuccesso della pomposa serenata
iniziale, sola «con lettera in mano» svela nell’Andante il suo
innamoramento («il mio cor ferito è già»), la sua
determinazione («Sì, Lindoro mio sarà») e, nel Moderato
successivo, la duplicità insita nel suo carattere con alcuni versi
chiave: «Io sono docile, / son rispettosa … Ma se mi toccano /
qua nel mio debole, / sarò una vipera». Il motivo conduttore è
al suo quarto impiego da parte di Rossini; limitandoci alle
occorrenze più significative, si ritrova nella Gran Scena di
Arsace (Aureliano in Palmira, Milano 1813) e proprio a
ridosso del Barbiere nella cavatina di Elisabetta (Elisabetta
regina d’Inghilterra, Napoli 1815). In quest’ultimo caso, come
per Rosina, il motivo marca un recesso dell’animo di
Elisabetta, in spasmodica attesa di Leicester, ovvero un lato
celato della sua personalità: «Questo cor ben lo comprende, /
palpitante dal diletto. / (Rivedrò quel caro oggetto / che
d’amor mi fa brillar)» (I,II). Rossini applica a Rosina, con
qualche variante, la stessa musica infarcita di piccanti
colorature; l’intento è in entrambi i casi quello di raffigurare la
perturbazione dell’animo dei personaggi, sottolinearne
l’eccitazione psichica quando si sviluppino determinate
condizioni (eccitazione di diverso segno: Rosina può diventare
una vipera, mentre Elisabetta sa amare teneramente), a
prescindere dal loro status sociale e coerentemente con la
poetica rossiniana che rende irrilevanti gli scavalcamenti di
genere teatrale.33 All’ascolto, qualora si conoscano entrambe
le opere, l’analogia fa sobbalzare; ma si tratta di una faccenda
solo nostra, perché il pubblico romano Elisabetta non l’aveva
ancora vista in scena. La trasposizione non implica in ogni
caso equivalenze sommarie: Elisabetta è una regina, e anche se
Rosina prende in prestito da lei qualche battuta di musica resta
Rosina, vale a dire il personaggio che nel Barbiere più
manifesta il retaggio settecentesco dell’opera buffa. La sua
cavatina, esplicita e umorale, non denota alcun sensibile scarto
rispetto alle tante fanciulle da marito del dramma giocoso di
mezzo secolo prima solo per il fatto che Rosina canta “come
una regina”; profilo vincente, il suo, ma soprattutto per merito
d’altri.
Il riscatto delle donne che si è visto in tanti personaggi
femminili dell’opera buffa, i quali, dalla Serpina della Serva
padrona di Pergolesi in poi, riescono a prevalere sul genere
maschile e a raggiungere i loro obiettivi (contrariamente alle
donne dell’opera seria che soccombono alle volontà dei mariti
e dei padri, o alle circostanze),34 è per altro parziale e spesso
illusorio. I loro successi si limitano alla fase della seduzione;
più raramente l’opera buffa inscena quello che avviene nella
successiva unione matrimoniale e, quando questo capita, le
tinte sono meno ottimistiche: basti pensare al destino di Rosina
divenuta Contessa, nel Mariage o nelle mozartiane Nozze di
Figaro, o alle altre numerose spose trascurate, tradite o
ripudiate, fino a Rossini compreso. L’upgrade sociale e le
istituzioni – essenziali per il funzionamento della vita civica –
non garantiscono però la felicità, men che meno alle donne,
ed è una condizione che accomuna il Sette e l’Ottocento della
Restaurazione. La poetessa Sarah Fyge Egerton (1668-1723)
nella lirica The Emulation dai suoi Poems on Several
Occasions (1703) si era espressa in termini che potrebbero
essere ancora convalidati dalla Rosina della trilogia, se non da
quella di Rossini, che ancora non sa cosa la attende: «Say
Tyrant Custom, why must we obey, / the impositions of thy
haughty Sway; / from the first dawn of Life, unto the Grave, /
poor Womankind’s in every State, a Slave. / The Nurse, the
Minstress, Parent and the Swain». Nello stesso anno le fa eco
Mary Chudleigh (1656-1710) in To the Ladies: «Wife and
servant are the same, / but only differ in the name: / for when
that fatal knot is tied, / which nothing, nothing, can divide, / …
/ then all that’s kind is laid aside, / and nothing left but state
and pride».35
Da qualsiasi lato la si prenda, di personaggio in personaggio,
maschile o femminile, e di situazione in situazione, la
questione è in fondo la stessa e attiene al programma
intellettuale della trilogia di Beaumarchais e del Mariage in
particolare, vale a dire al suo contenuto innovativo o anche
rivoluzionario ante litteram: se davvero vi fosse, se fu colto e
quando, se riuscì a fecondare e in che misura librettisti e
musicisti, quantomeno da Da Ponte e Mozart per giungere a
Sterbini e Rossini; se quindi le vicende di Almaviva, Figaro e
Rosina, musicate o meno, abbiano una valenza progressista o
non siano piuttosto espressione dell’antico regime che al
tramonto (o già tramontato) rivolge lo sguardo a sé medesimo,
come in tanta commedia e in tanta opera settecentesca in cui
aristocratici borghesi e popolani si contendono scena e
obiettivi, salvo poi accontentarsi di un accomodamento finale.

Luigi Rados, ritratto di Giovanni David;


Milano, Archivio Storico Ricordi

Per consuetudine si tende a riconoscere a questo corpus di testi


così difformi per epoca e genere (Beaumarchais e i suoi
adattamenti operistici) un forte potenziale antiaristocratico; ma
non sono mancate voci discordanti che hanno rilevato, per
esempio, che le censure subite da Beaumarchais non furono
dovute alla natura sovversiva dei suoi testi, quanto alla
licenziosità di alcune situazioni; con Robert Darnton, «non alla
radicalità delle idee, ma al trattamento del sesso, giudicato
inadatto alla scena». «Il messaggio “rivoluzionario” del
Mariage de Figaro (seppure esiste) passò inosservato nella
Francia prerivoluzionaria»,36 ed è possibile che il celebre
monologo di Figaro nel Mariage, aggiungiamo noi, sembrasse
solo uno sfogo innocuo in confronto alla bruciante satira dei
libelles clandestini allora tanto popolari a dispetto di ogni
sanzione. A maggior ragione innocuo dovette sembrare il
primo episodio della trilogia: secondo un diffuso costume di
corte, che consentiva agli aristocratici di uscire dalla loro
posizione nel farsi loro stessi attori, nel 1785 Maria Antonietta
in persona interpretò Rosina nel Barbier de Séville al Petit
Trianon di Versailles, in un cast popolato di cortigiani; l’anno
precedente l’opera di Paisiello era stata eseguita in francese,
sempre in teatri di corte, per volontà della regina. Fra i libri
sovversivi che costituirono le origini intellettuali della
Rivoluzione, in quanto strumento di delegittimazione
dell’Ancien Régime, sempre secondo Darnton non è lecito
annettere la letteratura elevata a cui la trilogia afferisce,
concepita anche per intrattenere teste coronate.37 Roger
Chartier ha invece dubitato che la letteratura in sé possa aver
prodotto la Rivoluzione, «perché è stata la Rivoluzione a dare
un significato premonitore e programmatico a opere
considerate come la sua origine»; parafrasando lo studioso,
sarebbe stata quindi la Rivoluzione a creare l’Illuminismo, o
almeno alcuni suoi aspetti, e non il contrario.38 Recentemente,
Jonathan Israel ha individuato più pragmaticamente
nell’allentamento della censura reale attorno al 1788 – si iniziò
in quegli anni a parlare di libertà di stampa – e nella rinnovata
capacità della stampa medesima, sottratta alle élite
privilegiate, di creare opinione riunendo in un comune
interesse ceti diversi, una nuova e inattesa forza di
aggregazione sociale («Non furono i professionisti e gli
avvocati a condurre questo crescente assalto all’Ancien
Régime, ma un manipolo di nobili scontenti, di letterati, di
preti ribelli e di giornalisti»).39
Quale che sia l’orientamento prescelto, il concetto di
rivoluzione, per l’epoca qui trattata, deve essere storicizzato
perché non assomigli troppo a quello moderno. Prima di
giungere alle sommosse di popolo, la Rivoluzione si agitò in
ambienti vicini alla corte, corrodendone dall’interno le
certezze. Un caso emblematico si ha nella figura di Honoré de
Mirabeau: conte, libertino, giornalista, apertamente schierato
con il Terzo Stato ma in stretti legami con la corte e Luigi XVI
nel proposito di orientare la Rivoluzione verso una riforma in
senso costituzionale dell’istituto monarchico, che difese a
oltranza; politico e oratore illuminato cui non sfuggì
l’opportunità di una mediazione e di un confronto fra le classi.
Sul piano generale, la trilogia di Beaumarchais costituì un
tassello di questo processo (poi fallito) di mediazione: non
solo quindi una faccenda letteraria e neppure un manifesto
programmatico, bensì sintomo ed espressione del mutamento
di prospettiva in atto nei rapporti fra classi.
Nell’ottica musicologica occorre a maggior ragione sfumare
posizioni drastiche, in un senso o nell’altro. Se è vero che il
potenziale sovversivo della trilogia di Beaumarchais potrebbe
rivelarsi conseguenza della sua recezione critica, ogni
messinscena e qualsiasi adattamento operistico e successive
riprese, ovvero la storia rappresentativa di quei testi, furono a
loro volta forme di recezione al cospetto di pubblici e di
contesti sociali eterogenei. Il pubblico romano e papalino della
prima del Barbiere sarà stato costituzionalmente diverso e
diversamente sensibile a quelle tematiche rispetto al pubblico
fiorentino nell’autunno dello stesso anno, o al pubblico
veneziano nel 1817, o al pubblico torinese nel 1818, e via
dicendo. Ogni pubblico avrà avuto quindi il “suo” Barbiere. È
invece evidente che Elisabetta regina d’Inghilterra e Il
barbiere di Siviglia, Napoli e Roma, nonostante gli esiti così
dissimili furono espressione di una medesima mentalità, che
fra doverose rinunzie (Elisabetta) e tribolati successi
(Almaviva) continuava a riconoscere alla classe nobiliare
virtù, carisma e influenza sociale.
SUGGERIMENTI DI LETTURA

Le circostanze della composizione di Edipo coloneo sono


ricostruite in TOZZI-WEISS 1985. Su Elisabetta regina
d’Inghilterra vedi SPADA 1990 e BORGHETTI 2016; su centoni,
autoimprestiti e problematiche interpretative ivi sottese
QUATTROCCHI 1994, SENICI 2010 e BEGHELLI 2018b. Il profilo
biografico e artistico della Colbran emerge con dovizia di
dettagli in RAGNI 2012; su García, RADOMSKI 2000. Per un
quadro storico della Napoli nel decennio francese vedi il
volume miscellaneo All’ombra di Murat 2007. Riguardo in
generale alla costruzione fasulla di storie, miti e identità con
finalità politiche, utile rileggere due classici come HOBSBAWM
1983 e GINZBURG 2006. Sull’impresariato a Napoli fino
all’arrivo di Barbaja PIPERNO 1987 e TOSCANO 1987;
specificamente su Barbaja anche oltre Rossini MAIONE-SELLER
1994. La riforma dell’educazione musicale a Napoli è trattata
in CAFIERO 1998, CAFIERO 1999 e CAFIERO 2006; sugli
spettacoli misti di prosa e musica JACOBSHAGEN 2009 e più
diffusamente sul decennio francese COLAS-DI PROFIO 2021. Su
Spontini, Manfroce e le influenze della tragédie lyrique a
Napoli CHEGAI 2016 e CHEGAI 2017; sulla drammaturgia del
libretto nella Medea in Corinto di Mayr, RUSSO 2004.
Riguardo al mutamento nel gusto vocale e la pacifica
convivenza fra castrati, tenori emergenti e primedonne soprano
si vedano i casi discussi in CHEGAI 2015. Sulla Roma di primo
Ottocento, fra influenze francesi e Restaurazione, e su
Torvaldo e Dorliska RUSSO 2013; l’incerto profilo biografico e
letterario di Sterbini in BINI 1998. Le implicazioni del comico
rossiniano – e in particolare sull’Italiana in Algeri e Il
barbiere di Siviglia – in GALLARATI 1999b e GALLARATI 1999c.
Retroterra culturale, influenze e peculiarità drammaturgiche
del Barbiere in LAMACCHIA 2008 e BRAUNER 2008. Sulle fonti
della commedia e del libretto DI PROFIO 2016; alcuni degli
elementi costitutivi della drammaturgia musicale, anche in
prospettiva didattica, in BIANCONI 2005.
DA ASCOLTARE

Elisabetta regina d’Inghilterra


Monserrat Caballé (Elisabetta), José Carreras (Leicester),
Valerie Masterson (Matilde), Rosanne Creffield (Enrico), Ugo
Benelli (Norfolk), Neil Jenkins (Guglielmo), Ambrosian
Singers, London Symphony Orchestra, dir. Gianfranco Masini,
Philips 1976
Torvaldo e Dorliska
Huw Rhys-Evans (Torvaldo), Paola Cigna (Dorliska), Mauro
Utzeri (Giorgio), Michele Bianchini (Duca d’Ordow),
Giovanni Bellavia (Ormondo), Anna-Rita Gemmabella
(Carlotta), ARS Brunensis Chamber Choir, Czech Chamber
Soloists, Brno, Alessandro De Marchi, Naxos 2006
Il barbiere di Siviglia
Hermann Prey (Figaro), Teresa Berganza (Rosina), Luigi Alva
(Almaviva), Enzo Dara (Bartolo), Paolo Montarsolo (Basilio),
Ambrosian Singers, London Symphony Orchestra, dir. Claudio
Abbado, Dg 1971

6. Restaurazione politica e affermazione professionale


1 Il Puccini citato è probabilmente Domenico (1772-1815), antenato di Giacomo,
le cui musiche furono eseguite anche a Bologna e potevano essere note a Giusti.
2 «Tutta Bologna ha ascoltato le bande tedesche di ottoni suonare la Marsigliese
italiana che Gioachino aveva donato a Stefanini senza cambiare una nota e
limitandosi a riportare sotto la musica i versi del Ritorno di Astrea»
(MIRECOURT 1855, p. 54; vedi anche p. 50 e sgg.).
3 Nell’edizione critica la resa grafica differenziata rende evidenti la primigenia
stesura rossiniana e i completamenti effettuati da mano anonima: cfr. Edipo
Coloneo, tragedia di Sofocle recata in versi italiani da Giambattista Giusti. Musiche
di scena di Gioachino Rossini, a c. di Lorenzo Tozzi e Piero Weiss, Fondazione
Rossini, Pesaro 1985 («Edizione critica delle opere di Gioachino Rossini. Sezione
seconda – Musiche di scena e cantate», vol. I).
4 Vedi DAHLHAUS 1980, pp. 63-70 e DELLA SETA 1993, pp. 85-86.

5 GRLD 2004, p. 82.

6 GRLD 2004, p. 91.


7 PASQUALE BORRELLI, Elogio funebre dedicato alla memoria di Domenico
Barbaja, Lampati e C., Mendrisio 1841, p. 11.
8 Gazzetta di Milano, 20 agosto 1818 (notizia da Napoli, 10 agosto), p. 1111.
9 GRLD 1992, p. 140.

10 GRLD 1992, pp. 57-58 (Napoli 24 luglio 1813).

11 RADICIOTTI 1927-29, vol. I, pp. 159-160, ma vedi anche BORGHETTI


2016, pp. XXV-XXVI.
12 GRLD 2004, pp. 85 e 89.
13 ZOPPELLI 1994, p. 24.

14 GRLD 1992, p. 90.

15 GRLD 1992, p. 93.

16 SALVAGNO 2016, pp. 31 e 430.


17 Cit. in RAGNI 2012, vol. II, pp. 937-938.

18 GRLD 2000, pp. 14-15 (Parigi 21-22 ottobre 1826, Alessandro Micheroux a
Giuditta Pasta).
19 GRLD 2004, p. 98.

20 Cit. in RAGNI 2012, vol. II, p. 940.


21 Cit. in RAGNI 2012, vol. II, p. 941.

22 GRLD 2004, p. 96.

23 CARPANI 1824, p. 156.

24 MAZZATINTI-MANIS 1902, pp. 85-86.


25 La ricostruzione più dettagliata, con nuovi apporti documentari, in LAMACCHIA
2008, pp. 1-42.
26 GRLD 1992, p. 124.
27 Cit. in LAMACCHIA 2008, p. 23.

28 GRLD 2004, p. 121 (27 febbraio 1816, alla madre).


29 Nella Toscana lorenese, dinasticamente vicina al Regno di Napoli, Paisiello
aveva buona stampa da sempre. Nel 1818, in occasione di una ripresa livornese del
suo Barbiere, il giornalista plaudì a una pacifica convivenza della musica dei due
autori, Paisiello e Rossini, “bella semplicità” versus artificio, finendo per
simpatizzare per il tarantino: «Siccome si eseguiva al Teatro questo libretto con la
musica del maestro Rossini […] molte circostanze facevano credere che la musica
di Rossini avrebbe prevalso; ma benché non si sia fatta che una sola prova […]
questa bellissima musica ha destato il più grande entusiasmo in tutti gli ascoltanti,
ed i più appassionati ammiratori della musica di Rossini hanno dovuto convenire,
che il vero bello nella musica, non consiste nell’accumular motivi sopra motivi,
accompagnati da gran frastuono di clamorosi strumenti, che soffocando la voce dei
Cantanti li costringe, per essere intesi, a strillar come altrettanti Energumeni. […] le
opere di musica, benché d’antica data, quando sono d’autori classici, non
invecchiano mai» (Gazzetta di Firenze, 29 agosto 1818, pp. 3-4).
30 Gazzetta privilegia di Venezia, 7 aprile 1818, p. 3.
31 Francesco Morlacchi nella sua pressoché coeva musicazione ancora lo
recupera (Dresda 1816).
32 La lezione di Rosina fu trasformata nel corso dell’Ottocento in una sorta di
miniconcerto, con l’inserimento di brani vocali e strumentali delle più diverse
estrazioni. La circostanza, che la dice lunga sulle libertà che ci si poteva concedere
in un’opera individuata come monumento del comico (e in quanto monumento,
inattuale), è discussa con vivacità di dettagli in PORISS 2009, p. 156 e sgg.
33 Con Marco Beghelli, Rossini procede per «“figure” sonore astratte ricorrenti di
opera in opera e prive sia di una reale identità melodica, sia di un valore semantico
extramusicale»; «pare in sostanza che Rossini scriva a partire da un contenitore
formale astratto che preesiste alla pagina musicale concreta, riempiendone ogni
segmento di elementi eventualmente intercambiabili con altri, purché equipollenti,
talvolta di nuova invenzione, talaltra già utilizzati altrove: elementi musicali
“componibili”, come lo erano quelli verbali utilizzati da Gaetano Rossi e dagli altri
librettisti dell’epoca» (BEGHELLI 2018b, pp. 84 e 90).
34 Da una prospettiva di musicologia femminista, notoriamente CLÉMENT 1979.
35 Cit. rispettivamente dall’edizione J. Nutt, London 1706, p. 108, e da The
Female Poets of Great Britain, H.C. Baird, Philadelphia 1854, p. 98. In BLANNING
2007, pp. 81-83, un commento e le traduzioni italiane («Di’, consuetudine tiranna,
perché dobbiamo obbedire / alle imposizioni del tuo arrogante dominio? / Dalla
prima alba della vita fino alla tomba, / la povera donna è in ogni condizione schiava
/ infermiera, amante, genitrice e corteggiatrice»; «Donna e serva son la stessa cosa /
diversa solo per il nome / perché quando si stringe il nodo fatale / e niente, niente
può scioglierlo, / […] / allora ogni cosa è messa da parte / e altro non resta che il
rango e l’orgoglio»).
36 DARNTON 1982, p. 48, n. 33 (L’apogeo dei lumi e la bassa letteratura).

37 È la tesi di fondo di DARNTON 1995.

38 CHARTIER 1991, p. 91.


39 ISRAEL 2015, pp. 34-59: 39.
7. «Tutto cangia a poco a poco»
Nuove prospettive sui generi: «Otello» e
«Cenerentola»

Frontespizio della prima edizione a stampa della Cenerentola;


Milano, Archivio Storico Ricordi

Come in alcuni dei precedenti capitoli, nelle prossime pagine


si affronterà una coppia di opere dissimili fra loro e poco
conformi ai canoni dell’epoca. Sollecita questa scelta la
vicinanza temporale dei due lavori: Otello, in prima il 4
dicembre 1816; Cenerentola, il 25 gennaio 1817; ma la
incoraggia anche l’accostamento di generi (dramma e dramma
giocoso) e centri produttivi diversi (Napoli e Roma):
condizioni abituali nell’operismo di quegli anni e nella
produzione di Rossini su cui è bene spendere qualche parola.
Estendere l’ampiezza angolare dello sguardo critico aiuta a
cogliere le giunture fra biografia e produzione artistica e a
sgombrare il campo da paradigmi come organicità e unità di
intenti, difficilmente applicabili all’opera italiana di primo
Ottocento, vincolata alle strategie impresariali e soggetta a
opportunità improvvise, a scelte casuali o di pura necessità.
Otello e Cenerentola si allontanano dai rispettivi generi di
appartenenza e dai più diretti antecedenti; ma sono anche
opere che non ebbero immediato seguito nella successiva
produzione di Rossini, come sempre assai ondivaga, o di altri
autori. Nella loro atipicità non rappresentarono una svolta, un
mutamento di indirizzo consapevole, ma piuttosto altrettanti
“casi” indicativi della molteplicità di soluzioni
drammaturgiche che contraddistinguevano il teatro musicale
da oltre un ventennio, a seguito dello scompaginamento dei
canoni dell’opera seria e comica del secolo precedente.
Parametri di giudizio come vecchio/nuovo hanno, all’epoca di
Rossini, una validità relativa in quanto si fondano su categorie
estetiche ancora non compiutamente definite, dopo lo stato di
crisi generato dalla Rivoluzione che però, negli anni della
Restaurazione, non aveva avuto esito in un modello sociale e
politico totalmente rinnovato; secondo Koselleck, «ci sarebbe
stata una gran quantità di rivoluzioni e si sarebbe in seguito
giunti alla conclusione che la condizione di crisi che aveva
inaugurato il XIX secolo era destinata a durare».1 Rossini si
affaccia al nuovo adattandolo al proprio linguaggio e alla
mentalità di un’epoca ancora implicata con l’antico regime.
Per la sua produzione non è funzionale la nozione di “periodo”
in senso estetico – ossia di fasi artistiche ben definite – che
presuppone distacco e autocoscienza: fattori incompatibili
anche con la macchina teatrale, che anteponeva le esigenze
dello spettacolo a quelle del compositore, quando ne avesse di
proprie. Otello e Cenerentola rappresentano piuttosto la
rivisitazione delle tradizioni seria e buffa a cui nominalmente
appartengono.
Riprendendo la narrazione da dove l’avevamo interrotta,
dopo il successo del Barbiere Rossini fece ritorno a Napoli;
forse in sua assenza era stata eseguita il 12 gennaio 1816 la
cantata Pel faustissimo giorno natalizio di Sua Maestà il Re
Ferdinando IV, nostro augusto sovrano, detta Giunone, su testo
di Angelo Maria Ricci (1776-1850), già tutore dei principini
Achille e Napoleone Luciano, figli di Murat, nonché autore di
una raccolta di Fasti dedicati al cognato dell’imperatore. A
Restaurazione avvenuta, Ricci era stato recuperato dalla
reggenza borbonica come membro della commissione dei
teatri e revisore dei testi teatrali. Furono mesi piuttosto
tranquilli per Rossini, complice anche l’incendio che il 13
febbraio 1816 distrusse completamente il San Carlo. La
ricostruzione, affidata all’architetto di corte Antonio Niccolini,
si protrasse per circa un anno e condizionò l’ordinaria
distribuzione degli spettacoli, ripartiti nei restanti teatri con
maggiore impegno del Fondo, cui approdarono produzioni che
altrimenti sarebbero state d’appannaggio del maggiore teatro
partenopeo. Al Fondo fu allestita il 24 aprile anche un’altra
cantata scenica rossiniana del tipo impiegato nei Teatri Reali
come prologo per serate di gala, in occasione delle
celebrazioni per il matrimonio di Maria Carolina figlia di
Francesco I delle Due Sicilie, erede al trono, con Carlo
Ferdinando d’Artois duca di Berry; su testo del solito Ricci, la
scelta del tema nuziale cadde su Le nozze di Teti, e di Peleo,
connubio all’origine di una stirpe di immortali Achille
compreso (ma il matrimonio borbonico fu meno fortunato: nel
1820, con la moglie incinta, il duca fu assassinato a Parigi da
un anarchico all’uscita dall’Opéra di Rue de Richelieu dove si
dava Olimpie di Spontini; l’Opéra fu poi rasa al suolo per
cancellare la memoria del delitto). Manco a dirlo, Rossini in
questa «azione coro-drammatica», dotata dei balli di
Gallenberg e di elementi spettacolosi come il «quadro magico»
conclusivo, recuperò a man bassa pressoché in ogni numero
musica tratta da opere precedenti, serie o buffe, e anche dal
Barbiere, all’epoca ignoto a Napoli. Il più eclatante
autoimprestito si ha nell’aria di Cerere «Ah non potrian
resistere» (N. 9, in prossimità dell’epilogo) che venne
esemplata sul rondò del Conte, evocato anche nell’incipit (che
era «Cessa di più resistere»); Ricci seguì la falsariga del testo
poetico originale perché Rossini potesse applicare a Cerere la
musica di Almaviva, che così transitò da García alla Colbran.
Nel frattempo i contatti professionali del compositore si
infittirono ed egli, come al solito, ne rese partecipe la madre,
rassicurata con una sorta di aria di catalogo condita di
espressioni teneramente infantili: «lo credete Ricevo tutti i
giorni trattati per Milano Venezia, Turino, Londra, Spagna,
Germania Russia Svezia etc. egli è ben vero che Sono il Primo
dei Maestri e Voi fra le Mammone Siete la più fortunata. […]
La Mia Elisabetta che Continuamente si dà è l’Onore
dell’Italia. La Colbran La Rapresenta come un Dio».2 Il largo
consenso di Elisabetta regina d’Inghilterra, enfaticamente
rimarcato (l’opera fu in programma al Fondo nella primavera e
approderà nell’arco di qualche mese a Forlì, Genova, Palermo
e l’anno successivo a Bergamo, Milano, Barcellona), conferma
quanta fiducia l’autore riponesse nel suo riuscitissimo centone
anche a livello internazionale; entusiastica l’ammirazione per
la primadonna del San Carlo, di lì a poco Desdemona.
A quel periodo risale la preparazione di un dramma per
musica – di genere giocoso anche se nel libretto si omette di
precisarlo, mentre il nome del compositore vi appare storpiato
in «Joacchimo» – con parti in dialetto napoletano per il Teatro
dei Fiorentini, di fatto un altro centone di musica già esistente,
che resterà l’unico suo cimento nel genere buffo destinato a
Napoli e con rare eccezioni lì confinato (la prima il 26
settembre 1816); il successo fu modesto. Nella Gazzetta
Giuseppe Palomba, librettista di lungo corso specializzato nel
comico e ormai a fine carriera, si rifece al dramma in prosa Il
matrimonio per concorso di Goldoni (1763), sfruttando la più
recente riduzione librettistica di Gaetano Rossi per Giuseppe
Mosca (Avviso al pubblico, Milano 1814). Pur ambientato a
Parigi come le sue fonti, il dramma di Palomba introduce,
secondo l’usanza dei Fiorentini, una forte caratterizzazione
partenopea anche sul piano linguistico nella figura del ricco
negoziante Don Pomponio Storione, affidata a Carlo Casaccia,
figlio di Antonio e nipote di Giuseppe, membro di una stirpe
di cantanti comici (l’ultimo esponente della casata,
Ferdinando, morì nel 1894). Una carriera, la sua, svolta tutta
fra i Fiorentini, il Fondo, il Teatro Nuovo, con contratti anche
di lunga gittata. Nato a Napoli nel 1768, aveva partecipato a
decine di produzioni comiche con musiche dei più apprezzati
specialisti del genere fra fine Sette e inizio Ottocento, da
Pietro Alessandro Guglielmi, a Fioravanti, Giuseppe Farinelli,
Cimarosa, passando per Paer, Giuseppe e Luigi Mosca o Mayr
e spingendosi fino alla generazione di Mercadante e Donizetti.
Di Rossini nell’autunno precedente aveva interpretato il ruolo
di Tarabotto nell’Inganno felice, ancora ai Fiorentini; sosterrà
poi altre parti rossiniane fra cui quella di Don Magnifico nella
Cenerentola, al Fondo nel 1818, prevalentemente adattate al
dialetto napoletano. Accanto a lui nella Gazzetta c’era
Margherita Chabrand (Lisetta), cantante più eclettica che poté
vantare anche qualche apparizione al San Carlo.
Il soggetto si basa su un avviso pubblicato da Don Pomponio
per procurare alla figlia Lisetta un matrimonio di alto rango,
mentre lei si è già promessa al locandiere Filippo. Al di là
della convenzionalità dell’intreccio, si ironizza sull’impatto
sociale della carta stampata e delle gazzette in particolare;
gazzette attese con ansia e consultate con voracità:
all’entusiasmo suscitato dal nuovo numero fresco di stampa
(nell’introduzione) segue lo sbigottimento dei lettori di fronte
al bando di gara che Don Pomponio ha diramato (I,II). Le
qualità della figlia – «Statura greca, testa romana, capello
castagno, occhio ceruleo, bocca ridente, bei colori, spirito
pronto, talento raro e del miglior cor del mondo» – meritano
secondo lui adeguato riscontro e la dote sarà pari alle qualità
del pretendente: «A norma del partito che s’offrirà sarà la dote;
verrà prescelto quello che incontrerà in ogni rapporto più il
genio del padre e della figlia; alloggiano all’Aquila: ivi
s’indirizzi chi aspira all’acquisto; da questo giorno è aperto il
concorso». La convergenza di tematiche famigliari di lungo
corso – matrimonio combinato, imposizione paterna,
dote –, rafforzate dalla pubblicità a mezzo stampa, è un segno
dei tempi (si ricordi anche la figura dell’importuno giornalista
Macrobio nella Pietra del paragone). La sovrapposizione di
pubblico e privato determina qui la peripezia; più in generale,
l’ingerenza nella vita privata viene già data come elemento
caratteristico dell’informazione, la cui influenza su tutti i piani
andava crescendo sin dalla metà del Settecento.
Pagato pegno alle tradizioni locali – ma il nome di Rossini
non sarà mai di primo piano nel repertorio dei teatri minori di
Napoli, saturati da proposte più consone alle abitudini del
pubblico, che Rossini lo attendeva al San Carlo – il
compositore andò a ultimare quello che data la natura
artificiosa e composita di Elisabetta fu a tutti gli effetti il suo
primo dramma serio originale per Napoli. Otello, o sia il moro
di Venezia andò in scena il 4 dicembre 1816 al Fondo, a
seguito dell’indisponibilità logistica del massimo teatro. Il
progetto risaliva a mesi prima: Rossini ne dava conto alla
madre in una lettera del 15 maggio, mostrandosi coinvolto e
fiducioso della riuscita anche in termini di immagine: «Sarà
Magnifico e Certamente accrescerà la mia riputazione».3
Tuttavia il completamento della partitura tardò più del dovuto,
tanto da gettare nel panico Barbaja che giunse a prospettare al
duca di Noja il rimborso degli abbonamenti, poi scongiurato
dalla stretta finale cui Rossini era solito sottoporsi e che
rientrava a pieno titolo nelle sue abitudini compositive.
L’autore del libretto, Francesco Maria Berio marchese di
Salsa (1765-1820), è figura nuova nel panorama rossiniano.
Letterato e viaggiatore, entrò in contatto con Cesarotti, Alfieri,
Goethe e si dedicò in prima persona alla poesia; come altri
intellettuali napoletani dell’epoca, rivolse i propri interessi
anche al collezionismo artistico e librario. Nel suo salotto
letterario transitarono intellettuali e artisti di diversa estrazione
fra cui il poeta, critico e patriota Gabriele Rossetti, il
drammaturgo Cesare della Valle (sarà l’autore del Maometto
secondo di Rossini), il filosofo e politico Melchiorre Delfico,
l’erudito Urbano Lampredi, il bibliofilo e musicista Gaspare
Selvaggi, Antonio Canova. Soprattutto, Berio non fu un
librettista di mestiere; non appartenne alla nutrita ed
eterogenea categoria dei poeti di teatro – si pensi a Tottola e
Schmidt – che modellavano i propri versi in base alle
convenienze teatrali, lasciando in secondo piano le aspirazioni
letterarie rispetto a quelle strettamente “professionali”, e non
ebbe necessità alcuna di trasformarsi in uno specialista nella
stesura di testi per l’opera: ricopriva infatti un ruolo di
garanzia come membro della commissione dei teatri. Non si
preoccupò quindi di adattarsi alle convenzioni correnti
neppure nell’assetto complessivo dei suoi drammi: Otello,
come già la sua Cora, è in tre atti e per Rossini fu il primo
cimento con questo taglio melodrammatico, minoritario
rispetto ai canonici due atti. Non era solo questione di
dimensioni complessive; la misura dei tre atti implica
l’inserimento nel dramma di peripezie secondarie forti e
incisive (che la drammaturgia ottocentesca ridurrà al minimo)
e comporta due finali intermedi in cui l’azione necessita di
essere sostenuta e rigenerata per evitare stalli o cadute di
tensione. Tutto questo lo si ottiene dando corpo drammatico e
vocale a un certo numero di personaggi, del resto nella
disponibilità dei Teatri Reali: acquisiscono così rilievo anche
vocale Elmiro padre di Desdemona (il basso Benedetti) e
Rodrigo «amante sprezzato» da Desdemona (il tenore
Giovanni David, che aveva già lavorato con Rossini a Milano),
i quali vanno ad aggiungersi a Otello (Nozzari, tenore),
Desdemona (Colbran), Jago (il terzo tenore Ciccimarra);
completano il cast Emilia, seconda donna e confidente di
Desdemona (il mezzosoprano Maria Manzi), e le ultime parti
Lucio (confidente di Otello) e il Doge.
I pochi libretti di Berio di Salsa, fra cui quelli di Cora per
Mayr (1815), Otello (1816) e Ricciardo e Zoraide (1818) per
Rossini, mostrano un approccio letterario e classicista alla
scrittura teatrale. Se in Cora l’apporto della matrice classica
consiste soprattutto nella presenza ricorrente del coro di
carattere cerimoniale (in un contesto incaico di vergini,
sacerdoti, popolo), in Otello prevale la declamazione aulica
affidata al solenne endecasillabo tragico in lunghi e intensi
recitativi: un’ulteriore sfida per il compositore, che dovette
aggiungervi l’accompagnamento strumentale perché a Napoli
era sgradito il recitativo secco o semplice, ossia col solo basso
continuo. I numeri, inoltre, non sono distribuiti con le rigorose
simmetrie dell’opera di primo Ottocento e manifestano
qualche anomalia rispetto alle regole melodrammatiche, cosa
che fu subito notata in alcune recensioni. Solo Otello beneficia
di una cavatina iniziale («Ah sì, per voi già sento», I,I, N. 2);
Jago e Rodrigo sono presentati assieme, come due facce di una
stessa macchinazione, ed è assegnato loro un duetto («No, non
temer: serena», I,III). Poeticamente piuttosto schematico – una
strofa per uno e poi un “a due”, il tutto per due volte –, il
duetto è collocato al N. 3 affinché i tre tenori avessero un
trattamento proporzionato fin dall’inizio dell’opera;
l’organizzazione drammatica fu quindi in parte esito delle
esigenze del cast. Neppure Desdemona ha una sua cavatina e
viene introdotta in I,IV da un’ampia scena cui segue il
minimale duettino con Emilia («Vorrei che il tuo pensiero»,
N. 4, un distico a testa, per tre volte, e poi un “a due” finale).
Elmiro infine, padre di Desdemona e figura assai rilevante
nell’economia del dramma, non ha nel primo atto alcun pezzo
a solo ma, come si vedrà, diviene il perno attorno a cui ruota il
finale primo.
Per quanto riguarda la formulazione complessiva del
dramma, studi risalenti agli anni novanta del secolo scorso
hanno messo in luce il fatto che molte peculiarità del libretto
deriverebbero dalle fonti impiegate da Berio, più francesi e
italiane che non ovviamente inglesi; più Jean-François Ducis
che raddrizza Shakespeare per il gusto francese, o Giovanni
Carlo Cosenza che lo adegua al pubblico italiano, che
Shakespeare stesso, la cui presenza resta comunque tangibile
nel terzo atto, tanto ammirato nell’Ottocento, Stendhal
compreso, e ritenuto più fedele alla fonte shakespeariana del
resto dell’opera. Le rielaborazioni di Ducis (1733-1816) erano
familiari ai lettori italiani sin dal secolo precedente; la prima,
Hamlet, risale al 1769, Othello, fra le ultime sue prove, al
1792: basato a sua volta sulla traduzione di Pierre Le
Tourneur, fu rappresentato a Parigi con François-Joseph Talma
nel ruolo eponimo, e fu dato anche al Fondo di Napoli nel
1808 e 1810. Nel nuovo secolo gli adattamenti del
drammaturgo francese non erano soltanto anticaglie per
bibliofili (e la biblioteca di Berio non ne sarà stata certamente
sguarnita); pur lontani dal gusto corrente, avevano consentito
alla drammaturgia shakespeariana – edulcorata e razionalizzata
sulla base dei princìpi della tragedia francese – di farsi strada
oltremanica, anche se solo con alcuni titoli fondamentali. Due
anni prima che Rossini componesse la sua opera, Michele
Leoni aveva già tradotto Otello nel quadro della prima
importante traduzione italiana delle opere del drammaturgo
inglese, in quattordici volumi. A Berio inoltre fu forse noto il
ballo Otello di Louis Henry, giunto da poco a Napoli, dato per
l’Edipo a Colono di Sacchini nel maggio 1808,4 e certamente
Otello, azione patetica in cinque atti di Cosenza, dramma in
prosa, rappresentato il 7 ottobre 1813 da una compagnia di
dilettanti «sulle private scene dell’Autore» (probabilmente il
teatrino accademico fatto costruire dal barone napoletano nel
suo palazzo in via Mezzocannone a Napoli), ancorché edito
solo nel 1826. Subito dopo l’Otello rossiniano, sfruttandone la
cassa di risonanza, Cosenza aveva dato alle stampe una
ulteriore «azione patetica» dal titolo Giulietta Cappellj (1817).
Cosenza, autore anche di adattamenti teatrali di letteratura
alla moda e presenza ricorrente coi suoi drammi al Teatro dei
Fiorentini dal 1818 per circa un ventennio, effettuò con Otello
operazioni diverse da quelle di Ducis rispetto all’originale
shakespeariano, anche se in parte ne subì l’influenza. Inserì il
lieto fine, quando Ducis dava come prima opzione il finale
tragico, concedendo in appendice un «Dénouement heureux
qu’on peut substituer au dénouiment funeste»; reintegrò il
personaggio di Jago, che Ducis aveva sostituito per motivi di
buon gusto col più blando Pézare.5 L’influenza di Cosenza sul
libretto rossiniano si fa sentire in alcuni particolari non
irrilevanti, per esempio nel duello di Otello e Rodrigo, posto al
centro di entrambi i drammi (nel terzo atto del dramma e nel
secondo dell’opera); il canto del gondoliere del terzo atto trova
pure la sua origine nell’“azione” partenopea. I due precedenti
tuttavia non escludono che Berio avesse tenuto conto anche
dell’originale shakespeariano (più difficile che conoscesse la
fonte di questi, una novella dagli Ecatommiti di Giraldi
Cinthio). La sua biblioteca è andata dispersa ma dai cataloghi
conservati presso la Biblioteca Nazionale di Napoli risulta che
egli possedeva svariate edizioni settecentesche di tragedie
inglesi in lingua originale; le sue competenze linguistiche,
secondo la testimonianza della scrittrice irlandese Sydney
Morgan piuttosto ampie, gli consentirono di addentrarsi a
sufficienza in quei testi. In buona sostanza, parlare di soggetto
shakespeariano per l’opera di Rossini non è così azzardato,
come del resto non lo è per I Capuleti e i Montecchi di Bellini
(1830) ove Shakespeare non è del tutto assente pur avendo
Romani impiegato soprattutto fonti italiane e francesi.
Uno dei tratti salienti dell’Otello rossiniano sta nei molteplici
risvolti che il problema di fondo assume nel corso del dramma.
Nel primo atto l’amore di Otello e Desdemona è innanzitutto
un ostacolo al coronamento dei progetti paterni. Elmiro, che
odia il moro («un barbaro stranier», I,VII), la vuole sposa di
Rodrigo, figlio del Doge. La pianificazione dell’inganno è
abbozzata soltanto a grandi linee: si insinua nella cavatina di
Otello («Ah sì, per voi già sento», I,I, N. 2), frapponendosi per
voce di Jago al canto estasiato del condottiero che vagheggia il
coronamento del suo sogno d’amore; si conferma nel duetto di
Jago e Rodrigo in cui il serrato e imperioso allineamento delle
voci, che procedono parallelamente o in simultanea
condividendo i motivi musicali, allude alla determinazione dei
due avversari («No, non temer: serena», I,III, N. 3). Non
emerge ancora il tema della gelosia; serpeggia invece, in tutto
il primo atto, l’inquietudine per un connubio preteso dal padre
e avversato dalla figlia, che si è già promessa a Otello.
Desdemona confessa i suoi turbamenti a Emilia (lunga scena
con intenso e virtuosistico assolo di corno, recitativo e
duettino, «Vorrei che il tuo pensiero», I,IV, N. 4): la lettera che
ha vergato per Otello, accompagnata da una ciocca di capelli, è
forse caduta nelle mani sbagliate; d’altra parte, il timore che la
notizia del suo impegno forzato verso Rodrigo possa essere
giunta a Otello non è suffragato da prove certe. Il duettino
attacca senza una introduzione strumentale per conseguire
l’effetto di un moto spontaneo dell’animo e si muove sul filo
dell’incertezza: Desdemona chiede rassicurazioni a Emilia
(«Vorrei, che il tuo pensiero / a me dicesse il ver») ma non ne
trova; il canto non si scioglie in espresso lirismo e si assesta su
mezze tinte, frammentato come le palpitazioni cui allude il
testo.
Alle scene I,VI-IX, in recitativo, Elmiro fa comprendere le sue
intenzioni e getta Desdemona nello sconforto. L’accumulo di
tensione “punta” al finale primo (N. 5) che si affida al tòpos
della celebrazione nuziale, con inno al «Santo Imen», prima
incrinata dalle incertezze di Desdemona e infine scompigliata
dall’arrivo, nel bel mezzo della festa e dopo un primo
“insieme”, di un pretendente inatteso (Otello, I,XIII, che
mancava in scena dall’introduzione). Viene quindi rivelata
l’antica promessa nuziale di Desdemona; l’anatema paterno
«Empia!… ti maledico…», con stridente armonia di settima
diminuita, ha un effetto dilaniante e costituisce uno dei
momenti più impressionanti della drammaturgia seria
rossiniana. Il passo musicale fu presente ancora a Verdi, che
perseguì un effetto simile nella grande scena del Consiglio
della seconda versione del Simon Boccanegra (1881), al
momento della maledizione scagliata dal Doge che il traditore
Paolo viene obbligato a ripetere. In Rossini, il successivo
concertato («Incerta l’anima», Maestoso), che sancisce quasi
con rassegnazione l’irrecuperabilità della condizione cui si è
giunti, giacché «la dolce speme / fuggì dal cor», e la stretta
finale «Smanio, deliro e fremo» determinano la prima climax
di una costruzione drammatica concepita “a onde”.
L’ascoltatore moderno, che verosimilmente arriva all’Otello
di Rossini dopo aver amato quello di Boito/Verdi, in cui si fa a
meno della figura paterna anteponendole il dualismo Otello e
Jago, si trova così di fronte a un altro dramma, fino a questo
momento non troppo dissimile – eccetto che per l’intonazione,
decisamente più sferzante – al Tancredi e ad altre opere
fondate sull’imposizione matrimoniale da parte di un padre
potente che considera l’imeneo della figlia uno strumento
politico (il matrimonio di Desdemona con Rodrigo
rafforzerebbe il fronte degli avversari dell’«african superbo»).
Il secondo è però l’atto di Jago. Non perché la sua presenza
domini quantitativamente la scena, ma per la qualità del suo
intervento nel duetto con Otello in II,VI, N. 7, «Non
m’inganno; al mio rivale», che indirizza la vicenda all’epilogo
(duetto preceduto in II,V da un breve monologo di Otello, in
tempo di marcia come altrove nell’opera, sempre con diverse
inflessioni). Dopodiché Jago scompare alla vista del pubblico
e se ne conoscerà la sorte solo in conclusione per interposta
persona. Lo Jago rossiniano s’incunea, fulmineo e risolutivo,
in un’architettura drammatica dove la tematica sociale e
famigliare è sempre in procinto di prevalere, determinando
un’improvvisa svolta verso la serie di confronti individuali cui
Otello si sottopone: con Jago, con Rodrigo e infine, nel terzo
atto, con Desdemona. È egli stesso funzione del dramma e
“nemico politico” di Otello; ma non incarna quell’etica
negativa, di portata universale, che si è soliti attribuire al
personaggio shakespeariano o verdiano: si trattava del terzo
tenore, per rilevanza, nel cast partenopeo (Ciccimarra). Lo
scarso rilievo scenico di Jago non piacque difatti ad alcuni
recensori che accusarono Berio di aver trascurato il
personaggio chiave della tragedia shakespeariana, ridotto a
«un’ultima parte, che in una scena sola, e non si sa come,
confidente diventa del suo signore, per determinarlo così
improvvisamente al più crudele degli attentati».6
Nel duetto il lungo recitativo strumentato introduttivo è
affidato a una declamazione scolpita e petrosa, senza
allentamenti della tensione: il punto di riferimento è ancora
una volta il tragico settecentesco. La lettera di Desdemona è
stata carpita da Jago, e a Otello non passa per la testa che
potesse essere stata indirizzata a lui e non a Rodrigo. La
strategia della persuasione da parte di Jago verte sull’elemento
razionale e spoglio della parola, tramite il quale, fra allusioni e
mezze verità, egli riesce a mascherare la menzogna (nel
recitativo); al canto (nel duetto) è destinata la presa di
coscienza della necessità che l’oltraggio venga lavato con la
vendetta (per Otello) e del successo conseguito tramite
l’inganno (per Jago). Il loro è quindi un duetto impossibile ed
esprime la distanza che intercorre fra i personaggi; eccetto che
nella breve accelerazione centrale (Otello: «Che far degg’io?»,
Jago: «Ti calma») i due non interagiscono, Otello attanagliato
dalla gelosia, Jago – sempre in “a parte” – compiaciuto della
psicotica cecità indotta nell’avversario, che viene spiato con
sadismo mentre scruta il foglio di Desdemona che Jago gli ha
appena consegnato:
OTELLO «Caro bene…» e ardisci ingrata? (legge)
JAGO (Nel suo ciglio il cor gli veggo.)
OTELLO «Ti son fida…» Ahimè! che leggo?
Quali smanie io sento al cor!
JAGO (Quanta gioia io sento al cor!)
OTELLO «Di mia chioma un pegno…» Oh cielo!
JAGO (Cresce in lui l’atroce sdegno.)
La furente cabaletta finale, su un ostinato ritmico in terzine
(«L’ira d’avverso fato»), anticipa l’ineluttabilità degli eventi,
ispirati in entrambi i casi dal motivo della vendetta: per Otello
nei confronti di Desdemona, per Jago nei confronti di Otello.
E sulla vendetta, l’uno nei confronti dell’altro, si fonda pure
il duetto successivo con Rodrigo («Ah vieni, nel tuo sangue»,
N. 8): ancora una volta una faccenda fra tenori antagonisti che
finisce per coinvolgere la primadonna Desdemona,
sopraggiunta nel tentativo di sedare la rissa (II,IX). Secondo
uno schema adottato da svariati librettisti seri dal tardo
Settecento in poi, il duetto diviene terzetto in corso di
svolgimento; un frammento di azione visibile – il personaggio
che sopraggiunge all’improvviso – viene risucchiato nel pezzo
chiuso che estende di conseguenza la propria durata. Dopo una
prima sezione condotta per reciproche invettive e punteggiata
da icastiche sottolineature “gestuali” in orchestra, l’arrivo
della donna è marcato da una improvvisa transizione al modo
minore e dal ritmo sincopato, indice di palpitazioni e di
panico. La reazione dei due contendenti è di sorpresa e
sgomento (cantabile «Che fiero punto è questo!»); la cabaletta
«Tra tante smanie e tante», con le sue vorticose figurazioni a
saliscendi distribuite indistintamente in tutte le voci, l’una
dopo l’altra, afferma una condizione ulteriormente
peggiorativa che annienta l’eventualità di un sodalizio fra
personaggi.
Ogni figura maschile matura una decisa avversione nei
confronti di Desdemona (dopo Jago ed Elmiro, anche Rodrigo,
per motivi non dissimili da quelli di Otello). Quella di lei è
quindi una condizione di progressivo isolamento che il pallido
sostegno di Emilia non può attenuare. Il finale secondo (N. 9),
condotto su un crescendo di lunga gittata, assevera il tema
dello sdegno paterno; a distanza di un atto, l’immagine
minacciosa del padre torna ad agitare la coscienza di
Desdemona. Alla maniera di alcune tragedie musicali del
Settecento, coro femminile e coro maschile parteggiano
rispettivamente per l’infelice donna e per l’osservanza della
morale, trasgredita dall’«impudico affetto» per il moro;
Elmiro, dopo la maledizione scagliata nel finale primo, arriva
qui a profetizzare l’imminente punizione alla figlia: «Vedrai
fra poco, ingrata! / qual pena è riserbata / per chi virtù non ha»
(II,XI). Un passaggio chiave anche per l’epilogo tragico del
dramma.
Il terzo atto, cinque scene soltanto in progressiva
accelerazione, ha una struttura simmetrica e si focalizza nelle
prime due su Desdemona, in quella centrale su Otello e
Desdemona soli (III,III), nelle ultime due scene su Otello, a
delitto commesso. Rossini, incoraggiato anche dalla brevità
della stesura poetica, progetta per l’atto intero un unico
numero suddiviso in segmenti (N. 10). Lo schema che segue
ne riproduce la mappa sulla base dei pezzi chiusi; per il
calcolo approssimativo delle durate si è tenuto conto delle
esecuzioni dirette da Alberto Zedda (Dynamic 7711/1-3) e
Antonino Fogliani (Naxos 8.660275-76), comprendendo anche
i recitativi antecedenti e successivi ai brani.

NUMERO BRANO CONTENUTI DRAMMATICI TIMING

N. 10a Scena e canzone Cala la notte: sconforto 9’


del gondoliere di Desdemona che teme
di non rivedere l’amato, condannato
all’esilio; blande rassicurazioni di
Emilia. Fuori scena, canzone del
gondoliere su versi danteschi.
Rievocazione
di Isaura, morta per amore.

N. 10b Canzone del Canto realistico di Desdemona, in 11’


salice e Preghiera memoria di Isaura, interrotto dal vento
che manda in frantumi una finestra.
Preghiera al Cielo, perché la notte
allevi le sue pene col ricordo
dell’amato.

N. 10c Arrivo di Otello Otello, creduto in esilio e guidato da 7’


Jago che ha appena ferito Rodrigo,
entra nella camera dove dorme
Desdemona. La vista del volto di lei gli
impedisce di colpirla. Desdemona
invoca l’amato nel sonno e Otello la
desta. La donna si proclama innocente
e offre la sua vita
a Otello.

N. 10d Duetto Desdemona invoca la morte 5’


Otello/Desdemona e accusa Jago di tradimento.
Un temporale fa da sfondo
al drammatico confronto
che termina con l’uccisione
di Desdemona.

N. 10e Finale terzo Subitaneo rimorso di Otello. Giunge la 3’


notizia che Rodrigo è salvo e Jago
ucciso dopo aver rivelato l’inganno. Il
Doge, Elmiro e Rodrigo concedono il
perdono a Otello e gli promettono la
loro amicizia. Dopo aver mostrato il
cadavere di Desdemona, Otello si
uccide.

Azione psicologica e azione visibile si distinguono per il


decorso temporale, pressoché inverso. Le sezioni N. 10a e 10b,
caratterizzate da pienezza emotiva (ansia, presagio,
malinconia, devozione) ma da totale staticità per quanto
riguarda la scena – c’è poco da vedere ma molto da ascoltare
di quanto avviene in scena o fuori –, durano più della restante
parte dell’atto e il doppio abbondante dei segmenti più animati
e densi di accadimenti tragici mostrati direttamente agli occhi
del pubblico (NN. 10d e 10e). Questi ultimi sono rapidissimi a
dispetto del loro rilievo musicale e drammaturgico: si tratta
pur sempre di un duetto – l’unico momento dell’opera, in
limine vitae, che preveda la compresenza dei due amanti da
soli – e del finale ultimo. È una condizione non infrequente nel
melodramma dell’epoca, ove i momenti dell’azione materiale
sono destinati a rapida declamazione e sbrigati in poche
battute, mentre a quelli introspettivi si riserva una maggiore
dilatazione temporale; Rossini la accentua commisurando i
pezzi chiusi alle esigenze dell’azione in scena, e al tempo
stesso conferisce al terzo atto unità e coesione anche per
effetto delle scelte tonali e di numerosi richiami tematici.
Sarebbe improprio, osserva Emanuele Senici,7 cogliere in
quest’atto l’inizio di una drammaturgia finalmente matura in
senso ottocentesco, come talora si vorrebbe nel tentativo di
stabilire una continuità con l’opera di epoche successive; fu
purtuttavia la più adeguata risposta alle istanze del dramma,
dove tutto avviene in uno stesso luogo, nella temporalità
astratta di ore notturne imprecisabili e allucinate.

Frontespizio del libretto di Otello


per la ripresa di Odessa della primavera 1829

Le prime due sezioni (NN. 10a e 10b) racchiudono alcuni dei


momenti lirici più celebri dell’intera produzione rossiniana e
mirano a determinare uno stato di attesa che abbraccia
interiorità e mondo esterno. All’imbrunire si ascolta un
gondoliere che dalla laguna declama nostalgico alcuni versi
del V canto dell’Inferno, quello di Paolo e Francesca, coppia
solidale ma perduta per l’eternità: «Nessun maggior dolore /
che ricordarsi del tempo felice /nella miseria» (vv. 121-123).
La scelta, che Rossini attribuisce a sé medesimo8 e ben poco
veneziana (i gondolieri prediligevano Tasso, non Dante, se già
non cantavano il Rossini del «Di tanti palpiti»!), serve a
introdurre con una sentenza forte e penosa il tema dell’attimo
fuggente che alla distanza rivela tutta la sua irripetibilità
(Boito e Verdi svilupperanno un simile concetto in altro modo,
nel duetto di fine primo atto «Già nella notte densa»). Lungo
appena 16 battute, l’intervento del gondoliere «che scioglie
all’aura un dolce canto» è introdotto da un motivo orchestrale,
poi ripreso al canto, in cui si è soliti individuare una citazione
del primo tema della Marcia funebre della Sinfonia N. 3
(Eroica) di Beethoven. Improbabile vi fosse da parte di
Rossini l’intento di stabilire un collegamento esplicito; più
semplicemente il compositore si avvalse di un motivo che già
in Beethoven possiede i tratti iconici della rievocazione
funebre in musica (ritmo puntato, andamento pendolare fra
tonica e dominante), qui trasformata in un vaticinio. Il passo
schiva così la fallace dimensione del pittoresco e si traduce in
un lugubre presagio anche grazie al prolungato tremolo degli
archi, di per sé inadatto a sostenere un motivo cantabile (come
inadatti al «dolce canto» sono gli endecasillabi del testo) ed
espressione di una condizione di ansia.
In questo momento, come altrove nell’opera, la presenza
estetica del compositore, ossia la sua interpretazione del testo
drammatico, è senz’altro molto forte e l’effetto immediato: il
tema del ricordo ne suscita subito un altro in Desdemona,
legato a un’antica figura di donna morta per le pene d’amore.
«Assisa a’ piè d’un salice», come la canzone del gondoliere, è
un canto in funzione realistica ma assai più ampio e distribuito
in quattro strofe riccamente variate. Accompagnato dall’arpa e
saltuariamente dall’orchestra con delicati arabeschi ai fiati,
determina la perdita di coscienza dello scorrere del tempo in
scena. Una condizione simbolica e non solo drammatica:
Desdemona allude al proprio stato d’animo estraniandosi dal
contesto, finché la realtà del momento scenico non irrompe
sotto forma di un vento impetuoso che manda in frantumi i
vetri della finestra. Superato il «presagio funesto», la canzone
riprende con identico carattere e si interrompe senza
propriamente concludersi («… il pianto, oh Dio! / proseguir
non mi fa»). Allontanata Emilia, Desdemona recita le
preghiere della sera; anche in questo caso, quasi un canto
scenico dal carattere devozionale ma infausto nei suoi effetti:
l’invocazione al Cielo «fa’, che l’amato bene / mi venga a
consolar» ha come triste seguito l’arrivo di Otello armato di
ben altre intenzioni. Ironia tragica che cozza, non senza
audacia, con la fede espressa dalla donna.
L’arrivo di Otello, con Desdemona addormentata, è collocato
nella scena centrale dell’atto e contraddistinto da un lungo e
tormentato monologo, in cui oltre alla gelosia emerge la
coscienza della propria diversità; se Desdemona convoglia la
propria solitudine nelle forme liriche della canzone del salice,
a Otello, prossimo colpevole, è preclusa ogni esternazione
melodicamente caratterizzata. La scrittura poetica di Berio è
ondivaga e cosparsa di interiezioni valorizzate da Rossini
tramite incisi orchestrali. Il duetto che segue fa a meno
dell’introduzione strumentale e attacca di getto («Non
arrestare il colpo…»); non è prevista neppure una sezione
cantabile: Rossini, anzi, taglia, dopo averla abbozzata, una
porzione di canto a due prevista dal libretto di Berio, che
avrebbe consentito ai due amanti un ultimo ideale abbraccio.
Sulle parole di Desdemona «sfoga il tuo reo furore» fa la sua
intermittente apparizione uno dei rari autoimprestiti
dell’Otello (assieme alla sinfonia, ripresa dal Sigismondo ma
tratta originariamente dal Turco in Italia, e a poco altro), vale a
dire l’accompagnamento ostinato e incalzante impiegato
nell’aria della calunnia del Barbiere («La calunnia è un
venticello», I,VIII): come già nelle due cavatine di Elisabetta e
Rosina si ha quindi un altro salto di genere, stavolta dal
comico al serio. La somiglianza musicale venne notata anche
all’epoca da alcuni recensori e vi fu chi sostenne la legittimità
dell’operazione, proprio sulla base della calunnia che
accomuna Basilio e Jago.9 Un simile accorgimento, qui come
in situazioni affini, non necessita in realtà di ulteriori
spiegazioni, se si pensa alle proprietà e alla semantica del
linguaggio musicale rossiniano. In entrambi i casi a Rossini
preme sviluppare una inquietudine di fondo tramite la replica
delle figurazioni ritmiche; cogliervi un richiamo di carattere
simbolico è tutto sommato superfluo. Ma è pur vero che
Rossini, smascherato a quello stesso proposito in occasione di
una messinscena parigina dal Journal des Débats (18 giugno
1821), camuffò in partitura il tema della calunnia, nel tentativo
di cancellare le tracce del delitto (manco fosse l’unico suo di
quel genere); tuttavia la correzione non transitò nelle copie
coeve e negli spartiti a stampa, cosicché ancora oggi il profilo
invadente di Basilio si frappone a quello dei due sfortunati
amanti senza che ciò depauperi l’apprezzamento del loro
tragico duetto.
Eccezionalmente violento per i canoni dell’epoca è
l’accumulo di tensione nell’assieme «Notte per me funesta!»,
su cui si protende l’ombra della Regina della Notte, che con
Otello condivide la brama di vendetta («Der hölle Rache kocht
in meinem Herzen»). I fulmini del temporale alimentano il
«furore» di Otello e l’«orrore» in Desdemona: una tipologia di
tragico non più associato a valori etici collettivi – come invece
nelle culture di antico regime, che imponevano di valutare sul
piano interpersonale la legittimità o l’illegittimità delle
aspirazioni anche criminose – ma prodotto da passioni
incontrollabili sul piano esclusivamente soggettivo. Una
battuta di Desdemona, che tende a passare inosservata nella
sua ambiguità, rivela però la vera natura del suo tormento e il
senso che per lei assume la sua imminente uccisione: «O ciel!
se me punisci / è giusto il tuo rigor», rivolgendosi al Cielo, o
forse a Otello. Perché mai «giusto», se Desdemona è (come
difatti è) innocente? Riaffiora la questione, latente dal primo
atto e sempre viva sotto la cenere, dell’aver tradito non Otello,
bensì le aspettative nutrite dal padre (ricordato poco prima) e il
mandato sociale da questi pianificato, ossia il connubio
politicamente ed eticamente appropriato con il bianco Rodrigo
che Desdemona ricusa a vantaggio del moro; anzi, di un moro.
Otello coglie nella battuta di Desdemona un’ammissione del
tradimento commesso («Tu d’insultarmi ardisci! / ed io
m’arresto ancor?»), ma in realtà si trasforma, suo malgrado,
nel mandante della vendetta più volte invocata da Elmiro (cfr. i
finali primo e secondo) e Desdemona vi si sottomette
passivamente perché la ritiene una punizione equa. In quel
duetto si gioca insomma una partita a tre.
L’improvvisa svolta del finale terzo (10e), alla notizia che
Rodrigo è salvo e Jago ucciso, imprime un’ultima
accelerazione; la rappacificazione generale, in presenza del
Doge, Elmiro e Rodrigo, tutti assieme a proclamare il perdono
di Otello, è tanto sbrigativa nella condotta drammatica
pianificata da Berio da apparire, alla lettura, illogica e forzata.
Ma attraverso la musica acquista senso ciò che nel libretto
sembra un difetto: la rapidità violenta e raggelante d’un lieto
fine mancato per un soffio. Adesso è il cadavere di
Desdemona a invocare vendetta, e il suicidio di Otello in
scena, senza alcun monologo giustificatorio come si usava nel
teatro tragico (c’è anche in Shakespeare), può essere
condensato in un attimo, sancito solo da una sferzante chiusa
orchestrale, nella costernazione generale.
È possibile quindi stilare un bilancio su quanto vi sia di
nuovo e discordante nell’Otello rossiniano rispetto alla
tradizione dell’opera seria italiana. Il ruolo strategico dei
recitativi, la loro lunghezza e l’impatto sullo spettacolo
riconducono, si è detto, all’impianto tragico che già aveva
improntato di sé il dramma per musica dal secondo Settecento.
La struttura poetica dei pezzi chiusi, come nel secolo
precedente, è spesso piuttosto generica (secondo i recensori
dell’epoca anche assai mediocre la loro qualità). Il
compositore può quindi plasmare i brani a suo piacimento e
solo raramente è indirizzato dal poeta verso le forme musicali
più in auge; fa però eccezione lo straordinario duetto finale,
che risucchia al suo interno il serrato confronto dei due amanti
e l’assassinio di Desdemona, perpetrato nelle forme espressive
del canto lirico, a piena voce, marcando l’irrevocabile frattura
intercorsa fra i due personaggi fino all’ultima rima baciata
(«crudel/infedel»). Non è certo nuovo il rapporto di
subordinazione della figlia nei confronti del padre, il quale
programma per lei un matrimonio indesiderato: buona parte
dell’opera seria sette-ottocentesca utilizza questo dispositivo
drammatico per generare un conflitto di affetti, nel Settecento
risolto grazie al riconoscimento di un legame famigliare
insospettato o anche a un pentimento in extremis. Quanto al
finale tragico, era già praticato con continuità (lo stesso
Rossini lo aveva tentato col Tancredi ferrarese), anche se in
misura ancora minoritaria rispetto al lieto fine e soprattutto
con altre connotazioni. Avevano il finale tragico i melodrammi
sui soggetti metastasiani di Didone e Catone, a fine Settecento
di quando in quando ancora rappresentati (Paisiello per il San
Carlo li riprese entrambi, nel 1794 e nel 1789). Muoiono per
gli effetti del veleno Sofonisba (testo di Verazi per Traetta,
1762, ma ancora in alcune versioni prim’ottocentesche di
Paer), Cleopatra assieme ad Antonio che ferito spira prima di
lei dopo un ultimo duetto (La morte di Cleopatra, libretto di
Sografi, 1791, intonata da Nasolini, P. A. Guglielmi, Bianchi).
Muore Cesare ucciso da Bruto in alcune trasposizioni
operistiche d’epoca rivoluzionaria (La morte di Cesare di G.
Sertor, con la musica di Bianchi nel 1788 e ripresa da altri in
anni successivi) e muore Semiramide, anche prima dell’opera
di Rossini, uccisa erroneamente dal figlio Arsace, che diviene
strumento del fato e lava suo malgrado le colpe commesse
dalla regina di Babilonia (La vendetta di Nino musicata da
Prati, Firenze 1786, e le diverse versioni de La morte di
Semiramide attribuite a Sografi, 1791 e oltre). Nella
maggioranza dei casi erano suicidi politici (e un omicidio:
Cesare), più raramente suicidi per amore; Tancredi a Ferrara
cadeva in combattimento.
Nel caso di Otello e Desdemona si tratta invece di un
omicidio passionale maturato in seno a un rapporto amoroso
(sulle orme di Ducis commesso con una pugnalata e non per
soffocamento come in Shakespeare, evitando così il contatto
fra i corpi); un femminicidio, si direbbe oggi, che coinvolge
una donna innocente riconosciuta come tale dal pubblico sin
dall’inizio dell’opera, avendo potuto seguire sul nascere la
macchinazione di Jago. È assente, nel dramma di Berio, uno
scenario morale o sociale che renda il lutto utile o necessario
per espiare una colpa o ristabilire un ordine politico come, per
esempio, nell’epilogo degli Orazi e i Curiazi di Cimarosa
(1796-97), in cui Orazia viene uccisa dal fratello per motivi di
vendetta politica (altro raro caso in cui il tenore, Babini,
uccide la primadonna, il contralto Giuseppina Grassini). Il
delitto, in Otello, lava un’onta che non sussiste, a parte il
mancato rispetto delle volontà paterne, e da qui lo strappo nei
confronti di un genere, il dramma serio per musica, orientato a
stabilire in ogni caso una ratio di fondo, verso un equilibrio in
qualche modo da ritrovarsi quale che fosse l’esito delle
vicende messe in scena. Il romanticismo dell’Otello
rossiniano – volendo applicare quella chiave di lettura – sta
nell’aver avuto l’ardire di inoltrarsi in un territorio sconosciuto
con i mezzi allora disponibili.
A ridosso del debutto, il 6 dicembre il duca di Noja
comunicava a Rossini il proprio entusiasmo per la riuscita dei
contenuti drammatici, oltre che per la qualità dell’opera:
Se la musica di cui fregiaste l’Elisabetta, ottenne un
completo successo, quella, che ora adorna il nuovo
Dramma Otello, può essere superba di un totale trionfo.
Voi filosofo de’ cuori, conciliando le leggi armoniche colla
verità dell’espressione, avete saputo servir perfettamente
agli affetti, che destar voleva l’autore del dramma, ed al
genio animatore della musica, che in voi fervidamente
signoreggia.10
L’autore stesso, sovreccitato al punto da sbagliare la data della
prima, scriveva alla madre il 9 dicembre:
Spero avrete saputo Le notizie dell’Opera Immensa Otello
andata in Scena il 3 [recte 4] del presente che chiasso che
capo d’Opera io certamente mi sono superato in maniera
che dubito qualche volta di essere L’autore di una cosa
tanto Clasica. […] La gloria aquistata con questa Tragedia
in musica va al di Sopra di tutti i disastri che potessero
arivarmi.11
Che Rossini impiegasse la qualifica di “classico” per un’opera
alle soglie del romantico quale oggi pare a noi, non stupisce:
per i suoi parametri un’opera classica equivaleva a “riuscita”,
esemplare, compiuta in ogni sua parte. Se il successo di
Elisabetta era stato eminentemente professionale, quello di
Otello, anche agli occhi del compositore, fu soprattutto un
successo artistico.
L’impressione sul pubblico dovette tuttavia essere
scioccante. All’indomani della prima il Giornale del Regno
delle Due Sicilie (11 dicembre 1816) rilevò l’inadeguatezza di
Shakespeare e delle sue «tremende catastrofi» al pubblico
italiano, ma elogiò la «declamazione rapida e naturale, il
patetico veemente ed animato del recitativo obbligato, ed un
cantabile toccante e pieno di melodia» e tributò a Rossini
l’«aver egli saputo magistralmente accoppiare tutta la pompa
del canto italiano alla forza tragica che il soggetto richiedea».
Restavano sul tavolo i problemi etici suscitati dall’opera che,
nel corso della sua circolazione, vivace e prolungata, subì oltre
alle modifiche di rito quali abbreviazioni e sostituzioni anche
alcune rettifiche finalizzate a “correggerne” gli aspetti più
scottanti relativi alla questione razziale e al delitto finale. In
alcune riprese si cambiò il titolo in Otello, ossia l’africano di
Venezia, attenuando così la sottolineatura del colore della pelle
nell’identificazione del personaggio. Occasionalmente si
procedette anche a un’alterazione più appariscente, lo
“sbiancamento” della pelle di Otello, effettuato per la prima
volta al San Benedetto di Venezia per la quaresima del 1818,
protagonista Nicola Tacchinardi, uno dei tenori più attivi nel
nord Italia. Le motivazioni sono illustrate nel libretto da
un’avvertenza preliminare e invocano l’inverosimiglianza
dell’amore di una donna bianca, bella e ambita, per un nero la
cui vista dovrebbe suscitare repulsione:
Chieder forse potria taluno, perché Otello sulle Scene non
venga in nero sembiante, come lo richiederebbe (non si sa
a qual motivo) il sogetto del tragico Inglese: ma non troppo
probabile sembrando, che una gentil Donzella da più
leggiadri giovani corteggiata, accendersi potesse per un
Moro, il di cui aspetto fra noi orrido, e deforme riputasi, si
risolse il Sig. Tachinardi di vestir forme meno ripugnanti;
massime anche nel considerare, che non tutti i figli
dell’Africa han nero il volto.12
Si preservava l’origine africana modificando l’etnia; contava il
colore, non la provenienza. Trattandosi di quaresima è
probabile che quel connubio fosse giudicato contro natura,
oltre che poco credibile. Va inoltre ricordato come la
mescolanza razziale e il matrimonio misto fossero in origine
collegati al colonialismo europeo (uomini bianchi con donne
indigene) e tacitamente ammessi, mentre nel caso del moro
shakespeariano avviene il contrario: lo sdegno suscitato negli
avversari e nel padre di Desdemona cela difatti una
preoccupazione politica e dinastica. Lo sbiancamento non fu
comunque un’idea nuova; nel suo adattamento Ducis già lo
prospettava adducendo giustificazioni di carattere etico ed
estetico:
Quant à la couleur d’Othello, j’ai cru pouvoir me dispenser
de lui donner un visage noir, en m’écartant sur ce point de
l’usage du théâtre de Londres. J’ai pensé que le teint jaune
et cuivré, pouvant d’ailleurs convenir aussi à un africain,
auroit l’avantage de ne point révolter l’œil du public et
surtout celui des femmes, et que cette couleur leur
permettroit bien mieux de jouir de ce qu’il y a de plus
délicieux an théâtre, c’est-à-dire de tout le charme que la
force, la variété et le jeu des passions répandent sur le
visage mobile et animé d’un jeune acteur, bouillant,
sensible et enivré de jalousie et d’amour.13
Ma nell’opera rossiniana quella soluzione, replicata su diverse
piazze, non riscosse sempre l’approvazione sperata. Il
recensore veneziano sottolineò come proprio nella
diseguaglianza etnica risiedesse l’origine scatenante della
gelosia di Otello, tormentato da una condizione di inferiorità.
La tinta scura della pelle era inoltre considerata un elemento
orrorifico vantaggioso per la riuscita della scena finale:
Il sig. Tachinardi, che con la sua montatura da corsaro
tripolitano non col fodero, ma nuda viene a deporre la sua
spada al piede della Veneta Signoria, seguì un ben mal
avveduto consiglio, dispensandosi di farsi nero. Non sa
egli, che appunto quella tinta nera indispensabile si rende
in questa tragedia? Non sa egli, che la gelosia d’Otello
deve precisamente la sua origine alla difficoltà di
persuadersi, che una bellissima patrizia veneta fedelmente
amorosa conservare si potesse d’un moro? Non sa egli, che
non la figura d’Otello, ma la fama delle sue gesta, ma il
racconto delle sue sciagure, ma le grandi morali sue qualità
resero Desdemona perdutamente di lui innamorata? Non sa
egli qual terribile effetto produca sopra lo spettatore
quell’ultima scena eseguita da un moro, che sappia trarre
partito da quell’orribile tinta?14
Nei percorsi teatrali dell’Otello rossiniano non poteva infine
mancare l’imposizione di un lieto fine, per altro già presente
come alternativa al finale tragico in Ducis e in Cosenza, quindi
ancora nello spirito dei tempi. Alla prima romana del 1819-20,
con David e Dardanelli prima coppia, il duetto culminante con
l’omicidio («Non arrestare il colpo») venne sostituito da un
sommario chiarimento fra i due sposi seguito da un duetto
d’amore preso da Armida, ancora sconosciuta a Roma,
accomodato alla meglio per l’occasione («Amor! possente
nume [sic]», originariamente in Armida, I,VII, N. 5, Napoli
1817).
Svariate furono le apparizioni di un Otello doppiamente
normalizzato (bianco e col lieto fine). L’impresario del Teatro
dell’Illustrissima comunità di Faenza, per la Fiera del 1821,
presentò le varianti adottate in termini di migliore riuscita
teatrale:
Ma questo fatto tanto truce, e dispiacente si è stimato
meglio, che sortisca un lieto fine, disponendo piuttosto, che
trionfi Desdemona, e rimanga Jago vittima dell’ordito, e
scoperto tradimento. Con tale variazione prodotto con
molto plauso in altre illustri Scene viene dall’umile
Impresario presentato in questo pubblico Teatro, e spera,
che riescirà di maggiore aggradimento. [segue come al San
Benedetto; cfr. sopra a p. 212, «Chieder forse potria
taluno…»]15
Ma se il duetto originale manifestava una stesura rettilinea, a
perdifiato, verso l’epilogo cruento, quello importato appare
contraddittorio – nel brano Otello torna a dubitare di ciò che
aveva già risolto nel recitativo antistante – e ridondante al
tempo stesso, in quanto l’inizio e la fine sostanzialmente si
equivalgono. Lo si riproduce qui nella primigenia versione di
Roma 1820.16
DESDEMONA Sono innocente!
OTELLO Ed osi ancor spergiura
d’innocenza parlar? paventa, il tutto
Jago svelò.
DESDEMONA Che ascolto! oh ciel! potesti
fidarti a un traditor?
OTELLO Perché t’arresti?
Parla; insulta l’amico, il tuo delitto
m’è noto appien…
DESDEMONA Crudele!
Or tutto intendo!… ah sappi oh caro!
che Jago t’ingannò: ch’è un vile:
amor volea da me.
Respinto, ei ti sedusse,
vendicossi, accusommi; il mio diletto
sempre tu fosti, e sei: se anco si resta
qualche dubbio, o crudel, sull’amor mio,
ferisci, ma infedel no, non son io.
OTELLO (Ah! che a quei detti io sento
calmarsi il mio furore, no, del delitto
non è questo il linguaggio… Amor! tu il vuoi…
Ebben, tutto mi arrendo a’ cenni tuoi). Getta il ferro
Amor! possente nume!
Come risuoni! come,
Su qual soave labbro
come risuoni al cor.
DESDEMONA Sposo! se un’alma fiera
ti diè natura in sorte,
recami pur la morte
e in me fia spento amor.
OTELLO Iniqua…
DESDEMONA Oh Ciel… che vuoi?
OTELLO Sei tu infedel!
DESDEMONA Giammai.
OTELLO Vittima al suol cadrai
del mio tradito amor.
DESDEMONA Svenami pur se vuoi.
Non curo il tuo rigor.
OTELLO Vacilla a quegl’accenti
manca la mia costanza.
DESDEMONA (La dolce mia speranza
perduta ancor non ho).
OTELLO (Lucido di speranza
raggio nel cor brillò).
A 2 No, non poss’io resistere,
sì t’amerò costante
oh inaspettato giubbilo
oh fortunato istante
Cara

per te quest’anima
Caro
prova soavi palpiti,
che esprimere non sa.
Riemerge in questa trasfusione da un’opera all’altra una
concezione antica del teatro musicale, prioritariamente
concepito per allietare lo spirito e per ribadire alla maniera
settecentesca uno statu quo: dal teatro non si doveva uscire
diversi da come si era entrati. La Restaurazione si riconosce in
questo caso non nell’opera rossiniana, bensì nei suoi
successivi accomodamenti.
Ma anche questo genere di edulcorazione ebbe vita breve.
Negli anni trenta – anni di svolta in direzione di un teatro
musicale compiutamente romantico – l’epilogo di Otello, se fu
rimaneggiato, lo fu per rendere ancora più marcato l’omicidio
finale; in alcune messinscene Otello sopravvive a fianco del
cadavere, in altre si suicida pressoché in simultanea lontano
dagli occhi dei restanti personaggi, che non si presentano più
in scena. La soppressione delle battute finali sembra essere
stata concepita per la Scala nella primavera del 1834; fu poi
ripresa anche in altri teatri più o meno nella stessa forma.
Questa la versione scaligera del carnevale 1845:17
DESDEMONA Uccidimi… ti affretta,
Saziati alfin, crudel!
OTELLO Si compia la vendetta
(la prende, la spinge sul letto, e nell’impugnare il
ferro, Desdemona sviene. Egli vibra il colpo).
DESDEMONA Ahimè…
OTELLO Mori, infedel! (Otello si allontana dal letto nel
massimo disordine e s’uccide)
FINE

Il sipario che si abbassa sui due cadaveri in piena solitudine,


più del doppio decesso in sé, indica che un’epoca nuova nella
storia del melodramma era iniziata.
Tornando agli ultimi mesi del 1816, ancora una volta la
preparazione di uno spettacolo (Otello) andò a sovrapporsi alla
progettazione di un’opera in altra città per obblighi contrattuali
assunti da Rossini sin dall’anno precedente. Il carteggio con
l’impresario del Teatro Valle, Pietro Cartoni, si infittì in
autunno in vista del carnevale, quando Rossini, più volte
punzecchiato per non essersi ancora recato a Roma, si attivò in
prima persona per individuare un poeta subito disponibile e la
scelta cadde su Gaetano Rossi. Il librettista di Tancredi gli
inviò da Venezia, atto per atto, una sua Laurina alla Corte,
modellata su Françoise de Foix, opéra-comique di Bouilly e
Mercier-Dupaty
in cui si mettevano in scena le licenziose vicende dell’amante
del re di Francia Francesco I (1809). Rossini parve soddisfatto
del testo, ma qualcosa non andò per il verso giusto
probabilmente a causa della censura romana che lo giudicò
libertino e immorale (sullo stesso soggetto Francesca di Foix
di Donizetti, Napoli 1831). Jacopo Ferretti nelle sue memorie
edite a fine secolo18 narra di un incontro con il censore
ecclesiastico, il quale suggeriva modifiche che «snaturata
avrebbero la forza comica dell’argomento». Secondo Ferretti
ebbe da lì origine la richiesta a lui medesimo di un libretto in
sostituzione di quello veneziano. Durante una riunione
notturna a casa dell’impresario, l’antivigilia di Natale,
passando dal tè della Giamaica al caffè, Rossini, dopo aver
vagliato i soggetti proposti da Ferretti e ormai in preda al
sonno, avrebbe infine scelto Cendrillon, favola modernamente
nota attraverso le rielaborazioni di Charles Perrault (1697) e a
inizio Ottocento dei fratelli Grimm. Il racconto di Ferretti,
alquanto romanzato e momento di spicco della mitografia
rossiniana, mira a sottolineare come l’idea di coinvolgerlo
fosse partita dal compositore, quale risarcimento per averlo
scartato a vantaggio di Sterbini in occasione del Barbiere; ma
è presumibile che fosse avvenuto l’esatto contrario e che sia
stato il librettista a offrirsi al musicista in quei giorni più
promettente e conteso.
Ferretti, nato a Roma nel 1784 (vi morirà nel 1852),
dipendente della manifattura tabacchi, già critico teatrale e
compilatore di raccolte periodiche di teatro con orientamento
progressista edite da Puccinelli, fu Pastore Arcade col nome di
Leocrito Erminiano e arrangiatore di libretti altrui per il Valle
e l’Argentina, nonché librettista in proprio per Mosca,
Fioravanti, Morlacchi, Zingarelli, Generali e altri. All’epoca di
Cenerentola era ancora all’inizio di una carriera che lo vedrà
impegnato a fianco di Donizetti, Mercadante, Pacini e
dell’allora notissimo Luigi Ricci, in produzioni effettuate
perlopiù in ambiente romano. Le fonti teatrali disponibili per
la stesura del libretto rossiniano furono svariate; fra queste,
vicine cronologicamente, Cendrillon, opéra-féerie di Charles-
Guillaume Étienne con musica di Nicolas Isouard all’Opéra-
Comique di Parigi nel 1810, e soprattutto Agatina, o La virtù
premiata, dramma semiserio di Francesco Fiorini con musica
di Pavesi, alla Scala nella primavera del 1814 (sarà ripresa
anche ai Fiorentini di Napoli nell’autunno del 1817, col
parlato in dialetto napoletano) e nota tanto a Ferretti quanto a
Rossini, che teneva d’occhio le partiture del collega cremasco;
fra l’altro nei mesi di Agatina il compositore era a Milano per
la ripresa locale dell’Italiana in Algeri (più oltre anche per la
prima del Turco in Italia) ed è probabile che abbia assistito
allo spettacolo. Effettuata la scelta, e con in mente almeno
quest’ultimo modello, la stesura di libretto e partitura
procedette spedita; se si dà credito alla testimonianza di
Ferretti, il tutto richiese circa un mese, dal concepimento alla
prima del 25 gennaio 1817 al Teatro Valle:
Nel giorno di Natale Rossini s’ebbe l’introduzione. La
cavatina di Don Magnifico nel dì di S. Stefano; il duetto a
donna e soprano [recte tenore] in quello di S. Giovanni.
[…] e notate, o signori, che tranne l’aria del pellegrino [«Il
mondo è un gran teatro», Alidoro I,VIII], e l’introduzione
dell’atto secondo [coro «Ah! della bella incognita», II,I], e
l’aria di Clorinda [«Sventurata! mi credea», II,IX] che
vennero affidate al maestro Luca Agolini, detto Luchetto lo
zoppo, il resto fu tutto scritto dal Rossini. Quel magnifico
cimarosiano duetto fra i due buffi [il duetto
Dandini e Magnifico, N. 11] fu terminato nella notte che
precedeva la prima comparsa dell’opera, e fu provato nella
mattina, e quindi fra un atto e l’altro del melodramma in
tempo che i comici del Bazzi recitavano l’atto secondo del
Ventaglio [di Goldoni].19
L’intervento di un collaboratore (Luca Agolini, musicista di
area romana) non si limitò ai recitativi secchi, di cui Rossini al
pari di altri compositori dell’epoca non si occupò direttamente
che in pochi casi, ma si estese ad alcuni brani minori, destinati
a cadere o a essere sostituiti in successive rappresentazioni.
Peraltro, gli autoimprestiti in Cenerentola sono pochi e si
limitano alla sinfonia (prelevata dalla Gazzetta napoletana) e
alla sezione conclusiva dell’aria di Almaviva dal Barbiere
(«Cessa di più resistere»), recuperata nel «Non più mesta
accanto al foco» cantato da Cenerentola a conclusione del
finale secondo.

Antonio Basoli, bozzetto per La gazza ladra, dalla Collezione di Scene Teatrali,
Bologna 1819; Milano, Archivio Storico Ricordi

Ferretti racconta anche dell’insuccesso della prima, forse


ricalcando per amore di simmetria quanto accaduto per Il
barbiere: «Si esponeva un’opera d’ardua esecuzione musicale
e mimica, in gran parte immatura, in gran parte non
compresa».20 Affermazioni veritiere per quanto riguarda la
partitura e confermate nella sostanza dalla lettera che il
compositore inviò alla madre, informandola che al debutto
l’opera «fece veramente un fanatismo addonta però che i
poveri cantanti per le troppe prove non potessero
corrispondere al pregio della mia Porca Musica[.] non ostante
il Publico mi ama e mi vuole solo maestro al mondo».21 Le
cronache difatti non risparmiarono elogi a Rossini, che aveva
conquistato il pubblico romano sin dalle precedenti sue
apparizioni; si trattava per altro di un pubblico sensibile al
genere semiserio, che Cenerentola palesemente richiama.
Sulle Notizie del giorno, di replica in replica, si rilevarono
«tante e sì originali bellezze da sorprendere veramente» e
«pezzi veramente aurei e isquisiti». La Righetti Giorgi, già
prima Rosina, riscosse plauso per «la mimica più nobile e
persuasiva».22 Andrea Verni, basso buffo nel ruolo di Don
Magnifico, quasi al termine di una lunga carriera, aveva già
cantato Rossini in riprese bolognesi del Turco e del Barbiere;
nel suo repertorio anche Leporello, al Fondo (1812) e agli
Intrepidi di Firenze (1818). Nei panni di Clorinda e di Tisbe
due semisconosciute: Caterina Rossi, che parteciperà alla
prima del Viaggio a Reims, e Teresa Mariani. Don Ramiro fu
interpretato dal tenore Giacomo Guglielmi, quinto e ultimo
figlio del compositore Pietro Alessandro, lanciato nella
professione dal fratello Pietro Carlo; Dandini dal basso
Giuseppe de Begnis, che più volte in seguito cantò Rossini
raccogliendo i suoi maggiori successi in Inghilterra e Irlanda.
Fatta eccezione per la Giorgi e De Begnis, il cast fu quindi
tutt’altro che di primo piano; forse troppo modesto per quella
«porca musica».
Il frontespizio del libretto di Cenerentola la definisce
dramma giocoso, nel solco di una tradizione da cui già
Almaviva si era discostato (quell’opera era esplicitamente
collegata alla commedia da cui traeva origine). Sono note le
oscillazioni terminologiche che da sempre caratterizzavano il
teatro buffo, dovute a tradizioni locali e alla ricchezza e varietà
dei suoi contenuti, riconducibili all’attualità sociale, alle sue
convenzioni e ai suoi riti, ma anche all’ambito della parodia
dell’opera seria o talora improntati a caratteri farseschi e
buffoneschi. Cenerentola imbocca una strada diversa, quella
della favola, scelta rara nel teatro musicale italiano, poco
incline al magico e al soprannaturale con cui la favola si
imparenta: quando difatti nel teatro buffo del Settecento
appaiono elementi fantastici, ciò avviene per burla o per truffa
(vedi in Goldoni il finto viaggio planetario del Mondo della
luna, 1750, o le finte apparizioni della Diavolessa, 1755). Nel
momento stesso però in cui Cenerentola si avvicina a un
genere così poco praticato in Italia, si riallinea di fatto al
dramma giocoso di impianto sociale a causa della
soppressione di tutti gli elementi magici che erano ancora
presenti nella sua fonte più ravvicinata. In Agatina alla fine del
primo atto si metteva in scena la partenza delle pretendenti a
eccezione della protagonista verso il castello del principe; il
commento della trasformazione magica di lei è affidato a una
didascalia:
Frattanto Agatina s’abbandona addolorata sopra un
masso coperto di verdura. Alidoro da lei non veduto
l’osserva attentamente, ed avvicinandosele con
precauzione la tocca con la sua magica bacchetta. Agatina
rimane assopita, e nel punto medesimo, il di lei vestiario
semplice, e negletto cambiandosi in un vago, e richissimo
abbigliamento, a un cenno d’Alidoro, il masso si trasforma
in un carro, tirato da due alati Draghi, che rapidamente
trasportano Agatina, e il Mago.23
Nell’opera di Pavesi inoltre si attribuiva ad Alidoro, regista di
quella sorta di pantomima, il ruolo di «grand’Astrologo, e
Mago», mantenendo il profilo a lui assegnato nell’opéra-
comique di Isouard. Nel finale secondo, durante la festa
nuziale, egli stesso propizia la seconda decisiva
trasformazione a vista di Agatina:
Alidoro porge la rosa ad Agatina; nel momento, che se la
pone in petto, comparisce nuovamente vestita da
Principessa come al principio dell’atto secondo. Si cambia
repentinamente la scena, ed appare riccamente illuminata,
e adorna di trasparenti.24
In Rossini Alidoro più modestamente sarà «filosofo» e
«maestro di D. Ramiro», concreto sostegno a Cenerentola ma
solo mediante travestimenti, lui stesso come mendicante
nell’introduzione per accertarne la bontà (N. 1), o fornendo a
lei gli abiti per la festa (I,VII).
L’ambientazione è piuttosto vaga nei luoghi e nei tempi
(palazzo e casino presumibilmente nei pressi di Salerno), come
si conviene a una favola la cui morale dev’essere universale e
condivisa. L’effetto di distanziamento da una prospettiva
troppo attualizzante è nell’introduzione compiuto dal primo
intervento di Cenerentola che, estraniandosi dalla confusione
provocata delle due sorellastre agghindate in attesa dell’invito
alla festa del principe, canta fra sé e sé una canzone dalla
patina antica, malinconica, in modo minore, accennata altre
due volte nell’opera quando la sua condizione personale è in
procinto di sbloccarsi (subito prima dell’incontro col principe
in I,IV e in II,V, mentre attende di essere da lui ritrovata). «Una
volta c’era un re» è favola nella favola; l’idea di quei versi non
fu di Ferretti ma al pari di altri spunti disseminati nel libretto
giunse a lui direttamente da Agatina, che nell’opera di Pavesi
cantava in modo simile «C’era una volta un re bello, e
garbato». Il librettista romano segue le tracce del predecessore
anche nel carattere profetico che questa canzone assume
durante il suo svolgimento, giacché quel re malinconico «il
volean sposar in tre. / Cosa fa? / Sprezza il fasto e la beltà. / E
alla fin sceglie per sé / l’innocenza e la bontà». Con una
soluzione metanarrativa, Cenerentola canta una storia antica
che prefigura il proprio futuro; ben si spiega quindi
l’irritazione delle sorellastre, punte sul vivo («Cenerentola,
finiscila / con la solita canzone»). È il primo passo di una
competizione con Clorinda e Tisbe che si prolunga fino
all’ultima scena dell’opera, competizione in cui Cenerentola
non si mostra arrendevole né remissiva: il conforto le giunge
dalla favola che lei stessa ha contribuito a imbastire con quella
cantilena e che non può non finire bene.
Le è sufficiente superare la prova cui Alidoro sottopone le
tre donne, nei panni di un mendicante che solo Cenerentola è
disposta a soccorrere. La ricchissima introduzione, che Rossini
infarcisce con prodigalità di situazioni musicali sempre
diverse, si concede anche gustosi nonsense per il piacere della
sorpresa; senza motivo plausibile, quando Clorinda, Tisbe,
Cenerentola e Alidoro riprendono tutti assieme le parole di
Cenerentola, si accenta con uno squillante salto d’ottava
l’ultima sillaba di versi come «Zitto, zitto: su, prende-té /
questo po’ di colazio-né», contraddicendo il silenzio imposto
da Cenerentola ad Alidoro in un sottovoce cauto e sillabato.
Travolti da questo accento improprio, i personaggi si
aggregano in un concertato breve ed esaltante dove si
sovrappongono per puro gioco sonoro parole/rima come
«colazione», «passione», «guiderdone», senza apparente senso
logico; avvicinamenti e scollamenti fra musica e testo sono
una costante nella produzione rossiniana, che elude qualsiasi
forma di realismo drammatico lasciando alla musica l’onere di
condurre lo spettatore a un proprio livello semantico, non
necessariamente imparentato con quello della parola. Il coro di
cavalieri «O figlie amabili – di Don Magnifico», col suo
andamento cavalleresco, annuncia subito dopo l’arrivo del
principe Ramiro – ma in realtà sarà il cameriere Dandini
travestito, per coprire l’anonimato del principe – e si colloca
invece su un piano razionale; ma l’evento imminente fa
scattare la stretta finale («Cenerentola vien qua») dove una
ritmica impetuosa nuovamente diviene l’elemento portante
della drammaturgia, sostenuta da espressioni quali «Nel
cervello una fucina» che ricordano da vicino il finale primo
dell’Italiana e i suoi frastornanti automatismi verbali.
La cavatina «Miei rampolli femminini», che introduce la
figura di Don Magnifico (I,II, N. 2), fa da pendant alla canzone
di Cenerentola. Il sogno del barone anticipa ciò che accadrà,
ma il futuro gli si presenta nei suoi risvolti comici: giorno di
festa, scampanii nuziali, una «fertilissima regina» che
innalzerà lo status sociale della famiglia, tanti nipotini e un
asino volante (lo stesso Don Magnifico con le sue ambizioni).
La sua è un’aria di genere, vecchia tanto quanto lui (ma
nuovissima nell’energia ritmica), ove si raffigura un mondo in
decadenza come il palazzo che vorrebbe restaurare con le
finanze del principe: aria parlante anzi logorroica, con
figurazioni d’accompagnamento reiterate, nello stile dell’aria
di catalogo da sempre di casa nel dramma giocoso. Peculiarità
vocali e stilistiche replicate nella sua tirata del finale primo,
alla dettatura del pranzo nuziale, quindi nell’aria «Sia
qualunque delle figlie» (II,I, N. 9) e infine nel duetto con
Dandini «Un segreto d’importanza» (II,III, N. 11), dove trova
un partner del medesimo registro vocale, mosso come lui da
necessità e opportunità materiali: la lite che scaturisce fra i
due – Dandini confessa di non essere il principe bensì il
cameriere, mandando così in frantumi le strategie di Don
Magnifico – relega entrambi a un rango subalterno. A Don
Magnifico non è concesso di evolvere e mutare indirizzo
perché non spetta a lui, aristocratico impoverito, aspirare a un
upgrade sociale. Dandini ha perlomeno il privilegio di fingersi
principe, per un po’, compiacendo il padrone. Trova i suoi
momenti di gloria nella cavatina con coro «Come un’ape ne’
giorni d’aprile» (I,VI, N. 4), dove maschera il suo
travestimento con un eloquio forbito di lontane ascendenze
metastasiane, lasciando alla musica goffa e ironicamente
sdolcinata il compito di svelare il trucco, e nel sestetto (II,VIII,
N. 14), quando osserva divertito il precipitare degli eventi
(ancora con una soluzione metanarrativa: «Già sapea che la
commedia / si cangiava al second’atto»). Poi rientra nei
ranghi.
Parimenti subalterne sono, loro malgrado, Clorinda e Tisbe.
Esuberanti quanto inconsistenti, si presentano prevalentemente
appaiate e ritraggono come Don Magnifico una tipologia
comica in estinzione, quella della gran dama arrogante e
presuntuosa che rivendica quanto ritiene le spetti di diritto,
confidando nella sua appariscenza, ossia nel canto di
coloratura. Le due antagoniste esistono non per loro stesse ma
in combinazione con altri, nelle liti con Cenerentola, nei
replicati confronti col padre, nel desiderio di primeggiare agli
occhi di Dandini (per loro, il principe). Indicativo che l’unica
aria singola destinata a una di loro (Clorinda, II,IX), posta dopo
il sestetto in cui Ramiro chiede la mano a Cenerentola, è fra i
pochi brani tralasciati da Rossini e affidati ad Agolini.
«Sventurata! mi credea» (N. 15) sfiora corde patetiche,
risollevandosi solo nel tempo mosso finale quando Clorinda
manifesta l’ambizione di procurarsi il riscatto con un nuovo
corteggiatore; inserita per esigenze di cast e da allora quasi
sempre tagliata, è un’aria estranea ai fondamenti dell’opera
perché finalizzata a conferire un minimo di profondità
sentimentale a un’idea materiale, quella del matrimonio per
convenienza già anima di tanto Settecento, che in Cenerentola
viene superata e messa in ridicolo dal profilo morale e dalle
aspirazioni, esistenziali più che sociali, della protagonista.
Cenerentola – come già Rosina, che ama Lindoro ignorando
che altri non è che il Conte – ama Ramiro credendo sia lo
scudiero del principe; entrambe le fanciulle manifestano
quindi interesse per la persona, non per il rango. La soluzione
a causa degli equivoci che suscita si traduce in un dispositivo
comico, vedi il duetto di Don Magnifico e Dandini, o
l’episodio in cui Cenerentola fugge Dandini, per lei il principe
(II,II). Quello che più non si ascrive a un linguaggio scenico di
matrice settecentesca è però soprattutto l’incontro fortuito dei
due futuri sposi, contralto e tenore (I,IV), e lo scoccare del
colpo di fulmine non attraverso un dialogo da prolungare nel
pezzo chiuso ma direttamente nel duetto, preceduto appena da
qualche parola di recitativo, secondo princìpi ormai stabili
nell’operismo prim’ottocentesco, quando si iniziò a collocare
l’elemento dello scambio dialogico dentro il brano di musica e
non prima di esso. L’opera seria del passato non metteva in
scena innamoramenti, spesso commentati in antefatto, bensì il
loro coronamento nel matrimonio (o la rinunzia quando
opportuna). Nell’opera buffa l’innamoramento si presentava
invece perlopiù sotto forma di seduzione in uno o talora nei
due sensi, più difficilmente come un incontro fatale di due
anime. Il duetto «Un soave non so che» (I,IV, N. 3) include
invece la sorpresa di un’emozione inattesa, in “a parte” ma con
un primo “insieme” nella sezione cantabile di avvio (e melodia
frammentata per l’emozione), le frasi di circostanza e
l’imbarazzata presentazione che Cenerentola fa di sé stessa; e
infine, nella concitata stretta, l’ammissione ancora in “a parte”
di un sopraggiunto amore che però non può essere rivelato.
A partire dall’incontro con Ramiro, Cenerentola intraprende
il suo percorso di autodeterminazione, senza concedere più
molto alle avversarie. In questo suo atteggiamento consiste
anche la maggiore differenza che intercorre fra lei e Rosina:
quest’ultima nel Barbiere è più oggetto delle brame
(corrisposte) di Almaviva che soggetto agente, e poco prima
dell’epilogo rischia persino di compromettere la sua stessa
sorte, raggirata da Bartolo il quale la induce a sospettare che
Lindoro sia solo uno strumento del Conte (quando è il Conte).
Cenerentola, forte della connotazione morale-favolistica che
lei stessa ha definito nella canzone di avvio, procede dritta
all’obiettivo, reagendo vittoriosamente allo scoramento per la
sua infelice condizione. Nel quintetto «Signore, una parola»
(I,VI, N. 5) esordisce per prima e supplica Magnifico di
portarla alla festa del principe; messa all’angolo, riesce
comunque ad attirare l’attenzione di un già irritato Ramiro
sulla sua condizione famigliare, invocando la tutela dei
potenti: il sospetto che Magnifico non la racconti giusta si
insinua progressivamente, fra reticenza, menzogne e
insinuazioni che la musica insegue battuta per battuta; da lì il
tableau in canone «Nel volto estatico», che con andamento
circospetto determina uno stato di attesa prima della stretta
finale, in cui un unico travolgente schema ritmico prende
possesso dell’azione. Come spesso capita nel Rossini buffo, i
personaggi si smaterializzano per dar luogo a una comicità
irrealistica, prodotta non più da quanto si vede in scena, ma da
quanto si ascolta in orchestra e nel canto, che in quei frangenti
va al traino degli strumenti.
Nel finale primo la comparsa, propiziata da Alidoro, di
Cenerentola, che arriva alla festa velata quale «dama
incognita» tra squilli di tromba e acclamazioni corali, getta
nello sconcerto le due sorellastre, su un motivo ostinato
dell’orchestra che procede circospetto (I,XIII-XIV). La
protagonista si svela fra sontuosi festoni sonori e da lì il breve
concertato di stupore «(Parlar – pensar – vorrei)», in cui la
sorpresa del momento è affidata a una vocalità tremula ed
esitante. Dopodiché i parenti tentano di negare l’evidenza,
insinuando il dubbio che l’ospite incognita non sia
Cenerentola ma le somigli soltanto. Si diffonde allora la tacita
convinzione che la vicenda abbia avuto ormai una svolta, e
tutto precipita nell’ennesima stretta («Mi par d’essere
sognando») che inizia sillabata e bisbigliata, fino al recupero,
come già in altri casi, di un segmento della sinfonia, in
particolare del suo trascinante crescendo: dalle trame del canto
simultaneo balzano in superficie parole e frasi sconnesse ma
ben udibili; razionale e irrazionale trovano un punto d’incontro
nel flusso sonoro irrefrenabile.
Contrariamente alla maggioranza dei casi, il finale primo di
Cenerentola non ingarbuglia ulteriormente il nodo ma inizia a
scioglierlo, lasciando trapelare il vantaggio già acquisito dalla
protagonista. Il secondo atto è movimentato dal ritrovamento
di Cenerentola, che ha lasciato al principe uno «smaniglio»
(ossia un braccialetto) anziché la scarpetta persa per sbaglio: la
censura romana impediva che si mostrasse la caviglia a teatro.
I residui dell’azione si concentrano nel sestetto «Siete voi? –
Voi prence siete?» (II,VIII, N. 14) ma si tratta prevalentemente
di azione verbale, fondata sul confronto serrato. Dalla sorpresa
per il reciproco riconoscimento («Questo è un nodo
avviluppato») e dallo scambio di improperi fra i contendenti si
arriva alla risoluzione tramite alcuni momenti chiave:
l’affermazione della morale di Cenerentola («E trionfi la
bontà») e quella dell’autorità del principe Ramiro («Questa
sarà mia sposa»). Nella confusione generale la stretta
conclusiva sancisce di fatto l’unione («Dove son? che incanto
è questo? / Io felice! oh quale evento!»). Una soluzione
drammaturgicamente rischiosa, in quanto anticipando
l’epilogo non si lascia spazio di manovra al finale secondo,
svuotato d’interesse ora ch’è già tutto chiaro; ma l’intento
degli autori è quello di trasformare il finale secondo in una
scena d’incoronazione, nel tripudio di un coro maschile
esultante dove per la terza volta in pochi minuti risuona
l’asserto «trionfa la bontà».
Per cogliere il senso e l’eccezionalità del finale rossiniano
conviene fare un passo indietro in direzione degli antecedenti
di Cenerentola. Ispirandosi a Cendrillon di Isouard, ove dopo
il Morceau d’Ensemble e Marche si dipana la risoluzione
finale affidandosi alla recitazione, con coro ultimo a suggello,
in Agatina di Fiorini/Pavesi, diversamente da quanto avviene
nel libretto di Ferretti si svela chi sia l’eletta soltanto in II,XVI,
nel bel mezzo del finale secondo, con tanto di magica
mutazione a vista. Dopo un concertato di stupore a sette voci,
la conduzione della vicenda passa a Ramiro, che la detiene
fino alle ultime battute, riuscendo anche a scrollarsi di dosso
Barone e sorellastre:25
PRINCIPE Vieni; io ti stringo al seno;
la destra, e il cor ti dono.
AGATINA Or son felice appieno.
DANDINI Dateli il nostro trono. (Agatina corre ad abbracciare
il Padre, e le Sorelle)
AGATINA Oh padre!…
BARONE Oh figlia mia!…
AGATINA Sorelle!…
TISBE E CLORINDA (Oh gelosia!)
Scusate… perdonate…
AGATINA Sempre vi voglio amar.
BARONE Altezza, il mio piacere…
PRINCIPE Baron, non proseguite;
se pel mio Cameriere
ambe d’amor ferite,
damine, non voleste…
DANDINI Or fanno le modeste.
TISBE Signore…
CLORINDA È ver… credendo…
PRINCIPE Basta così; v’intendo.
Vi troverò un partito,
vi sceglierò un marito,
che a voi somiglierà.
ALIDORO, BARONE, DANDINI
Solo or si pensi al nodo,
che amore formerà.
CORO FINALE Vanne al Trono innocente donzella,
compia il Ciel del tuo core la speme;
come in te non si videro insieme
mai congiunte virtude, e beltà.
(Durante il Coro, il Principe prende per mano Agatina, la
conduce sul Trono, e li pone la corona in testa. Tutto il seguito
si dispone all’intorno, e s’inchina.)
Agatina, pur al centro delle attenzioni di tutti, non prende la
parola che per rappacificarsi coi familiari; nell’azione finale,
sui suoni dell’orchestra, si lascia incoronare dal principe: resta,
in buona sostanza, l’oggetto del desiderio di lui.
La condizione della protagonista e il suo rapporto con gli
altri si invertono nell’epilogo dell’opera rossiniana (N. 16).
L’accezione di “trionfo” non è inusuale nell’opera in anni di
continui rivolgimenti politici e sociali come quelli rossiniani,
ma logicamente è impiegata più per soggetti biblici o seri –
trionfi di David, Giuditta, Tomiri, Rosselane, Alessandro,
Camilla, Emilia, Quinto Fabio etc. – piuttosto che in contesti
di dramma borghese. In Cenerentola suona come un emblema
del concetto di fondo dell’opera e dell’immagine femminile
che vi si vuole proporre. Tutto, nel finale, converge sulla
protagonista: qui Ramiro quasi non canta se non nel coro di
chiusura, mentre con ecumenica ponderazione Cenerentola
trova una parola per tutti («E sarà mia vendetta il lor perdono.
… figlia, sorella, amica / tutto trovate in me»). Più che il
«trionfo della bontà» è il trionfo di Cenerentola, il
compimento di una parabola intrapresa a partire da «Una volta
c’era un re», nell’introduzione, con Cenerentola vicino al
fuoco e sommersa dalla cenere (tempo cantilenante di 6/8, in
modo minore), per giungere nel finale secondo a «Nacqui
all’affanno, al pianto» (ancora 6/8, ma stavolta con un tono
consolatorio e riepilogando un passato ormai lontano, in modo
maggiore), e al celeberrimo «Non più mesta accanto al fuoco»,
in cui la cenere è solo un ricordo:
CENERENTOLA Nacqui all’affanno, al pianto.

Andante
,
6
/
8

Soffrì tacendo il core;


ma per soave incanto,
dell’età mia nel fiore,
come un baleno rapido
la sorte mia cangiò.
(a don Magnifico e sorelle)
No no; – tergete il ciglio;

Alleg
ro,
4/4

perché tremar, perché?


A questo sen volate;
figlia, sorella, amica
tutto trovate in me. (abbracciandole)
TUTTI meno CENERENTOLA
M’intenerisce e m’agita,
è un nume agli occhi miei.
Degna del tron tu sei
ma è poco un trono a te.
CENERENTOLA Padre… sposo… amico… oh istante!
Non più mesta accanto al fuoco

[refrain
del
rondò]

starò sola a gorgheggiar.


Ah fu un lampo, un sogno, un gioco
il mio lungo palpitar.
CORO Tutto cangia a poco a poco

[epis
odio
]

cessa alfin di sospirar.


Di fortuna fosti il gioco:
incomincia a giubilar.
Dopo la frizzante accelerazione dell’Allegro («No no; –
tergete il ciglio»), il processo di autodeterminazione della
protagonista giunge al culmine proprio nel rondò finale in
alternanza col coro; il refrain, in versi ottonari, come da
tradizione del rondò, annunziato da un sibilante ottavino e
subito acquisito da Cenerentola, viene variato a ogni ripresa
con soluzioni vocali sempre più esuberanti. Non è allora
casuale che il motivo/refrain di «Non più mesta» Rossini lo
recuperasse – stavolta senza preoccuparsi delle reazioni del
pubblico, romano in entrambi i casi – dalla cabaletta di altra
aria “trionfale”, quella del Conte posta poco prima del finale in
Almaviva, «Cessa di più resistere», ai versi «Ah il più lieto, il
più felice / è il mio cor de’ cori amanti!… / Non fuggite, o lieti
istanti / della mia felicità», sottoposti ad analoghe festose
variazioni. La Righetti Giorgi, prima Cenerentola, aveva già in
gola quel brano: le era stata assegnato, sottraendolo al Conte,
in una ripresa del Barbiere al Contavalli di Bologna nell’estate
del 1816; quella sua Rosina aveva fatto un passo avanti verso
Cenerentola.
Ai vincenti, stessa musica; giunta al suo culmine storico,
l’opera buffa trova in quei due (o tre, includendo Rosina)
personaggi rossiniani un punto di non ritorno. L’apoteosi di
Cenerentola nella durevole tradizione ottocentesca dell’opera,
fino all’Unità e oltre, andò a intersecarsi al destino di tante
vittime femminili sacrificate all’altare della tragedia lirica.
Rossini stesso fra i primissimi aveva intrapreso quella strada
con la sua Desdemona; in quelle riprese tarde di Cenerentola
che si trattasse di una favola sarà stato ancora più evidente.
Relativamente al rapporto di Rossini con i generi teatrali negli
anni della Restaurazione si rende opportuno estendere lo
sguardo verso una tipologia di spettacolo fin qui più volte
sfiorata, cui Rossini in quegli stessi mesi contribuisce con un
altro titolo ragguardevole. Lasciata Roma per Milano nei
giorni successivi alla prima di Cenerentola, Rossini si
apprestava a onorare un nuovo impegno contratto con la Scala
per la successiva stagione di primavera. La selezione del titolo
da mettere in scena fu effettuata attraverso un concorso
pubblico indetto dall’impresario Angelo Petracchi, che aveva
stabilito le regole in un bando uscito a stampa sul Corriere
delle dame il 6 aprile 1816; nella giuria anche Vincenzo
Monti. Si volle in sostanza conferire “pubblicità” a un sistema
produttivo chiuso come quello dell’opera, coinvolgendo i
lettori del periodico nella programmazione teatrale. I requisiti
dei drammi erano stabiliti a priori; fra questi la suddivisione in
due atti, la presenza di almeno un personaggio buffo, la
preferenza per i pezzi concertati anziché per le arie, secondo il
gusto moderno, la novità dello spettacolo. A giudicare dal
libretto, si fregiò del titolo La testa di bronzo, o sia La
capanna solitaria di Felice Romani che musicata da Carlo
Soliva andò in scena con successo nell’autunno successivo. Di
genere eroicomico, derivava da un mélo francese; come pure
da un mélodrame historique, La pie voleuse ou La servante de
Palaiseau di Louis-Charles Caigniez e Théodore Baudouin
d’Aubigny, rappresentato a Parigi nel 1815, il letterato e
filologo milanese Giovanni Gherardini (1778-1861) aveva
tratto La gazza ladra, destinata alla musica di Rossini, in
prima il 31 maggio 1817. L’influenza del teatro di Boulevard
sulla librettistica italiana di quegli anni è ampiamente
documentata; i mélodrames francesi, senza la musica
originaria, trovavano spazio anche nei cartelloni delle
compagnie teatrali italiane, concorrendo così al macrosistema
dello spettacolo in cui teatro cantato e teatro parlato si
fronteggiavano sulla base di precise corrispondenze, traendo
l’uno dall’altro spunti, stimoli, linfa vitale.
Nel suo adattamento Gherardini si mantenne fedele
all’originale, trasformando in arie e pezzi concertati situazioni
già corredate di numeri musicali, nella versione francese
realizzati dallo specialista Louis Alexandre Piccinni (1779-
1850), nipote di Niccolò ma compositore francese a tutti gli
effetti. La vicenda si ispirava a un fatto realmente accaduto, la
condanna a morte di una serva accusata ingiustamente di furto.
Un errore giudiziario quindi, tema che doveva suonare di
monito in un periodo di riassetto delle principali cariche dello
stato, in Francia come a Milano; il titolo del libretto di
Gherardini, scivoloso e arrischiato (L’avviso ai giudici), fu
modificato adeguandosi alla traduzione italiana del mélodrame
francese, in Italia già noto con quello stesso titolo – La gazza
ladra appunto – attraverso il teatro di prosa; si indirizzò così
l’attenzione sul pennuto cleptomane, svelando in anticipo
l’esito della vicenda. L’assunto di base non era nuovo: di
innocenti perseguitate abbondavano i repertori teatrali, dal
filone classicheggiante dell’Innocenza giustificata (Gluck
1755) a quello famigliare di Griselda (da Scarlatti 1721 in
poi), e ve n’erano anche nel Rossini dell’Inganno felice e di
Torvaldo e Dorliska, ambedue soggetti di carattere semiserio
(con personaggi comici calati in situazioni patetiche). Vicende
legate a un’ingiusta persecuzione con salvataggio finale erano
state inscenate anche in alcuni dei titoli più influenti del teatro
d’epoca napoleonica, quali Les deux journées di Cherubini
(1800), Leonora di Paer (1804) e sullo stesso soggetto Fidelio
di Beethoven (prima versione del 1805); i soprusi avevano in
quei casi motivazioni politiche e riproponevano l’idea
dell’oppressione che si era diffusa negli anni rivoluzionari. La
gazza ladra aggancia a quello spunto altri contenuti abilmente
miscelati e va a costituire una efficace trasposizione
librettistica del dramma borghese del Settecento teorizzato da
Diderot e da Lessing e discusso localmente anche nella
Dissertazione filosofica sulle tragedie cittadinesche di
Idelfonso Valdastri (1794). Nella Dissertazione l’autore prende
le difese di soggetti teatrali di più nuova e moderna
concezione (e non aulici), a vantaggio di un più diretto
coinvolgimento del pubblico; e nel dramma di Gherardini si
tratta effettivamente di gente semplice e dalle poche risorse e
delle vessazioni inflitte da un potente perverso, come avverrà
pochi anni dopo in Fermo e Lucia e nei Promessi sposi di
Manzoni (1823 e 1827).

Partitura autografa della Sinfonia della Gazza ladra (prime quattro battute);
Milano, Archivio Storico Ricordi

Vi è l’amore corrisposto di Ninetta – la serva – per Giannetto,


figlio del padrone (Fabrizio), una condizione sentimentale non
scontata ai fini della salvaguardia dell’equilibrio domestico. Vi
sono gli echi di una guerra da poco terminata, con lo strascico
di un episodio di insubordinazione e diserzione avvenuto a
Parigi (l’ambientazione francese dell’originale è preservata
anche in Gherardini): Fernando, padre di Ninetta, si rifugia da
lei dopo la condanna a morte rimediata per avere colpito un
ufficiale che si rifiutava di concedergli il permesso per
rivedere la figlia. Il tema del disertore circolava già a teatro; si
era diffuso dopo la guerra dei Sette anni e lo si ritrova con
maggiore frequenza negli anni pre- e postrivoluzionari su
influenza di Le Déserteur, dramma in prosa di Louis-Sébastien
Mercier (1770). Nell’adattamento di Bartolomeo Benincasa
per la musica di Francesco Bianchi (Venezia 1784) la
prefazione del librettista sottolinea come il carattere
avventuroso e larmoyant del soggetto di Mercier introducesse
una diversa visione “politica” del teatro, orientandosi
all’attualità e al rapporto fra individui e istituzioni in anni di
profonde modifiche del tessuto sociale.
Nella Gazza ladra le dimensioni pubblica e privata si
intrecciano con esiti problematici e al riguardo spicca la figura
del podestà Gottardo, che tenta di sfruttare la propria posizione
per procurarsi i favori di Ninetta. Di podestà innamorati ve
n’erano stati altri, ma mai così perfidi. Nella Finta giardiniera
attribuita a Petrosellini e musicata da Anfossi (1774) e poi da
Mozart (1775) il podestà Don Anchise impone un’asfissiante
tutela nei confronti di Sandrina, cui prospetta l’avanzamento di
classe tramite un matrimonio vantaggioso; ma Sandrina
aristocratica lo è già, anche se in incognito, e ama il Contino
nonostante lui l’abbia abbandonata. La nobiltà d’animo della
protagonista non ha alcuna affinità con gli incarichi politici
(Podestà) ma gli deriva piuttosto dallo status sociale
(aristocratico); alto lignaggio e bontà ancora si associano. Nel
Podestà di Chioggia di Orlandi (Milano 1801), opera ben nota
a Rossini, il protagonista – «innamorato, e sciocchissimo»,
avverte la prefazione del libretto – è un lontano discendente
dei vecchi concupiscenti della commedia dell’arte, gabbato e
screditato («Son Podestà, son Giudice, / privati affetti addio. /
Ma quelle carni morbide… / Ma quegli occhietti… oh Dio! /
Come resisterò?», II,VI). Le profferte di Gottardo verso Ninetta
appaiono invece assai più invadenti rispetto a quelle dei
predecessori, ingenui o sciocchi; afferiscono all’ambito
sessuale in modo non troppo velato e in assenza pressoché
totale di risvolti umoristici. Gottardo non si fa scrupolo di
approfittare delle vicende giudiziarie di Ninetta, accusata del
furto del cucchiaio d’argento sottratto dalla gazza, per
estorcere alla ragazza un assenso che però non gli giungerà. Le
vittime sono allora due, dal mondo civile e da quello militare:
Ninetta, su cui cadono pesanti indizi di colpevolezza a causa di
un altro cucchiaino d’argento appartenente al padre (scambiato
per quello sottratto), da lei venduto all’ebreo Isacco per
procurarsi del denaro; e Fernando, che soccorrerà la figlia
testimoniando in tribunale ma ricavandone solo una definitiva
condanna.
L’opera di Rossini, oggi nota al grande pubblico soprattutto
grazie all’esaltante sinfonia, è un’opera difficile e sinistra, ma
anche particolarmente ispirata. L’autore, nel resoconto alla
madre (3 giugno 1817), si lasciò andare a toni infervorati
ritenendola «La Più Bella ch’io m’abbia Scritta […] Il Libro è
bellissimo e l’ho Scritto con un gran trasporto». La varietà
delle situazioni, che slittano dal caratteristico al sentimentale
al tragico, procurarono l’interesse di un compositore per suo
conto eclettico, e l’impegno profuso fu volto anche a
procurarsi il favore del pubblico milanese che in parte gli era
mancato nelle precedenti occasioni. La sinfonia iniziale
attacca in modo sorprendente e marziale «con due tamburi che
dalle estremità del teatro si rispondevano come l’Eco», come
ebbe cura di annotare l’autore nella solita lettera.26 Un gesto
sonoro eclatante, eserciti contrapposti, bagliori di guerra. La
marcia che segue è contraddistinta da un pathos inusuale
all’avvio; i restanti motivi, leggiadro il primo, incalzante
quello conclusivo come si addice al crescendo finale, aprono
in modo tutt’altro che neutrale, sfiorando la magniloquenza
dello stile sublime, uno spettacolo che si prefigura
decisamente equivoco. Di comico ci sono soltanto le prime
cinque scene, che in questo caso danno luogo a cinque numeri
musicali. Si tratta di una comicità festaiola e villereccia,
realistica, un quadro sociale ridente non ancora perturbato da
fattori esogeni. Nell’introduzione (N. 1) si profila un
ricongiungimento famigliare postbellico («Vieni, vieni, o
padroncino. / Vieni a noi, Giannetto amato») da cui ci si
attende in modo ancora sfumato la nascita di una nuova
famiglia, quella generata dall’unione di Giannetto e Ninetta;
nella stretta finale la rievocazione della guerra sottintende un
netto distanziamento a vantaggio di una convivialità
finalmente ritrovata («noi l’udremo narrar con diletto / le
battaglie, le stragi, il bottino»). La forchetta d’argento però
non si trova: dalla guerra a una posata, non meno decisiva per
le sorti dei protagonisti.
La vita borghese nasconde insidie insospettate che Ninetta
ancora non immagina quando canta la sua ingenua e bucolica
cavatina mentre raccoglie fragole in attesa del ritorno
dell’amato (N. 2): il ruolo spettò a Teresa Belloc-Giorgi,
contralto qui prestato al registro sopranile, già prima Isabella
nell’Inganno felice, altra produzione semiseria. Una cavatina è
accordata anche a un personaggio di secondo piano, l’ebreo
Isacco, rivendugliolo del paese («Stringhe e ferri da calzette»,
I,III, N. 3); sua sarà la testimonianza che nel finale primo
incastrerà l’innocente Ninetta (N. 9), e questo legittima la sua
breve sortita. Al suono di una sinfonia campestre fa poi il suo
ingresso Giannetto, tenore (I,IV); fu Savino Monelli, nell’aprile
dell’anno precedente Tamino nell’edizione scaligera del
Flauto magico mozartiano e specializzato in ruoli contraltini e
leggeri, che nel proprio repertorio Rossini spinse a tessiture
assai elevate. Complessivamente queste prime scene,
compreso il brindisi con danze (N. 5), suonano lievi e
serafiche, ma nella loro pittoresca stabilità lasciano presagire
che l’intrigo generato dalla posata mancante prenderà forma
proprio in quel consesso apparentemente armonico ed
equilibrato.
L’arrivo di Fernando padre di Ninetta fuggitivo (alla prima di
nuovo Filippo Galli) dà luogo a un intenso recitativo
strumentato, già emblema delle scene patetiche o tragiche. Il
racconto della condanna genera il primo duetto (I,VI, N. 6);
l’incipit di Ninetta, «Come frenare il pianto!», segna una
svolta nel carattere dell’opera, reso ancora più fosco dalla
comparsa di Gottardo (il basso Antonio Ambrosi, cui più volte
fu assegnato quel ruolo, anche a Napoli). Lo stile vocale
comico del Podestà si associa a contenuti poco rassicuranti
come il disprezzo per il rifiuto di Ninetta («Ciance solite e
ridicole», I,VII) e una strategia di seduzione basata sulla
prepotenza («Sì, sì, Ninetta / sola, soletta / ti troverò»),
elementi che si traducono in linfa vitale per il personaggio,
certo di uscire da quell’esperienza «rinvigorito / ringiovanito»
(N. 7). La tipologia del semiserio concede queste incursioni
nell’ambiguità, alimentate anche dalla vocalità rossiniana che
si fonda più su tipi ideali che non sulla caratterizzazione
vocale dei generi. Il precipitare degli eventi investe
decisamente la sfera privata nel terzetto di Ninetta, Fernando e
Podestà (N. 8); l’identità del fuggiasco è coperta dalla figlia
ma rischia di essere rivelata a seguito del tentativo di Fernando
di difenderla dalle profferte del Podestà, con argomenti che
urtano la suscettibilità di questi («Uom maturo e magistrato /
vi dovreste vergognar», I,IX).
Il fondamento dell’opera risiede quindi nell’intersezione fra
funzione pubblica e aspirazioni private esibite con arroganza;
l’applicazione intransigente e vendicativa del diritto rende
prive di protezione le classi meno abbienti. Su questo tema si
avvicendano scenari sempre in procinto di sbilanciarsi verso
un crinale tragico anche nei momenti comici. La recita
meccanica e parodistica degli atti di accusa verso Ninetta da
parte del Podestà («In casa di Messere», finale primo, I,XIV,
N. 9) rievoca il profilo caricaturale dei giuristi del dramma
giocoso o il finto notaio di Così fan tutte, ma l’effetto è di
tutt’altro segno perché Ninetta e i compaesani sono
oggettivamente terrorizzati dalla prospettiva di un’ingiusta
condanna. Comicità acida, mai faceta e intrisa di un pathos
morboso: nell’aria di seduzione (forzata) «Sì per voi, pupille
amate» (II,V, N. 11), alle lusinghe del Podestà, che blandisce
Ninetta con espressioni auliche in stile cantabile,
corrispondono inquiete accelerazioni del tempo agli interventi
della giovane, che lo respinge con forza, e del coro delle
guardie, che richiamano il Podestà in aula per il processo,
mentre questi è intento agli ultimi affannosi tentativi di
persuadere Ninetta a darsi a lui per salvare la vita. Nei
momenti più concitati si riutilizza il crescendo della sinfonia;
l’energica vitalità di quel motivo è adesso associata a una
situazione repulsiva dove si pone in primo piano la frenesia
ossessiva del Podestà. La scena del tribunale (II,IX, N. 14), che
inizia allusivamente con un coro in quinari sdruccioli – metro
“infernale” per eccellenza, emblema delle furie in Orfeo ed
Euridice di Calzabigi e Gluck – culmina con la sentenza di
morte e il quintetto.
Il segmento più tetro dell’azione si esaurisce in modo
paradossale – data la sproporzione fra crimine e pena – con la
marcia al supplizio all’inizio del finale secondo (II,XV, N. 16).
Alla scena successiva il ritrovamento della posata da parte di
Pippo, contralto en travesti, scagiona Ninetta, con disappunto
del Podestà, mentre un dispaccio reale decreta la salvezza di
Fernando, padre e disertore, nello spirito dell’opéra à
sauvetage. Le dimensioni “cittadinesca” e militare sono così
ricomposte grazie a una ritrovata equità (più che a un
recuperato senso di giustizia), casualmente o per intervento
regio; è quindi evidente che i risvolti “istituzionali” della
vicenda hanno soprattutto la finalità di dare risalto alla
condizione individuale dei personaggi, che fronteggiano un
contesto avverso da cui doversi difendere, sulla scia della
Rivoluzione. Fu tuttavia anche grazie alla Gazza ladra che il
pubblico iniziò a familiarizzare con tipologie di teatro
musicale dotate di contenuti sociali che lo riguardavano da
vicino e non confinati alla dimensione ideale.
SUGGERIMENTI DI LETTURA

Le fonti letterarie dell’Otello rossiniano sono discusse in


MONTEMORRA MARVIN 1991, COLLINS 1994, RAFFAELLI 1996,
SOMIGLI 2004; i due finali in QUESTA-RAFFAELLI 1994. Per una
lettura dell’opera vedi GRONDONA 1997 e ISOTTA 2016; sulle
presenze dantesche in Otello e l’effetto sulla musicazione
verdiana PETROBELLI 1990. ROCCATAGLIATI 2010 esamina alcuni
ritocchi apportati da Rossini al libretto di Berio di Salsa. La
Gazzetta, libretto e musica, è presentata in MAUCERI 1993 e
recentemente in CARNINI 2020a (anche alla luce dell’instabile
concetto di “età rossiniana”); per il genere cantata in Rossini,
FABBRI 2010. Sul librettista di Cenerentola e la condizione dei
teatri romani all’epoca di Rossini, FERRETTI 1996.
Un’introduzione complessiva su Cenerentola in ZEDDA 1998;
HENZE-DÖHRING 1998 discute la componente fantastica e la
neutralizzazione avvenuta nel libretto rossiniano; FABBRI 2002
analizza le analogie e le dissomiglianze fra Agatina di Pavesi e
la rossiniana Cenerentola, nei libretti e nella musica. Per le
fonti della Gazza ladra vedi SALA 1995; l’influenza del
dramma borghese sull’opera del tempo in CASTELVECCHI 2013;
sul genere semiserio JACOBSHAGEN 2005. SMART 2018b, pp. 1-
22, inquadra la Gazza ladra nel progressivo sviluppo
dell’opera di taglio storico-sociale. Considerazioni su Gazza
ladra e Fidelio in ROBERTS 2015, pp. 95-123.
DA ASCOLTARE
Le nozze di Teti, e di Peleo
in Cantatas, vol. II, Cecilia Bartoli, Daniela Barcellona,
Elisabetta Scano, Juan Diego Flórez, Luigi Petroni, Coro
Filarmonico e Orchestra della Scala, dir. Riccardo Chailly,
Decca 1998 e sgg.
La gazzetta
Marco Cristarella Orestano (Don Pomponio), Judith Gauthier
(Lisetta), Giulio Mastrototaro (Filippo), Vincenzo Bruzzaniti
(Don Anselmo), Rossella Bevacqua (Doralice), Michael
Spyres (Alberto), Maria Soulis (Madama La Rose), Filippo
Polinelli (Monsù Traversen), Coro di San Pietro a Majella
(Napoli), Czech Chamber Soloists, Brno, dir. Christopher
Franklin, Naxos 2007
Otello, ossia Il moro di Venezia
Gregory Kunde (Otello), Carmen Romeu (Desdemona),
Maxim Mironov (Rodrigo), Robert McPherson (Iago), Josef
Wagner (Elmiro), Raffaella Lupinacci (Emilia), Maarten
Heirman (Doge), Stephan Adriaens (Gondoliere), Symphony
Orchestra and Chorus of Opera Vlaanderen Antwerp/Ghent,
dir. Alberto Zedda, Dynamic 2015
La Cenerentola, ossia La bontà in trionfo
Teresa Berganza (Cenerentola), Luigi Alva (Ramiro), Renato
Capecchi (Dandini), Paolo Montarsolo (Don Magnifico),
Margherita Guglielmi (Clorinda), Laura Zannini (Tisbe), Ugo
Trama (Alidoro), Scottish Opera Chorus, London Symphony
Orchestra, dir. Claudio Abbado, Dg 1972
La gazza ladra
Giulio Mastrototaro (Fabrizio Vingradito), Luisa Islam-Ali-
Zade (Lucia), Kenneth Tarver (Giannetto), María José Moreno
(Ninetta), Bruno Praticò (Fernando Villabella), Lorenzo
Regazzo (Gottardo), Mariana Rewerski (Pippo), Stefan
Cifolelli (Isacco), Pablo Cameselle (Antonio), Maurizio Lo
Piccolo (Giorgio), Damian Whiteley (Podestà), Brno Classica
Chamber Choir, Virtuosi Brunensis, dir. Alberto Zedda, Naxos
2015
Segue

7. «Tutto cangia a poco a poco»


1 KOSELLECK 1972-1997, p. 53.
2 GRLD 2004, p. 136 (18 giugno 1816).

3 GRLD 2004, p. 132.

4 Vedi COREA 2021, pp. 39-41.

5 «Je suis bien persuadé que si les Anglais peuvent observer tranquillement les
manœuvres d’un pareil monstre sur la scène, les Français ne pourroient jamais un
moment y souffrir sa présence, encore moins l’y voir développer toute l’étendue et
toute la profondeur de sa scélératesse» («Sono convinto che se gli inglesi possono
osservare in piena tranquillità le manovre di un tale mostro sul palcoscenico, i
francesi non potrebbero neppure per un momento sopportare la sua presenza, tanto
meno vederlo sviluppare tutta la portata e la profondità della sua
scelleratezza», Othello ou le more de Venise, tragédie; par le citoyen Ducis, André, Paris s.d., p. V).
6 Gazzetta privilegiata di Venezia, 24 febbraio 1818, p. 3.

7 SENICI 2020, p. 279.


8 Testimonianza rilasciata a Ignaz Moscheles e cit. in RADICIOTTI 1927-29, vol. I,
p. 260, n. 1. Rossini tornerà su quel canto dantesco nel “Recitativo ritmato per
canto e pianoforte” Farò come colui che piange e dice (ca. 1848).
9 Cfr. COLLINS 1994, pp. XXXIV.
10 GRLD 1992, p. 190.

11 GRLD 2004, pp. 151 e 152.

12 ’
Otello, ossia L , Casali, Venezia (San Benedetto,
africano di Venezia, dramma tragico per musica

quaresima 1818), p. 10.


13 «Per quanto riguarda il colore di Otello, ho pensato di poter fare a meno di
dargli un volto nero, allontanandomi su questo punto dall’uso del teatro londinese.
Ho pensato che la carnagione gialla e ramata, che potrebbe essere adatta anche a un
africano, avrebbe avuto il vantaggio di non rivoltare l’occhio del pubblico,
soprattutto quello delle donne, e che questo colore avrebbe permesso loro di godere
di ciò che di più delizioso c’è a teatro, cioè tutto il fascino che la forza, la varietà e
il gioco delle passioni diffondono sul volto mobile e animato di un giovane attore,
bollente, sensibile e inebriato di gelosia e di amore» (Othello ou le more de Venise…, p. VI).
14 Gazzetta privilegiata di Venezia, 24 febbraio 1818, p. 4.

15 Otello ossia L’affricano di Venezia, dramma per musica, Montanari, Faenza, pp. 1-2.
16 Otello o sia Il moro di Venezia, dramma per musica, Puccinelli, Roma, pp. 33-35 (Teatro di Torre

Argentina, carnevale 1820). La versione romana, munita di lieto fine, può essere
ascoltata in disco con la direzione di David Parry (Opera Rara Orc 18).
17 Otello ossia Il moro di Venezia, dramma per musica , Truffi, Milano, p. 28 (Teatro alla Scala,
carnevale 1845).
18 Cfr. Alberto Cametti, Un poeta melodrammatico romano. Appunti e notizie in gran parte inedite sopra Jacopo Ferretti e i
(Milano 1897); si cita qui dalla trascrizione del documento originale
musicisti del suo tempo

in ZEDDA 1998, pp. XXIII-XXIV.


19 Cit. in ZEDDA 1998, p. XXVI.
20 Cit. in ZEDDA 1998, p. XXX.

21 GRLD 2004, p. 159.

22 Cit. in ZEDDA 1998, p. XXXI.

23 , Milano, Pirola, p. 35 (Teatro alla


Agatina o La virtù premiata. Dramma semiserio per musica in due atti

Scala, primavera 1814).


24 Agatina, cit., p. 59.

25 Agatina, cit., pp. 59-60.

26 GRLD 2004, pp. 173-175.


8. Messaggi dal passato
Epos, mito classico e mito biblico (1817-19)

Maria Callas come Armida,


diretta da Tullio Serafin al Teatro Comunale di Firenze il 26 aprile 1952

Dopo Roma e Milano, nella tarda primavera del 1817 Rossini


fece ritorno a Napoli in vista degli impegni autunnali.
Quell’estate portò con sé anche importanti cesure sul piano
personale: una gonorrea contratta da giovanissimo e che dal
1812 gli procurava attacchi febbrili si riacutizzò,
costringendolo alle cure termali a Casamicciola, Isola d’Ischia,
dove Barbaja possedeva una villa. Fu anche l’occasione,
apparentemente poco propizia, per intensificare i contatti con
la Colbran, che assieme ad altri amici allietava il soggiorno
curativo di Rossini e che di lì a poco lo indusse a contraddire
quanto il 29 luglio aveva scritto alla madre («fra pochi giorni
sarò sano come un pesce e non voglio più donne per mano»).1
La malattia portò intanto alla rottura con Amelia Belgioioso
(«La B. Mi ha trattato Infamemente» confessava il 17
settembre).2
In quegli stessi mesi prese corpo il progetto di Armida, che
debuttò con successo il 9 novembre 1817 al San Carlo da poco
riaperto con una programmazione sfarzosa3 e che rappresentò
il ritorno di una prima rossiniana nel maggiore teatro
partenopeo dopo Elisabetta, regina d’Inghilterra. Come
Elisabetta, fu un’opera concepita per dar lustro alla star del
momento, Isabella Colbran; e, ancor più di Elisabetta, il cui
obiettivo primario era stato quello di celebrare il
reinsediamento borbonico nello spirito del buon governo, fu
un’opera disegnata sulla silhouette dell’unico personaggio
femminile, una maga musulmana che fa strage di cuori
cristiani, e proprio in quella circostanza il legame fra Rossini e
la Colbran si rafforzò. La scelta del soggetto cadde su uno dei
temi epici più diffusi nell’opera sin dai primordi, per giungere
a Jommelli (Napoli 1770), Salieri (Vienna 1771), Cherubini
(Firenze 1782) o alla raffinata partitura di Haydn (Eszterháza
1784). L’Armida rossiniana giunse quindi a suggello di una
tradizione plurisecolare nonché multilinguistica: il tema
tassesco tratto dalla Gerusalemme liberata, costantemente
ripensato e adeguato alle circostanze, entrò in circolo anche
nella cultura francese attraverso la longeva rielaborazione di
Philippe Quinault per Jean-Baptiste Lully (1686); ancora nel
1777 Gluck riprenderà quel testo per farne una nuova tragédie
lyrique. La versione di Quinault fu presto tradotta in italiano
(Roma 1690, con testo francese a fronte) finendo così per
determinare incroci fra le due tradizioni del testo, italiana e
francese. Una qualsiasi Armida di quella moderna filiera, pur
soggetto italianissimo per le origini letterarie, intrattiene
rapporti con l’opera francese anche per quanto riguarda la
dimensione magica, che il dramma per musica della linea
metastasiana aveva rifiutato del tutto, e per quella coreutica,
spesso affiancata all’altra e che talvolta, nelle opere su
Armida, sollecita il compositore di turno a prevedere «balli
analoghi», sullo stesso argomento del dramma e calati
nell’azione, quando nell’opera propriamente italiana alle danze
era riservato il ruolo di entr’acte su argomenti diversi.
Nel 1817 il libretto di Schmidt presentò quindi a Rossini una
tipologia di spettacolo che egli non aveva, sino ad allora,
frequentato direttamente e che nella sua partitura trova un
punto di arrivo; dell’Armida rossiniana si conoscono alcune
riprese napoletane (fino al 1823, modificate o anche limitate al
solo primo atto), una messinscena veneziana (San Benedetto
1818, che ebbe scarso successo) e una scaligera (1836), ma
nessun altro autore di rilievo in Italia si cimentò più con quel
soggetto, poco in linea con le moderne tendenze ottocentesche
che tennero l’epica in poco conto a vantaggio di soggetti esteri
d’estrazione tragica o romanzesca. Schmidt nella prefazione
del libretto dichiarò di essersi ispirato a recenti spettacoli
coreutici (probabilmente il Rinaldo e Armida di Louis Henry
andato in scena al San Carlo nel 1811, con musica dello
specialista Gallenberg). A ciò si deve la suddivisione in tre atti
di cui il secondo destinato prevalentemente a cori e danze: la
trasformazione illusionistica dell’orrida selva nel magnifico
palazzo dove Armida celebra la sua unione con Rinaldo è
scandita da apparizioni demoniache, draghi e infine da Geni,
Amorini e Piaceri che si esibiscono in gruppi corali e coreutici
e fiaccano le ultime resistenze dell’eroe cristiano. Il secondo
atto è quindi a suo modo un lungo entr’acte fra il primo e il
terzo.
Nella scrittura librettistica e musicale si ebbe cura di
valorizzare le capacità attoriali della grande diva assieme a
quelle vocali: la figura della protagonista acquista un rilievo
progressivamente maggiore nel corso dell’opera, tramite
un’evoluzione sentimentale che la porta a toccare diverse e
anche opposte disposizioni d’animo. Nel primo atto Armida si
presenta nel campo dei cristiani fingendosi una principessa
esiliata («donna real piangente») e confidando nella propria
oratoria. La richiesta di «dieci eletti campioni» che la scortino
fino a Damasco alla riconquista del trono perduto è formulata
in un articolato recitativo di impianto settecentesco, ma cade
nel vuoto (I,III); da qui il quartetto in cui Armida riesce a far
breccia negli interlocutori con una vocalità accesa e audace
(«Sventurata! or che mi resta», N. 3). Il duetto con Rinaldo –
Nozzari alla prima – unisce gli amanti e fu indicativamente
recuperato anche nella versione romana di Otello per sostituire
il finale tragico («Amor… (Possente nome!)», I,VII, N. 5).
Dopo l’uccisione fuori scena di Gernando che, invidioso, lo ha
sfidato a duello, Armida diviene per Rinaldo rifugio e
consolazione (finale primo, N. 6); non paga di aver
disseminato il dissidio fra i cristiani, la maga con l’astuzia
sottrae loro il campione più valoroso.
Il coro di demoni in decasillabi con cui si apre il secondo
atto proietta la vicenda in un contesto soprannaturale; le
ricorrenti acciaccature, le figurazioni ritmico-melodiche a
saliscendi interrotte da pause improvvise, le armonie di settima
diminuita dipingono uno scenario sonoro decisamente sinistro
che sarà ancora presente nel 1847 al Verdi di Macbeth («Alla
voce d’Armida possente», II,I, N. 7). L’invocazione del
demone Astarotte – personaggio preso in prestito dal
Morgante di Pulci –, affinché le potenze demoniache serrino i
ranghi contro i liberatori di Sionne, conferisce alla scena un
carattere rituale e iniziatico che troviamo anche in altri
soggetti fantastici dell’Ottocento europeo (Freischütz, Robert
le Diable, Macbeth) ma già presente in quelli del Settecento
che sporadicamente si affacciarono alla dimensione magica
(oltre ai molti libretti su Armida, le prime versioni operistiche
dell’Amleto). Le preziosità strumentali – fra cui un dialogo di
violoncello solista e flauti – che caratterizzano la seconda
scena del secondo atto, nonché il breve e contemplativo duetto
di Armida e Rinaldo («Dove son io!…», N. 9) nella loro
evanescenza sottolineano la fallacia del «seggio di fiori» su cui
riposano i protagonisti e del quadro idillico che per magia è
stato approntato da Armida.
Rinaldo viceversa trova ben poco spazio nell’atto secondo,
succube della donna e impegnato a resistere – in un’azione
pantomimica descritta da ampia didascalia – alle tentazioni
che gli si presentano sotto forma di un “doppio”,
una larva sotto le sembianze di giovine guerriero,
circondato da più leggiadre ninfe, le quali a gara si
accingono a sedurlo. Egli vuole schermirsi da’ loro vezzi;
ma la voluttà, impossessandosi a grado a grado di lui, fa
che finalmente si lasci togliere le sue guerriere insegne,
sostituendo ad esse il serto e le ghirlande di fiori.
L’atto si conclude difatti col celebre rondò di Armida e coro
«D’amore al dolce impero», su contenuti aforistici come la
gioventù che fugge e la caducità della vita, assorbito nel finale
secondo in alternanza al coro danzante (N. 10); rondò
concepito in forma di variazioni come già in altri casi (vedi il
«Non più mesta accanto al fuoco» che chiude la Cenerentola).
La replica ornamentata di un solito motivo, con crescente
esuberanza e opulenza sonora, è in Rossini contrassegno del
predominio assoluto di un singolo personaggio, che fa sua la
scena tramite il canto di coloratura.
Il vertice dell’ascesa di Armida è così posto al termine del
secondo atto; segue la brusca caduta che costituisce il tema di
fondo del terzo. Ubaldo e Carlo, inviati a recuperare Rinaldo,
non sono sensibili come lui alle seduzioni del giardino
incantato: l’andamento pastorale del loro duetto di apertura
«Come l’aurette placide» (N. 11) è spazzato via dalla stretta
finale «Ma no: d’orribil arte»; i due risultano immuni anche
alle Ninfe impegnate nel ballo a «Qui tutto è calma» (III,II,
N. 12). Di fronte alla propria immagine riflessa nello scudo,
Rinaldo si scuote e si ravvede. Il terzetto «In quale aspetto
imbelle» (III,VI, N. 14) è piena espressione dell’operismo
napoletano di quegli anni, con la compresenza in uno stesso
brano di tre tenori; oltre a Nozzari (Rinaldo), Giuseppe
Ciccimarra (Goffredo, Carlo) e Claudio Bonoldi (Gernando,
Ubaldo), quest’ultimo più propriamente un baritenore;
coinvolto in altre prime rossiniane, ebbe in repertorio anche i
ruoli di Don Giovanni (Mozart), Assur (Semiramide di
Rossini) e Pollione (Norma di Bellini).
Occorre quindi un sodalizio di tre uomini per avere la meglio
su Armida; e dal ritrovato accordo fra i combattenti cristiani
ha inizio la parabola discendente della protagonista,
nuovamente in primo piano dopo l’esultante rondò che chiude
il secondo atto. Apre quest’unità drammatica la grande scena
patetica in recitativo a III,VII, con incisi strumentali di
accentuato rilievo melodico che si inframettono al canto
declamato («Dov’è?… dove si cela?… Eppur poc’anzi»).
Rinaldo viene avvistato mentre si appresta a lasciare il palazzo
incantato: c’è quindi spazio per un ultimo confronto vocale ad
apertura del finale terzo («Se al mio crudel tormento», III,IX,
N. 15); ma Armida, sentimentalmente troppo coinvolta, ha
ormai perso la propria capacità di seduzione e non riesce a
frenare l’eroe che, sostenuto dai compagni, può prendere il
mare. Non le resta che riattivare, in rabbiosa solitudine, la
propria dimensione infernale nell’iraconda scena ultima,
modellata sul prototipo di Quinault («Dove son io!…
Fuggì!»), prima di volare via all’inseguimento di Rinaldo su
un carro trainato da draghi, mentre il coro di demoni inneggia
a vendetta e distruzione. Un finale a suo modo sospeso; certo
non propriamente tragico in quanto Rinaldo, schierato dalla
parte dei giusti, ne esce redento, mentre Armida resta vittima
della propria indole maligna che le consente però di procurarsi
un rilievo scenico di cui l’eroe va privo (non si accenna nella
versione rossiniana a una possibile conversione di lei, così
poco teatrale).
Con quest’opera retrospettiva Schmidt e Rossini istauravano
un dialogo a distanza con le antecedenti versioni di
Coltellini/Salieri, Durandi?/Cherubini, ?/Haydn, fra quelle qui
citate le più affini nell’impianto drammatico. Alcuni giornali
in quell’occasione accusarono il compositore di
“germanesimo”, attributo equivoco da ricondursi alla
ricchezza armonica e strumentale dell’opera, a fronte della
limpidezza dello stile napoletano, e spesso allusivo a un
qualche tradimento delle origini italiche. La matrice stilistica
del dramma è ovviamente più francese che tedesca; non nel
senso di una prefigurazione dell’opera francese con cui
Rossini si confronterà nel decennio a venire, ma guardando
alla tragédie lyrique del passato recente e meno recente, in un
contesto come quello partenopeo che aveva già assimilato la
cultura teatrale francese durante il decennio di dominazione
napoleonica attraverso i capolavori di Spontini e Manfroce.
Armida poliglotta quindi, ma troppo statica nel giudizio dei
contemporanei: il recensore della ripresa veneziana del 1818
spende elogi per la qualità musicale, ma biasima lo scarso
interesse del libretto a causa dell’intreccio troppo essenziale
che riduce il melodramma a una «miserabile cantata a due voci
con cori».4
Il rapporto di Rossini con soggetti di lunga tradizione merita di
essere vagliato anche facendo un salto in avanti di un anno e
quattro mesi circa, fino alla quaresima del 1819, quando, il 27
marzo, andò in scena al San Carlo Ermione, azione tragica su
un libretto di Tottola tratto da Andromaque di Racine (1667), a
sua volta ispirata a Euripide. La tragedia raciniana aveva
costituito il fondamento dell’omonima tragédie lyrique di
Grétry (Parigi 1780) e di svariate opere italiane, molte delle
quali condotte sugli adattamenti di Antonio Salvi (1701, col
titolo di Astianatte) e di Apostolo Zeno (Andromaca, 1724),
ripetutamente elaborati da altri fino al termine del secolo.
Anche in questo caso quindi un soggetto che giunge dall’onda
lunga del passato e che a Napoli era stato impiegato da
Paisiello nella sua Andromaca (1797, ma ripresa lì nel 1804 e
altrove fino al 1813); e, come per Armida, un soggetto in
esaurimento, giacché oltre a Vincenzo Pucitta (Milano 1821,
libretto di Romanelli) nessun altro compositore di rilievo a
quanto pare si sarebbe soffermato più avanti sulle vicende
della sposa troiana.
L’Ermione rossiniana, con cast di assoluto prestigio (oltre
alla Colbran nel ruolo protagonistico, Nozzari e David
rispettivamente Pirro e Oreste, Rosmunda Pisaroni come
Andromaca), fu tuttavia un solenne e immotivato «fiascone»,
il primo e l’unico rimediato a Napoli, secondo la
testimonianza del corrispondente dell’Allgemeine musikalische
Zeitung di Lipsia5 e anche secondo quanto raccontato anni
dopo da Rossini a Hiller, forse a causa dell’eccesso di
recitativo e declamazione;6 da lì il recupero di svariate pagine
della partitura, eccezionalmente priva di riprese, nelle opere
successive. Rossini doveva essere conscio dei rischi che
comportava tale soggetto, usurato e fuori tempo massimo, e
dell’essere questo «troppo tragico» per i gusti del pubblico
locale, come in anticipo aveva confidato alla madre.7
Andrea Leone Tottola (?-1831), a lungo screditato come
scribacchino e imbrattacarte, parrebbe la figura di librettista
meno adatta a riproporre a beneficio di un compositore di
grido un soggetto aulico che richiedeva adeguate competenze
nell’ambito del genere tragico. La formazione erudita tuttavia
non gli mancava data la vicinanza, fino alla morte di questi, a
Luigi Serio, avvocato, massone e figura di primo piano nella
Napoli del tardo Settecento, professore presso la locale
università e dal 1778 poeta di corte con l’incarico di rivedere
le opere dei diversi teatri, nonché autore in proprio di libretti
su soggetto greco-tragico di taglio moderatamente riformato,
quali Ifigenia in Aulide (1779) o Oreste (1783). Serio, rimosso
dal suo incarico teatrale nel 1795, aveva aderito alla
Repubblica Partenopea del 1799. Anche Tottola fu coinvolto
nelle imprese rivoluzionarie; Serio, più anziano di lui e di
salute malferma (era nato nel 1744), vi rimase ucciso, mentre
Tottola riuscì come altri intellettuali a adattarsi al contesto
politico instabile e passò indenne attraverso il succedersi dei
governi napoleonico e poi nuovamente borbonico. Nel 1810
assieme a Schmidt fu nominato “poeta drammatico dei Reali
Teatri” con l’obbligo di rivedere i testi e partecipare agli
allestimenti in stretta collaborazione coi compositori. La
pratica scenica, che nei poeti teatrali di quella generazione si
va rafforzando, determina certo suo eclettismo, ancora più
evidente dal 1812 quando gli fu affidato il ruolo di direttore e
poeta del Teatro Nuovo, fondato nel 1724 ed espressione della
tradizione locale dell’opera buffa con parti in dialetto
napoletano. Tottola mostrò di sentirsi a suo agio in quel
genere, ottenendo risultati che gli procurarono il pubblico
plauso. Il generale apprezzamento lo avvicinò a Barbaja, che
nel 1813 lo nominò sottodirettore dei Teatri Reali; i suoi
interessi si estesero alle letterature europee contemporanee,
secondo le nuove tendenze del teatro italiano. Walter Scott,
autore alla moda in quegli anni, fu da lui utilizzato nella
Donna del lago (Rossini 1819) e nel Castello di Kenilworth
(Donizetti 1829, sempre a Napoli).
Peter Hoffer, disegno a china per la copertina del libretto a stampa
di Mosè in Egitto edito da Ricordi, anni cinquanta del Novecento;
Milano, Archivio Storico Ricordi

In Ermione Tottola adattò il soggetto raciniano al cast del San


Carlo e ai suoi equilibri interni e conferì sin dal titolo maggior
rilievo al soprano (Colbran) rispetto al contralto (Pisaroni, qui
Andromaca, scritturata sin dall’autunno antecedente ma
comunque una neoarrivata). Ermione, figlia di Menelao ed
Elena, fanciulla in età da marito promessa sposa di Pirro figlio
di Achille e re di Buthrote, trova in Andromaca vedova e
madre di Astianatte una nemica suo malgrado: violando i patti,
Pirro chiede quest’ultima per sé con la promessa di salvare la
vita del figlio, in opposizione alla volontà degli Achei
determinati ad annientare la genìa di Ettore. La vicenda
presenta quindi risvolti funesti concatenati secondo un
impianto drammaturgico privo di via d’uscita (il «troppo
tragico» della lettera rossiniana): se l’amore di Ermione per
Pirro venisse coronato, triste sorte attenderebbe Astianatte;
d’altra parte ad Andromaca, fedele alla memoria di Ettore, il
ricatto di Pirro causa un dissidio interiore risolvibile solo col
suicidio, una volta accettato il matrimonio e incassata la
promessa. Oreste (David) diviene strumento della vendetta
della tradita Ermione, la quale impone al cugino di uccidere
Pirro al momento delle nozze con Andromaca, e così sarà,
perpetuando un regicidio del tutto inconsueto al San Carlo,
forse fra le cause, secondo Lamacchia, dello scarso
apprezzamento dell’opera nel contesto borbonico restaurato; a
Ermione non resterà che vivere nel rimorso e nella
disperazione.
Rossini, sollecitato dal carattere severo e ardito del tema
prescelto, lo affrontò senza remore e lanciandosi in una serie
di esperimenti che riuscirono ostici al pubblico. Come alcuni
preludi operistici dei decenni a venire, la sinfonia introduttiva
si salda all’introduzione, ambientata in un sotterraneo che
risuona del lamento dei prigionieri frigi, dove è segregato
Astianatte accudito da Andromaca; il brano raffigura senza
indugi, con tono sublime-tragico, il contesto scenico
claustrofobico e languente. Nel duetto di Ermione e Pirro
«Non proseguir! comprendo» (I,II, N. 3) si sfrutta l’arrivo di
Oreste annunciato dal coro per eccitare l’animo dei
protagonisti, divisi da aspirazioni amorose non più
conciliabili; all’affannosa cabaletta «(Più straziata un’alma)»
le parole rimbalzano da una voce all’altra: il ruolo di chiusa
brillante che in questi anni si ascrive a quella sezione è piegato
a decretare la separazione traumatica dei due personaggi. Non
è l’unica cabaletta di quest’opera a subire un trattamento
straniante; l’aria di Pirro con coro «Balena in man del figlio»
(I,IV, N. 6) presenta una sezione conclusiva all’indirizzo della
respinta Ermione in cui il personaggio si lascia travolgere dalla
propria vocalità perdendo quasi il controllo del testo («Non
pavento: quest’alma ti sprezza»). A Oreste/David è assegnata
al N. 4 una tormentata cavatina con pertichino (Pilade, il terzo
tenore Ciccimarra): sin dall’attacco a «Reggia aborrita! oh
quanto», tremoli e figurazioni inquiete in orchestra diffondono
la sensazione che il suo non sarà un arrivo salvifico (I,III); le
sinistre appoggiature di «Che sorda al mesto pianto», in
riferimento al suo amore per Ermione, conferiscono anche alla
sezione cantabile un carattere predittivo anziché lirico. Tutto
insomma volge alla catastrofe sin dai primi numeri, con rari
diversivi o momenti di alleggerimento: ma se, in una
concezione moderna di dramma, coesione e unità saranno
sempre salutati con favore, il pubblico dell’epoca era ancora
troppo avvezzo a un flusso drammatico intermittente e
multifocale, erede della settecentesca poetica degli affetti, per
poter apprezzare appieno il tentativo rossiniano di conferire
all’opera una tinta tragica, unitaria e totale.
Nel secondo atto le polarità drammatiche e i diversi valori
messi in campo hanno maggior risalto. Andromaca e Pirro
esauriscono la loro funzione drammatica nel breve duetto
«(Ombra del caro sposo)», II,I, N. 8, divaricato nel testo –
«Vieni a giurar sull’ara» lui, «(Mi avrai, ma fredda spoglia)»
lei – quanto coeso e scontato nella musica. I due personaggi
vengono neutralizzati perché sostanzialmente non interessano
se non come condizione primaria dell’azione tragica che si
riassume nel solo personaggio di Ermione. Di qui la sua Gran
Scena (II,II-III, N. 9), come rileva Andrea Malnati una delle più
intense e mastodontiche fra quelle concepite da Rossini;
interviene infatti un ulteriore fattore moltiplicativo nell’aria
finale «Amata, l’amai», che dispone di due sezioni cantabili
alternate ad altrettante sezioni intermedie con l’intervento di
soli e coro, e di una stretta finale con coro:

1. Scena «Essa corre al trionfo! ah! dov’è Pirro?»


[Vivace, 4/4, Re min.]
2. Cavatina «Di’ che vedesti piangere» [Andantino,
6/8, La magg.]
3. Recitativo strumentato «Ah! voglia il Ciel che a’
detti miei si arrenda»
4. Aria, suddivisa in
a) Cantabile I:
«Amata, l’amai» [Andante, 2/4, Mi magg.]
b) Tempo di mezzo I con tempo di Marcia, interventi di
Cleone e coro: «Ma che ascolto?» [Moderato, 4/4, Do
magg.]
c) Cantabile II: «Un’empia mel rapì!» [Moderato, 2/4,
Do magg.]
d) Tempo di mezzo II (II,III), col coro e Oreste: «Il tuo
dolor ci affretta» [Allegro, 4/4, Do magg./Mi magg.]
e) Stretta con coro: «Se a me nemiche o stelle» [Più
mosso, 4/4, Mi magg.]
Una struttura ondivaga che pone in risalto l’intima lacerazione
di Ermione e di conseguenza le qualità di tragédienne della
Colbran, fra ideali suppliche a Pirro (cavatina), irrefrenabile
amore per lui pur ferita e tradita (cantabile I), sorpresa e
sconcerto di fronte alla marcia nuziale (tempo di mezzo I),
sdegno e desiderio di vendetta (l’inatteso e ansimante
cantabile II), imposizione della vendetta a Oreste (tempo di
mezzo II), esplosione di rabbia mista ad autocommiserazione
(stretta). Il confronto con Oreste, dopo un ulteriore monologo
di Ermione in cui esplode il suo rimorso, ormai inutile, per il
comando omicida, costituisce la tessitura del finale secondo,
ma non attenua l’entità del profilo della protagonista, sempre
al centro dell’azione tragica da lei stessa prima subita, e poi
ordita.
Armida e Ermione, le due opere fino a questo momento di
più lontane origini e più lunga tradizione – francese e
italiana – quanto al soggetto prescelto, sono quindi l’esito di
progetti diversi ma mostrano alcuni elementi condivisi; e in
entrambi i casi l’esperienza rossiniana segnò un punto di
arrivo. Sul piano della storia dei generi, le accomuna l’aver
dato un contributo determinante, a prezzo di parziali
insuccessi, all’esaurimento di epos e mito quali risorse per il
teatro musicale italiano dell’Ottocento, decretando anche la
fine dell’influenza in Italia dell’opera francese del secolo
appena trascorso (influenza che si ripresenterà, corroborata dai
soggetti storici, con l’incipiente grand opéra). Sul piano
strettamente rappresentativo, è sempre salvaguardato il ruolo
protagonistico della primadonna, considerata il fulcro della
tragicità; non una struttura sociale o una condizione politica,
bensì una singola personalità attorno a cui ruota un mondo che
sostanzialmente non le appartiene. Logica, questa, con ben
pochi riscontri nell’opera italiana di lì a venire, quando il
fondamento drammatico sarà costituito soprattutto dal
rapporto fra l’individuo e il contesto sociale o politico di
riferimento.
Tornando allo scorcio del 1817, subito dopo Armida si segnala
l’ennesima missione romana per Adelaide di Borgogna (Teatro
Argentina, 27 dicembre 1817, libretto di Schmidt) che però
non sortì l’effetto sperato; l’opera, di argomento medievale,
forse a causa del cast di modesta levatura, non piacque (si
distinse la sola Elisabetta Manfredini nel ruolo della
protagonista). Sfruttando un intervallo di tempo ridottissimo,
Rossini mise quindi in cantiere Mosè in Egitto, azione tragico-
sacra per l’imminente quaresima partenopea; andò in scena al
San Carlo il 5 marzo 1818, ma il terzo atto fu subito
rielaborato in due scene su tre e la versione definitiva
dev’essere considerata quella dell’anno successivo. Tottola,
alla sua prima collaborazione col compositore, si era avvalso
in prima istanza dell’Osiride, tragedia del monaco olivetano
imolese Francesco Ringhieri (1760), già contraddistinta dalla
componente soprannaturale (l’Angelo che parla) e da due cori,
uno di egiziani e uno di israeliti, elementi che riconducono alle
pratiche del teatro gesuitico; il librettista, nel confezionare un
testo appropriato ai requisiti del dramma sacro quaresimale in
voga in molte città italiane, ne trasse nomi, situazioni e alcuni
versi.
I soggetti di origine veterotestamentaria o genericamente
morali consentivano di tenere aperti i teatri anche in epoca di
quaresima con la sola limitazione dei balli, non previsti. Si
trattava, in definitiva, di una sorta di mascheramento che
consentiva al pubblico di fruire del teatro musicale, ammantato
di contenuti spirituali, al pari di quanto avveniva nelle altre
stagioni; dai temi biblici per altro non erano solitamente
esclusi elementi mondani e situazioni avventurose. Dopo il
Ciro in Babilonia ferrarese (1812, cfr. cap. 3, anche per le
caratteristiche complessive del genere) Rossini tornò dunque a
confrontarsi con un soggetto sacro a destinazione quaresimale,
dotato a Napoli di caratteristiche precise e di lungo corso,
nonché espressione del riformismo locale, fra giacobinismo
libertario e ideali massonici. Nell’ultimo ventennio del
Settecento, fino all’arrivo dei francesi, i due maggiori teatri
napoletani e alcuni teatri minori allestirono stagioni
quaresimali continuative e ufficiali (un’opera almeno, fino a
quattro). Alcune di quelle produzioni, per esempio Debora e
Sisara di Pietro Alessandro Guglielmi (1788) o Saulle di
Gaetano Andreozzi (1794), furono fatte proprie da svariati
teatri italiani e andarono in scena anche su piazze frequentate
da Rossini nella prima fase padana della sua carriera; assieme
a drammi di carattere sacro provenienti da altre zone d’Italia, il
compositore poté averne avuto contatto diretto. Nel decennio
francese di Giuseppe Bonaparte e Giacchino Murat,
contraddistinto da un esteso processo di secolarizzazione per
altro già intrapreso nel turbolento 1799, i teatri aprirono anche
in quaresima ma solo per concedere estensioni delle stagioni di
carnevale o con drammi di argomento profano. Il
reinsediamento borbonico segnò un richiamo all’ordine e un
ritorno alla tradizione anche sul fronte delle celebrazioni
teatrali. Dopo un periodo di assestamento di cui Mennone e
Zemira di Romani/Mayr (quaresima 1817), forse eredità
contrattuale del regime precedente, è piena espressione (la
presenza di una divinità pagana, Giunone, va in direzione
dell’allegoria di carattere mitologico), il 1818 fu dunque il
primo anno utile per riproporre un dramma sacro degno di
questo nome. Rossini fu facilitato anche dalla conoscenza
diretta di cantanti più volte coinvolti nell’esecuzione di opere
simili, quali il tenore Domenico Mombelli e il basso Ludovico
Olivieri, già interpreti del suo Demetrio e Polibio; non è
escluso che qualcuno di loro gli abbia a tempo debito mostrato
esempi di antecedenti musiche quaresimali.
Fra i dispositivi drammatici favoriti nel dramma sacro vi è il
conflitto fra il destino dei singoli e quello dei rispettivi popoli,
in anticipo quindi sulle opere di taglio storico dei decenni a
venire. La nozione di “popolo”, derivata da temi biblici
arcinoti (che vede protaginisti egiziani, babilonesi, ebrei etc.),
assume però una valenza trans-storica perché a essere messe a
confronto sono soprattutto idee e aspirazioni spirituali, con un
alto tasso di universalità. Al cospetto di questo sfondo
costituito da masse contrapposte, inerti in alcuni momenti,
prepotentemente dinamiche in altri, agiscono le passioni
individuali che restano la sostanza del dramma, ancora ben
ancorato alla dimensione umana; l’apporto soprannaturale è in
sé un evento “non drammatico” – in quanto sta al di là e al di
sopra dell’azione svolta in scena – che, fatale e ineluttabile,
ristabilisce l’ordine divino. Nella Riedificazione di
Gerusalemme dello stesso Tottola, al Teatro Nuovo nella
quaresima del 1804 con musiche cimarosiane preesistenti,
l’israelita Chabri ama la babilonese Artalice, ma il loro è un
amore impossibile, perché la legge obbliga gli ebrei al ripudio
delle mogli sposate durante la cattività babilonese. Nel Mosè
in Egitto l’amore sincero ma tormentato che unisce Osiride,
figlio del Faraone, e l’ebrea Elcia sua segreta consorte, lo
spinge ad agire contro la volontà divina: nel finale secondo,
quello intermedio (l’opera è in tre atti), nonostante gli
ammonimenti di Elcia che lo invita ad accettare il destino, suo
(è promesso alla principessa di Armenia) e del popolo eletto
che attende la liberazione, si rifiuta di acconsentire,
trasformandosi apertamente in un nemico di Mosè e degli
ebrei. Mentre alza il braccio armato contro Mosè «è colpito da
un fulmine, e cade morto al suolo. Tutti restano sorpresi.
L’angiolo sterminatore attraversa la reggia» (II,VI). Se la
disperazione di Elcia si sublima col sostegno della fede e la
donna finisce per accettare la propria sorte e il destino del suo
popolo, la perdita del figlio è la causa scatenante
dell’inseguimento degli ebrei attraverso il Mar Rosso imposto
dal Faraone, che nel finale terzo porterà alla distruzione
dell’esercito egiziano travolto dalle onde. L’agire umano è la
condizione primaria dell’intervento divino.
La scansione dei tempi drammatici subisce nel Mosè
rossiniano sensibili alterazioni rispetto alle convenzioni del
genere serio di più ordinaria fattura. Senza alcuna sinfonia che
la preceda, l’introduzione – in cui si colse l’influenza del
Miserere di Jommelli8 – è sommersa nelle tenebre, flagello
divino, e sottrae all’attacco dell’opera il dinamismo tipico di
quella sezione di avvio, che qui si risolve in una sorta di
tableau; in orchestra una figurazione ostinata dà luogo a uno
scenario sonoro allucinato mentre il decorso temporale ancora
non si avvia, a seguito del mancato sorgere del sole.
L’invocazione di Mosè in uno scultoreo9 recitativo strumentato
(«Eterno! immenso! incomprensibil Dio!», I,II) si avvale dei
soli fiati gravi a rievocare la tonante voce divina, di cui la voce
del basso, alla prima l’esperto Michele Benedetti, è la
manifestazione terrena: lo dichiara più oltre lo stesso Mosè a
Faraone: «Non è Mosè… ragiona / sul suo labbro quel Dio,
che tante pruove / ti diè del suo poter» (II,IV). Viceversa, dopo
il ritorno della luce caratterizzato da un pedale di Do maggiore
in cui si è soliti cogliere una rievocazione dell’«Es werde
Licht!» nella Creazione di Haydn, l’arpa accompagna
placidamente il canto di ringraziamento («Celeste man
placata!», nel quintetto al N. 2, I,II). Scelte timbriche che
costituiscono un contrassegno stilistico del genere drammatico
sacro, in direzione di un simbolismo sonoro sempre
intelligibile.
Il lessico musicale impiegato, qui come in altre scene
d’ispirazione divina, è anche riconducibile all’estetica del
Sublime messa progressivamente a punto nel secondo
Settecento. Se l’animo può essere blandito da proporzioni
ordinate e incorruttibili ancora di matrice cartesiana (il
concetto di Bello) o allietato da forme leggiadre (il Grazioso),
va diffondendosi tanto nelle arti quanto nella musica teatrale e
strumentale (vedi lo Sturm und Drang) il fascino per forme
“sproporzionate” che atterriscano ed esaltino il pubblico, siano
essi lettori, spettatori, visitatori: qui il contrasto fra tenebre e
luce, terra e cielo, nonché l’insistente richiamo agli elementi
naturali e perciò divini come fuoco (finali primo e secondo) e
acqua (finale terzo). Dalla iniziale teorizzazione di Edmund
Burke (A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas
of the Sublime and Beautiful, 1757), questa corrente estetica
giunse tramite Kant allo Schiller di Über das Erhabene (Sul
sublime, 1801). Sulla base di una sensibilità diffusa poté
raggiungere anche il Rossini autore del Mosè e dopo circa un
decennio di Guillaume Tell, su soggetto tratto appunto da
Schiller e opera potentemente dominata da eventi naturali
estremi come metafora di condizioni esistenziali. In alcune
annotazioni a beneficio della madre, ancora intento alla
composizione Rossini si riferiva al Mosè come opera «di un
Genere però Elevatissimo, e non so se questi mangia
Macheroni [i napoletani] lo Capiranno Io però scrivo per la
Mia Gloria e non curo il Resto»;10 e soprattutto: «L’Oratorio
mi costa assai fatica perche di un Genere non di molto effetto
Popolare ma Sublime e fatto per accrescere La mia Radicale
Riputazione».11
«Non di molto effetto Popolare»: si rinunzia per esempio alle
cavatine dei personaggi principali, prediligendo tormentati
pezzi di assieme, in cui gli affetti umani sono sovente obbligati
a confrontarsi con il soprannaturale. Nel quintetto N. 2 allo
stupore per la manifestazione divina si aggiunge il turbamento
di Osiride (Nozzari) che si vede sottratta la sposa Elcia
(Colbran) a seguito della liberazione degli ebrei concessa da
un Faraone intimorito (Ranieri Remorini); l’affannosa stretta
conclusiva mette a contatto l’egoismo di Osiride a «(O crude
smanie!)» e il tripudio di un popolo («Voci di giubilo», I,II). Il
duetto di Osiride ed Elcia «Ah se puoi così lasciarmi» (I,IV,
N. 3) diviene di conseguenza l’emblema dell’inconciliabilità
dell’amore di un pagano per una donna ebrea: se tempo di
attacco e cantabile («Non è ver che stringa il Cielo») uniscono
i due personaggi nell’amore che li accomuna, gli squilli che
nel tempo di mezzo richiamano il popolo d’Israele
immediatamente li dividono e inducono Osiride al peccato
d’empietà che ne causerà la morte a fine secondo atto («Chi
sarà quell’uom, quel Dio / che da me ti può involar?»).
I primi numeri presentano tutti i personaggi principali e
prefigurano lo sviluppo della vicenda senza disporre un vero e
proprio intreccio, qui fuori luogo dato il carattere gnomico
della storia biblica; ne esce una raffigurazione drammatica, più
che un dramma. Ciò spiega perché le uniche arie individuali
dell’opera siano di carattere sentenzioso: Faraone in I,V revoca
la liberazione degli ebrei («A rispettarmi apprenda», N. 4 nella
versione 1819, scritta però da Michele Carafa, allora attivo a
Napoli), Mosè in II,IV si rivolge minacciosamente al Faraone,
invocando la giustizia del Cielo («Tu di ceppi mi aggravi la
mano?», N. 9, pure non rossiniana); in entrambi i casi
proclami di due duci, non espressioni dell’animo. Quando si
affaccia la dimensione intima trova spazio nei pezzi di
assieme. Fra questi il quartetto N. 8 (II,III), un dramma di
affetti dove a fronteggiarsi sono carne e spirito, passione e
fede. Nell’introduzione strumentale si affida a un cavernoso
clarinetto la rievocazione dell’«oscuro sotterraneo» in cui
Osiride trascina Elcia per sottrarla al destino che la vuole in
partenza col suo popolo: il timbro e il disegno melodico
(labirintico) tracciato dallo strumento assumono valenze
simboliche e determinano analogie fra scenario e condizione
emotiva dei personaggi. L’egiziano le propone un rifugio
arcadico a protezione del loro amore contrastato, «fralle
capanne: a’ boschi in seno / lieto sarò»; Elcia non è insensibile
alla lusinga e nel primo tempo del quartetto sembra cedere alle
insistenze dell’amato che la incalza dappresso.
Tottola e Rossini guardano con benevolenza a questi due
sfortunati amanti, allontanati dalla fede nel «poter divino» (lei)
e nel «poter divino» dell’amore (lui), che Osiride invoca
perché infonda coraggio nel cuore di Elcia. Ma a osteggiare il
loro amore «non reo, ma sventurato» non sono solo le
rispettive credenze, quanto ancora una volta gli schieramenti
contrapposti e le relative imposizioni sociali. Amaltea,
consorte del Faraone, e Aronne, fratello di Mosè, sopraggiunti
alla ricerca dei due, li richiamano ai loro obblighi: che si
mostri degno successore del Faraone lui e che lei estirpi dal
petto il «folle ardore». Riaffiorano insomma, in modo
estemporaneo ma incisivo, gli attributi tipici del dramma serio
per musica, i cui personaggi sono tenuti a ridimensionare i
propri desideri sulla base di doveri politici e famigliari. Il
concertato a quattro, aperto da Elcia con «Mi manca la voce! /
Mi sento morire! / Sì fiero martire / chi può tollerar?» e
proseguito a ruota dagli altri con un canone all’unisono, è
sostenuto dall’accompagnamento carezzevole dell’arpa: uno
sguardo di umana compassione da cui la dimensione divina
resta momentaneamente esclusa. Balzac in Massimilla Doni
(1837) affiancherà questa pagina eccelsa alle composizioni più
rappresentative di Pergolesi, Mozart, Cimarosa e Beethoven,
con una selezione di autori ragionata, dal passato più o meno
recente al più autorevole contemporaneo di Rossini.
Dal lato divino, l’assenza di un intreccio articolato priva i
finali dei tradizionali colpi di scena e degli improvvisi cambi
di prospettiva drammatica, e fa sì che l’elemento
soprannaturale possa propagarsi e assumere un ruolo di primo
piano. Il finale primo (N. 7) si basa su situazioni determinate
in precedenza, quali la revoca della liberazione degli ebrei
dalla cattività egiziana, che era nell’aria da qualche scena.
Tutto verte su quell’evento, dalla prima animata sezione, al
concertato di I,ultima («E da un vortice di affetti»), con un
crescendo emotivo che ha esito nella pioggia di grandine e
fuoco («Cielo! qual turbine!»); Rossini vi impiega gli “effetti”
del caso ma lascia anche emergere prepotente la voce del
popolo ebraico all’unisono, con tromboni e serpentone di
accompagnamento («Dio così estermina / i suoi nemici…»). Il
breve e intenso finale secondo (N. 14) esaurisce la vicenda
terrena accentuando la distanza fra Elcia e Osiride. La
fanciulla lo esorta ad accettare il matrimonio regale con la
pagana a lui imposta dal padre, e lo fa sul suono leggiadro del
flauto, strumento che come l’arpa, emblematica della
tradizione ebraica da re David, suggerisce distacco dalla
dimensione terrena: Elcia ha infatti già effettuato la sua scelta,
secondo comando divino e seguendo il suo popolo. Al
tentativo omicida di Osiride, che si avventa su Mosè, su di lui
si abbatte il fulmine.
L’epilogo precoce della trama amorosa sgombra il campo a
un terzo atto – totalmente ripensato dall’autore per la ripresa
del 1819 – di carattere biblico e “oratoriale”. Momento
centrale diviene la preghiera «Dal tuo stellato soglio»,
aggiunta nella seconda versione. Il brano, fra i più celebri
dell’autore, ha carattere assembleare, ancora una volta
sull’accompagnamento dell’arpa. Nel ruolo di officiante Mosè
inizia il canto, poi replicato delle donne (con Amenofi), dagli
uomini (con Aronne), dalla ritrovata Elcia, prima della chiusa
collettiva in modo maggiore sul clangore della banda e delle
percussioni. Preghiera e inno, «Dal tuo stellato soglio» sfrutta
un motivo contraddistinto da un disegno arcuato di forti
valenze simboliche – l’ascesa dell’uomo verso lo «stellato
soglio», ma anche la discesa della «destra clemente» sul suo
«cor dolente» –, di cui Franco Piperno ha sottolineato l’affinità
con alcune melodie tuttora impiegate in sinagoga, rilevando
quindi un certo grado di credibilità nell’aver saputo Rossini
ricreare un «ethos musicale ebraico».12 Sul piano formale,
strutture di carattere responsoriale sono d’uso corrente nelle
situazioni “rituali” del melodramma ottocentesco, ma si
riscontrano anche nelle preghiere e nelle invocazioni degli
oratori settecenteschi (vedi «Pietà, se irato sei» di Ozia e coro
o «Lodi al gran Dio, che oppresse» di Giuditta e coro,
entrambi nella Betulia liberata del Metastasio di cui si
possono ascoltare le realizzazioni di Jommelli e di un
giovanissimo Mozart).
La separazione delle acque, sottolineata da brevi incisi
orchestrali, dimostra che la preghiera è stata ascoltata. Ben più
spettacolare la manifestazione divina destinata alla chiusa
dell’atto, sostenuta da un certo grado di descrittivismo affidato
alla musica strumentale (e non senza difficoltà scenografiche
che in più occasioni guastarono le messinscene, sin dalla
prima del 1818). La falange egiziana travolta dal Mar Rosso
contrassegna l’epilogo della vicenda; il mare torna placido
mentre si diffonde una figurazione melodica discendente
replicata più volte; una mano benedicente sul popolo israelita
genuflesso in segno di ringraziamento. L’evento, naturalistico
e soprannaturale al tempo stesso, dà luogo a un ritrovato
equilibrio dell’uomo col mondo circostante. Si riafferma
quindi il forte radicamento nell’estetica del Sublime, che è
anche mistica elevazione.
Nonostante il livello artistico raggiunto, il cammino del
Mosè nei teatri italiani non fu privo di impedimenti prima di
stabilizzarsi, complice fra l’altro la versione parigina (1827)
che anche in Italia spesso sostituì la precedente. Negli anni
immediatamente successivi alla composizione, l’opera ebbe
difficoltà a smarcarsi dalla tradizione quaresimale, con
conseguenti limitazioni di utilizzo; al Sant’Agostino di
Genova nel carnevale 1821 il Mosè per esempio non piacque
perché soggetto “troppo serio” per quella stagione.13 In altre
circostanze l’interesse dei recensori e del pubblico si rivolse
più alla coppia tenore/soprano (per altro preminente anche
nelle intenzioni degli autori) anziché alla figura del
protagonista. Del resto, l’inusuale profilo vocale di Mosè – il
cui carisma si manifesta nelle parole e negli atti, mentre scarsa
è la sua dotazione musicale di momenti solistici – allontanava
dal ruolo i grandi bassi come Filippo Galli, Luigi Lablache o
Antonio Tamburini, i quali indossarono di preferenza le vesti
del Faraone, coinvolto in alcune sezioni concertate di rilievo e
provvisto di momenti solistici. Il ruolo del profeta transitò su
figure locali o addirittura su bassi specializzati nel genere
buffo.
Al tempo stesso, quando a Napoli giunse il momento di
selezionare soggetti e autori per le successive opere
quaresimali, l’ingombrante eredità del Mosè si fece sentire e
produsse una condizione di precario equilibrio fra
rievocazione (intenzionale o meno) dell’illustre modello e
concessioni a un gusto più scopertamente melodrammatico. Si
attendeva un oratorio dello stesso Rossini per la quaresima del
1820, ma le energie del compositore convogliarono verso una
nuova opera (sarà La donna del lago) prevista nell’autunno del
1819 per rimediare all’inconveniente del mancato arrivo di
Spontini da Parigi, come programmato da tempo. Per il
sacrodramma Barbaja interpellò Morlacchi e si rivolse infine
al solito Mayr che sottoscrisse il contratto per la messa in
musica di Atalia su libretto di Romani, dall’omonima fonte
raciniana, protagonista la biblica regina di Gerusalemme. Il
compimento dell’opera tardò e Barbaja la rinviò all’anno
successivo, affidando l’incarico per la quaresima del 1820 a
Pietro Raimondi, compositore nel giro dei teatri napoletani,
che approntò su libretto di Giovanni Battista Bordese il suo
Ciro in Babilonia. Il Ciro prevede un intreccio di relazioni
affettive che il testo di Tottola per Rossini aveva evitato
appunto per dare luogo a una più serrata connessione fra
umano e soprannaturale; la figura di Daniele manifesta tuttavia
analogie col Mosè rossiniano.
Atalia non andò in scena neppure per la quaresima del 1821
a causa di un malanno della Colbran, che non si riuscì a
sostituire; fu allora ripresa la Creazione di Haydn,
tenacemente in repertorio, assieme al Mosè (per il quarto anno
consecutivo). Si dovette attendere il marzo 1822, quando
Atalia fu rappresentata con Giuseppina Fabré nel ruolo della
protagonista e Girolama Dardanelli in quello di Gioas en
travesti; a Donzelli, Benedetti e Ciccimarra le parti
rispettivamente di Gioada, Abner e Matan. La sbrigativa
concertazione dello stesso Rossini, in procinto di partire per
Vienna e di convolare a nozze con la Colbran, non rese
giustizia alla musica di Mayr, penalizzata anche da tagli
inopportuni. Si trattò in ogni caso di un dramma quaresimale
vicino più all’opera che all’oratorio: alla componente biblica è
conferito un ruolo ornamentale a fronte della valorizzazione
delle due coppie soprano/tenore che dispongono di svariati
duetti, un quartetto e un terzetto. Il successivo Sansone di
Tottola per la musica di Francesco Basili (marzo 1824) si
adeguò maggiormente, almeno in superficie, agli ingredienti
del genere quaresimale, con l’interazione di soggetto biblico e
trama amorosa e un terzo atto dedicato prevalentemente
all’evento soprannaturale, in questo caso l’abbattimento del
tempio del dio pagano Dagone e il sotterramento dei filistei.
L’assenza di una figura sacerdotale è compensata da quella di
Sansone, eroe e punto di riferimento per il popolo; ne viene
comunque indebolito l’elemento rituale. Basili, forse per
andare sul sicuro, si ricondusse allo stile prerossiniano
guadagnandosi il plauso dell’anziano Zingarelli,14 sempre
diffidente verso il Pesarese e affezionato a una concezione
tradizionale di “napoletanità” che proprio Rossini aveva
contribuito a disgregare.
Il modello rossiniano del Mosè sarà ancora riconoscibile in
alcuni altri drammi quaresimali imparentati anche con modelli
antecedenti, come la Giuditta di Tottola/Raimondi (1827), che
ripropone il tema della Betulia liberata, di casa nel genere
oratoriale; nei momenti strategici si coglie l’influenza
dell’opera rossiniana (la “Voce celeste” ricorda le invocazioni
di Mosè). O ancora nel Saul di Romani per Nicola Vaccai, da
Alfieri, dato in prima al San Carlo nel marzo 1829; a Napoli
quel soggetto era per altro già noto anche tramite il Saulle di
Francesco Saverio Salfi con la musica di Andreozzi (Teatro
del Fondo, 1794).
Diverso lo spirito con cui Donizetti dovette affrontare il
confronto a distanza con Rossini nel Diluvio universale (testo
di Domenico Gilardoni, San Carlo, quaresima 1830). Il
compositore bergamasco, più giovane di Rossini di cinque
anni, era presenza abituale per il pubblico partenopeo più o
meno dall’epoca in cui Rossini aveva cessato di comporre
opera per le scene italiane. Barbaja gli aveva offerto da poco la
carica di direttore della musica nei teatri della città:
conveniente per Donizetti mostrarsi in grado di inseguire le
più moderne tendenze del teatro nei vari generi, manifestando
al tempo stesso conoscenza della tradizione (recente prima
donizettiana al San Carlo Il castello di Kenilworth, 1829,
libretto di Tottola da Scott, protagonista di nuovo Elisabetta
d’Inghilterra). Il punto di riferimento più esplicito del Diluvio
non fu dunque il Mosè in Egitto originale, tenuto comunque
presente, bensì l’adattamento in lingua italiana della versione
francese, allestito a Napoli nel 1829 e circolante – caso raro
nella produzione rossiniana “seria” – fino a tardo Ottocento.
La ricchezza della strumentazione e la monumentalità delle
architetture drammatico-musicali della nuova versione
indussero Donizetti a insistere sulla stessa strada. Ancora una
volta gli aspetti operistici (amori incrociati, menzogne,
supposti tradimenti e vendette) vengono accentuati a scapito di
quelli oratoriali, di cui tuttavia permangono alcuni punti fermi.
La tradizionale preghiera è collocata ad apertura del finale
secondo («Dio tremendo, onnipossente»: la cantò Lablache
nelle vesti di Noè). Al finale terzo è prevedibilmente destinato
l’evento scenotecnico del diluvio con annegamento dei pagani
ma anche la supplica di Sela (Luigia Boccabadati), che viene
incenerita, come già Osiride prima versione, dando però
adeguato rilievo al suo dramma esistenziale (è obbligata a
rinunziare a Dio per riavere il figlio). Qualcosa di analogo
capita nel quarto atto della versione francese e poi nuovamente
napoletana dell’opera di Rossini, ove si riserva un ruolo di
primo piano per Anaide, in un duetto con Amenofi fondato
sulla dolorosa scelta fra amore e fede.
Ripreso solo a Genova nel carnevale del 1834, il lavoro di
Donizetti prospetta l’irreversibile indebolimento
“istituzionale” della stagione di quaresima, ormai indirizzata
alla replica di dispositivi scenici convenzionali e fondati
sull’effetto, quando il gusto teatrale era orientato a un
prevalente realismo, o viceversa a far risaltare le vicende
affettive e sentimentali anche all’interno della cornice biblica.
Se il Mosè di Rossini continuò a sopravvivere, oltre che per sé
stesso come fonte di ispirazione per altri, ciò avvenne nel
Nabucco di Verdi su libretto di Temistocle Solera (Milano,
carnevale-quaresima 1842), di cui sono evidenti le radici nella
tradizione del sacrodramma e che nell’esaurire quella filiera
inaugura una stagione nuova dell’opera italiana.
SUGGERIMENTI DI LETTURA

La filogenesi del libretto dell’Armida rossiniana in BRAUNER


2000; sulla tradizione del soggetto letterario CHIODO 2018;
alcuni antecedenti musicali e librettistici di rilievo in
ARMELLINI 1991 e CHEGAI 2011. Sui princìpi generali del ballo
analogo CHEGAI 2000, pp. 163-237. Tottola e la drammaturgia
librettistica di Ermione sono presentati in TOSTI-CROCE 2004,
pp. XCVIII-CXXXI; la Gran Scena di Ermione è esaminata in
MALNATI 2017, pp. 92-97. Il rapporto con le fonti francesi in
GRONDONA 1996; considerazioni sull’insuccesso dell’opera in
LAMACCHIA 2016. Per le fonti, la drammaturgia e la tradizione
di Mosè in Egitto vedi SALA 2008 e PIPERNO 2018, che riserva
ampio spazio anche ai drammi quaresimali antecedenti e
successivi al Mosè; sulla progressiva affermazione della
categoria estetica del Sublime e sue ricadute in ambito
musicale GARDA 1995.
DA ASCOLTARE

Armida
Gregory Kunde (Rinaldo), Renée Fleming (Armida), Bruce
Fowler (Carlo), Donald Kaasch (Goffredo), Carlo Bosi
(Eustazio), Jeffrey Francis (Gernando), Iorio Zennaro
(Ubaldo), Ildebrando D’Arcangelo (Idradote), Sergey
Zadvorny (Astarotte), Coro e Orchestra del Teatro Comunale
di Bologna, dir. Daniele Gatti, Sony 2009
Adelaide di Borgogna
Margarita Gritskova (Ottone), Ekaterina Sadovnikova
(Adelaide), Baurzhan Anderzhanov (Berengario), Miriam
Zubieta (Eurice), Gheorghe Vlad (Adelberto), Yasushi
Watanabe (Iroldo), Cornelius Lewenberg (Ernesto), Camerata
Bach Choir Poznań, Virtuosi Brunensis, dir. Luciano Acocella,
Naxos 2017
Mosè in Egitto
Lorenzo Regazzo (Mosè), Akie Amou (Elcia), Wojtek
Gierlach (Faraone), Filippo Adami (Osiride), Rossella
Bevacqua (Amaltea), Giorgio Trucco (Aronne), Karen
Bandelow (Amenofi) Giuseppe Fedeli (Mambre), Coro di San
Pietro a Majella (Napoli), Württemberg Philharmonic
Orchestra, dir. Antonino Fogliani, Naxos 2007
Ermione
Carmen Giannattasio (Ermione), Patricia Bardon
(Andromaca), Paul Nilon (Pirro), Colin Lee (Oreste), Bülent
Bezdüz (Pilade), Graeme Broadbent (Fenicio), Rebecca
Bottone (Cleone), Victoria Simmonds (Cefisa), Loïc Félix
(Attalo), Geoffrey Mitchell Choir, London Philharmonic
Orchestra, dir. David Parry, Opera Rara 2010

8. Messaggi dal passato


1 GRLD 2004, p. 181.

2 GRLD 2004, p. 186.

3 L’inaugurazione del nuovo San Carlo era stata solennizzata il 12 gennaio con Il
sogno di Partenope, dramma allegorico di Urbano Lampredi con musica di Mayr.
Subito dopo, il 18 gennaio, fu allestita una ripresa di Otello e, dopo alcune altre
opere, il 25 febbraio apparve nuovamenteElisabetta regina d’Inghilterra.
Complessivamente la riapertura del maggiore teatro fu celebrata fino alla stagione
estiva con un’ampia scelta di titoli e di autori rappresentativi della tradizione
napoletana (Carafa, P.C. Guglielmi, Mayr, persino il Cimarosa degli Orazi e i
Curiazi, il 12 giugno) con l’aggiunta di qualche outsider (il carneade Saccenti,
Soliva) e di altri nomi di rilevanza internazionale come Paer, Sacchini, Winter,
nonché, prima di Armida, dei due titoli partenopei al momento più noti di Rossini.
4 Gazzetta privilegiata di Venezia, 9 novembre 1818, p. 3.

5 Allgemeine musikalische Zeitung, XXI, n. 45, 10 novembre 1819, col. 758.


6 HILLER 1855, pp. 94-95.

7 GRLD 2004, p. 230 (19 gennaio).

8 Gazzetta privilegiata di Venezia, 10 aprile 1821, p. 1 (in riferimento a una


messinscena alla Pergola di Firenze).
9 Il carattere “michelangiolesco” del personaggio fu annotato dalla critica del
tempo: «Benedetti mi ricorda il Mosè di Buonarroti: la sua presenza sulla scena è
grave, imponente, sublime. La sua preghiera, nel primo atto, ha qualche cosa di
augusto e di santo» (Giornale del Regno delle Due Sicilie, 14 marzo 1818, cit.
in RAGNI 2012, vol. II, p. 955).
10 GRLD 2004, p. 199 (13 febbraio 1818).

11 GRLD 2004, p. 200 (24 febbraio 1818).

12 PIPERNO 2018, p. 106.

13 La notizia fu ripresa anche sulla Gazzetta privilegiata di Venezia del 26


gennaio, pp. 2-3.
14 La testimonianza di Nicola Zingarelli fu riportata su un periodico piuttosto
avverso alla musica rossiniana come l’Allgemeine musikalische Zeitung (XXV, n. 32,
5 agosto 1824, col. 520).
9. La donna del lago
Un’enclave romantica nel progetto
restaurativo

Incisione da Birket Foster e John Gilbert per The Lady of the Lake,
di Sir Walter Scott, pubblicata a Londra e Edimburgo da A. & C. Black nel 1891

Fra 1818 e 1819 alcune circostanze, compositive e non, danno


la misura di quanto l’attività di Rossini avesse conosciuto
stabilità e opportunità professionali irraggiungibili dai più,
nonché della sua acquisita consacrazione a livello
internazionale. Nell’aprile del 1818, dopo il Mosè, fece ritorno
a Bologna in compagnia della Colbran, che possedeva una
villa a Castenaso acquistata dal padre di lei nel 1812. Fu una
base di appoggio per organizzare e dirigere a Pesaro un evento
autocelebrativo: la rappresentazione al Teatro Nuovo già del
Sole (dal 1854 ribattezzato Rossini) della Gazza ladra, il 10
giugno, seguita a ruota dal Barbiere di Siviglia. Si puntò
quindi su un’opera semiseria di recente composizione e su
un’opera buffa di sicuro affidamento, piuttosto che rivolgersi a
una più paludata opera seria. Nell’occasione, Rossini avrebbe
voluto far scritturare Nozzari e la Colbran, importando così sul
suolo natìo alcuni dei suoi cantanti di fiducia, ma dopo un paio
di mesi di trattative fu evidente che quelle celebrità erano fuori
portata. Per il ruolo di Ninetta (e poi per quello di Rosina) si
dovette ripiegare sulla diciottenne Giuseppina Ronzi De
Begnis, attiva da qualche anno e destinata a fulgida carriera
donizettiana; il marito Giuseppe interpretò i personaggi di
Gottardo e di Figaro; la parte del padre di Ninetta, Fernando
(basso), fu affidata a Ranieri Remorini, applaudito come
Faraone nel Mosè partenopeo di pochi mesi prima.
In questi anni si riserva attenzione crescente anche
all’impianto scenico degli spettacoli, la cui identità visiva
diviene sempre più marcata, e su tale aspetto volentieri si
soffermano le recensioni giornalistiche. Rossini, conscio di
queste aspettative, richiese la partecipazione dello scenografo
Alessandro Sanquirico, disegnatore delle scene originali della
Gazza ladra a Milano, nella speranza di replicare l’effetto
della prima; arrivò a Pesaro il più anziano e non meno celebre
Paolo Landriani. Rossini si occupò dunque di svariati aspetti
di quelle messinscene, sotto gli occhi della madre.
Nel frattempo si infittirono le proposte di collaborazione con
l’estero: gli erano giunti inviti nel maggio 1817 da San
Pietroburgo, da Parigi nell’estate 1818. Rossini finì per
accettare la composizione di una farsa in un atto per Lisbona,
Adina, o Il califfo di Bagdad, scritta nei mesi del suo impegno
pesarese e nel successivo periodo di convalescenza da un forte
esaurimento presso i genitori a Bologna, ma rappresentata al
Teatro Saõ Carlos anni dopo, il 12 giugno 1826. Un’opera
dalla genesi piuttosto oscura, per una capitale di prestigio ma
periferica nei circuiti teatrali a causa della lontananza e delle
difficoltà a raggiungerla via terra o via mare (Rossini,
contrariamente al suo solito, non vi si recò). Sono incerte le
identità del committente e della diva dedicataria (forse
Giuditta Favini o Carolina Neri); autore del libretto, per sua
diretta e tarda ammissione, il marchese, pittore e direttore di
scena ferrarese Gherardo Bevilacqua-Aldobrandini (1791-
1845), che conosceva Rossini dai tempi del Ciro in Babilonia,
occasionalmente poeta teatrale (anche per Donizetti: suo il
melodramma burlesco Pietro il Grande Kzar delle Russie,
Venezia 1819). Nel caso di Adina, Bevilacqua si limitò a
rielaborare un libretto di Felice Romani per Francesco Basili,
Il Califo e la schiava, rappresentato alla Scala nell’autunno del
1819, noto a lui e forse a Rossini già prima del debutto
milanese.
Come solo raramente avveniva, il soggetto non si rifà a una
fonte letteraria o teatrale univoca; ma non sarà stato difficile
per Romani e poi per Bevilacqua imbastirlo, giacché il motivo
di fondo è ancora una volta quello del ratto dal serraglio,
curiosamente intersecato al tema classico dell’agnizione finale
di un congiunto che consente di dipanare la matassa. Il Califfo
vorrebbe sposare la schiava Adina che gli ricorda Zora, la
donna un tempo amata prima di essere rapito in battaglia.
Adina, che nutre riconoscenza per il Califfo, ama però Selimo;
la loro fuga d’amore è sventata e Selimo condannato al
supplizio. Nella concitazione, si scopre che la fanciulla è il
frutto di quella passione giovanile; il Califfo quindi acconsente
con gioia alle nozze dei due giovani. Rossini mise assieme una
partitura ampiamente ricavata dal Sigismondo, sua petraia
favorita. Il compositore, in quei casi, faceva copiare la musica
senza le parole e poi interveniva aggiungendo i nuovi testi e
apportando le necessarie modifiche o integrazioni. A fianco
dell’autore operarono costantemente fidi maestri collaboratori,
perlopiù rimasti nell’ombra, indispensabile sostegno nelle
attività di assemblaggio, nella stesura dei recitativi, talvolta
nella composizione di arie minori o altro. L’efficacia del
fenomeno Rossini fu dovuta anche a loro.
Di nuovo a Napoli verso la metà di settembre, Rossini si
dedicò alla composizione di Ricciardo e Zoraide, su testo di
Berio di Salsa, una delle sue opere oggi meno rappresentate
ma che riscosse consensi unanimi e abbastanza duraturi e
favorì l’ampliamento delle mansioni di Rossini verso la
direzione musicale dei Teatri Reali, su proposta di Barbaja.
Dopo la prima al San Carlo il 3 dicembre 1818 fu ripresa
ancora negli anni trenta, fino alla rappresentazione scaligera
dell’autunno 1846. «L’Esito della mia Opera fu il più Brillante
ch’io ebbi da poi che fo il Maestro Godete adunque di questo
nuovo sucesso»,1 scrisse alla madre il 16 dicembre. Non v’è
ragione di dubitare della sincerità di tale asserzione; ma va
detto che nelle comunicazioni a caldo destinate ad Anna
Guidarini ogni successo è per Rossini sempre il miglior
successo conseguito. Derivata dal Ricciardetto, poema
burlesco in trenta canti del pistoiese Niccolò Forteguerri (edito
nel 1738), l’opera risente di una drammaturgia convenzionale,
con tratti di imponente monumentalità ma senza la profondità
raggiunta da altri suoi titoli napoletani. Nella partitura si
delinea il doppio confronto Nozzari/Agorante vs
David/Ricciardo, Pisaroni/Zomira vs Colbran/Zoraide; non
mancano in orchestra raffinatezze armoniche e timbriche a
cominciare dalla sinfonia, con pregevole uso del contrappunto
e saldata all’introduzione, come sempre più spesso avveniva in
quegli anni. Nel duetto amoroso di Ricciardo e Zoraide
«Ricciardo!… che veggo?…» (II,IV, N. 11) la paura fa da
protagonista; ai versi «Temo del perfido / l’ira, il poter» si
propaga una cantabilità scolpita, quasi preverdiana, su
tormentate figurazioni di accompagnamento. Memorabile nel
quartetto in II,VI (N. 12) l’ampio concertato di stupore senza
accompagnamento orchestrale e la stretta finale con coro; dalla
marcia al supplizio «Qual giorno, aimè! d’orror!» (II,XIV,
N. 15) affiorano reminiscenze di Gluck e di Sarti, contrassegni
dello stile sublime-tragico. L’insuccesso dell’azzardata
Ermione (marzo 1819), di cui già si è detto, si spiega anche col
successo di quest’opera solida ma senza tratti di novità.
Il nuovo incarico che Rossini assunse a Napoli in quei mesi
andava in direzione di una responsabilità allargata agli aspetti
produttivi (come, nel loro piccolo, era accaduto in occasione
delle celebrazioni pesaresi di qualche mese prima).
Intensificando il sodalizio con Barbaja, il compositore
sottoscrisse un accordo triennale in qualità di socio di
minoranza con la compartecipazione di una cifra ingente.2 Fra
le sue funzioni vi era adesso un più diretto coinvolgimento in
varie attività gestionali: la programmazione, la concertazione
di lavori altrui, il reclutamento dei cantanti e le trattative con i
compositori ospiti. Fatte le debite distinzioni, il suo profilo
professionale in questo ampliamento di orizzonti si avvicina a
quello di un Dramaturg, anche se è difficile valutare
l’oggettivo interesse di Rossini al riguardo. I contatti con
Morlacchi, Paer e Spontini diedero scarsi risultati; si riuscì ad
avere solo Mayr (Atalia venne data al San Carlo nel marzo
1822).
Nel mentre Rossini continuò a erogare lavori propri a
seconda delle necessità. Ebbe così inizio l’ultimo segmento
della sua produzione partenopea, con composizioni ancora
incardinate, per motivi diversi, nella realtà locale: oltre alle
solite cantate sceniche di carattere encomiastico, sul fronte
interno (un Omaggio degli artisti del San Carlo per la
guarigione di Ferdinando, il 20 febbraio 1819) e sul versante
estero (il 9 maggio 1819 una cantata per la visita
dell’imperatore d’Austria Francesco I, il 27 dicembre 1821 La
riconoscenza, dedicata alla duchessa Maria Luisa di Borbone),
il compositore firmò una rimarchevole Messa di Gloria (24
marzo 1820) e soprattutto tre opere di gran peso (La donna del
lago, 24 ottobre 1819, Maometto secondo, 3 dicembre 1820,
Zelmira, 16 febbraio 1822).
Eduardo e Cristina, destinazione Venezia, opera di peso
invece non era, anche se a tutti gli effetti “opera nuova”. Ad
andare in scena al San Benedetto il 24 aprile 1819 e nelle
settimane successive, dopo un martellante battage
pubblicitario motivato anche dal ritorno di Rossini in laguna,
non fu un melodramma scritto per l’occasione bensì un
centone di musiche già pronte, appositamente concepito e
costruito partendo da Odoardo e Cristina (Napoli 1810),
vecchio libretto di Schmidt per Pavesi rivisto da Tottola e
Bevilacqua-Aldobrandini. In un certo senso, l’imbastitura
drammatica è in Eduardo e Cristina formulata a ritroso, sulla
base di pezzi tratti da opere preesistenti nella misura di 12 su
16 numeri complessivi (le fonti furono Adelaide di Borgogna,
Mosè in Egitto, Ricciardo e Zoraide e la sfortunata Ermione di
poche settimane prima), più l’apporto dello stesso Pavesi per
un singolo numero. Come in casi meno vistosi di
autoimprestito, si seguirono alcuni princìpi di base: i brani
recuperati dovevano preferibilmente essere ignoti al pubblico
locale, ben prestarsi al nuovo momento scenico a prescindere
dal contesto di provenienza e possedere un elevato standard
qualitativo. L’esito fu un distillato, oltre che una compilazione;
e con questi presupposti non stupisce che un’opera siffatta
ottenesse grandissimo successo, confermandosi fra le opere
rossiniane serie più longeve – circolò fino agli anni trenta e
oltre –, a dispetto della massiccia operazione di riciclo e del
pressoché totale oblio in cui oggi è caduta. È infatti per noi
possibile conoscere e ascoltare direttamente le opere da cui i
diversi numeri di Eduardo e Cristina furono prelevati; il venir
meno della loro funzione storica spiega a sufficienza il
disinteresse in cui via via incorsero pasticci e centoni (lo
stesso Rossini avrà modo di verificarlo più oltre, a Parigi, col
fallimentare Robert Bruce). Su quest’opera grava per altro un
certo pregiudizio. Se infatti siamo oggi disposti ad accordare
piena autorialità e compiutezza drammaturgica all’Elisabetta
di Napoli, composta all’incirca secondo simili modalità, non
altrettanto avviene per Eduardo e Cristina. L’imminente
ripresa al Rossini Opera Festival (2023), con il supporto di
edizione e studi specifici, aiuterà a vederci più chiaro.
Il successo del centone veneziano (centone dissimulato,
giacché la sua natura non venne ovviamente dichiarata) fu
però singolare anche per l’epoca e ciò concorre a far luce su
alcuni parametri della recezione rossiniana. Sulla Gazzetta
privilegiata il recensore della prima si prese gioco dei
«Delicatissimi signori puristi e rigoristi in musica»,
simpatizzando piuttosto con le «anime facili e comuni […]
deboli e capricciose che, in materia di gusto, il desiderio di
dilettarsi al desiderio preferiscono di sindacare», ossia il
pubblico potenzialmente presente in sala che non necessita
delle sentenze dei dotti. A giudizio del giornalista, il libretto,
una «desolante successione di drammatiche assurdità», non
danneggiò affatto lo «strepitosissimo trionfo» della
messinscena:
Una prima donna che occupa la scena per tutto il primo
atto, e per quasi tutto il secondo, un continuo
affastellamento di cori sopra cori; le due grandi scene del
musico e della donna, che porgono la medesima identica
situazione, e che si succedono immediatamente; tutte le
parti anzi tutti i pezzi d’un colore unico, il Re cioè sempre
e costantemente furioso, Cristina sempre e costantemente
piangente, Eduardo sempre e costantemente nullo, ec. ec.
Il genio però d’un Rossini non soffre ostacoli, non ha di
sussidi bisogno, l’eccellente sua musica incanta, trasporta,
bea; tutti sentono la forza irresistibile della sua maggia,
tutti cedono al prepotente impulso di sprigionare il proprio
entusiasmo.3
La musica di Rossini basta da sola e prevale sul libretto,
“sussidio” inessenziale tanta è la seduzione sonora e canora. A
corredo della recensione si susseguono dettagliati elogi per i
cantanti di maggior rilievo, Carolina Cortesi (figlia
dell’impresario e scopertamente sostenuta dalla stampa locale,
come Eduardo) e Rosa Morandi (nel ruolo di Cristina).
Insomma, Eduardo e Cristina dovette il suo successo a una
tessitura debole, volta a svincolare il canto da responsabilità
drammatiche troppo marcate e a valorizzarlo per il tramite di
brani selezionati e già testati. Non sarà stata la regola, ma
sicuramente lo scopo fu raggiunto anche attraverso
quest’opera di economica concezione, con musica di seconda
mano, se i suoi echi giunsero fino a Napoli costituendo un
ulteriore viatico per il compositore:
Napoli, 1 giugno
Rossini è di ritorno in Napoli carico di nuovi allori colti
sulle sponde dell’Adria. La sua musica, scritta per il teatro
di San Benedetto di Venezia, gli meritò un trionfo del quale
la storia di quelle scene musicali non ricorda altro simile.
La prima rappresentazione, cominciata alle otto della sera,
terminò alle due dopo la mezzanotte per l’entusiasmo del
pubblico che fece ripetere quasi tutti i pezzi dell’opera, e
chiamò più volte il compositore sul palco scenario.
Saremmo curiosi sapere se in questa nuova sua musica il
giovine Autor Pesarese si contenne tra’ limiti per esso
serbati nella sua Zoraide, o se si abbandonò senza freno
all’impeto della sua vivissima immaginazione, perché nel
primo caso noi ci congratuleremmo con Rossini, divenuto
degno di delfica corona, e co’ Veneziani difensori della
gloria italiana: nel secondo caso oseremmo domandare se il
decadimento che si rimprovera alla musica deggiasi
incolpare a’ compositori o agli uditori? Ed ove si
convenisse che sordi rimangano oggi per la più gran parte
gli orecchi e freddi i cuori all’aurea semplicità degli antichi
modi, io direi allora: compiangiamo i compositori dell’età
nostra e non ascriviamo a loro colpa la depravazione
universale del gusto.4
La curiosità dell’articolista sarebbe rimasta insoddisfatta
perché Eduardo e Cristina a Napoli non fu dato (troppa al suo
interno la musica mutuata da opere napoletane).
L’ammonimento finale sui responsabili della «depravazione»
del gusto cela però una verità: il compositore dell’epoca offre
al pubblico ciò che il pubblico gli chiede, senza l’obiettivo di
orientarne le preferenze, anche a costo di replicare il già
sentito.
Questo episodio ci avvicina cronologicamente all’autunno del
1819, quando il 24 ottobre andò in scena al San Carlo La
donna del lago, melodramma su testo del solito Tottola che per
molti aspetti rappresenta una pietra miliare nella produzione
teatrale rossiniana e uno dei vertici della musica teatrale del
tempo, italiana ed estera. Rispetto alla trattazione delle pagine
precedenti occorre qui mutare prospettiva, non solo per la
rilevanza dell’argomento trattato, ma anche in relazione al
profilo artistico e professionale conseguito da Rossini di fronte
a questa nuova esperienza. Se per l’invito pesarese del 1818, la
coeva commissione portoghese o l’operazione di Eduardo e
Cristina della primavera precedente, il quadro operativo di
riferimento era stato quello del marketing, secondo modalità
da tempo invalse nella produzione dello spettacolo musicale,
La donna del lago si presenta come un lavoro in qualche
misura innovativo, scaturito dall’attualità letteraria e difficile
da affiancare ad altre opere dell’autore. Fra le prime opere
serie rossiniane a essere riscoperte nel Novecento (a Firenze
nel 1958, in versione molto rimaneggiata, sotto la direzione di
Tullio Serafin), è stata più volte ripresa in anni recenti grazie
anche all’edizione critica del 1990 (Fondazione Rossini) senza
che per questo sia mai divenuta davvero popolare, condizione
per altro condivisa da tutto il Rossini serio. È inoltre un’opera
che suscita numerosi interrogativi storico-estetici
relativamente a una serie di aspetti: la scelta di un soggetto
derivato dalla coeva letteratura inglese, per giunta non ancora
tradotto in italiano (il romanzo in versi The Lady of the Lake di
Walter Scott, del 1810, fu edito in Italia nel 1821); l’origine e
le responsabilità di quella scelta; le giunture con la tradizione
napoletana precedente; i collegamenti con la musica romantica
europea e la posizione dell’autore rispetto a queste tendenze.
Iniziando dalla fine, ci appaiono sfuggenti le generalità del
“compositore italiano romantico” di quegli anni, in termini di
linguaggio musicale e di retaggio culturale (questioni che per
Rossini si ripresenteranno in altra forma anche negli anni di
Parigi). Perché maturi senso di appartenenza a una determinata
temperie artistica si rendono necessari alcuni presupposti che è
difficile ravvisare in Rossini. La sua formazione, le condizioni
produttive in cui si ritrovò a operare, i generi frequentati, i
letterati e intellettuali che lo fiancheggiarono o che frequentò
non consentono di inquadrarlo nella cornice del romanticismo
europeo. È esplicito un suo asserto rivolto alla madre proprio
riguardo alla Donna del lago: «il Sogetto è un po’ Romantico
ma mi pare d’Effetto» (miei i corsivi):5 la formulazione
sottintende diffidenza, presa di distanza o quantomeno
prudenza soprattutto in relazione a un genere, quello teatrale,
da cui si pretende efficacia e immediatezza, obiettivi più facili
da raggiungere battendo vecchi sentieri che inaugurandone di
nuovi. Ciò non toglie che il compositore avesse potuto
assimilare alcune delle tendenze che a partire dallo Sturm und
Drang e dall’ultimo Haydn a lui ben noto, quello degli oratori,
erano confluite nell’estetica e nelle pratiche della musica
romantica. Ma assimilandole lo fece alla sua maniera: senza
programmare una svolta ma ponendo nuove risorse espressive
al servizio del proprio linguaggio. Queste inclinazioni vanno
di pari passo al favore per Rossini manifestato dai più grandi
spiriti del tempo come Goethe, Hegel, Schopenhauer,
Stendhal, che al pari del Pesarese non trovarono nel
romanticismo la soluzione alla crisi dell’illuminismo, crisi di
cui pure erano ben consci. L’antiromantico Leopardi, che
ascolterà La donna del lago al Teatro Argentina di Roma nel
1823, ne rilasciò un giudizio che non sarebbe spiaciuto a
Rossini, rivelando una sensibilità in linea con le peculiarità
stilistiche del compositore. Ne sarebbe stato commosso fino
alle lacrime – scrive Leopardi di sé stesso – se ormai non
avesse perso la facoltà di piangere, ma giudica meraviglioso
l’effetto dell’opera se eseguita da voci «sorprendenti»,
ponendo quindi il canto e le sue attrattive alla base del proprio
entusiasmo, anche senza lacrime. Spettacolo troppo lungo,
però: sei ore senza lasciare il palco, secondo la locale
propensione al gigantismo («fottuti romani»).6
Per lo spettatore italiano dell’epoca sarà stato immediato
accostare la Donna del lago ai soggetti nordici di origine
ossianica che, fra Sette e primo Ottocento, nel genere serio si
presentavano come un’alternativa all’orientamento
neoclassico, giunto nei primi anni del secolo alla sua fase
terminale ma ancora non del tutto abbandonato, o ai nuovi
soggetti storici “moderni”. A partire dal 1763, data di stampa
delle Poesie di Ossian che Melchiorre Cesarotti tradusse dal
falso confezionato da James Macpherson (Fragments of
Ancient Poetry, 1760), la letteratura e la musica su argomento
ossianico si profilarono come l’antiporta del romanticismo:
non il romanticismo dell’interiorità bensì quello che trovava la
propria espressione nel pittoresco, nella couleur locale, nelle
suggestioni ambientali inconsuete (climatiche, geologiche,
astronomiche), ancora collegate al Sublime settecentesco e
presenti in repertori letterari alla moda cui il teatro musicale
aveva già attinto, si veda per esempio la produzione di
Voltaire, Marmontel, Shakespeare. La poesia ossianica confluì
quindi in un alveo già tracciato; fra i primi uomini di teatro a
interessarsi a quella tipologia letteraria vi fu anche il
riformatore per eccellenza dell’opera italiana, Ranieri de’
Calzabigi, che nella silloge di Poesie edita nel 1774 incluse
Comala, musicata sei anni dopo da un maestro poco noto,
Pietro Morandi. Parallelamente alle numerose ristampe
letterarie delle Poesie cesarottiane, proliferarono le opere e i
balli di argomento celtico derivati in qualche misura dalla
figura e dalla produzione poetica presunta o immaginaria del
bardo cantore, l’“Omero del Nord”, l’“Orfeo di Caledonia”
com’era anche definito. Meritano di essere ricordati almeno i
melodrammi Calto di Foppa/Bianchi (Venezia 1788), Fingallo
e Comala di Fidanza/Pavesi (Venezia 1805), Gaulo ed Oitona
di Fidanza/Generali (Napoli 1813), Oscar e Malvina di
Fidanza/Sampieri (Milano 1816) e la bizzarra Aganadeca di
De Ritis/Saccenti, prescelta col sostegno della corona per
l’inaugurazione del nuovo San Carlo (1817), che si procurò
consensi e simpatie per la componente letteraria ma che fu
sbeffeggiata per quella musicale, affidata a un inesperto
dilettante. A queste affermazioni si deve aggiungere il
prestigio guadagnato dai temi ossianici nella Parigi d’epoca
napoleonica con Ossian, ou Les bardes di Jean-François Le
Sueur (1804), che servì a consolidare la diffusione di quegli
argomenti e ad assicurarne di riflesso la sopravvivenza nel
circuito teatrale italiano.
In questo filone andò a collocarsi, più a distanza, anche La
donna del lago, probabilmente il primo libretto d’opera
italiano tratto da Walter Scott (1771-1832). Carlo Varese
(1793-1866), autore di romanzi storici all’epoca molto in
voga, affiancò senza remore il musicista e lo scrittore che a
suo giudizio più rispecchiavano il comune sentire del tempo
(1832):
Un compositore di musica ed un romanziere sono due enti
che potrebbero benissimo giungere all’apice della gloria
senza conoscersi l’un l’altro meglio che di nome; né
sarebbe impossibile che Rossini non avesse mai letta una
pagina di Walter-Scott, e che questi non avesse mai udita,
fuorché strimpellata per le vie di Londra o di Edimburgo,
un’arietta del mago Pesarese. […] Ecco dunque la mia
proposizione: “Walter-Scott è il Rossini della letteratura,
Rossini è il Walter-Scott della musica”.7
Con Carlotta Sorba, entrambi gli autori «avevano mostrato
un’insuperata capacità di affascinare il pubblico, grazie a
dispositivi basati sulla tensione e sul ritmo».8 Il pubblico di
Rossini e Scott era infatti il medesimo; alla supremazia
incontrastata della musica rossiniana faceva riscontro la
diffusione sempre più ampia della produzione letteraria di
Scott, che fra 1820 e 1840 a Milano, grazie anche al favore a
lui accordato dal Conciliatore e da Ermes Visconti, saturò il
mercato editoriale nei generi della narrativa e del romanzo
storico. Nel teatro musicale il fenomeno Scott travalicò il
fortunato episodio rossiniano con opere di un certo rilievo
come Il castello di Kenilworth di Donizetti (1829) e Ivanhoe
di Pacini (1832), ma soprattutto con un capolavoro assoluto
dell’epoca romantica quale fu Lucia di Lammermoor di
Donizetti (1835).
Di ossianico nella Donna del lago, oltre all’ambientazione
nordica e montana (scozzese) espressa tramite alcuni tocchi di
colore dell’introduzione (i richiami dei corni dei cacciatori
dalla selva, come in celebri pagine del Freischütz di Weber,
1821), vi è la presenza emblematica dei Bardi. Nel finale
primo essi invocano gli antichi eroi bretoni e il favore del cielo
per propiziare la rivolta in atto: elementi rituali in piena
continuità rispetto alla tradizione ossianica anche napoletana
che non costituiscono però la sostanza dell’opera rossiniana
ma piuttosto la sua tinta superficiale. La recensione dello
spettacolo, apparsa dopo la prima sul Giornale del Regno delle
Due Sicilie del 25 ottobre, riferisce che quegli ingredienti
avevano colto nel segno, dato il plauso concesso «alla bellezza
delle decorazioni; alla magnificenza del vestiario; alla folla
sempre crescente di armi e di armati, di cantori e di suonatori
d’ogni specie».
A livello di scrittura e scelte metriche, Tottola ebbe presente
in alcuni momenti circostanziati la versificazione bizzarra e
antimetastasiana della traduzione di Cesarotti e della
librettistica ossianica da essa derivata, contrassegno di
un’alterità barbarica rispetto ai canoni del Settecento
classicista. Un esempio in apertura d’opera dove pastorelle e
pastori – stavolta al Nord, non in Arcadia – inneggiano all’alba
nascente su distici asimmetrici come «Del dì la messaggera /
già il crin di rose infiora. / Dal sen di lei che adora, / già fugge
rapido – l’astro maggior»: tre settenari seguiti da quinari
doppi. Il coro femminile che apre il duetto di Uberto ed Elena
al N. 2 (I,VI) presenta una inconsueta e “barbara”
frammentazione di versi lunghi in versicoli di poche sillabe:
«D’Inibaca, / donzella, / che fe’ / d’immenso amor / struggere
un dì / Tremmor, / terror del Norte, / sei Elena / più bella: / per
te / di pari ardor / avvampa così / ognor / Rodrigo, il forte». È
però una soluzione più per l’occhio di chi legge che per
l’orecchio di chi ascolta, in quanto non è difficile ricondurre
quei versi brevi a unità regolari (come costantemente avviene
nel canto). L’Aganadeca di De Ritis presentava audacie
metriche anche più frequenti per quello che doveva presentarsi
come uno spettacolo eccezionale in occasione della riapertura
del San Carlo. Tottola e Rossini avevano invece altre carte da
giocarsi.

La donna del lago, frontespizio


del libretto per la prima assoluta,
Napoli, Teatro San Carlo, 1819

Facendo un passo indietro, le vicissitudini che portarono il


soggetto scottiano all’attenzione di poeta e musicista non sono
ovvie né facili da decifrare. Radiciotti scrive che fu Rossini a
proporre il soggetto a Tottola, avendone avuta a sua volta
raccomandazione da Désiré-Alexandre Batton (1798-1855),
compositore francese dalla carriera contrastata, in Italia come
vincitore del Prix de Rome e in rapporti di amicizia con il
Pesarese. Batton gli avrebbe mostrato l’edizione francese del
romanzo di Scott, manifestando lui stesso interesse per
un’eventuale realizzazione operistica parigina; Rossini lo
avrebbe quindi bruciato sul tempo.9 Nella Premessa del
libretto, Tottola lascia invece intendere che fu l’Impresa a
proporgli l’incarico. Le due cose non sono in contraddizione;
il sistema vigente a Napoli prevedeva una responsabilità
collegiale anche nella scelta dei drammi, volta alla
soddisfazione complessiva, e Rossini aveva da poco esteso la
sua influenza anche in qualità di direttore musicale dei Teatri
Reali. In ogni caso, negli anni a seguire, egli nutrì una
particolare predilezione per quest’opera. All’epoca del suo
trasferimento a Parigi decise di mettere presto in scena una
ripresa della Donna del lago (1824), pur con i consueti
adattamenti. Avendo infatti Giuditta Pasta già utilizzato la
cavatina di Malcolm, trasposta per soprano, in un Otello dato
nel 1821, Rossini si vide costretto – per non deludere un
pubblico attento e ricettivo, che aveva già memorizzato quella
musica anche attraverso le edizioni locali – a importare
nell’opera scottiana la cavatina di Arsace dalla Semiramide,
che manifesta alcune analogie di situazione con il brano
originario.10 Ancora nel 1843, a carriera teatrale conclusa,
Rossini replicò alle pressioni dell’Opéra per una nuova opera
rilanciando La donna del lago, composta ormai un quarto di
secolo prima ma evidentemente da lui ritenuta adatta alla
Parigi romantica di quegli anni.
Al di là della modernità del soggetto e dei suoi collegamenti
con la feconda tradizione dei temi ossianici, la finezza
psicologica con cui sono condotte le situazioni drammatiche
più pregevoli, giocate sulle mezze tinte anziché su un’azione
scenica travolgente, costituisce il tratto di maggior rilievo della
Donna del lago assieme al suo indiscusso fascino canoro,
posto al servizio delle qualità morali dei personaggi principali.
Che sono cinque: Elena, soprano (in prima edizione la
Colbran), Malcolm, contralto (Rosmunda Pisaroni, qui en
travesti, per la quale Rossini aveva già scritto i ruoli di
Andromaca e Zomira), Uberto, vale a dire re Giacomo sotto
mentite spoglie, tenore contraltino (David), Rodrigo, tenore
baritonale (Nozzari), Douglas, padre di Elena, basso
(Benedetti). Dopo i cori iniziali, è subito Elena a presentarsi
nel primo “solo” dell’introduzione, «Oh mattutini albori!»,
mentre a bordo di un battello attraversa il lago («unico suo
giornaliero passatempo», specifica la prefazione). L’elemento
naturalistico incide sui tempi drammatici, alterandone la
scansione. Elena viene raffigurata come parte dello scenario da
cui sembra scaturire e contribuisce alla sua incontaminata
bellezza con un canto estatico: non è per lei prevista una
cavatina brillante, bensì un’assorta e contemplativa barcarola
(I,II), sul filo dell’incertezza fra canto scenico, finalizzato ad
accompagnare la navigazione, e canto melodrammatico, in
quanto nel testo si fa esplicito riferimento alla «dolce
immagine / del caro mio tesor!». I piani del realismo scenico e
della finzione melodrammatica si sovrappongono
ulteriormente quando re Giacomo, col nome di Uberto per non
svelarsi in territorio nemico e giunto lì col proposito di
rimirare la fanciulla, fingendosi smarrito durante una caccia
accetta di essere traghettato da Elena verso la sua dimora,
sull’altro versante del lago; il motivo della barcarola, poc’anzi
di Elena soltanto, è da loro condiviso in un primo breve “a
due” («Scendi nel piccol legno»).
L’ambiente lacustre acquisisce un potere catartico in grado di
assorbire passioni e aspirazioni inconciliabili (Elena ama
Malcolm, schierato fra i rivoltosi dei “Clan Alpini”; ma anche
Giacomo, il re che i Clan combattono, si sta innamorando di
lei). La gioia serafica che si propaga dal coro femminile
contrassegna l’apertura del duetto al N. 2 (I,VI), nell’abitazione
di Elena dove Uberto scopre con inquietudine le insegne
dell’avversario Douglas, nel momento stesso in cui a Elena
viene ricordato dal coro delle fanciulle l’impegno sentimentale
con Rodrigo, cui il padre l’ha destinata. È una nube
passeggera; Uberto ed Elena finiscono per solidarizzare sia
pure sulla base di un equivoco: lei desidera davvero «altro
amante» al posto di Rodrigo, ma si tratta di Malcolm, non di
Uberto. Come spesso avviene nelle opere del periodo, il
soprano ama il musico (ormai ruolo femminile, quindi
contralto en travesti), non ancora il tenore, Rodrigo o Uberto.
Avvolti dalla voluttà del canto, Uberto ed Elena trasmettono
tuttavia un messaggio di concordia e simmetria allo spettatore;
l’atmosfera benefica e placida del lago, in piena concordanza
con la bellezza della protagonista la cui fama aveva sospinto
Uberto da lei, attenuano l’ardore della vendetta del re nei
confronti dei rivoltosi e liberano piuttosto un sentimento per
lui inedito fondato su immaginazione e fantasticheria. E si
intuisce che l’intreccio prodotto da questo amore sfasato non
porterà sventura alla coppia principale, ma sarà piuttosto il
viatico di una riconciliazione politica.
L’arrivo di Malcolm in I,VII è contraddistinto da un serrato
recitativo strumentale, come si addice al tòpos del ritorno – si
pensi a Tancredi –, appannaggio degli antichi castrati di cui
Rosmunda Pisaroni (1793-1872) raccoglie qui l’eredità:
Malcolm, assieme agli altri ruoli napoletani per Rossini, segnò
l’avvio della seconda parte della sua carriera, che era iniziata
come soprano, assestandosi solo in seguito sul registro più
grave grazie a una estensione eccezionale. La cavatina che
segue, «Elena! oh tu, ch’io chiamo!» (I,VII, N. 3), da sempre
uno dei brani favoriti dell’opera, tende all’introspezione,
registro consono a quest’opera di taglio psicologico. Malcolm
è solo in scena, ma l’oggetto ideale del suo amore si insinua
nelle trame strumentali, vedi il prezioso gioco dell’oboe solista
che contrappunta in eco l’invocazione alla donna amata, verso
la chiusa del primo tempo dell’aria («Grata a me fia la morte, /
s’Elena mia non è»). Un’ulteriore conferma di quanto più
conti in questo primo atto l’azione interiore rispetto a quella
visibile; azione interiore che per altro ha esito nell’inebriante
cabaletta finale, in un’opera che di cabalette fa un uso
parsimonioso.
La presentazione in scena del padre Douglas suscitò invece
poco interesse in Rossini. L’aria «Taci, lo voglio, e basti»
(I,VIII, N. 4), infarcita di scoperte suggestioni mozartiane, fu
approntata da un collaboratore probabilmente sotto il diretto
controllo del Pesarese. Il tema è di nuovo quello
dell’imposizione paterna, ribadita sotto lo sguardo raggelato e
fremente di Malcolm, nascosto alla vista degli astanti. L’alto
tasso di convenzionalità della situazione indusse Rossini ad
andare per le spicce con un brano altrettanto convenzionale.
La qualità non eccelsa dell’aria nasce in fondo da una scelta
drammaturgica consapevole: non tutte le arie debbono essere
ugualmente belle, per non oscurare i momenti migliori (lo
sapevano bene nel secolo antecedente). Infinitamente
superiore il duettino di Elena e Malcolm, «Vivere io non
potrò» (I,VIII, N. 5). Quattro versi soltanto, condivisi e
debitamente amplificati nelle ripetizioni e nei raddoppi; un
giuramento d’amore fra i più toccanti, in un solo tempo e
ovviamente senza cabaletta, impreziosito dagli inserti
asseverativi dei clarinetti.
L’antagonista Rodrigo appartiene alla fazione politica dei
giusti ed è figura ostile soprattutto perché imposto a Elena dal
padre; ed è tenore. Si innesta con la sua vocalità svettante sulle
note del coro di vittoria sull’oppressore, Giacomo, che ha sin
qui mostrato solo la sua dimensione sentimentale,
sconveniente ma non prevaricante. Anche Rodrigo ha un suo
portato amoroso ed è mosso da slancio e sincera passionalità
(«Ma dov’è colei, che accende», I,IX, N. 6). Elena deve quindi
fare i conti con ben tre pretendenti, di cui due nel registro
tenorile, e nessuno di loro merita al momento la
disapprovazione del pubblico. Nel primo atto del dramma i
conflitti si presentano in forma latente; il personaggio che
scioglierà l’intrigo, consentendo alla coppia elettiva – Elena e
Malcolm – di coronare le proprie aspirazioni amorose, non
potrà che appartenere alla schiera degli amanti di Elena. L’atto
di generosità e la rinunzia a un amore inopportuno spetterà
ovviamente al re, che si avvia così a replicare il modello già
applaudito in Elisabetta regina d’Inghilterra e fondato sulla
rinunzia virtuosa, un atto di clemenza che appartiene ancora
all’orizzonte etico dell’antico regime. Nell’Inghilterra
elisabettiana e nella romantica Scozia quando sono in gioco i
sovrani le cose non vanno in modo tanto diverso.
I primi turbamenti prendono corpo nel finale primo (I,ultima,
N. 7). Elena nega il suo sorriso a Rodrigo suscitando l’ira
paterna, mantenuta sotto traccia nel concertato a tre, «(Come
celar le smanie)», tutto in “a parte”. La temperatura sale
ancora all’arrivo di Malcolm, che si mette agli ordini di
Rodrigo pur conoscendo le aspirazioni di costui verso Elena.
Ragion di stato, obblighi famigliari e desideri individuali si
intrecciano in modo apparentemente irrisolvibile. Il consueto
concertato di stupore, che congela l’azione bloccandola al
momento della presa di coscienza collettiva delle questioni di
fondo, si avvia da «(Crudele sospetto)»; lo sostiene un ostinato
ritmico di carattere militaresco che si arresta agli interventi “a
due” di Elena e Malcolm, distinti dal contesto.
Dopo questa successione di primi piani, l’inquadratura torna
ad allargarsi alla notizia delle truppe nemiche in
avvicinamento, da cui origina la scena dei Bardi che
inneggiano alla battaglia («Già un raggio forier», con
accompagnamento di arpa come da tradizione ossianica); una
tecnica, quella di una variabile profondità di campo, che i
finali d’atto di questi anni impiegano con una certa regolarità e
utile a far interagire singole individualità con lo scenario
storico che le racchiude. Come in altri casi, la locuzione
“scenario storico” dev’essere tuttavia intesa in senso lato. Non
perché non vi sia “storia”: differentemente dai soggetti
ossianici, immersi in un’indistinta arcaicità nordica, La donna
del lago, agli albori del romanzo storico, è databile grazie alla
figura di Giacomo V (1512-1542, padre di Maria Stuarda) che
impegnò le sue energie a combattere i clan ribelli. Ma non è la
storia a divenire il motore della drammaturgia, quanto, ancora
una volta, le passioni dei singoli, re compreso; gli eventi
circostanti esercitano tutt’al più un’azione di disturbo e
costituiscono un problema con cui dover fare i conti, più che la
motivazione di fondo dell’agire umano: couleur locale più che
eventi sostanzialmente drammatici o concretamente storici.
La regalità di Uberto, prima di tramutarsi in un fattore
risolutivo, rischia infatti di indebolirsi a causa delle
suggestioni idilliche che gli giungono dall’ambiente. La
cavatina con cui si apre il secondo atto, «Oh fiamma soave»
(II,I, N. 8), ce lo mostra in abito da pastore, felice e
innamorato. Alle sue invocazioni amorose rispondono corno e
legni; le colorature tenorili sono ampie e articolate ma
l’andamento resta stabile: esse si traducono così in una
espressione intima, senza che la pace circostante ne venga
turbata. Il recitativo strumentato seguente, in cui Uberto si
dichiara a Elena, replica il malinteso in atto, poi sviluppato dal
terzetto «Alla ragion deh rieda» (II,I, N. 9), pagina di grande
interesse drammatico e forse il vertice dell’opera. Nel tempo
d’attacco tutto sembra volgere alla solita manifestazione d’ira
del potente deluso in amore. Il rischio è abilmente evitato da
Tottola e Rossini, che reindirizzano il brano alla reciproca
comprensione (Elena: «Che amavi io non sapea…»). Al
cantabile successivo, «(Nume! se a’ miei sospiri)», Elena e
Uberto trovano la forza di sostenersi a vicenda; Uberto
recupera qui la regalità che le placide acque del lago avevano
diluito e fa dono a Elena di un lasciapassare che le consentirà
di attraversare indenne le schiere nemiche. L’arrivo di Rodrigo
produce un ultimo fraintendimento a «(Misere mie pupille!)»:
intravisti Elena e Uberto a dialogo, questi si convince di una
loro segreta intesa amorosa. L’antagonismo sentimentale fa
così uscire allo scoperto le rispettive posizioni politiche, che
sono contrapposte. La rissa, con intervento del coro di
guerrieri, è sedata da Elena ma dà origine alla sfida a duello
fra i due contendenti, annunziata nella grandiosa stretta finale.
Rossini lascia lì emergere in bella evidenza una pulsazione
cardiaca di fondo (effetto ripreso in alcuni grandi momenti del
teatro verdiano, a cominciare dal Miserere del Trovatore); la
lettura musicale e drammatica segue il punto di vista di Elena
che, atterrita, assiste al precipitare degli eventi («Io son la
misera»).
La vorticosa parabola discendente è però di breve durata e
non degenera in tragedia. Nell’aria di Malcolm con coro «Ah
si pera: ormai la morte» (II,III, N. 10) si apprende la notizia
dell’uccisione di Rodrigo – Uberto risolve quindi un problema
privato della sua protetta, oltre che una questione politica – e
si teme per la sorte di Elena. Di lì a poco la protagonista
giunge tuttavia sana e salva alla reggia (II,V), dove ode il
«dolce suon» di un «amabile concento» con
accompagnamento di arpa proveniente dalle stanze del re, che
si intrattiene malinconicamente con la «Canzoncina sul palco»
(«Aurora! ah sorgerai», II,V, N. 11) sul motivo della barcarola
iniziale, che assume così connotati simbolici (quasi una chiave
di lettura musicale dell’opera). Elena avrà conferma che
Uberto e Giacomo sono la stessa persona nella successiva
scena del trono (N. 12, aperta dal coro di sudditi «Imponga il
Re: noi siamo», II,ultima). Dopo il perdono collettivo,
Giacomo unisce Elena e Malcolm; ma l’attenzione torna poi
sulla primadonna, cui spetta il rondò finale con coro.
Seguendo la strategia di altre opere del periodo, la conclusione
della Donna del lago punta su un brano di interesse vocale
distinto e superiore rispetto a quanto precede, che la virtuosa
regalità di Giacomo ha reso possibile. «Tanti affetti in un
momento» (Elena e coro, N. 13) consiste, come in casi simili,
in un tema con ardimentose variazioni di coloratura ed esalta il
ricongiungimento famigliare, «fra il padre e fra l’amante»,
assieme al ritorno della concordia civile («Cessi di stella rea /
la fiera avversità»).11 Il sovrano reazionario e l’oppressore
delle libertà dei popoli è adesso un paladino della coppia e un
protettore della famiglia.
Pur con la sua vena romantica e il radicamento nella
tradizione ossianica, quest’opera quindi non perdeva di vista lo
spirito restaurativo vigente, compendiato nella rassicurante
regalità manifestata da re Giacomo. Ammetterlo non significa
attribuire a Rossini l’etichetta convenzionale e limitativa di
compositore emblematico della Restaurazione, che in qualche
modo implica condivisione di intenti o addirittura una scelta di
campo, sottovalutando le inclinazioni romantiche che La
donna del lago esprime in alcuni suoi aspetti. Quella formula
critica (Rossini emblema della Restaurazione), già introdotta
nella Filosofia della musica di Giuseppe Mazzini (1836) e da
Heinrich Heine diffusa nel panorama culturale francese e
tedesco, fu fissata a posteriori in epoca risorgimentale quando
si iniziò a guardare all’opera italiana del passato prendendone
le distanze, sulla base di un rigenerato senso d’identità
nazionale, e da qui sarebbero originati anche tanti dibattiti
moderni sulle giunture fra opera e Risorgimento. La Filosofia
mazziniana vide la luce negli stessi anni delle opere di
Donizetti più coinvolte nei nuovi ideali come Marin Faliero o
L’assedio di Calais, in cui i patrioti si sacrificano per la causa
e non per un proprio tornaconto; Rossini è considerato artista
di qualità musicale eccelsa e un titano dei suoi tempi, ma
restaurativo nella sostanza, senza alcuna missione da compiere
al di fuori dei confini angusti della sua epoca, ripiegato su sé
stesso e dedito all’effetto.12 Ma a una rilettura storica non
preconcetta sarebbe irragionevole attendersi da Rossini uno
strappo fra le attese di chi ne finanziò le opere e il contributo
artistico individuale, e sottostimare quanto di nuovo emerge in
quegli anni dalla sua penna (si pensi a Otello ma anche alla
difficile e fallita Ermione). Uno degli attributi associati a
Rossini all’epoca in cui operò fu del resto quello di
riformatore dell’opera italiana, accreditato da colleghi della
sua stessa generazione come Giovanni Pacini (1796-1867),
che nelle Memorie artistiche lo pone al vertice di uno stuolo di
predecessori e di contemporanei e lo considera un modello
insuperabile di progresso musicale.13 È quindi una questione
di prospettiva: chi provenisse dal basso, ossia dall’onda lunga
del Settecento (che fu pur sempre il “secolo delle riforme”),
avrà individuato in Rossini soprattutto aspetti riformisti; chi
invece osservasse il fenomeno Rossini dall’alto, dal pieno
Ottocento risorgimentale, e in presenza di altri mutamenti
intercorsi nello status professionale del musicista e nei suoi
rapporti con l’attualità sociale e politica, avrà colto gli aspetti
restaurativi, divenuti inattuali o sgraditi già nei vitalissimi anni
trenta.
La geografia professionale di Rossini suggerisce inoltre di
non livellare una produzione musicale che si svolse sì in pochi
anni – abbiamo sin qui abbracciato circa un decennio,
contrassegnato dal cesarismo napoleonico e più tardi dalla
Restaurazione – ma sviluppandosi in contesti molto diversi:
Venezia, Milano, Roma e Napoli non possono essere
equiparate, neppure negli anni della Restaurazione, per la
dissomiglianza delle tradizioni teatrali e delle preferenze del
pubblico, nonché per gli orientamenti della stampa e della
critica locale. Difficile allora pretendere da Rossini una
direzione precostituita, una stabile motivazione di fondo; la
sua produzione resta ancorata al suo articolato presente,
celebrato anche dalla riconoscibilità immediata del proprio
linguaggio drammatico; presente che, almeno in quegli anni,
lo soddisfa artisticamente ed economicamente. Richiamandoci
ancora al modello concettuale di Koselleck (Futuro passato,
1979, e Storia. La formazione del concetto moderno, 1975) e
tenendo conto del cambiamento di mentalità intercorso attorno
agli anni trenta, per l’uomo del primo ventennio dell’Ottocento
il tempo e il futuro sembrano ancora volgersi all’indietro o
tutt’al più “avanzare circolarmente”: il reinsediamento delle
corone dopo i clamori rivoluzionari e napoleonici ne era stata
una conferma e aveva contribuito, sia pure per poco, a ostruire
la sua visuale, il suo orizzonte di attesa. A prescindere
dall’esperienza trascorsa e dai rapidi avvicendamenti politici,
il domani, ai suoi occhi, si profila ancora non troppo diverso
dall’oggi. Imporre a Rossini una lettura mediottocentesca
significa allora far torto prima che a lui, alla società del tempo
e al pubblico che ne decretò il successo.
SUGGERIMENTI DI LETTURA

La genesi di Adina è ricostruita in DELLA SETA 2000. Gli


autoimprestiti di Eduardo e Cristina sono analizzati in
QUATTROCCHI 1994. Per Scott e l’opera italiana vedi MORELLI
1986. Sulla librettistica ossianica antecedente a La donna del
lago TUFANO 2006 e PIPERNO 2015; sul libretto e la
drammaturgia della Donna del lago QUATTROCCHI 2007. Nel
quadro della diffusione del linguaggio rossiniano, l’influenza
di Rossini su Pacini è discussa in CARLI BALLOLA 1996. In
GINSBORG 2007 (da una prospettiva storica), ROSTAGNO 2011 e
ROSTAGNO 2013 si inquadra il cambiamento di mentalità
intercorso dopo la Restaurazione e anche fra rossinismo e
opera romantica.
DA ASCOLTARE

Adina, o Il califfo di Bagdad


Doina Dinu-Palade (Adina), Milan Voldřich (Selim), Romano
Franceschetto (Califfo), Michael Dale Hajek (Mustafà), Ivan
Ožvát, Kirchenmusikverein Bratislava, State Chamber
Orchestra Žilina, dir. Aldo Tarchetti, Rugginenti 1996
Ricciardo e Zoraide
Randall Bills (Agorante), Alessandra Marianelli (Zoraide),
Maxim Mironov (Ricciardo), Nahuel Di Pierro (Ircano), Silvia
Beltrami (Zomira), Artavaszd Sargsyan (Ernesto), Diana Mian
(Fatima), Anna Brull (Elmira), Bartosz Żołubak (Zamorre),
Camerata Bach Choir Poznań, Virtuosi Brunensis, José Miguel
Pérez-Sierra, Naxos 2018
Eduardo e Cristina
Kenneth Tarver (Carlo), Silvia Dalla Benetta (Cristina), Laura
Polverelli (Eduardo), Baurzhan Anderzhanov (Giacomo),
Xiang Xu (Atlei), Camerata Bach Choir Poznań, Virtuosi
Brunensis, dir. Gianluigi Gelmetti, Naxos 2019
La donna del lago
Sonia Ganassi (Elena), Maxim Mironov (Uberto/Giacomo),
Marianna Pizzolato (Malcolm), Ferdinand von Bothmer
(Rodrigo), Wojtek Gierlach (Douglas), Olga Peretyatko
(Albina), Stefan Cifolelli (Serano), Prague Chamber Choir,
Tübingen Festival Band, SWR Radio Orchestra Kaiserslautern,
dir. Alberto Zedda, Naxos 2008

9. La donna del lago


1 GRLD 2004, p. 226.
2 FABBRI-MONALDINI 2000, p. 84.

3 Gazzetta privilegiata di Venezia, 27 aprile 1819, pp. 3-4.


4 Gazzetta privilegiata di Venezia (che prende la notizia dalla Gazzetta di Napoli),
15 giugno 1819, p. 3.
5 GRLD 2004, p. 254 (8 ottobre 1819).

6 Giacomo Leopardi a Carlo Leopardi (Recanati), anche in GRLD 1996, pp. 113-
116 (Roma, 5 febbraio 1823).
7 VARESE 1832, pp. V-VI.

8 SORBA 2015, p. 123.

9 RADICIOTTI 1927-29, vol. I, p. 376.

10 GOSSETT 2009, p. 236.

11 La varietà dei contenuti e l’impiego di brani emblematici come il rondò finale


determinarono il successo di quest’atto anche in presenza di decurtazioni rese
necessarie dall’invasiva lunghezza dei balli; così Barbaja a Giovanni Carafa duca di
Noja, il 7 novembre 1819: «Siccome lo Spettacolo di Martedì serata del Sig.r Henry
[coreografo] sarà alquanto lungo, stimerei bene se V.E. lo approva di dare un solo
atto dell’Opera nuova del S.r Rossini – La donna del Lago ed il secondo perché più
breve, e piace più al pubblico» (GRLD 1992, p. 399).
12 MAZZINI 1836, pp. 22-23.
13 PACINI 1865, pp. 8, 14 e 17.
10. Passato e futuro si incrociano
La fase napoletana va a concludersi

Andrea Celesti, Maometto II condanna Anna Erizzo, 1690 circa;


Venezia, collezione privata

Il capitolo precedente sfiorava aspetti legati alla storicità


(relativa) di alcuni soggetti d’opera in base al concetto di
storia maturato nel pubblico di primo Ottocento e alla sua
percezione del presente. Il rapporto fra individuo, storia e
società nella finzione del dramma rispecchia un quadro
mentale in progressivo mutamento. Se è ancora presto per
trovare in scena sommosse e sacrifici per la patria, ai consueti
duci e sovrani vanno aggiungendosi figure di rilevanza civica
e di taglio più moderno (il Podestà corrotto della Gazza ladra
ne è un esempio), nonché circostanze suggerite da contesti
istituzionali – tribunali, assemblee e consigli – con ampia
partecipazione corale. L’interesse dell’ultima opera originale
concepita da Rossini per la Scala, rappresentata due mesi dopo
La donna del lago di Napoli, risiede anche nella cornice
politica in cui il dramma si colloca. Nell’Avvertimento
preposto a Bianca e Falliero, ossia Il Consiglio dei tre re
(Milano, 26 dicembre 1819), melodramma in due atti di
argomento veneziano che Felice Romani approntò a partire
dalla tragedia Blanche et Montcassin, ou les Vénitiens di
Antoine-Vincent Arnault (1798), non si accenna ai personaggi
dell’opera, ma a questioni storiche e giudiziarie da cui
scaturisce l’azione:
La legge che puniva con la pena di morte qualsivoglia
nobile veneziano che avesse avuto corrispondenza con gli
ambasciatori o ministri delle estere potenze era stata per
qualche tempo dimenticata, come avea rallentato il suo
rigore quel formidabile tribunale denominato il Consiglio
dei Tre, cui specialmente incombeva l’applicazione di
cotesta legge. Ma nel 1618, dopo la famosa congiura del
Marchese di Bedamar, ambasciatore di Spagna [Alonso de
la Cueva-Benavides y Mendoza-Carrillo], la legge fu
rimessa in pieno vigore, e il Consiglio dei Tre, per così dire
ristabilito, raddoppiò di vigilanza e di severità. Le sedute di
questo tribunale si tenevano d’ordinario in una sala del
palazzo di S. Marco: i giudici si univano a qualunque ora e
in qualunque luogo che si trovassero: le sentenze dovevano
essere pronunziate all’unanimità, ed allora si eseguivano
immediatamente; se uno dei tre giudici opinava
diversamente degli altri due, il Consiglio era sciolto, e il
processo istruivasi pubblicamente e nelle forme ordinarie
innanzi al Senato, o al Consiglio dei Dieci. Questa legge e
questo tribunale sono la base del melodramma che si offre
al pubblico […]
Seguono altre informazioni e rettifiche rispetto alla tragedia
originale. A Romani sta a cuore che lo spettatore sia in grado
di posizionare il dramma nel suo giusto contesto e che afferri il
ruolo giocato dalla politica e specificamente dal potere
giudiziario sul destino dei singoli. Questi elementi, già
presenti nel teatro d’epoca postrivoluzionaria, emergono qui
con una vocazione all’affresco storico, di ambientazione
moderna, che costituisce l’aspetto meno scontato di
quest’opera poco nota ma non secondaria nel catalogo
rossiniano (né sgradita all’autore, che manifestò la sua
approvazione direttamente a Romani: «Il Sogetto mi piace La
Tua Bell’anima troverà certamente di che pascersi da Bravo
Offrimi Tela che mi trovo buoni colori per Sporcarla»).1
La vicenda inscenata percorre in buona parte strade già note:
il matrimonio combinato fra famiglie patrizie ai danni
dell’eroe che torna vittorioso (Carolina Bassi, contralto, nel
ruolo di Falliero), il ricatto imposto a Bianca (il soprano
Violante Camporesi), come nel finale primo di Otello, il colpo
di scena dell’arrivo di Falliero che interrompe i preparativi
delle nozze, la fuga della prima coppia, il verdetto e la
condanna, il perdono paterno che ripara l’ingiustizia subita dai
protagonisti. Ma non mancano quelle interazioni tra sfera
pubblica e sfera privata che col tempo divennero uno degli
elementi propulsivi dell’opera ottocentesca. Piazza San Marco
e le Procuratie affollate costituiscono il quadro di apertura. Si
celebra la vittoria sul nemico – Venezia era all’epoca dei fatti
fra i pochi territori nella penisola non ancora soggetti alla
dominazione spagnola – e il giubilo pubblico si amalgama alla
questione privata della pace fra famiglie rivali, sancita dal
progettato matrimonio di Bianca con Capellio (basso) per
volontà di Contareno padre di lei, tenore («Pace alfin per
l’Adria splende», I,II). Al ritorno dal fronte di Falliero, «del
patrio onor / conservator», risuonano espressioni patriottiche
che marcano anche la sua cavatina. L’amor di patria, lì più
volte evocato, non è però necessariamente congiunto con
l’incipiente Risorgimento: vi fu un patriottismo di gran lunga
antecedente, virtù nobilitante dei prodi e degli eroi attivi
all’interno del sistema e non una condizione sociale e politica
finalizzata all’affermazione di riconquistati valori nazionali.
Quello del patriottismo fu un concetto che mutò di segno
attraverso i diversi scenari politici.
Per il Doge dell’opera rossiniana il Cielo è ancora
«conservator dei regni» (I,V), un’affermazione certamente non
sgradita alla censura del lombardo-veneto; anche la grande
scena del Consiglio dei Tre a partire da II,VII verte sulla difesa
dello stato da un potenziale traditore (Falliero). L’attenzione
del drammaturgo si posa subito su di lui nella cavatina «Alma,
ben mio, sì pura» (II,VIII, N. 9), preceduta da un lungo assolo
di flauto come si addice ai vagheggiamenti amorosi: la
condizione sentimentale è in quel caso più sviluppata di quella
politica. L’interrogatorio che segue è viziato dalla malafede: a
decretare la condanna di Falliero sarà Contareno in quanto
appartenente al Consiglio dei Tre. Lo scenario politico si
risolve quindi nell’eterna contesa fra la fedeltà (allo stato e
all’amata) e la degenerazione morale per faziosità e interesse
personale; vi partecipa costernato anche il coro, che
interagisce con un disperato Falliero («Tu non sai qual colpo
atroce»). Sarà il senato a decretare l’innocenza del
protagonista; una struttura di governo elettiva ha così la
meglio sull’oligarchia del Consiglio dei Tre: temi illuministi
che nella Milano del Conciliatore (chiuso dagli austriaci pochi
mesi prima, dopo appena un anno di vita), animata da un
sotterraneo spirito liberale, trovarono una nuova
attualizzazione.
Dopo quest’ultima spedizione milanese, il ruolo istituzionale
come direttore musicale ricondusse Rossini a Napoli il 12
gennaio 1820 per attendere alla messinscena del Fernando
Cortez di Spontini, nella capitale borbonica autore ammirato e
ambito. Commissionata a Spontini in epoca napoleonica (la
prima parigina nel 1809), l’opera visse una seconda e lunga
vita a Restaurazione avvenuta; nella stessa Parigi sarebbe stata
rappresentata con continuità fino agli anni trenta, travalicando
le mutate condizioni di governo, nel segno di una tradizione
che presto si sarebbe intersecata con quella del grand opéra.
Il 28 febbraio 1820, quando la Colbran compiva trentasei
anni, moriva a Bologna Giovanni (Juan) padre di lei, un tempo
violinista alla corte spagnola ma da anni votato ad
accompagnare la figlia nei suoi trionfi e ad assecondare le sue
necessità. Il legame fra Isabella e Rossini, il cui avvio risaliva
più o meno ai giorni di Armida (1817), uscì fortificato
dall’evento luttuoso. Rossini si preoccupò da allora in poi
anche della gestione finanziaria dei beni della cantante e dopo
qualche tempo i due programmarono il loro matrimonio: a
cose avanzate, il 30 novembre 1821 Rossini avrebbe
comunicato alla madre i propri intenti attribuendo alla Colbran
anche un ruolo terapeutico, su entrambi i piani, morale e
fisico:2
eravi un essere che mi preparava L’avenire il più bello;
questi è La Colbran il di Cui cuore, e carattere mi anno
Legato di un nodo indisolubile voi ben sapete come ella
amava il suo buon Padre […] troppo dovrei dirvi se volessi
descrivervi le obligazioni ch’io ho a questa donna, dirovvi
il più Interessante: da poi ch’io mi sono dato a lei non ebbi
malatie di niun genere. Cambiai un Caratere Impetuoso nel
più dolce, ero inesatto in tutto, ora inapuntabile […]3
Nel frattempo, circa a primavera Rossini, che mai perse
d’occhio le occasioni che gli giungevano da fuori Napoli e che
da ora in poi sembrano interessarlo anche di più, accettò di
scrivere un’opera per il Teatro del Giglio di Lucca, a lui
proposta per dare lustro alla stagione estiva del 1820. Maria
Luisa di Borbone, al culmine di un progetto restaurativo
antinapoleonico, finalizzato a rimuovere il ricordo della
reggenza di Elisa Bonaparte, lo lasciava libero di scegliere il
soggetto e lo autorizzava a servirsi di un librettista
napoletano.4 Il progetto tuttavia tramontò (doveva forse
trattarsi di un Alfonso, re di Castiglia) sgombrando il campo a
incarichi successivi, il primo dei quali, per la quaresima,
giunse al compositore in modo abbastanza inatteso
dall’Arciconfraternita di S. Luigi di Napoli che gli
commissionò una Messa di Gloria da eseguirsi il 24 marzo,
festività della Beata Vergine Addolorata, nella chiesa di S.
Ferdinando, presso il Palazzo Reale, con la partecipazione di
cantanti della Real Cappella e del San Carlo: il castrato
Tarquinio, i tenori Rubini e Ciccimarra, i bassi Benedetti e
Ambrosi.5 Costituita dai soli Kyrie e Gloria, si sarebbe potuta
avvalere all’occorrenza del canto gregoriano e dell’organo per
il completamento di ordinarium e proprium (rispettivamente le
parti fisse e variabili della celebrazione liturgico-musicale).
Rossini si trovò così ad affrontare un genere che, una volta
intrapresa la carriera di operista, aveva accantonato e che
recupererà anche più oltre, cessata quella, con composizioni di
alto profilo. Le due sole parti non debbono essere sottostimate:
la dotazione minima di testo che caratterizza il Kyrie lascia
alla musica il compito di espandere temporalmente il brano
con soluzioni tutte da trovarsi, ed è perciò un cimento
ragguardevole per il compositore ottocentesco che non ha più
solo a disposizione la convenzionale opzione polifonica; il
Gloria viceversa dispone di un testo ampio e articolato che,
suddiviso in sezioni interne, rende possibile una molteplicità di
approcci di brano in brano.
La questione estetica sollevata dalle composizioni sacre di
quel periodo consiste nell’affinità fra il genere ecclesiastico e
quello secolare, che nel corso dell’Ottocento suscitò
polemiche a non finire da parte di quanti ritenevano che in
chiesa non dovessero risuonare marce teatrali (qui all’attacco
del Gloria, annunziato dal clangore degli ottoni) o cabalette
(nel «Laudamus» e nel «Qui tollis – Qui sedes»), e
deploravano più in generale tutto ciò che apparisse frutto di
contaminazioni con lo stile comico corrente (il «Quoniam tu
solus», che si avvale del clarinetto obbligato assieme alla voce
di basso, si direbbe ad alleggerirne la connaturata gravità). I
nove numeri predisposti da Rossini mostrano tuttavia un
ingegnoso eclettismo. Si constatano certamente punti di
contatto con la musica teatrale: nel «Kyrie», che comincia alla
maniera di una introduzione di teatro (serio stavolta), nel già
menzionato impiego di strumenti concertanti (il corno inglese
del «Gratias», il clarinetto del «Quoniam»), e negli interventi
del coro, il quale nella Messa raffigura una collettività non
dissimile da quella di tante tragedie musicali (vedi il
memorabile e dolente «Qui tollis peccata mundi», prima
dell’attacco del tenore che reintroduce un esuberante modo
maggiore). Ma a fianco delle tipologie teatrali si guarda anche
alla lunga tradizione del mottetto a voce sola («Laudamus»),
allo stile sacro viennese («Domine Deus») o allo stile
osservato (nel fugato conclusivo del «Cum Sancto Spiritu»,
frutto della collaborazione con Pietro Raimondi, buon
contrappuntista). La questione della contaminazione
sacro/profano va quindi osservata con una visuale ampia. Più
che trattarsi di ammiccanti e intrusive imitazioni dello stile
teatrale in chiesa, ci si riconduceva nella musica italiana di
quegli anni a una koinè linguistica trasversale che abbraccia i
diversi generi; affinità con la musica teatrale si rinvengono del
resto anche nella produzione vocale cameristica e nella musica
strumentale (sonate, concerti e sinfonie), senza che questo
determinasse alcuno scalpore dato il contesto privato,
accademico o teatrale di simili componimenti.
Archiviata questa occasionale escursione nel sacro e
annullato l’impegno estivo per Lucca, Rossini poté con
maggior agio dedicarsi all’opera autunnale per il San Carlo, la
sua penultima a Napoli, che patì tuttavia svariati rinvii prima
di essere rappresentata. Erano infatti mesi difficili a causa dei
primi moti carbonari, esplosi a inizio luglio con la diserzione
di Morelli e Silvati e il sostegno del generale Guglielmo Pepe,
del magistrato Giustino Fortunato e di altri uomini già
inquadrati nell’establishment borbonico ma affiliati alla
carboneria. Senza rovesciare la reggenza, l’obiettivo era quello
di procurare per Napoli una forma di governo costituzionale
ispirato al modello della Spagna, dove la costituzione era stata
promulgata nel 1812 e ripristinata dopo una lunga interruzione
giusto nel 1820. In agosto fu effettivamente eletto il
parlamento; ebbe però vita breve e venne soppresso dagli
austriaci, a sostegno dei Borbone, l’anno successivo. La
costituzione fu sospesa e furono sconfitte le residue truppe
rivoluzionarie. I dipendenti della corte, fra cui più
indirettamente Rossini, seguirono con comprensibile sgomento
il rapido succedersi degli eventi.
Il Maometto secondo, andato in scena il 3 dicembre 1820,
nacque quindi in circostanze singolari e registra forse il
disagio di quei mesi nei temi (di per sé universali) della difesa
della patria e del tributo di sangue pagato dal popolo, il tutto
realizzato a tinte veementi. Come nel caso di Berio di Salsa, il
librettista Cesare della Valle, duca di Ventignano (1776-1860),
padre di Francesco Saverio – amico di Donizetti e di Pacini – e
nonno del patriota e filantropo Alfonso, non fu librettista di
professione bensì autore tragico che con lavori quali Ippolito,
Ifigenia in Tauride o Medea si schierò fra quanti
caldeggiavano la rinascita del teatro tragico italiano sul
modello dei classici greci, di Maffei e di Alfieri, rivendicando
maggiore autonomia dal teatro francese che orientava i gusti
della produzione tragica (e operistica) da più di mezzo secolo.
Poligrafo ed educatore, nonché provvisto di una bizzarra fama
di iettatore che contribuì ad accrescerne se non il successo
almeno la notorietà, ricavò il libretto per Rossini dalla sua
tragedia Anna Erizo, a quanto pare pubblicata successivamente
al libretto rossiniano (Roma 1826). L’idea fu quella di
importare nel teatro melodrammatico un impianto tragico,
secondo la linea già percorsa nel Settecento da autori
filotragici come Marco Coltellini o Alessandro Pepoli.
Rispetto alle produzioni routinarie, “economiche” e smaliziate
di librettisti di professione come Rossi, Romani o Tottola,
dove sulla base della tradizione e delle “convenienze” già si
profilano le strutture musicali che spetterà al compositore
sviluppare, nel Maometto secondo vi è abbondanza di
endecasillabi tragici e di versi sciolti cui è affidata
l’imbastitura di lunghi dialoghi (si vedano le “scene” di I,II,
I,IV-V, II,II-IV), o inframezzati in modo inusuale a strutture
strofiche; ma anche i versi lirici sono raccolti in strofe pingui e
verbose, prendendo a modello i monologhi e le tirades del
teatro tragico. Sul Giornale Costituzionale del Regno delle
Due Sicilie (6 dicembre 1820) si scorse nel Maometto secondo
un riuscito tentativo di mediazione fra il Metastasio e Alfieri.6
Sei soltanto i personaggi, coinvolti in vicende risalenti a
circa il 1470, al tempo dell’attacco ottomano alla colonia
veneziana di Negroponte (l’antica Eubea). Manca un reale
antagonista: il doloroso intreccio dell’opera appare frutto di
circostanze sfavorevoli, fra le quali il conflitto insanabile fra
amore e dovere determina l’epilogo. Anna (soprano, Colbran),
figlia del provveditore veneziano e comandante della rocca
Paolo Erisso (tenore, Nozzari), ama un nobile che lei conosce
per Uberto di Mitilene. Il padre invece la destina in sposa al
giovane condottiero veneziano Calbo (contralto, Adelaide
Comelli, nata Chaumel) per assicurarle sostegno in tempo di
assedio. Maometto secondo (basso, l’onnipresente Galli) fa
prigionieri il padre e il promesso sposo e chiede in cambio la
mano di Anna, che lo ha già incontrato sotto mentite spoglie
(come Uberto). Anna si trova quindi a essersi
inconsapevolmente legata al nemico della patria: gli chiede la
salvezza del padre e di Calbo, che spaccia per suo fratello
nell’intento di sottrarlo alla vendetta del sultano, ma viene
ripudiata dal padre Erisso, che non accetta lo scambio e si
avvia al supplizio. Il registro di basso assegnato a Maometto
denota autorevolezza e potere, ma anche amore impossibile:
l’amore possibile e “giusto” nei confronti di un soprano
pertiene in questi anni al contralto; ma quello di Anna e Calbo
è pure un amore impossibile perché Anna non corrisponde i
suoi sentimenti, anche se gli si destina per gratitudine e spirito
di sacrificio. Da qui un conflitto di affetti cristallizzato in una
vistosa asimmetria vocale. Nel secondo atto il musulmano si
manifesta in tutta la sua orgogliosa generosità e invita senza
successo Anna ad acconsentire al connubio con lui, donandole
un anello come salvacondotto; lei se ne servirà per garantire la
salvezza a Erisso e Calbo, per poi pugnalarsi a sipario aperto,
accerchiata dai musulmani.

Partitura autografa della Sinfonia di Bianca e Falliero, 1819;


Milano, Archivio Storico Ricordi

Della Valle non affronta il tema del fanatismo religioso di


volterriana memoria né ovviamente quello del turco generoso,
consono a soggetti comici, e anche lo sfondo storico è appena
abbozzato (il che renderà più semplice la riconfigurazione
francese del dramma in Le siège de Corinthe, 1826);
l’imposizione paterna in funzione del matrimonio di Anna con
Calbo ha una finalità protettiva ed è vissuta con intima
lacerazione da Anna, ma anche con senso del dovere verso la
patria e gli affetti. Come sottolinea Fabrizio Della Seta, al
gesto accondiscendente di lei non corrisponde il ristabilimento
di un ordine morale e sociale; il suicidio di Anna si presta
infatti a tre possibili letture: come atto di eroismo patriottico,
come punizione dell’amante che l’ha ingannata tacendo le
proprie origini, come punizione che l’eroina infligge a sé
stessa.7 In ogni caso l’unione riparatrice non la salva e ciò è
sintomatico di quanto l’istituto matrimoniale, anche di fronte a
una figura positiva come Calbo, non fosse percepito come un
porto sicuro e non servisse a evitare la tragedia, se tragedia
dev’essere.
Quale che fosse la sua intrinseca motivazione, il finale
tragico non era più una novità, ma neppure una consuetudine
come in epoca donizettiana-verdiana: fu forse uno dei motivi
dello scarso successo dell’opera (si vedano anche le
perplessità suscitate dall’epilogo luttuoso di Otello e il fiasco
della cupa Ermione) e determinò la conversione a finale lieto
che Rossini predispose per la ripresa veneziana del carnevale
1822, quando la vittoria dei veneziani e la salvezza del gruppo
famigliare furono celebrate con l’imprestito del rondò finale
della Donna del lago («Tanti affetti in un momento»). Ma la
mossa non valse il successo neppure in quell’occasione,
giacché il pubblico veneziano al Maometto secondo preferì il
ballo Adelaide di Guesclino di Francesco Clerico, tratto da
Voltaire e dato nella stessa serata. Lapidario il commento sulla
stampa locale: «era naturale che tanto maggiore destasse
interesse [il ballo] quanto più avea ributtato il superbo e
crudele musulmano»;8 a Venezia fu forse più difficile che a
Napoli accettare Maometto come potenziale amante di Anna,
per motivi non troppo dissimili dalla ripugnanza che aveva
causato il moro Otello, “sbiancato” nell’occasione da
Tacchinardi.
Per quest’opera, profittando di un libretto imponente anche
negli interventi dei singoli personaggi, Rossini concepisce
alcuni dei numeri più innovativi della sua produzione seria.
L’introduzione, preceduta non da una sinfonia ma da un
preludio coerente con quanto segue, diffonde un tono epico
sull’imminente scontro fra veneziani e musulmani, che si
prefigura come un’ecatombe. Dalla cornice corale si staccano
Erisso, Condulmiero e Calbo con sezioni ampie e
retoricamente connotate fino al solenne giuramento di fedeltà
(«Sì, giuriam sugl’itali brandi»). Quasi subito attacca la
palpitante cavatina di Anna, uno dei pochi brani misurati con
le sue due strofe di quattro ottonari («Ah! che invan sul mesto
ciglio», I,II, N. 2), saldata a sua volta alla Scena e terzettone
(ancora I,II, N. 3) in cui si materializzano i timori da lei
prefigurati nel brano precedente, ossia il confronto col padre
con in seno il tormento degli «occulti strali» di un amore che
non può rivelare apertamente e che la costringe a una scelta
penosa quando le viene proposto di sposare Calbo, che la ama
e potrebbe difenderla dal nemico. Con arcate drammatiche
ampie e temporalmente dilatate, già dai primi tre numeri (e
senza la partecipazione del personaggio eponimo) si definisce
la trama di un dramma privato che assume una valenza
famigliare prima e in secondo luogo patriottica. Dalla
rivelazione dell’amore per “Uberto”, resasi necessaria dopo il
serrato confronto nella scena iniziale, scaturisce il concertato
di stupore a tre voci posto a capo del terzettone, numero di
dimensioni abnormi e suddiviso al suo interno in modo
inconsueto e strategico. Lo schema seguente ne ricapitola la
struttura:

RIFERIMENTI PERSONAGGI CONTENUTI


TESTUALI
E TIPOLOGIA DRAMMATICA

a «(Ohimè! qual – Erisso, Anna, Calbo Attacco congiunto, poi entrate


fulmine)» – Concertato in canone su due quartine
«(Conquisa cadauno. Sospensione
l’anima)» (I,II) temporale

b «Dal cor – Erisso Inizio di un colloquio


l’iniquo – Anna chiarificatore fra Erisso e
affetto» Anna, interrotto da «lontano
(avvio di un tempo di colpo
«Figlia mi
mezzo) di cannone»
chiami
ancor?…»

c «Che – Recitativo di Anna Sorpresa e invalidazione della


avvenne?… progressione drammatica
oh Dio!… Lo prima avviata
strepito»
Se
gu
e
d «Misere!… or … «lontano tumulto Battaglia in atto. Panico delle
dove… della battaglia», «colpi donne, inquietudine di Anna.
ahimè!» di cannone» e «scariche Un traditore ha aperto
«Donne, che di moschetti», poi le porte della fortezza
sì piangete» – Coro
(I,III)
– Anna
(nuovo tempo d’attacco)

e «Giusto Ciel, – Preghiera di Anna, Nuova astrazione temporale.


in tal periglio» replicata dal Coro di Struttura responsoriale fra
donne (cantabile) Anna e Coro. Rullo di tamburo
alla conclusione del brano

f «Ahi, padre! – – Anna, Erisso Si comunicano


(Oh vista!) – (recitativo) il tradimento e la probabile
Ad sconfitta
abbracciarti io
torno»

g «Figlia… mi – Erisso Brusco commiato


lascia. Io – Anna e Coro di Erisso da Anna
volo»
(avvio di una cabaletta)
«E in tal
periglio e
duolo»

h «Mira, signor, – Calbo (nuovo Supplica di Calbo, cui si


quel pianto» cantabile) associa Anna, commozione di
«Vedrai su – Anna Erisso
quella mura» /
– Erisso
«Padre, ti – Coro
muova il
pianto»
«Indarno or
voi piangete»
«C’invola al
rio periglio»

i «Partiam, – Erisso, Anna Erisso si accommiata da Anna


guerrieri… (parlante a guida e la istiga al suicidio se
Addio» orchestrale) catturata

l «Dicesti assai. – Anna Manifestazioni di turbamento


T’intendo» individuale. Congedo collettivo
«(In sì crudel – Erisso sostenuto da dettagliata
momento)» azione pantomimica
– Calbo
«(In sì crudel – Coro
momento)»
(stretta finale)
«(A sì funesta
scena)»

Librettista e compositore progettano una forma a ondate


successive, stop and go, comprese in uno stesso numero. La
sezione a-b (concertato e dialogo di Anna col padre) lascia
presumere uno sviluppo consequenziale; interviene però un
fattore esterno, il colpo di cannone che segna l’inizio delle
ostilità, interrompendo l’azione intrapresa che infatti sfocia in
un convulso recitativo (c). Dopo questo reset che sollecita
l’attenzione dello spettatore, ha avvio un “nuovo” terzetto, con
proprio tempo di attacco (d) seguito da una Preghiera alla
stregua di cantabile: «Giusto Ciel», aria accompagnata
dall’arpa, succinta ma dalla straordinaria potenza espressiva, si
articola in segmenti melodici di corto respiro, come si addice a
un moto spontaneo dell’animo, a comporre un’unica ampia
melodia cui replica il coro in forma responsoriale, attingendo
allo stile del sacrodramma (e). Anche in questa seconda
macrosezione (c-g) intervengono elementi esterni a scandire e
talvolta riorientare i tempi drammatici. Gli effetti ambientali
della battaglia in atto e il panico delle donne distolgono Anna
dalla sua condizione affettiva (d); il rullo di tamburo e il
crescendo successivo soffocano la conclusione della preghiera
della protagonista (e-f). L’ultimo segmento ha la funzione di
una cabaletta ove si prospetta il brusco congedo del padre
dalla figlia (g); ma l’intervento di Calbo, che intercede per
Anna, ancora una volta allontana l’epilogo (anche a livello
dell’armonia tramite una delle frequenti transizioni per terze,
da Si a Sol maggiore): «Mira, signor, quel pianto» si profila
difatti come un nuovo cantabile, che coinvolge in un
commosso abbraccio i restanti personaggi (h). Solo dopo un
intenso parlante fra padre e figlia (i) si ha una sorta di
riconciliazione e quindi la stretta finale (l), nella tonalità
d’impianto del numero (Mi maggiore). In definitiva,
l’architettura drammatica del terzettone, distribuita su più
livelli, lo fa assomigliare a un finale primo per ricchezza di
articolazioni interne (ma siamo appena alle scene II-III
dell’atto, che ne contiene sei). Questa organizzazione a fuoco
multiplo induce l’ascoltatore ad ampliare o restringere la
propria visuale, dal campo lungo dell’azione militare al primo
piano del confronto famigliare: la progressiva intrusione nel
melodramma di una storia “dinamica” influente sulla vita dei
singoli passa anche da queste soluzioni.
La configurazione drammatica di Maometto, uno dei ruoli di
basso serio più complessi dell’epoca, è affidata a un ampio
ventaglio di situazioni fra loro antitetiche. La cavatina con
coro e banda di giannizzeri «Sorgete: in sì bel giorno» (I,IV,
N. 4) lo presenta in vesti ufficiali e vincente di fronte ai suoi
prodi, con tanto di cabaletta in tinta eroica; al secondo atto
l’aria con coro «All’invito generoso» (II,II, N. 8) riprende
questo stesso profilo. Il terzetto a «(Giusto Ciel, che strazio è
questo!)» ne svela gli aspetti più feroci al cospetto dei
prigionieri (I,V, N. 5), fierezza per altro attenuata nel finale
primo – congiunto al terzetto precedente – quando entra in
gioco Anna nel falso canone di «Ritrovo l’amante». Alla scena
e duetto con Anna in II,I-II (N. 7) il punto di non ritorno nello
svolgimento dell’opera: lo scollamento fra aspirazioni e
condizione individuale diviene marcato e definitivo per
entrambi i personaggi. Al tempo d’attacco Maometto si mostra
commiserevole di fronte alla commozione di lei, che lo ama
pur non potendone assecondare i desideri («Anna… tu piangi?
Il pianto»); il “vaneggiamento” della protagonista nel cantabile
«(Lieta, innocente, un giorno)» è commentato con sgomento
nell’“a parte” di lui «(A vaneggiar la misera)». Il tempo di
mezzo, con l’invito di Maometto a immaginarlo come Uberto
(ossia non più musulmano), li pone nuovamente a contatto
diretto («Anna, rispondi almeno»), ma la sezione è brevissima
e si conclude con la ripulsa di Anna («Ti scosta… (Oh Cielo, /
non tanta crudeltà)»). La stretta li allontana definitivamente
(«Gli estremi sensi ascolta»): ognuno ha da dire la sua, ma le
rispettive volontà non trovano un punto di incontro e i due non
cantano assieme se non convulsamente, in chiusa. L’epilogo
dell’opera sancisce il disfacimento delle aspirazioni
sentimentali di tutti i personaggi; assente in scena sin dalla
nuova chiamata alle armi del N. 8, Maometto vi ritorna al
termine del finale secondo appena in tempo per assistere
impotente e rabbioso al suicidio di Anna («Già fralle
tombe?… E presto ancor: di vita», II,ultima).
Opera di forti contrasti ideali e vocali, Maometto secondo si
distingue, come si è visto, per l’ampiezza e la coesione dei
suoi numeri ma anche per la pregnanza drammatica raggiunta
dalla componente musicale nelle sezioni in versi sciolti. Il
compositore avoca a sé con sempre maggiore risolutezza la
caratterizzazione drammatica di situazioni e personaggi in
ogni luogo del dramma. Un esempio per tutti al quadro del
sotterraneo con sepolcri (II,III). La raffigurazione “sublime”
della scena iniziale, che il libretto consegna a un cospicuo
numero di versi sciolti nel dialogo fra Erisso e Calbo, è
affidata sin dalla sinfonia introduttiva alla compagine
strumentale, in alternanza fra gli sferzanti incisi degli ottoni e
il suono languido del clarinetto: uno sfondo sonoro che
accompagna il cammino dei personaggi nell’oscurità,
interrompendo il flusso della recitazione e dilatando la
pantomima. Rossini amplifica così l’intera sezione, rendendola
“sonora” e concedendo ampio spazio alle suggestioni
ambientali più che alla declamazione melodica: la prima
dozzina di versi di Erisso, inframezzati agli interventi
orchestrali, occupa circa sei minuti. Alla vista della tomba
della moglie («Tenera sposa!») la reminiscenza dell’amore
trascorso si diffonde in un arioso assai strutturato, e l’effetto è
quello di un cantabile pur nello spazio esiguo di due emistichi,
anziché di una sezione in recitativo accompagnato; il tema
musicale assegnato al ricordo della defunta tornerà nella lunga
scena introduttiva del terzetto del N. 10, assumendo la
funzione di un penetrante leitmotiv («Madre… dal cielo in
questo cor tu leggi», II.IV). Sempre sul piano delle strutture
temporali, gli esigui quattro versi di quel terzetto, che decreta
l’unione matrimoniale riparatrice di Anna e Calbo («In questi
estremi istanti»), vengono triplicati dall’accumulo progressivo
di personaggi e il loro valore melodrammatico trascende così
la limitata dimensione poetica. Sono tutte misure che
riaffermano la progressiva conquista delle articolazioni del
testo librettistico – anche minime – da parte della musica.
Forse proprio a causa della sua complessità, la diffusione
dell’opera fu nell’immediato molto contenuta; si conoscono le
riprese di Venezia 1822 e Milano 1824, e poco più. A Venezia
le rielaborazioni furono importanti e interessarono, oltre al
finale, il profilo di alcune sezioni: Rossini vi recuperò anche
pagine da Ermione e da Bianca e Falliero, fra cui stralci del
quartetto «(Cielo, il mio labbro inspira)» a sostituire segmenti
del terzettone. Assai vivace invece il successo della traduzione
italiana dell’adattamento francese (1826): L’assedio di Corinto
circolò in Italia dal 1827 fino a metà secolo e oltre, forte anche
della sua approvazione internazionale e di una stesura più
moderna di quanto non lo fosse la prima versione, tipico
prodotto partenopeo per vastità di concezione, impegno
tragico e vocale.
All’indomani della messinscena del Maometto secondo
Rossini salì di nuovo a Roma, risparmiandosi così le fasi più
infuocate dell’insurrezione napoletana che ebbe esito, la
primavera successiva, nel ritorno di Ferdinando scortato dalle
milizie imperiali e nella revoca della costituzione. In quei
giorni il compositore era più blandamente alle prese col
carnevale romano a fianco di amici locali e di Pacini, che
decenni più tardi diede un vivace resoconto di quei giorni e del
travestimento «a foggia dei maestri antichi, vale a dire con
toga nera e gran parrucca in capo, alterando di poco con segni
neri e rossi le nostre fisionomie». Il gruppetto si esibì per le
vie di Roma cantando un coro dalla Festa della riconoscenza,
ossia Il pellegrino bianco, messa in scena al Teatro Apollo
appena rinnovato, autore la gloria locale Filippo Grazioli,
procurandosi il biasimo della folla nel sospetto si volesse
schernire il compositore romano (maestro di cappella in S.
Maria dell’Anima, chiesa di culto teutonico affiliata
all’Austria: dato il momento storico, la cosa potrebbe aver
urtato la suscettibilità dei presenti).9 Il giovedì grasso al
gruppo si aggiunsero anche Paganini e Massimo d’Azeglio, in
quel periodo a Roma per dedicarsi al disegno e alla musica; e
pure lo scrittore piemontese volle rievocare quell’episodio
carnevalizio nei suoi Ricordi postumi (1867).10
Niente quindi che potesse giustificare l’accusa mossa a
Rossini direttamente dalla Venezia asburgica, forse anche nel
ricordo dell’inno murattiano del 1815, d’essere «fortemente
infetto da rivoluzionarî principi»11 a causa dell’impiego di sue
musiche – e di chi altri sennò? – per un Inno di guerra
eseguito al San Carlo nel corso di manifestazioni patriottiche
(era il fatidico marzo 1821 e l’effimero parlamento napoletano
votava la dichiarazione di guerra all’Austria). Non vi furono
tuttavia conseguenze di rilievo: all’arrivo degli austriaci a
Napoli, pochi giorni dopo, Rossini provvide all’esecuzione
della Creazione di Haydn come segno di buona accoglienza
nei confronti delle truppe imperiali (10 e 12 aprile 1821, solisti
Colbran, Rubini, Nozzari e Benedetti).
Baldoria carnevalizia a parte, a Roma Rossini era giunto
soprattutto per l’ennesima commissione locale, il melodramma
giocoso Matilde di Shabran, ossia Bellezza e cuor di ferro su
testo di Ferretti (Teatro Apollo, 24 febbraio 1821, con la
collaborazione di Pacini e la concertazione di Paganini in
sostituzione del primo violino ammalato). Derivata tramite
svariate intermediazioni librettistiche dalla commedia in versi
Euphrosine et Coradin, ou Le tyran corrigé di François-Benoît
Hoffmann per la musica di Étienne Nicolas Méhul (1790),
apprezzata da Berlioz ancora a pieno Ottocento, per le
tematiche svolte la nuova e ultima per Rossini opera romana
oscilla fra il semiserio postrivoluzionario a tinte fosche,
localmente molto apprezzato, e il comico giocoso di
tradizione, con netta prevalenza di elementi buffoneschi spesso
divaganti rispetto all’ossatura del dramma. C’è il castellano
crudele (come in Torvaldo e Dorliska); la primadonna
smaliziata e abile a perseguire i propri obiettivi come
nell’Italiana; l’incarceramento politico di Edoardo come nel
filone à sauvetage; la paura semiseria del contadino Egoldo
all’ingresso del castello (introduzione); la sfida fra gran dame
per invidia (in I,VIII Contessa contro Matilde, la quale sedurrà
il tiranno facendolo recedere dalla sua misoginia), frequente
nel dramma giocoso; l’omicidio poi sventato della primadonna
per vendetta come nell’Inganno felice (farsa di taglio
semiserio); il pirotecnico rondò di chiusura, con tripudio
collettivo e trionfo dell’amore, come in Cenerentola. Scritta in
fretta e furia con l’aiuto di un anonimo per i recitativi e di
Pacini per alcuni numeri del secondo atto, nonché ricorrendo a
svariati autoimprestiti da recenti partiture di genere serio
(Ricciardo e Zoraide, Eduardo e Cristina e La donna del
lago), l’opera – lunghissima, fra l’altro, e con numeri
amplissimi come spesso avviene nelle opere rossiniane di
quegli anni – rispecchia un approccio compositivo diverso dai
recenti cimenti napoletani, calibrati ad hoc e tutti ben
ponderati riguardo alla tipologia drammatica di riferimento. Si
trattò nel presente caso di confezionare un prodotto eclettico e
che piacesse per quel che doveva piacere; e ci riuscì, almeno
in prospettiva. Se la prima fu turbata nel primo atto dalla
faziosità di clan riconducibili a teatri in eterna concorrenza,
riuscendo però a mettere d’accordo il pubblico nel secondo
(grazie anche alla carismatica figura di Paganini, cui spettò
anche di sostituire il cornista, pure ammalato, eseguendone gli
assoli alla viola), l’opera marciò sicura nei teatri maggiori e
minori per molto tempo ancora. Riapparve alla Fenice di
Venezia nel 1867 e al San Carlo nel dicembre 1869, in una
ripresa postuma con carattere di commemorazione a circa un
anno di distanza dalla morte di Rossini, e fu a quanto pare
l’ultima messinscena prima dei recuperi moderni. La ripresa
più significativa (snellita e ridotta pressoché solo ai pezzi
rossiniani) avvenne al napoletano Teatro del Fondo,
nell’autunno 1821, con la parte di Isidoro tradotta in dialetto
per la gloria locale Carlo Casaccia e la presenza di cantanti che
Rossini conosceva bene come Girolama Dardanelli (Matilde),
Adelaide Comelli (Edoardo), Giovanni David (Corradino, al
posto del più oscuro Giuseppe Fusconi che tenne a battesimo il
ruolo) e Michele Benedetti (Ginardo). I recensori della
messinscena romana, con una punta di gelosia, avanzarono il
dubbio che Rossini avesse scritto le parti vocali avendo già in
pectore la messinscena partenopea.12
L’opera è stata più volte rappresentata al Rossini Opera
Festival di Pesaro: nel 1996 con la regia di Pier’Alli e la
consacrazione internazionale di Juan Diego Flórez, nel 2004 e
nel 2012 con la regia di Mario Martone. Sugli scudi il
personaggio di Corradino, tenore dalla tessitura acutissima e
fra le parti tenorili più impegnative scritte da Rossini, anche
per la continuità della sua presenza in scena, in cui si dà
mostra di un virtuosismo estremo alternato a intenerimenti da
ruolo amoroso.
Il progetto coniugale che andava definendosi in quei mesi fra
Rossini e la Colbran fu uno degli elementi che distolsero il
compositore dalla routine napoletana ma non l’unico,
rendendo traballante quello che era stato il suo baricentro
operativo negli ultimi cinque anni. Nell’estate del 1821,
cessati i moti per intervento degli austriaci, lo spettacolo
d’opera intrecciò le sue sorti fra Napoli e Vienna grazie al
vivace interessamento del cancelliere Klemens von
Metternich, da sempre ammiratore di Rossini, che
nell’occasione del sostegno offerto alla corona borbonica
riuscì a ottenere in cambio una trasferta dell’opera sancarlina
verso la capitale imperiale. Barbaja seppe trarne diretto
beneficio e prese in carico da quell’autunno le imprese del
Kärntnertortheater e del Theater an der Wien. Il sistema dello
spettacolo napoletano era stato fra l’altro pesantemente
danneggiato appena dopo Maometto secondo dalla risoluzione
del governo costituzionale, datata 21 dicembre 1820, con cui si
decretava l’abolizione in tutto il Regno del gioco d’azzardo.
Un provvedimento non abrogato al termine di quella breve
fase politica; il governo borbonico dovette quindi risarcire
Barbaja delle perdite subite. Nel frattempo, pure lui alla
ricerca di nuovi territori professionali, Rossini rafforzava il
legame con l’impresario Giovanni Battista Benelli nella
speranza di approdare ai teatri londinesi.
I viaggi a Vienna, Parigi e Londra si sarebbero concretizzati
ben presto (i primi di Rossini fuori dalla penisola, ma come
già era capitato a Haydn la sua musica lo aveva preceduto). Le
incombenze partenopee di quei mesi, gestite con oculatezza,
furono un compromesso fra le ragioni della diplomazia e le
nuove opportunità che si andavano prefigurando. L’incipiente
stagione del carnevale del 1822 venne annunziata da una breve
cantata pastorale a cinque voci, La riconoscenza, eseguita il 27
dicembre alla presenza della famiglia reale e dedicata anche
come compensazione alla duchessa Maria Luisa di Borbone,
che l’anno precedente avrebbe voluto per Lucca un’opera
rossiniana. Il poeta napoletano Giulio Genoino (1773-1856),
un tempo giacobino e autore di un’ode a Murat nonché di
alcuni libretti d’opera, confezionò un’azione secondo i dettami
della festa teatrale di vecchia scuola, con balli analoghi, coro e
azione coerente al profilo e alla biografia della dedicataria e
ambientata nella campagna di Lucca. Rossini lascia affiorare
nella partitura tracce della sua produzione recente e meno
recente, spaziando dalle atmosfere idilliche del Tancredi alla
rievocazione della Donna del lago nelle scene II e III con
accompagnamento di arpa e strumenti pastorali; i panni di
Fileno li indossò Rubini cui fu destinata una delle arie di
spicco («In giorno sì bello»), quelli di Melania la Comelli,
entrambi già cantanti rossiniani. Tenore e soprano erano
convolati a nozze nel marzo precedente; come talvolta
avveniva nello spirito di un consenso diffuso, all’encomio
dinastico si era associata l’autocelebrazione di autore ed
esecutori.
Il congedo da Napoli avvenne però con un’opera di altro
respiro e dotata di carattere studiatamente ambivalente.
Quando Rossini compose Zelmira, su testo di Tottola, sapeva
già che dopo il debutto al San Carlo del 16 febbraio 1822 la
nuova partitura sarebbe stata inscenata più o meno con lo
stesso cast a Vienna. Fu quindi un’opera di addio ma al tempo
stesso un lasciapassare verso la consacrazione viennese, a tutti
gli effetti uno dei momenti più significativi del suo percorso
umano e artistico. Il canale consisteva ancora una volta in un
asse politico-dinastico – quello fra Borbone e Asburgo – che
avrebbe costituito l’oggetto primario di scontro nell’incipiente
Risorgimento ma che per Rossini rappresentava una garanzia
di continuità professionale.
Mettere d’accordo Napoli e Vienna, in quanto a gusti e
orientamenti drammatici, non fu impossibile. Sul piano del
registro stilistico si scelse il taglio tragico che aveva
contraddistinto la recente produzione musicale di Rossini per
Napoli, con aperture a forme ampie, ispirate alla continuità
drammatica e dotate di significativi apporti corali. La scelta
del soggetto cadde su Zelmire, tragedia di lieto fine in cinque
atti di Dormont de Belloy (1727-1775) data il 6 maggio 1762
alla Comédie-Française e già nota anche in Italia tramite
diverse traduzioni, una delle quali pubblicata nella popolare
raccolta Il teatro moderno applaudito (vol. 38, 1799,
traduttore Alessandro Zanchi). Di sicuro non un testo
prerivoluzionario nei contenuti (de Belloy era considerato
imitatore del Metastasio e Chénier lo riteneva un umile
servitore delle corone), bensì riconducibile al tema
dell’usurpazione e del giusto reinsediamento sul trono,
comune ad altre opere di quel periodo sulla base di numerosi
antecedenti settecenteschi.
Macchinosa e ridondante, la vicenda non migliorò dopo la
riformattazione di Tottola. Polidoro, anziano re di Lesbo e
padre di Zelmira (alla prima il basso Antonio Ambrosi, già
Podestà della Gazza ladra), vive nascosto nel mausoleo dei re
per sfuggire alla persecuzione di Azor, signore di Mitilene, che
si è appropriato indebitamente del trono; nell’originale
Polidoro è nutrito al seno dalla figlia: ma la cosiddetta caritas
romana non fu prevista a Napoli per motivi di censura. Il
traditore è però a sua volta tradito e ucciso prima dell’inizio
dell’opera da Leucippo (basso, Michele Benedetti), che
appoggia Antenore per la successione al trono (tenore
baritonale, Nozzari). Il progetto cospiratore è volto a
addossare a Zelmira (soprano, Colbran) l’omicidio di Azor ma
anche una sorta di parricidio, giacché il tempio di Cerere, che
Zelmira aveva dichiarato essere il rifugio del padre (mentendo
per depistare le ricerche), era stato distrutto. Al ritorno di Ilo,
marito di Zelmira (tenore contraltino, David), costei deve
difendersi dalle ingiuste accuse. In una concitata scena del
finale primo, volendolo proteggere dalla mano omicida di
Leucippo, è accusata anche del tentato omicidio del marito.
Nel secondo atto, liberata dal carcere, conduce
inconsapevolmente i suoi avversari al vero rifugio del padre.
Catturati entrambi e condotti nuovamente ai ceppi, saranno
liberati da Ilo e dal suo esercito; Polidoro riavrà così il suo
regno e Zelmira la sua famiglia. Nette le simmetrie fra
l’architettura famigliare (in piccolo) e quella del regno (in
grande); l’una si fa garante dell’altra.
Anche in questo caso l’assunto restaurativo non implica una
partitura conservativa; Zelmira, come tanta musica rossiniana,
cerca un punto di equilibrio fra convenzione e innovazione
senza stavolta ricorrere in modo significativo
all’autoimprestito. Occorreva pianificare un’uscita di scena
onorevole, al riparo dal rischio di esperimenti troppo azzardati
e aprendosi al tempo stesso e con pari dignità a un mercato
estero molto esigente dal punto di vista della qualità musicale;
di qui la ricchezza armonica di Zelmira, che fu letta da
Stendhal e da altri anche in chiave germanica. La
drammaturgia assume un taglio moderno fin dall’attacco
bruciante. Dopo un intenso preludio di poche battute non
figura, per esempio, quella ormai abusata «proemial
cerimonia», ossia una statica introduzione corale, dispositivo
poetico-musicale che Carlo Ritorni giudicava fra i più
antidrammatici dell’opera di quei tempi.13 Il coro pronunzia
solo sferzanti incisi riferiti all’omicidio di Azor, che
immettono lo spettatore nell’azione in modo fulmineo. Si
identifica da subito anche il traditore: la montatura di
Antenore, che finge costernazione («Che vidi! amici! oh
eccesso!»), è svelata dagli interventi del clarinetto solo,
strumento insinuante e ironico con cui si allude al
mascheramento di una realtà sottaciuta; a conferma di ciò, la
cabaletta successiva, in “a parte”, «Sorte! secondami!», si
contrappone agli inserti corali di buon auspicio («Sì, regna, o
principe»). Il primo segmento solistico di spicco, compreso
nell’introduzione, spetta quindi all’antagonista, tenore (ma
baritonale, qui una prefigurazione del baritono vero e proprio),
che fa cadere in inganno il popolo. L’atto politico del
tradimento e del complotto è quindi collocato al primo posto
nella successione degli eventi drammatici. Zelmira esordisce a
I,II, in recitativo e senza cavatina, e subito cede la scena a
Polidoro («Ah! già trascorse il dì…», I,III, N. 2): si ricerca la
continuità drammatica piuttosto che la valorizzazione di
“nicchie” vocali isolate; Zelmira è difatti recuperata nel
successivo terzetto, con Polidoro ed Emma («Soave conforto»,
N. 3), in una scena del sotterraneo che giunge anzitempo
rispetto alla prassi.
Le zone d’ombra sono valorizzate più delle certezze: di Ilo,
che torna dalla guerra a ritrovare gli affetti e la patria, è
confezionato un ritratto vocale sgargiante ma assai
convenzionale a I,V (cabaletta con coro «Terra amica, ove
respira», N. 4), utile a marcare il registro contraltino di David
rispetto a quello baritonale di Nozzari (Antenore). Chi torna in
patria è sempre all’oscuro di ciò che l’aspetta; Ilo lo resta
anche al successivo duetto con Zelmira, «A che quei tronchi
accenti?» (I,VI, N. 5), perché non riesce ad appurare i motivi
del turbamento di lei. Il duetto è però attraversato da una
inquietudine premonitrice che troverà sfogo a I,VII, quando
anche Ilo sarà tratto in inganno da Antenore che lo convincerà
della colpevolezza della sposa. Nella cavatina «Mentre qual
fiera ingorda» (I,VII, N. 6), sostanzialmente un’aria di paragone
vecchio stile, Antenore ostenta attraverso ardimentose
colorature un potere che detiene in modo fraudolento. Le
situazioni sono concatenate in modo serrato così da
determinare una intensificazione drammatica progressiva, e
anche melodie lunghe come quella dell’Andante del duettino
N. 7 di Zelmira ed Emma, con corno inglese e arpa, sono un
sintomo della ricerca di continuità.
Le menzogne e gli imbrogli orditi da Antenore costituiscono
il motore dell’opera e Zelmira è la vittima designata di un
intreccio che verte però soprattutto sull’abuso di potere. Nel
finale primo si mette in scena un’incoronazione contraria al
diritto divino perché ad ascendere al soglio è l’usurpatore
Antenore, con pieno consenso di guerrieri, popolo e sacerdoti.
Ne derivano altre violenze: Zelmira è condannata a morte per
avere attentato alla vita di Ilo (ma tentava soltanto di
proteggerlo da Leucippo); il concertato di stupore («La
sorpresa… lo stupore») e il crescendo conclusivo non
apportano niente di nuovo per la comprensione della trama –
la posizione di Zelmira è ormai ben chiara –, ma replicano un
canone che si intende mantenere perché teatralmente efficace.
Il culmine di un intrigo concepito come un imbuto senza
possibilità di risalita, e senza veri colpi di scena fino al
dénouement, è raggiunto in II,IV-V nel quintetto «Ne’ lacci
miei cadesti» con il ritrovamento fortuito di Polidoro,
inconsapevolmente tradito da Zelmira. Di grande interesse il
cantabile «(Ah! m’illuse un sol momento)», in cui i gruppi
contrapposti Zelmira/Polidoro vs Antenore/Leucippo, con la
voce isolata e costernata di Emma, condividono una stessa
struttura musicale, fluttuante su un andamento di terzine che
sostiene tanto gli afflitti quanto gli aguzzini, a «(Più del fato io
non pavento)», in piena condivisione di motivi e dinamiche. Si
tratta di una opzione comune nel melodramma di Sette-
Ottocento qualora il contrasto fra personaggi sia mantenuto
sotto traccia e affidato, come in questo caso, ad “a parte”
contrapposti che danno modo ai singoli personaggi di sfogare
individualmente (seppure simultaneamente) i rispettivi stati
d’animo. Rossini non manifesta qui o altrove alcuna vocazione
descrittiva o imitativa e diffida per principio di una musica che
si prefigga di rispecchiare minuziosamente caratteri e
sentimenti individuali. Lo confermano alcune sue
dichiarazioni, molto citate e attendibili, mutuate dal comune
sentire dell’epoca (forse su influenza di Schopenhauer) e
rilasciate anni dopo al giurista e politico Antonio Zanolini:
«La musica non è un’arte imitatrice, ma tutta ideale quanto al
suo principio, e, quanto allo scopo, incitativa ed espressiva».14
Più diffusamente:
mentre le parole e gli atti esprimono le più minute e le più
concrete particolarità degli affetti, la musica si propone un
fine più elevato, più ampio, più astratto. La musica allora
è, direi quasi, l’atmosfera morale che riempie il luogo, in
cui i personaggi del dramma rappresentano l’azione. Essa
esprime il destino che li persegue, la speranza che li anima,
l’allegrezza che li circonda, la felicità che li attende,
l’abisso in cui sono per cadere; e tutto ciò in un modo
indefinito, ma così attraente e penetrante, che non possono
rendere né gli atti né le parole [miei i corsivi].15
Questa tendenza all’astrazione è uno dei motivi del successo
conseguito dalla musica rossiniana. Lontana da
caratterizzazioni troppo specifiche, è concepita per essere
riusata e rielaborata, rieseguita e riascoltata. Fedele a un ideale
incorporeo di bellezza, la sua musica ha uno spettro semantico
troppo ampio per esaurirsi in singoli personaggi o situazioni e
si presta invece a espandersi (anche di opera in opera)
abbracciando condizioni diverse; universale più che specifica.
Si pensi al caso delle colorature, elemento così peculiare della
scrittura di Rossini: registrano una perturbazione dell’animo o
in certi casi l’enfatizzazione di un messaggio diretto a un
destinatario. Ma di per sé non dicono niente sulla natura di
quel sentimento o di quel messaggio, se sia tragico e lieto,
tremebondo o esultante: anche in questo risiede l’adattabilità e
la persuasività del linguaggio rossiniano.
Il successo arrise da subito alla nuova opera di Rossini –
ritenuta dalla stampa locale superiore anche alle sue migliori
passate produzioni –, tanto da fargli trascurare le altre
incombenze napoletane quali l’allestimento della citata Atalia
di Mayr. Donizetti, che seguiva i preparativi per conto del suo
maestro, gli riferiva il 4 marzo 1822 che Rossini «lagnavasi
Gesuiticamente coi Cantanti, che non la eseguivano bene, e
poi alle prove d’orchestra stava la chiacchierando colle prime
donne invece di diriggere».16 Ciononostante, il 6 marzo in
occasione di una ripresa di Zelmira Ferdinando I si premunì di
manifestare ufficialmente il suo plauso al compositore e agli
interpreti, forse anche per accomiatarsi da quel gruppo di
artisti che aveva rinnovato i fasti dell’opera sancarlina. Non è
chiaro se a Napoli avessero ben compreso che almeno per
Rossini e Colbran si trattava di un addio. Del resto di Rossini a
Napoli mancò da allora in poi soltanto la presenza fisica: la
stampa locale continuò a inseguirlo a lungo attraverso le sue
peregrinazioni europee;17 le opere più importanti e soprattutto
le opere napoletane verranno riproposte con granitica
regolarità negli anni a venire, in base a quel concetto di
repertorio che proprio in quest’epoca si va costituendo grazie a
Rossini. Dopo Zelmira, partito Rossini, nello stesso 1822 al
San Carlo si presentarono Elisabetta regina d’Inghilterra,
l’opera del battesimo partenopeo (14 aprile, con quindici
rappresentazioni), Otello, la sua più nota opera seria (12
maggio, ventinove rappresentazioni), e due dei maggiori
successi esterni come Cenerentola (5 settembre) e La gazza
ladra (20 ottobre).18

Le Ville celebri: La Villa Colbran-Rossini a Castenaso,


incisione da L’illustrazione popolare del 9 febbraio 1892

Il giorno successivo al saluto di re Ferdinando, Rossini e la


Colbran lasciarono la città in compagnia della servitù e di
alcuni colleghi (David, Nozzari, Ambrosi) per giungere il 13
marzo alla villa di Castenaso, nel bolognese, che divenne lo
scenario dei loro sponsali, segnalati con calore anche sulla
Gazzetta di Bologna e da lì su altri periodici.19 Il 16 marzo nel
santuario della Vergine del Pilar facente parte del complesso
tempo addietro di proprietà del Collegio di Spagna, in totale
riservatezza si celebrò il matrimonio religioso. Senza
concedere gran tempo ai festeggiamenti, la coppia partì
all’indomani alla volta di Vienna dove giunse dopo meno di
una settimana. Il loro battesimo teatrale nella capitale
dell’Impero fu la partecipazione come spettatori a una
messinscena in tedesco della Donna del lago. Il prestigio
dell’opera italiana, approdata a Vienna con alcuni dei suoi
protagonisti più in vista, fu attestato anche dal coinvolgimento
dei neosposi – ma soprattutto di Gioachino, tanto da suscitare
l’irritazione della consorte20 – negli intrattenimenti di corte e
nei salotti mondani, come ebbe cura di segnalare anche la
Allgemeine Musikalische Zeitung rilevando la socievolezza del
compositore.21 Il 3 aprile Rossini scriveva alla madre: «Noi
stiamo benissimo presto Si va in Scena vi darò Subito le
notizie Io sono Sempre a Pranzo, e con Meternich, e con tutti i
Primi Ministri i quali sono di una amabilità estrema».22
Giocava in casa, perché a Vienna prima di lui era arrivata la
sua musica: il Tancredi, soprattutto, aveva catturato nel 1816
l’attenzione del pubblico locale, orientandone il gusto. Del
successo di quell’edizione restano una testimonianza di
Tacchinardi (deluso per non essere stato coinvolto)23 e il
rilievo datone sulla stampa periodica del Lombardo-Veneto.
La Gazzetta privilegiata di Venezia del 18 luglio 1817 celebra
la chiusura trionfale della stagione d’opera italiana non fra le
cronache teatrali, come di consueto, bensì nello spazio
dedicato alla politica internazionale, in prima pagina e come
prima notizia assoluta:
Vienna 11 Luglio. Ieri sera fu qui data per l’ultima volta
l’Opera Italiana che da più mesi, dopo tant’anni che ne
fummo privi, fece la delizia delle nostre orecchie. L’Opera
trascelta a tal uopo si fu il Tancredi di Rossini, della quale
non sanno oggimai saziarsi né la Germania né l’Italia. […]
Questo spettacolo si eseguì nel Teatro del Wieden. In
quello di Carinzia la Signora Milliere con un nuovo ballo
ottenne nella stessa sera quegli applausi che gli erano stati
fin qui dimezzati. Essa andrà sempre più guadagnando
gl’occhi di tutti col suo ballare eccellente; ma quella di cui
si ricorderanno lungamente i Viennesi sarà sempre la
Borgondio la quale sentir loro fece ciò che difficilmente
udranno più mai, seppur non torna ella stessa. Voglio dire
accenti, tuoni, maniere di canto semplici, pure, dolci, e
naturali che senza bisogno d’arte scendono al core, e
rapiscono dotti, e ignoranti indistintamente.
Assieme a Gentile Borgondio (Tancredi), che secondo uno
slogan dell’epoca «cantando innamora uomini, e Numi ancor»,
Rossini veniva presentato come la chiave di volta di un
sodalizio culturale italo-austriaco (e borbonico) congegnato
con palesi finalità di propaganda; il successo della sua musica
e di uno stile di canto che si imprime nella memoria
sopravanza quello di Antoinette Millière, in una città che
aveva tributato alla danza un rilievo non inferiore a quello
dell’opera sin dai tempi di Noverre e Angiolini. L’opera e il
suo più illustre protagonista costituivano il nucleo di un
progetto culturale volto a riproporre l’immagine di Vienna
centro di irradiazione dell’opera italiana quale era stata ai
tempi di Zeno, Metastasio, Gluck, Mozart, Da Ponte, Salieri o
Cimarosa; progetto destinato a perdere quota definitivamente
in epoca risorgimentale, quando Vienna e l’Impero finirono
per rappresentare un’alterità sociale e politica e non più un
partner sodale come almeno per il teatro e la musica era
sempre avvenuto. Nel frattempo però la musica rossiniana
aveva suscitato l’interesse dei compositori di casa fra cui
Schubert, sedotto dalla morbidezza dei tratti melodici e dalle
calibrate strutture ritmiche del poco più anziano collega, e
questa sua predilezione non sfuggì a suoi contemporanei quali
l’avvocato e musicofilo Leopold von Sonnleithner.24 Schubert
diede un riscontro diretto del suo interesse per Rossini nelle
due Ouverture «im italienischen Stile», D. 590 e D. 591
(1817); inoltre, le strutture iterative e le ripetizioni, sostanziali
nel linguaggio rossiniano, sono elementi fondanti anche della
musica schubertiana dell’ultimo periodo, che intrattiene un
complesso e conflittuale rapporto col tempo e col proprio
tempo, al pari di quella del Pesarese.
Agli apici di un consenso verso Rossini che si protraeva da
più di un quinquennio (oltre al Tancredi erano stati
rappresentati a Vienna altri titoli fra cui L’inganno felice,
L’italiana in Algeri, Elisabetta regina d’Inghilterra, Il
barbiere di Siviglia, Il turco in Italia, ora in italiano, ora in
tedesco), il 13 aprile 1822 debuttava Zelmira con minime
differenze dall’edizione napoletana. L’opera venne diretta da
Joseph Weigl, antico avversario del Pesarese che non esitò in
questo caso a condividerne il successo: fino al luglio
successivo più di una ventina di repliche resero popolare anche
nella capitale dell’Impero l’ultima opera napoletana del
compositore. Durante la sua permanenza in città, i teatri
Kärntnertor e An der Wien portarono in scena una decina di
titoli rossiniani per oltre sessanta recite complessive:
fenomeno talmente vistoso e di tale risonanza da produrre le
solite fazioni pro e contro Rossini (con prevalenza delle
prime), delle quali la dettagliatissima stampa tedesca registrò
puntualmente gli umori, stimolata anche dalla presenza a
Vienna di Weber in occasione del debutto locale del Freischütz
e già invitato da Barbaja a comporre una nuova opera per il
Kärntnertortheater (sarà Euryanthe, presentata il 25 ottobre
1823). La solita Gazzetta privilegiata di Venezia del 5 aprile
(pp. 1-2), rifacendosi stavolta a fonti parigine, dà conto di
un’egemonia teatrale incontrastata:
Usurpatore o no, Rossini tiene al presente lo scettro
dell’impero musicale. […] Egli trionfa; egli è il più forte.
Popolare è divenuto il suo nome: egli unisce insieme la
stima e la voga, l’entusiasmo della moltitudine e
l’ammirazione de’ veri conoscitori. I suoi prosperi successi
fanno la tribolazione dei suoi rivali. Egli ha per se il genio,
la gioventù e la buona fortuna. […] Salzburgo ove nacque
Mozart […], Monaco che va superba delle composizioni di
Winter, più non amano che i canti del cigno di Pesaro.
Vienna stessa, ove Mozart regnava sovrano, si sottopone
senza sforzo all’ascendente dell’incantatore italiano. Ci
scrivono da quella capitale, che i canti di Rossini sono
penetrati in tutti i teatri, ne’ balli, ne’ concerti; tutti i
reggimenti hanno adottato le marce di questo celebre
compositore. I suoi brillanti accordi elettrizzano i granatieri
ungaresi. Rossini, senza saperlo, è divenuto il Tirteo
dell’Austria.
Non è più solo il teatro il luogo elettivo dell’impero
rossiniano; la sua musica scandisce gli intrattenimenti del
consesso civile e del mondo militare, che la acquisisce e
assimila sotto forma di marce per banda (gli adattamenti
bandistici, anche in Italia, costituirono una delle forme
privilegiate di volgarizzazione di musica operistica). Il
paragone con Tirteo, poeta spartano autore di elegie
guerresche, suona come un emblematico reclutamento nelle
fila imperiali. Effetti collaterali della sua musica memorabile
ed “elettrizzante”: il ricorso a un termine mutuato dalla fisica e
per quel tempo piuttosto nuovo rende efficacemente il senso di
un flusso di vitalità ritmico-melodica “attrattiva” che si
diffonde per contatto, a cui è impossibile sottrarsi.25
Da alcuni versanti della critica tedesca si segnalò, per
Zelmira, il disagio dei cantanti a adeguarsi alla sala del teatro
viennese e al diapason dell’orchestra locale, più alto di quello
partenopeo; si registrò anche il disappunto del pubblico di
fronte all’assenza della solita spettacolare sinfonia
introduttiva, una tipologia con cui aveva familiarizzato negli
anni precedenti. Complessivamente vi fu però diffuso
consenso; Friedrich August Kanne, compositore e critico
attivo a Vienna (1778-1833), approntò un ampio saggio
analitico su Zelmira in ben sei puntate, pubblicato
sull’edizione locale della Allgemeine Musikalische Zeitung
(dal 20 aprile al 4 maggio); la partitura guadagnò i suoi elogi
soprattutto per gli aspetti “germanici”, quali la ricercatezza
armonica e la strumentazione.
L’accusa a Rossini di essere un «usurpatore» fu mossa
semmai da critici italiani in un paio di articoli non favorevoli
pubblicati sulla Gazzetta di Firenze e sulla Gazzetta di Milano
di Francesco Pezzi, dove si giudicava il nuovo lavoro di
Rossini inferiore a Tebaldo e Isolina di Morlacchi. Da qui una
loquace replica di Giuseppe Carpani pubblicata nelle sue
Rossiniane (1824, Lettera VII e VIII). Rossiniano della prim’ora,
dovette sentirsi punto sul vivo anche in quanto poeta ufficiale
del Teatro Imperiale e coinvolto nelle modifiche effettuate per
la versione viennese di Zelmira. Gli argomenti da lui esposti
sono però efficaci; fra questi la capacità di Rossini di
catalizzare elementi linguistici storicizzati che gli consentirono
di presentarsi a Vienna con le credenziali di compositore
informato e universale, fautore di un sistema melodrammatico
in cui si intrecciano scuola italiana e scuola tedesca:
Le maniere di stile ch’egli usa in quest’opera, a seconda
de’ casi, sono così diverse, che ora vi sembra di udire il
Gluck, ora il Traetta, ora il Sacchini, ora il Mozart, ora
l’Händel, perché la gravità, la dottrina, la naturalezza, la
soavità dei concetti loro rivive e verdeggia nella Zelmira.26
Contestando il giudizio del giornalista milanese, Carpani
solleva inoltre una questione non di poco conto nella
valutazione critica della produzione musicale dell’epoca:
Il primo e più gagliardo di essi [gli argomenti del critico
milanese] si è di aver egli esaminato cogli occhi lo spartito.
Piano, signor anonimo. Voi chiamate spartito quel magro e
spolpato estratto per cembalo che si vende dall’Artarìa? E
su di un corpo di delitto sì mutilato voi portate sentenza
condannatoria di un capo-lavoro divinizzato a Napoli ed a
Vienna con piena cognizione di causa; e non è questo un
sentenziare l’Apollo di Belvedere dallo scheletro che uno
ne traesse?27
Le riduzioni pianistiche privano la musica rossiniana del suo
senso più autentico, che risiede in gran parte nella trina sonora
di superficie proposta dallo strumentale, dal sottile e fluttuante
rapporto fra voci e orchestra, in definitiva dai suoi colori:
elementi che Carpani mostra di avere afferrato fra i primissimi.
Studiare l’opera sugli spartiti significava trasporla in bianco e
nero (ma molte delle analisi effettuate all’epoca avevano
proprio questo fondamento). A simili conclusioni, seppure da
un punto di vista meno tecnico, giunse anche un ascoltatore
d’eccezione della Zelmira e di altre opere rossiniane: Hegel, a
Vienna per un paio di settimane nell’autunno del 1824, attirato
dalla presenza dell’opera italiana. Inizialmente la sua reazione
di fronte alla musica di Rossini non fu entusiastica; solo in un
secondo tempo giunse a coglierne il senso, con riscontri in
svariate lettere e in Die Philosophie des Geistes; senso
individuato nella centralità del canto, specchio dell’interiorità
e trait-d’union fra anima e corpo. L’incorporeità del canto
neutralizza secondo Hegel la meccanicità del suono
strumentale e sortisce i suoi effetti solo all’atto
dell’esecuzione.
Nondimeno, il viaggio viennese fu l’occasione per Rossini di
intensificare i suoi contatti col mondo della musica a stampa,
in quegli anni più avanzato e intraprendente oltralpe. Incontrò
gli editori Artaria, Mollo, Mechetti, tutti e tre di origine
italiana (Mollo da Bellinzona) e stabili a Vienna da decenni
con alterne fortune, che da parte loro avevano fiutato
l’opportunità di scommettere su di lui. Ad Artaria, Rossini
procurerà le partiture di Zelmira, Maometto secondo, Bellezza
e cuor di ferro perché se ne traessero spartiti per canto e
pianoforte (di quel tipo che non piaceva a Carpani), e offrì i
suoi studi di canto, poi pubblicati a Parigi da Pacini nel 1827
col titolo di Gorgheggi e solfeggi/Vocalises et Solfèges.28
Zelmira fu anche all’origine di un contenzioso con Barbaja,
talvolta ascritto a cause sentimentali ma più plausibilmente
legato a interessi economici. Il 22 marzo 1822 Rossini
comunica a un destinatario sconosciuto di ritenersi lui
medesimo il legittimo proprietario della partitura dell’opera.29
Successivamente, il 17 aprile 1823, ribadisce il suo
risentimento per le ripicche di Barbaja, che avanzava i diritti
sulla partitura e dal quale Rossini attendeva invece un
risarcimento per i soldi investititi nella concessione del gioco
d’azzardo al San Carlo, giacché il governo partenopeo aveva
rimborsato a Barbaja un’indennità.30 Episodio intricato e
controverso, ma indicativo di quanto la trasmissione della
musica fosse regolata dalla sua natura di bene materiale. Nel
caso di Napoli il “prodotto” rappresentava inoltre l’elemento
trainante di un sistema imprenditoriale complesso; la crisi di
quel sistema aveva contribuito a indirizzare il compositore
verso altre opportunità professionali.
Nei giorni di Vienna, Rossini si servì dei rapporti con Artaria,
Salieri e Carpani31 anche per avvicinare Beethoven. Le notizie
su quel leggendario episodio sono fornite perlopiù
dall’inaffidabile Michotte, che le incorpora nel libello
Souvenirs personnels. La visite de R. Wagner à Rossini (Paris
1860), Détails inédits et commentaires, pubblicato a Parigi e a
Bruxelles nel 1906.32 L’incontro viennese col compositore
tedesco diviene elemento portante di una conversazione
parigina con altro compositore tedesco: un dispositivo
narrativo finalizzato a mettere a confronto due mondi culturali
contrapposti, Italia e Germania, tramite una figura universale e
di ordine superiore (Beethoven). Se dunque l’incontro con
Wagner è sicuramente avvenuto – ne abbiamo riscontri anche
nella sua Eine Erinnerung an Rossini del 1868 – vi è però più
di un fondato motivo per dubitare della veridicità dell’incontro
di Rossini con Beethoven perlomeno nei termini riportati da
Michotte, i cui obiettivi furono commemorativi, certo non
storici.
Il colloquio fu per altro accreditato già prima dell’uscita del
volume di Michotte da Alexander Wheelock Thayer (1817-
1897) che nella sua pionieristica biografia beethoveniana si
prefigge di rettificare la testimonianza di Schindler, secondo il
quale Beethoven per due volte si era sottratto all’incontro
Rossini, adducendo motivi di salute e suscitando un certo
scalpore a Vienna nei giorni di Zelmira.33 L’episodio nella
versione di Schindler doveva essere ancora ben presente a
Schumann, che nei suoi aforismi farà pronunziare a Eusebio,
personaggio fantastico del cosmo poetico-musicale
schumanniano, un sommario giudizio sui due compositori
(«La farfalla volò sulla via dell’aquila, ma questa lo scansò per
non schiacciarla con un colpo d’ala»).34 Thayer propende
invece per l’autenticità della visita, fondandosi sulla più sobria
testimonianza di Hiller nelle sue Plaudereien mit Rossini edite
nel 1855. Il musicologo americano riporta anche la replica di
Rossini che, intervistato da Eduard Hanslick nel 1867, aveva
reagito con vigore alla diceria del fallito appuntamento in
termini non troppo diversi da quelli riportati da Hiller,
rilanciando generici argomenti a riprova dell’avvenuto
incontro: ovvero che quella a Beethoven fu visita breve,
viziata dalla reciproca incomprensione linguistica e dalla
sordità del maestro tedesco.35 In ogni caso, per Rossini
garantire che quel colloquio non gli era stato negato si era
trasformato in una questione di principio.
Michotte, intento a circonfondere il suo compositore
prediletto di un’aura di onorabilità anche di fronte agli astri
della cultura musicale antagonista, costruisce l’immagine di un
Beethoven ciarliero, cordiale e curioso. La posizione di questi
nei confronti di Rossini fu sicuramente meno bonaria e
contraddistinta da lucida consapevolezza riguardo al valore del
collega italiano ma anche da una certa inquietudine. Dopo il
successo del Barbiere e di Otello, entrambi a Vienna nel 1819,
rivolgendosi nel 1824 al costruttore di pianoforti Johann
Andreas Stumpff, Beethoven manifestò irritazione per essere
stato accantonato a vantaggio dell’opera italiana: «Rossini e
compagni, questi sono i vostri eroi. Da me non vogliono più
niente». Potrebbe essersi trattato di un motto di spirito, ma gli
orientamenti del pubblico gli erano senz’altro chiari. Secondo
la testimonianza dell’organista Karl Gottlieb Freudenberg, un
anno più tardi Beethoven espresse un giudizio affilato ma non
ingeneroso («ammise che Rossini era un uomo di talento e un
compositore ricco di melodia, che la sua musica era adatta allo
spirito del tempo, frivolo e sensuale»).36 A un livello di
credibilità inferiore, nei Souvenirs di Michotte Rossini
riferisce a Wagner che Beethoven avrebbe riflettuto alla
presenza sua e di Carpani su argomenti che denoterebbero un
inatteso interessamento del compositore tedesco per questioni
squisitamente italiche: la tradizione comica dell’opera e la
scarsa propensione degli italiani verso l’opera seria; le proprie
predilezioni per La serva padrona anziché per lo Stabat Mater
di Pergolesi, giudicato monotono; i teatri italiani e la
diffusione delle opere di Mozart. Per terminare con il famoso
invito «a comporre soprattutto molto Barbiere».
Il progetto di collocare Rossini e il mondo rossiniano al
centro delle conversazioni che lo riguardano trova nella
scenetta parigina confezionata dal musicografo belga ulteriori
conferme. Wagner, nel ruolo di abile intervistatore intento a
verificare se certe maldicenze sul suo conto fossero attribuibili
al compositore italiano, punzecchia Rossini e gli cava con
accortezza pensieri e opinioni. Le note di cui Michotte
cosparge il testo, che in alcuni casi commentano o rettificano
le affermazioni attribuite a Rossini (anche riguardo a
Beethoven e alle sue più o meno misere condizioni di vita),
sembrano concepite per conferire al racconto la parvenza di
una testimonianza raccolta “in diretta”. Sarebbe tuttavia
sbrigativo escludere a priori l’onestà intellettuale di Michotte:
i dettagli dell’incontro con Beethoven poterono infatti essere
frutto dell’inventiva di Rossini, abile affabulatore, intento, in
quegli anni, a fornire spunti utili alla costruzione di un proprio
mito.
Non è comunque così rilevante se Rossini e Beethoven si
siano visti o meno, di fronte al portato simbolico che
quell’accostamento ha conseguito nella cultura musicale,
trasformandosi nel paradigma di un dialogo interculturale
reciproco ma problematico nella sostanza, soprattutto nei
riguardi della musica italiana (Rossini non aveva mai celato la
sua ammirazione per Mozart, Haydn, Beethoven, e più tardi
per Weber, come sia pure in forma più distanziata i suoi
successori Bellini e Donizetti). Negli studi musicologici,
contraddistinti da un forte radicamento germanico, il confronto
italo-tedesco ha determinato una semplificazione penalizzante
nei confronti dell’opera italiana, a lungo – adesso non più –
classificata come genere minore e periferico rispetto a un
“centro” improntato sulla musica strumentale transalpina e
successivamente sulla concezione wagneriana del dramma
musicale. La sinfonia beethoveniana difatti si è affermata nella
coscienza collettiva come opus intangibile, mentre
dell’operismo rossiniano si è tramandata soprattutto la sua
costituzionale volatilità: “modello” più che testo a causa della
fluidità dei singoli numeri, manipolabili e adattabili a interpreti
sempre diversi. L’opera, ai tempi di Rossini, non possiede né
rivendica lo status di monumento e guadagna concretezza solo
all’atto delle singole esecuzioni; apparentemente, risulta perciò
più difficile da imbrigliare in edizioni a stampa definitive, che
pure furono tentate anche nel corso del secolo decimonono.
Ma se è evidente per questi motivi e per molto altro
l’incommensurabilità dei profili artistici di Beethoven e
Rossini (autori diametralmente opposti secondo Dahlhaus
anche per il diverso orizzonte di attesa delle loro
composizioni, concepite rispettivamente per durare ovvero per
essere fruite e accantonate a vantaggio di altre opere),37 non
vanno perse di vista alcune significative analogie nella pratica
artistica dei due compositori, la cui produzione, dal momento
degli esordi rossiniani in poi, risulta anche temporalmente
sovrapponibile. Entrambi gli autori sono espressione di
quell’“accelerazione del tempo” che contraddistinse il periodo
postrivoluzionario: esperienze artistiche plurime, le loro,
compresse in pochi anni, in mutevoli condizioni politiche, con
uno sguardo al passato sospeso fra assimilazione e
superamento. Vi sono poi questioni di linguaggio musicale:
entrambi fecero del ritmo un elemento portante o addirittura il
nucleo generativo di molta loro musica (si pensi da un lato
all’elaborazione motivica beethoveniana o alla formulazione
di certi suoi temi e dall’altro ai dispositivi ritmici rossiniani
con carattere di ostinato, diffusi in tanti momenti delle sue
opere). Inoltre, ancora con Dahlhaus, «è come se
l’immediatezza del rapporto con la musica, ancora intatta
intorno al 1800, fosse andata persa […] Rossini e Beethoven
nel suo ultimo periodo scrivevano musica sulla musica:
musica di secondo grado».38 Anche a prescindere dalle
vertiginose esplorazioni della tecnica della variazione condotte
nella sua ultima maniera (laddove un tema viene trasfigurato
lasciandone intatta soltanto la sostanza profonda, musica sulla
musica come tante variazioni vocali rossiniane), sono
numerosi nella produzione di Beethoven i recuperi e le
rielaborazioni di materiali compositivi propri, ancora fertili a
distanza di anni: si pensi alla natura poligenetica dell’Eroica e
della Nona o alle riscritture del Fidelio; e anche per Rossini,
sebbene per motivi diversi, i princìpi della rielaborazione, del
riciclo e della molteplice dislocazione di brani o materiali
compositivi preesistenti rappresentano una condizione
operativa costante.
Per entrambi gli autori comporre significa anche riflettere
sull’esistente, mutarne la natura e la sostanza. Entrambi
incrociano tematiche postrivoluzionarie come quelle espresse
dal filone dell’opéra à sauvetage, e tuttavia entrambi, pur in
diverse condizioni operative ed emotive e con una dotazione
ideologica diversamente indirizzata, si trovano a celebrare il
fronte antinapoleonico e restaurativo con composizioni
d’occasione (le cantate borboniche e asburgiche di Rossini
valgono la Vittoria di Wellington o la cantata Il momento
glorioso di Beethoven). Entrambi ebbero problemi con
l’incipiente estetica romantica, in termini di autocoscienza
oltre che di linguaggio: Rossini evita il romanticismo per
quanto gli è possibile, Beethoven, come si usa dire, lo supera.
Ed entrambi, anche a effetto del cambiamento del mondo
attorno a loro, non fecero scuola ma divennero emblematici
punti di riferimento per i posteri; modelli cui ispirarsi ma da
cui doversi differenziare, per opportunità o per l’impossibilità
di proseguire strade ormai chiuse o nel caso di Beethoven del
tutto inaccessibili. Diversamente grandi per un simile destino.
SUGGERIMENTI DI LETTURA

Sulla Messa di Gloria e il ruolo di Raimondi, ROSENBERG


1995. MAIONE-SELLER 2012 sull’attività di Barbaja a Vienna; la
drammaturgia di Zelmira in LAMACCHIA 2006. La recezione
della musica di Rossini nel mondo tedesco è ricapitolata in
DÖHRING 1994; sulla musica italiana e Rossini a Vienna
KANTNER 1993, più recentemente JAHN 2006. Di Louis Spohr,
voce della fazione antirossiniana, tratta TOSTI-CROCE 1998; la
critica in lingua tedesca e la recezione di Rossini anche in
riferimento a Beethoven in JACOBSHAGEN 2018, e vedi anche
MÜLLER 2000 e VELLUTINI 2018. La posizione di Hegel rispetto
a Rossini e all’opera italiana è discussa in LAZZERINI BELLI
1995. L’influenza di Rossini su Schubert in BISOGNI 1968;
sull’uso di ripetizione e iterazione nella musica di Schubert
vedi Schubert’s Late Music 2016, passim. Sulle ricadute
storiografiche del confronto fra Rossini e Beethoven
DAHLHAUS 1980, pp. 63-70, riletto da DELLA SETA 2008, e The
Invention of Beethoven and Rossini. Historiography, Analysis,
Criticism, Cambridge 2013.
DA ASCOLTARE

Bianca e Falliero, ossia Il consiglio dei tre re


Majella Cullagh (Bianca), Jennifer Larmore (Falliero), Barry
Banks (Contareno), Ildebrando D’Arcangelo (Capellio),
Gabriella Colecchia (Costanza), Simon Bailey (Doge Priuli),
Ryland Davies (Pisani), Dominic Natoli (Ufficiale), Geoffrey
Mitchell Choir, London Philharmonic Orchestra, dir. David
Parry, Opera Rara 2001
Messa di Gloria
Sumi Jo, Ann Murray, Francisco Araiza, Raúl Gimenez,
Samuel Ramey, Academy of St. Martin in the Fields Chorus,
Academy of St. Martin in the Fields, dir. Sir Neville Marriner,
Philips 2006
Maometto secondo
Paul Nilon (Erisso), Siân Davies (Anna), Darren Jeffery
(Maometto), Caitlin Hulcup (Calbo), Christopher Diffey
(Condulmiero), Richard Dowling (Selimo), Garsington Opera
Chorus and Orchestra, David Parry, Garsington Opera-Avie
2014
Matilde di Shabran, ossia Bellezza e cuor di ferro
Michele Angelini (Corradino), Sara Blanch (Matilde), Shi
Zong (Raimondo), Victoria Yarovaya (Edoardo), Emmanuel
Franco (Aliprando), Giulio Mastrototaro (Isidoro), Lamia
Beuque (Contessa), Ricardo Seguel (Ginardo), Górecki
Chamber Choir, Passionart Orchestra, José Miguel Pérez-
Sierra, Naxos 2020
Matilde di Shabran (versione di Napoli, Fondo 1821)
Annick Massis (Matilde), Juan Diego Flórez (Corradino Cuor
di Ferro), Bruno Taddia (Raimondo Lopez), Hadar Halevy
(Edoardo), Marco Vinco (Aliprando), Bruno de Simone
(Isidoro), Chiara Chialli (Contessa d’Arco), Carlo Lepore
(Ginardo), Gregory Bonfatti (Egoldo), Lubomir Moravec
(Rodrigo), Orquesta Sinfónica de Galicia, dir. Riccardo Frizza,
Decca 2006
La riconoscenza
in The Rossini Project, vol. II (From Naples to Europe),
Edgardo Rocha, Michela Antenucci, Laura Polverelli, Mirco
Palazzi, Orchestra della Svizzera Italiana, dir. Markus
Poschner, Concerto 2019
Zelmira
Bruce Ford (Antenore), Mirco Palazzi (Leucippo), Marco
Vinco (Polidoro), Elizabeth Futral (Zelmira), Manuela Custer
(Emma), Antonino Siragusa (Ilo), Ashley Catling (Eacide),
Mathias Hausmann (Gran Sacerdote), Scottish Chamber
Orchestra Chorus, Scottish Chamber Orchestra, dir. Maurizio
Benini, Opera Rara 2004

10. Passato e futuro si incrociano


1 GRLD 1992, p. 393 (Napoli, 31 agosto 1819 a Felice Romani, Milano).
2 Già il 14 settembre segnalava alla madre «il non essere più amalato nei paesi
bassi» (GRLD 2004, p. 300).
3 GRLD 2004, p. 302.

4 GRLD 1992, p. 411 (Napoli, 24 febbraio 1820, Carlo Carafa di Noja a Ferdinando
Guicciardini, Lucca).
5 RAGNI 2012, vol. I, p. 453.

6 Cit. in RAGNI 2012, vol. II, pp. 981-982.

7 DELLA SETA 2018, pp. 96-97.

8 Gazzetta privilegiata di Venezia, 28 dicembre 1822, pp. 1-2.

9 PACINI 1865, pp. 27-28.

10 «Rossini e Paganini dovevano poi figurare l’orchestra, strimpellando due


chitarre e pensarono di vestirsi da donna. Rossini ampliò con gusto le sue già
abbondanti forme con viluppi di stoppa, ed era una cosa inumana! Paganini, poi,
secco come un uscio, e con quel viso che pareva il manico di un violino, vestito da
donna compariva secco e sgroppato il doppio. Non fo per dire ma si fece furore»
(D’AZEGLIO 1971, p. 274).
11 GRLD 1992, p. 482 (Venezia, 3 marzo 1821, Kübeck ai Capi Commissari di
Polizia).
12 La recensione fu riprodotta anche sulla Gazzetta privilegiata di Venezia, 14 marzo 1821, pp.
1-2.
13 RITORNI 1841, pp. 51-52.

14 ZANOLINI 1875, p. 284. Rossini riprenderà questi stessi argomenti in una delle
sue lettere più tarde (26 agosto 1868), al critico musicale Filippo Filippi
(cfr. MAZZATINTI-MANIS 1902, pp. 330-333).
15 ZANOLINI 1875, p. 288.

16 Cit. in FABBRI 2018, pp. 451-452.

17 Le gazzette si approvvigionavano di informazioni aggiornate passando al


setaccio la stampa estera. Nel 1832, a partire dal n. 194 del 25 agosto, sul Giornale del
si pubblicarono in traduzione i Cenni biografici intorno a Rossini di François-Joseph
Regno delle Due Sicilie

Fétis, prelevati da Le Temps.


18 Cfr. MARINELLI ROSCIONI 1987.

19 Cit. in RAGNI 2012, vol. II, p. 991.

20 La Colbran il 27 aprile si sfogava senza filtri con la suocera: «Gioachino e


Così ocupato che non lo vedo a pranzo che rara volta e la Sera che si ritira tarde, mi
fa una Compagnia che sono fuori di me del piacere si diverte assai ed’io mi seco a
morire, ma se dio vuole e passano questi mesi vi giuro che non vi lascio più e Lui
farà Come più li piacerà» (GRLD 2004, p. 339).
21 Allgemeine musikalische Zeitung, XXIV, n. 19, 8 maggio 1822, col. 304.

22 GRLD 2004, p. 334.

23 GRLD 1992, p. 192 (Vienna 18 dicembre 1816, Nicola Tacchinardi a destinatario


sconosciuto).
24 Cfr. Schubert’s Late Music 2016, p. 20.

25 Il Vocabolario della Crusca non registra in alcuna edizione l’accezione


“elettrizzante”. Nella terza edizione del 1691 e in quelle successive si lemmatizza
“elettrico” riferito a «La virtù elettrica» che «risvegliasi, per delicato, o per valido
strofinamento» (vol. 2, p. 595). “Elettricità” appare soltanto alla quinta edizione
(1863-1923) e la definizione si focalizza, appunto, sulla facoltà di alcuni corpi di
«attirare a sé […] dopo avvenuto il contatto» (vol. V, p. 88).
26 CARPANI 1824, p. 125.
27 CARPANI 1824, pp. 189-190.

28 GRLD 1996, pp. 23-24 (13 agosto 1822, a Artaria, Vienna).


29 GRLD 1996, p. 2.

30 GRLD 1996, pp. 154-156 (a Carlo de Chiaro).

31 Un accerchiamento tentato attraverso il maggiore editore musicale viennese,


un autorevole e più anziano collega da cui Beethoven in gioventù aveva preso
lezioni e uno stimato mediatore fra cultura italiana e tedesca, nonché persona grata
a Beethoven. Carpani fu infatti il traduttore della Creazione di Haydn e dell’oratorio
beethoveniano Cristo sul Monte degli ulivi nonché l’autore dell’arietta «In questa tomba
oscura» musicata da Beethoven, fra gli altri, nel 1807 (WoO 133).
32 Riprodotto anche in MICHOTTE-Scritti, pp. 80-114; le notizie beethoveniane a pp.
93-97.
33 THAYER 1973, pp. 804-805. Almeno qualche spunto dell’opera fu sicuramente
noto a Beethoven attraverso le variazioni a lui sottoposte dall’Arciduca Rodolfo.
34 «La visita di Rossini a Beethoven», aforisma del 1835, in Robert Schumann, Gli
, 2 voll., a c. di Antonietta Cerocchi Pozzi, Ricordi-Unicopli, Milano 1991,
scritti critici

vol. I, p. 290.
35 HILLER 1855, pp. 106-107.
36 Cit. in DAHLHAUS 1987, p. 13.

37 DAHLHAUS 1987, p. 189.

38 DAHLHAUS 1980, p. 64.


11. Commiato dall’Italia ed epilogo di una
tradizione
«Semiramide», Venezia 1823

Copertina di G. Prina per la riduzione canto e pianoforte della Semiramide,


collana «La Musica Universale», 1860 circa; Milano, Archivio Storico Ricordi

I mesi trascorsi a Vienna, all’incirca da marzo a luglio 1822,


resero familiare la figura di Rossini anche nella capitale
dell’Impero. La stampa locale non si limitava a presentarne e
discuterne le composizioni ma segnalava i festeggiamenti,
anche improvvisati, in onore suo e della Colbran, la
partecipazione a banchetti e intrattenimenti, i doni a loro
recapitati. Un successo mondano procurato dal successo delle
sue opere, già da alcuni anni in cartellone nei teatri locali; il
connubio con una cantante di vaglia, oltre alla fama conseguita
in proprio, aveva però contribuito a estendere al compositore
quel complesso di condotte sociali oggi note come divismo,
onore fino a quel momento tributato solo ai grandi virtuosi di
canto o ai massimi attori di teatro. E come capita con i divi, la
stampa periodica si fece portatrice di qualche maldicenza
riguardo al recente matrimonio, presentato sulla Allgemeine
Musikalische Zeitung come un sodalizio professionale fra due
artisti di grido sensibili al vil denaro.1 Affermazioni per altro
non lontane dalla verità. Il matrimonio di Rossini e Colbran fu
formalizzato in sede civile, una volta di ritorno nella penisola,
l’11 novembre. La dote della sposa era cospicua: beni
immobiliari (la villa di Castenaso), liquidità, preziosi e titoli
d’investimento, fra cui un prestito da lei elargito al duca di
Berwick, resero invidiabile la posizione dello sposo, che però
si impegnava, come precisava l’atto notarile, al «decoroso»
mantenimento della sposa e a passarle un «ragionevole»
mensile.2
Anche da Castenaso i contatti con Vienna e il Lombardo-
Veneto restarono intensi e contrassegnarono le ultime tappe
della carriera di Rossini prima del suo trasferimento a Parigi. Il
13 agosto nella villa dei due coniugi fu abbozzato un contratto
con la Fenice di Venezia che prevedeva l’ingaggio di Rossini e
consorte per la successiva stagione di carnevale. Dopo le
riprese di Tancredi (novembre 1815) e di Eduardo e Cristina
(gennaio 1820), Rossini non era più apparso nel maggiore
teatro veneziano; le sue opere, fra cui alcune delle più recenti
per Napoli e Roma, erano però state date con continuità nei
teatri minori (San Luca, San Moisè, San Samuele, San
Giovanni Grisostomo, San Benedetto con prevalenza di
quest’ultimo). In alcuni casi erano servite a salvare una
stagione: nella primavera del 1818 il librettista bergamasco e
futuro impresario Bartolomeo Merelli riferiva a Mayr, non
senza ironia, che al San Luca, dopo una serie di fiaschi «per
buona sorte si sono appigliati finalmente all’Inganno Felice di
Rossini; si darà poscia l’Italiana in Algeri: Viva Rossini!!! e la
novità!!!».3 Poco prima del suo ritorno sulle scene veneziane il
maggiore registro teatrale di quegli anni, l’Indice o sia
Catalogo dei teatrali spettacoli musicali italiani di tutta
l’Europa incominciando dalla quaresima 1821 a tutto il
carnevale 1822 (Roma 1822), dà conto di una sorta di
ubiquità: di stato in stato e di teatro in teatro è quasi
impossibile non imbattersi nella musica di Rossini, perlopiù in
allestimenti di opere ormai di repertorio. La musica rossiniana
si diffonde a caduta e la si ascolta non soltanto nei teatri più
importanti ma anche in teatri minori e minimi di province che
si stanno attrezzando, anche grazie al successo dell’autore, ad
allinearsi pur in autonomia alle correnti tendenze dello
spettacolo. In quella stagione 1821-22, nello Stato Pontificio il
Pesarese lo si trova inscenato non solo a Roma, Perugia,
Bologna, Jesi o Pesaro ma anche a Orvieto, Spoleto, Città di
Castello e pressoché ovunque nel territorio marchigiano,
brulicante di teatri simpatizzanti per l’astro locale (Macerata,
Fermo, Ascoli, Senigallia, Ancona e altrove). Vale anche per il
sud: nel Regno delle Due Sicilie Rossini è di casa a Napoli, ma
appare anche a Capua, Campobasso o Catania; e vale anche al
nord, dove Rossini è proposto al pubblico di Milano come a
quello di Como, Lodi, Bergamo.
Onnipresente e figura di collegamento fra culture teatrali di
diversa estrazione, compositore nazionalpopolare prima che vi
fosse una nazione: la disseminazione capillare di musiche
dell’autore è causa ed effetto di quella “dittatura del gusto” che
tanto spesso le gazzette di quegli anni deplorano, o fingono di
farlo, rimarcando la supremazia di Rossini; supremazia motivo
di disorientamento per i compositori della stessa generazione o
più giovani, alla ricerca di consenso, i quali per ottenere
successo dovevano in qualche misura adeguarsi al canone
rossiniano.4
Per questo suo ritorno in presenza sul massimo palcoscenico
veneziano, il compositore malvolentieri si impegnava a
rivedere Maometto secondo, dotato per l’occasione di un lieto
fine proveniente dalla Donna del lago, e a produrre una nuova
opera; alla Colbran in entrambi i casi spettava il ruolo di
primadonna. Negli stessi giorni un contenzioso fra i due
maggiori teatri veneziani riguardo ai più recenti titoli
rossiniani aveva contribuito a riaccendere l’attenzione su di
lui. La presidenza della Fenice, facendo pressione sul governo
delle Provincie Venete, avocava a sé il diritto di mettere in
scena Zelmira, in quanto l’allestimento dell’opera su altri
palcoscenici difficilmente avrebbe raggiunto il livello
necessario a soddisfare le attese, con eventuali ricadute
sull’ordine pubblico. Zelmira fu però allestita al San Benedetto
(il 21 settembre, facendo arrivare la partitura direttamente da
Artaria); da qui la decisione della Fenice di iniziare col
Maometto secondo la stagione carnevalizia 1822-23.5
L’opera nuova fu concepita nell’autunno 1822, facendo
giungere a Castenaso Gaetano Rossi, incaricato dal teatro con
cui più costantemente collaborò. Il librettista veronese si trovò
così a scandire, sempre con destinazione Venezia, un altro
momento cardine della carriera rossiniana: dopo l’opera di
esordio (La cambiale di matrimonio, 1810) e il primo grande
successo serio (Tancredi, 1813), era la volta dell’ultima opera
italiana, Semiramide. Quello verso Castenaso fu «un viaggio
incommodissimo, tardo», rinfrancato però dai piaceri in villa,
«deliziosa, per vero: ne’ più ameni contorni: bei giardini,
tempietto voluttuoso, lago, montuose, boschetti, e palazzo
magnifico, elegante».6 La permanenza di Rossi a Castenaso si
protrasse fino ai primi di novembre, dopodiché il librettista se
ne tornò a Verona; circa tre settimane, in cui fra «continue
distrazioni, viaggietti, compagnate nelle vicine ville»7 il lavoro
fu messo a punto, consentendo a Rossini di accingersi alla
composizione dell’atto primo. Di un certo interesse le
telegrafiche parole con cui Rossi riassunse a Meyerbeer
l’avanzare del dramma: «Combinammo l’ossatura: egli
[Rossini] approvò le situazioni tutte ch’io aveva già destinato.
Cominciò a comporre da ieri».8 Rossi era giunto dal Pesarese
oltre che con un soggetto già individuato, disponendo di
“situazioni” preconfezionate. Secondo un antico costume e
forte della pratica acquisita, il librettista aveva presentato al
compositore una serie di nuclei scenici su cui sarebbero stati
poi montati i numeri dell’opera. Successivamente, i due
assieme “combinano l’ossatura”. L’organizzazione
complessiva del dramma, il telaio drammatico determinato
dall’intreccio, fu dunque frutto di un lavoro congiunto che si
avviava dalla convalida delle scelte di base del librettista
(«approvò le situazioni tutte»). Il sodalizio professionale fra
poeta e compositore che qui si delinea mantiene distinti i
rispettivi ruoli; al compositore spetta dar corpo drammatico
musicale a contenuti complessivamente già configurati.
Soggetto prescelto la Tragédie de Sémiramis di Voltaire, uno
dei maggiori successi del filosofo e drammaturgo francese,
data alla Comédie-Française nel 1748 in un confronto a
distanza con Prosper Jolyot de Crébillon, che aveva firmato
una tragedia sullo stesso argomento nel 1717. Al pubblico
dell’opera il titolo rievocava una tradizione secolare, e anche
la versione di Voltaire era già ampiamente nota sin dalla
traduzione di Cesarotti del 1771. Tralasciando numerosi
antecedenti, si contano a decine le musicazioni della
Semiramide riconosciuta del Metastasio, dalla prima di Vinci
del 1729 a Roma, alla ripresa assai tarda di Meyerbeer per il
Teatro Regio di Torino nel 1819, dove dietro le drastiche
modifiche volte ad ammodernarne la veste drammatica ancora
si intravede l’impianto originale. Prime tappe
nell’allontanamento dal Metastasio a vantaggio di Voltaire, la
Semiramide di Ferdinando Moretti con musica di Michele
Mortellari (Milano 1785), dove però si fa a meno dell’Ombra
di Nino (elemento cardine in Voltaire) e si ripristina il lieto
fine; La vendetta di Nino attribuita a Pietro Giovannini per la
musica di Alessio Prati (Firenze 1786), provvista di Ombra e
di finale tragico; La morte di Semiramide di Sografi, in parte
rielaborazione della precedente (Padova 1790). Soprattutto da
quest’ultima versione derivò la proliferazione di ulteriori
libretti, con musiche di altri autori, fino al sopraggiungere
della versione rossiniana, «per la quale non potrà parlarsi più
oltre di verun’altra»: così Pietro Brighenti nel suo discorso
accademico del 1830, in occasione del ritorno di Rossini a
Bologna, a dimostrazione che già pochi anni dopo la prima
veneziana si coglieva nella Semiramide di Rossini un punto di
non ritorno nella tradizione del soggetto e forse dell’opera
seria di carattere arcaicizzante.9
Il rinnovamento del tema di Semiramide perpetuato dai
seguaci di Voltaire lo svuota dei fondamenti morali che
avevano sorretto la vicenda nel Metastasio – dopo la morte del
re suo consorte Semiramide regna in vesti maschili fingendo di
essere il figlio per proteggere lui e lo stato – dotandolo
viceversa di risvolti tragici mutuati dalla classicità greca, in
particolare dai miti di Edipo e di Oreste. Nella versione
volterriana e nel libretto di Rossi, Semiramide è complice di
Assur nell’omicidio a tradimento di Nino, suo consorte, nutre
un amore inconsapevolmente incestuoso per Arsace, che è in
realtà Ninia figlio di lei a loro reciproca insaputa, il quale a sua
volta si macchia fortuitamente dell’omicidio della madre nel
tentativo di procurarsi la vendetta per l’omicidio del padre.
Sono evidenti anche le influenze shakespeariane, già in
Voltaire: il tema della brama di potere che genera delitti come
in Macbeth, e come in Hamlet la presenza di una madre
colpevole e le apparizioni dello spettro del defunto re, Nino in
Semiramide. Fu anche uno dei primi soggetti “fantastici”
realizzati nell’opera ottocentesca italiana, con netto
distanziamento da una tradizione secolare che rifiutava le
apparizioni soprannaturali, a maggior ragione se parlanti o
cantanti. Il successo e la longevità dell’opera rossiniana, la
simultanea sparizione dai cartelloni teatrali delle vecchie
versioni del tema di Semiramide, oltre all’assenza di nuove
versioni, tracciano una linea di demarcazione nella diffusione
di un soggetto che in Rossini non ha più molto a che vedere
con le vicende della regina di Babilonia quali erano state
rappresentate per decenni nel teatro d’opera.
Aprendo una parentesi, il compimento della partitura di
Semiramide si sovrappose a un evento di scarso interesse per
la produzione artistica di Rossini ma emblematico della
rilevanza strategico-politica da lui assunta nel contesto
asburgico in cui si trovò a operare in quei mesi. Rossi e i
coniugi Rossini si diedero appuntamento a Verona, verso metà
novembre, per dar seguito alla promessa contratta dal
musicista con Metternich per la quale si assumeva l’onere di
organizzare e dirigere le celebrazioni musicali all’Arena in
occasione del vertice dei membri della Santa Alleanza.
Sarebbero stati presenti i re di Sardegna e delle Due Sicilie,
l’imperatore d’Austria e lo zar, alcuni primi ministri fra cui il
russo Nessel’rode e Metternich, i delegati di altre corone
(Arthur Wellesley duca di Wellington, uno degli artefici della
sconfitta di Napoleone a Waterloo, Chateaubriand in veste di
diplomatico). Nei mesi estivi, in ripetuti contatti epistolari
Rossini e Metternich avevano rinnovato l’impegno reciproco
in vista delle celebrazioni. Manifestazioni di «eterna
gratitudine» di Rossini nei confronti del cancelliere come
quella del 30 agosto10 non dicono però niente sull’uomo
Rossini e molto sull’artista, che secondo la mentalità di antico
regime – a cui non fu del tutto estraneo neppure il giovane
Verdi11 – ancora considera sé stesso un prestatore d’opera per
il quale il rango (in questo caso imperiale) ha valore superiore
a qualsiasi principio nazionale e identitario; principio che
stenta ad affermarsi quando si tratti di confezionare un
prodotto artistico per una qualsiasi destinazione.
Quegli sforzi congiunti produssero La Santa Alleanza,
cantata di varia mitologia, mediterranea e nordica, su versi di
Rossi di cui non ci è pervenuta la musica (vi si recuperava
anche il coro dei Bardi dalla Donna del lago); fu eseguita
nell’Arena il 24 novembre 1822, a mezzogiorno. Nella sua
tarda conversazione con Hiller Rossini ironizzò sull’imperfetta
valorizzazione musicale di quell’alleanza politica a causa di
imprestiti non del tutto confacenti al testo.12 In ogni caso il
risultato fu raggiunto, così premiando il dispiego di mezzi e la
magnificenza sonora e visiva. Oltre a due solisti furono
impiegati un coro di 24 elementi e una grande orchestra di
fiati, costituita da strumentisti provenienti da bande militari
austriache. Decoravano lo spettacolo oltre cento fra ballerini e
figuranti, questi ultimi provenienti da truppe di fanteria o a
cavallo; al centro dell’Arena faceva mostra di sé una
imponente statua della Concordia, che incombeva su Rossini
intento a dirigere. Come prosecuzione delle celebrazioni, il 3
dicembre andò in scena al Teatro Filarmonico la cantata Il vero
omaggio: non altro che La riconoscenza concepita l’anno
precedente per Napoli, qui rielaborata da Rossi seguendo le
tracce del teatro encomiastico viennese/metastasiano:
Raffiguravansi nell’azione varii pastori, che dalle sponde
dell’Adige movevano alla Regia del Genio dell’Austria,
dove, circondato da altri genii, dei quali i più vicini al
trono rappresentavano varie virtù, riceveva da loro come in
segno di omaggio e di venerazione, palme e serti di ulivo e
d’alloro, e chiudevasi l’azione colla protesta del Genio di
voler destinare i proprii giorni alla felicità dei pastori, e col
voto al Cielo dei pastori perché lui faccia sempre felice ed
aggiunga ai suoi i giorni medesimi delle lor vite.13
Lo spettacolo fu offerto dalla Camera di Commercio e vi
parteciparono Velluti (Alceo), la Tosi (Argene) e il tenore
Crivelli come Genio dell’Austria; completarono l’evento un
ballo e l’atto secondo da Tebaldo e Isolina di Morlacchi, già in
cartellone al Filarmonico (stessi interpreti). Terzo e ultimo
episodio dell’incidentale sodalizio asburgico, il concerto
patrocinato da Metternich e diretto da Rossini il 20 dicembre
nei luoghi che erano stati il simbolo dell’effimero potere
napoleonico a Venezia, i saloni dell’attuale Museo Correr in
piazza S. Marco, con l’intervento dei cantanti della Fenice e
della Colbran. Fu proprio lei, in una lettera a Metternich del 22
dicembre, a farsi carico di richiedere per Rossini una
decorazione (forse mai conferita) come segno di stima, citando
i precedenti di Paer, Spontini e Cherubini, accomunati da
affine vicinanza, operativa se non partecipativa, alle maggiori
cariche europee.14
In questi episodi i due artisti, Rossini e Colbran, riflettono
l’uno la luce dell’altra ancor più di quanto non fosse avvenuto
a Napoli, quando il loro legame matrimoniale non era stato
ancora sancito; una dinamica destinata però a incepparsi
proprio in quegli stessi giorni, a Venezia. Il Maometto
secondo, andato in scena alla Fenice il 26 dicembre, non
ottenne il successo sperato. Luigi de Kübeck, direttore
generale di polizia per Venezia e già nel servizio d’ordine
veronese, elaborò un energico resoconto all’indirizzo del
governatore delle Provincie Venete:
Rossini non copiò che se medesimo; il primo atto è
sterilissimo, la Colbran non solamente non piacque, ma
annojò e disgustò a segno che il pubblico sdegna quasi più
di sentirla. Si mormora altamente, gli abbuonati spesero
una moneta senza esserne soddisfi. I palchisti pagano un
canone maggiore del doppio dell’anno scorso, senza quasi
speranza di ricompensa anzi a tutta perdita se non si
rimedia.15
La primadonna era in cattive condizioni di salute e vocalmente
in fase calante; contro di lei si diffusero in città “pasquinate” e
scritte satiriche fatte subito rimuovere. Per rimediare allo
scontento, dall’8 gennaio 1823 si provvide a sostituire
Maometto secondo con Ricciardo e Zoraide (messa in scena al
San Benedetto l’estate precedente), ridotto a un solo atto che
tuttavia piacque. La preoccupazione di Kübeck non era
artistica, ma di ordine pubblico: la buona riuscita di un’opera
garantiva pubblica soddisfazione, quando invece, secondo una
comunicazione dal tono spionistico da lui stesso ricevuta,
l’esito incerto del Maometto secondo produceva soltanto «il
continuo discorso, la critica, e l’osservazione generale delle
botteghe, de’ Circoli, e delle private radunanze».16 Il timore
era che si sfruttasse l’insuccesso per gettare discredito
sull’amministrazione cittadina. Come in tante occasioni
napoletane, Rossini e la sua musica assumono qui la rilevanza
di un dispositivo politico, di uno strumento di governance
anche ai fini di una confacente immagine internazionale della
città nel momento di massima affluenza turistica. Ancora con
Kübeck
Venezia perderebbe assai, se continuasse cosi a languire il
teatro della Fenice, il quale come Vostra Eccellenza mi
previene si annovera fra le risorse della sua prosperità nella
stagione carnevalesca per il numero copioso de’ forastieri,
che vi giungono, quando li spettacoli gradiscono, essendo
l’unico aperto nelle provincie Venete a tal sorta di
divertimenti.17
Giunse dunque il momento di Semiramide, creata alla Fenice il
3 febbraio 1823. Sulla Gazzetta privilegiata di Venezia del 6
febbraio si riportò l’incertezza del pubblico alle prime recite e
il successo parziale dell’opera (solo il secondo atto venne
«romorosamente applaudito»). L’opera fu rappresentata per 28
volte fino al 10 marzo con esito alterno; anche in questo caso
infatti non mancarono episodi di malcontento originati da
questioni esecutive. La precisione di alcuni dettagli nella
documentazione in nostro possesso mostra come, di sera in
sera, il pubblico divenisse più accorto e sensibile a ogni
accidentale flessione; l’integrità dell’esecuzione era
conseguentemente motivo di apprensione per gli organizzatori.
Durante una delle prime recite di febbraio, Galli (nel ruolo di
Assur) perse la voce; a seguito dell’imprevisto montò una lite
nell’intendenza del teatro fra chi invocava l’intervento
immediato del medico ispettore a ripristinare «il buon ordine
nel Teatro per qualche non raro puntiglio fra gli spettatori» e
chi, come il presidente del teatro Camillo Gritti, biasimava
l’intervento della polizia in palcoscenico, prendendo le difese
degli artisti.18 La conseguente omissione di alcuni brani viene
segnalata come potenziale innesco di inquietudini e
“mormorazioni”. Kübeck nel solito rendiconto al governatore
difende ovviamente l’intervento dell’ufficiale, in quanto «il
Commissario d’Ispezione deve garantire l’interesse del
pubblico e prevenire ogni mal umore, e turbamento».19 Il 23
febbraio Vittore Gradenigo effettua un dettagliato report a
Kübeck su altra recita in cui l’animosità del pubblico era stata
sedata col ripristino di un duetto tagliato, reclamato a gran
voce, a ridosso di altro duetto e con un surplus di impegno
vocale da parte di Semiramide/Colbran, prevista in entrambi i
brani, e, a dispetto delle “convenienze”,
accortosi il pubblico che oltre del canto della Mariani, si
voleva come al solito privarlo del duetto fra la Colbrant e
Galli [N. 8], proruppe in grida, in battimani, ed in fischj
durante tutta l’aria del Tenore [N. 10], e volle a forza prima
del duetto delle due donne [N. 11], quello con Galli [N. 8].
Il Sig. Co: Gritti venne meco a concertarsi per ciò che
dovevasi fare dopo il duetto fra la Colbrant e Galli mentre
per le convenienze e l’una, e l’altro non avrebbero potuto
subito dopo cantare, ma io non potei che rappresentargli la
necessità di non abbadare a convenienze, ed egli in fatti
riuscì a far che subito dopo si cantasse il duetto delle
Donne, per cui rimasto il pubblico soddisfatto, tutto finì
tranquillamente.20
Episodi che danno la misura di quanto accuratamente la solerte
amministrazione austriaca monitorasse gli umori del pubblico
nell’intento di ammansirli, approfittando di uno spettacolo
nuovo e in concomitanza di un ritorno eccellente, quando l’eco
delle celebrazioni della Santa Alleanza, gestite dagli austriaci,
non si era ancora sedata. Quanto alle diatribe interne al teatro,
esse cessarono con un monito a Gritti da parte del governatore
perché facesse rispettare le regole agli attori.
La ricettività del pubblico e le sue puntuali richieste
confermano che l’impatto di Semiramide era stato
considerevole. Una recensione particolarmente dettagliata,
edita in tre puntate sulla Gazzetta privilegiata di Venezia il 19,
il 22 febbraio e il primo marzo, ne dà la misura; si plaude
all’eccellenza del compositore nello stile grave come nel
leggiadro, alla bellezza dei duetti e dei cori, all’impiego
drammatico degli strumenti e dei fiati in particolare.21 E a
seguito della fama dell’opera si accesero nuove polemiche sui
diritti e sulla legittimità delle stampe musicali, mercato in forte
espansione e ancora poco regolato. Terminate le recite, un
avviso della presidenza della Fenice diffidava la pubblicazione
di alcuni estratti da parte di Ricordi, definiti “apocrifi” in
quanto la custodia dello spartito spettava al teatro, che aveva
ceduto i diritti ad Artaria. La compilazione di Ricordi doveva
quindi considerarsi illegittima.22
Il successo di Semiramide venne confermato a posteriori
dalla sua longevità sulle scene, caso raro tenuto conto della
scarsa diffusione dell’opera rossiniana seria dopo Rossini fino
alla Rossini
Renaissance, quando anche Semiramide tornò in auge grazie a
celebri interpretazioni, prima fra tutte quella di Joan
Sutherland nel ruolo della protagonista (Teatro alla Scala,
1962). Il ruolo di Arsace in particolare, contralto en travesti, fu
assai apprezzato dai contralti o mezzosoprani attivi negli anni
venti e oltre, che lo ritennero ideale banco di prova per
certificare il dominio del belcanto, ormai in fase declinante.
Dopo Rosa Mariani, per la quale il ruolo fu creato, cantarono
Arsace la Pisaroni e la Malibran, Pauline Viardot, Marietta
Alboni fino a Zelia Trebelli, che partecipò a una ripresa tarda
dell’opera per l’inaugurazione del Nuovo Teatro Costanzi di
Roma, nel 1880.
A Semiramide vennero presto pure attribuite proprietà che la
allontanavano dall’incipiente opera romantica e la partitura fu
ritenuta l’espressione di un mondo prossimo al tramonto, il
compendio ammirevole di un universo melodrammatico che
sopravviveva a sé stesso. La presenza di una sinfonia
introduttiva di vecchio stampo, con tanto di crescendo e ben
lunga, anziché del più moderno preludio introduttivo (i
principali elementi motivici tuttavia riaffiorano in momenti
strategici dell’opera, secondo tendenze “moderne”),
l’ipertrofia vocale con ampio uso di colorature a carattere
ornamentale, l’espansione volumetrica dell’immaginario
scenico, che si protende in volte oscure e risonanti di palazzi,
templi o mausolei, la stessa lunghezza abnorme dei due atti
riconducono in apparenza a un gusto neobarocco che Rossini
pareva aver archiviato sin dalle più ragguardevoli esperienze
napoletane (si pensi alla tagliente drammaturgia di Otello, agli
indugi e alle suggestioni paesaggistiche della Donna del lago,
alla inesorabile parabola tragica tracciata nel Maometto
secondo).
Erano passati dieci anni dal Tancredi. Le due opere
appartengono a uno stesso genere, tratte entrambe da fonti
francesi riconducibili al medesimo autore tragico (Voltaire);
identici sono librettista, compositore e teatro di destinazione,
entrambe, introduzioni e finali a parte, fanno a meno dei pezzi
concertati, allora così diffusi, e si fermano alla misura del
duetto. Tuttavia, difficile immaginare opere fra loro più
diverse di queste, a partire dalla distribuzione del cast in
relazione ai ruoli delle prime parti. In Tancredi l’eroe eponimo
è il contralto en travesti, guerriero e amante; in Semiramide il
soprano, regina e donna di potere che si è macchiata di una
grave colpa, quando in Tancredi il registro sopranile era
andato ad Amenaide, donna amante sottomessa alla volontà
paterna. In Semiramide Arsace, contralto en travesti, ama
Azema ma la sua caratteristica saliente non è quella di
innamorato bensì di essere figlio di Semiramide, condizione da
cui deriverà la sua sciagura. Al tenore Argirio in Tancredi
viene affidato il ruolo paterno, alla maniera settecentesca, e ne
deriva la tematica famigliare che imbriglia gli affetti di
Amenaide; in Semiramide il tenore è Idreno, re dell’Indo,
figura secondaria che entra solo di riflesso nelle trame
dell’opera (come è poco incisivo il ruolo della seconda donna
Azema). Il vilain è in entrambi i casi voce di basso; ma se
Assur in Semiramide si costituisce come figura chiave e ruolo
di grande rilievo drammatico, Orbazzano nel Tancredi appare
vocalmente meno caratterizzato: in occasione di una ripresa
scaligera nell’autunno del 1823, Galli si rifiutò addirittura di
interpretarlo, essendo ruolo «del tutto insufficiente» a rendere
merito alla sua fama, in un’opera il cui successo dipende, a suo
dire, da Tancredi, Amenaide, un poco da Argirio, mentre a
Orbazzano spettano soprattutto recitativi e bassi fondamentali
nei concertati.23

Alessandro Sanquirico, bozzetto per la ripresa milanese


di Semiramide al Teatro alla Scala, 1824

Pressoché opposta anche la tinta delle due opere: al carattere


virginale o arcadico-guariniano del Tancredi, si
contrappongono le suggestioni sinistre che aleggiano sulla
vicenda di Semiramide, gravata da un omicidio già commesso
i cui effetti si manifestano sotto forma di apparizioni spettrali,
e dall’ambiguità dei sentimenti materni/amorosi che legano la
protagonista ad Arsace. Vendetta ed espiazione
sopraggiungono in piena reciprocità nel finale funesto, che tale
è a prescindere dal coro trionfale conclusivo. La presenza della
Colbran, che già padroneggiava il tragico nelle sue molteplici
sfaccettature (da Desdemona ad Armida, da Ermione ad
Anna), aveva legittimato la scelta del soggetto e determinato il
maggiore rilievo di lei rispetto al contralto, quantomeno sul
piano della statura teatrale: è Semiramide infatti a costituire il
problema drammatico di fondo, carnefice oltre che vittima.
La caratterizzazione tragica dell’opera aveva reso superfluo
un intreccio complesso (sempre meno apprezzato dal
pubblico) che si dà soprattutto nel caso di epilogo lieto. Più
intricate infatti sono le trame e più facilmente l’epilogo può
volgere a un ritrovato equilibrio. Nella drammaturgia
settecentesca le peripezie sono congiunte l’una all’altra:
dipanato un nodo, tutto l’intrigo tende a indirizzarsi a una
soluzione lieta per effetto domino. Nel caso della Semiramide
rossiniana – che guarda tanto alla tradizione del dramma per
musica quanto alla tragedia di parola – si costituisce invece un
impianto rettilineo. Il delitto perpetrato in un tempo lontano
non può essere sanato attraverso il confronto o il dialogo; non
è a logica una peripezia che possa essere risolta ma un peso
sulle coscienze che si trasforma in incubo sin
dall’introduzione, quando la cerimonia al tempio di Belo viene
scossa dal primo evento soprannaturale (lampo, tuono e
spegnimento del fuoco sacro).
Il percorso emotivo della protagonista, sciagurata regina
come già Didone, traccia una parabola discendente attraverso
stazioni progressive e non si dà mai la possibilità che la
vicenda possa svoltare a suo vantaggio. Semiramide conosce
l’ansia di dover indicare un successore e il panico alle prime
manifestazioni soprannaturali a I,III. Subisce contestualmente
le minacce di Assur con cui condivide le antiche trame
omicide; cade poi nell’equivoca speranza che Arsace al suo
ritorno possa impalmarla e risollevare le sorti del regno, non
conoscendo la sua ascendenza («Bel raggio lusinghier», I,IX,
N. 5). Il suo tentativo di imporlo come regnante e sposo, oltre
a gettare nello sconcerto il diretto interessato, innamorato di
Azema, provoca l’apparizione dell’Ombra di Nino che
reclama vendetta (finale primo, N. 7). Nel secondo atto la
regina riesce a stento a sostenere il duro confronto con Assur
(duetto «Se la vita ancor t’è cara», II,III, N. 8) confidando
nell’ipotetico sostegno di Arsace, che però non gli giungerà:
Arsace potrà solo risparmiarla – nelle intenzioni – dalla
vendetta imposta dai magi (duetto «Ebbene… a te: ferisci»,
II,VII, N. 11). Il finale secondo la vedrà comunque soccombere
sotto la spada del figlio, che la colpisce per errore
scambiandola per Assur nell’oscurità del mausoleo (N. 13).
Assur mantiene saldo il suo profilo dall’inizio alla fine,
contraddistinto da cieca brutalità nel confronto con gli altri
personaggi (Arsace e Semiramide nei rispettivi duetti, NN. 3 e
8); sua l’esultanza finale sul cadavere di Semiramide. La
seconda vittima predestinata è invece Arsace. Tornato con
slancio e fiducia a Babilonia, spera di trovarvi coronamento ai
propri sogni amorosi («Ah! quel giorno ognor rammento»,
cavatina N. 2, I,IV); si scontra invece con un avversario
imprevisto (Assur, che vuole per sé Azema, duetto N. 3), gli
vengono imposti un soglio e un matrimonio inatteso da
Semiramide (finale primo, N. 7) e deve infine compiere una
duplice vendetta che deciderà di effettuare solo per metà
risparmiando la madre (duetto N. 11). L’errore commesso
nell’oscurità del mausoleo rovescerà i suoi propositi (Assur
sopravvive e viene arrestato, Semiramide defunge); il coro
finale «Vieni, Arsace, al trionfo, alla reggia», in tormentati
decasillabi, del tutto inusuali per una conclusione, lo sottrae al
suicidio e gli consegna in cambio una condizione penosa:
quella di sovrano e matricida, costretto a partecipare
all’esultanza generale dopo aver fallito nel modo più straziante
i propri propositi di vendetta. L’apparente lieto fine non è
sufficiente a recuperare l’equilibrio psichico e anzi lo altera
definitivamente; la colpa commessa dai genitori passa ai figli.
Quella soluzione dovette apparire subito troppo forte se
Rossini per una ripresa parigina del 1825, volendo forse
riavvicinarsi a Voltaire, inserì un più lungo monologo di
Arsace con Semiramide morente e sostituì il coro trionfale con
un coro di compianto. Nella celebre incisione discografica di
Bonynge-Sutherland-Horne del 1966 si pensò invece di
raddrizzare l’epilogo originario col taglio delle battute più
tragiche antecedenti al coro conclusivo, producendo così un
balzano epilogo trionfale (Assur ferito e arrestato, Semiramide
salva, Arsace in trono), che Cesare Questa paragonava
spiritosamente a un western di Sergio Leone.24
Quanto alla drammaturgia musicale, Rossini intervenne in
questo fertile materiale testuale tracciando architetture
monumentali per grandi arcate – una tendenza già verificata
nelle opere napoletane della sua “seconda maniera”, da Otello
in poi – e dilatando i tempi in un crescendo di alta intensità
drammatica. Questa successione di grandi forme basterebbe a
scongiurare l’ipotesi tante volte avanzata di una rievocazione
settecentesca premozartiana e a rilanciare invece –
differentemente da Tancredi – una lettura dell’opera
decisamente progressista, dove i confronti fra personaggi e gli
eventi visibili occupano l’intero spazio musicale del numero
affidandosi solo in piccole dosi al dialogo in recitativo,
ovviamente strumentato, come a Napoli.
L’introduzione dà conto di un equilibrio fragile e subito
incrinato: le celebrazioni presso il tempio si sovrappongono
alla presentazione dei due maggiori antagonisti (Assur,
Semiramide) e dei loro timori o aspirazioni. Anche senza
l’impiego di un argomento introduttivo, che nel libretto
originale manca, la vocalità scolpita di Assur e le improvvise
incursioni nel modo minore («la mia fede, il mio valore», I,II)
alludono alla colpa commessa e all’illegittimità delle sue
pretese al trono; l’“a tre” di «A quei detti, a quell’aspetto», con
Idreno e Oroe, sfrutta le colorature al grave per raffigurare una
condizione emotiva torbida. Viceversa, le prime parole di
Semiramide sono cantate in “a parte” e in una sezione
concertata dall’andamento flebile («Di tanti regi e popoli»,
I,III); seguono l’invito a scegliere il successore di Nino e
relative esitazioni di lei. L’universo morale dei due personaggi
è così definito con pochi tratti, fra prepotenza e senso di colpa,
nell’ambito di una struttura assai vasta che ingloba un’azione
essenzialmente psicologica.
Se nel finale primo – quello dell’apparizione dell’Ombra e
della designazione di Arsace – la fusione di punti di vista
contrapposti si articola in modo ampio e strutturato attraverso
una successione di sei tempi, il confronto fra personaggi
avviene in Semiramide soprattutto a coppie, e ne escono
confronti vocali che nella pur frequente condivisione di
materiali melodici esprimono distanza o contrapposizione
(indicativamente, nessun duetto è previsto per Idreno e
Azema, seconde parti sentimentalmente concordanti, ma solo
due arie del tenore alla presenza di lei, NN. 4 e 10).
Nel duetto di Arsace e Assur a I,VII, «Bella immago degli
Dei» (I,VI, N. 3), lo scontro fra i due avversari diviene vieppiù
esplicito nel corso del brano – strutturato secondo i princìpi
della “solita forma” in via di definizione, che Rossini
all’occorrenza già manipola25 – e si svolge soprattutto a
livello timbrico, nel registro contraltile e in quello grave, ed
entrambe le parti dispongono di colorature. Semiramide e il
figlio cantano assieme una prima volta al duettino «Serbami
ognor sì fido» (I,XI, N. 6), costruito sull’ironia drammatica:
personaggi così vicini (c’è amore) ma così distanti (si tratta di
amori diversamente orientati, e quello di Semiramide è
improprio). Il parallelismo musicale sancito dalla cabaletta
finale «Alle più care immagini», perlopiù in canto simultaneo,
cela un divario di condizioni emotive che lo spettatore ha già
pienamente afferrato, e questa sfasatura rende il brano
inquietante e presago di sventure. L’altro loro duetto in II,VII,
«Ebbene… a te: ferisci» (N. 11) costituisce il compimento di
quel presagio. Dopo il vibrante tempo d’attacco, la condizione
di affetto reciproco sembra stabilizzarsi negli abbracci canori
al cantabile «Giorno d’orrore!…»; ma i confronti serrati della
cabaletta «Tu serena intanto il ciglio», pervasa da animazione
febbrile e vocalità iperbolica, attestano quanto sia fittizia la
speranza di un ipotetico perdono (cui pur allude il testo), che
manifesta così tutta la sua irrealtà. Il modo di enfatizzare le
situazioni drammatiche a Rossini più congeniale resta quello
di saturare il canto, raggiungendo effetti stranianti quando le
colorature, caso tutt’altro che infrequente, prendono il
sopravvento sulla parola intesa come fondamento semantico,
impossessandosi del personaggio.
Raramente un singolo brano risulta emblematico di un’intera
opera come il duetto di Semiramide e Assur «Se la vita ancor
t’è cara» (II,III, N. 8), dove fra un passato che riaffiora, un
presente incerto e l’avvenire che si profila ingannevole, si
compendiano nuclei drammatici che costituiscono la forza
propulsiva del dramma. In apertura, il loro è un confronto di
forza fra colpevoli per il soglio, ove a Semiramide la forza
proviene però dall’illusione di poter confidare sull’aiuto di
Arsace. Il cantabile a seguire, «Quella ricordati / notte di
morte», consiste in una impressionante rievocazione
dell’omicidio commesso tre lustri prima. Su
accompagnamento ostinato dell’orchestra, imperturbabile e
infarcito di sinistre appoggiature – Verdi le ricorderà nella
scena del sonnambulismo della sua Lady Macbeth –, si staglia
con tono epico, su un unico motivo conduttore, il canto dei due
personaggi che non sanno liberarsi l’uno dell’altra, accomunati
da antiche passioni, dal delitto e dalle reciproche accuse. Il
tempo di mezzo («Ma implacabile di Nino») riporta al
momento corrente ed è scosso dalla «musica festevole nella
reggia» con consueto effetto di contrasto; Semiramide ne
ricaverà lo slancio (illusorio) per dettare la scalpitante
cabaletta «La forza primiera».
Se il dramma nelle sue irrisolvibili scabrosità si materializza
soprattutto nei duetti, le due cavatine di Arsace e
Semiramide – Assur ne è privo, perché i suoi propositi non
possono essere dichiarati in modo esplicito – si protendono in
un mondo ideale, fatto di aspirazioni vane o inadeguate.
Arsace in I,V modella la sua aria di sortita sul tòpos del ritorno
in patria, in cui si coglie qualche affinità con la stessa
situazione del Tancredi, anche nell’introduzione orchestrale
(«Eccomi alfine in Babilonia. – È questo», recitativo e
cavatina, N. 2). Lo sospinge il «segreto cenno» di Semiramide
ma ancor più l’amore promesso ad Azema in passato («Ah!
quel giorno ognor rammento»). Alla rievocazione dei primi
sguardi amorosi («Schiuse il ciglio, mi guardò…») Arsace si
lascia travolgere dall’ebrezza del canto (cabaletta «Oh! come
da quel dì»); ma è una speranza utopica: l’amore corrisposto
per Azema non avrà seguito. Nessun duetto d’amore intercorre
fra i due; oggetto dell’altrui desiderio (la vogliono Arsace,
Idreno, Assur), Azema non ha neppure un’aria dove possa
esprimersi liberamente. Semiramide la destina a Idreno:
l’oggetto dell’amore di Arsace si avvia così a un matrimonio
non desiderato (II,VI), dopodiché non se ne sa più niente, né
Arsace, obbligato alla vendetta del padre, più la rammenta.
A Semiramide è assegnato il brano più celebre, la cavatina
con coro di donne «Bel raggio lusinghier» (I,IX, N. 5).
Decontestualizzata, pare una sfolgorante celebrazione della
vocalità belcantistica e in genere così è presentata. Ma
caliamola nel dramma: nei giardini pensili, il coro femminile
d’apertura annunzia a Semiramide l’imminente ritorno di
Arsace, inneggiando alla «calma» dell’amore e all’aure che
«spiran d’amor la voluttà»; se già non sapessimo che Arsace
torna per amore di Azema e non ci fosse giunto all’orecchio
che Arsace di Semiramide è figlio (i due personaggi ancora
ignorano questa loro condizione), nient’altro sarebbe che una
complice e suadente introduzione a un’aria amorosa, con
coinvolgimento della protagonista. Nella cabaletta «Dolce
pensiero» la febbrile attesa, sostenuta ancora dal coro, viene
amplificata da inesauste ornamentazioni sulle parole-chiave
(“gioia” e “amor”). Il tripudio e l’esultanza si rivelano però
equivoci nel momento stesso in cui si manifestano, a causa
della sfasatura tra la reale condizione dei personaggi e la loro
rappresentazione mentale degli eventi in corso. La vocalità
scintillante delle due cavatine, di Arsace e di Semiramide,
nasconde quindi insidie e predestinazioni.
Chi è pienamente conscio della propria condizione e se ne fa
vanto è invece Assur. Per lui solo un cedimento in II,VIII-IX,
quando si appresta a addentrarsi nel mausoleo di Nino per
sorprendervi Arsace e tentare di ucciderlo (N. 12, scena, coro e
aria «Il dì già cade. – Ah! sia»). I Satrapi gli comunicano la
decisione finale del capo dei Magi, ispirato dall’Ombra, che lo
vuole lontano dal soglio a vantaggio di Arsace. Con fare
risoluto Assur si introduce comunque nella tomba e lì gli si
manifestano immagini orribili che lo respingono. La colpa
commessa si traduce in spettri visti soltanto da lui che lo
inducono a invocare solennemente pietà («Deh!… ti ferma…
ti placa… perdona…»): una situazione analoga al delirio di
Macbeth, ossessionato dal fantasma di Banco nella scena del
banchetto in chiusa al secondo atto dell’opera verdiana, circa
un quarto di secolo dopo. L’incubo poi svanisce; la cabaletta
«Que’ Numi furenti…» col suo incedere cavalleresco non
riesce però a celare del tutto, a seguito delle tremebonde
colorature al grave, l’effetto sortito in Assur dalle immagini
spettrali che la sua fantasia eccitata e omicida si è
confezionata.
Il decorativismo vocale ipertrofico ed entusiasmante spesso
identificato come la cifra stilistica della Semiramide rossiniana
è quindi più sintomo di crisi che non rievocazione nostalgica
di un mondo comunque già tramontato. Del resto, l’impiego
sovrabbondante del canto di coloratura in Rossini – come pure
il carattere strutturato della melodia e l’incontenibile
esuberanza orchestrale – era percepito già all’epoca come un
brusco allontanamento dagli usi della scuola napoletana,
indirizzata al canto inteso come espressione spontanea delle
emozioni; e difatti l’avvento di Bellini (napoletano di
formazione) rappresentò per molti un ritorno alla “verità”
melodica di Paisiello, un superamento degli artifici rossiniani a
vantaggio di una ritrovata naturalezza. In Semiramide il
commiato dal Settecento si fa perciò particolarmente risoluto e
non solo dal punto di vista del canto: vi si insinuano infatti gli
elementi innovativi di una drammaturgia fondata su colpe non
estinguibili, sul passato di cui non ci si libera, sui conti lasciati
aperti col destino. Il tragico settecentesco di matrice
volterriana (a sua volta di derivazione classica) “punta” in
queste soluzioni all’opera romantica. È sintomatico quindi che
Rossini abbia interrotto la sua carriera operistica italiana con
quest’opera fosca e pessimistica, prima della sua bruciante e
brevissima ripartenza professionale in terra di Francia. Se nella
Donna del lago il primo ingenuo romanticismo è
prudentemente accolto e incorniciato nel contesto naturalistico
e borbonico, in Semiramide il romanticismo lo si osserva per
così dire dall’esterno; lo si respinge ma al tempo stesso se ne
determinano alcuni fondamentali presupposti.
SUGGERIMENTI DI LETTURA
Sull’intervento di Rossini al Congresso di Verona ZAMBON
1996. La tradizione operistica del soggetto di Semiramide è
delineata con taglio filologico in QUESTA 1989. Sulla
Semiramide rossiniana GOSSETT-ZEDDA 2001; per uno sguardo
comparativo sull’avvio e la conclusione dell’attività di Rossini
compositore d’opera seria HADLOCK 2004. Sul fantastico
nell’opera italiana dell’Ottocento CHEGAI 2005.
DA ASCOLTARE

Semiramide
Myrtò Papatanasiu (Semiramide), Ann Hallenberg (Arsace),
Josef Wagner (Assur), Robert McPherson (Idreno), Igor Bakan
(Oroe), Julianne Gearhart (Azema), Eduardo Santamaria
(Mitrane), Charles Dekeyser (Ombra di Nino), Symphony
Orchestra and Chorus of Vlaamse Opera Antwerp/Ghent, dir.
Alberto Zedda, Dynamic 2013

11. Commiato dall’Italia ed epilogo di una tradizione


1 Allgemeine musikalische Zeitung, XXIV, n. 16, 17 aprile 1822, col. 259.

2 Cit. in FABBRI-MONALDINI 2000, pp. 79-80.

3 Cit. in FABBRI 2018, p. 382.

4 È quanto lascia intendere l’esordiente Donizetti, che nel 1819 confessava di


«essere nella necessità di attaccarsi al genio Rossiniano per secondare il gusto della
giornata» (FABBRI 2018, p. 407). Anche Pacini nei suoi ricordi autobiografici
rievocava quegli anni di forzato rossinismo: «quanti in allora erano miei coetanei,
tutti seguirono la stessa scuola, le stesse maniere, per conseguenza erano imitatori,
al par di me, dell’Astro maggiore. – Ma, Dio buono! Come si faceva se non vi era
altro mezzo per sostenersi? Se io era dunque seguace del sommo Pesarese, lo erano
del pari gli altri» (PACINI 1865, pp. 64-65).
5 GRLD 1996, pp. 28-29 (Venezia, 17 agosto, Presidenza del Teatro La Fenice al
Governo delle Provincie Venete; cfr. anche pp. 30-31).
6 GRLD 1996, p. 44 (Castenaso, 10 ottobre 1822, Gaetano Rossi a Giacomo
Meyerbeer, Venezia).
7 GRLD 1996, p. 53 (Castenaso, 28 ottobre 1822, Gaetano Rossi a Giacomo
Meyerbeer, Venezia).
8 GRLD 1996, p. 44 (Castenaso 10 ottobre 1822, Gaetano Rossi a Giacomo
Meyerbeer, Venezia).
9 BRIGHENTI 1830, p. 17.

10 GRLD 1996, p. 39.

11 Vedi la giovanile e dispersa Cantata pel dì natalizio di S.M. Ferdinando Primo


Imperatore e Re (1836) o le dediche del Nabucco(all’arciduchessa Maria Adelaide
d’Austria) o dei Lombardi alla prima crociata (a Maria Luigia di Parma); al
riguardo MELLACE 2013, pp. 75-76.
12 HILLER 1855, pp. 120-122.
13 Gazzetta di Parma, 17 dicembre 1822, p. 402 (Verona, 4 dicembre).

14 GRLD 1996, p. 97.


15 GRLD 1996, 31 dicembre 1822, p. 98.

16 GRLD 1996, p. 104 (2 gennaio 1823, Petropoli a Luigi de Kübeck).


17 GRLD 1996, p. 99 (31 dicembre 1822, al governatore delle Provincie Venete).

18 GRLD 1996, pp. 117-118 (Venezia, 7 febbraio 1823, Vittore Gradenigo a Luigi
de Kübeck).
19 GRLD 1996, p. 124 (Venezia, 21 febbraio 1823, Luigi de Kübeck al
governatore delle Provincie Venete).
20 GRLD 1996, p. 126 (Venezia, 23 febbraio 1823, Vittore Gradenigo a Luigi de
Kübeck).
21 La recensione è riprodotta e commentata in GOSSETT-ZEDDA 2001, pp. XXXVIII-
XLI.

22 GRLD 1996, pp. 150-151 (Venezia, 15 aprile 1823).


23 GRLD 1996, p. 183 (Milano, 27 ottobre 1823, Filippo Galli a Giuseppe Maria
Franchetti).
24 QUESTA 1989, p. 313n.

25 Vedi il caso della scena e aria di Arsace in II,IV (N. 9), nel commento di DELLA
SETA 1993, pp. 83-84.
12. Mediazione e autorappresentazione
nei primi anni parigini
1823-28

Auguste Caron, Incendie de Corinthe,


schizzo della scenografia di Le siège de Corinthe (scena finale dell’atto terzo),
Opéra, Parigi, 9 ottobre 1826

L’attrattiva esercitata da Londra e Parigi nei confronti dei


compositori italiani è una costante antica quasi quanto l’opera.
Rispetto ad altre capitali europee come Vienna, Monaco,
Dresda, Madrid, Lisbona o S. Pietroburgo, avamposti
dell’opera italiana pur con ibridazioni locali, Londra e Parigi
rappresentano una frontiera e al tempo stesso una
consacrazione. Le accomuna la levatura del pubblico, che
poteva confrontarsi con un’offerta musicale ricca e articolata;
le distinguono però le aspettative degli spettatori. A Londra
interessava il canto, meno la qualità del dramma, e non vi era
una tradizione autoctona così forte da poter insidiare in modo
durevole il primato dell’opera italiana, che si prolungava
dall’epoca di Händel, a quella di J.Ch. Bach o Sacchini, fino
alle più recenti affermazioni di Bianchi, Winter o Pucitta, oltre
alle riprese di opere dei maggiori compositori napoletani. A
Parigi il compositore italiano di fine Sette e primo Ottocento
andava invece a collocarsi in un sistema complesso ove
l’opera italiana aveva assunto un ruolo sì rilevante, in teatri a
essa destinati, ma non prevalente, data la sussistenza di
tipologie nazionali di spettacolo musicale quali la tragédie
lyrique, l’opéra-comique, l’opéra-ballet, ed era frequente che i
migliori compositori italiani si cimentassero con opere in
lingua francese anche nel maggiore teatro parigino, l’Opéra.
Il confronto fra tradizioni operistiche italiane e specialità
autoctone aveva da metà Settecento suscitato ben note
polemiche, sulla base di contrapposti orientamenti estetici e
filosofici. Ma negli anni immediatamente antecedenti
all’affermazione di Rossini le questioni illuministe relative alla
musicalità della lingua e alla dialettica fra modello classico-
tragico (francese) e modello opera (italiano), con debite
ricadute sui soggetti prescelti e sullo stile di canto, non
possedevano più la veemenza di un tempo, e la continuità dei
generi locali si armonizzava con la presenza ormai acquisita di
autori italiani. L’estetica gluckiana era confluita nella
produzione di Sacchini e Salieri, giungendo a lambire
Spontini, comune destinazione l’Opéra; alla lunga permanenza
parigina di Cherubini – contrassegnata dal debutto all’Opéra
con Démophoon, 1788 – corrispose la diffusione ad ampio
raggio di produzioni originali di diverso genere (oltre alle
tragédies lyriques per l’Opéra, i suoi opéras-comiques al
Théâtre Feydeau e altro). Vicenda in parte affine quella del suo
allievo Michele Carafa (1787-1872), francese di adozione (dal
1834 ebbe la cittadinanza), amico di Rossini del quale adattò
in francese la Semiramide, docente al Conservatoire e attivo in
più generi musicali (il suo Masaniello, 1827, fornì il soggetto
alla Muette de Portici di Scribe/Auber, 1828).
Nonostante i cambiamenti di scenario politico, non mutò
l’interesse nei confronti dei compositori italiani, che facendosi
gradatamente parte attiva ampliarono la loro influenza sulle
politiche del teatro. Come già Paisiello nella sua breve
apparizione parigina, Spontini e Paer furono l’espressione
della volontà imperiale di acquisire celebrità italiane a
beneficio dei teatri locali. Nei casi più fortunati (Cherubini,
Spontini, Paer) la sistemazione parigina, protratta nel tempo,
rese i compositori italiani operativi sul fronte gestionale oltre
che su quelli compositivo ed esecutivo. Senza più la
connotazione avventurosa che aveva caratterizzato tempo
addietro le spedizioni artistiche di italiani a Parigi,
l’insediamento di compositori italiani nella capitale francese
era dal primo Ottocento divenuto rituale (mentre non si dava il
caso contrario: dalla Francia, l’Italia importava principalmente
danzatori e coreografi).
Dopo qualche mese di relativa inattività, il 20 ottobre 1823 i
Rossini partivano da Bologna. Tappa intermedia Milano; il
compositore seguì alla Scala le prove di una ripresa del
Tancredi con Brigida Lorenzani nel ruolo eponimo e Rosa
Morandi, sua vecchia conoscenza dai tempi della Cambiale di
matrimonio, in quello di Amenaide. Lasciandosi alle spalle
Ginevra, la coppia giunse a Parigi il 9 novembre. Come nel
caso di Vienna, la musica rossiniana aveva anticipato l’autore;
il varco era stato aperto dall’Italiana in Algeri, eseguita
privatamente nel 1816 e inscenata l’anno dopo al Théâtre
Italien, da allora in poi destinazione elettiva di opere
rossiniane già di repertorio, spesso in versioni interpolate,
nonostante la reticenza manifestata da Paer che dirigeva il
teatro dal 1812 su incarico di Napoleone (al Théâtre de
l’Odéon l’opera italiana veniva invece data in traduzione
francese). Rossini in persona ebbe il suo battesimo al Théâtre
Italien col Barbiere di Siviglia (11 novembre, a García il ruolo
di Almaviva) e gratificò il pubblico della sua presenza anche
in spettacoli successivi; di Otello, con García nel ruolo
protagonistico e Giuditta Pasta in quello di Desdemona, curò
anche le prove (29 novembre).1 Le prime settimane parigine,
durante le quali la coppia fruì dell’ospitalità altrui senza
prendere dimora, furono però destinate prevalentemente a
mondanità, occasioni conviviali ed eventi artistici; i Rossini
infatti erano diretti a Londra, e quel breve periodo dette loro la
misura dello stile di vita che Parigi accordava ai suoi ospiti di
prestigio. Pochi giorni dopo l’arrivo, il compositore scriveva al
padre: «Io non posso abbastanza Spiegarvi l’accoglimento che
mi anno fatto questi francesi […] non faccio che ricevere
visite delle persone Le più interessanti del Paese: Ho
continuamente inviti, Palchi al Teatro etca».2 I palchi erano
anche quelli dell’Opéra, consacrata al repertorio francese,
dove Rossini iniziò a prendere contatto diretto con gli
orientamenti locali; ma frequentò anche i concerti (all’Ecole
royale et spéciale de chant) e incontrò colleghi autorevoli
come Cherubini, Le Sueur, Reicha e il musicografo
Alexandre-Étienne Choron. A suggello delle manifestazioni di
benvenuto gli fu offerta l’aggregazione onorifica all’Académie
des Beaux Arts.
Nella dimensione privata del salotto Rossini fece valere le
sue qualità di affabulatore, intrattenendo l’uditorio con garbo e
disinvoltura e non di rado facendo ricorso alla sua arte. Per
compiacere Maria Carolina di Borbone, duchessa di Berry,
rispolverò le sue doti canore eseguendo l’aria di Figaro,
un’aria napoletana e una Tyrolienne senza parole «come se
fosse lui stesso uno strumento musicale»,3 e concesse il bis a
casa della contessa María de Merlin, scrittrice melomane e
futura autrice di una biografia della Malibran, e dall’attrice
Ippolita Mars, quando durante una serata data in suo onore
intervenne anche l’attore François-Joseph Talma. In occasione
di un incontro col pittore François-Pascal Gérard gli fu
presentato il giovane Balzac, che nel suo Massimilla Doni
(1837) stenderà alcune fra le pagine più note di letteratura
d’argomento musicale, a proposito di una immaginaria
rappresentazione del Mosè in Egitto alla Fenice. Il culmine
delle celebrazioni di benvenuto fu raggiunto con un banchetto
ufficiale dato a spese di colleghi e artisti il 16 novembre presso
il Restaurant du Veau-qui-tette, in piazza dello Châtelet; salutò
l’ingresso del compositore una fragorosa esecuzione della
sinfonia della Gazza ladra. I partecipanti furono
numerosissimi e il 22 novembre la Colbran scriveva al suocero
con tono stupefatto e chiarezza di intenti sull’immediato
futuro: «in questo Paese non ci Lasciano vivere a forza di
gentilezze e Onori che fanno a Gioachino già avrete saputo
che anno dato un pranzo di 150 persone di Artisti dove non vi
posso dire quello che anno fato per Lui un Re no può avere più
onori; questo va bene ma desideriamo andar a Londra per far
denari».4
Il successo pubblico non fu comunque sufficiente a
schermare del tutto Rossini dall’insofferenza che il suo stile
lussureggiante suscitava presso quella parte del pubblico e
della critica che restava fedele alla concezione francese del
rapporto fra testo e musica, fondata prevalentemente sulla
declamazione. Gli fu affibbiato il nomignolo di “monsieur
Vacarmini” (“signor Baccano”, preso in prestito da un
personaggio della commedia La musicomanie, 1779); ma
prevalse il favore accordatogli dai potenti. Tanto clamore
suscitò anche immediate ricadute teatrali e letterarie. Il
giovane Eugène Scribe e Edouard Mazères approntarono un
«à-propos-vaudeville» in un atto, intitolato Rossini à Paris ou
Le grand dîner, al Théâtre du Gymnase Dramatique dal 29
novembre, pochi giorni dopo il banchetto di benvenuto; lo
spettacolo raggiunse a gennaio le 26 rappresentazioni. Fra le
numerose gag, quella di un gruppo di musicofili alle porte di
Parigi in attesa dell’arrivo di Rossini; a essere festeggiato sarà
però un giovane compositore francese a lui somigliante,
mentre il vero Rossini passerà inosservato. Se questi, come
pare, assistette a una delle repliche, avrà sicuramente
apprezzato lo humour della situazione.
Sempre in occasione di quel primo soggiorno parigino,
Henry Beyle (Stendhal) si affrettò a concludere e pubblicare la
sua Vie de Rossini, annunciata a fine 1823 e edita nel 1824,
che andava così ad aggiungersi alle altre sue “vite” (Haydn,
Mozart e Metastasio, 1814). Prevale oggi un comprensibile
scetticismo circa l’utilità degli apporti del testo stendhaliano.
Si tratta però di una questione mal posta: a onta del titolo, la
Vie de Rossini non è stricto sensu una biografia, ma quasi più
una guida costituita da notizie, brevi analisi e opinioni critiche
dotate di un tasso di originalità variabile e organizzate
seguendo la falsariga rossiniana, con frequenti sconfinamenti.
Stendhal non tratta propriamente di Rossini, bensì di sé
stesso in qualità di ascoltatore d’opera italiana, servendosi di
Rossini (e dei suoi cantanti, con giusto rilievo), e
all’occorrenza ascrivendosi opinioni correnti. La sua fu una
trasfigurazione letteraria dell’esperienza artistica propria e
altrui, col pregio non indifferente di costituire una
testimonianza temporalmente ravvicinata rispetto alle
questioni narrate (forse solo Verdi poté avvalersi di una simile
sponda teorico-critica alla pubblicazione dello Studio di
Basevi, nel 1859, fatte le debite differenze di penna, a
vantaggio di Stendhal, e di competenze musicali, a vantaggio
di Basevi). Se è vero inoltre che alla Vie stendhaliana,
combinata con lo scritto pressoché coevo di Carpani (assai più
breve ma spesso più pertinente), si debbono molte delle
credenze e dei luoghi comuni che sovraccaricano l’immagine
del compositore, e che risulta difficile separare il grano dal
loglio, è vero d’altra parte che alcuni temi sostanziali nella
lettura dell’uomo e dell’artista si debbono alle pagine di
Stendhal, e sono temi che da allora non hanno mai
abbandonato il discorso critico, nel bene o nel male. Fra
questi: il concetto di interregno dalla morte di Cimarosa
all’avvento di Rossini, per un genere musicale ancora
bisognoso di “sovranità”; la disparità dei due modelli di
Cimarosa e Paisiello, rispettivamente incisività e grazia,
entrambi costitutivi per il linguaggio rossiniano ma entrambi
insufficienti ad afferrarne i fondamenti; di converso,
l’influenza su Rossini di Mozart e Haydn;5 la contrapposizione
fra la dottrina armonica di Mayr, che rese stimato il bavarese
nell’ottica compositiva, e la vivace scrittura rossiniana, tutta
teatralità; gli autoimprestiti effettuati anche per dotarsi di una
precisa identità stilistica; la svolta del Tancredi come punto di
avvio della dilagante moda rossiniana; la vocazione comica di
Rossini e le motivazioni economiche della produzione seria
(ma su questo si dissente da tempo); sul fronte della storia
dell’opera, il progressivo allontanamento dal 1730 in poi dalla
pura melodia italiana a vantaggio di uno stile vocale esso
stesso veicolo di teatralità; il germanesimo di Zelmira e
Semiramide cui corrispose una seconda decisiva svolta,
contraddistinta dall’epilogo della carriera italiana (quanto
quell’epilogo fosse irrevocabile Stendhal non poteva ancora
immaginarlo).
Quando sul banco dei librai si impilavano le copie della Vie, i
Rossini erano già partiti alla volta di Londra (7 dicembre
1823). Il loro soggiorno si sarebbe prolungato per circa sette
mesi, contrassegnati come già a Vienna e Parigi da una
miscela di eventi mondani, intrattenimenti musicali privati,
esibizioni pubbliche. La notorietà di Rossini si era lì diffusa da
un quinquennio, a partire da una rappresentazione del Barbiere
di Siviglia (1818) preceduta l’anno prima dall’inserimento al
King’s Theatre di un suo numero nella Molinara di Paisiello,
del quale a Londra era ritenuto l’erede.6 Giorgio IV lo incontrò
il 29 dicembre al Royal Pavilion di Brighton e ancora una
volta Rossini fece ricorso alle sue doti esecutive per procurarsi
la simpatia degli ascoltatori; in programma la cavatina di
Figaro e la Canzone del salice di Desdemona: selezione di
brani stravagante – un ruolo baritonale e uno sopranile in
falsetto, quasi una rievocazione dell’arte dei castrati – che la
dice lunga sulla disinvoltura con cui Rossini si presentò
all’augusto regnante, forse per confermare l’immagine che si
aveva di lui, noto per affabilità e destrezza e avvezzo a
commerciare con illustri interlocutori, o forse per stupire con
capacità esecutive inattese, su musica propria. Simile logica lo
guidò nella pianificazione, mesi dopo, di due concerti a
proprio beneficio alle Almack’s Assembly Rooms di Londra,
abituale ritrovo della bella società (14 maggio e 11 giugno
1824; il prezzo del biglietto fu assai elevato per filtrare
adeguatamente il pubblico). Nel primo concerto Rossini cantò
nuovamente la cavatina di Figaro e un duetto per due bassi dal
Matrimonio segreto di Cimarosa («Se fiato in corpo avete»),
adattato per lui e Angelica Catalani, una delle star favorite dai
londinesi, ormai a fine carriera; nel secondo concerto si
ascrisse il ruolo tenorile di Apollo in una breve cantata alla
memoria di Lord Byron, da poco scomparso in Grecia durante
la guerra di indipendenza dal dominio ottomano (Il pianto
delle Muse, che riprende qualcosa dal Maometto secondo). Il
programma condiviso con la Catalani, quasi uno sketch da
avanspettacolo, fu riproposto anche a Cambridge nella Senate
House della celebre università; la recensione pubblicata sul
Times elogiò il Rossini abile performer che con superiore
noncuranza aveva mosso a riso anche la collega rendendola
più volte incapace di proseguire.7
Oltre alla consueta partecipazione a eventi privati di spicco,
quali a Londra i giovedì musicali a Marlborough House,
residenza del principe Leopold di Sassonia-Coburgo-Gotha, le
serate ad Apsley House ospite del duca di Wellington, da
Rossini già incontrato a Verona, e gli intrattenimenti nella
dimora del duca di Devonshire già conosciuto a Milano,
Rossini assunse la direzione degli allestimenti di Zelmira (24
gennaio) e di Ricciardo e Zoraide (24 marzo), con cui si
concluse la carriera teatrale della Colbran. Il ruolo di
Composer and Director of the Music contemplava una nuova
opera che fu in effetti composta almeno in parte. Ce ne resta
solo il titolo: Ugo, re d’Italia (probabilmente una rivisitazione
di Adelaide di Borgogna), ignoto il librettista; riapparvero
invece due fra le opere favorite del compositore, La donna del
lago (8 luglio) e Semiramide (15 luglio). È probabile che gli
impegni mondani e le lezioni private impartite ad abbienti
dilettanti avessero distolto il compositore dal compimento di
quel progetto; ma è anche possibile che egli non fosse in
partenza così determinato a dar corso a una produzione
apposita, data la natura episodica della sua permanenza
londinese. Anche a Londra infatti il pensiero di Rossini corre a
Parigi; pochi giorni prima della sua partenza per l’Inghilterra
Rossini aveva già preparato una bozza di accordo con i teatri
francesi, in cui si impegnava a comporre un’opera per
l’Académie Royale de Musique, un’opera buffa e una
semiseria per il Théâtre Italien (dal 1818 inglobato
nell’Académie), assieme alla ripresa di uno dei suoi ultimi
titoli italiani e ad alcune rappresentazioni a proprio beneficio.8
Il 27 febbraio 1824 aveva poi concordato presso l’ambasciata
francese di Londra un contratto preliminare col governo
francese, firmato a Parigi il 25 novembre, dove, stante la sua
nomina a Directeur de la musique et de la scène du Théâtre
Royal Italien, meglio si definivano i futuri impegni
compositivi.
Il mancato compimento della nuova opera londinese lasciò
l’impresario del King’s Theatre (Haymarket), Giovanni
Battista Benelli, più che in angustie, anche se sarebbe
sproporzionato individuare nel mancato contributo rossiniano
la causa del fallimento che travolse l’impresa Benelli
nell’anno successivo, con relativa condanna di questi per
bancarotta fraudolenta; all’origine del fallimento vi furono gli
alti costi sostenuti per l’intera stagione, finanziariamente
gravata, oltre al resto, da ben otto titoli rossiniani, dalla
presenza di star pagatissime come García, Colbran, Catalani,
Giuseppina Ronzi e dall’exploit della diva del momento,
Giuditta Pasta, che nel 1824 era divenuta la nuova regina della
scena britannica.9 Ripartito Rossini alla volta di Parigi, il 25
luglio, a Benelli non restò che implorare soccorso con i toni di
un uomo disperato, per altro senza seguito: «Siccome avete
rovinato me, la mia famiglia e i miei poveri socj così spero
almeno di non ritrovarvi vile, quanto ingrato foste
ingiustamente con me. Mi figuro che serbiate un resto
d’onore».10
Dopo una sosta autunnale a Bologna per faccende legate alla
sua nuova casa di città, Rossini era di nuovo a Parigi ai primi
di novembre del 1824 e vi resterà per circa cinque anni.
Nonostante l’adattamento progressivo e accorto alla sua nuova
realtà, il divario rispetto agli usi e costumi italici fu avvertito
anche da lui. A Napoli aveva già operato in un ambiente
fortemente suggestionato dalla drammaturgia francese; il
lascito del decennio napoleonico-murattiano si era protratto
nel clamore dei successi di Spontini e Manfroce. Lui stesso
aveva prodotto opere serie come Armida o Ermione
riconducibili a modelli tragici transalpini, percepibili anche
nelle scene corali e nella tinta generale di Maometto secondo.
Non era invece aduso a metodi di lavoro così diversi come
quelli praticati a Parigi, dettati non dalla rapidità ma orientati
piuttosto alla graduale messa a punto di produzioni che
dovevano durare nel tempo ed entrare in repertorio per
restarci. Consuetudine, questa, che all’Opéra si era già
instaurata nel Settecento, diversamente da quanto avveniva in
Italia, dove solo da Rossini in poi, con pochi precedenti, si
andavano sperimentando stagioni d’opera caratterizzate oltre
che dall’avvicendamento di titoli sempre diversi anche dalla
riproposta di successi che in molti desideravano riascoltare,
contribuendo così alla definizione di un canone.
Il primo contatto diretto col sistema produttivo francese
avvenne, come si è detto, presso l’enclave dell’opera italiana a
Parigi, il Théâtre Italien (in quel periodo in procinto di
trasferirsi dalla Salle Louvois, convertita in magazzino per le
scenografie e demolita a fine Ottocento, alla Salle Favart),
dove la musica di Rossini si eseguiva da tempo. A partire dal
1º dicembre 1824, appoggiato dal visconte Sosthène de La
Rochefoucauld, il Pesarese ricoprì per due anni il ruolo di
responsabile delle stagioni teatrali, occupandosi di riprese di
titoli suoi e altrui, quando il tempo a disposizione glielo
rendeva possibile. La coabitazione con Paer fu gravosa
soprattutto per quest’ultimo, mosso da scarsa simpatia per il
rivale e animato da uno spirito di competizione che non di
rado sfociò in sotterfugi e incomprensioni. Circa due anni
dopo, confidandosi con Benelli, rancoroso per suo conto nei
confronti di Rossini, Paer gli attribuì la responsabilità della
cattiva gestione finanziaria e di aver lasciato il teatro «privo di
repertorio e si può dire anche d’attori malgrado le Enormi
spese che si fanno»,11 avendo montato soltanto due sue opere
(Semiramide e Zelmira), per altro senza successo.
Un’avversione, quella di Paer, dovuta anche ai diversi
orizzonti artistici dei due musicisti. Il compositore
parmigiano – di formazione anche francofona, dato che a
Parma la cultura teatrale francese era di casa – dopo alcune
esperienze in patria e a Venezia aveva raggiunto la propria
consacrazione all’estero, fra Vienna, Dresda e Parigi. Mai
ritenuto piena espressione dell’arte italiana dai contemporanei,
fu artista versatile che non poteva riconoscersi nei valori del
rossinismo, frutto della tradizione italiana del melodramma e
poi divenuto vincente prodotto da esportazione.
Le aspettative del pubblico erano volte a una nuova grande
opera francese che Rossini, dopo aver coltivato astrattamente
qualche idea, preferì rinviare per cogliere l’occasione che gli si
profilò con l’incoronazione di Carlo X di Borbone, subentrante
al fratello Luigi XVIII, defunto il 16 settembre 1824. La
celebrazione dell’evento avrebbe dovuto ripristinare il canone
tradizionale e si svolse nello scenario della cattedrale di
Reims, luogo di consacrazione dei re Capetingi, sulle note
della Troisième Messe solennelle in La maggiore di Cherubini,
composta appositamente, e di due mottetti di Jean-François Le
Sueur: una cornice simbolica allusiva al ritorno all’ordine e a
una concezione millenaria della sovranità, ricostituita dalla
diplomazia di Vienna ma ormai resa precaria dagli eventi. Il
sacre ebbe luogo domenica 29 maggio 1825, con la
partecipazione di centodue strumentisti e novantasei cantanti
che presero posto fra gli apparati predisposti da Cicéri,
scenografo dell’Opéra; il 6 giugno il sovrano fece il suo
ingresso a Parigi per la prosecuzione delle feste pubbliche
accompagnate da elargizioni, fuochi, luminaria, banchetti.
Secondo la consuetudine dei festeggiamenti di corte, che dal
1814 la corona aveva ricostituito su modello dell’Ancien
Régime, i teatri proposero nell’arco di pochi giorni una
moltitudine di lavori di circostanza (tragedie e commedie in
prosa, opere, opéras-comiques, vaudevilles storici, nella
maggioranza dei casi lavori collettivi con musiche di vari
autori). Fra questi Pharamond (Opéra, 10 giugno, arricchito da
un diorama e dall’apparizione finale, in cielo, della parata dei
re di Francia), Clytemnestre e La ferme et le château (Théâtre-
Français, 11 giugno), Le bourgeois de Reims (Opéra-Comique,
14 giugno), Louis XII, ou La route de Reims (Odéon, 17
giugno). Nacque così anche la nuova opera italiana di Rossini,
su libretto di Luigi Balocchi, inscenata al Théâtre Italien al
cospetto di un sovrano già saturo, per sole tre sere a partire dal
19 giugno 1825 e poi ritirata per volontà dell’autore; una
nuova recita si svolse in settembre.
Rispetto alla notorietà odierna, Il viaggio a Reims ebbe
all’epoca poco seguito, nonostante il teatro esaurito in ogni
ordine di posti. È probabile che Rossini, consapevole
dell’irripetibilità di quel successo, trattandosi di un’opera
celebrativa, già in quei giorni avesse maturato l’idea di
recuperare parte della musica e volesse prevenirne
un’incontrollata circolazione interrompendo le repliche (il che
non impedì a Giuditta Pasta di divulgare la particella di un
duetto per cantarlo lei stessa assieme ad altri in occasioni
extrateatrali). La destinazione ideale della musica del Viaggio,
di squisita fattura, era forse un’opera mai ultimata, La figlia
dell’aria; se, come pare, il soggetto era tratto dal «dramma
favoloso» di Carlo Gozzi (1791), Rossini avrebbe dovuto dar
voce a personaggi di diversa caratura forse spingendosi sul
terreno della parodia (vi figurano Semiramide, Nino, Venere,
Tiresia, ma anche un poeta, un villano e un tenente).
Accantonata l’idea e abbandonato anche il progetto di
un’opera francese (Le vieux de la montagne), la musica del
Viaggio finì per rimpinguare anni dopo la partitura de Le
Comte Ory (1828).
Dramma giocoso: così fu etichettato Il viaggio a Reims, che
propriamente dramma non è, né opera. In un solo atto lungo
circa tre ore, fa logicamente a meno del finale intermedio in
cui il nodo si ingarbuglia per essere dipanato nel secondo atto;
l’azione vive quindi di situazioni episodiche. I personaggi
sono ben 18 (l’intera compagnia di canto del teatro); fra gli
interpreti si distinguono vecchie conoscenze del teatro
rossiniano come Ester Mombelli (giovanissima in Demetrio e
Polibio, 1812) nel ruolo di Madama Cortese, e Domenico
Donzelli (già Torvaldo in Torvaldo e Dorliska, 1815), qui
Cavaliere Belfiore, assieme ad alcune fra le maggiori dive del
momento come la Pasta (nel ruolo di Corinna, la star del
dramma, quindi ella stessa una star “al quadrato”) o il basso
Nicolas Levasseur (1791-1871), presente nelle maggiori
produzioni parigine fino agli anni quaranta, compresi Moïse et
Pharaon, Le Comte Ory e Guillaume Tell (nel Viaggio fu Don
Alvaro, grande di Spagna).
Una tale moltitudine di attori non era finalizzata a produrre
un intreccio chissà quanto complesso bensì una parata di
situazioni sulla base di un unico dispositivo comico. L’esile
traliccio narrativo è presto detto. In vacanza presso un albergo
termale a Plombières, un gruppo di gentildonne e gentiluomini
vorrebbe raggiungere Reims per assistere all’incoronazione e
partecipare alle feste di contorno. C’è grande frenesia, ma fra
corteggiamenti e bagagli dispersi i preparativi si protraggono a
oltranza, finché non si trova più una carrozza disponibile; dal
disappunto scaturisce l’esplosivo Gran pezzo concertato a 14
voci («Ah! A tal colpo inaspettato», I,XVIII, N. 7, bissato alla
prima), prova di bravura compositiva e principale snodo
nell’articolazione della trama. Nel tempo di mezzo del
concertato Don Profondo dà infatti lettura di una lettera da
Parigi dove si annunzia il proseguimento delle feste nella
capitale, al ritorno del re; la compagnia decide quindi di
festeggiare in loco, organizzando intanto un banchetto allietato
da canti e balli – coreografia di Louis Milon, maître de ballet
dell’Opéra –, e di raggiungere in seguito il sovrano
direttamente a Parigi.
Vercellese di origine, pisano di formazione e trasferitosi a
Parigi nel 1802, il librettista Luigi Balocchi fu traduttore dal
francese di poemetti in versi (quelli di Gabriel-Marie Legouvé,
di gusto classico e volterriano) e di libretti d’opera, autore lui
stesso di testi per cantate e romances, di sonetti e liriche,
compositore di ariette e librettista dotato di un’ottima
conoscenza letteraria del teatro per musica italiano e da allora
stretto collaboratore di Rossini. Nella formulazione del suo
primo libretto rossiniano Balocchi dialoga più da vicino con
gli appassionati d’opera italiana, nel teatro loro destinato, che
con la famiglia regnante (cui è ovviamente indirizzato
l’epilogo). Lo confermano le numerose situazioni d’opera
buffa in cui il librettista attinge alle proprie conoscenze del
genere giocoso d’estrazione goldoniana, senza badare alla
lunghezza complessiva del testo. Nell’introduzione, percorsa
da febbrile animazione, si dà spazio come primi “soli” al
medico Prudenzio, che si attribuisce il merito della riuscita
delle cure termali, e a Madama Cortese, «donna spiritosa ed
amabile». Con galanteria non priva di toni artificiosamente
struggenti, in qualità di padrona di casa Madama Cortese si
appresta ad accomiatarsi dai suoi ospiti, dando istruzioni ai
servitori fino all’improvvisa ed esplosiva stretta a mo’ di
catalogo («I forestieri presto sen vanno», I,III): una tipologia
recuperata più oltre nella infinita lista dei beni da imballare
che Don Profondo elabora al N. 6 («Medaglie incomparabili»,
I,XV bis). La Contessa di Folleville – in cui si cela forse il
profilo di Juliette Récamier, signora dei salotti parigini, e non
è l’unica allusione a personalità del tempo – prende posto nella
lunga lista delle aristocratiche flebili e sempre bisognose di
sostegno morale; per lei sono previsti svenimenti, “sincopi” e
il tòpos della mancata partenza, causa perdita del bagaglio
(«Partir, o ciel! desio», I,VI, N. 2). La pienezza lirica della
prima parte dell’aria, in cui si alternano il pathos della rinunzia
e accorate suppliche allocutorie (a «Donne, voi sol
comprendere» uno dei motivi più apprezzati dell’opera), ha
esito nella cabaletta «Grazie vi rendo, o Dei!», originata dal
ritrovamento fortuito del cappellino; l’elemento comico,
asseverato dai commenti ironici del coro, non è mai disgiunto
da ricercatezza nella musicazione (anzi, ne esce fortificato).

Auguste Caron, schizzo della scenografia di Moïse et Pharaon


(atto quarto, tableau secondo), Opéra, Parigi, 26 marzo 1827

Qui, come altrove nel dramma, l’evento da celebrare passa in


subordine rispetto alle effimere motivazioni dei singoli e alla
rievocazione di un vasto campionario di circostanze che
costituiscono il lessico dell’opera buffa italiana e la
quintessenza del rossinismo. Il sestetto «Sì, di matti una gran
gabbia» (I,VIII, N. 3) non ha per esempio alcuna giustificazione
intrinseca: serve a proseguire la presentazione dei personaggi e
a imbastire un bisticcio per gelosia fra il Conte di Libenskof e
Melibea. Ma si tratta di liti passeggere: dopo il concertato di
stupore, con toni da opera seria e senza rinunziare a seducenti
intrecci nelle parti vocali («Qual dispetto! qual furore!»), il
bisticcio svanisce allorché, da dentro, si ascolta preludiare
all’arpa e poi il canto di Corinna, che strofa dopo strofa
rilancia l’entusiasmo della compagnia («Arpa gentil, che fida»,
I,XI); pagina soave, assolve anche al compito di introdurre
alcuni elementi encomiastici relativi all’incoronazione, virati
in note liriche.
Corilla Olimpica, al secolo Maria Maddalena Morelli, visse
davvero (Pistoia 1727-Firenze 1800) e fu una figura di
riferimento per l’arte – eccelse nella poesia estemporanea, più
che nel canto – e per la caratterizzazione emblematica che
seppe conferire al proprio personaggio, identificato con la sua
persona nella commemorazione di una ideale grecità.
Apprezzata a Vienna anche dal Metastasio, a Roma fu accolta
nell’Accademia d’Arcadia e venne incoronata in Campidoglio,
per la verità non senza polemiche e lazzi. Ammirata da
Madame de Staël, ne divenne l’alter ego come protagonista
del romanzo Corinne ou L’Italie (1807), di enorme impatto per
tutto il secolo nell’ambito della letteratura femminile e non
solo. Con innegabile alzata d’ingegno, Balocchi e Rossini
tramite Corinna – la variante francese del nome – istituiscono
un gemellaggio fra le culture italiana e francese beneaugurante
anche per loro stessi. Corinna viene tuttavia integrata alla
trama, dovendosela vedere con più amanti. La dimensione
letteraria implicita nel personaggio cede in quei momenti il
passo a quella teatrale; il melodramma prevale sul romanzo: al
canto scenico (si veda la canzone strofica inclusa nel sestetto)
si affianca l’aria d’opera. Sidney, colonnello inglese, ne cade
perdutamente innamorato e manifesta i suoi sentimenti in
un’aria per basso di coloratura con coro villanesco e strumento
concertante (il flauto, appropriato ai vagheggiamenti amorosi:
«Invan strappar dal core», I,XII, N. 4); ma il suo duetto Corinna
lo canta poco oltre col Cavaliere Belfiore («Nel suo divin
sembiante», I,XV, N. 5). La dimensione poetica di Corinna si
afferma di nuovo nel finale (N. 9), quando prima di dare inizio
a cori e danze le è assegnato il più esplicito degli omaggi alla
casa reale nelle “strofe d’improvviso” sulla lira «All’ombra
amena / del GIGLIO D’OR» (I,XXV). La miscela di canto spianato
e ornamentazione liricamente atteggiata, senza ricorso a un
sovraccarico di virtuosità, e la stessa lunghezza del brano su
accompagnamento ricorrente di arpeggi determinano
un’affascinante sospensione del senso drammatico e
temporale. I restanti personaggi sono ora parte del pubblico, e
il risultato estetico è posto al servizio di un messaggio
palesemente conservativo, che trova un rispecchiamento nella
ciclicità del brano: il valore ricorrente e imperituro della
monarchia.
Fra attualità, mito, letteratura e musica, la figura di Corinna è
la chiave di volta della pièce e anche uno degli elementi che
rendono il Viaggio composizione atipica e trasversale. La
carrellata di musiche “nazionali” con cui inizia il finale (N. 9)
rafforza il carattere antologico e politico dell’opera. Gli ospiti
dell’albergo termale, rispolverando la veste di dignitari delle
nazioni di appartenenza – vi è replicata la Quadruplice
Alleanza – si cimentano in successione cogli inni tedesco (lo
canta il Barone di Trombonok, parodia di Metternich),
polacco, russo (il Conte di Libenskof, un’allusione allo zar
Alessandro), spagnolo, inglese, francese, tirolese; ed è
l’occasione per far risuonare ritmi e motivi noti e
rappresentativi, dal Kaiserhymne di Haydn, già allora inno
ufficiale dell’impero austro-ungarico, a God save the King.
Senza che l’umorismo di fondo ne venga minimamente
intaccato, gli autori concedono a Carlo X il più plenario dei
riconoscimenti.
La natura encomiastica del Viaggio a Reims – indiscutibile
dal punto di vista delle circostanze, dei riferimenti presenti nel
testo e delle finalità – dev’essere però posta in altra luce,
rispetto ai canonici componimenti d’occasione, sulla base del
carattere impresso dalla musica di Rossini, decisamente
autocelebrativo. A ogni pagina troviamo qualche marchio di
fabbrica, suo e più estesamente della musica italiana
dell’epoca (ma le due cose in pratica coincidono): la vocalità
di coloratura e l’ampia campitura melodica dei brani,
riconducibili a Rossini da chi ne conoscesse solo qualche
pagina; il ritmo incalzante; l’impiego di risorse strumentali
raffinate; la ricchezza della tavolozza armonica e la presenza
di contrassegni inequivocabili, come la “cadenza felicità
felicità felicità” (una reiterata successione accordale I-IV6-V64-
V53-I, con alcune varianti, impiegata in funzione di clausola
conclusiva),12 ostentata sin dalle prime scene. La
glorificazione di Carlo X converge con la raffigurazione che
Rossini dà di sé stesso.
Dopo una singolare e molto alterata ripresa al solito Théâtre
Italien, il 26 ottobre 1848, in pieno clima rivoluzionario, col
titolo di Andremo a Parigi? ossia l’Albergo di Plombières
(certo non più “del Giglio d’oro”), e una più restaurativa
messinscena a Vienna/Hofoper il 26 aprile 1854, in occasione
del matrimonio di Francesco Giuseppe con la duchessa
Elisabetta di Baviera (come Un viaggio a Vienna), sul Viaggio
originale calò il sipario e se ne disperse la musica, eccetto che
per la Gran sinfonia introduttiva (in realtà apocrifa e
confezionata successivamente, combinando le danze del Siège
de Corinthe) e qualche altro brano. La riscoperta dell’opera è
fatto relativamente recente ed ebbe all’epoca vasta risonanza.
Fonti musicali del Viaggio erano riemerse nel tempo da varie
collezioni europee e andavano ad aggiungersi al materiale
autografo conservato presso la Biblioteca del Conservatorio di
S. Cecilia a Roma; il loro accorpamento rese possibile nel
1984 un primo riallestimento dell’opera, diretta da Claudio
Abbado al Rossini Opera Festival di Pesaro. Dopo il 1984
l’identificazione da parte di Philip Gossett del coro finale
«L’allegria è un sommo bene» (N. 9) come parodia di un coro
del Maometto secondo («È follia sul fior degli anni», II,I)
consentì alla musica giusta di prendere posizione nella
partitura del Viaggio a Reims. Nel complesso, un esempio
virtuoso di quanto la progettazione di una edizione critica,
quella concepita nel 1971 dalla Fondazione Rossini e ancora in
corso, abbia favorito la ricerca di materiali altrimenti dispersi e
reso possibile l’ascolto di un’opera dimenticata.
Stabilito il contatto col pubblico parigino tramite questo
brillante ibrido, i tempi erano maturi, come da contratto, per il
debutto di Rossini all’Opéra. Nell’occorrenza non si pensò a
un titolo originale ma si procedette al rifacimento di un’opera
già esistente. La posta in gioco era alta e così facendo Rossini
assecondò la sua naturale propensione alla riscrittura –
espressa anche dalla collaborazione al pasticcio Ivanhoé, da
Walter Scott, che il compositore ed editore Antonio Pacini
aveva proposto all’Odéon il 15 settembre 1826 con musiche
rossiniane – e approntò una partitura su cui riponeva molte
aspettative senza esporsi a soverchi rischi. Maometto secondo
venne trasformato da Balocchi e Alexandre Soumet in Le siège
de Corinthe, tragédie lyrique in tre atti rappresentata all’Opéra
il 9 ottobre 1826. Visto l’esito favorevole, lo stesso principio
fu applicato anche nell’adattamento di Mosè in Egitto in Moïse
et Pharaon ou Le passage de la Mer Rouge, opera in quattro
atti su libretto di Étienne de Jouy con la collaborazione del
solito Balocchi, all’Opéra il 26 marzo 1827. In entrambi i casi
Rossini si rese parte attiva di un processo storico di non
univoco inquadramento ma fondamentale per il teatro
musicale ottocentesco, vale a dire la progressiva transizione
dal genere più prestigioso e aristocratico del teatro musicale di
antico regime, la tragédie lyrique, ancora moneta corrente
all’Opéra di Parigi, al moderno grand opéra, emblematico di
un diverso ordine sociale e spettacolo di riferimento della
nuova borghesia parigina, che con la tragédie lyrique
manteneva tuttavia un evidente rapporto di derivazione. In
questo processo erano implicate due opere italiane (la seconda
più propriamente un’opera-oratorio); tenendo conto della
propensione alla monumentalità di altre opere serie di quegli
anni come Semiramide (1823) o Il crociato in Egitto di
Meyerbeer (1824), è evidente che le due culture teatrali
italiana e francese continuarono a essere interessate da un
processo osmotico, i cui obiettivi di fondo, in parte condivisi,
erano perseguiti con specifiche peculiarità musicali e
drammatiche. Non è allora il caso di chiedersi se Le siège sia
preferibile a Maometto secondo o Moïse a Mosè in quanto non
si trattò di seconde versioni, di volontà ultime dei loro autori,
bensì di trasformazioni condotte in base a princìpi diversi
rispetto agli originali italiani (lo stesso Rossini, anche per
difendere i benefit economici che riteneva gli spettassero,
ribadì con veemenza la loro rispettiva originalità, addirittura
minacciando di interrompere le prove di Moïse). Tale processo
osmotico sarà replicato al momento dell’importazione del
Siège e di Moïse nella penisola con libretti tradotti da Calisto
Bassi: le due “nuove” opere italiane presero il posto delle
vecchie e consentirono, in Italia, di allineare il linguaggio
musicale rossiniano a un gusto “internazionale” che nel
frattempo era mutato. A partire dalla fine degli anni venti
infatti il pubblico prediligeva, come già in Francia, una
scrittura orchestrale più robusta, una più incisiva e ampia
partecipazione corale, la presenza del ballo integrato all’opera
e, all’occorrenza, una più significativa enfasi sugli aspetti
storico-sociali che proprio in quelle riscritture si
manifestavano in modo più evidente rispetto ai loro originali.
L’assedio di Corinto «tragedia lirica» e Mosè e Faraone
«dramma» (ma anche «oratorio sacro» com’era già in origine),
tradotti in italiano dalla versione francese, furono motivo di
lustro per i teatri italiani che li inscenarono (talora dichiarando
piena aderenza agli originali francesi),13 e conobbero riprese
fino all’epoca verdiana.
La rarefazione di nuovi titoli seri per l’Opéra, dovuta alla
resistenza del repertorio più antico (ancora in pieno Ottocento
appaiono opere gluckiane, più occasionalmente di Sacchini e
Salieri), contribuì a rendere appetibili al pubblico le nuove
produzioni, con il loro graduale contributo al rinnovamento del
teatro musicale. Nel grand opéra si preferiscono soggetti
storici moderni rispetto a quelli classici di estrazione tragica,
emblematici della tragédie lyrique; l’intelligibile e “alta”
declamazione del testo francese resta un marcatore stilistico,
ma altri elementi spettacolistici guadagnano rilievo crescente.
Coro e ballo, presenti in gran copia anche nella tragédie, sono
dotati di un dinamismo crescente e non vanno privi di
implicazioni drammatiche. Il coro in particolare è investito di
puntuali responsabilità nello svolgimento dell’azione: non
tanto “personaggio collettivo” (la voce del popolo, più che il
popolo stesso) ma soggetto drammatico agente che si fa parte
attiva della trama. La musica, infine, estende il proprio nativo
carattere nazionale e adotta un vocabolario eterogeneo,
derivato dallo stile italiano per il canto e la morfologia delle
arie, e dalla tradizione germanica per quanto attiene ad
armonia e strumentazione. Da questa vocazione per
l’amalgama e l’integrazione di tradizioni diverse derivano la
rapida e duratura diffusione internazionale del grand opéra
(una quindicina di titoli al massimo, ma di gran peso) e
l’influenza esercitata su altri generi nazionali non francesi.
I tratti caratteristici della progressiva transizione da tragédie
lyrique a grand opéra si possono individuare già in alcuni
titoli di inizio secolo quali La Vestale e Fernand Cortez di
Spontini (1807 e 1809, la seconda rivista più volte
successivamente). Nel primo caso si sviluppano tematiche
illuministe come il diritto alla felicità e la condanna della
costrizione ai voti, ancora attuali nel contesto della famiglia
borghese ottocentesca, e si delinea uno strappo fra le
aspirazioni individuali e le pratiche sociali che solo un
intervento soprannaturale di alta rilevanza scenografica può
risolvere. Nel Cortez – concertato anche da Rossini ai tempi di
Napoli – forte è invece la giuntura con avvenimenti coevi (la
campagna militare di Napoleone in Spagna): al conquistatore
iberico va il vanto di aver condotto i popoli messicano e
spagnolo dai tumulti alla pace, e non mancano anche in questo
caso scene altamente spettacolari (l’incendio della flotta). Le
due opere rossiniane importate da Napoli (Le siège de
Corinthe, Moïse et Pharaon), La muette de Portici di
Scribe/Auber (1828) e il successivo Guillaume Tell (1829)
costituiscono ulteriori approdi di un percorso fondato sulla
continuità più che su repentini cambiamenti di rotta.
Nel Siège de Corinthe i librettisti di Rossini effettuano una
ricontestualizzazione storica mirata a rendere l’opera più
attuale agli occhi dei parigini di quanto non lo fossero le
vicende di una Serenissima non più esistente. Se la versione
napoletana era ambientata nella colonia veneziana di
Negroponte, nel Siège ci troviamo a Corinto a metà
Quattrocento, dopo la caduta di Costantinopoli del 1453, e i
greci prendono il posto dei veneziani: un esplicito riferimento
alla guerra d’indipendenza greca, combattuta fra 1821 e 1830,
che destava grande interesse nella comunità internazionale e
che Rossini aveva già indirettamente celebrato nella sua
cantata inglese alla memoria di Lord Byron, scomparso a
Missolungi nel 1824. Paer «con giustizia» riferì a Benelli il
proprio apprezzamento per il Siège e l’approvazione della
comunità greca, invitata a teatro in quello che andò a profilarsi
come un evento dotato di valenza propagandistica.14 L’indole
dell’ouverture nuovamente composta va pure in quella
direzione; il ritmo tetico/affermativo del motivo di attacco –
una formula che scandisce gli snodi principali del brano – non
ha il carattere ideale di una rievocazione ma il piglio concreto
di un gesto scattante, lo slancio di una levata di scudi; i
sommessi rulli di tamburo e il pathos di certe modulazioni
asseverano il carattere eroico del brano. Non mancano
nell’opera pagine di carattere astrattamente irredentista, come
il giuramento dell’atto terzo e la successiva Prophétie di
Hiéros («Marchons; mais, ô transports! ô prophétique
ivresse!», III,VI, N. 14): si invoca il grande modello di Leonida
come guida spirituale per il popolo in rivolta. Secondo
Koselleck, nel mondo postrivoluzionario le Historiae
esemplari del passato iniziano a produrre aspettative sul futuro
per una concezione rinnovata di Geschichte; lo stesso Jules
Michelet (1798-1874), storico della Francia e della
Rivoluzione francese, svilupperà a partire all’incirca dagli anni
trenta un’idea di storia e società dove il passato, non più inerte
collezione di reperti e memorie, sopravvive a sé stesso e
diviene un’esortazione per uno sguardo verso il futuro.
Il progetto di revisione attuato nel Moïse fu necessariamente
diverso, data la materia biblica meno maneggevole; alcuni
contenuti politici manifestano tuttavia tratti comuni.
L’attenzione per il dramma quaresimale rossiniano da parte dei
francesi risaliva al 1821, quando il giovane Ferdinand
Hérold – il futuro autore di Zampa aveva non a caso esordito a
Napoli nel 1815 – lo propose all’Académie Royale de
Musique, ritenendolo appropriato alle aspettative locali. La
figura di Mosè ebbe però nella Francia di quegli anni anche
altre declinazioni che non quella tipicamente restaurativa di
legislatore e garante del popolo ebraico, e andò a caricarsi di
valenze progressiste. Se ne fece un vate alla guida del suo
popolo verso la libertà dall’oppressione, prefigurando una
palingenesi che comprendeva adesso la dimensione sociale,
oltre a quella spirituale. Così Népomoucène Lemercier nel suo
poema Moïse letto all’Académie Française nel 1819; sull’onda
del successo rossiniano a Mosè si interesserà poi
Chateaubriand, autore di una omonima tragedia in cinque atti
proposta al Théâtre-Français nel 1828, e anche i seguaci di
Saint-Simon compararono il loro leader a un novello Mosè,
cogliendo nell’azione del profeta accenti romantico-
socialisti.15 Moïse all’Opéra precorse dunque le gesta di
Masaniello o di Tell. A lato dei diversi progetti teatrali, i
concetti di popolo, insurrezione e identità nazionale erano in
quegli anni dibattuti anche dagli storiografi francesi, sulla base
della pregressa Rivoluzione; fra questi François Guizot,
oppositore di Carlo X e sostenitore del modello monarchico
parlamentare; Augustin Thierry, influenzato da Saint-Simon;
Chateaubriand, in relazione alla formazione dei caratteri
nazionali, Michelet.
Sul piano spettacolare la formulazione del nuovo libretto si
rifà anche a un antecedente dramma francese, Le passage de la
Mer Rouge ou La délivrance des hébreux di Jean-Baptiste
Augustin Hapdé, rappresentato a Parigi nel 1817 e forse tenuto
presente anche da Tottola durante l’approntamento della prima
stesura napoletana, in quanto nella tragedia di Ringhieri, fonte
principale del Mosè in Egitto, non si fa riferimento al
passaggio del Mar Rosso, all’apertura delle acque e al tragico
inseguimento da parte del Faraone. Queste diverse filiere, a
livello compositivo o della recezione, rendono il Moïse
un’opera se non nuova, molto diversa e di diverso impatto da
quella che era stata la sua origine.
Quanto al lavoro drammaturgico, in entrambe le riscritture
Rossini dovette effettuare una espansione/ridistribuzione della
materia sulla base della nuova articolazione dello spettacolo,
in tre (Le siège) ovvero quattro atti (Moïse), incrementando
così le opere di un atto ciascuna anche al fine di predisporre
spazio adeguato per i balli, come richiesto dalla tradizione
francese. Occorreva comporre altra musica (svariati in
entrambe le opere i numeri totalmente nuovi), attenuare gli
“eccessi” nella vocalità contemperandoli all’estetica locale che
poneva la parola al centro dell’espressione melodrammatica,
pur conservando le colorature dove necessario e l’imprinting
dello stile italiano in certe soluzioni morfologiche (non
mancano le cabalette, nelle due opere); occorreva infine
individuare contenuti drammatici che potessero essere
utilmente dislocati nei nuovi finali intermedi. Nel Siège il
finale primo mantiene il profilo della versione napoletana (si
fonda sul contrasto di Pamyra col padre per essersi promessa a
Mahomet II e l’ira di costui), mentre nel secondo viene
inscenata la preparazione del contrattacco dei musulmani con
adeguato corredo di cori contrapposti, elemento narrativo a
Napoli collocato a inizio secondo atto e a Parigi notevolmente
amplificato. Il finale terzo estende la visuale dal sacrificio
della protagonista alla disperazione delle donne greche che
attendono fiere l’arrivo del musulmano vincitore; il dramma
personale di Mahomet, che assiste impotente al suicidio della
donna amata, diviene un elemento laterale nel grande affresco
di una Corinto assediata e in fiamme. Tutte modifiche, quelle
del Siège, volte ad ampliare il colpo d’occhio dal dramma
individuale al dramma sociale, e sarà questo il principio
cardine del grand opéra maturo degli anni trenta e oltre.
Nel Moïse le trasformazioni sono più vistose (tanta la musica
nuova) ma meno radicali, in quanto la vicenda originale resta
la stessa. Il primo atto è aggiunto pressoché ex novo; dopo la
consegna a Moïse delle tavole della legge e l’individuazione
del nodo spirituale di fondo – l’amore illecito di Anaï per
Aménophis, già al duetto N. 3 –, l’atto culmina con l’episodio
delle tenebre, che invece apriva la versione napoletana. La
modifica più sostanziale del dramma di Balocchi-De Jouy
rispetto a Mosè in Egitto consiste però nella valorizzazione,
nell’arco dei quattro atti, del ruolo tenorile di Aménophis,
figlio di Pharaon e amante di Anaï. Rispetto all’Osiride di
Napoli, Aménophis non cade rabbiosamente per mano del
fulmine divino, come in Mosè in Egitto (finale secondo), ma
prolunga fino al termine dell’opera la sua brama amorosa per
Anaï, restando travolto dalle acque del Mar Rosso.
Laddove opportuno, nelle due opere si procedette alla
revisione delle tipologie vocali assegnate ai personaggi in base
alle consuetudini di Parigi e ai cast disponibili, eliminando gli
elementi residuali ormai improponibili della versione
napoletana. Il caso più emblematico capita nel Siège de
Corinthe, ove Néoclès, giovane guerriero greco amante di
Pamyra, omologo del generale veneziano Calbo in Maometto
secondo, è tenore e non contralto en travesti (ma torna a essere
tale in svariate messinscene italiane dell’Assedio di Corinto).
Lo cantò Adolphe Nourrit (1802-1839), allievo di García a
Parigi, da allora coinvolto in tutte le successive produzioni
francesi di Rossini – fu Aménophis in Moïse, il protagonista
nel Comte Ory e Arnold nel Tell – nonché in Robert le Diable
e Les Huguenots di Meyerbeer (1831 e 1836) e ne La Juive di
Halévy (1835), le maggiori opere francesi del decennio
successivo. Il triste epilogo della sua carriera – lasciata Parigi
si suicidò a Napoli, avvilito dall’affermarsi del nuovo tenore
eroico nella persona di Gilbert-Louis Duprez – segnò anche
l’estinguersi della tipologia del tenore contraltino d’epoca
rossiniana (in Francia haute-contre), le cui caratteristiche
consistevano nell’eleganza del fraseggio, nell’uso del
falsettone (vale a dire l’ispessimento dei suoni bianchi del
falsetto maschile) e nell’estensione assai ampia, fino a
tessiture acutissime, a vantaggio di uno stile di canto ritenuto
più realistico e virile, di forza e non più di grazia, che andava
nella direzione del futuro tenore drammatico. La parabola di
Nourrit fu parallela a quella di Rossini; la longevità di alcune
opere rossiniane difatti venne in più di un caso minata dal più
difficile reperimento di voci adeguate anche nel registro
tenorile.
Se tanto era il successo artistico, sul fronte biografico gli anni
parigini fra 1826 e 1827 furono per Rossini complessi e
contradditori. Dal tardo 1826 il compositore confidò ad amici
e conoscenti il decadimento delle proprie condizioni di salute;
mentre attendeva al completamento di Moïse lo raggiunse la
notizia della morte della madre, cinquantacinquenne, occorsa
il 20 febbraio 1827. Dovette quindi prendersi cura del padre,
subito chiamato presso di lui; il “Vivazza” ruppe gli indugi
dovuti all’età e in aprile, accompagnato da un servitore della
Colbran, si mise in viaggio per Parigi dove risiedette fino alla
primavera successiva. Il rapporto di Rossini con la cantante e
sua musa di un tempo si stava intanto deteriorando, come la
salute fisica e mentale di lei, affetta fra l’altro da una gonorrea
contratta dal marito. Florida era invece la situazione
economica; in questo periodo si rafforza la vicinanza del
compositore – sempre accurato nella scelta delle sue
amicizie – con il banchiere andaluso Alejandro María Aguado
(1784-1842), uno degli uomini più ricchi di Francia e
ragguardevole figura di collezionista d’arte e mecenate
(finanziava anche l’Opéra). Presso la sua residenza parigina e
il castello del Petit-Bourg di Évry, fatto edificare da Luigi XIV
e oggi non più esistente, acquistato dal banchiere nel
novembre del 1827, giungevano a raccolta artisti, letterati e
musicisti. Per Rossini, Aguado fu consulente finanziario
d’eccellenza e generoso ospite quando egli volesse sottrarsi
alle invadenze della stampa e del bel mondo. Il compositore lo
risarcì con alcuni dei non molti lavori di circostanza di quegli
anni: una cantata per sei voci e pianoforte in occasione del
battesimo del figlio (16 luglio 1827) e un brillante pezzo per
quattro corni di ispirazione weberiana, il Rendez-vous de
chasse, concepito per allietare i soggiorni al Petit-Bourg
(1828).
Le attività strettamente professionali beneficiarono di un
consolidamento e recarono alcuni aggravi più apparenti che
sostanziali. Anche a seguito del successo del Siège, Rossini fu
nominato «premier compositeur du roi et inspecteur général du
chant en France» (17 ottobre 1826). Suo compito
supervisionare le istituzioni reali a qualsiasi titolo attive nella
musica: provvedimento accettato di malanimo da quanti
fossero già a capo di quelle istituzioni, per cui la nuova
designazione finì trasformarsi in una sinecura, ma non per
questo irrilevante ai fini dell’influenza esercitata da Rossini
sul mondo musicale parigino.16 Lo spettro d’azione era difatti
molto ampio e si estendeva dal Conservatorio, che il
sospettoso Cherubini dirigeva dal 1822, alla scuola «de
musique classique et religieuse» fondata nel 1817 da Choron,
fino ai teatri dell’Opéra e dell’Odéon (non più il Théâtre
Italien, che restò comunque nel raggio dei suoi interessi).17
Sul fronte compositivo la produttività di Rossini divenne
selettiva; netto il cedimento dei ritmi sostenuti fino a qualche
anno prima a vantaggio della messa a punto di prodotti
duraturi. L’attenzione del pubblico e della stampa verso le
esecuzioni di sue opere aveva intanto raggiunto alti livelli di
meticolosità e all’occorrenza lo stesso Rossini si fece carico di
illustrare ai parigini le scelte effettuate nelle messinscene di
proprie opere. Emblematico un caso di trasmigrazione di brani
da un’opera all’altra, con il coinvolgimento di tre fra le
maggiori dive del momento, che rese necessaria una nota
esplicativa del compositore a mezzo stampa. In occasione di
una ripresa di Otello, la Pasta volle inserire a mo’ di sortita, al
posto del duettino con Emilia «Vorrei che il tuo pensiero», la
più spettacolare aria «Palpita incerta l’alma» con relativa
cabaletta «Oh quante lagrime», dalla sortita di Malcolm nella
Donna del lago (I,VII): di qui la decisione di cassare l’aria
dall’opera di origine per evitare imbarazzanti duplicati.
Senonché la Pisaroni, giunta a Parigi nel 1827, pretese di
cantare il ruolo di Malcolm come Rossini lo aveva concepito e
reintrodusse l’aria espunta; per effetto domino, la Sontag
ripristinò la versione originale di Otello.18 Forse anche a
seguito delle morbose attenzioni riservate dall’opinione
pubblica a lui e al suo operato, sconosciute a chi fosse avvezzo
al sistema produttivo italiano, più fluido e senz’altro meno
scrupoloso, è probabile che già da quei mesi prendesse corpo
in Rossini l’intenzione, più o meno tacita, di dilazionare gli
impegni o anche di interrompere a breve la carriera di
compositore teatrale.
A breve distanza dal Siège e dal Moïse, apparve a Parigi un
titolo originale ma non propriamente nuovo, giacché gran
parte della musica lì impiegata era stata tenuta in serbo e
proveniva dal Viaggio a Reims. Le Comte Ory, composto in
tempi rapidissimi nella tenuta di Aguado, debuttò all’Opéra il
20 agosto 1828 ed entrò stabilmente in repertorio. Si tratta di
un lavoro più impegnativo di quanto non dicano la misura
contenuta, che lo rendeva di fatto un petit opéra – agile
sottogenere proposto anche nel massimo teatro parigino –, e la
veste disimpegnata; la sua comicità sottile e la lascivia di certe
situazioni attingono a registri del comico non ancora sfruttati
dal Rossini italiano. Opera comica in soli due atti e priva di
ballo analogo, ossia sul medesimo soggetto del dramma,19 Le
Comte Ory costituì un’alternativa sulle auliche scene
dell’Opéra a grands opéras storici come Le siège de Corinthe
(13 agosto), La muette de Portici (1 settembre) o Fernand
Cortez (17 settembre). Ma non per questo il linguaggio
drammatico fu di minori pretese: a Ory non fanno difetto le
forme ampie e la vastità di concezione che caratterizzavano i
generi maggiori, qui finalizzate a una resa comica. Fu una
scelta ponderata, da parte di Rossini e del nuovo direttore
dell’Opéra Émile Timothée Lubbert, simpatizzante per l’opera
italiana, per far fronte alla concorrenza del Théâtre Italien con
una produzione apparentemente fuori contesto ma di pari
levatura, del resto non l’unica in quanto nel cartellone
dell’Opéra, per dare respiro a una programmazione altrimenti
troppo monumentale, comparivano in quei giorni altri
spettacoli meno “accademici” ma comunque di grande
impegno, quali Le Rossignol opéra-comique di Louis-
Sébastien Lebrun o l’opéra-féerie Aladin, ou la Lampe
merveilleuse di Nicolas Isouard, rinomata per i costosi effetti
speciali.
Il testo della nuova opera rossiniana era di Eugène Scribe
(1791-1861), figura cardine dello spettacolo musicale francese
e firmatario dei libretti di alcune fra le maggiori opere di
Auber, Boïeldieu, Meyerbeer, Halévy, ma anche di Donizetti e
Verdi “francesi”. Dal 1815 Scribe si era affermato come autore
di successo di vaudevilles, opéras-comiques (La dame
blanche, 1825) e, qualche mese prima di Ory, anche di uno dei
maggiori grands opéras (La muette de Portici, 29 febbraio
1828). Le sue modalità operative erano espressione del serrato
sistema produttivo parigino e si fondavano anche sul lavoro di
squadra. Scribe si avvaleva infatti di collaboratori cui affidare
compiti specifici per snellire il proprio lavoro; per il Comte
Ory a coadiuvarlo fu Charles-Gaspar Delestre-Poirson, intimo
della duchessa di Berry, a sua volta vicina a Rossini. Come
perlopiù avveniva tanto in Italia quanto in Francia, il soggetto
era di recupero, a più livelli. Lo spunto di base ha origine in
una Ballade medievale, pubblicata nel 1785 con
accompagnamento di musiche da Pierre-Antoine de La Place,
sulle gesta venatorie, goliardiche ed erotiche del dissoluto
Comte Ory, personaggio tratto da una leggenda piccarda, nello
spirito di una caricatura del mondo trobadorico. Da qui
l’omonimo vaudeville in un solo atto degli stessi Scribe e
Delestre-Poirson (1816), che prendeva le mosse da quella
ballata, espanso nel 1828 alla misura di opera in due atti per
Rossini. In fase di preparazione a Scribe spettò anche il
compito di adattare i suoi versi a musica preesistente; Rossini
stesso, con l’aiuto di Nourrit prossimo Ory, mise mano ad
alcuni passi del libretto di Scribe per renderli consoni alla
musica che voleva applicarvi. Tutto ciò rese i rapporti fra
Rossini e Scribe piuttosto laboriosi, fino a indurre quest’ultimo
a togliere il proprio nome dal libretto. Contribuì a rinsaldarli
l’immediato successo del lavoro, riallestito all’Opéra ogni
anno fino al 1849 e ancora con continuità fino al 1866
(complessivamente oltre 400 le repliche fino al 1884).
Vi era anche il timore – poi vanificato dal successo
dell’opera – che la natura licenziosa del soggetto potesse
costituire un impedimento di qualche genere, dopo lo scandalo
suscitato all’Opéra dal balletto La somnambule di Hérold
(1827), in cui l’eroina, date le circostanze, appariva in vesti
succinte. Preoccupazioni condivise da quanti fossero attivi sul
mercato italiano come il basso Luigi Goffredo Zuccoli, che in
vista della prima e nella speranza di poter trasformare Ory in
opera italiana prospettò al suo corrispondente romano
Bartolomeo Capranica la revisione completa del soggetto da
parte di Ferretti, lasciando intatta solo la musica:
… siccome è un avventura successa in un Monastero sarà
assai difficile il darla in Italia, ma sarà facile ch’io la
traduca sopra un’argomento meno critico amerei però
ch’Ella si degnasse di consultare Ferretti sopra qual tema
che s’avvicini a quello del Conte Orry potrei fondarmi,
giacché ho in animo di farne una speculazione per l’Italia
che è da tanto tempo digiuna di Opere buffe e
principalmente del nostro Classico Maestro.20
Nella penisola, Il conte Ory – rappresentato con una certa
regolarità dal 1829 (Venezia, San Benedetto) al 1833, più
raramente in seguito – non riuscì però a rinverdire i fasti del
comico rossiniano, a causa da un lato del declino dell’opera
buffa, che tanto in Donizetti quanto in Luigi Ricci stava
ridisegnando il proprio ruolo e spesso risultava compromessa
col semiserio, dall’altro per la tipologia di comico espressa in
Ory, inconsueta per gli argomenti trattati, molto francese e
priva di punti di riferimento nel repertorio italiano storicizzato.
Nel commento pubblicato sul periodico bolognese Teatri arti e
letteratura (21 maggio 1830), la responsabilità delle locali
difficoltà fu attribuita alla traduzione e ai conseguenti
problemi prosodici, ma ancor più alla scarsa propensione dei
cantanti per un’opera «di un genere del tutto nuovo e lontano
da quello stesso delle altre opere dell’illustre Rossini»,
caratterizzata da un’abbondanza di pezzi d’assieme e
dall’assenza dei “punti di scena” favoriti (e perciò in varie
occasioni rimpinguata di cavatine e rondò di provenienza
estranea, nel tentativo di italianizzarla).

Il Conte Ory, frontespizio del libretto


manoscritto di proprietà di Giovanni Ricordi;
Milano, Archivio Storico Ricordi

Quanto ai contenuti, a Parigi alcuni correttivi al tema di Ory


erano stati apportati sin dal 1816, quando Scribe decise di
ambientare la vicenda non nell’immaginario monastero di
Formoutier (che sembra alludere all’abbazia di Noirmoutier)
bensì in un omonimo castello. Le suore sedotte della ballata
divennero donne di corte in trepida attesa dei crociati
impegnati in Terrasanta. Il clima restaurativo consigliava di
fare uso contenuto dei soggetti claustrali così di moda in
Francia in ambito rivoluzionario, quando chiostro, vocazione e
voti costituivano ancora fervidi spunti di critica sociale, in
difesa del diritto naturale degli individui. La componente
anticlericale fu attenuata (Ory travestito doveva apparire come
un eremita, giammai come un cappuccino o altra figura
ecclesiastica);21 tuttavia il libretto approntato per Rossini non
cessa per questo di esibire un uso parodistico della spiritualità:
preghiere e benedizioni sono solo mistificazioni e cadono in
contesti inappropriati. Come certi eremiti boccacceschi, Ory si
presenta alle donne invocando la fede a copertura alle sue reali
intenzioni («Le paix du ciel, mes frères, / soit toujours avec
vous! […] Venez à moi, mes belles: / obliger est si doux!»,
I,III).22 La sua finzione gli procura il favore della gente, che lo
ritiene un santo profeta (I,V) o anche un emissario della
provvidenza celeste, come succede alla virtuosa contessa
Adèle, sorella del feudatario, da lui concupita (I,VIII).
L’improvvisa tempesta che irrompe nell’introduzione del
secondo atto pare alle dame del castello una punizione divina
per le malefatte del terribile conte e una sollecitazione a
prendersi cura dei perseguitati che chiedono asilo («Noble
châtelaine»); ma si tratta di Ory e dei suoi compagni di bravate
travestiti da povere pellegrine: la pietà delle dame non viene
quindi premiata. In II,VI è ancora Ory con tre compagni a
recitare una preghiera lagnosa e poco credibile per distrarre
Ragonde dalle bottiglie nascoste sotto l’abito dai suoi soci
(«Toi que je révère», «Oh tu, che io onoro»). Nel corso della
cavatina di Adèle, su istigazione del paggio Isolier Ory aveva
addirittura prosciolto la contessa dal voto di eterna vedovanza
da lei contratto, in attesa del ritorno dei cavalieri dalla
Terrasanta («Le ciel vous en dégage. / Il ordonne que de vos
jours / la flamme se ranime / au flambeau des amours»,
I,VIII).23 Lei però gli preferirà Isolier innescando così la sfida
amorosa, conte contro paggio, che costituisce il motore della
flebile azione. Il tema della credulità popolare, nel Settecento
operistico italiano (ma ancora nel Dulcamara dell’Elisir
d’amore, 1832) applicato a false professioni o a stati sociali
millantati per raggirare il babbione di turno, si spinge qui fino
a questioni di fede e diviene strumento di seduzione; oggetto
di scherno la moda dei soggetti medievaleggianti, ormai
preferiti al paganesimo della classicità ma pieni di insidie,
come insidiati da Ory – determinato a intrattenersi con Adèle
approfittando dell’assenza dei cavalieri – sono i valori della
morale cristiana.
Dalla genesi dell’opera giungono ulteriori riscontri
sull’identità stilistica del Rossini di Francia. Se il Viaggio a
Reims si profilava come una celebrazione del dramma giocoso
all’italiana, riesce difficile accordare alla musica del Comte
Ory – ove in circa la metà dei numeri si rielabora la musica del
Viaggio – una connotazione precipuamente francese. D’altra
parte, non sarà certo la presenza di qualche cabaletta a
ricondurla ipso facto alla tradizione italiana, quasi si trattasse
solo di un adattamento. Non mancano per esempio, soprattutto
fra le pagine nuove, ritrovati formali di casa nella musica
teatrale transalpina ma quasi assenti in quella italiana, come le
forme d’aria a refrain («Veiller sans cesse», Le Gouverneur,
I,IV, N. 2) o le strutture continuative, senza “tempi”
preordinati, come al successivo duetto «Une dame de haut
parage» (Isolier e Ory, I,VI, N. 3), in cui spetta al formulario
melodico ricorrente, assegnato all’orchestra, tenere assieme le
battute altrimenti asimmetriche dei personaggi (una azione
verbale animata, prevalentemente in “a parte”, dove prende
corpo la sfida fra paggio e Conte); parlano francese, infine,
certe condotte melodiche ampie e avvolgenti e le soluzioni
armoniche più ricercate. In ogni caso l’appartenenza culturale
di un’opera non si ricava solo dalla misurazione delle forme, o
dalla presenza di elementi linguistici diversamente indirizzati;
dicono di più la condotta complessiva dei tempi drammatici
(intermittente nel comico italiano, fluida in Ory) e la presenza
di punti focali nell’azione, che in Ory appaiono incerti e
sfumati, senz’altro poco indebitati con i luoghi comuni
dell’opera buffa, in cui la trama procede per situazioni
nettamente caratterizzate. È improbabile tuttavia che Rossini
avesse necessità di un contrassegno – lui, che li aveva sempre
evitati – che comprovasse il suo arruolamento nel nuovo
contesto stilistico. La sua resta piuttosto una mediazione, dal
francesissimo vaudeville a un’opera à la Rossini, certo non
un’abdicazione dai suoi antichi costumi; lo stile teatrale che
egli si era forgiato sin dai suoi esordi costituiva una garanzia
per l’ascoltatore, anche per l’ascoltatore francese che mai
avrebbe voluto rinunziarvi.
Sull’altro versante, quello italianizzante, la musica concepita
per Il viaggio che l’autore stabilì di reimpiegare funziona
altrettanto bene nel Comte Ory: poco prescrittiva e facilmente
modellabile, la frase musicale rossiniana si adatta
plasticamente a testi e contesti diversi che abbiano in comune
almeno la condizione psicologica dei personaggi (non è detto
anche le rispettive motivazioni). La Contessa di Folleville del
Viaggio vale la Comtesse Adèle del Comte Ory; la prima è
vedova, la seconda paventa di diventarlo qualora non
accettasse il “salvifico” intervento di Ory. Condividono quindi
la musica di un’aria («Partir, o Ciel! desio», N. 2, si trasforma
nella cavatina «En proie à la tristesse», N. 4) e poco conta che
l’afflizione della prima fosse causata dalla perdita del bagaglio
quando la seconda manifesta il timore di restare sola ancora
giovane: entrambe stanno attingendo alla loro massima
profondità e la musica rossiniana vi si adegua a prescindere
dalla diversa caratura dei personaggi. L’aria di Don Profondo
«Medaglie incomparabili» al N. 6 del Viaggio è aria di
catalogo (si listano i beni degli aspiranti viaggiatori), quella di
Rimbaud al N. 9 del Comte Ory, «Dans ce lieu solitaire»,
l’affannoso racconto della ricerca di un po’ di vino nelle sale
del castello, nel più limpido stile sillabato del genere buffo
italiano, scandito dalle acclamazioni del coro (II,V): situazione
diversa ma musica simile, su un ritmo verbale incalzante e
fonte di comicità. Infine, il gran pezzo concertato a quattordici
voci; progettato nel Viaggio a Reims per spettacolarizzare
l’impossibilità di trovare una diligenza disponibile e poi
l’eccitazione per la programmata partenza per Parigi, fu in un
primo tempo assegnato al finale secondo di Ory; ma si preferì
poi attenersi alla tradizione italiana, ove si collocano le
strutture musicali più complesse a fine primo atto, in questo
caso destinato al disvelamento di Ory e alla notizia
dell’imminente ritorno dei crociati: sorpresa e precipitazione,
come nell’omologa situazione del Viaggio. Una presenza
vocale già così cospicua viene amplificata dal sostegno
esplosivo dell’orchestra, alla lettura della missiva, assieme a
un’accelerazione travolgente del ritmo che risucchia le battute
dei personaggi in un vortice in cui panico, speranza, propositi
di vendetta, pulsioni erotiche frustrate si confondono (I,IX,
N. 5, «O terreur! ô peine extrême»).
In misura anche maggiore rispetto alle precedenti opere serie
per Parigi, molti numeri del Comte Ory rivelano quindi
connotati stilistici inequivocabili, vedi il canto di coloratura e
le improvvise abbaglianti agilità, il declamato sillabico rapido
e convulso. Sulle sezioni terminali dei diversi numeri, come
sempre a forte caratterizzazione ritmico-melodica, convergono
le situazioni chiave del dramma; esse restano tuttavia sospese,
senza che mai si giunga a una vera svolta. Nella cabaletta della
sua cavatina, Adèle è tratta in inganno da Ory e le frizzanti
colorature sembrano alludere a una imminente seduzione («O
bon ermite», I,VIII, N. 4), ma a far breccia nel suo cuore sarà
Isolière. I frementi propositi di rivalsa di Ory già smascherato,
nella stretta del finale primo («Venez amis, retirons-nous»,
N. 5), si sovrappongono ai canti di esultanza delle donne per
l’imminente ritorno dei crociati: ma restano aspirazioni vane,
replicate nella cabaletta del duetto suo, stavolta in abito da
pellegrina, e di Adèle, in cui la derisione da parte di lei non
spegne gli ardori dell’incallito corteggiatore («Ce téméraire»,
II,III, N. 7). Tanta esuberanza attiene a un ambito strettamente
mentale: quel che si vorrebbe o non si vorrebbe, non quel che
è. Scarsa e poco produttiva l’azione fattuale: niente di
sostanziale succede al di là delle ardimentose peripezie
dell’allegra brigata del conte e dell’impressione, mantenuta
vivida negli spettatori, che la situazione possa precipitare da
un momento all’altro.
Di questa condizione sospesa il terzetto “al buio” «À la
faveur de cette nuit obscure» (II,X, N. 11) è l’espressione più
piena: un’esplosione di sensualità, su un cullante ritmo
ternario, che sprigiona dall’accostamento improprio di corpi
camuffati, resi più ingannevoli dall’oscurità. Il conte, in uno
dei suoi travestimenti – qui una sedicente Soeur Colette,
spaventata e in cerca di compagnia notturna – prende la mano
di Isolier, convinto che si tratti di Adèle. Un gesto che Isolier e
Adèle, avendolo riconosciuto, gli concedono per
commiserazione mista a burla, mentre Isolier – interpretato da
una donna en travesti, Constance Jawureck – porta al cuore la
mano della contessa, avviandosi a compiere la conquista
amatoria avviata da Ory. Ne esce una sorta di asimmetrico
“terzetto d’amore” in cui il conte gioca il ruolo dell’intruso;
ma sono sue le frasi melodicamente più suadenti, facendo così
intendere che la seduzione non ha morale e si legittima per suo
conto. La mano di Adèle (anzi, di Isolier) sembra però non
bastargli; le profferte amorose divengono esplicite ed
equivoche: il conte non sa che la contessa ha ben compreso
che nell’oscurità non si cela Soeur Colette bensì lui medesimo,
e confida nell’efficacia di una vicinanza claustrale e saffica fra
donne per raggiungere i propri scopi. L’andamento diviene
frenetico, fino agli squilli degli ottoni che preannunziano
l’avvicinarsi dei crociati, contrassegnando l’avvio della stretta
(qui una successione di tempi mutuata dalla “solita forma”
italiana). Il disappunto del bislacco seduttore si sovrappone
all’entusiasmo baldanzoso della sua preda, che a sua volta si è
però compromessa col paggio.
Opportuno per tutti che brame e pulsioni si dissolvano nel
nulla e che lo facciano rapidamente. Nel breve finale secondo
l’inno alla vittoria, all’amore e all’imeneo è dettato proprio da
Ory («À l’hymen cédons la victoire», N. 12): un gesto
paradossale che toglie al personaggio la credibilità e
quell’umanità che Falstaff saprà ritrovare, con superiore
ironia, fronteggiando i suoi avversari e sé stesso, nell’epilogo
del capolavoro verdiano, non privo di qualche analogia con la
nostra opera. Ory – a differenza di Falstaff, giovane
scapestrato e braccato da padre e precettore – non è certo tipo
da metterci la faccia o da sacrificarsi per la donna amata, e
proprio in questa improvvisa evaporazione di aspirazioni e
desideri risiede la scommessa di Scribe e Rossini: rendere
teatrale e inebriante un mondo fittizio popolato da personaggi
dei quali percepiamo l’agire, non lo spessore. Niente a che
vedere con la ricomposizione sociale, più o meno condivisa,
degli epiloghi di tanta commedia e opera buffa sette-
ottocentesca, sulla base di opportunità e convenienza, talvolta
anche di sentimenti. Il finale del Comte Ory, con la precipitosa
fuga di Ory attraverso un passaggio segreto e l’inchino di
Isolier al Conte di Formoutier che fa il suo ingresso nel
castello, è la sottoscrizione di una irredimibile vacuità in cui si
scorge il baratro che di lì a poco si spalancherà davanti al
comico ottocentesco. All’opera francese, per mano di Rossini,
spetta decretare la crisi della commedia d’intrigo e dell’opera
buffa italiana.
SUGGERIMENTI DI LETTURA

Un quadro della musica teatrale in Francia prima dell’avvento


di Rossini in MONGRÉDIEN 1986, FABIANO 2006 e FABIANO-
NOIRAY 2013. Su Paer e lo scenario francese in un’ottica non
rossiniana CASTELLANI 2008. Il rapporto fra Rossini e la
Francia, a livello professionale e artistico, in WALTON 2004,
WALTON 2007 e nella silloge Rossini in Paris (aspetti
biografici, creativi e della recezione). La più diffusa edizione
italiana della Vie stendhaliana in STENDHAL 1992; sul
linguaggio e la prospettiva critica di Stendhal commentatore di
Rossini SALA DI FELICE 1995. Sulla voga rossiniana a Parigi
JOHNSON 1995. Nuovi apporti sul librettista Balocchi in
BOSCHETTO 2009; le circostanze storiche del Viaggio a Reims,
nel contesto dei festeggiamenti parigini per Carlo X, in
JOHNSON 1999 e COLAS 2010-2011. Per l’inquadramento
complessivo del grand opéra come genere FULCHER 1987 e il
Cambridge Guide to Grand Opera 2003. Sulla riscrittura
parigina del Moïse et Pharaon SALA 2008. Le implicazioni
politiche del Rossini francese (Siège e Tell) in GERHARD 1998,
pp. 63-121; in particolare sulle scene di giuramento e loro
collegamenti con stilemi e musiche d’epoca rivoluzionaria
DELLA SETA 2013. Fonti e drammaturgia de Le Comte Ory in
COLAS 2014; la difficile circolazione italiana dell’opera e gli
adattamenti effettuati in MALNATI 2021. La programmazione
dell’Odéon e la presenza di Rossini sono analizzate in EVERIST
2002; le modalità di collaborazione di Rossini presso il
Théâtre Italien in JOHNSON 1994. Sull’opera buffa in Italia
subito dopo Rossini (sconfinamenti, scelte morfologiche e
identità del genere nel quadro di un mutato contesto storico ed
estetico) IZZO 2013.
DA ASCOLTARE

Il pianto delle Muse in morte di Lord Byron


in Arie inedite, Ernesto Palacio, Slovak Philharmonic Choir,
Radio Bratislava Symphony Orchestra, dir. Carlo Rizzi, Nar
Classical 2018
Rendez-vous de chasse
in Rossini Discoveries, Orchestra Sinfonia di Milano Giuseppe
Verdi, dir. Riccardo Chailly, Decca 2002
Il viaggio a Reims, ossia L’albergo del giglio d’oro
Katia Ricciarelli (Madame Cortese), Lucia Valentini Terrani
(Marchesa Melibea), Lella Cuberli (Contessa di Folleville),
Cecilia Gasdia (Corinna), Eduardo Giménez (Cavalier
Belfiore), Francisco Araiza (Conte di Libenskof), Samuel
Ramey (Lord Sidney), Ruggero Raimondi (Don Profondo),
Enzo Dara (Baron di Trombonok), Leo Nucci (Don Alvaro),
Prague Philharmonic Choir, Chamber Orchestra of Europe, dir.
Claudio Abbado, Dg 1995
Ivanhoé
Simon Edwards (Ivanhoé), Inga Balabanova (Leïla), Soon-
Won Kang (Brian de Boisguilbert), Filippo Morace (Ismaël),
Massimiliano Chiarolla (Cedric), Salvatore Cordella (Albert
de Malvoisin), Volodymyr Deyneka (Le Marquis), Cosimo
d’Amato (Un Héraut d’arms), Coro da camera di Bratislava,
Orchestra Internazionale d’Italia, dir. Paolo Arrivabeni,
Dynamic 2002
Le Siège de Corinthe
Lorenzo Regazzo (Mahomet II), Majella Cullagh (Pamyra),
Marc Sala (Cléomène), Michael Spyres (Néoclès), Matthieu
Lécroart (Hiéros), Gustavo Quaresma Ramos (Adraste),
Marco Filippo Romano (Omar), Silvia Beltrami (Ismène),
Camerata Bach Choir Poznań, Virtuosi Brunensis, dir. Jean-
Luc Tingaud, Naxos 2013
Moïse et Pharaon, ou Le Passage de la Mer Rouge
Alexey Birkus (Moïse), Luca Dall’Amico (Pharaon), Randall
Bills (Aménophis), Patrick Kabongo (Éliézer), Baurzhan
Anderzhanov (Oziride/Voix mystérieuse), Xiang Xu (Ophide),
Silvia Dalla Benetta (Sinaïde), Elisa Balbo (Anaï), Albane
Carrère (Marie), Górecki Chamber Choir, Kraków, Virtuosi
Brunensis, dir. Fabrizio Maria Carminati, Naxos 2020
Le Comte Ory
Juan Diego Flórez (Le Comte Ory), Alastair Miles (Le
Gouverneur), Marie-Ange Todorovitch (Isolier), Bruno Praticò
(Raimbaud), Stefania Bonfadelli (La Comtesse), Marina De
Liso (Ragonde), Rossella Bevacqua (Alice), Prague Chamber
Choir, Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, dir. Jésus
López Cobos, Dg 2004

12. Mediazione e autorappresentazione nei primi anni parigini


1 MONGRÉDIEN 2008, pp. 395-426.

2 GRLD 2004, p. 358 (Parigi, 11 novembre, a Giuseppe Rossini, Bologna).

3 La testimonianza è di Maria Amalia di Borbone, consorte di Luigi Filippo e


futura regina di Francia, in quell’occasione ospite della duchessa di Berry (cit.
in RAGNI 2012, vol. I, pp. 547-548).
4 GRLD 2004, p. 360.
5 In HILLER 1855, pp. 90-93, il parere di Rossini su Cimarosa e Paisiello è
espresso più o meno negli stessi termini. La devozione per Haydn si indirizza alla
produzione strumentale e oratoriale; un certo scetticismo affiora invece al riguardo
della sua produzione operistica, a detta di Rossini visionata a Vienna presso un
collezionista e ritenuta di inferiore livello.
6 Rossini 1992, p. 205.

7 Rossini 1992, p. 217.

8 GRLD 1996, pp. 195-196 (Parigi, 1º dicembre 1823, Progetto di contratto tra
Rossini e il Governo francese).
9 Cfr. il resoconto di John Ebers, amministratore del King’s Theater, in EBERS
1828, pp. 205-230.
10 GRLD 1996 p. 277 (Ginevra, 22 settembre 1824).

11 GRLD 1996, p. 541 (Parigi, 24 maggio 1826, Ferdinando Paer a Giovanni


Battista Benelli, Bologna).
12 Cfr. PAGANNONE 1997.

13 «… il Paese è ansante di sentire quest’ultima produzione di Rossini, che al


certo ci dovrebbe procurare un buon interesse, tanto più che noi la daremo nella sua
integrità, come fu fatta a Parigi, e non vulnerata come hanno fatto a Parma, che
trovasi mancante dei mezzi che noi abbiamo»: così Gaetano Giannini ad
Alessandro Lanari, il 2 febbraio 1828, sulla imminente messinscena fiorentina
dell’Assedio di Corinto (quaresima 1828). Cit. in MECHELLI 2009, p. 34.
14 «L’opera di Rossini Le siege de Corinthe (che poi è il Maometto suo di Napoli)
andò in scena Lunedì; Ciò che era fatto nuovamente piacque assai, cioè la
Benedizione dei stendardi de greci e altre cose piuttosto allusive alla presa di
Missolonghi che à quella di Corinto. – Tutti i greci si trovavano al Teatro, e dicesi
che furono distribuiti gratis quatrocento biglietti, senza esagerazione. Io però vi
dico che la musica tanto del Maometto ridotta, che quella composta qui
espressamente (che non sono, che tre, o quattro pezzi) mi ha piacciuto
estremamente, ed ho applaudito con giustizia» (GRLD 1996, p. 639, Parigi, 11
ottobre 1826, Ferdinando Paer a Giovanni Battista Benelli).
15 Vedi LOCKE 1986.

16 GRLD 2000, p. 88 (Parigi, 1º gennaio 1827, Delibera di Sosthène de La


Rochefoucauld, Art. 8).
17 GRLD 2000, p. 47 (Parigi, 22 novembre 1826, Sosthène de La Rochefoucauld
a Louis-Marie-Céleste duca d’Aumont).
18 GRLD 2000, p. 304 (Parigi, 31 dicembre 1827, Rossini ai redattori dei giornali
di Parigi).
19 Nelle diverse serate si avvicendarono a rotazione balletti di altri autori su vari
soggetti: L’épreuve villageoise di Persuis, Mars et Vénus di Schneitzhoeffer, Les
pages du duc de Vendôme di Gyrowetz, Astolphe et Joconde, ou les Coureurs
d’aventures di Hérold, e altro.
20 GRLD 2000, p. 372 (Parigi 8 agosto 1828, Luigi Goffredo Zuccoli a
Bartolomeo Capranica, Roma). Nella città capitolina Ory giunse effettivamente nel
1830 (Argentina, autunno); cfr. MALNATI 2021, p. 452.
21 GRLD 2000, p. 364 (Parigi 16 luglio 1828, Amministrazione dell’Opéra a
Sosthène de La Rochefoucauld, nota 3).
22 «La pace del cielo, fratelli miei, / sia sempre con voi! / […] / A me venite, o
belle, / farvi cosa grata è così dolce!».
23 «Il Cielo ve ne libera. / Esso ordina che dei vostri giorni / si riaccenda la
fiamma / alla face dell’amore».
13. «Senza punto pensare a risvegliarne
l’ardore»
«Guillaume Tell» e la mutevole idea di
libertà

Disegno preparatorio di Charles-Abraham Chasselat


per una incisione della storia di Guillaume Tell, 1816 circa

Gettando lo sguardo oltre il 1829, appare chiaro da


testimonianze dell’epoca il ruolo che Guillaume Tell di
Rossini, sua ultima opera, ancora deteneva nell’Italia
postunitaria a distanza di decenni dalla sua creazione. Nella
costituzione del “discorso nazionale”, il capolavoro rossiniano
veniva assimilato a melodrammi in cui l’eco del Risorgimento
era più direttamente riconoscibile; lo comprovano le
celebrazioni rossiniane avvenute a Pesaro nel 1864, con vasta
eco sulla stampa, che statuirono l’ingresso del compositore nel
pantheon dei grandi dell’Italia unita. Il pubblico di
quell’evento (pubblico locale, ma anche i semplici lettori dei
periodici) era ormai proiettato nella nuova dimensione sociale
e politica, a distanza di pochi anni dalla Seconda guerra
d’Indipendenza e dai Mille, ma proprio per questo bisognoso
di precursori dotati nella percezione corrente di forte carica
identitaria.1 Sotto la direzione musicale del ravennate Angelo
Mariani, all’epoca il massimo direttore vivente, col sostegno
dell’amministrazione cittadina e di altre istituzioni musicali e
artistiche del centro Italia, si pianificarono varie iniziative
civiche. Sul piano degli omaggi materiali, il restauro della
lapide presso la casa natale, una medaglia commemorativa
offerta dalla città di Firenze e consegnata in ottobre a Rossini
nella sua residenza di Passy da una rappresentanza pesarese,
una statua di bronzo. Dal lato degli intrattenimenti poetici e
musicali, numerosi eventi distribuiti in date canoniche; eventi
che si avviarono alla vigilia del compleanno rossiniano, il 29
febbraio (cadde quindi opportuno il 1864, anno bisestile),
presentato nel memoriale delle feste come il suo diciottesimo
anniversario, con un’accademia letteraria presso il teatro
cittadino da lui inaugurato nel 1818 dopo la ristrutturazione (vi
aveva diretto La gazza ladra) e a lui dedicato nel 1855, e
culminarono con la rappresentazione per beneficenza del
Guglielmo Tell in versione italiana (la prima fu il 14 agosto, in
tutto dieci serate). Nel giorno dell’onomastico rossiniano, che
in quell’anno cadde il 21 agosto, alla presenza del ministro
dell’Interno Ubaldino Peruzzi ebbero luogo l’inaugurazione
della statua e un’accademia musicale diretta da Teodulo
Mabellini. In questa sequenza di celebrazioni, la scelta del Tell
acquisì una connotazione simbolica e testamentaria, ma nel
senso più vitale possibile, ossia di un inno alla ritrovata libertà
e indipendenza italiana.
Il maggiore evento musicale fu concepito con largo anticipo
e venne introdotto da un’ode di Luigi Mercantini dal titolo
programmatico, Il Guglielmo Tell e la rivoluzione, «Recitata
nel teatro di Pesaro, dove si festeggiava il dì natalizio di
Gioacchino Rossini»;2 lo stesso poeta firmò anche un inno per
la musica di Mercadante, che si avvalse di motivi rossiniani,
eseguito da cinquecento fra cantori e strumentisti alla
scopertura della statua (Sui colli d’Isauro correva la luce), e
una cantata musicata da Pacini, proposta durante l’accademia
musicale di chiusura (Rossini e la patria). Mercantini fu altra
gloria marchigiana (Ripatransone 1821-Palermo 1872);
bibliotecario, docente di retorica, patriota e poeta, divenne
apprezzato cantore del Risorgimento italiano ed è oggi
ricordato soprattutto per l’Inno di Garibaldi («Si scopron le
tombe, si levano i morti», 1858, all’epoca eseguito anche con
la musica del patriota e compositore Alessio Olivieri) e per La
spigolatrice di Sapri, ispirata alla sfortunata spedizione
antiborbonica di Carlo Pisacane del 1857 («Eran trecento, eran
giovani e forti»). Nell’ode al Tell Mercantini fece risuonare la
sua corda patriottica sin dalle prime strofe:
Pria che avvampasse il folgore
che gli oppressori atterra,
tu a noi tuonavi il cantico
della futura guerra:
e, quando i petti italici
chiudea di morte il gel,
la vita nuova ai popoli
il grido aprìa di Tel.
Né di tua nota intesero
gl’iniqui il senso arcano:
non fea sospetto ai despoti
l’elvetico alpigiano.
Dato per scena il carcere
t’avria dei re il furor,
se tu destavi i Vesperi
o di Legnano il cor.
Stolti! gli oppressi popoli
tutti han di Tel la destra,
su da ogni terra sibila
quella immortal balestra!
Cingean le picche svizzere
pontefici e Borbon;
ma di Rossini al cembalo
dava Guglielmo il suon.
Per voce di Tell a Rossini è attribuito il ruolo di precursore del
Risorgimento, sebbene sotto un’ipotetica copertura per il
«senso arcano» della sua ultima opera, che gli permise di
evitare ritorsioni e incarceramenti. Il tono della lirica è epico e
avventuroso, gli argomenti privilegiano la dimensione politica,
lasciando in subordine quella artistica: nelle restanti strofe si
dà spazio alla rievocazione delle insurrezioni europee, di Ciro
Menotti, delle giornate di Milano e Brescia, delle imprese di
Garibaldi fino all’invito a un’ultima risolutiva sollevazione
antiasburgica in nome del Leone di S. Marco. Mercantini
approntò quindi una risoluta equivalenza fra l’artista celebrato
e gli umori politici di quegli anni; e anche la descrizione delle
feste a cura della giunta municipale abbonda di riferimenti al
carattere irredentista del Tell, presentato come esaltazione
somma e insuperata dello «spirito rivoluzionario» a partire
dalla sinfonia, il cui ultimo tempo suona come una «terribile
marcia in aperta rivoluzione».3

Carlo Marochetti, statua in bronzo


di Rossini posta nel cortile
del Conservatorio di Pesaro, 1864
Louis Maleuvre, costume per l’Arnold
di Adolphe Nourrit alla prima del
Guillaume Tell a Parigi del 1829;
Bibliothèque nationale de France

Ma non si trattò soltanto di estemporanea mitografia in


funzione celebrativa. Nella lirica musicata in quell’occasione
da Pacini, Rossini e la patria, Tell dialoga con Mosè ed
entrambi replicano a un coro d’italiani, alla mesta voce di
un’allegorica Venezia e a un coro di donne romane che
invocano la liberazione della Città eterna. Le parole di Tell
celebrano l’affinità dei due vati nella prospettiva di un comune
ideale:
Libertà! per lei da Egitto
te chiamava e me da Elvezia:
tu pel popol derelitto
desti a lui la prece eletta,
io lo sdegno e la saetta
che distrugge gli oppressor.4
Nell’Italia postunitaria, come già in Francia agli albori del
grand opéra, si colse un passaggio di consegne da Mosè –
disgiunto dallo spirito quaresimale che ne aveva determinato
la composizione – a Guglielmo Tell, divenuti
indiscriminatamente eroi alla guida del proprio popolo ed
emblemi di una condizione storica concreta e attualissima.
Questioni attinenti al “discorso” su Rossini a cui l’autore fu
per molto tempo del tutto estraneo: nelle sue ultime opere
parigine e nei relativi adattamenti in lingua italiana, Rossini si
trovò a recitare un ruolo della cui portata non sembra essere
mai stato del tutto partecipe, se non altro per motivi legati alla
propria storia personale.
Ciò non toglie che all’occorrenza, nei lunghi anni del
silenzio teatrale, non volesse lui stesso accreditare questo suo
ipotetico ruolo di precursore riuscendo poco credibile. Alcuni
mesi dopo i festeggiamenti pesaresi e la lettura in teatro
dell’ode su Tell, e forse ispirato dai versi di Mercantini che gli
saranno stati recapitati, in una comunicazione all’avvocato
palermitano Filippo Santocanale, deputato del Regno nella
legislatura 1861-65, provò a rilanciare la propria immagine
nazionale, offuscata da malumori e contestazioni sin
dall’epoca della Prima guerra d’Indipendenza (1848-49); a
questo fine rievocò il «Pensa alla patria, e intrepido»
dall’Italiana in Algeri, le sue lontane gesta nei tumultuosi
giorni murattiani e attribuì ai momenti chiave dell’ultima sua
opera una veste patriottica spontanea e incondizionata:
sebbene alcuni miserabili miei concittadini mi abbian fatta
riputazione di Codino! ignorando gl’infelici che nella mia
adoloscenza artistica musicai con fervore e successo le
seguenti parole:
Vedi per tutta Italia
rinascere gli esempi
d’ardire e di valor!
Quanto valgan gli Italiani
al cimento si vedrà!
e poscia nel 1815, venuto il re Murat a Bologna, con sante
promesse, composi l’Inno dell’Indipendenza, che fu
eseguito colla mia direzione al teatro Contavalli. In
quest’Inno si trova la parola Indipendenza, che sebbene
poco poetica, ma intuonata da me colla mia canora voce di
quell’epoca!, e ripetuta dal popolo, cori, etc., destò vivo
entusiasmo. […] Per distruggere poi l’epiteto di codino,
dirò per finire che ho vestite le parole di libertà nel mio
Guglielmo Tell a modo di far conoscere quanto io sia caldo
per la mia patria e pei nobili sentimenti che la investono.5
Espressioni rivolte a un interlocutore politicamente influente e
forse dettate dall’intento di adeguarsi almeno formalmente alla
temperie attuale, tramite l’aggiornamento del proprio profilo
biografico. A un uomo così in vista, il timore di perdere
consensi proprio all’indomani dell’Unità doveva risultare
insopportabile, ad onta dello scetticismo da lui sempre
manifestato nei confronti di rivoluzioni e rivolgimenti del
quadro sociale, dal quale traeva anche la propria invidiabile
posizione.
Per tornare al 1828, la composizione di Guillaume Tell, testo e
musica, andò a sovrapporsi a quella del Comte Ory; si partì da
lontano, prestando attenzione a ogni aspetto di uno spettacolo
che stava profilandosi come il coronamento del sodalizio fra
l’artista italiano più in voga e la massima istituzione teatrale
parigina. Il librettista prescelto fu Victor-Joseph Étienne de
Jouy (1764-1846); poeta teatrale non prolifico ma di lungo
corso e già noto per aver firmato i testi spontiniani più
apprezzati (La Vestale e Cortez, rispettivamente 1807 e 1809)
oltre a Les Abencérages di Cherubini (1813), Jouy aveva già
incrociato Rossini e curato la rielaborazione di Moïse et
Pharaon, precedente non inessenziale alla luce delle affinità
sul piano ideale che collegano Moïse a Guillaume. Nello
spirito della lavoro di squadra che contraddistinse le maggiori
produzioni francesi di quegli anni, a coadiuvare Jouy
intervenne stavolta, forse con propri collaboratori, Hippolyte
Bis (1789-1855), autore teatrale e librettista, pare, in quella
sola occasione, qui investito di un ruolo di rilievo che in più
casi lo portò a rimaneggiare in modo consistente il testo del
collega spesso abbreviandolo, sulla base delle riserve espresse
dal jury de lecture del teatro soprattutto in merito al quarto
atto, giudicato troppo lungo. Sono sue inoltre alcune delle
sezioni più celebri dell’opera, come il cosiddetto «Hymne à la
Liberté» (uno dei tanti in quegli anni) posto a conclusione.
La scelta del soggetto svizzero si riconduce a una tradizione
che in Francia pare essersi avviata dalla tragedia in cinque atti
Guillaume Tell di Antoine-Marin Lemierre (1766) per
riproporsi in epoca rivoluzionaria con l’omonimo opéra-
comique di Michel-Jean Sedaine e musica di André Grétry
(Théâtre Italien, 1791), dove la vocazione degli autori ad
alimentare «le feu sacré du patriotisme» è espressa da una
solenne predizione:
Oui, le temps viendra, où lorsque l’on mettra sous nos yeux
le tableau des anciens abus et de l’ancienne servitude, nous
saisirons avec plaisir cet instant, pour nous applaudir
d’avoir brisé des fers dont nulle puissance humaine ne peut
plus à présent nous accabler.6
Se dopo un quarantennio circa quello stesso tema elvetico, già
stabile nella coscienza collettiva, trovò altra realizzazione nel
massimo teatro parigino sotto la reggenza restaurata di Carlo
X, ciò fu possibile in virtù di una diversa declinazione dei suoi
contenuti libertari e grazie anche alla mediazione
politicamente più neutra del dramma Wilhelm Tell di Schiller
(1804), fonte principale e più autorevole del libretto di Jouy e
Bis, i quali procedettero non tanto al mascheramento degli
ideali rivoluzionari quanto a una sublimazione dei temi di
fondo di quel soggetto. Al pubblico francese del 1829 era
infine noto anche l’adattamento narrativo di Jean-Pierre Claris
de Florian, in cui la dimensione politica e sociale si associava
alle suggestioni pittoresche derivate dall’ambientazione
elvetica (Guillaume Tell ou la Suisse libre, pubblicato postumo
attorno al 1800). Da segnalare che in Italia il soggetto era
giunto, da tempo, sotto forma di ballo pantomimo, nel 1797
alla Scala (autore Paolo Franchi), e nel 1809 al San Carlo di
Napoli (autore Louis Henry, danzatore di origini francesi),
prima dell’arrivo di Rossini: un buon viatico per la diffusione
locale dell’opera rossiniana.7
L’aspetto visivo fu fra le prime preoccupazioni
dell’amministrazione dell’Opéra. Lo scenografo Pierre-Luc-
Charles Cicéri, in quegli anni fra i maggiori, venne inviato in
Svizzera per individuare gli scorci più suggestivi e ricavarne
bozzetti appropriati, in base al criterio di una verité storico-
ambientale da riproporre a teatro che costituiva uno dei punti
di forza del grand opéra e dell’opera romantica in generale.
Scrivendo il 7 agosto 1828 ad Adam Albrecht conte di
Neipperg, da qualche anno Gran Maestro di Palazzo a Parma e
dal 1821, deceduto Napoleone, secondo marito di Maria
Luigia d’Austria, Rossini sollevò l’argomento per prendere
tempo sulle pressanti richieste che già gli giungevano per poter
rappresentare l’opera all’inaugurazione del Nuovo Teatro
Ducale:
Non potei prima d’ora rispondere alle di Lei domande
perché il Poema non era ancora completo, e Lei sa che
queste cose si fanno a pezzi, a bocconi […]. In quanto alle
decorazioni è impossibile che io possa per ora darle avviso;
abbiamo mandato in Svizzera il S.r Ciceri nostro Pittore
onde scelga i più bei punti di vista, e non è che al suo
ritorno che si fisseranno le posizioni topografiche
dell’Opera, e questo nel principio di Settembre epoca alla
quale avrò il bene di darle tutti i particolari possibili […] In
quanto a me dichiaro a V.E. […] che se l’opera non ha il
successo che sarebbe desiderabile, non vorrei che si dasse
la suddetta a Parma, poiché sarebbe un tristo omaggio a
rendere a S.M. che è tanto clemente ed incoraggiante per le
Belle Arti. Sarebbe secondo me prudente il non dare il G.
Tell per prima Opera poiché difficilmente si potrà far
brillare la Compagnia nella suddetta Opera ed in specie il
Contralto che non ha parte.8
La reticenza di Rossini era dovuta, oltre che alla complessa
gestazione del Tell e alla difficoltà di adattare la distribuzione
delle parti a una compagnia italiana (in cui di norma faceva
bella mostra di sé il contralto, voce a lui cara ma difficilmente
proponibile a Parigi nei ruoli principali), anche alla
consapevolezza dell’eccezionalità di ciò che andava
componendo, per importanza e dimensioni, tanto da non
volersi impegnare preventivamente con altri teatri
(atteggiamento per lui piuttosto inusuale). Di conseguenza non
se ne fece niente, e tramontò pure l’idea di mettere in scena a
Parma il Mosè parigino (fu la Zaira di Bellini a riaprire il
Teatro Ducale). La prima italiana del Tell nella traduzione di
Calisto Bassi ebbe luogo, nel settembre del 1831, sotto la
protezione di Carlo Ludovico di Borbone, al Teatro del Giglio
di Lucca, sede teatrale più volte vicina a Rossini in anni
passati e altrettanto sensibile agli orientamenti correnti del
teatro francese. Il basso-baritono Domenico Cosselli ebbe il
ruolo di Tell, Duprez quello di Arnold (in sostituzione della
Pisaroni per la quale si stava preparando un adattamento en
travesti), che divenne in seguito, anche in Francia, il suo
cavallo di battaglia.
Tempestivo fu anche l’interesse degli editori per la nuova
opera. Eugène Troupenas, acquisiti i diritti del Comte Ory, fu
autorizzato a trattare la pubblicazione di Guillaume Tell
all’estero, procurandone in parte la diffusione internazionale;
alla fine di ottobre informò il collega viennese Artaria che
l’inizio delle prove di Tell era imminente e che sarebbe stata
quella, verosimilmente, l’ultima opera di Rossini per il teatro:
un’occasione da non perdere.9 Il successivo 4 dicembre si
giunse a ragionare sul prezzo per la cessione dei diritti e i 7000
franchi pagati da Artaria per la Muette de Portici sembravano
adesso troppo pochi a Troupenas, che aveva in carico anche la
percentuale da versare a Rossini.10
Richieste teatrali e interessamento editoriale espressi a
scatola chiusa, perché l’opera era tutt’altro che ultimata. La
composizione, è noto, andò per le lunghe, anche per i maneggi
di Rossini che in autunno intavolò una trattativa per il rinnovo
decennale del proprio contratto assieme a un vitalizio annuo di
6000 franchi come ricompensa dei servigi effettuati e nella
prospettiva di nuovi incarichi all’Opéra. Nel frattempo la
sovrintendenza era passata da La Rochefoucauld,
tendenzialmente favorevole a Rossini, al barone François-
Marie-Pierre Roullet de La Bouillerie, arcigno ex tesoriere di
Napoleone, che sollevò perplessità sui privilegi economici di
Rossini, beneficiario di un contratto e di una pensione allo
stesso tempo.11 Si giunse al contratto il 4 aprile del 1829, nei
termini non irragionevoli proposti da La Bouillerie;12 ciò non
fu però sufficiente a rassicurare il compositore, ancora in
possesso degli ultimi due atti del Tell e poco intenzionato a
cederli se le sue esigenze non fossero state soddisfatte. Sotto la
minaccia di non dar seguito alla programmazione, Rossini
riuscì infine a spuntarla e l’8 maggio fu stilato un nuovo
contratto, sottoscritto da Carlo X in persona, in cui
sostanzialmente si accettavano le condizioni pensionistiche
avanzate dal compositore (vitalizio dal 1º gennaio 1829).13
Alla lunga si trattò di una operazione remunerativa per
Rossini, dopo numerose tribolazioni, ma anche limitante nella
prospettiva di ulteriori progetti teatrali. Negli anni successivi,
complici gli sconvolgimenti causati dalla Rivoluzione di
luglio, non gli giunsero altri libretti dall’Opéra, cui pure era
vincolato in esclusiva, nonostante sue pressanti richieste, e
neppure il vitalizio. Come rilevato da Reto Müller,14 se
Rossini avesse accettato commissioni operistiche da terzi,
avrebbe rischiato di infrangere le norme stabilite dal contratto;
l’unico ambito in cui potesse liberamente prodursi era quello
cameristico (si vedano le ariette e i duetti su testi del
Metastasio e di Carlo Pepoli, pubblicati nel 1835 da Troupenas
col titolo di Soirées musicales, poi trascritte per pianoforte da
Liszt). Al tempo stesso il governo non avrebbe potuto
commissionargli altre opere – l’accordo ne prevedeva 5 in 10
anni – senza riconoscergli la discussa pensione. Il paralizzante
contenzioso si prolungò fino al 1836 (quando si risolse a
vantaggio di Rossini, il cui vitalizio fu messo in carico al
Tesoro) e va annoverato fra le cause del silenzio teatrale del
compositore successivo al Tell. Da uomo pratico qual era,
Rossini avrà verosimilmente anteposto il proprio tornaconto a
qualsiasi motivazione artistica e accettato di buon grado il
ritiro forzato dalle scene, divenuto poi definitivo.
Si dovette quindi attendere la tarda primavera del 1829
perché le prove del Tell potessero essere completate in vista
della prima, pianificata nel mese di luglio; ma anche questa
scadenza fu disattesa a causa di una malattia del soprano Laure
Cinti-Damoreau cui spettava il ruolo di Mathilde (incinta
nell’autunno precedente e già all’origine dei primi rinvii). Il 3
agosto Guillaume Tell andò finalmente in scena e lo fece a
caro prezzo per gli spettatori, che videro lievitare il costo dei
biglietti della prima fino ai 500 franchi per palco. Il ruolo
principale andò al baritono Henri-Bernard Dabadie (1797-
1853), che per Rossini già aveva vestito i panni di Pharaon
(Moïse) e Raimbaud (Comte Ory). Al suo fianco, la consorte
soprano Louise-Zulmé Leroux, già Sinaide in Moïse e qui en
travesti nel ruolo di Jemmy figlio di Tell; Adolphe Nourrit in
quello di Arnold; Cinti-Damoreau, già Adèle nel Comte Ory,
qui Mathilde. Alle danze, con la coreografia di Jean-Pierre
Aumer, partecipò anche Maria Taglioni, che si avviava a
divenire la più celebre étoile delle scene europee; danze che
divennero iconiche, se ancora nel 1874 Edgar Degas farà
intravedere una locandina dell’opera in un suo dipinto,
soggetto la scuola di ballo di Jules Perrot (oggi al Met di New
York).
L’impatto di Guillaume Tell fu considerevole e di lunga
gittata: eccetto rare interruzioni non abbandonò le scene
dell’Opéra fino a Novecento inoltrato, secondo in questo
soltanto a Les Huguenots di Meyerbeer. I primi recensori fra
cui Castil-Blaze sul Journal des débats non lesinarono tuttavia
le riserve del caso: l’opera fu giudicata troppo lunga (fra le
quattro e le cinque ore) e i primi due atti apparivano
sproporzionati rispetto al resto; sulle testate del fronte
monarchico-conservatore (Le messager des chambres) al
personaggio principesco di Mathilde furono tributati
atteggiamenti troppo avventurosi e sconvenienti al rango.15
Sull’onda del successo conseguito, ma anche come
riconoscimento dell’attività pregressa, Rossini fu nominato
cavaliere della Legion d’Onore (7 agosto 1829). Seguirono i
consueti festeggiamenti, un pranzo spagnolo organizzato da
Manuel García e quello di commiato a casa Aguado presso il
Petit-Bourg, dove la partitura del Tell era stata messa a punto.
Alcuni indizi della concezione di fondo del Guillaume Tell
rossiniano giungono dall’ouverture, eseguita in Italia anche
precedentemente alla prima italiana (in circostanze che ne
rimarcano la recezione “irredentista”)16 e ancora oggi fra i
brani sinfonici italiani più eseguiti. Rossini predilige qui la
dimensione ampia, non quella di un preludio collegato alla
prima scena dell’opera, e realizza così un componimento
dotato di propria autonomia anche sul piano tematico;
contrariamente a svariati altri casi risalenti anche al periodo
italiano di Rossini, non si impiega nell’ouverture del Tell alcun
motivo dell’opera, di cui si anticipano tuttavia i contenuti
essenziali. Il contesto cui si allude è puramente ideale; la
forma del brano quella di un astratto potpourri di situazioni
sonore, non di motivi favoriti: una successione di quattro
sezioni armonicamente congiunte quanto fortemente distinte
nel carattere. L’Andante iniziale pone in primo piano una
malinconica cantilena del violoncello solo (col sostegno di
altri quattro violoncelli divisi), strumento di registro maschile
allusivo alla figura del protagonista e forse alla scena clou
dell’opera; la mossa d’avvio sembra quindi profilare
un’individualità solitaria e meditabonda. L’Allegro a seguire
scompiglia l’inerzia contemplativa della prima sezione e si
apre a uno scenario naturalistico; il vocabolario sonoro
impiegato – figurazioni frammentate, bagliori agli acuti,
accenti percussivi al grave, tremoli, scale cromatiche
discendenti – rievoca una tempesta che tramite una
dissolvenza (ancora presente allo Chopin dello Scherzo per
pianoforte op. 54)17 si connette al terzo episodio, in Andante e
in modo maggiore. Corno inglese e flauto sono adesso in
primo piano e sfruttano i modelli ritmico-melodici di un ranz
des vaches, tipologia di motivi impiegati dai pastori svizzeri
per richiamare le mandrie al pascolo con il corno delle Alpi,
divenuti oggetto di interesse enciclopedico a partire dal
Dictionnaire de musique di Rousseau (1768) fino alla
trattazione di George Tarenne, Recherches sur les ranz des
vaches ou sur les chansons pastorales des bergers de la
Suisse. Avec Musique (1813); Rossini certamente conobbe
almeno il secondo di questi scritti, dove per altro si riportano
anche esempi musicali tratti da Rousseau. In ogni caso, il ranz
non viene da Rossini adoperato in qualche sua forma originale
e unicamente come tratto di occasionale couleur locale
(l’opera si svolge durante la festa dei pastori, nel mese di
maggio); le sue molteplici proliferazioni divengono piuttosto
un elemento sostanziale e unificante del linguaggio del Tell, e
appaiono, in orchestra o nel canto, in svariate situazioni fino
alla conclusione dell’opera, si direbbe come contrassegno
identitario della nascente confederazione elvetica. Quel
momento della sinfonia è quindi strategico: all’incontenibile
potenza della natura durante la tempesta segue l’illustrazione
sonora di una natura antropizzata e pastorale – tramite il
ranz –, dove l’elemento umano non si trova più solo con sé
stesso, come nel primo episodio, ma calato in una dimensione
economico-sociale. “Collettivo” è anche l’impetuoso pas
redoublé finale (Allegro vivace, modo maggiore). L’imitazione
a breve distanza fra trombe e corni, in apertura, suona come
una chiamata alle armi, e da lì si avvia l’entusiasmante
galoppata che senza respiro conduce l’ascoltatore al termine
del brano. Fra gli ingredienti ideali dell’opera, quello
dell’oppressione è reso sotto metafora nell’episodio della
tempesta, mentre la rivolta contro la tirannide straniera è
raffigurata nell’Allegro vivace conclusivo: si stabilisce così un
parallelismo fra condizione interiore e fattuale che solo la
ritrovata concordanza con natura e collettività può risolvere in
senso positivo.
Ad apertura di sipario, il contrasto fra il placido scenario del
lago svizzero e la condizione di oppressione è statuito dal
quartetto iniziale (N. 1, Introduction), quando al canto estatico
del Pescatore «Accours dans ma nacelle» si contrappone con
amarezza Tell («Il chante, et l’Helvétie / pleure sa liberté»),
mentre Hedwige e Jemmy formulano una fosca profezia,
presagendo una burrasca in arrivo che metterà a rischio la vita
del Pescatore. Più oltre e con crescente insistenza risuonano i
corni, allusivi alla caccia e quindi nuovamente a una natura
antropizzata (I,IV-VI); ma se il ranz costituisce l’essenza dello
spirito elvetico e rappresenta l’equilibrio fra uomo e natura, i
corni si riferiscono qui alla caccia condotta dall’aggressore
austriaco e si profilano come segnali esogeni e avversi. Sul
villaggio in festa per i preparativi di una cerimonia nuziale
condotta da Melchthal, anziano del cantone e padre di Arnold,
grava quindi una implicita precarietà che la tinta gioiosa dei
cori di I,I e I,VI riescono appena a mascherare. Non è già più
un quadro idillico e in I,III Guillaume fissa il punto centrale
della questione («Que je fuis les tyrans, que je cache à leurs
yeux / le bonheur d’être époux, le bonheur d’être père!»).18 Se
è vero che Jouy elimina il personaggio di Werner Stauffacher –
in Schiller l’anima della rivolta – e che l’aspetto patriottico
transita su Tell, questi continua a essere innanzitutto padre e
consorte. Nel Fidelio di Beethoven l’ingiusto incarceramento
di Florestan determina l’intervento di Leonore, sospinta
dall’amore coniugale; in modo non troppo dissimile,
l’oppressione asburgica in Tell non si pone inizialmente come
un fattore politico o nazionale, bensì soprattutto come un
ostacolo potenziale al raggiungimento della felicità famigliare:
la scena più celebre dell’opera, quella della malvagia sfida alle
capacità balistiche di Tell, consiste difatti in un attentato alla
famiglia.
Famiglia che Arnold, sempre a causa della dominazione
asburgica, rischia di non potersi costruire perché legato a una
principessa dello schieramento avverso, Mathilde. Già nel suo
primo tormentato monologo Arnold si profila come il
personaggio più complesso dell’opera, attanagliato dal
conflitto interiore di amore e dovere fra loro apparentemente
inconciliabili, condizione espressa in recitativo, senza niente
concedere per il momento ad atteggiamenti liricizzati («O
Mathilde! je t’aime, / je t’aime, et je trahis / mon devoir et
l’honneur, mon père et mon pays!», I,IV).19 Di personaggi
sospinti da motivazioni opposte, sentimentali e razionali, va
piena anche l’opera seria, ormai un lontano e pallido ricordo;
potremmo definirlo il personaggio più schilleriano del cast, se
in Schiller Arnold non fosse dotato di una connotazione
decisamente meno rimarchevole. La caratterizzazione
musicale di Rossini guarda però al futuro e negli slanci
appassionati che egli manifesta Arnold si avvicina al tenore
romantico di Meyerbeer o Donizetti, ferma restando la
tipologia vocale belcantistica adatta al registro di Nourrit,
haute-contre, purgato qui da soverchie colorature. Quando il
ruolo fu interpretato da Duprez, che negli anni trenta e oltre
letteralmente si appropriò dell’opera introducendo numerose
varianti e il celebre do di petto, Rossini disapprovò
l’operazione salvo poi prendere atto di un gusto ormai mutato,
in vista di una identità tenorile da cui non erano precluse più
“virili” soluzioni di forza.
L’identità vocale di Arnold si annovera quindi fra i numerosi
aspetti in qualche modo problematici di quest’opera. Il rilievo
del ruolo e il suo profilo drammatico lo pongono quasi al
livello del protagonista, la cui robusta vocalità non è meno
avanzata e lascia presagire il baritono verdiano. Il duetto con
Guillaume, «Où vas-tu? quel transport t’agite?» (I,V, N. 2),
inquadra un confronto di mentalità che si realizza in forme
liriche, secondo un principio sempre più diffuso ed
emblematico dell’opera ottocentesca francese e italiana (in
epoche antecedenti lo scambio di idee sarebbe avvenuto
affidandosi alla sola declamazione). Sono messi a reagire gli
scultorei asserti di Tell, che esorta Arnold alla difesa della
patria e dell’anziano padre, e il turbamento di Arnold, afflitto
dai sensi di colpa per aver servito il nemico e incline ad
accenti nostalgici e sentimentali nel ricordo di Mathilde.
Anche in questo caso, come altrove nell’opera, Rossini applica
una struttura non dissimile dal modello italiano, una
successione di tempi che sfocia in una cabaletta conclusiva
ove si sancisce l’intesa dei due e il passaggio a una dimensione
concretamente operativa.

Guglielmo Tell, figurino di Alfredo Edel


per l’edizione scaligera del 1899;
Milano, Archivio Storico Ricordi

La rottura del fragile equilibrio fra vita paesana e occupazione


straniera avviene in I,IX, quando nel bel mezzo delle
celebrazioni matrimoniali con accompagnamento di danze ed
episodio pantomimico del gioco con l’arco – uno studiato
allentamento della tensione tipico del grand opéra anche a
venire – sopraggiunge Leuthold in fuga per aver ucciso un
soldato nemico che gli insidiava la figlia. La situazione è
schilleriana e anche nella tragedia serve a far decollare
l’azione: altra vicenda familiare (un padre che difende la
figlia, in Schiller la moglie) che guadagna il sostegno di Tell,
padre e consorte a sua volta. Le scene I,IX-X scorrono spoglie,
affidandosi alla nuda parola in declamazione, come se Rossini
dopo aver intrattenuto lo spettatore con le danze nuziali
volesse scuoterlo, riportandolo alla realtà dell’azione scenica.
Le spirali avvolgenti e sinistre con cui inizia il breve e intenso
finale primo suscitano un’immagine della natura adesso
tutt’altro che benevola; il lago nasconde insidie mentre
rumoreggia un temporale. Tell lo attraversa e mette in salvo
Leuthold, suscitando lo sdegno degli austriaci condotti da
Rodolphe, capo degli arcieri di Gesler. Da questo spunto
origina un susseguirsi di preghiere e gesti di devozione cui si
contrappongono la violenza e le minacce dell’oppressore; nel
concertato finale («Que du ravage», I,XI, N. 7) Rossini sfrutta
un’iterativa e martellante formula ritmica, generata
dall’accentazione del verso poetico, cui conferisce un valore
persecutorio che scenicamente si traduce nel rapimento e
nell’uccisione di Melchthal, saggio di una comunità che viene
così colpita al cuore. La transizione repentina dal particolare
all’universale è un dispositivo drammatico che precede il
grand opéra ma che in questo genere assume una rilevanza
trainante per la condotta dell’azione.
Che vi sia la fondata speranza di un’unione regolare fra
Arnold e Mathilde, divisi da eventi violenti, lo lascia trapelare
la Romance di lei, «Sombre forêt, désert triste et sauvage»
(II,II, N. 9): situazione convenzionale – personaggio solo in
scena che si lascia andare al flusso dei ricordi e dei
sentimenti – ma anche una delle gemme dell’opera. Rossini
con consumata maestria costruisce il brano su una delle tante
varianti melodiche del ranz (ritmo terzinato, intervalli
distribuiti sulle note dell’accordo perfetto) e lascia così
intendere che Mathilde non è aliena dallo spirito della natura
da lei direttamente evocata nel testo e dalla sensibilità elvetica
che la renderebbero alla portata di Arnold. Il duetto seguente
«Oui, vous l’arrachez à mon âme» (II,III, N. 10) stabilisce
infatti un trascinante parallelismo fra i due; il brano termina
con una cabaletta in cui le voci procedono appaiate e coese: la
diversità dell’appartenenza “nazionale” è stata superata dalla
convergenza di nobili aspirazioni sentimentali o persino da
una simile visione del mondo.
Ma è ancora la leva famigliare a indurre Arnold a dare la
scossa decisiva, e ciò avviene alla notizia dell’uccisione di
Melchthal durante un pezzo chiuso, il terzetto con Guillaume e
Walter «Quand l’Helvétie est un champ de supplices» (II,IV,
N. 11); la stretta finale sancisce il recupero definitivo di
Arnold nella schiera dei difensori della patria («Embrasons-
nous d’un saint délire!»). La cospirazione in atto prende la
veste melodrammatica di uno spettacolare assembramento di
cori a raccolta nel finale secondo (Chœur d’Unterwald, Chœur
de Schwitz, Chœur d’Uri, II,V-VII); Guillaume nel ruolo di
condottiero amministra il consesso rivoluzionario che ha esito
in un solenne giuramento («Jurons, jurons par nos dangers»).
La centralità sociale e politica di Guillaume e la sacralità
dell’assemblea accorsa in rappresentanza di un popolo
vengono asseverate dalla struttura responsoriale predisposta da
Rossini: ogni asserto di Tell è scandito dagli squilli degli
ottoni e replicato dal coro, ma è il coro in un sol blocco a
concludere il rito, prima dell’alzata di spade finale («Aux
armes!»).
Alla direzione ascendente del secondo atto, animato da una
fattiva energia e da slancio individuale e collettivo, fa seguito
il fosco e violento terzo atto che inizia sotto i peggiori auspici
con una scena e aria di Mathilde e Arnold fra i ruderi di una
vecchia cappella in rovina, luogo ideale per un
melodrammatico addio. La priorità di Arnold è adesso quella
di vendicare il padre e la reazione di Mathilde si riversa in un
pezzo breve e tutto d’un fiato, dove ella sembra perdere la
dignità aristocratica; lo stile parlante è regolato da ansiogeni
incisi orchestrali e appena rischiarato da colorature in coda
(«Pour notre amour plus d’espérance», N. 13). Con il suo
rilevante ruolo solistico, Mathilde rappresenta il puro
sentimento senza compromissioni nazionalistiche: non è il
motore dell’azione, ma un elemento esogeno progressivamente
ricongiunto al contesto “naturale” verso cui tende la vicenda.
Il terzo atto è però dominato dal governatore Gesler, alla prima
il basso Alexandre Prévost, figura diametralmente opposta a
Mathilde ancorché del medesimo schieramento. Crudele a
tutto tondo, si manifesta al popolo oppresso accompagnato da
marce: quanto di più lontano sul piano ritmico e melodico dal
morbido e avvolgente ranz des vaches nelle sue diverse
conformazioni, contrassegno delle popolazioni indigene.
Gesler non rivela alcuna profondità psicologica e non ha altre
mire se non il potere che esercita con sadismo, impugnando le
insegne imperiali come trofei.
Il divertissement del terzo atto è posto nel cuore dell’azione,
e reso così espressione massima della perversione del
governatore, che obbliga le donne svizzere a danzare la
Tirolese coi soldati austriaci e a inchinarsi di fronte ai simboli
dell’impero. Al rifiuto di Guillaume (III,III) scatta lo scontro
con Gesler nel breve quartetto che vede contrapposti i due
nemici (Gesler e Rodolphe) e il nucleo famigliare costituito
dal protagonista e da Jemmy («Tant d’orgueil me lasse»,
N. 17). Senza indugi, e sempre ponendo in primo piano la
minaccia portata da Gesler all’integrità della famiglia di
Guillaume, si giunge quindi alla scena clou dell’opera, quella
del perverso tiro a segno che corrisponde anche all’unica aria a
solo del protagonista. Guillaume difatti si realizza soprattutto
nel confronto con gli altri, sia nei gesti eroici sia negli slanci
affettivi, come pure qui avviene anche se Jemmy, che ha a
lungo incoraggiato il padre nel recitativo antistante, si limita
ad ascoltarne le ultime raccomandazioni. Coerentemente
all’assunto drammatico, «Sois immobile, et vers la terre»
(III,III) è aria assai breve – una trentina di battute integrate alla
«Scène et Final» – e volutamente “informe”: la declamazione
del testo, concepita come un moto spontaneo dell’animo, non
manca di accenti patetici nei momenti più accorati – ancora
risuonano le parole-chiave «enfant», «père», «mère» – ed è
accompagnata dal flusso melodico del violoncello solista, che
non effettua un semplice sostegno bensì un appassionato
commento, con proprio fraseggio disseminato di palpitanti
esitazioni.
Pagina ammirata dai contemporanei e dai posteri, «Sois
immobile» fu anche oggetto di un breve dibattito durante il
celebre incontro di Rossini con Wagner, a Parigi nel marzo del
1860, il cui resoconto ci giunge attraverso la creativa
mediazione di Michotte. Nelle parole del compositore tedesco,
non senza qualche lusinga, il brano costituirebbe lo specimen
di una “melodia senza fine”, principio che sta alla base
dell’estetica di Wagner medesimo («Je veux la mélodie libre,
indépendante, sans entraves»), al che la celebre e ironica
replica rossiniana («De manière que j’ai fait là de la musique
de l’avenir sans le savoir?»).20 Al di là della credibilità
dell’episodio, che potrà forse contenere un nocciolo di verità
almeno sull’oggetto trattato, e al di là anche dei
fraintendimenti che la “melodia infinita” del Tell ha
determinato in alcuni momenti della sua storia critica, va
ricordato che la modalità di comporre un brano vocale
continuativamente, senza simmetrie melodiche interne
(durchkomponiert), era già nota da generazioni all’opera
italiana o francese, in ariosi e in cavatine tragiche. La
modernità rossiniana sta semmai nel carattere emblematico
conferito a questo breve e intenso momento di canto che
costituisce una svolta nel decorso della vicenda, ossia nella sua
icastica credibilità drammatica. Dall’esito positivo della prova,
superato un momento di sfinimento («Je ne vois plus»),
Guillaume in catene trova la forza di lanciare la sfida al
governatore sotto forma di una maledizione – «Anathème à
Gesler!» – ardentemente replicata dal coro di svizzeri col
sostegno di Mathilde, che è accorsa in soccorso di Jemmy
avvicinandosi così alla fazione avversa. L’energia di ribellarsi
all’oppressione si alimenta di motivazioni personali.
Le prime due scene dell’atto quarto («Récitatif, air et
chœur», N. 18) sono finalizzate a completare il processo di
maturazione di Arnold che si accommiata dai ricordi
d’infanzia in un’aria dalla tessitura assai acuta, rivelatrice di
cosa e quanto pretendesse Rossini da un tenore contraltino
(«Asile héréditaire»); sollecitato dal coro, Arnold si indirizza
poi alla difesa di Guillaume, prendendo il comando delle
operazioni nella squillante e bellicosa cabaletta finale («Amis,
amis, secondez ma vengeance»). La ricomposizione della
famiglia di Tell avviene nel terzetto di sole ma ben
diversificate voci femminili («Je rends à vostre amour un fils
digne de vous», IV,IV, N. 18bis), propiziato da Mathilde che
restituisce Jemmy alla madre Hedwige.
Da quel momento in poi la natura diviene protagonista
dell’azione, assorbita interamente dal succinto e grandioso
finale ultimo (N. 19). «C’est la mort qui s’avance à la voix des
tempêtes: / Guillaume périra!…» esclama Hedwige ai primi
bagliori dei fulmini, in cui coglie uno sventurato presagio
(IV,V). La Preghiera successiva, «Toi, qui du faible es
l’espérance», invoca la salvezza di Guillaume e la liberazione
dal giogo dell’oppressione: ancora una volta il piano
individuale e quello collettivo si sovrappongono nello spirito
di un’armonia con la natura adesso da ritrovarsi. Tutto accade
molto rapidamente su uno sfondo sonoro turbolento, affidato a
un’orchestra vivacemente descrittiva; i soldati di Gesler
periscono nella furia delle onde, e lui stesso è colpito
dall’ultima freccia di Guillaume. La famiglia ricongiunta
assieme ad Arnold e a una Mathilde ormai convertita alla
causa dei rivoltosi («jusq’à la liberté je m’élève avec toi») può
partecipare spiritualmente al ritorno luminoso della luce.
Come spesso rilevato in sede critica, il finale lieto di
Guillaume Tell, dotato di universale pienezza (l’uccisione di
Melchthal è stata vendicata e si è convertita in un sacrificio per
la patria), non è né sarà usuale nel repertorio del grand opéra,
allora in progressiva costituzione. Se è vero che la fonte
principale schilleriana era stata rivista da Jouy e Bis
nell’impianto drammaturgico, alcune delle ragioni di fondo del
Wilhelm Tell persistono latenti nel Guillaume Tell rossiniano e
meritano di essere ricordate anche in merito all’epilogo
dell’opera. La produzione drammatica di Schiller si presenta
come un distillato del suo pensiero filosofico, che a sua volta
si riconduce alla filosofia kantiana e, come spesso nel primo
romanticismo, alla Critica del giudizio per quanto attiene al
problema del bello e del sublime (1790). Il testo chiave per la
comprensione dell’umanesimo implicito nella produzione di
Schiller resta però la Critica della ragion pratica (1788) e
anche il problema della libertà si inquadra in questo articolato
rapporto di filiazione. Questo il punto: per Kant la
realizzazione dell’uomo è la messa in opera quanto più estesa
di tutte le sue disposizioni (i doveri verso di sé), e come molta
cultura tedesca dell’epoca, Kant colloca al centro delle sue
riflessioni sulla morale il tema della Bildung (educazione). Al
fine di conseguire questo obiettivo, nella Critica della ragion
pratica Kant contrappone natura e libertà: nella misura in cui
seguiamo la natura (ossia le nostre pulsioni) non siamo liberi,
ma limitati dal mondo fenomenico cui torniamo di fatto ad
appartenere, quindi causalmente determinati come un qualsiasi
evento naturale. Il dovere morale (che proviene dall’intelletto)
ci rende invece liberi, soggetti etici e razionali in grado di
fronteggiare le pulsioni che pure, in quanto enti di natura ed
esseri sensibili, ci appartengono (da qui il celebre asserto della
Critica della ragion pratica: «il cielo stellato sopra di me, e la
legge morale dentro di me»). Schiller si allontana dal
rigorismo kantiano, nel quadro della propria dottrina dell’unità
di ogni individuo, in particolare nelle Lettere sull’educazione
estetica dell’uomo (1795). «La volontà dell’uomo però sta
interamente libera tra il dovere e l’inclinazione naturale, e in
questo suo diritto sovrano egli né può né deve lasciarsi
violentare da nessuna fisica necessità […] Questo potrà
ottenersi solo ove […] gli istinti si accordino colla ragione così
da essere atti a una legislazione universale» (Lettera IV nella
bella traduzione di Ildegarde Trinchero, Torino 1882): l’idea di
fondo, già pienamente romantica, è che l’uomo possa superare
quel dualismo e giungere a essere libero non in opposizione,
ma in continuità con la sua natura. Che dunque il bene in senso
morale, cioè la libertà come indipendenza dagli impulsi
naturali, gli si presenti non più in forma conflittuale (vorrei ma
non devo) ma come indole da assecondare, nuova natura
educata. Anche la libertà ambita e conseguita nel Tell è
innanzitutto una questione morale prima di divenire politica:
da parte di Tell, nel senso della salvaguardia dei valori
famigliari messi a repentaglio dall’oppressore, considerando la
famiglia come primo nucleo della società e della nazione (in
Schiller valori tenuti separati dall’attivismo politico, assegnato
al personaggio di Werner Stauffacher, poi soppresso in
Rossini); ma anche nel senso dell’acquisita libertà individuale
di Arnold, che nel libretto di Jouy riesce ad armonizzare –
dopo avervi rinunziato – la proprie aspirazioni sentimentali,
rivolte alla principessa austriaca, con l’azione militare in
difesa della patria, e che così consegue con massima
compiutezza il proprio ideale di libertà.
Sulla questione della libertà individuale e collettiva si
innestano poi in modo indivisibile le tematiche congiunte alla
filosofia della natura che nel primo romanticismo acquistano
nuovo vigore. La natura dei romantici è il principio del tutto,
l’infinito a cui l’uomo tende ed espressione di Dio secondo
una visione orientata al panteismo. L’armonia dell’uomo con
la natura diviene una condizione primaria dell’esistenza e della
raggiunta compiutezza morale e sociale. Negli studi sulla
filosofia della natura di Schelling, prodotti fra 1799 e 1804,
soggetto e oggetto si risolvono in una sola realtà non
scomponibile e riconducibile all’Assoluto, inteso come unione
di spirito e natura; l’uomo è egli stesso parte della natura come
spirito inconscio oggettivato che prende coscienza di sé.
Alcuni momenti cardine del Guillaume Tell rossiniano, anche
per il tramite delle situazioni predisposte dal libretto, si
riconducono palesemente a questo aspetto della nuova
sensibilità romantica (cui, va detto, è invece piuttosto estranea
la coeva opera italiana, con rare eccezioni): fra questi, la
successione di tempesta e ranz des vaches nell’ouverture, il
progressivo deterioramento delle condizioni metereologiche –
cui si allude anche nella tragedia schilleriana – col progredire
del dramma, e infine le scene IV,IX-XI culminanti
nell’uccisione di Gesler durante l’imperversare della tempesta
sul lago, uccisione condotta con mano ferma da Tell grazie al
sostegno divino («De Dieu reconnais l’assistance»), a sua
volta propiziato dalla Preghiera di Hedwige in IV,V. All’atto
violento e liberatorio fa seguito il ritorno del sereno sotto
forma di una luce abbagliante che illumina il creato, evento cui
i personaggi assistono in una sorta di estasi mistica (IV,X):
GUILLAUME Tout change et grandit en ces lieux.
Quel air pur!
HEDWIGE Quel jour radieux!
JEMMY Au loin quel horizon immense!
MATHILDE Oui, la nature sous nos yeux
déroule sa magnificence.
GUILLAUME À nos accens religieux,
liberté, redescends des cieux,
et que ton règne recommence!…
Il cambiamento intercorso nelle manifestazioni naturali
rispecchia l’azione dell’uomo, originata da un moto spirituale
e sostenuta dalla devozione religiosa. Parallelamente a quanto
anticipato dall’ouverture, spetta al ranz des vaches, introdotto
dalle sonorità azzurre dell’arpa, solennizzare questa ritrovata
convergenza fra spirito e natura; non ci si avvale qui di suoni
naturalistici disorganizzati a carattere meramente descrittivo
(Naturlaute) ma di un motivo antropizzato, il ranz appunto,
espressione della natura regolata dalle attività umane secondo i
princìpi di una nuova armonia. La struttura predisposta da
Rossini per il celebre ranz conclusivo sfrutta un modulo
melodico ricorrente, per terze discendenti e quindi in
avvicendamento fra modo maggiore e modo minore, che
suscita quel tipo di elevazione spirituale in cui non è difficile
scorgere l’eredità del Sublime kantiano: un “Sublime
matematico”, generato dall’immensità e incalcolabilità
dell’universo (dalla tempesta, invece, il “Sublime dinamico”,
prodotto dalla successione cinetica di eventi non prevedibili e
non contenibili dall’intervento umano).

Edgar Degas, La lezione di danza, 1871; Metropolitan Museum of Arts, New York

Rossini non aveva letto Schelling né aveva avuto modo di


misurarsi con la filosofia kantiana o schilleriana che gli
giunsero semmai in forma mediata, anche attraverso alcuni fra
i testi per lui approntati. Le sue fonti d’informazione, come al
solito, furono prevalentemente musicali ma nel caso non meno
“filosofiche”: ancora una volta Le stagioni di Haydn, in cui la
presenza umana è stabilmente inquadrata in un contesto al
tempo stesso temporale e naturalistico, e la Sinfonia n. 6
Pastorale di Beethoven (1808), che presenta evidenti analogie
col quadro mentale dell’ultima opera rossiniana e il suo
magnifico epilogo. Nella Pastorale, dopo i primi due
movimenti di carattere soggettivo e introspettivo, l’equilibrio
gioioso fra individuo, collettività e natura raffigurato dallo
scherzo («Allegra danza di contadini») è turbato dall’inatteso
evento meteorologico della tempesta, carico come tutta la
sinfonia di valenze simboliche anche a prescindere dal
descrittivismo che costituisce l’involucro esterno della
composizione (secondo la didascalia di Beethoven «più
espressione del sentimento che pittura»). Spetta anche in
questo caso a un ranz des vaches celebrare il ritorno del sereno
e la ritrovata convergenza fra natura e spirito nella forma di un
«canto di ringraziamento» finale (Allegretto, V movimento).
La «Liberté» invocata a conclusione del Guillaume Tell
abbraccia quindi un orizzonte più ampio della conquista di un
obiettivo politico, e attiene alla sfera filosofica in quanto
libertà in senso assoluto, conseguimento di una umanità
compiuta e in armonia col mondo naturale, più che a quella
strettamente storico-politica. Gli ideali politici, se presenti,
vengono sublimati e trasfigurati; tuttavia, i precedenti de Le
siège de Corinthe (1826) e de La muette de Portici (1828)
fecero emergere, all’ascolto dei contemporanei e in alcune
successive letture critiche dell’opera rossiniana, soprattutto
quegli elementi che in quei mesi convulsi corrispondevano
all’orizzonte di attesa (storico) degli spettatori, orientato verso
il nascente grand opéra dalla vocazione attualizzante;
orizzonte di attesa cui Stendhal dava corpo in modo anche più
diretto e tangibile nel suo Le Rouge et le Noir, romanzo
concepito giusto nell’autunno del 1829 e pubblicato l’anno
successivo, che reca come sottotitolo Chronique de 1830.
Con singolare coincidenza, pochi giorni dopo la prima del
Tell si diffuse a mezzo stampa la prima delle mosse
anticostituzionali di Carlo X, l’insediamento del nuovo primo
ministro Jules de Polignac, figlio della impopolare duchessa di
Polignac intima di Maria Antonietta, al posto del destituito
visconte di Martignac (8 agosto 1829); il nuovo progetto
politico parve ai più un tentativo di ricondurre la monarchia
nell’alveo delle più viete tradizioni borboniche. Le Ordinanze
di Saint-Cloud, sottoscritte da Carlo X il 25 luglio 1830, con le
quali si sanciva fra l’altro la dissoluzione della camera dei
deputati e l’abolizione della libertà di stampa, produssero il
diffondersi della rivolta fino all’esilio del re e all’ascesa al
trono di Luigi Filippo d’Orléans (9 agosto 1830), che restò in
carica fino agli altri moti, quelli del 1848. Molti di questi
avvenimenti Rossini li conobbe però solo da lontano: il 16
agosto 1829 assieme alla Colbran lasciava Parigi per Bologna,
da dove mancava da cinque anni, non senza destare scalpore
nei parigini ormai abituati alla sua presenza.
Le motivazioni di quella fulminea partenza non sono del
resto chiarissime. Zanolini, con la consueta posatezza, vi
scorge la volontà di mettersi al riparo da possibili rovesci
politici:
È molto verosimile che l’acuto ingegno e le molte pratiche
dessero a Rossini presentimento o sentore di quanto si
andava macchinando contro Carlo X, il quale, unito in forte
e stretta lega colla setta gesuitica, pur macchinava insidie
per sopprimere le franchigie, che nel salire sul trono aveva
solennemente promesse e giurato di mantenere. Rossini
amava la libertà acquistata e goduta in santa pace,
abborriva le rivoluzioni compiute colla violenza, sopratutto
gli mettevano timore le sommosse di piazza.21
Le sommosse di piazza vi furono e costrinsero il compositore
a rivedere i suoi piani, orientati a una serena vita borghese a
Castenaso e Bologna, volendo da lì adempiere ai suoi obblighi
contrattuali con tutta calma. Nel settembre 1830 Rossini decise
di tornare precipitosamente a Parigi, da solo, nel tentativo di
difendere la posizione economica acquisita durante la lunga
trattativa condotta nei mesi antistanti la prima del Tell, messa a
repentaglio dai tagli finanziari stabiliti dal nuovo governo
monarchico-costituzionale di Luigi Filippo. Il momento di
grande fulgore del Guillaume Tell era trascorso e dopo oltre
quaranta recite l’opera andava in scena malamente decurtata,
con artisti di second’ordine, oppure se ne dava un atto soltanto
(perlopiù il secondo) a mo’ di saggio. Rossini stesso, anche
per fare spazio alla sempre maggiore richiesta di danze,
avrebbe effettuato assieme a Bis una riduzione in tre atti
andata in scena a partire dal giugno 1831, sotto la supervisione
del nuovo impresario dell’Opéra, Louis-Désiré Véron. Il
solenne finale ultimo venne lì sostituito da un nuovo finale
imbastito sui motivi del pas redoublé dell’ouverture, forse per
valorizzare maggiormente l’elemento irredentista rispetto a
quello spirituale esaltato nella prima versione, o forse solo
perché in una versione sintetica fu ritenuto di più sicuro
effetto.

Pierre-Luc-Charles Cicéri, schizzo per la messiscena del Guillaume Tell parigino,


1829; Bibliothèque national de France

Tavola di attrezzeria di Alfredo Edel per


la ripresa scaligera del Guglielmo Tell, 1899;
Archivio Storico Ricordi

Difficile per noi oggi ma anche per i contemporanei far luce


sulle reali motivazioni intellettuali di un compositore così
poco esplicito e vissuto in anni di profondi cambiamenti.
Attorno a quell’epoca si erano accese vivaci dispute sulla
posizione di Rossini rispetto alla monarchia francese e
l’opinione pubblica appariva divisa in due fronti contrapposti:
Taluni in fatto avevano Rossini per un assolutista avverso
alle libere istituzioni date alla Francia: Per contro i suoi
amici affermavano ch’egli amava la libertà, amava la
indipendenza, in prova mettevano innanzi la scelta da lui
fatta del Guglielmo Tell vero prototipo di amore ardente
della libertà e di odio implacabile contro la prepotenza ed il
dispotismo, ed intendevano addimostrare che Rossini, con
quel glorioso episodio della storia svizzera, messo davanti
agli occhi del popolo di Parigi ed animato da una musica
tanto sublime ed espressiva, aveva dato gagliardo impulso
alla rivoluzione.22
Non è implausibile che il popolo di Parigi, come quello di
Bruxelles in occasione della Muette di Auber (agosto 1830),
avesse tratto dai momenti più ispirati di Tell una esortazione a
scendere in campo per i propri ideali. E non è una condizione
rara nell’Ottocento musicale che un’opera sortisse un effetto
debordante rispetto alle sue finalità, oscurate o sovrastate dal
discorso critico prodotto – soggetto ad assumere una rilevanza
sociale anche maggiore dell’opera stessa – e dalla varietà dei
contesti in cui quell’opera poté essere riproposta, magari
riadattata per motivi di opportunità o di censura (Guillaume
Tell divenne eroe tirolese in lotta contro i francesi nell’Andreas
Hofer di Berlino 1830, scozzese in lotta contro gli inglesi nel
Vallace alla Scala nel 1836 e in Rodolfo di Sterlinga a Roma e
altrove nel 1840, borgognone nelle numerose versioni
nordeuropee intitolate a Carlo il Temerario). Zanolini fornisce
anche in questo caso un’interpretazione ragionevole delle
motivazioni dell’autore e del suo rapporto con un testo che si
sarebbe rivelato scottante; nella sua Biografia rossiniana,
datata 1875, poteva infatti guardare con una certa obiettività
agli eventi internazionali del trentennio antecedente l’Unità
d’Italia:
La verità è questa: Rossini odiava il dispotismo e, benché
pauroso ai trambusti ed ai pericoli delle rivoluzioni, amava,
come dissi poc’anzi, la libertà, ma, senza punto pensare a
risvegliarne l’ardore, aveva scelto il Guglielmo Tell come
soggetto acconcio a produrre buon effetto drammatico; non
lo avrebbe scelto se gli fosse nato il dubbio che mai avesse
potuto destare così grande incendio. Egli desiderava di
vivere liberamente e tranquillamente; la guerra mossagli
era una reazione sleale e barbara contro la riforma musicale
da lui portata in Francia.23
«Senza punto pensare a risvegliarne l’ardore», vale a dire
senza intenzionalità nelle implicazioni politiche, colte dai più
sulla base di eventi successivi. La libertà invocata da Tell non
era quella dei greci nei confronti del turco o del popolo
israelita in cattività, ma muoveva da ideali persino più elevati
quali la lotta all’oppressione e alla tirannia intese, già nel
progetto drammatico di Schiller, non come una condizione
storica ma come un impedimento alla determinazione della
libertà morale nello spirito della natura. Per tornare a quanto
discusso all’inizio di questo capitolo, non era infine neppure la
libertà che gli italiani coinvolti nelle feste rossiniane del 1864
avevano da poco raggiunto, sgombrata buona parte del
territorio nazionale dalla dominazione asburgico-borbonica;
italiani che anche più dei francesi del 1829 poterono
compiacersi della corrispondenza fra il nemico di Tell e
Arnold e il loro proprio nemico (asburgico e poi austro-
ungarico), e che non esitarono a cogliere nel “loro” Guglielmo
Tell un indirizzo pienamente irredentista. Ed è tenendo conto
di questi fattori che dovremmo oggi ascoltare Guillaume Tell
di Rossini, idealmente più vicino al Fidelio che alla Battaglia
di Legnano.
SUGGERIMENTI DI LETTURA

Le vicende contrattuali parigine, in relazione a Guillaume Tell


e agli anni successivi, sono sintetizzate in MÜLLER 2017. Un
inquadramento complessivo di Tell in BARTLET 1992 e in
NEWARK 2004; la dimensione iconografia dell’opera è
presentata in BARTLET-BUCARELLI 1996; le fonti più o meno
note del libretto sono passate in rassegna in BAGGIOLI 1997.
Sull’ouverture romantica con ampi riferimenti a quella del Tell
VANDE MOORTELE 2017; GIUGGIOLI 2018 analizza le tempeste
rossiniane. RIZZUTI 2014 e LOCKWOOD 2016 (pp. 133-135) sulla
Pastorale di Beethoven con riferimenti anche al ranz des
vaches; l’impiego del ranz nel Guillaume Tell trova un
succinto commento e varie esemplificazioni anche in D’AMICO
1992 (in particolare pp. 201-210). In BEGHELLI 2003 (pp. 371-
378) e DELLA SETA 2013 considerazioni sul giuramento
all’opera. Gli orientamenti complessivi della critica musicale
ottocentesca prodotta dai quotidiani in Musiche e musicisti
2017; sul dibattito critico postunitario riguardo a Rossini
ANTOLINI 1993. Una visione complessiva del rapporto di
Rossini e la patria in GREMPLER 1996; per una ricognizione sul
piano storico e la costruzione del “discorso nazionale” in
epoca risorgimentale e postunitaria BANTI 2000 e BANTI 2004.
La posizione di Schiller rispetto al criticismo kantiano in
HENRICH 2008, pp. 65-139. La figura di Arnold come prototipo
dell’eroe melodrammatico è discussa in GERHARD 1984; il
problema del do di petto nell’Ottocento in BEGHELLI 1996.
GOSSETT 1990 analizza la funzione del coro nelle opere a
carattere irredentista; GERHARD 1987 le posizioni estetiche di
Jouy, fra tendenze classicheggianti e sviluppo del grand opéra.
In WALTON 2003 ancora una prospettiva politica, in relazione
al momento storico. Sul finale lieto da Spontini a Rossini
BRZOSKA 2010; sulla censura, anche in relazione alle
rielaborazioni italiane ed europee di Tell, GREMPLER 2010.
DA ASCOLTARE

Guillaume Tell
Andrew Foster-Williams (Tell), Michael Spyres (Arnold),
Nahuel Di Pierro (Walther Fürst/Melchthal), Tara Stafford
(Jemmy), Raffaele Facciolà (Gesler), Giulio Pelligra
(Rodolphe), Artavazd Sargsyan (Ruodi), Marco Filippo
Romano (Leuthold/Un chasseur), Judith Howarth (Mathilde),
Alessandra Volpe (Hedwige), Camerata Bach Choir Poznań,
Virtuosi Brunensis, dir. Antonino Fogliani, Naxos 2015
Les Soirées musicales
Valentina Varriale, Monica Carletti, Giulio Pelligra, Salvatore
Grigoli, Marco Sollini (piano), Urania 2018
13. «Senza punto pensare a risvegliarne l’ardore»
1 La dettagliata cronistoria degli eventi pesaresi in Feste 1864.

2 MERCANTINI 1864, pp. 581-584.

3 Feste 1864, p. 14 e p. 13.

4 Feste 1864, pp. 86-88: 86.

5 MAZZATINTI-MANIS 1902, pp. 270-271 (lettera del 12 giugno 1864, da Passy).

6 «Sì, verrà il momento in cui, quando l’immagine dei vecchi abusi e della
schiavitù si presenterà davanti ai nostri occhi, volentieri coglieremo quell’istante
per applaudire noi stessi per aver spezzato le catene con le quali nessun potere
umano può ora opprimerci» («Avertissement» inGuillaume Tell, drame en trois
actes en prose et en vers; par le Citoyen Sedaine. Musiqué du Citoyen Gretry.
Représenté, au mois de Mars 1791, sur le ci-devant Théâtre Italien, Paris, Maradan,
Seconde année de la République Françoise).
7 Vedi COREA 2021, pp. 156-160. La versione di Henry fu data anche a Vienna nel
1810 e venne rivista dall’autore per la Scala ancora nel 1833.
8 GRLD 2000, pp. 369-370; in una lettera al conte di Neipperg, il 24 ottobre
Rossini rinunziò anche a modificare Bianca e Falliero per l’apertura del Ducale:
«Qualunque Spartito meno il Guillaume Tell sarebbe indegno di figurare in una
circostanza si brillante per La mia Patria» (GRLD2000, pp. 410-411).
9 GRLD 2000, p. 387.

10 GRLD 2000, pp. 416-418.

11 GRLD 2000, pp. 463-464 (Parigi, 20 marzo 1829).

12 GRLD 2000, pp. 474-476.

13 GRLD 2000, pp. 498-500.

14 MÜLLER 2017, p. 766.

15 Un quadro delle recensioni e dei giudizi critici a ridosso della prima


in AZEVEDO 1864, pp. 273-283 e in BARTLET 1992, pp. XXXV-XXXVII.
16 Il Precursore del 5 marzo 1831 (pp. 47-48) segnala l’impiego del brano al
Teatro Comunale di Bologna in funzione di ouverture per laFrancesca da Rimini di
Silvio Pellico (1813), assieme a cori e arie dell’opera rossiniana come entr’acte, in
sintonia con le coccarde tricolori esibite dal pubblico.
17 Cfr. BELOTTI 1984, p. 270. È solo uno dei momenti in cui il compositore
polacco guarda a musiche rossiniane. Non mi pare sia stata già rilevata, nella
Barcarola op. 60 (1845-46), l’affinità dei motivi di sostegno al «Poco più mosso»
centrale col ranz de vaches dell’ouverture del Tell(sarebbe una trasposizione in uno
scenario acquatico di motivi campestri, ma pur sempre naturalistici). Nel Trio della
Polacca giovanile in Si bemolle minore (detta Arrivederci a W. Kolberg) si impiega
il tema della cavatina di Giannetto nella Gazza ladra; componendo la Tarantella op.
43 (1841) Chopin tenne conto, dichiaratamente, dell’analoga popolarissima
composizione rossiniana (La Danza). Si ha inoltre notizia di un’altra Polacca
giovanile, non pervenuta, su temi del Barbiere di Siviglia (per questi ultimi esempi
cfr. ancora BELOTTI 1984, pp. 168, 418, 528). Più diffusa anche se meno netta
l’influenza delle colorature vocali rossiniane sulle roulades di cui Chopin cosparge
le proprie composizioni pianistiche di carattere più salottiero (per esempio alcuni
Notturni o la stessa Barcarola).
18 «Che io fugga dai tiranni, che io nasconda ai loro occhi / la felicità di essere un
marito, la felicità di essere un padre».
19 «O Matilde, ti amo, / ti amo, e tradisco / il mio dovere e l’onore, mio padre e la
mia patria!».
20 «Voglio che la melodia sia libera, indipendente, senza vincoli», «Cosicché io
avrei fatto musica dell’avvenire senza saperlo?» (cfr. «La visita di Richard Wagner
a Rossini», in MICHOTTE-Scritti, pp. 104-105). WAGNER 1911 di quegli spunti non
fornisce né conferme né smentite.
21 ZANOLINI 1875, p. 58.

22 ZANOLINI 1875, p. 64.


23 ZANOLINI 1875, pp. 64-65.
14. Un altro Rossini?

Avviso pubblicitario dell’edizione della Petite messe solennelle


sulla Gazzetta Musicale di Milano, 1869; Milano, Archivio Storico Ricordi

1829: l’anno dell’ultima opera teatrale di un Rossini appena


trentasettenne segna uno spartiacque nella biografia artistica
dell’autore e si ripercuote sul modo di guardare alla storia
dell’opera ottocentesca. Il definitivo silenzio teatrale del
Pesarese coincide con l’ascesa di Donizetti (Anna Bolena,
1830; Lucia di Lammermoor, Maria Stuarda, 1835), Bellini (I
Capuleti e i Montecchi, 1830; Norma, 1831; I puritani, 1835),
Mercadante (Il giuramento, 1837; Il bravo, 1839), tutti operisti
già in attività ma i cui titoli migliori videro la luce a partire
dagli anni trenta. Un decennio che segnò anche l’affermazione
di un’opera italiana dalle caratteristiche compiutamente
romantiche per la tipologia delle fonti impiegate (in modo
pressoché esclusivo provenienti dall’estero, narrativa o teatro),
la maggiore inclinazione al tragico anziché al comico e la
vocalità che andava progressivamente a emanciparsi dai
canoni rossiniani.
Qualunque periodizzazione, se applicata rigidamente, è però
ingannevole. Nell’ottica produttiva, la deadline del 1829
corrisponde solo all’ultimo rigo del catalogo delle 39 opere
rossiniane: una sorta di parola “fine” cui seguono di quando in
quando altre esperienze compositive dello stesso autore, non
più per il teatro. Ma agli occhi dei contemporanei la questione
si presentava in forma diversa; negli anni trenta Rossini, a
eccezione di poche opere meno fortunate, era ancora presenza
ricorrente, seppure in decrescita rispetto al decennio
precedente, nei teatri della penisola e altrove (dal 1834
l’egemonia teatrale sarebbe passata a Donizetti). In Italia,
all’assenza di titoli rossiniani nuovi si ovviava con le
traduzioni italiane delle sue più recenti opere francesi
(originali o a loro volta riadattate da originali italiani) o
riprendendo titoli di repertorio adeguati a nuovi cast, senza che
ciò determinasse automaticamente una cesura col passato. Per
dirla in altro modo, se il melodramma poté talvolta inscenare
eventi rivoluzionari, nessuna rivoluzione improvvisa avvenne
nel melodramma come genere, neppure nei fatidici anni trenta;
la musica di Rossini e gli interrogativi suscitati dalla sua arte
continuarono a scorrere come un fiume carsico, resistendo a
lungo alla pressione delle novità. Sul “discorso” relativo a
Rossini, nel senso teorizzato da Emanuele Senici,1 non era nel
frattempo calato il silenzio. Ancora negli anni quaranta e
cinquanta i maggiori periodici musicali, come La Gazzetta
musicale di Milano pubblicata da Ricordi, e anche di più
l’Italia musicale dell’editore concorrente Lucca, periodico
favorevole alla musica di autori stranieri, si interessano a
Rossini in analisi, comparazioni e riflessioni estetiche, di
prima mano o riprese dalla stampa estera. Rossini non era più
tema di attualità, ma rispecchiava una tradizione ancora
attuale; le radici del melodramma romantico affondavano
anche nell’esperienza rossiniana, un’esperienza senza possibili
continuatori ma che a tutti aveva insegnato qualcosa, e ciò era
evidente anche allora.
Più oltre, la presenza sulla stampa di Rossini, nume tutelare
della cultura italiana anche al di là del dibattito critico sulle
sue opere, resta importante, con alcuni momenti di punta: il
1864, in corrispondenza delle feste pesaresi; il 1868, anno
della morte e delle relative commemorazioni; il 1874, quando
all’apparire del Requiem di Verdi – già promotore di una
Messa da Requiem per Rossini a più mani, non eseguita nel
primo anniversario della morte come da programma e
recuperata solo modernamente – si riaccesero i dibattiti sui
requisiti della musica da chiesa e immediato fu il confronto
con la produzione sacra del Pesarese. A questo riguardo, sulla
Nazione del 10 giugno Girolamo Alessandro Biaggi, che aveva
pubblicato anche uno studio teorico sull’argomento (Della
musica religiosa e delle questioni inerenti, Milano 1856),
rilevò in un brillante articolo come il genere sacro, oltre a
costituire un rifugio nei momenti di crisi artistica individuale o
di deperimento della musica teatrale, in Rossini e in Verdi si
approvvigionasse a buon diritto di elementi lessicali dettati dal
gusto corrente, anche di derivazione operistica, per arrivare al
cuore più di quanto non fosse possibile con un generico
contrappunto; posizione lucida e coraggiosa, quella di Biaggi,
in cui si coglie una precisa giuntura storica, al di là delle
barriere ideologiche fra antico regime e Risorgimento.
La reductio ad silentium teatrale del 1829 è stata spiegata in
tanti modi diversi. Appagamento, presa di distanza dalle
tendenze del teatro corrente, amore per l’ozio, crescente
interesse anche spirituale per il genere sacro, decadimento
delle condizioni fisiche e psichiche, i suddetti vincoli
contrattuali che si tramutarono in una sorta di capestro;
argomenti diversamente validi che non si escludono l’un
l’altro. Il ritiro dalle scene teatrali non fu comunque decisione
repentina ma una circostanza che andò a consolidarsi nel
tempo. Si ha infatti notizia di un progetto per una nuova opera
successiva a Guillaume Tell, poi abbandonato a seguito delle
vicissitudini legali con l’intendenza del teatro. Doveva trattarsi
di una rielaborazione del Faust di Goethe: Rossini vi fa
riferimento in occasione della conversazione di Trouville con
Hiller nel 1855; ne scrivono più o meno diffusamente Azevedo
nel 1864 e Zanolini nel 1875. Al netto di ogni ragionevole
cautela – come si è visto riguardo alla recezione di Tell, negli
anni dell’“ozio” Rossini ebbe premura di allineare il proprio
mito al clima attuale e i suoi biografi, chi più chi meno, non si
tirarono indietro quando si trattava di metterci del proprio –, il
dato è credibile e suffragato da qualche indizio
nell’epistolario, quantomeno in merito all’esistenza di un
progetto tanto concreto da renderne partecipe l’ipotetico futuro
protagonista.2 Rilanciato in anni tardi, l’interesse per Faust
consentì a Rossini o alla memoria che restava di lui di ben
figurare rispetto agli orientamenti del melodramma europeo,
dato l’impatto internazionale del capolavoro goethiano e delle
sue ricadute musicali (La damnation de Faust di Berlioz fu
eseguita nel 1846, il Faust di Gounod nel 1859, il Mefistofele
di Boito nel 1868).

Isabella Colbran
ritratta da Johann Baptist Reiter (1835 circa)

Olympe Pélissier come Giuditta,


studio di Horace Vernet (1831)
per Giuditta e Oloferne

Per usare un’espressione di Rossini a Hiller, anche a Parigi si


era diffusa la faust-mania, dal teatro (il Faust di Emmanuel
Théaulon nel 1827) alle arti figurative (Delacroix, Moritz
Retzsch). Ne dà conto anche la programmazione del Théâtre
Italien, dove nell’aprile 1830 si mise in scena il Faust di Spohr
su libretto di Joseph Karl Bernard (1813), nella stagione
successiva Fausto, musica della compositrice Louise
Angélique Bertin, per tacere d’altro; da questa moda ebbe
origine l’ipotesi di un grand opéra goethiano-rossiniano.
Zanolini nella sua ricostruzione dell’episodio ha cura di
enfatizzare la partecipazione attiva di Rossini al progetto:
Poco e di rado si dié pensiero della musica [dopo
Guillaume Tell], infino a che non risolvé di por mano alla
nuova opera che aveva a comporre pel maggior teatro di
Parigi. Cercandone il suggetto aveva prescelto il Faust e
dato a Jouy l’assunto di compilare il libretto; ed anche
questa volta era stato del poeta mal soddisfatto: onde si dié
a pescare nel capolavoro di Goethe e, trovato il tema,
ideato l’intreccio, stava formando un abbozzo degli atti e
delle scene, che Jouy si sarebbe poi ingegnato a poetizzare,
quando gli pervenne la notizia della rivoluzione che aveva
scacciato dal trono Carlo X e postovi Luigi Filippo
d’Orleans.3
A quanto pare, Rossini aveva in questo caso effettuato lui
stesso la scelta dell’argomento per poi predisporre una sorta di
“selva” che l’inoperoso Jouy avrebbe dovuto versificare.
Difficile appurare quanto questa successione di eventi sia
veritiera o piuttosto non risenta di una più tarda concezione
della drammaturgia musicale (Verdi), contrassegnata dal ruolo
centrale del musicista anche nella progettazione dell’opera, e
sia stata imbastita a posteriori per conferire a Rossini un
profilo più dinamico. Sembra avvalorare questa seconda
ipotesi il fatto che nella succinta edizione della Biografia di
Zanolini, edita a Milano nel 1837 (Società degli Editori degli
Annali Universali), della questione non si fa cenno. Resta,
priva di ulteriori riscontri, la suggestione faustiana che ratifica
«la fertilità e pieghevolezza del genio Rossiniano».4 Se
finalizzata, quell’idea avrebbe condotto Rossini sul terreno del
fantastico, già sfiorato con l’Ombra di Nino della Semiramide,
e Robert le diable di Meyerbeer (1831) avrebbe condiviso le
scene dell’Opéra con Mefistofele. Il fatto stesso che dell’opera
da Goethe sembra non essere rimasta neppure una nota
fornisce una implicita risposta, Rivoluzione di luglio a parte, ai
molteplici interrogativi sollevati da questo evanescente
progetto melodrammatico.
Come rileva Zanolini, fra 1829 e 1831, anni tormentati,
l’attività compositiva non fu la priorità del Pesarese, intento a
mettere in sicurezza il patrimonio suo e della moglie. Già a
Parigi per seguire lo scontro legale con l’Opéra, nel febbraio-
marzo del 1831 approfittò di un viaggio a Madrid di Aguado
per accompagnarlo e trattare di persona col duca di Berwick e
Alba a cui dieci anni prima la Colbran aveva prestato del
denaro senza riaverlo indietro e senza più ricevere i dovuti
interessi (nel frattempo il duca era fallito). L’iniziativa lo
spinse alla corte di Ferdinando VII di Borbone – la cui ultima
consorte Maria Cristina era figlia di Francesco I di Borbone-
Napoli – perché intercedesse col duca.
Nel corso di quel viaggio conobbe quello che si apprestava a
divenire uno dei suoi ultimi committenti, l’arcidiacono don
Manuel Fernández Varela (1772-1834), ricco prelato, teologo e
appassionato d’arte, protettore del pittore Vicente López e del
letterato Mariano José de Larra, e commissario della Santa
Cruzada. Rossini accettò l’incarico di comporre per lui il più
drammatico dei brani di genere sacro, uno Stabat Mater, che
Varela desiderava possedere, oltre che per la rilevanza liturgica
e spirituale, per interesse collezionistico. La nuova
composizione andò però a sovrapporsi con la riduzione a tre
atti del Tell, che richiese la stesura di nuove pagine di musica,
effettuata a Parigi assieme a Bis. Per cui, mosso da scarso
entusiasmo per la commissione spagnola e afflitto dai soliti
malanni, Rossini si accontentò di comporre solo circa la metà
dei numeri affidando i restanti a Giovanni Tadolini (1789-
1872); qualcosa del genere, in misura più contenuta, era
accaduto anche in occasione della Messa di Gloria del 1820 (a
spalleggiarlo in quell’occasione fu Raimondi).
Noto soprattutto per questa sua collaborazione con Rossini e
per essere stato il marito di Eugenia, cantante donizettiana e
verdiana, Tadolini era bolognese e come Rossini allievo di
Stanislao Mattei. La sua carriera fu quella di un onesto e
versatile gregario, attivo come maestro di canto, maestro
ripetitore, arrangiatore di partiture operistiche in versioni
commerciali per canto e piano; alcuni dei suoi pochi titoli
operistici raggiunsero teatri prestigiosi (Teatro Valle di Roma,
Comunale e Contavalli di Bologna, San Moisè e La Fenice di
Venezia). Più che per le sue competenze nella musica sacra,
che pure frequentò, ad avvicinarlo a Rossini fu l’incarico di
direttore musicale del Théâtre Italien che Tadolini detenne dal
1829, dopo avervi prestato servizio anni addietro come
maestro di coro. Lo Stabat Mater trovò compimento come
prodotto coautoriale senza che Varela ne fosse informato e
senza il minimo scrupolo da parte di Rossini. Il manoscritto fu
inviato al committente nel marzo 1832, ma per la prima
esecuzione pubblica fu necessario attendere il Venerdì Santo
dell’anno successivo (5 aprile 1833), presso la cappella del
convento agostiniano di S. Felipe el Real di Madrid. La
vicenda parve così concludersi sotto forma di un omaggio
riservato e personale a beneficio del Varela e del suo
entourage, come da antiche consuetudini, e per qualche tempo
Rossini non se ne occupò più.
Sua nuova e maggiore preoccupazione fu l’equilibrio
famigliare. Il distacco da Bologna per Parigi a tutela dei propri
interessi aveva col tempo assunto l’aspetto di una separazione
dalla moglie, rimasta in compagnia del Vivazza a badare ai
propri interessi in attesa del ritorno del marito. Da parte sua la
Colbran, che in zona avevano ribattezzato “duchessa di
Castenaso”, esacerbò la propria inclinazione al lusso e la
passione per il gioco d’azzardo, forse un retaggio dei casinò di
Napoli, e andava sperperando denaro in banchetti e varia
mondanità. Il buon Giuseppe ne prese inizialmente le difese
nei confronti del figlio, capace di volatilizzarsi assorbito dai
propri affari parigini – cercava di recuperare con speculazioni
in borsa5 quanto perso in vitalizio a causa delle «maledette
rivoluzioni»6 – e da una ritrovata vita da single («ho veduto
scordata la Povera Isabella la quale pel suo buon Cuore e pel
suo contegno meritava di essere la Prima. Perdio! Fate
giudizio una volta»).7 Alla fine però anche Giuseppe ne ebbe
abbastanza della nuora e andò a schierarsi dalla parte di
Gioachino, non senza toni imploranti nei confronti di lui
(«venitevi dunque a Casa, e finitela! Mi pare mille Anni di non
avervi veduto ricordatevi che non hò al mondo Altro che
Voi»).8

Villa Rossini al Bois de Boulogne (Passy, Parigi),


da una incisione di Jean Baptiste Bertrand

Il ritorno a casa di Rossini si concretizzò nell’estate del 1834;


fu cosa breve e avvenne in compagnia di Carlo Severini e
Édouard Robert, intendenti del Théâtre Italien con cui aveva
ripreso a collaborare interessandosi alla programmazione e
agli ingaggi (procurò l’arrivo a Parigi di Bellini e Donizetti,
che vi esordirono nel 1835 rispettivamente coi Puritani e
Marin Faliero, e nel 1836 di Mercadante, che vi presentò I
briganti; alla prematura morte di Bellini, stesso 1835, si
adoperò per sostenerne la memoria guadagnando la stima della
famiglia del defunto).9 L’umore non era dei migliori; mentre si
riaffacciavano gli antichi problemi venerei, a Parigi Rossini
lasciava un nuovo legame sentimentale che divenne per lui
l’ultimo stabile, salvaguardandolo da ulteriori ricadute in una
vita sregolata. Confermando la sua propensione per donne
esperte e smaliziate, si era legato a Olympe Pélissier (1797-
1878), incontrata da Rossini e sua moglie anni addietro,
fascinosa cortigiana parigina, di umili origini, che nel fiore
degli anni la madre Marie-Adélaïde Descuilliers, un’attrice di
secondo piano, aveva avviato alla professione, affidandola alle
cure di aristocratici in grado di mantenerla nel bel mondo.
Intellettualmente vivace e dotata del senso degli affari,
Olympe manifestò ben presto la sua predilezione per artisti e
uomini di cultura; il suo patrimonio personale accrebbe con le
rendite che gli derivavano dagli ammiratori e da investimenti
gestiti con abilità. Suo amante era stato fra gli altri Horace
Vernet, pittore e fotografo che, terminata la loro relazione, la
riprodusse nel 1830 de mémoire, a seno nudo, in uno studio
per la realizzazione del soggetto biblico di Giuditta e Oloferne.
Attorno al 1831 frequentava lo scrittore Eugène Sue; col
futuro autore de Les mystères de Paris fu storia dolorosa e
tormentata a causa della presenza nella vita di lei di antichi
protettori e di un disturbo sessuale di carattere psicosomatico
(forse dispareunia). Pare che Olympe già ambisse a un
matrimonio per normalizzare la sua esistenza travagliata, ma il
giovane scrittore non azzardò tanto. Accantonato Sue, Olympe
si accompagnò per breve tempo a Balzac, abituale
frequentatore di donne della upper class parigina; e dopo la
pittura e la letteratura fu la volta della musica e di Rossini. Nel
1832 il compositore dedicò alla Pélissier la cantata per
pianoforte e contralto Giovanna d’Arco – testo italiano
anonimo, recentemente rielaborata in forma orchestrale da
Salvatore Sciarrino e da Marco Taralli – siglando l’avvio più o
meno ufficiale della loro relazione e forse ispirandosi alla voce
della dedicataria, che si dilettava nel canto. Un brano, quello
per la Pélissier, che nel soggetto e nella condotta si prestava a
confezionare un’immagine vincente dell’eroina di Francia di
cui si celebra il trionfo e non il sacrificio (in chiusa risuona un
benaugurante «Viva il Re, la vittoria è con me»), trionfo
implicitamente esteso alla nuova compagna del compositore
per gratitudine nei giorni della malattia di lui. L’omaggio fu
perpetuato molti anni dopo, con l’inclusione della cantata nei
Péchés de vieillesse (vol. XI).
Se la Colbran era stata la musa ispiratrice di tanti suoi
personaggi, da questo momento in poi Rossini non ebbe però
bisogno di una musa bensì di un’infermiera capace di lenire le
angosce e i malanni che, con maggiore intensità e frequenza,
funestavano le sue giornate. Olympe – bisognosa ella stessa di
sostegno psicologico oltre che materiale – seppe adempiere
con gratitudine al nuovo ruolo; abbandonò gli abiti seducenti
della cortigiana per vestire quelli della compagna devota e
fedele. «Meno ardente della Colbran […] economa e tirchia
quanto l’altra era stata prodiga e spendereccia», divenne
«dominatrice e regolatrice» della vita di Rossini, scrive
Radiciotti.10 Certi suoi atteggiamenti reazionari, manifestati
soprattutto negli anni delle Guerre d’Indipendenza, facevano
da pendant col pavido conservatorismo di lui.
Nel frattempo, fra mille inciampi, andò a sbloccarsi la
questione del vitalizio, che gli fu accordato a carico del Tesoro
dal Consiglio di Stato il 1º giugno 1836. Dopo un breve e
scomodo viaggio ferroviario attraverso Belgio e Germania con
destinazione Francoforte, ospite dei Rothschild, dove conobbe
Mendelssohn, Rossini poteva finalmente programmare il suo
definitivo rientro a Bologna, considerando del tutto chiusa la
sua attività di operista a Parigi o altrove (ulteriori proposte
senza seguito gli erano giunte da Londra e da Vienna). Aveva
però da gestire la sua personale vicenda, giacché il rapporto
con la Colbran era ormai palesemente compromesso. Arrivato
Rossini a Bologna a fine novembre 1836, fu raggiunto dalla
Pélissier nel febbraio del 1837. Nel mentre Gioachino aveva
preparato il terreno per l’incontro fra le due signore; è
probabile che inizialmente credesse di poter convincere la
moglie, avvezza alle infedeltà fin dai tempi di Napoli, ad
accettare la presenza di Olympe, già introdotta nei salotti della
città e accomodata in un palazzo non distante dalla residenza
dei coniugi. I primi contatti furono tutto sommato promettenti;
consumata donna di teatro la Colbran, e teatrante a suo modo
anche la Pélissier, seppero entrambe mantenere un formale
decoro, anche se Olympe coltivava in cuor suo la speranza di
un rapido evolversi della situazione a proprio vantaggio, come
scriveva rabbiosamente a un amico il 25 marzo: «je suis de
nature egoiste et j’ai un tel mepris pour l’humanité que je ne
veux que penser a moi moi moi et toujours moi».11 E come
molte crisi matrimoniali, anche quella dei Rossini esplose
d’estate, tanto da sollecitare i coniugi a una repentina
separazione legale che obbligò il compositore al versamento di
un assegno mensile di mantenimento, che Olympie
considerava generoso,12 a concedere l’uso esclusivo della villa
di Castenaso alla Colbran e a provvedere a una sistemazione
invernale per lei a Bologna. Nonostante queste garanzie, la
cantante si avviò a una débacle fisica ed economica
irreversibile, mentre i rapporti col marito non riuscirono più ad
assestarsi, in presenza di un forte coinvolgimento sentimentale
da parte di lei.

Giuseppe Cornienti, Allegoria del 16 luglio 1846 con Pio IX in trionfo;


Modena, Museo del Risorgimento

Rossini e Olympe vissero per qualche mese a Milano sollevati


da ulteriori preoccupazioni; in società incontrarono la Pasta,
ascoltarono Liszt e con lui conobbero Marie d’Agoult – altra
coppia irregolare –, che di lì a poco avrebbe dato alla luce
Cosima. Fra 1838 e 1839 pochi ma gravi furono gli eventi che
si frapposero al loro ménage: la morte di Severini
nell’incendio del Théâtre Italien (14-15 gennaio 1838) e la
morte di Giuseppe Rossini, il 29 aprile 1839, all’età di 75 anni.
La coppia smaltì stress e dispiaceri viaggiando: a Pesaro,
Napoli (ospiti di un ritrovato Barbaja), Roma, fino al ritorno
definitivo a Bologna, appagati di quell’appagamento che non
dà la felicità. Nella sua città elettiva a Rossini era stata
assegnata dal 1839 la carica onoraria di consulente perpetuo
del Liceo Musicale; i suoi tentativi di avere come docenti o
direttori Mercadante, Pacini e Donizetti non furono premiati
da successo, ma in quegli anni la levatura del Liceo accrebbe
grazie a una accorta e aggiornata programmazione; l’orchestra
eseguì anche musiche beethoveniane come l’ouverture
dell’Egmont.
Il ritorno alla composizione di Rossini fu improvviso e quasi
obbligato. Nel 1834 era scomparso il Varela, committente e
possessore del manoscritto dello Stabat Mater. A distanza di
anni, nel 1841, Rossini apprese che il suo (e di Tadolini)
componimento stava per accedere alle stampe per i tipi
dell’editore parigino Aulagnier. La successione degli eventi fu
oggetto di clamore a Parigi e in Italia; l’anno successivo
Ricordi, che si era assicurato i diritti sulla composizione per
l’Italia, la rese pubblica sulla Gazzetta musicale di Milano da
lui edita.13 Morendo, l’abate aveva indicato come suoi eredi i
poveri di Madrid, e gli esecutori testamentari, rinvenuto il
manoscritto, lo posero all’incanto. L’acquirente lo cedette a
sua volta ad Aulagnier che assieme ad altro editore
(Schlesinger) intraprese la stampa dell’opera senza fare i conti
con Troupenas, editore storico di Rossini, cui il compositore
pare avesse promesso i diritti sullo Stabat Mater, riservandosi
di completarlo di proprio pugno appena gli fosse stato
possibile. Un emissario di Troupenas raggiunse Rossini a
Bologna facendosi convalidare per iscritto l’impegno preso. Vi
fu quindi un sequestro e un processo; la sentenza finale
concedeva a Rossini la possibilità di disporre della propria
opera ma accordava ad Aulagnier la licenza di pubblicare la
prima versione. I brani di Tadolini possono essere oggi
ascoltati con la nuova strumentazione di Antonino Fogliani
(2011).
Fu solo perché messo alle strette dall’editore e dalle attese
del pubblico che Rossini completò la partitura, altrimenti
destinata a restare incompiuta per la sua parte (quattro i pezzi
nuovi al posto dei sette di Tadolini). La prima esecuzione di
questa nuova versione, propiziata da Léon e Marie Escudier,
avvenne a Parigi al Théâtre Italien (Salle Ventadour), il 7
gennaio 1842; fra gli interpreti Giulia Grisi, Giovanni Matteo
De Candia e Antonio Tamburini. La prima italiana fu il 18
marzo a Bologna, nella sala dell’Archiginnasio, allora sede
universitaria, e gli utili andarono a finanziare una casa di
riposo per musicisti. Le prove bolognesi furono condotte da
Rossini ma diresse la prima Donizetti, sopraggiunto apposta da
Milano, giacché, secondo la testimonianza di questi, erano
preclusi all’autore sforzi eccessivi perché non ne fossero
pregiudicate le condizioni di salute, già compromesse da una
malattia urinaria.14 La notizia dell’inatteso evento si diffuse
rapidamente e proliferarono le segnalazioni sulla stampa
generalista e sui periodici musicali fra cui ovviamente la
Gazzetta musicale di Milano, nei giorni in cui alla Scala un
altro capolavoro di diverso genere giungeva all’attenzione del
pubblico e dei recensori: il Nabucco di Verdi, in prima il 9
marzo. Un compositore recuperato e un astro nascente.
Comporre uno Stabat a medio Ottocento significava
confrontarsi con una tradizione museale, da rileggere e
rigenerare. Non mancano significative intonazioni
prim’ottocentesche antecedenti a quella di Rossini: Zingarelli
lungo la sua carriera compose una quindicina di Stabat Mater
di varia conformazione, mentre Mayr ne scrisse forse cinque
di cui il più noto, in Do minore, attorno al 1803; recentemente
è stata ricostruita da Franz Hauk una versione in Fa minore,
pure riproposta all’ascolto. Coccia, con vena antiquaria, fece
precedere un suo Stabat Mater (data incerta) da una nota
polemica nei confronti dei «seguaci del gusto moderno»
(«L’Autore domanda perdono […] se nel corso di quest’opera
non ci troveranno né trombe, né timpani, né biscrome»).15
Paisiello, nel 1810 circa, preparò una versione rivista,
soprattutto nella strumentazione, dello Stabat Mater di
Pergolesi (1735): modello ideale del genere, aveva raggiunto
una dimensione mitica capace di oscurare altre numerose
intonazioni settecentesche anche illustri di quel testo (una
sequenza che la tradizione attribuisce a Jacopone da Todi).
Nell’immaginario collettivo, la partitura pergolesiana
continuava a costituire un punto di riferimento, un esempio
insuperato di equilibrio fra melodia italiana, contrappunto e
spiritualità devozionale. Più che dar luogo a molteplici varietà,
il repertorio degli Stabat gravitava quindi attorno a un
baricentro storicizzato, avvicinandosene o, nell’Ottocento,
allontanandosene risolutamente.
L’intonazione di Rossini va priva di intenti commemorativi o
di atteggiamenti retrospettivi, pur rispettando i criteri
tradizionali nella segmentazione del testo e nella distribuzione
del contrappunto. «Senza però mostrarsi seguace dello stile
ecclesiastico», notò il critico Luigi Casamorata, Rossini si
espresse «in una maniera di musica sacra, più melodica di tutti
quelli che prima di lui si distinsero nello scrivere per
chiesa».16 L’identità stilistica rossiniana e anche la laicità delle
soluzioni espressive prescelte sopravanzano nettamente il
lascito della storia, che si percepisce soprattutto nei tratti
arcaicizzanti di alcuni luoghi canonici come la fuga finale a
due soggetti, o nei numeri a cappella («Eja, mater, fons
amoris», N. 5, «Quando corpus morietur», N. 9): forse
avvisaglie, non prevaricanti, del futuro movimento ceciliano
che dopo alcuni tentativi infruttuosi da parte di singoli
compositori, fra cui una programmata riforma della musica da
chiesa concepita da Spontini nel 1838, indirizzò la musica
sacra al recupero del gregoriano e della tradizione polifonica
rinascimentale.
Sulla Gazzetta musicale di Milano apparve anche una
dettagliata descrizione analitica in due puntate dello Stabat
rossiniano firmata da Giannagostino Perotti, maestro di
cappella in S. Marco a Venezia e già autore di una
Dissertazione sullo stato della musica in Italia (1811).17 La sua
disamina, ammantata di modestia, è ampiamente elogiativa e
rileva il lontano magistero della “scuola bolognese” facente
capo a Stanislao Mattei, di cui pure il Perotti era stato allievo.
Non si insiste invece – e nemmeno in Casamorata – sulla
presunta teatralità della musica da chiesa dell’operista Rossini,
rilevando piuttosto, in alcuni momenti, la scarsa aderenza della
veste sonora al senso delle parole. Il «Cuius animam
gementem» (N. 2) per gli stacchi ritmici prescelti sembra al
Perotti «adatto piuttosto al marziale che al patetico, né il
movimento della parte istrumentale, [pare] addicansi alla
espressione di un’anima gemente, contristata, profondamente
afflitta».18 Si tratta di una censura espressa di frequente anche
al Rossini operista e che trova fondamento nell’estetica del
compositore, il quale, lo si è visto, non mira alla raffigurazione
del significato delle parole bensì a realizzare in forme sonore
astratte la perturbazione dell’animo prodotta dai contenuti del
testo: è per questo che gioia e disperazione possono trovare
sviluppi musicali analoghi, in quanto a essere oggetto di
attenzione è la condizione di eccitazione psichica, più che le
cause di questa; la confezione formale e stilistica deve
produrre risultati esteticamente seducenti quale che sia il senso
del testo.
Lo Stabat non è però configurato come una collana di
momenti topici. Rossini assegna alla successione degli episodi
un carattere in qualche modo progressivo e ciclico. Al numero
introduttivo («Stabat Mater dolorosa»), corale come di
prammatica, in quanto collettiva è l’afflizione dei credenti di
fronte alla passione di Cristo, si contrappone l’energico tenore
protagonista del «Cuius animam gementem» (N. 2):
melodrammaticamente al centro della scena, si fa carico di
riferire il dolore di Maria per la morte del figlio.
L’interrogativo retorico del «Quis est homo, qui non fleret»
(N. 3) viene amplificato nel duetto di soprano primo e secondo
(o contralto), cui segue, secondo una linea emotiva e sonora
discendente, l’aria del basso al «Pro peccatis suae gentis»
(N. 4). A circa metà dell’opera, quasi uno snodo, è collocato il
recitativo per basso con coro «Eja, mater, fons amoris» (N. 5),
disadorna e supplichevole invocazione in stile declamatorio e
in forma aperta, compensata dallo smagliante quartetto
seguente («Sancta mater, istud agas», N. 6), che ritrova la
tonalità del N. 2 (La bemolle) e costituisce l’avvio di un’ideale
seconda parte. I due numeri successivi ripropongono le due
voci femminili, stavolta separate («Fac ut portem», N. 7, con
gergo operistico “cavatina” e in Mi come il N. 3, e
«Inflammatus et accensus», N. 8, aria con coro). Se al N. 2
apriva il tenore, al soprano primo spetta adesso l’ultimo dei
numeri solistici (N. 8), con soluzioni di grande effetto vocale e
strumentale.
Il percorso di risalita dal peccato si compie alla visione
escatologica del N. 9: «Quando corpus morietur / fac ut
animae donetur / paradisi gloria». Spogliato del rivestimento
strumentale, il canto a cappella dei quattro solisti su un motivo
cromaticamente discendente (il venir meno del corpo), risuona
nudo, come nuda l’anima si presenta al giudizio ultimo.
Componimento di notevole ricercatezza, il «Quando corpus
morietur» pone in una luce meno ovvia l’«Amen. In
sempiterna» (Finale, N. 10): i due brani, unico caso fra numeri
consecutivi, adottano la medesima tonalità di Sol minore e
risultano quindi fortemente imparentati. Spesso tacciato di
formale accademismo, l’«Amen» conclusivo fornisce una
risposta – tutta nella dimensione musicale, e ben poco
ottimistica – all’interrogativo sollevato dalla passione di
Cristo. Guardando più al Requiem di Mozart (per la tinta di
alcuni numeri) e alla Creazione di Haydn (per il trattamento
polifonico) che non alle messe di Cherubini, ma sempre
rendendosi autonomo dalla tradizione, Rossini non si affida
nella chiusa del brano soltanto alle usuali risorse della fuga
(come gli stretti, che pure vi sono). La sorprendente ripresa
dell’Introduzione (N. 1, nella stessa tonalità di Sol minore),
dopo un’improvvisa e interlocutoria pausa, e le roboanti
cadenze finali in modo minore innescano una spirale
vertiginosa che contrariamente ad altre musicazioni
ottocentesche dello Stabat, da Mayr, a Dvořák, a Verdi
(culminanti in maggiore), non prevede redenzione: il sacrificio
di Cristo sarà replicato a ogni quaresima, ma non genera
affatto la salvezza dell’uomo.
Nonostante il successo unanime, lo Stabat Mater non segnò
l’avvio di una nuova fase creativa ma fu piuttosto un episodio
isolato. Tuttavia, il componimento non era estraneo all’umore
di Rossini in quel tempo. Afflitto da problemi nervosi e fisici,
il compositore trascorse buona parte del 1843 a Parigi dove fu
avvicinato dal direttore dell’Opéra, Léon Pillet, che gli
propose di tornare sulla scena con un nuovo titolo; Rossini
declinò, ma i due si accordarono tempo dopo per un
rifacimento della Donna del lago in cui, con la collaborazione
di Louis Niedermeyer (che Radiciotti definisce «da
mosaicista»19 ), si recuperarono parti della Zelmira, di Bianca
e Falliero e persino della lontana Armida. Col titolo di Robert
Bruce l’opera fu rappresentata il 30 dicembre 1846; fuori
tempo massimo: il genere del pasticcio era ampiamente
superato e la stampa non esitò a decretare la fine dell’epoca
rossiniana. Berlioz, che anni prima aveva esaltato il Tell,
avanzò riserve sulla moralità artistica dell’autore e sulla liceità
dell’operazione, e ciò ovviamente non sorprende. In realtà,
Rossini aveva fatto ben poco per procurarsi quella ulteriore
opportunità (mancata). Motivo primario del viaggio parigino
del 1843 era infatti una visita urologica da un luminare del
tempo, dove gli fu raccomandato un più severo regime
alimentare che tuttavia, di ritorno a Bologna, trasgrediva
regolarmente con l’accondiscendenza amorevole di Olympe,
ormai ingrassata ma non meno complice del compositore nei
piaceri della buona tavola, terminata la stagione degli amori.
L’immagine popolare di un Rossini gaudente circondato da
vivande e vini pregiati dev’essere rivista; la bulimia di coppia
accusata da Gioachino e Olympe fu sintomo di nevrosi latente
piuttosto che di soddisfazione e benessere.
Il 6 ottobre 1845 se ne andava la Colbran, dopo aver rivisto
Rossini un’ultima volta il mese precedente, e il 16 agosto 1846
il compositore poté contrarre matrimonio con la Pélissier e
iniziare un ménage domestico regolare. Tuttavia a Bologna la
popolarità della coppia era in declino. L’attività di affarista e
prestasoldi che Rossini svolgeva regolarmente gli aveva
procurato una cattiva nomea: lo si diceva avido, meschino e,
dall’alto delle sue ingenti ricchezze, indifferente ai bisogni
della gente comune. Parole assai malevole nei suoi confronti
(«spilorcio», «privo di carità» etc.) ci giungono da
testimonianze di Enrico e Gaetano Bottrigari,20 quest’ultimo
patriota in esilio graziato dall’amnistia voluta da Pio IX, dal
giugno 1846 sul soglio pontificio.
Il nuovo papa subentrava a Gregorio XVI, avverso al dialogo
coi liberali e ferocemente osteggiato dai rivoluzionari; seguì
una stagione di riforme dello Stato Pontificio che illusero le
aspettative della popolazione. Rossini celebrò la magnanimità
del nuovo pontefice con la Cantata in onore del Sommo
Pontefice Pio IX, assieme allo Stabat e alla Petite messe
solennelle uno dei lavori di grandi dimensioni posteriori al
1829 (quanto alla sostanza, tutt’altra cosa). Promossa dallo
storico Giuseppe Spada, autore di una Storia della rivoluzione
di Roma (1868-69) e uomo di fiducia della famiglia romana
dei Torlonia, i quali coprirono parte delle spese, la cantata fu
eseguita con la direzione di Domenico Alari il 1º gennaio 1847
nel Palazzo Senatorio dell’Urbe. La stesura del testo venne
affidata al conte senigalliese Giovanni Marchetti (1790-1852).
Moderatamente riformista, il conte aveva sottoscritto una
petizione di Marco Minghetti volta a influenzare il conclave,
affinché il nuovo papa fosse più del predecessore vicino ai
bisogni della gente, e aveva quindi propiziato con altri
l’elezione al soglio papale di Giovanni Maria Mastai Ferretti,
suo concittadino e compagno di studi. L’allegoria elaborata da
Marchetti concilia la dimensione spirituale, raffigurata dalla
Speranza e dal Genio cristiano, con quella politica,
distinguibile nell’Amor pubblico e nei cori di “graziati” e di
popolo. La costruzione retorica del testo muove dalla
gratitudine degli amnistiati, ai «fausti presagi» e alla «diletta
speme» (scena II) che Pio IX potesse davvero costituire «certo
rifugio a le meschine genti» e divenire così «alto esempio de’
Possenti» (scena III). Il progetto complessivo ricorda, sul piano
figurativo, l’Allegoria del 16 luglio 1846, litografia del pittore
e incisore Giuseppe Cornienti, che pure richiama l’Editto Nei
giorni, in cui il Sommo Pontefice annunciava «atti di grazia
sovrana» nei confronti di prigionieri politici.
In tali lavori d’occasione, a prescindere dal contesto, Rossini
fu sempre a suo agio, potendo disporre di tanta musica già
composta e in parte dimenticata. La scelta degli autoimprestiti
andò qui in direzione di Ricciardo e Zoraide (soprattutto per la
prima scena, fra i momenti migliori del componimento),
Ermione e Armida, mentre il tableau finale fu ripreso dal più
attuale Siège de Corinthe e si profila come la pagina
“politicamente” più coinvolta. Per non incorrere in problemi
con gli editori che detenevano i diritti delle opere di cui servì e
non svelare i trucchi del mestiere, come in altre simili
circostanze Rossini non acconsentì alla stampa della partitura,
che aveva riscosso un certo apprezzamento. In essa difatti si
conciliano la solennità dell’evento e lo scenario politico che
andava a prefigurarsi; le rosee aspettative liberali dei
promotori delle celebrazioni sono comprovate anche
dall’ouverture del Guglielmo Tell, eseguita in apertura, che già
da tempo suonava come una chiamata alle armi in difesa della
libertà. Forte in ogni caso il contrasto che dovette instaurarsi
fra la scalpitante ouverture e l’apparato prescelto, che secondo
una testimonianza dell’epoca si avvalse di
un ricco e nobile padiglione formato con velluti, frangie a
galloni e trine di oro da cui pendea un gran panno alla reale
ove era collocato lo stemma del Sommo Pontefice. Sotto di
quel padiglione vedeasi in forma di semicircolo vagamente
guernito di colori bianco e giallo con otto ordini di sedili
destinati per i cantanti tutti, e sopra questi un apparrato di
velo azzuro tutto stellato [segue epigrafe]21
Vi era stato un curioso e sintomatico antefatto. In occasione
dell’elezione papale, Rossini aveva approntato qualche mese
prima un inno destinato alla città di Bologna, enfaticamente
battezzato Grido di esultazione riconoscente al Sommo
Pontefice Pio IX; eseguito il 23 luglio 1846 davanti a S.
Petronio, prevedeva un consesso di 500 esecutori diretti
dall’autore. La rilevanza civica dell’evento non gli aveva
impedito di procedere secondo le sue vecchie usanze, e in
quell’inno era apparso l’ennesimo rifacimento del risaputo
coro dei Bardi dalla Donna del lago (già impiegato anche in
occasione di celebrazioni d’altro segno, quelle per la nascita di
Tasso, a Torino nel 1844, sempre su versi di Marchetti).
Quando si trattò di contrattare con lo Spada la Cantata
romana, nell’estate del 1846, Rossini tentò in prima battuta di
riproporre pari pari il coro bolognese già confezionato
limitandosi a cambiarne il testo, adducendo le solite
giustificazioni: «deposi la lira nel 1828 […] Se questa
magnifica occasione si fosse presentata quand’io ero potente
l’avrei abbracciata con entusiasmo, ora sono negli invalidi e
debbo starmene musicalmente muto. Se Marchetti si decide
per il coro io ne farò tosto la spedizione».22 Dopo qualche
insistenza, e forse sollecitato dalla rilevanza del destinatario
(marchigiano come lui), Rossini accettò di affiancare al coro la
cantata richiesta, beninteso – “deposta la lira” – confezionata
sulla base del riciclo.
A Bologna Rossini avrebbe di lì a poco destinato anche un
prodotto ragguardevole e originale, il vibrante Tantum ergo a
due tenori e basso per la chiesa di S. Francesco, eseguito il 28
novembre 1847. Ma la sua fortuna locale fu ulteriormente in
declino a seguito di alcuni spiacevoli episodi, quali il mancato
sostegno di Rossini al reintegro di un professore universitario
e noto giurista rimosso perché liberale (Antonio Silvani) e una
contestata elargizione per la causa rivoluzionaria anti-
austriaca, nella primavera 1848, che si era rivelata misera
rispetto alle possibilità del compositore e di dubbia riscossione
(oltre a due cavalli malconci, 500 scudi non in moneta sonante
ma sotto forma di un suo vecchio credito divenuto
inesigibile).23 Situazioni che esprimono un imbarazzo di fondo
e la difficoltà di mantenersi neutrale e immune dal contagio
politico, in un clima avverso ai suoi sostenitori di un tempo
quali Metternich.
La sera del 27 aprile 1848 la rottura insanabile con la città:
un omaggio musicale sotto le sue finestre a Palazzo Donzelli
(Strada Maggiore) da parte della banda delle Legioni Romane
si tramutò in una turbolenta contestazione; i Rossini ne furono
intimoriti al punto di partirsene nottetempo per riparare nella
vicina e più quieta Firenze (l’addio era tuttavia pianificato da
tempo). Leopoldo II di Toscana, dopo aver concesso la
costituzione (17 febbraio), si era spinto a scendere in guerra
contro l’Austria manifestando moderate aperture al fronte
rivoluzionario, prima di recuperare posizioni più bilanciate
l’anno successivo, persuaso anche dall’occupazione austriaca.
In ogni caso la vicinanza dinastica alla casa d’Austria –
Leopoldo II era cugino dell’imperatore Ferdinando I – parve a
Rossini una forma di tutela e un’assicurazione di stabilità. Un
ulteriore fragoroso Inno per la Guardia Civica di Bologna su
invito di Ugo Bassi, eseguito in Piazza Maggiore il 21 giugno
1848, secondo anniversario dell’incoronazione di Pio IX,
anziché rinsaldare i rapporti con la città come nelle sue
aspettative, per la modestia musicale fu considerato da taluni
una sorta un oltraggio.24 Rossini per suo conto non risparmiò
invettive private alla un tempo amata Bologna, divenuta a suo
dire covo di ladri e assassini, protetti da nuovi potentati a
scapito della gente perbene.
La permanenza a Firenze divenne stabile dall’autunno del
1852, sbrigate le ultime incombenze a Bologna – fra queste la
vendita della villa di Castenaso, ultimo ricordo della Colbran,
dove non volle più rientrare dopo la morte di lei – e fatti
arrivare nella città toscana, con mille precauzioni, tutti i beni
della coppia. Nella primavera del 1853 i Rossini acquistarono
un appartamento da restaurare (non sarà mai da loro abitato) e
ne affittarono un altro, a due passi dal Duomo, «adorno di vasi
del Giappone, di bassirilievi in argento e di piatti antichi di
assai pregio»;25 non si fecero poi mancare le solite vacanze
curative alle terme di Montecatini e di Bagni di Lucca.
Nonostante un radicamento sempre più forte nella vita anche
musicale di Firenze e l’ottima accoglienza a lui riservata, il
suo umore peggiorò costantemente, volgendo a una
misantropia sempre più fosca. Chi in questi anni incontra il
compositore ne ricava un’opinione poco positiva: il futuro
scrittore e politico Ferdinando Martini, per esempio, narra
come Rossini avesse disturbato un panegirico in memoria di
Silvio Pellico, defunto nel 1854, lasciandosi andare a una
bizzarra improvvisazione al pianoforte; la moglie di Romani,
Emilia Branca, testimonia invece la malevolenza del Pesarese
nei confronti dei compositori allora sulla cresta dell’onda
come Meyerbeer, cui non aveva perdonato il successo parigino
di Robert le Diable, Bellini – considerato ora un improvvido
principiante fino alle sue ultime opere – Donizetti – solo un
abile imitatore – o Verdi, la cui musica lo infastidiva,
soprattutto quando diffusa per le strade della città tramite le
riduzioni per banda, indici di popolarità.26 Affermazioni
dettate più da umor nero e dal timore di essere stato
dimenticato che non da reali convincimenti artistici. Il biennio
1854-55 fu il più cupo per Rossini; la depressione lo rendeva
bisognoso dell’assistenza continua di Olympe anche nelle
ordinarie attività quotidiane. I medicamenti più astrusi non lo
sollevavano da pensieri suicidi che confidò ad alcuni suoi
interlocutori.
Di qui la risoluzione di lasciare anche l’attuale residenza per
dirigersi ancora una volta a Parigi, dove la coppia giunse a fine
maggio 1855, e dove Rossini, gradualmente, trovò ristoro ai
propri malanni. Doveva essere un soggiorno episodico, come
altri nella capitale francese, ma divenne definitivo, salvo le
rituali villeggiature in località termali o balneari francesi o
tedesche, a partire da quello stesso 1855 quando la coppia si
concedette una vacanza sulla Manica, a Trouville, resa celebre
dalla conversazione con Hiller da cui ebbe origine un
citatissimo reportage. D’ora in poi Rossini guarderà all’Italia
con un certo distacco e ne parlerà solo se sollecitato dagli
eventi, ora rammaricandosi delle tasse del Regno che
depauperavano le sue rendite, ora esprimendo cauta
soddisfazione per le imprese dei Mille in Sicilia, dichiarandosi
però di orientamento federalista, presumibilmente sul modello
svizzero propugnato da Carlo Cattaneo, «veduta per ora
l’impossibilità dell’Italia Una».27 Non è improbabile che il
sensibile miglioramento delle condizioni psicologiche gli
derivasse anche dall’essersi fatto da parte, dal non doversi più
barcamenare fra vecchio e nuovo, dal non dover render conto
più di tanto delle proprie opinioni artistiche e politiche. Le
lettere degli ultimi anni ribadiscono la sua posizione
ultramoderata nei confronti di quanto avesse la parvenza di
novità. Gli fu anzi di conforto la svolta autoritaria di
Napoleone III culminata col colpo di stato, con la costituzione
del 1852, ampiamente restrittiva, e infine con la
proclamazione del Secondo Impero. In quegli anni turbolenti,
a Parigi Rossini respirava aria di casa più che nella
madrepatria.
Alla decisione del definitivo trasloco si giunse rapidamente.
Nel 1857 furono fatti arrivare da Firenze arredi ed effetti
personali per poi trasferirli nel nuovo ampio appartamento sul
Boulevard des Italiens. Nel 1859 iniziò la costruzione della
villa di Passy, nei pressi del Bois de Boulogne, completata nel
1861. Era dotata, negli interni, di decorazioni pittoriche con un
loro programma iconografico per la sala da musica (vi erano
raffigurati, significativamente, anche sul piano della storia
personale, Palestrina, Mozart, Haydn, Cimarosa, Boïeldieu e il
maestro Mattei),28 nonché di un parco, orangeria, chiosco
cinese e dépendance per il giardiniere; fu l’ultima destinazione
ma Rossini poté godersela solo per poche estati. Le
frequentazioni sociali, delle più varie, ripresero a ritmo intenso
ma regolato. La sua vita pubblica si svolgeva quasi
esclusivamente nelle due residenze, dove transitarono illustri
ospiti – fra i musicisti Wagner, Verdi, Carafa, Liszt, Thalberg –
spesso in occasione degli affollati samedis musicaux
organizzati a partire dal dicembre del 1858 dai coniugi
Rossini, dove si ascoltava musica dell’autore e con un po’ di
fortuna si riusciva ad appartarsi e a conversare con lui.
Ambitissimo fino alla venerazione, Rossini si compiaceva di
intrattenere gli ospiti a lui più vicini senza impartire loro
pedantesche sentenze e lasciando emergere ben poco di quanto
realmente pensava; ampia invece la sua erogazione di
boutades e nonsense, chicche subito divulgate nella élite
parigina. Lo spirito con cui egli affrontava quegli incontri si
avvicina alla “conversazione” settecentesca piuttosto che al
pensoso salotto romantico. Fuori dal giro della vita musicale
attiva, Rossini poteva inoltre dedicarsi alla composizione in
totale libertà e con la scioltezza disinibita del dilettante di
genio ma conoscendo il mestiere come pochi altri. A
eccezione dell’Hymne à Napoléon III et à son vaillant peuple,
scritto su testo di Émilien Pacini per l’Esposizione Universale
di Parigi del 1867, molta della musica degli ultimi dieci anni
fu ascoltata per la prima volta in quegli ambienti privati, una
destinazione amatoriale ma per intenditori.
Quanto alla sfera istituzionale, i suoi ultimi contatti con la
madrepatria non gli furono propizi. Nel marzo 1868 il ministro
della Pubblica Istruzione Emilio Broglio in una lettera subito
divulgata gli propose l’istituzione di una associazione
musicale a suo nome da cui sarebbe dipesa l’istruzione
musicale del Regno d’Italia, sottraendo così risorse ai
conservatori di musica già istituiti. Broglio, conservatore ed
esponente della destra storica, più noto per il suo supporto alla
linguistica italiana di marca purista e il suo legame con
Manzoni, ma anche per la sospensione inflitta a Carducci a
seguito della sua adesione all’Unione Democratica bolognese
e delle note simpatie mazziniane e garibaldine, aveva colto
qualche affinità fra il proprio orientamento politico e l’indole
di Rossini. Iniziativa incauta da parte di un politico
musicalmente sprovveduto, come non mancò di rilevare senza
mezzi termini lo stesso Verdi, che nel maggio di quell’anno
rifiutò l’onorificenza di commendatore dell’Ordine della
Corona d’Italia da poco istituito, adirato per le affermazioni di
Broglio, secondo il quale dopo Rossini ben poco di valido si
era prodotto in campo d’opera eccetto qualche lavoro di
Meyerbeer. Boito, sulle pagine della rivista milanese Il
Pungolo, prese apertamente le difese di Verdi, aprendo così la
strada a un riavvicinamento fra lui e il compositore di Busseto,
dopo svariati malintesi, e implicitamente tagliando fuori
Rossini cui Broglio si era rivolto.
L’imbarazzante vicenda non favorì la serenità di Rossini; ne
acuì semmai il connaturato scetticismo. Nella ritualità delle
attività quotidiane e già gravemente malato (lo affliggeva un
cancro al retto), la sua percezione del tempo che passa e delle
cose che cambiano finì gradualmente per annullarsi. Scrivendo
al critico musicale Filippo Filippi in quella che doveva essere
una delle sue ultime lettere (26 agosto 1868), con ossessiva
insistenza tornò sui suoi convincimenti di fondo, solidi quanto
generici, espressione di un uomo incapace di confrontarsi
serenamente con un mondo ormai in rapida trasformazione sul
fronte sociale e artistico e irritato dalla “storia” di cui
continuava a essere in qualche modo un protagonista:
mi è forza dirvi, che allorquando leggo certe parolacce
come Progresso, Decadenza, Avvenire, Passato, Presente,
Convenzione ecc., mi si prova nello stomaco un certo moto
antiperistaltico che provo tutte le pene del mondo a
reprimere. […] Quanto poi al procedere attuale dei nostri
cari colleghi, è forza convenire che gli sconvolgimenti
sociali prodotti da speranze, da tema, da rivoluzioni ed
altro, portano seco l’inevitabile conseguenza di forzare i
poveri compositori di musica […] a svolgersi il cervello
onde rinvenire nuove forme, eterogenei mezzi, a fine di
potere dilettare le nuove generazioni coetanee insorte in
gran parte dalla rapina, dalle barricate e altre coserelle
simili!!29
Dato questo scenario emotivo, suona come un atto dovuto La
corona d’Italia, fanfara per banda militare con uso anche dei
moderni sassofoni, dedicata a Vittorio Emanuele II – Rossini la
nomina a cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia l’aveva
accettata – e fra le ultime composizioni di Rossini diffuse lui
in vita (settembre 1868, ma eseguita soltanto nel 1878, al
Quirinale). Il 26 settembre l’ultimo pranzo di gala con musica
serale e partecipazione della Alboni, sua allieva favorita dai
tempi di Bologna; in quello stesso autunno le sue condizioni di
salute peggiorarono obbligandolo a non lasciare la residenza
estiva di Passy. Non riuscì a superare due interventi chirurgici
e morì il 13 novembre 1868.
In più luoghi d’Italia si svolsero cerimonie ufficiali, a
conferma del rilievo emblematico che il personaggio –
nonostante qualche voce discorde, visto l’esilio cui si era
costretto30 – aveva assunto nei primi anni della giovane Italia
unita; nella chiesa di S. Croce a Firenze, capitale transitoria
della nazione, si eseguì il Requiem di Mozart in suo suffragio
(14 dicembre). Le esequie si erano svolte a Parigi in una
stipata chiesa della Sainte-Trinité con profusione di apparati e
di musiche. Il corrispondente della Nazione (25 novembre)
fornì un dettagliato resoconto dello «spettacolo» che a suo
giudizio sarebbe restato «per gran tempo impresso nella mente
e nel cuore di chi vi assisté». Senza insuperabili barriere nei
generi musicali, all’ingresso della salma risuonarono motivi
della Semiramide. Si vollero poi miscelare musiche rossiniane
dallo Stabat e dal Mosè («Dal tuo stellato soglio»), adattate
alle diverse parti della messa, con brani del repertorio italiano
sacro di Jommelli e Pergolesi e col Lacrimosa dal Requiem di
Mozart, idealmente collocando il musicista Rossini nel
pantheon dei suoi pari; nel “cast” la Alboni e la Patti. I lembi
del feretro furono sostenuti all’uscita da personalità italiane
(l’amico Costantino Nigra) e francesi, fra cui Ambroise
Thomas; alla guida del corteo verso il cimitero di Père-
Lachaise una deputazione pesarese sulle note della musica
funebre dalla Gazza ladra. La traslazione in S. Croce a Firenze
avvenne nel 1887, al culmine del lungo processo di
ricomposizione della memoria nazionale attraverso i suoi più
illustri rappresentanti. A fronte della vasta eco procurata dalle
celebrazioni in suo onore, non pare invece che le opere di
Rossini godessero all’indomani della sua scomparsa di un
accresciuto interesse. I titoli ancora rappresentati qua e là
erano i soliti: sul fronte comico il Barbiere, Cenerentola e
occasionalmente Il conte Ory, su quello serio Otello – fino alla
comparsa del lavoro verdiano, nel 1887 – Mosè, Matilde di
Shabran e Tell. La popolarità del compositore, ormai,
prescindeva dalla sua concreta presenza nella programmazione
teatrale.
Quanto all’eredità, Olympe cedette nel 1869 i diritti sulla
Petite messe solennelle all’agente e impresario Maurice
Strakosch, che ne assicurò in tutta Europa una buona
circolazione. La versione cameristica e quella orchestrale
furono pubblicate in quello stesso anno a Parigi da Brandus &
Dufour; la prima versione fu subito ristampata a Londra,
Boston, Milano, Mainz. I Péchés, su cui Rossini aveva fatto un
certo affidamento anche in un’ottica commerciale, ebbero
invece poco mercato anche a causa della loro veste
apparentemente disimpegnata e soprattutto dell’ingente
somma pretesa dalla vedova (160 000 franchi). Nel 1873
l’imprenditore Albert Grant si assicurò il privilegio editoriale
ma ne pubblicò solo pochissimi. Dopodiché, nel 1878 i brani
finirono all’asta con scarso esito; seguì un tardivo e sregolato
interesse editoriale a Londra, Milano (Ricordi), Parigi
(Heugel).
Olympe sopravvisse a Rossini per circa dieci anni. Secondo
quanto disposto nel testamento, depositato nel luglio 1858 e
aggiornato fino al 1867, alla morte della moglie, il 22 marzo
1878, i beni di Rossini passarono alla città natale del
compositore: i fatti del 1848 avevano comportato l’esclusione
di Bologna dai suoi lasciti.
Se l’ultimo segmento della vita di Rossini può essere riassunto
in poche pagine senza che ne venga depauperato il quadro
complessivo, la sua ultima produzione musicale, non più
determinata dall’esterno, appare invece liquida e disarticolata:
conviene esplorarla separatamente e tutta assieme,
accantonando quando possibile le congiunture biografiche e
anche in funzione alla recezione moderna di alcuni dei
componimenti tardi. Momenti musicali di un’esistenza che
scorre più o meno uniforme, i brani composti in quegli anni
non fanno sistema, non appaiono regolati da un progetto
complessivo né vanno tutti in una stessa direzione. Come
l’uomo Rossini, la sua musica non ha più da render conto a
chicchessia e si manifesta forse per la prima volta nella sua
carriera artistica come un atto volontario. Priva di obblighi
derivati da pressanti commissioni, in assenza di grandi progetti
da ultimare e ormai libera anche dal gravame dei rifacimenti
che durante la sua carriera operistica lo avevano costretto a
tornare ciclicamente sulle sue cose, l’attività compositiva si
adegua adesso alla conformazione delle sue giornate e
contribuisce ad arredarle: ne escono collezioni di ricordi e
chincaglieria di valore disparato.
Il catalogo della produzione rossiniana risalente al secondo
periodo parigino, dal 1855 al 1868, produce un certo
disorientamento dovuto al proliferare di brani perlopiù di
breve respiro e all’assenza di un baricentro, di un punto di
caduta centrale che si profili come risolutivo. L’ultima grande
e “ufficiale” composizione di Rossini era stata lo Stabat, il cui
compimento risaliva ormai al 1842; la Petite messe solennelle,
del 1863-64, grande composizione lo è certamente, ad onta del
titolo, ma giunse al pubblico per tappe progressive,
discretamente, e senza particolari solennità. Per di più, in un
lasso di tempo di circa tre lustri si incrociano anche brani
risalenti a molti anni prima assieme a numerosi altri di cui è
imprecisata la datazione; le raccolte che ne derivarono,
distribuite in modo precario e accomunate dal titolo di Péchés
de vieillesse, furono in seguito numerate e riorganizzate in 14
volumi progressivi, alcuni dei quali di contenuto eterogeneo
per tipologie e destinazione. L’ordine e il contenuto degli
album così come oggi si presentano non corrispondono però a
quanto il compositore annotò poco prima della sua morte in un
indice manoscritto, conservato nel Fondo Michotte della
biblioteca del Conservatorio Reale di Bruxelles; non per niente
Paolo Fabbri, nel catalogo ragionato in coda alla voce
«Rossini» nell’enciclopedia Die Musik in Geschichte und
Gegenwart, preferisce seguire l’elenco manoscritto piuttosto
che il riordino tradizionale.31
Rispetto a quelle raccolte, di cui si dirà oltre, la Petite messe
solennelle, concepita nel 1863, segna il ritorno a un’opera
ambiziosa; non mancano tuttavia elementi di continuità con la
produzione privata e cameristica dei Péchés, nella ideale
destinazione, la villa di Passy, e nell’organico originale, che
prevede quattro solisti, un piccolo coro a quattro parti, due
pianoforti il secondo dei quali con funzioni di ripieno,
harmonium sullo sfondo. Ma il progetto primigenio andò
progressivamente a espandersi. La prova generale, diretta da
Rossini, e la prima, su invito ma in assenza dell’autore, si
svolsero nella quaresima del 1864 rispettivamente il 13 e il 14
marzo in un salone del palazzo parigino dei conti Alexis e
Louise Pillet-Will, dedicataria dell’opera, esponenti dell’alta
finanza e amici di Rossini (Frédéric, figlio di Alexis, curava
gli investimenti del compositore, scomparso Aguado nel
1842). Oltre a un coro di studenti del conservatorio, cantarono
le sorelle Barbara e Carlotta Marchisio, il tenore Italo Gardoni,
il basso Luigi Agnesi. Il 24 aprile 1865 ebbe luogo una
seconda esecuzione offerta quasi allo stesso pubblico, nello
stesso luogo, con gli stessi interpreti, e si fece strada l’idea che
Rossini avesse in qualche modo individuato nella famiglia di
Alexis una destinazione elettiva della propria opera. A seguito
del successo conseguito e delle sollecitazioni ricevute, e nel
timore che potesse essere fatto da altri in futuro, Rossini
strumentò lui stesso la Petite messe nel 1866-67,
aggiungendovi al contempo l’O salutaris hostia. In questa sua
veste più ufficiale, dopo la mancata presentazione al Festival
di Birmingham nel 1867 la composizione sarà eseguita
postuma e laicamente il 24 febbraio 1869 al Théâtre Italien
(come già lo Stabat nel 1842); fra i solisti Marietta Alboni.
L’esistenza di una versione orchestrale non ha tuttavia
impedito alla stesura originale di diffondersi parallelamente
all’altra; ancora oggi la Petite messe solennelle arriva al
pubblico nelle due diverse versioni ma più frequentemente
nella veste cameristica, comunemente ritenuta più interessante
se non altro per la singolarità dell’organico. L’edizione critica
a cura di Patricia B. Brauner e Philip Gossett ha infine
riportato in luce i dettagli della stesura più vicina alla prima
del 1864, ricostruita a partire da fonti rinvenute presso gli
eredi Pillet-Will.
Le ridotte dimensioni dell’organico originario rendono
nominalmente “piccola” una messa di ampie dimensioni in cui
si dispiegano considerevoli risorse tecnico-compositive.
L’impiego del pianoforte non va inteso come se fosse, questa,
la riduzione di una ancora potenziale versione orchestrale: la
scrittura esibisce un formulario propriamente pianistico e
guarda più al repertorio di romanze, mélodies o lieder che non
al pianoforte sostitutivo dell’orchestra degli spartiti operistici;
in alcuni tratti ottave e raddoppi all’ottava di parti melodiche
(per esempio nel Domine Deus) rievocano il pianismo
virtuosistico dell’epoca romantica. Il raffinato Prélude
religieux pendant l’Offertoire fa caso a sé: unica pagina
strumentale solistica, per pianoforte, concilia la scrittura
polifonica con un melodizzare ampio e soave, avvicinandosi
all’intimismo spirituale e alle iridescenze armoniche di alcune
pagine di César Franck, in quegli anni organista nella basilica
di Sainte-Clotilde, quali il Prélude, Fugue et Variation per
organo (1860-62) o i Cinq pièces per harmonium del 1863 (fra
cui due offertori), che Rossini potrebbe aver conosciuto. Al di
là di circostanziate affinità, la presenza del pianoforte, che
sostiene pressoché da solo il canto dei solisti o del coro,
fornisce un indirizzo di ascolto e una chiave di lettura: la
Petite messe non è grande composizione da concerto (lo
diventerà quando strumentata) né composizione liturgica,
bensì una manifestazione devozionale individuale e soggettiva,
da condividere con pochi intimi in un contesto cameristico (gli
ascoltatori presenti alla prima furono però circa 200, e fra
questi i colleghi Carafa, Meyerbeer, Auber, Thomas oltre ai
rappresentanti del clero e a esponenti del mondo finanziario e
politico parigino).
La folla ai funerali di Rossini, incisione di Henri Pierre Léon Pharamond Blanchard
ripresa dall’Emporio pittoresco di Napoli, 1868

La traslazione della salma di Rossini


in Santa Croce a Firenze, illustrazione
di E. Favero da fotografie dei Fratelli Alinari, nella Gazzetta Musicale di Milano
del 1892; Archivio Storico Ricordi

La Petite messe adotta la successione canonica delle parti della


messa e l’avvicendamento di numeri solistici e brani
d’assieme (un duetto, un terzetto e alcuni pezzi d’assieme con
coro); all’occorrenza si sfruttano collegamenti armonici fra un
numero e l’altro e recuperi motivici a distanza, per esempio in
apertura del Gloria e al suo epilogo (Cum sancto spiritu).
L’attacco del Kyrie conferma la rilevanza della dimensione
ritmica in quest’opera come in genere nella musica di Rossini:
l’ostinato al registro grave del pianoforte si trasforma in un
motivo conduttore, assecondato dalle voci del coro polifonico.
Un avvio potente e originalissimo, contrapposto al Christe
centrale “a cappella”, astorico e impersonale. Difatti non si
tratta di Rossini, ma di un quasi letterale imprestito dall’Et
incarnatus est della Messe solennelle di Louis Niedermeyer
(1849), amico del Pesarese il quale tempo addietro aveva
favorito la messinscena di alcune opere del collega al Théâtre
Italien e all’Opéra, e a sua volta beneficiato della
collaborazione di Niedermeyer nella preparazione del
pasticcio Robert Bruce (1846). Si è spesso riflettuto sul senso
di questa operazione, che Rossini non dichiarò apertamente e
che non fu dettata dalla fretta o dalla pigrizia. Lo si può
trovare forse nel giorno della morte di Niedermeyer, il 14
marzo, che corrisponde al battesimo della Petite messe
solennelle presso il palazzo Pillet-Will: l’inclusione del
Christe spurio fra il Kyrie e la sua ripetizione si tradurrebbe
quindi in un “abbraccio” al collega scomparso anni prima. Vi
si può leggere però anche la volontà di instaurare un confronto
dialettico, in funzione di distanziamento, fra lo stile rossiniano
del Kyrie, incisivo e personale, e la neutralità della musica a
cappella in stile antico, nel Christe. L’altro brano a cappella, il
Sanctus, ha difatti un carattere spiccatamente melodico e
“moderno” (ed è ovviamente di Rossini).
La questione cade appropriata in un’epoca in cui fra molti
dibattiti si andavano ridefinendo le peculiarità dello stile sacro
rispetto al linguaggio musicale del tempo, inevitabilmente
uniformato allo stile teatrale. Sulla Nazione del 6 aprile 1864,
in un’Appendice dedicata all’autore, senza aver ancora
ascoltato la nuova composizione e prendendo a spunto le
reazioni dei giornali parigini, Biaggi si espresse a favore di un
ammodernamento dei canoni stilistici: il sentimento religioso è
di per sé invariabile, in Ary Scheffer come nel Beato Angelico,
ma si rende opportuno esplicarlo «secondo i progressi
dell’arte, secondo lo sviluppo intellettuale de’ tempi». La sua
posizione trova riscontro nella Petite messe (e già in parte
nello Stabat), dove Rossini sperimenta altre vie rispetto al
contrappunto “palestriniano” ma anche rispetto allo stile
operistico, che qui si sfiora apparentemente soltanto nel
tenorile Domine Deus. In pressoché totale assenza di canto di
coloratura (a effetto della veste cameristica), l’estrinsecazione
del sentimento religioso si affida a un fluido mélange di
situazioni in cui sono vicendevolmente armonia e ritmo a
innescare le strutture melodiche. Nel Gloria l’imperioso scatto
iniziale è stemperato da una morbida oscillazione accordale
all’«Et in terra pax», su cui viene costruito l’impianto
polifonico. Nel terzetto del Gratias agimus tibi la pulsazione
ritmica di fondo scandisce un percorso armonico tornito e
modulante che guida le voci a soluzioni espressive sempre
rigenerate, senza la minima caduta di interesse. Il pianoforte
qui e altrove non si limita ad accompagnare, né le sezioni
polifoniche o fugate si spogliano mai di un forte rilievo
ritmico e melodico, come nel caso delle doppie fughe, al Cum
Sancto Spiritu, sostenuto da una vivacissima pulsazione di
crome pianistiche, e allo scattante «Et vitam venturi saeculi»,
episodi conclusivi rispettivamente di Gloria e Credo.
Nell’Agnus Dei finale, ancora su una figurazione ritmica
palpitante affidata al pianoforte, in ostinato e in modo minore,
il contralto dà sfogo a una vocalità avvolgente e ricca di pathos
cui il coro replica con accorate invocazioni. Anime del
purgatorio e voci angeliche, per la critica dell’epoca; ma nella
condotta delle parti e nella struttura armonica Damien Colas
ha rilevato una latente matrice operistica sul modello
groundswell, dove si può scorgere l’eredità belliniana o
donizettiana. Fra le pagine più struggenti del repertorio
musicale sacro, si presta a più di una lettura anche per
l’epilogo (come già lo Stabat Mater). Il «Dona nobis pacem»
culmina a pieno organico nel tripudio del modo maggiore, ma
non così termina il brano, che ripropone in coda il minore
dell’inizio, al solo pianoforte e su accordi stentati, in
pianissimo. La cadenza finale, nuovamente in maggiore ma
senza la compagine vocale, è raggiunta attraverso un percorso
accidentato e ritmicamente incerto, dall’effetto
32
interlocutorio. Pare, così, l’Agnus Dei di un cattolico dalla
fede malferma, il cui scetticismo di fondo si fa largo in versetti
liturgici fondati sulla speranza di salvezza e di vita eterna. In
questa stessa direzione muove anche il celebre commiato in
calce all’Agnus Dei sul manoscritto autografo:
Bon Dieu; la voilà terminée, cette pauvre petite messe. Est-
ce bien de la musique sacrée que je viens de faire, ou bien
de la sacrée musique? J’étais né pour l’opera buffa, tu le
sais bien! Peu de science, un peu de cœur, tout est là. Sois
donc béni et accorde-moi le Paradis.33
Più che da un empito di tarda e ritrovata religiosità, sembra
una raccomandazione dettata dal buon senso antico,
rimettendo l’anima a Dio senza contrizione e senza rinunziare
a una sottile ironia; con l’auspicio (ma è quasi un motto di
spirito), dopo il tributo versato in vita, di poter passare
all’incasso nell’altra.
Con rinnovata arguzia, nella didascalia iniziale della partitura
della Petite messe Rossini la ribattezza «le dernier Péché
mortel de ma Vieillesse», “l’ultimo peccato mortale della mia
vecchiaia”, alludendo alle raccolte cameristiche da tempo
intraprese forse come lascito artistico ed economico a Olympe,
e implicitamente ironizzando sul fatto che sarebbe stato più
opportuno tacere anziché perseverare nell’attività compositiva.
Si tratta però solo dell’ennesima civetteria, data la prodigalità
con cui Rossini negli ultimi anni scrive e raccoglie brani per
vari organici: solo pianoforte, pianoforte e canto a una o più
voci, ensemble da camera, coro, coro e organo e altro. Anche
il titolo cumulativo è frutto di un gioco di parole; i peccati,
nella vulgata comune, sono quelli di gioventù, e dal contenuto
di quelle raccolte è piuttosto evidente che l’autore considerava
i suoi Péchés de vieillesse, “peccati di gioventù commessi da
vecchio”, ossia come il protrarsi inveterato di antiche
abitudini, il prolungarsi della sua primigenia concezione
dell’arte in altro contesto e per altra destinazione.
Vi sono, nei Péchés, alcuni blocchi più unitari di altri la cui
organizzazione interna è stata sicuramente decisa da Rossini. Il
fascicolo denominato Musique anodine (in seguito numerato
come vol. XIII) reca anche una data, il 15 aprile 1857, e la
dedica a Olympe nel giorno del suo onomastico come gesto di
riconoscenza per le sue cure devote, in mancanza di una
terapia medica efficace. Il titolo rinvia ad analgesici, a
medicamenti palliativi come i tanti assunti dall’autore:
musiche capaci di attenuare malanni senza la pretesa di
costituire un rimedio definitivo. La struttura della raccolta è
semplice e si fonda sul duplice concetto di
ripetizione/variazione, così congeniale a Rossini; al garbato e
salottiero Prélude pianistico fanno seguito sei melodie per
canto e piano, alcune derivate da precedenti esperienze
compositive (in un caso addirittura dall’Ermione del 1819) ma
tutte su uno stesso testo del Metastasio, l’aria «Mi lagnerò
tacendo / della mia sorte amara», prelevata con qualche
variante dal Siroe, re di Persia, in prima a Venezia nel 1726 e
sempre ripubblicata nelle numerosissime edizioni
metastasiane, tornata improvvisamente attuale grazie a
Rossini. A prescindere dall’interlocutore individuato dal
secondo distico, «Ma ch’io non t’ami, o cara, / non lo sperar
da me», non si tratta di un testo scelto ad hoc per Olympe –
Rossini lo musicò circa ottanta volte a partire dagli anni trenta
per oltre un trentennio, in flagrante contraddizione rispetto
all’asserto dell’incipit – né di una nostalgica rievocazione del
Settecento (niente di settecentesco in quelle melodie). Il
compositore se ne servì a mo’ di un telaio verbale,
sufficientemente emblematico – l’ossimoro iniziale suona
come un marchio di fabbrica – ma abbastanza generico da
produrre soluzioni musicali diverse e anche opposte. Nella
piccola antologia per Olympe si susseguono stile cantabile,
stile patetico e stile eroico fino all’umorismo burlesco
dell’ultimo brano della serie. L’aria del Metastasio è così
collocata su sfondi differenti, tutti legittimi e nessuno più
appropriato degli altri: la musica dà forma al senso delle
parole, non viceversa, ed è come si è visto un tratto specifico
della poetica anche teatrale dell’autore.34
Complessivamente, nei Péchés la composizione musicale,
anche se a destinazione privata e di dimensione cameristica,
non si presenta come un’intima confessione o l’espressione di
aspetti della personalità altrimenti celati; è piuttosto la
rappresentazione sonora di contenuti diversi da condividere
con un pubblico che già conosca il linguaggio rossiniano e del
tutto a proprio agio. Assecondando la propria inclinazione
all’ammiccamento e alla rievocazione umoristica, Rossini non
aspira in questi casi a comporre brani di valore musicale
assoluto (ve ne sono di belli e di insignificanti), ma a istituire
un contatto immediato con l’ascoltatore sulla base di un
argomento, esplicito talvolta, più ellittico talaltra. Anche se
spesso si tratta pur sempre di pezzi caratteristici o di pezzi
ispirati a danze parimenti caratteristiche (Saltarello, Tarantella,
Bolero, Valzer in tutte le salse: “lugubre”, “torturée”, “de
Budoir”, “anti-dansante” etc.), il pezzo breve della tradizione
romantica è sideralmente lontano. Da quella tradizione Rossini
prende le distanze con ironia nell’Hachis romantique
(“pasticcio romantico”) dall’Album pour les enfants
adolescents (vol. V), uno studio d’agilità su armonie
vagamente chopiniane o schumanniane, ma senza un modello
identificabile; nel Prélude convulsif della stessa raccolta anche
il pianismo classico-clementino (con inattesi e incongruenti
sprazzi di contrappunto bachiano) è trasfigurato in forme
meccaniche e ossessive. Lo spirito di quei brani, o della Étude
asthmatique del vol. VI (Album pour les enfants dégourdis),
non va in direzione di una credibile didattica del pianoforte;
piuttosto si intende parodiare le scuole pianistiche tradizionali
rossinizzandole, da Bach a Clementi, a Czerny o Cramer;
Debussy farà qualcosa di simile nel Doctor Gradus ad
Parnassum del suo Children’s corner. La rievocazione
dell’infanzia è finalizzata a far sorridere gli adulti.
Non mancano in queste eclettiche compilazioni riferimenti
personali di diverso carattere: affettuoso (Une caresse à ma
femme, vol. VI), parodistico (Petite Caprice, vol. X, un
“omaggio” a Offenbach in cui la diteggiatura pianistica
scaramanticamente riproduce il gesto delle corna), rievocativo
(Un mot à Paganini, Élégie, vol. IX, per violino e pianoforte),
luttuoso (Chant funèbre à Meyerbeer per coro maschile e
tamburo, vol. III, Morceaux réservés). In alcuni casi Rossini
lascia persino intravedere – non propriamente a scopo ludico –
cosa ne pensasse del passato, del presente e del futuro, e alle
nostalgiche sonorità dello Spécimen de l’Ancien Régime, dove
si alternano languidi impromptus a una crepuscolare polifonia,
fanno riscontro la gravità sentenziosa alternata a leggerezza
brillante dello Spécimen de mon temps e infine le inquietudini
minacciose dello Spécimen de l’avenir (Album de château,
vol. VIII, per pianoforte solo). La trasfigurazione artistica gli
rendeva senz’altro più semplice formulare un proprio
“discorso” sul mondo.

Le sorelle Barbara e Carlotta Marchisio;


Archivio Storico Ricordi

Il contatto con l’ascoltatore non è privo per altro di sviamenti.


Il fanciullo smarrito è solo un falso allarme perché il bimbo
viene presto ritrovato e il brano termina in giubilo (vol. I,
Album italiano, per pianoforte e canto), il Prélude baroque di
barocco non conserva che alcune mosse degenerando assai
presto in un improvviso di carattere fantastico (molto
ridondante, quindi “barocco”, vol. VI), il delizioso L’amour à
Pékin (petite mélodie sur la gamme chinoise) impiega, è vero,
la cosiddetta scala cinese per toni interi, posta al canto, ma un
accorto giro di modulazioni pianistiche ne neutralizza del tutto
l’effetto orientaleggiante, a sancire che l’amore è uguale in
ogni parte del globo (vol. III). E anche più spesso non è subito
evidente, o non lo è per niente, cosa leghi il titolo ai contenuti,
per esempio nei pezzi di ispirazione culinaria (Quatre Hors-
d’oeuvres et Quatre mendiants per pianoforte, vol. IV). Il cibo,
specificato di brano in brano (ravanelli, acciughe, sottaceti,
fichi secchi, mandorle e altro), non può essere musicalmente
descritto; Rossini, con tono serioso, arguto o faceto, intende
piuttosto richiamare umori e comportamenti raccolti in
consessi domestici, alludendo a ideali referenti («Bonjour
Madame» e «Bonsoir Madame» in alcuni sottotitoli) o
esprimendo dediche inconsuete (cagnetta e pappagallo). Il
carattere di estemporaneità è raggiunto però tramite una
scrittura musicale dettagliata, avvalendosi anche del genere
tema e variazioni.
Riferimenti extramusicali ai limiti dell’indecifrabile
(parodiando la musica a programma), miniaturismo,
intenzionale eccentricità: in più di un’occasione la critica ha
colto in queste inclinazioni estetiche un tratto modernista e
accostato i Péchés all’anticonformismo disilluso degli
Scapigliati o allo sperimentalismo antiaccademico di Satie.
Alcuni dei Péchés furono in effetti fra i primi brani rossiniani
modernamente riproposti al pubblico novecentesco: è il caso
delle rielaborazioni orchestrali di Amilcare Zanella, direttore
del Liceo Musicale “Rossini” istituito nel 1882, concepite a
partire dai manoscritti in lascito alla città di Pesaro (il suo
Commento orchestrale dell’Hachis romantique di Rossini è del
1908), oppure, su scala più ampia, della partitura a
destinazione coreutica che Sergej Djagilev commissionò a
Ottorino Respighi per i Ballets Russes, avvalendosi delle
edizioni Heugel dei Péchés (1880-85), da cui ebbe origine La
boutique fantasque, a Londra nel 1919 con la coreografica di
Léonide Massine. Respighi si affezionò all’idea e nel 1925
effettuò un’operazione simile con Rossiniana, in origine brano
da concerto, a partire da alcuni numeri del vol. XII dei Péchés
(Quelques riens pour album). In queste esperienze i motivi
rossiniani – perlopiù di origine strumentale – erano impiegati
alla stregua di materiali finalizzati a riuso e trasformazione.
Qualche anno dopo, Stravinskij, nel balletto Jeu de cartes per
l’American Ballet di New York (nel 1937 al Metropolitan con
coreografia di George Balanchine), si serviva anche di
frammenti della sinfonia del Barbiere; il giovane Britten nelle
Soirées musicales (1936) e nelle Matinées musicales (1941)
rievocava emblematicamente la scrittura rossiniana, senza
citare motivi specifici. Le Soirées di Britten erano nate come
colonna sonora per un film d’animazione e furono poi,
assieme alle Matinées, destinate al balletto: ancora una volta la
verve ritmica della musica rossiniana fu ritenuta appropriata
allo spettacolo coreutico. Complessivamente, si trattava di
recuperi favoriti dal clima culturale di quegli anni, orientato
alla rilettura in chiave antiromantica del passato (in Italia
anche in chiave nazionalista), e da un comune e netto distacco
dalle poetiche simboliste di fine Ottocento.

André Gill, litografia per La Lune


del 6 luglio 1867

I Péchés sono però soprattutto l’espressione di un “tardo stile”


rossiniano nel senso prospettato da Edward Said, vale a dire la
maturazione – a seguito delle irripetibili peculiarità di una vita
artistica – di una soggettiva e individuale “tardività”. L’idea di
stile tardo come categoria estetica era stata messa a punto
soprattutto a partire dall’ultima produzione di Beethoven,
attraverso gli studi di Adorno e Dahlhaus; lo stile tardo –
quello degli ultimi quartetti in particolare – assume in
Beethoven connotazioni riservate, esoteriche, esito di un
percorso artistico che trova le sue motivazioni di fondo nella
“originale” concezione di ogni singolo componimento e che
non riconosce nel pubblico del tempo l’ideale destinatario
dell’opera, dotata di qualità predittive e di carattere
testamentario, e indirizzata a un domani immaginario (o
utopico) finalmente adeguato a comprenderla. Said estende e
aggiorna quel modello critico fino a includervi personalità
dotate di indole dissimile (Mozart, Wagner, Strauss, Mann,
Britten e altri) per le quali la tardività è indotta da motivi
biologici, patologici, psicologici, esperienziali, profilandosi
ogniqualvolta in modo diverso. Da Rossini non sarebbe logico
attendersi uno stile tardo analogo – per esempio – a quello di
Beethoven, perché pressoché opposta è la sua storia
professionale di compositore italiano di teatro e quindi il suo
temperamento artistico. La produzione operistica rossiniana si
rivolge al pubblico del tempo che ne dà un immediato
riscontro; il compositore non nutre particolari aspettative
(piuttosto molta diffidenza) nei confronti di un futuro che
certamente sarebbe andato in altre direzioni, come in effetti
accadde. I Péchés di Rossini sono quindi di stile tardo nella
misura in cui “uno” stile tardo poteva manifestarsi in Rossini:
quello di un compositore da tempo fuori dall’agone che
confeziona souvenir musicali per uso proprio o altrui,
recuperando scaglie e lacerti del proprio passato, sospinti nel
presente. Come sottolinea Amalia Collisani, la condizione
umana è nei Péchés riprodotta in modo frammentario e «ogni
cosa viene mostrata nella banalità e nella vanità delle
convenzioni che ne disegnano la forma».35 Ne escono
miniature perfettamente autosufficienti (lontane tanto
dall’intimismo romantico quanto dallo spirito del frammento,
ossia dell’illuminazione bruciante e irripetibile) o
componimenti più ampi ma adeguati a un riscontro
estemporaneo, perché fondati su un lessico sedimentato. Molti
di quei brani, in definitiva, non parlano soltanto di Rossini ma
anche del pubblico rossiniano al quale sono destinati e dei suoi
gusti: se ne può dedurre quale fosse lo scenario sonoro dei
salotti parigini, nonché l’immagine che Rossini in quegli anni
aveva saputo e voluto approntare di sé stesso e della propria
arte.
Non avrebbe senso, quindi, passare al setaccio quelle circa
150 composizioni per distinguere dove Rossini faccia sul serio
ovvero si limiti a replicare sé stesso, per inerzia o ironia: come
nelle sue opere maggiori le dimensioni vero/falso si
compenetrano, senza lasciar vedere oltre quanto Rossini
volesse far trapelare. Proteiforme e impenetrabile fino alle
ultime note.
SUGGERIMENTI DI LETTURA

Le riflessioni estetiche attribuite a Rossini da Hiller e Zanolini,


con ricognizioni sui primi dibattiti critici, sono discusse in
FABBRI 1994b; l’incontro fra Rossini e Hiller in MÜLLER 1992.
Sulla figura di Olympe Pélissier BRUSON 2002; i rapporti fra
Colbran e Olympe in RAGNI 2012. MÜLLER 2002 tratta della
prima redazione dello Stabat; sull’immediata diffusione del
componimento in seconda versione, SMART 2018a. Feste, riti e
celebrazioni patriottiche attorno al 1848, sono fra gli oggetti
della trattazione di SORBA 2015. Sulla Cantata per Pio IX,
BUCARELLI 1992 e BUCARELLI 1996; per il biennio 1848-49 e
relativi effetti sulla vita dell’autore attraverso i documenti,
FABBRI 2001; confidenze tarde di Rossini sono raccolte in
MORDANI 1871. La ricostruzione della genesi, delle prove e
delle prime esecuzioni della Petite Messe Solennelle in
BRAUNER-GOSSETT 2009, dove si riporta anche un’ampia
rassegna stampa di quegli eventi; le vicende della prima
esecuzione italiana in MONTEMORRA MARVIN 2001. Sul ruolo
della filologia vedi anche DAOLMI 2018; sulle prime edizioni a
stampa DAOLMI 2013, pp. 44-55; un excursus analitico
dell’Agnus Dei in COLAS 2021. Sulla mai compiuta Messa per
Rossini GIRARDI-PETROBELLI 1988; la presenza rossiniana in
Verdi è discussa in PETROBELLI 1993. I contesti esecutivi
salottieri della musica rossiniana sono ridefiniti in STEFFAN
2018. BEGHELLI 2020 tratteggia l’atmosfera dei samedis
musicaux a casa Rossini e ripercorre la storia (tortuosa) della
cantata Giovanna d’Arco. Sui Péchés de vieillesse GOSSETT
1980 e in particolare su Musique anodine, Album italiano e
relativi contesti produttivi TARTAK 1995; sulla vendita dei
Péchés BRUSON 1994. GUARNIERI CORAZZOL 1993 analizza le
affinità dei brani cameristici rossiniani con la poetica degli
Scapigliati e più a distanza con la musica pianistica di Satie e
relative modalità di esecuzione/ascolto; sul concetto di “stile
tardo” SAID 2009. Sempre in tema di musica francese del
Novecento ed eredità rossiniane SALA 1993. Sulla ricezione
moderna del compositore, a livello europeo, Rossini after
Rossini 2020; sulla Rossini Renaissance BRAUNER 2004.
Per quanto riguarda la biografia, nel 2021 ha visto la luce il
vol. v di Lettere e documenti (1 gennaio 1836 - 28 aprile
1839), a cura di Sergio Ragni e Reto Müller (Fondazione
Rossini, Pesaro). Fra gli apporti documentari: per il 1836, i
contatti fra la Pélissier e il Vivazza e i tentativi condotti da
Rossini per raggiungere una sorta di coabitazione con lei e la
Colbran, l’eredità di Bellini, l’invito a comporre un
melodramma per Vienna (9 aprile), un succinto ritratto di Liszt
(20 maggio), il viaggio per Francoforte via Bruxelles,
l’incontro con Mendelssohn e le reciproche impressioni
(giugno); per il 1837 l’aggregazione di Rossini alla
Congregazione di S. Cecilia di Roma (28 gennaio), la proposta
di Lanari di riaprire la ricostruita Fenice con il Tell (febbraio-
marzo 1837), il viaggio autunnale a Milano. Al dicembre 1837
risale una prima dichiarazione degli esecutori testamentari di
Varela; dal gennaio 1838 le reazioni alla morte di Severini.
DA ASCOLTARE

Robert Bruce
Nicolas Rivenq (Robert Bruce), Iano Tamar (Marie), Simon
Edwards (Arthur), Davide Cicchetti (Edouard II),
Massimiliano Chiarolla (Douglas-le-noir), Inga Balabanova
(Nelly), Ramaz Chikviladze (Morton), Piero Naviglio
(Dickson/Un barde), Tiziana Portoghese (Un page), Bratislava
Chamber Choir, Orchestra Internazionale d’Italia, dir. Paolo
Arrivabeni, Dynamic 2003
Stabat mater,
Anna Netrebko, Joyce DiDonato, Lawrence Brownlee,
Ildebrando D’Arcangelo, Coro e Orchestra dell’Accademia
Nazionale di Santa Cecilia, dir. Antonio Pappano, Warner
Classic 2010
Giovanna d’Arco
in Rossini Recital, Cecilia Bartoli, Charles Spencer
(Pianoforte), Decca 1991
Cantata in onore del Sommo Pontefice Pio IX
in Cantatas, vol. I, Mariella Devia, Paul Kelly, Francesco
Piccoli, Michele Pertusi, Coro Filarmonico e Orchestra della
Scala, dir. Riccardo Chailly, Decca 2015
Tantum Ergo
in Messa di Gloria/ Tantum Ergo, William Matteuzzi, Mario
Zeffiri, Czech Chamber Choir, Virtuosi di Praga, dir. Herbert
Handt, Hänssler Classic 2000
Petite Messe solennelle
Sandrine Piau, José Maria Lo Monaco, Edgardo Rocha,
Christian Senn, Francesco Corti (pianoforte), Cristiano Gaudio
(pianoforte), Deniel Perer (harmonium), Coro Ghislieri, dir.
Giulio Prandi, Arcana 2021
Hymne à Napoléon III et à son vaillant peuple
in Rossini Discoveries, Orchestra Sinfonica di Milano
Giuseppe Verdi, dir. Riccardo Chailly, Decca 2002
Péchés de vieillesse
voll. I-XIV, Alessandro Marangoni (pianoforte) e altri interpreti,
Naxos 2018-18 (13 CD)

14. Un altro Rossini?


1 «The term “discourse” points to a more flexible interpretive model. Works in all
their components (textual, musical, visual) and manifestations (from actual
performances to the multifarious sources that enable them), as well as the words
said about and around them (no matter who utters them, or when), can all be
considered aspects of a specific discourse, defined as a field of human exchange in
continuous and complex movement» (SENICI 2019, pp. 10-11).
2 In una lettera da Castenaso di Rossini a Nourrit del 4 maggio 1830 il
compositore si sincera che il tenore abbia ricevuto i due primi atti di un’opera di cui
non dice il titolo ed esprime rammarico per non poter disporre ancora del libretto
completo (GRLD 2000, p. 652).
3 ZANOLINI 1875, p. 59. Cfr. anche HILLER 1855, pp. 120-121, AZEVEDO 1864, pp.
292-293.
4 BRIGHENTI 1830, p. 22.

5 AZEVEDO 1864, pp. 298-299.


6 GRLD 2016, p. 76 (Parigi, 30 maggio 1831, Rossini a Giuseppe Rossini,
Bologna).
7 GRLD 2016, p. 103 (23 luglio 1831).

8 GRLD 2016, p. 253 (21 aprile 1832).

9 Vedi la lettera di Rosario Bellini a Rossini in GRLD 2016, pp. 779-781 (29
ottobre 1835), anche nel commento di RADICIOTTI 1927-29, vol. II, pp. 180-181.
10 RADICIOTTI 1927-29, vol. II, p. 286.

11 «Sono per natura egoista e ho un tale disprezzo per l’umanità che voglio
pensare solo a me, a me, a me, sempre a me» (RAGNI 2012, vol. I, p. 650, n. 8).
12 Cfr. RAGNI 2012, vol. I, p. 655.

13 Gazzetta musicale di Milano, Supplemento n. 1, 9 gennaio 1842, p. 2.

14 ZAVADINI 1948, p. 586 (4 aprile 1842).

15 Traggo l’informazione dal RISM (Répertoire International des Sources


Musicales), https://opac.rism.info/index.php?id=4&L=0, ad vocem(ultima
consultazione, maggio 2022).
16 Gazzetta musicale di Milano, n. 3, 16 gennaio 1842, p. 12.

17 Gazzetta musicale di Milano, nn. 11-12, 13 e 20 marzo 1842, pp. 41-42 e 47-
49.
18 Gazzetta musicale di Milano, n. 11, 13 marzo 1842, p. 41.

19 RADICIOTTI 1927-29, vol. II, p. 296.

20 Cfr. rispettivamente RAGNI 2012, vol. II, p. 670 e VATIELLI 1918, p. 210. La
supposta avarizia di Rossini fu oggetto di feroci censure anche da parte del letterato
e umorista tedesco Eduard Oettinger (OETTINGER 1851, vol. II, p. 261; cfr.
ancora RAGNI 2012, vol. II, pp. 670-1).
21 FABRI SCARPELLINI 1847, p. 8.
22 Cit. in FABRI SCARPELLINI 1847, p. 6 (6 agosto 1846, lettera di Rossini a Spada,
da Bologna).
23 Testimonianze sui due episodi in FABBRI 2001, pp. 85-87 e 91-93.

24 Vedi il resoconto dell’episodio da parte di Gaetano Gaspari in FABBRI 2001, p.


97.
25 MORDANI 1871, p. 14.

26 Cit. in FABBRI 2001, pp. XXX-XXXI e pp. XLI-XLII.

27 MAZZATINTI-MANIS 1902, pp. 237-238 (26 agosto 1860, lettera a Filippo


Santocanale, da Passy).
28 Ne parla Azevedo, cit. in ZOPPELLI 2021.

29 MAZZATINTI-MANIS 1902, pp. 330-331.

30 Vedi il punto di Francesco Flores D’Arcais, «Rossini», nell’Opinione, 17


novembre 1868, pp. 2-3.
31 Recentemente è stato portato all’attenzione degli studiosi un catalogo
pubblicato da Azevedo nel 1866 (Rossini vivente), redatto sulla base di ascolti dal
vivo e forse corretto sugli appunti rossiniani, che comprova una volta ancora come
il compositore avesse ripetutamente messo mano al riordino dei brani, e che
l’attuale più diffusa ripartizione (quella in 14 volumi) non corrisponda in tutto alle
intenzioni dell’autore (vediZOPPELLI 2021).
32 Un recensore dell’epoca, Gustave Héquet, colse un velo di tristezza in queste
pagine: una posizione minoritaria rispetto alle letture paradisiache dei più. Per una
rassegna di giudizi critici coevi vedi COLAS 2021, pp. 120-121.
33 «Buon Dio, ecco terminata questa povera piccola messa. È musica sacra quella
che ho appena fatto, o che altro? Ero nato per l’opera buffa, Tu lo sai bene! Un po’
di scienza, un po’ di cuore, e il giuoco è fatto. Sia benedetto, dunque, e concedimi il
Paradiso».
34 Se le ripetute intonazioni di Mi lagnerò tacendo possono essere considerate
esperimenti di laboratorio, Rossini non nascose il suo oggettivo interesse per il
poeta cesareo. Secondo una testimonianza di Mordani riferita al 1855, durante agli
anni fiorentini, Rossini, ipoteticamente, avrebbe voluto mettere in musica qualche
dramma del Metastasio, «dove sono sentimenti nobili con parole facili, ma è troppo
il recitativo: non vi sono duetti, terzetti ec. Avrei voluto che qualche buon letterato
me l’avesse ridotto all’uso moderno; ma un buon letterato non avrebbe messe le
mani nelle opere di quell’uomo celebre, ed un cattivo l’avrebbe guasto» (MORDANI
1871, p. 19).
35 COLLISANI 1998, p. 330.
Nota discografica
In coda ai capitoli di questo libro si sono segnalate alcune
incisioni di riferimento, nell’ordine in cui i brani appaiono nel
testo; non necessariamente le più celebri, ma quelle che sono
parse più utili al lettore. Alla presente nota conclusiva spetta
invece effettuare una succinta messa a fuoco delle opzioni che
si prospettano, complessivamente, a chi voglia confrontarsi
con musiche rossiniane registrate. A una offerta commerciale
sovrabbondante, con enormi disparità da titolo a titolo, vanno
oggi ad aggiungersi esecuzioni e riprese video anche di intere
opere, talora di pubblico dominio, su Internet, ma raramente
accompagnate da materiale informativo soddisfacente a
inquadrare la singola esecuzione nel suo contesto e ad
acquisire gli elementi minimi di valutazione (cast, libretto,
edizione impiegata). L’ascoltatore che già disponga di una
formazione sufficiente a orientarsi in questo complesso
scenario ne trarrà beneficio; quanti invece si cimentassero
senza qualche ragguaglio con simile ricerca rischieranno di
operare scelte meno fortunate (vale per Rossini come per
qualsiasi altro autore).
Per quanto riguarda l’offerta del mercato discografico, su cui
qui più ci si sofferma, anche tramite le più comuni piattaforme
online, occorre distinguere le esecuzioni dotate di valore
storico-documentario da quelle filologicamente più
accreditate, che rispecchiano un grado più avanzato di
conoscenze sia dal punto di vista testuale (per esempio grazie
all’impiego di una edizione critica), sia per le scelte effettuate
riguardo a tipologie vocali e cast. Accantonando la profusione
di brani celebri e di ouverture da opere, fino agli anni
cinquanta erano state incise per intero o in ampia selezione
pressoché solo il Tell e le opere buffe più celebri, alcune delle
quali riesumate con lungimiranza fra le due guerre o poco oltre
(emblematica la ripresa torinese dell’Italiana in Algeri, diretta
nel 1925 dal capostipite della Rossini Renaissance, Vittorio
Gui). Nei decenni a seguire la discografia si è espansa in
direzione di nuovi titoli, alcuni dei quali mai prima incisi; più
di recente, sono state riproposte in CD ulteriori esecuzioni
storiche, dai 33 giri originari oppure riesumate dagli archivi
perché contraddistinte dalla presenza di cantanti di vaglia.
Ascoltare Maria Callas come Armida, diretta da Tullio Serafin
al Maggio Musicale Fiorentino nel 1952 (disco Cetra, CD
Golden Melodram 2.0012), o come Fiorilla nel Turco in Italia
diretto da Gavazzeni alla Scala nel 1954 (disco Emi riproposto
in CD anche da Naxos 8.111028-29), pur disponendo oggi
dell’esecuzione di Cecilia Bartoli con Riccardo Chailly del
1998 (Decca 478 3056), è utile per annodare i fili della
recezione moderna dell’opera di primo Ottocento.
All’affermazione della Callas, che contribuì a resuscitare ruoli
e vocalità di un teatro dato per scomparso e irrecuperabile, si
deve infatti buona parte del ritrovato interesse anche per
Rossini. Incisioni di questo tipo, tuttavia, non restituiscono che
un simulacro del testo originale a causa dei robusti tagli
compiuti e per l’impiego di criteri esecutivi dettati dal gusto
del tempo. I tagli erano prassi ricorrente nella discografia di
quegli anni e una condizione endogena nelle opere rossiniane
(si effettuavano diffusamente anche all’epoca dell’autore). Le
attese dell’ascoltatore odierno di musica registrata, a maggior
ragione quando si tratti di titoli rari e solo occasionalmente
riproposti, vanno però in direzione di esecuzioni integrali che
lo mettano in condizione di disporre dell’intera opera, e le case
produttrici sembrano progressivamente adeguarsi a queste
aspettative.
Pur con i loro limiti oggettivi, alcune esecuzioni storicizzate
costituiscono altrettante pietre miliari per ripercorrere un
fenomeno che attraversò buona parte del Novecento (la
Rossini Renaissance appunto) e per l’eccellenza di alcuni ruoli
vocali o una direzione autorevole (non sempre le due cose
vanno assieme). Fra queste è d’obbligo menzionare, oltre a
quelle già citate, per il genere serio almeno la Semiramide
diretta nel 1966 da Richard Bonynge con Joan Sutherland e
Marilyn Horne (Decca 425481-2), l’Elisabetta regina
d’Inghilterra che annovera nel cast Montserrat Caballé e Josè
Carreras (1975, sul podio Gianfranco Masini, Philips 432453-
2), il Tancredi rappresentato alla Fenice nel 1983 con due
belcantiste d’eccellenza come Lella Cuberli e la stessa Horne
(dir. Ralf Weikert, Sony Classical S3K 39 073). Per il genere
comico, da ricordare almeno tre opere dirette da Claudio
Abbado con etichetta Deutsche Grammophon (che le ha
riproposte anche in cofanetto, CD 4790125): Il barbiere di
Siviglia del 1971, edizione a cura di Alberto Zedda (1969),
atto fondativo della Rossini Renaissance dal lato musicologico
(nel cast dell’incisione Hermann Prey, Teresa Berganza, Luigi
Alva, Dg 4799955); la Cenerentola dello stesso anno, con
Teresa Berganza nel ruolo della protagonista (Dg 4775659);
più oltre L’italiana in Algeri diretta a Vienna nel 1987 con
Ruggero Raimondi, Enzo Dara e Agnes Baltsa (Dg 4273312).
Riguardo alle opere rossiniane composte per Parigi, l’edizione
del Viaggio a Reims data a Pesaro nel 1984 (Dg 4154982), con
cast stellare e Abbado sul podio, resta titolo di riferimento e
fra le realizzazioni rossiniane più acclamate di sempre (nuova
esecuzione a Berlino nel 1992 con interpreti parzialmente
diversi, Sony S2K 533336). Ed è ancora meritevole di
attenzione l’edizione scaligera del Guglielmo Tell in versione
italiana diretto nel 1988 da Riccardo Muti alla Scala (Giorgio
Zancanaro nel ruolo protagonistico, Chris Merrit in quello di
Arnoldo, Cheryl Studer come Matilde, Philips 422391).
Nel corso degli anni, anche a livello di nuove proposte,
determinante l’influenza del Festival rossiniano di Pesaro
(Rof), le cui produzioni hanno dato luogo a numerose
realizzazioni discografiche. Alcune farse, per esempio, sono
giunte al grande pubblico soprattutto per quella via; fra queste
L’occasione fa il ladro del 1987 (direttore Salvatore Accardo,
Fonit Ricordi RFCD 2001), La scala di seta (1988, Gabriele
Ferro, Fonit Ricordi RFCD 2003), Il signor Bruschino (1988,
Donato Renzetti, Fonit Ricordi RFCD 2002). In altri generi,
per alcuni anni primeggiarono La donna del lago, unica prova
sul podio di Maurizio Pollini (1983, Sony 88985397962), e La
gazza ladra diretta da Gianluigi Gelmetti nel 1989 (Sony
45850). Più recentemente anche i Festival di Barga, della Valle
d’Itria a Martina Franca, di Schwetzingen e soprattutto di Bad
Wildbad (fra l’altro località termale fra le favorite di Rossini),
hanno fornito l’impulso per realizzazioni ragguardevoli, sulla
base di sodalizi fra produzione ed etichetta discografica, e
anche i titoli meno noti hanno trovato coronamento in edizioni
di diversa levatura. Fra le opere ultime arrivate, l’Eduardo e
Cristina prodotto da Bongiovanni, originato dal Festival di
Bad Wildbad del 1997, direzione di Francesco Corti (2000,
GB 2205/6-2); la medesima etichetta ha proposto altri titoli
rossiniani, quali La pietra del paragone diretta da Bruno
Aprea (2000, GB 2179/80, al Festival della Valle d’Itria nel
1993), opera che si ascolta anche con la direzione di Claudio
Desderi (1992, Nuova Era 7132/33).
Fra le etichette che hanno riservato un’attenzione sistematica
alla musica rossiniana, avvalendosi di direttori specializzati e
all’occorrenza della collaborazione col Festival di Bad
Wildbad, primeggia Naxos. La presenza di Alberto Zedda ha
dato pregio a un’ampia scelta di titoli a partire dagli anni
novanta, con interpreti di valore, fra cui Tancredi (data di
rilascio 1995, 8.660037-8), L’equivoco stravagante (2002,
8.660087-88), La donna del lago (2008, 8.660235-36),
L’inganno felice (2008, 8.660233-34), L’italiana in Algeri
(2010, 8660284-85), La gazza ladra (2015, 8.660369-71); da
segnalare, sempre con la direzione di Zedda ma per l’etichetta
Dynamic, anche Semiramide (2013, dyn 674), Otello (2015,
dyn 7711), Armida (2017, DVD dyn-37763). Dynamic ha
prodotto, nel 2009, un’edizione in DVD della rara Ermione,
Daniele Abbado sul podio (33609). Tipologia, quella del DVD,
attualmente in crescita esponenziale anche per tanti titoli
rossiniani.
Altre produzioni operistiche Naxos meritano attenzione; si
vedano almeno le direzioni di Antonino Fogliani, fra cui Ciro
in Babilonia (data di rilascio 2007, 8.660203-04), Mosè in
Egitto (la versione di Napoli 1819, 2007, 8.660220-21), Otello
(2010, 8.660275-76), Semiramide (2013, 8.660340-42),
Guillaume Tell (per la prima volta in versione integrale, 2015,
8.660363-66), Il viaggio a Reims (2016, 8.660382-84),
Sigismondo (2017, 8.660403-04), Bianca e Falliero (2017,
8.660407-09). Torvaldo e Dorliska è produzione del 2006
(8.660189-90, direttore Alessandro De Marchi); del 2010 e
2011 rispettivamente La gazzetta, unica opera buffa rossiniana
scritta per Napoli, e La cambiale di matrimonio (8660277-78 e
8.660302, Christopher Franklin). Adelaide di Borgogna è stata
ripresa con la direzione di Luciano Acocella (2017, 8.660401-
02), sul podio anche della prima opera rossiniana per epoca di
composizione, Demetrio e Polibio (2017, 8660405-06). José
Miguel Pérez-Sierra ha diretto Ricciardo e Zoraide (uscito nel
2018, 8.660419-21), Aureliano in Palmira (2018, 8.660448-
50) e Matilde di Shabran versione di Roma (2020,
8.660492.94); Gelmetti una nuova esecuzione del centone
Eduardo e Cristina (2019, 8.660466-67) e soprattutto Zelmira
(2020, 8.660468-70, nella versione di Parigi 1826).
Alcune incisioni più datate risultano ancora utili, soprattutto
nell’ambito della produzione teatrale rossiniana del periodo
napoletano; fra queste Armida, Ermione, Zelmira dirette da
Claudio Scimone con Cecilia Gasdia nei ruoli protagonistici
(rispettivamente 1991, Arts 47327-2; 1988, Erato ecd 75336;
1990, Erato 2292-45419), l’Adina diretta nel 1991 da Aldo
Tarchetti (uscita nel 1996, Rugginenti 551001-2), Ermione e
Maometto secondo con la direzione di David Parry (2010,
Opera Rara ORC42 e 2014, Garsington Opera-Avie AV2312).
In ambito d’opera francese considerevoli alcune ulteriori
produzioni Naxos: Le siège de Corinthe diretto da Jean-Luc
Tingaud (uscito nel 2013, 8.660329-30), Moïse et Pharaon
(Fabrizio Maria Carminati, 2020, 8.660473-75), Le Comte Ory
(Brad Cohen, 2007, 8.660207-08). Quest’ultima realizzazione
va ad affiancarsi alla pregevole esecuzione di Jesús López-
Cobos con Juan Diego Flórez come protagonista (2004, Dg
4775020). Di interesse più specifico i pasticci Ivanhoé (1826)
e Robert Bruce (1846) con la direzione di Paolo Arrivabene,
entrambi a Martina Franca nel 2001 e 2002, commercializzati
da Dynamic (cds 397/1-2 e 421/1-2).
La musica non operistica attualmente disponibile abbraccia
quasi tutte le composizioni maggiori, vocali, strumentali o
sacre; gran parte dei brani minori o di incerta attribuzione, se
sfuggono a un’appropriata catalogazione discografica sono per
altro facilmente individuabili online. Le maggiori cantate si
ascoltano nella direzione di Riccardo Chailly, con Orchestra e
Coro della Scala (1998, Decca 458 843-2 e sgg.); Le nozze di
Teti, e di Peleo dirette da Pietro Rizzo risultano fra le più
recenti produzioni rossiniane Naxos (2020, 8.574282). Per il
genere sacro, ancora di riferimento la Messa di Gloria diretta
da Neville Marriner nel 1992 (Philips 434132-2); nella
versione del 1999 di Herbert Handt segue la Messa il secondo
Tantum Ergo, quello del 1847 (Hänssler Classic 98.359). Lo
Stabat Mater ha beneficiato negli ultimi anni di tre esecuzioni
di pregio, con la direzione di Antonio Pappano (rilasciata nel
2010, Warner Classic 410034-2), Fogliani (2016, versione del
1832 riorchestrata, Naxos 8.573531), Zedda (2017, Dynamic
7799). La Petite messe solennelle in prima versione
cameristica (1863) vanta un’ampia discografia dagli anni
novanta a oggi, a partire quantomeno dall’edizione Teldec
Erato 2292-453321 diretta nel 1987 da Michel Corboz, con
Cecilia Gasdia; fra le realizzazioni recenti da considerare
quella del Coro Ghislieri diretto da Giulio Prandi (2021,
Arcana A 494), condotta sull’edizione critica a cura di Davide
Daolmi (Fondazione Rossini, Pesaro 2013), dove si impiegano
strumenti a tastiera originali con la finalità di avvicinarsi al
“suono” del tempo. Per la versione orchestrale si segnalano le
direzioni di Chailly (1995, Decca 444134-2), Pappano (2013,
Emi Classic 50999 4 16742 2 2), Ottavio Dantone (2014,
Naïve v 5409).
Le Sei sonate a quattro possono essere ascoltate nella
registrazione dei Virtuosi Italiani per Tactus del 2004 (TC
791802); reperibili anche svariate esecuzioni orchestrali o con
formazioni diverse (anche con fiati), secondo il costume
ottocentesco. Se le sinfonie d’opera godono di una discografia
assai ampia a seguito della consuetudine di eseguirle anche
come sinfonie da concerto, per le cosiddette sinfonie
accademiche conviene affidarsi a una mirata ricerca
discografica o alle esecuzioni diffuse online (vi si sono
occasionalmente cimentati vari direttori, da Chailly a Marriner
a Renzetti, spesso affiancando questi componimenti autonomi
alle più celebri sinfonie d’opera); si segnala tuttavia l’edizione
completa delle ouverture rossiniane dirette da Christian Benda
per Naxos, che include senza troppo distinguere anche le
sinfonie accademiche (4 CD, 2013 e sgg., 8.504048).
Significativa infine, ancora da Naxos, l’iniziativa di pubblicare
in una serie organica la musica pianistica di Rossini, eseguita
da Alessandro Marangoni, e congiuntamente gli svariati
quaderni di Péchés de vieillesse anche con musica d’assieme
(13 CD, 8.501306). Fino a non molto tempo fa questa sezione
del catalogo rossiniano era nota al pubblico del disco
soprattutto attraverso la pregevole ma ristretta selezione
pianistica proposta da Dino Ciani nel 1968 (Fonit Cetra
ripubblicato da Nar Classical e da altre etichette), oppure
tramite esecuzioni sparse di Swann, Campanella, Giacometti,
Irmer, Sollini o dei numerosi altri pianisti o cantanti che hanno
inserito alcuni dei Péchés nei loro programmi.
Quanto al resto, non sono molti gli strumenti bibliografici
complessivi che consentano per Rossini un approfondimento
storico-discografico di ampio respiro e scientificamente
rigoroso, data la mole e la complessità metodologica della
materia. Impresa unica nel suo genere quanto di difficile
reperimento la Discografia delle opere di Gioachino Rossini a
cura di Carlo Marinelli, I.R.T.E.M., Roma, di cui sono editi i
voll. 3 (Almaviva, o sia l’Inutile precauzione, 1998), 5 (Opere
teatrali 1820-1829, 2003), 6 (Musica sacra, 1996), 7 (Musiche
di scena, cantate, inni e cori, musica vocale, 1996), 8 (Musica
strumentale, 1996), 9 (Péchés de vieillesse, 1996). Utile anche
la consultazione di Rossini auf CD, Auswahl und
Zusammenstellung Alfred Heierling, 35, novembre 2007,
[Stuttgart], Deutsche Rossini Gesellschaft, 2007 e
aggiornamenti.
Glossario*
ARIA numero di un’opera destinato a una voce solistica,
eventualmente con la partecipazione di altre voci (pertichini) e
del coro. Di norma comprende un recitativo o scena, un
cantabile, una sezione intermedia e una cabaletta, ma esistono
anche arie comprendenti un minor numero di sezioni, fino a
una sola.
ARIA FINALE numero solistico che conclude un’opera, affidato
alla o al protagonista con intervento di altri personaggi e quasi
sempre del coro. Sempre di vaste proporzioni, a volte è
chiamata “rondò”.
ARIOSO frase melodica di carattere cantabile collocata
all’interno di un recitativo, intonata su versi sciolti, che non
perviene alla compiutezza formale di un’aria.
ASSIEME, PEZZO D’ qualsiasi numero che preveda un numero di
voci principali superiore a uno, dal duetto al finale.
ATTO ciascuna delle divisioni principali del testo drammatico, a
sua volta divisa in scene e, dal punto di vista musicale, in
numeri. Può prevedere diversi quadri (sequenze di scene che si
svolgono nella stessa ambientazione scenica). Nel primo
Ottocento prevale la divisione in due atti, meno frequente è
quella in tre.
BUFFA, OPERA opera di ambientazione contemporanea, con
presenza di personaggi nobili, borghesi o contadini, incentrata
su problematiche d’attualità e con scioglimento felice.
CABALETTA la sezione conclusiva (propriamente “stretta”) di
un’aria solistica; in origine il termine indica la melodia
principale che viene enunciata due volte, inframezzata da un
interludio orchestrale.
CADENZA momento di sospensione, caratterizzato da vocalizzi
di varia lunghezza, che prepara la fine della melodia; a volte
non è scritta per esteso ma è affidata alla libertà creativa
dell’interprete (“a piacere”). In senso generico, la parte finale
di una frase o sezione, che determina un senso di conclusione
o sospensione del discorso musicale.
CANTABILE come aggettivo, la qualità peculiare di una melodia
vocale, applicabile anche a melodie strumentali. Come
sostantivo, indica la sezione lenta, di carattere lirico ed
espressivo, di un’aria o di un pezzo d’assieme.
CAVATINA aria solistica, detta anche “sortita”, con cui un
personaggio si presenta per la prima volta in scena,
eventualmente accompagnato dal coro. Di solito è un numero
autonomo, ma può essere anche inclusa in un’introduzione o
in un finale.
COLORATURA, CANTO DI stile vocale caratterizzato da estesi
passaggi (fioriture o vocalizzi) da cantarsi su una sola sillaba.
COMMEDIA-VAUDEVILLE forma teatrale francese recitata in prosa
ma con intermissione di brani musicali cantati (canzoni, cori) e
strumentali.
CONCERTATO brano caratterizzato dalla presenza in scena e dal
canto di molti personaggi principali e secondari, nonché del
coro. Vedi anche “Largo”.
CONVENIENZE insieme di regole non scritte del mestiere teatrale,
secondo le quali i vari numeri dovevano essere distribuiti, per
numero e per importanza, rispettando il rango dei diversi
cantanti e riunendoli in varie combinazioni nei pezzi
d’assieme.
DUETTO numero di un’opera cantato da due personaggi, con
eventuali interventi di comprimari o del coro. Può essere
preceduto da una scena o recitativo e, nella sua forma
standard, è costituito da un “primo tempo” ovvero tempo
d’attacco, un cantabile, un tempo di mezzo e una stretta.
FINALE numero di un’opera che si colloca alla fine di un atto,
quasi sempre del primo (eventualmente del secondo se l’opera
è in tre atti), più raramente dell’ultimo. È il più lungo e
articolato dei pezzi, con l’intervento di tutti i personaggi
principali e del coro; la sua struttura prevede, come momenti
fissi, un concertato lento (Largo) e una stretta conclusiva,
preceduti e collegati da recitativi, cori, cavatine, scene
d’azione (tempo d’attacco e tempo di mezzo).
FIORITURA lo stesso che “vocalizzo”.
GROUNDSWELL termine inglese (“flutto di fondo”, “onda lunga”)
introdotto dalla musicologia angloamericana per descrivere un
effetto tipico dei concertati di Bellini, e dopo di lui di altri
autori: un graduale crescendo dinamico ed emozionale che,
dopo aver raggiunto un punto culminante, rifluisce
rapidamente per poi ricominciare.
INTRODUZIONE numero di un’opera che si colloca all’inizio di un
atto. Prevede l’intervento di vari personaggi, eventualmente
del coro, e può essere assai breve ovvero lunga e articolata in
più sezioni.
LARGO la sezione lenta, in stile concertato, di un finale, in cui
tutti i personaggi esprimono contemporaneamente diversi stati
d’animo di stupore, incertezza, sofferenza.
LIBRETTO il testo letterario di un’opera, stampato in un libro di
piccolo formato da leggersi in teatro durante la
rappresentazione.
MAGGIORE/MINORE le due principali forme di organizzazione
della scala musicale (modi) nella musica tra la seconda metà
del Seicento e il primo Novecento; sono tradizionalmente
associate alla rappresentazione di sentimenti rispettivamente
positivi (gioia, tranquillità, eroismo) o negativi (mestizia,
angoscia, malvagità), ma tali significati convenzionali sono
frequentemente ribaltati: il modo maggiore può essere usato
per rappresentare la sublimazione del dolore, il minore può
assumere connotati ironici, giocosi etc.
MELISMA vedi “vocalizzo”.
MÉLODRAME forma teatrale francese in cui la recitazione parlata
è accompagnata o inframmezzata da brani musicali suonati
dall’orchestra.
MELODRAMMA altro termine per “opera”, con particolare
riferimento a quella italiana dell’Ottocento; a volte designa il
solo libretto.
NUMERO ciascuno dei brani musicali (arie, duetti, terzetti,
introduzioni, finali) in cui è divisa l’opera, così chiamati
perché numerati progressivamente nella partitura. Detto anche
“pezzo”, è a sua volta articolato in un certo numero di sezioni
o “tempi” (primo tempo o tempo d’attacco, cantabile, tempo di
mezzo, stretta o cabaletta).
PERTICHINO intervento affidato a un personaggio secondario
che, durante un brano solistico, commenta o risponde al
personaggio principale. Per estensione, il personaggio stesso.
PEZZO lo stesso che “numero”.
PRELUDIO brano strumentale introduttivo di un’opera, più breve
di una sinfonia e spesso direttamente collegato all’azione che
segue.
PRIMO TEMPO movimento iniziale di un duetto (o altro pezzo
d’assieme) in più “tempi”, detto anche “tempo d’attacco”. Nel
modello codificato da Rossini prevede due strofe melodiche
cantate in successione dalle due parti, seguite da una sezione
dialogata che conduce al cantabile.
QUADRO in senso teatrale può designare: 1) una sequenza di
scene che si svolgono nella stessa ambientazione; 2) un’unità
compositiva molto ampia che aggrega più pezzi chiusi, come
arie, duetti, cori (in questo caso si usa anche il termine
tableau, in quanto tale struttura è tipica dell’opera francese);
3) una situazione in cui tutti i personaggi, immobili in diverse
pose, esprimono cantando sentimenti contrastanti di stupore,
terrore, compassione, come in un quadro vivente. Quest’ultima
accezione è tipica dei concertati lenti (Largo), per i quali si
parla spesso di “quadro di stupore”.
RECITATIVO stile vocale caratterizzato da una declamazione del
testo molto vicina al parlato, sostenuta da pochi accordi del
cembalo (recitativo semplice, detto comunemente “secco”) o
dell’orchestra (recitativo accompagnato). Per estensione
(Recitativo), sezione composta in tale stile; nel libretto è
composta in versi sciolti e in essa accadono molti degli eventi
che costituiscono l’azione.
REMINISCENZA, MOTIVO DI frase musicale che ritorna nel corso di
un’opera per richiamare un momento drammatico precedente
in cui si era ascoltata per la prima volta.
ROMANZA aria in un solo movimento, di solito in forma strofica.
È spesso usata per rappresentare un brano cantato all’interno
della rappresentazione, nel qual caso può essere chiamata
anche “canzone”.
RONDÒ in contesto operistico, grande aria di una prima parte,
particolarmente estesa e collocata di solito a conclusione di
un’opera (nel qual caso vale come “aria finale”) o poco prima.
SCENA in senso drammatico, unità di divisione di un atto
delimitata dall’uscita o dall’entrata di uno o più personaggi. In
senso musicale (Scena), la sezione che precede un’aria, un
duetto o altro pezzo d’assieme, composta nello stile di un
recitativo ma di solito più ampia e di più complessa struttura.
A volte il termine è usato per denominare un’intera aria,
sottolineando la prevalenza dell’aspetto drammatico su quello
canoro.
SEMISERIA, OPERA opera di ambientazione contemporanea che
mette in scena situazioni sentimentali, patetiche e di forte
tensione drammatica, che fanno temere per la vita dei
protagonisti, ma con scioglimento invariabilmente felice
(salvo che per il malvagio, che viene punito anche con la
morte).
SERIA, OPERA opera di argomento elevato, ambientata in un
contesto storico lontano (Antichità, Medioevo, Rinascimento)
e che tratta vicende di personaggi di alto rango. Può avere
esito lieto o, più spesso nell’Ottocento, terminare con la morte
di uno o più protagonisti.
SILLABICO, CANTO stile vocale caratterizzato da una stretta
aderenza al testo, che viene intonato facendo corrispondere a
ciascuna sillaba una, due o al massimo tre note.
SINFONIA brano strumentale di vaste proporzioni con cui si apre
l’opera; è articolata in un movimento lento e uno veloce e fa
uso di temi che ritorneranno nel corso dell’opera stessa. Può
essere sostituita da un più breve preludio, oppure mancare del
tutto, e può essere composta come brano indipendente da una
destinazione teatrale.
SORTITA (sott.: “aria di”) lo stesso che “cavatina”, ma di solito
più breve e di struttura meno complessa.
STRETTA la sezione conclusiva di un pezzo d’assieme, dal
duetto al finale, caratterizzata da movimento assai mosso.
Rappresenta la reazione dei personaggi all’esito dell’azione
che si è svolta nel corso del pezzo stesso. Per le arie si usa il
termine equivalente “cabaletta”.
TABLEAU vedi “quadro”.
TEMPO D’ATTACCO sezione iniziale in versi lirici, dopo un
recitativo o scena, di un duetto o di un altro pezzo d’assieme,
raramente di un’aria, caratterizzata da una rapida recitazione
su motivi enunciati dall’orchestra; in esso viene delineata la
situazione drammatica dominante nel numero. Di solito è
abbastanza breve; se ampiamente sviluppato si parla piuttosto
di “primo tempo”.
TEMPO DI MEZZO sezione intermedia di un’aria o di un pezzo
d’assieme, condotta con gli stessi mezzi del tempo d’attacco,
durante la quale si opera un cambiamento di situazione che
conduce dal cantabile alla stretta.
VERSI LIRICI successione di versi di varia lunghezza organizzati
in strofe o lasse con schema di rime ricorrente; sono usati nelle
sezioni chiuse (cantabili, cabalette, tempi d’attacco e di
mezzo) dei numeri musicali.
VERSI SCIOLTIsuccessione di endecasillabi e settenari senza rime
obbligate, usati prevalentemente nei recitativi.
VOCALIZZO detto anche “fioritura”, è un passaggio di estensione
variabile cantato su una sola sillaba, tipico del canto di
coloratura. Se le note sono poche, da due a quattro, si parla
anche di “melisma”.
* Il Glossario è compilato, per gentile concessione di Fabrizio Della Seta, sulla
base di quello da lui redatto per il volume Bellini (il Saggiatore, Milano 2022).
Composizioni di Gioachino Rossini
Il catalogo più completo e aggiornato è quello curato da Paolo
Fabbri, Rossini, Gioachino, Gioacchino, in Die Musik in
Geschichte und Gegenwart, Personenteil 14, Bärenreiter-
Verlag 2005, coll. 465-505: 475-490.
Si riporta qui una selezione delle composizioni principali,
ripartite per generi.
OPERE TEATRALI

39 opere più alcuni pasticci. Si elencano in ordine di


rappresentazione.
La cambiale di matrimonio
farsa comica, un atto, G. Rossi, Venezia, Teatro San Moisè, 3
novembre 1810
L’equivoco stravagante
dramma giocoso, due atti, G. Gasbarri, Bologna, Teatro del
Corso, 26 ottobre 1811
L’inganno felice
farsa, un atto, G. Foppa, Venezia, Teatro San Moisè, 8 gennaio
1812
Ciro in Babilonia, ossia La caduta di Baldassare
dramma con cori, due atti, F. Aventi, Ferrara, Teatro
Comunale, 14 marzo 1812
La scala di seta
farsa comica, un atto, G. Foppa, Venezia, Teatro San Moisè, 9
maggio 1812
Demetrio e Polibio
dramma serio, due atti, V. Viganò Mombelli, Roma, Teatro
Valle, 18 maggio 1812
La pietra del paragone
melodramma giocoso, due atti, L. Romanelli, Milano, Teatro
alla Scala, 26 settembre 1812
L’occasione fa il ladro
burletta per musica, un atto, L. Prividali, Venezia, Teatro San
Moisè, 24 novembre 1812
Il signor Bruschino, ossia Il figlio per azzardo
farsa giocosa, un atto, G. Foppa, Venezia, Teatro San Moisè,
27 gennaio 1813
Tancredi
melodramma eroico, due atti, G. Rossi (poi anche L. Lechi),
Venezia, Teatro La Fenice, 6 febbraio 1813
L’italiana in Algeri
dramma giocoso, due atti, A. Anelli e altri, Venezia, Teatro
San Benedetto, 22 maggio 1813
Aureliano in Palmira
dramma serio, due atti, F. Romani, Milano, Teatro alla Scala,
26 dicembre 1813
Il turco in Italia
dramma buffo, due atti, F. Romani, Milano, Teatro alla Scala,
14 agosto 1814
Sigismondo
dramma, due atti, G. Foppa, Venezia, Teatro La Fenice, 26
dicembre 1814
Elisabetta regina d’Inghilterra
dramma, due atti, G. Schmidt, Napoli, Teatro San Carlo, 4
ottobre 1815
Torvaldo e Dorliska
dramma semiserio, due atti, C. Sterbini, Roma, Teatro Valle,
26 dicembre 1815
Almaviva [= Il barbiere di Siviglia]
commedia, due atti, C. Sterbini, Roma, Teatro Argentina, 20
febbraio 1816
La gazzetta
dramma, due atti, G. Palomba, Napoli, Teatro dei Fiorentini,
26 settembre 1816
Otello, ossia Il moro di Venezia
dramma, tre atti, F. Berio di Salsa, Napoli, Teatro del Fondo, 4
dicembre 1816
La Cenerentola, ossia La bontà in trionfo
dramma giocoso, due atti, J. Ferretti, Roma, Teatro Valle, 25
gennaio 1817
La gazza ladra
melodramma, due atti, G. Gherardini, Milano, Teatro alla
Scala, 31 maggio 1817
Armida
dramma, tre atti, G. Schmidt, Napoli, Teatro San Carlo, 9
novembre 1817
Adelaide di Borgogna
dramma, due atti, G. Schmidt, Roma, Teatro Argentina, 27
dicembre 1817
Mosè in Egitto
azione tragico-sacra, tre atti, A.L. Tottola, Napoli, Teatro San
Carlo, 5 marzo 1818
Ricciardo e Zoraide
dramma, due atti, F. Berio di Salsa, Napoli, Teatro San Carlo,
3 dicembre 1818
Ermione
azione tragica, due atti, A.L. Tottola, Napoli, Teatro San Carlo,
27 marzo 1819
Eduardo e Cristina
dramma, due atti, G. Schmidt, Venezia, Teatro San Benedetto,
24 aprile 1819
La donna del lago
melodramma, due atti, A.L. Tottola, Napoli, Teatro San Carlo,
24 ottobre 1819
Bianca e Falliero, ossia Il consiglio dei tre re
melodramma, due atti, F. Romani, Milano, Teatro alla Scala,
26 dicembre 1819
Maometto secondo
dramma, due atti, C. della Valle, Napoli, Teatro San Carlo, 3
dicembre 1820
Matilde di Shabran, ossia Bellezza e cuor di ferro
melodramma giocoso, due atti, J. Ferretti, Roma, Teatro
Apollo, 24 febbraio 1821
Zelmira
dramma, due atti, A.L. Tottola, Napoli, Teatro San Carlo, 16
febbraio 1822
Semiramide
melodramma tragico, due atti, G. Rossi, Venezia, Teatro La
Fenice, 3 febbraio 1823
Il viaggio a Reims, ossia L’albergo del giglio d’oro
dramma giocoso, un atto, L. Balocchi, Parigi, Théâtre Italien,
19 giugno 1825
Adina, o Il califfo di Bagdad
farsa, un atto, G. Bevilacqua-Aldobrandini, Lisbona, Teatro
Saõ Carlos, 12 giugno 1826
Ivanhoé
opéra (pasticcio), tre atti, É. Deschamps e G.-G. de Wailly,
Parigi, Théâtre Odéon, 15 settembre 1826
Le siège de Corinthe
tragédie lyrique, tre atti, L. Balocchi e A. Soumet, Parigi,
Opéra, 9 ottobre 1826
Moïse et Pharaon, ou Le Passage de la Mer Rouge
opéra, quattro atti, L. Balocchi ed E. de Jouy, Parigi, Opéra, 26
marzo 1827
Le Comte Ory
opéra, due atti, E. Scribe e C.-G. Delestre-Poirson, Parigi,
Opéra, 20 agosto 1828
Guillaume Tell
opéra, quattro atti, E. de Jouy e H.-L.-F. Bis, Parigi, Opéra, 3
agosto 1829
Robert Bruce
opéra (pasticcio), tre atti, A. Royer e G. Vaëz, Parigi, Opéra,
30 dicembre 1846
MUSICA VOCALE SACRA

Complessivamente, alcune messe giovanili (talora assemblate


per tradizione a partire da pezzi sciolti), 2 messe della
maturità, altri componimenti liturgici o non liturgici. Si
elencano i titoli più significativi.
Messa di Ravenna
per 2 tenori, basso, coro e orchestra, Ravenna, 24 giugno?
1808
Messa di Milano
per contralto, 2 tenori, basso, coro e orchestra, 1812-13
Messa di Gloria
per soprano, contralto, 2 tenori, basso, coro e orchestra,
Napoli, 24 marzo 1820
Stabat mater
per soprano, contralto, tenore, basso, coro e orchestra, Madrid,
Cappella di San Filippo el Real, 5 aprile 1833 (seconda
versione: Parigi, Théâtre Italien, 7 gennaio 1842)
Tantum Ergo
per 2 tenori, basso e orchestra, Bologna, San Francesco, 28
novembre 1847
Petite messe solennelle
per soprano, contralto, tenore, basso, piccolo coro, 2
pianoforti, harmonium, Parigi, Palazzo Pillet-Will, 14 marzo
1864 (seconda versione orchestrata, Parigi, Théâtre Italien, 24
febbraio 1869)
COMPOSIZIONI D’OCCASIONE

Circa 20 cantate e vari brani di musica incidentale, inni e cori.


Fra cui:
Il pianto d’Armonia sulla morte di Orfeo
cantata (testo di G. Ruggia) per tenore, coro maschile e
orchestra, Bologna, Liceo Filarmonico, 11 agosto 1808
Pel faustissimo giorno natalizio di Sua Maestà il Re
Ferdinando IV, nostro augusto sovrano
cantata detta Giunone (testo di A.M. Ricci) per soprano, coro e
orchestra, Napoli, Teatro San Carlo, 12 gennaio 1816
Le nozze di Teti, e di Peleo
cantata (testo di A.M. Ricci) per 3 soprani, 2 tenori, coro e
orchestra, Napoli, Teatro del Fondo, 24 aprile 1816
Edipo a Colono
musiche incidentali (testo di G. Giusti da Sofocle) per basso,
coro maschile e orchestra, ante 1815?
La morte di Didone
cantata per soprano, coro e orchestra, Venezia, Teatro San
Benedetto, 2 maggio 1818
Omaggio umiliato a Sua Maestà dagli Artisti del Real Teatro
S. Carlo
cantata (testo di A. Niccolini) per soprano, coro e orchestra,
Napoli, Teatro San Carlo, 20 febbraio 1819
Cantata per Francesco I Imperatore d’Austria
(testo di G. Genoino) per soprano, due tenori, coro e orchestra,
Napoli, Teatro San Carlo, 9 maggio 1819
La riconoscenza
cantata pastorale (testo di G. Genoino) per soprano, contralto,
tenore, basso, coro e orchestra, Napoli, Teatro San Carlo, 27
dicembre 1821
Il pianto delle muse in morte di Lord Byron
canzone per tenore, coro e orchestra, Londra, Almack’s
Assembly Rooms, 11 giugno 1824
Cantata per il battesimo del figlio del banchiere Aguado
per 2 soprani, tenore, basso, coro e fiati, Parigi, Petit-Bourg,
16 luglio 1827
Cantata in onore del Sommo Pontefice Pio IX
(testo di G. Marchetti) per soli, coro e orchestra, Roma,
Palazzo Senatorio, 1º gennaio 1847
Hymne à Napoléon III et à son vaillant peuple
(testo di É. Pacini) per baritono, coro, orchestra e banda
militare, Parigi, Palais de l’Industrie, 1º luglio 1867
MUSICA VOCALE DA CAMERA

Circa 50 componimenti di varia natura, oltre a numerosi fogli


d’album, molti dei quali sul testo del Metastasio Mi lagnerò
tacendo. Vedi almeno:
Egle ed Irene («Non posso, oh Dio, resistere»)
cantata per soprano, contralto, pianoforte, 1814
Les Soirées musicales
12 brani a una o due voci con pianoforte, ca. 1830-35.
Giovanna d’Arco
cantata per soprano e pianoforte, 1832
MUSICA STRUMENTALE (GENERE, ORGANICO, DATA)

Oltre ad alcune decine di fogli d’album, circa 40 composizioni


per orchestra o da camera. Una scelta di base comprende:
6 Sonate a quattro
per 2 violini, violoncello e contrabbasso, 1808?
4 Sinfonie giovanili (1808-10)
Rendez-vous de chasse
fanfara per 4 corni da caccia e orchestra, 1828
La corona d’Italia
fanfara per banda militare, 1868
PÉCHÉS DE VIEILLESSE
Per la distribuzione originale rossiniana (che include anche
composizioni qui già citate, quali la cantata Giovanna d’Arco
o la Petite messe solennelle) vedi il catalogo a c. di Paolo
Fabbri, cit., coll. 486-490. Si riproduce qui la suddivisione
convenzionale in 14 volumi.
I voll. I, II, III e XI raccolgono soprattutto musica vocale con
accompagnamento di pianoforte; i voll. IV, V, VI, VII, VIII, X e XII
musica per pianoforte solo. Il vol. IX riunisce brani per vari
ensemble da camera o per pianoforte solo. Il vol. XIII è l’unico
datato (1857), prevede una dedica alla moglie Olympe e
include musica vocale con pianoforte; il vol. XIV comprende
musica vocale in varie formazioni, coro compreso, e musica
strumentale.
I Album italiano
II Album français
III Morceaux réservés
IV Quatre mendiants et quatre hors-d’oeuvres
V Album pour les enfants adolescents
VI Album pour les enfants dégourdis
VII Album de chaumière
VIII Album de château
IX Album pour piano, violon, violoncelle, harmonium et cor
X Miscellanée pour piano
XI Miscellanée de musique vocale
XII Quelques riens pour album
XIII Musique anodine
XIV Altri Péchés de vieillesse
Bibliografia
Avvertenza
La bibliografia rossiniana è assai vasta; si ricapitolano in
questa Avvertenza gli strumenti bibliografici e i testi di più
comune impiego, ripartiti per tipologie (fonti, edizioni,
manuali, biografie, saggi più specifici). Una più ampia
ricognizione della bibliografia disponibile, articolata per
argomenti e aggiornata alla data dell’ultima edizione, in
Denise P. Gallo, Gioachino Rossini. A Research and
Information Guide, Routledge, New York and London 20102.
Per i testi richiamati nel corso del libro, vedi oltre
(Bibliografia citata).
I documenti epistolari ed economico-professionali di base
sono raccolti nella serie Gioachino Rossini. Lettere e
documenti, Fondazione Rossini, Pesaro 1992 e sgg.; nelle
Lettere di G. Rossini raccolte per cura di G. Mazzatinti - F. e
G. Manis, G. Barbera, Firenze 1902 (rist. anastatica Forni,
Bologna 1975) e in Rossini nelle raccolte Piancastelli di Forlì,
a c. di Paolo Fabbri, Lim, Lucca 2001; quelli iconografici in
Rossini 1792-1992. Mostra storico-documentaria, a c. di
Mauro Bucarelli, Electa, Perugia 1992, in Rossini à Paris, a c.
di Jean-Marie Bruson, Société des Amis du Musée Carnavalet,
Paris 1992, e in Rossini sulla scena dell’Ottocento. Bozzetti e
figurini dalle collezioni italiane, a c. di Maria Ida Biggi e
Carla Ferraro, Fondazione Rossini, Pesaro 2000 («Iconografia
rossiniana», 2).
I testi impiegati nella produzione teatrale rossiniana sono
editi in Tutti i libretti di Rossini, a c. di Marco Beghelli e
Nicola Gallino, Utet, Torino 1995, qui edizione di riferimento;
i singoli libretti, le loro fonti in edizione anastatica e relativi
studi storico-filologici nella collana «I libretti di Rossini»,
Fondazione Rossini, Pesaro 1994 e sgg. (in corso). Edizioni
critiche delle musiche di Rossini sono pubblicate dalla
Fondazione Rossini di Pesaro (1979-) e più recentemente da
Bärenreiter (2007-). Si farà qui riferimento, in modo esplicito
o implicito, ai volumi attualmente disponibili di entrambe le
edizioni e ai relativi studi di corredo.
Il contesto storico in cui Rossini operò nel periodo italiano è
commentato in Carlo Capra, Gli italiani prima dell’Italia. Un
lungo Settecento, dalla fine della Controriforma a Napoleone,
Carocci, Roma 2014; sull’epoca successiva, anche con
occasionali riferimenti al melodramma, Lucio Villari, Bella e
perduta. L’Italia del Risorgimento, Laterza, Bari-Roma 2009.
Dal punto di vista strettamente musicale, il lettore che
necessiti di un avviamento all’opera può giovarsi del volume
di Gloria Staffieri, Un teatro tutto cantato. Introduzione
all’opera italiana, Carocci, Roma 2012; per una introduzione
più specifica su autore e periodo Daniele Carnini, «Gioachino
Rossini», in Il contributo italiano alla storia del pensiero.
Musica, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 2018,
pp. 399-407, combinato a Carnini, «L’età rossiniana prima di
Rossini», in Il contributo italiano alla storia del pensiero.
Musica, cit., pp. 394-398; e a Emanuele Senici, «L’opera
italiana nel primo Ottocento», in Musiche nella storia.
Dall’età di Dante alla Grande Guerra, a c. di Andrea Chegai,
Franco Piperno, Antonio Rostagno ed Emanuele Senici,
Carocci editore, Roma 2017 e ristampe successive, pp. 453-
493. La banca dati http://corago.unibo.it consente di esplorare
la produzione operistica e di identificare le fonti librettistiche;
su http://chronopera.free.fr il repertorio dell’Opéra di Parigi.
Le recensioni sulla stampa periodica dell’epoca sono
reperibili, per un certo numero di testate, tramite
http://www.artmus.it/public/.
L’inquadramento sistematico della produzione rossiniana è
offerto dal Dizionario rossiniano di Eduardo Rescigno,
Rizzoli, Milano 2002; per una introduzione manualistica
aggiornata e flessibile vedi The Cambridge Companion to
Rossini, a c. di Emanuele Senici, Cambridge University Press,
Cambridge 2004. Accurate biografie rossiniane con
considerazioni critiche sulle opere sono Richard Osborne,
Rossini. His Life and Works, Oxford University Press, Oxford
20072; Giovanni Carli Ballola, Rossini. L’uomo, la musica,
Bompiani, Milano 2009; e soprattutto il recente Paolo Fabbri,
Rossini. L’artista, l’uomo, il mito, Utet, Torino 2018. Per la
vita della Colbran, Sergio Ragni, Isabella Colbran. Isabella
Rossini, Zecchini, Varese 2012, 2 voll. Una lettura critica
complessiva su autore e periodo, articolata per concetti e
questioni storiografiche ma destinata anche al lettore non
specialista, in Arnold Jacobshagen, Gioachino Rossini und
Seine Zeit, Laaber Verlag, Laaber 2015.
Sulle modalità compositive rossiniane e sull’orchestra
dell’epoca Philip Gossett, «Compositional Methods», in The
Cambridge Companion, cit., pp. 68-84, e Renato Meucci, «La
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Ein Verzeichnis der Péchés de vieillesse, 15. Juli 1866», in LA
GAZZETTA, Zeitschrift der Deutschen Rossini Gesellschaft, 2021,
in corso di stampa.
L’Archivio Storico Ricordi di Milano

L’Archivio Storico Ricordi è lieto di contribuire a questo


volume con una selezione di immagini che offrono una
panoramica del ricco patrimonio documentale legato a
Gioachino Rossini e al suo rapporto con l’editore Ricordi.
Sono più di quaranta i titoli rossiniani presenti in Archivio,
rappresentati da partiture – autografe, manoscritte o a stampa
–, riduzioni canto e piano, libretti delle prime assolute, ritratti
dei primi interpreti, suggestive stampe delle scenografie di
Antonio Basoli di Bologna e dai figurini originali di Alfredo
Edel per il Guglielmo Tell nella riedizione scaligera del 1899.
L’Archivio, grazie al sostegno del gruppo tedesco
Bertelsmann che dal 1994 ne è proprietario, ha intrapreso negli
ultimi anni un lavoro di digitalizzazione delle sue raccolte e di
pubblicazione sulla Collezione Digitale online, liberamente
accessibile a studiosi e appassionati. Qui si possono trovare le
schede di partiture autografe fra cui La gazza ladra, L’italiana
in Algeri e La pietra del paragone accanto ad altre opere come
Il turco in Italia o L’inganno felice. Vi appaiono diversi ritratti
del compositore, a stampa o a china e le lettere indirizzate
all’editore Giovanni Ricordi, fondatore della omonima casa
musicale milanese, cui Rossini affida i suoi lavori, come il
Tantum Ergo, dichiarando che è «vestito della mia legale
Procura». Uno dei più celebri aneddoti nella storia della Casa
Ricordi riguarda proprio la quota di diritti d’autore che Tito I
accompagnato da un giovane Giulio – rispettivamente figlio e
nipote di Giovanni– consegna personalmente a Rossini nella
sua casa di Parigi.
www.archivioricordi.com
© Giovanna Silva

L’Archivio Ricordi
è una cattedrale della musica,
un’opera unica al mondo.
LUCIANO BERIO
La gazza ladra

Adriatic Arena, Pesaro 2007; regia di Damiano Michieletto


© Rossini Opera Festival

La scala di seta

Teatro Rossini, Pesaro 2009; regia di Damiano Michieletto


© Rossini Opera Festival

Le Comte Ory
Juan Diego Floréz (Le Comte Ory) e Stéphane Degout (Raimbaud)
Metropolitan Opera, New York 2011; regia di Bartlett Sher
© Marty Sohl/Metropolitan Opera

Moïse et Pharaon

Adriatic Arena, Pesaro 2011; regia di Graham Vick


© Rossini Opera Festival

Otello
Cecilia Bartoli (Desdemona) e Liliana Nikiteanu (Emilia)
Opern Haus, Zurigo 2012; regia di Moshe Leiser e Patrice Caurier
© Hans Joerg Michel

Guillaume Tell

Al centro Nicola Alaimo (Guillaume Tell) e Amanda Forsythe (Jemmy)


Adriatic Arena, Pesaro 2013; regia di Graham Vick
© Rossini Opera Festival

La Cenerentola
Teatro dell’Opera, Roma 2016; regia di Emma Dante
© Yasuko Kageyama/Teatro dell’Opera

Il barbiere di Siviglia

Alessandro Corbelli (Bartolo) e Andrzej Filonczyk (Figaro)


Teatro dell’Opera, Roma 2020-21; regia di Mario Martone
© Yasuko Kageyama/Teatro dell’Opera

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