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TELVE - La Canzone Italiana Sul Palcoscenico (2019)

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LA LINGUA ITALIANA NEL MONDO


Nuova serie e-book
Nuova serie e-book
Frontespizo

L’italiano
sul palcoscenico
a cura di
Nicola De Blasi e Pietro Trifone
L’ebook è molto di +
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© 2019 Accademia della Crusca, Firenze – goWare, Firenze

ISBN 978-88-3363-269-8

LA LINGUA ITALIANA NEL MONDO. Nuova serie e-book

Nessuna parte del libro può essere riprodotta in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza l’autorizzazione dei
proprietari dei diritti e dell’editore.

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Cura editoriale: Dalila Bachis


In copertina: Ricostruzione fisica, in studio, del quadro di Magritte “Les memoires d’un saint”, tramite carta
fotografica con immagini esclusivamente fotografate ed elaborate in proprio da Marco Ferrari
MarcoArtFerrari.it
Premessa

Gli studi riuniti in questo libro danno conto del nesso tra gli usi linguistici degli autori di
testi per la scena e la particolare situazione comunicativa che si realizza in diversi generi
dello spettacolo, dalla commedia alla tragedia, dall’opera lirica fino alla canzone. Nella
comunicazione scenica, infatti, diversamente da quanto accade nella scrittura letteraria,
l’italiano entra direttamente in contatto con il pubblico attraverso la voce: in questo mo-
do la lingua della tradizione da un lato raggiunge gli ascoltatori attraverso l’oralità, nella
recitazione e nel canto degli interpreti, dall’altro si apre alla realtà linguistica quotidiana,
che sale sulla ribalta, sia pure in forme a volte stilizzate, con il plurilinguismo dei dialetti
e con i registri colloquiali dell’italiano.
I diversi saggi, relativi a epoche diverse, dal Cinquecento al presente, permettono di
seguire le linee della nostra storia linguistica considerata dal punto di vista del palcosce-
nico, attraverso indagini a più dimensioni, attente agli incroci tra lingua scritta, lingua
parlata e lingua del teatro (anche in musica). Una speciale attenzione è stata rivolta agli
aspetti non verbali della comunicazione scenica, come l’intonazione, la mimica e la
gestualità, ricavabili dalle indicazioni offerte dagli stessi autori nelle didascalie e, per le
messinscene più recenti, dalle riproduzioni audiovisive.
Senza trascurare né i grandi capolavori teatrali del passato, come quelli di Niccolò
Machiavelli, Angelo Beolco Ruzante e Carlo Goldoni, né il prestigio plurisecolare
dell’italiano come lingua della musica e del canto, il volume mira a mettere in evidenza
la perdurante vitalità dei palcoscenici nel Novecento e nel Duemila, non solo grazie
ai contributi su Lugi Pirandello, Eduardo De Filippo e Dario Fo, ma anche attraverso
riferimenti ad altri drammaturghi e artisti contemporanei. Uno spazio di rilievo, nell’e-
conomia complessiva dell’opera, è stato attribuito al fenomeno della canzone italiana
popolare e d’autore, che ha goduto tradizionalmente di grande fortuna anche all’este-
ro, e continua a registrare notevoli exploit internazionali.
In un quadro così articolato, il saggio sulla tragedia intende dare rappresentanza a
un genere teatrale storicamente significativo e, insieme, favorire la revisione di un’idea
del testo tragico come prodotto sempre e soltanto libresco: perfino il più letterato dei
letterati, Scipione Maffei, si è dovuto inchinare alle esigenze degli attori e del pubblico,
pagando senza troppo entusiasmo un tributo alle dinamiche dello spettacolo. In chiu-
sura del volume, la rassegna di tecnicismi teatrali entrati nella lingua comune con valori
estensivi e figurati testimonia il forte richiamo esercitato dal palcoscenico e dalla sua
terminologia nella società e nella cultura del nostro paese.

Nicola De Blasi e Pietro Trifone

5
La canzone italiana sul palcoscenico:
identità locale e riuso globale
Stefano Telve

La relazione tra i temi annunciati nel titolo può essere riconosciuta, in trasparenza,
nell’incipit di un piacevolissimo saggio sull’opera e sulla musica italiane scritto dallo
storico e giornalista John Rosselli e intitolato Sull’ali dorate:
Talvolta mi capita di cantare camminando per strada. Vent’anni fa i miei figli inglesi si vergo-
gnavano di ciò più che di qualsiasi altra stranezza a cui possono giungere i genitori. «Papà,
non cantare!» sussurravano. Io sono quasi italiano − spiegavo − e gli italiani cantano per
strada. Proprio mentre mi scusavo di questo modo però, tutto ciò non era più vero1.

Tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 del secolo scorso il canto spontaneo, in
pubblico, non era più una pratica diffusa. Lo era stato però per molto tempo: duecento
anni prima, nel 1774, ricorda ancora Rosselli, il musicologo Antonio Eximeno scriveva
che «non vi è angolo d’Europa così rimoto, ove non si trovi qualche musico o sonatore
italiano; essi sono arrivati a’ tempi nostri sino all’India orientale». In sostanza, «la
musica italiana», intendendo con questo la musica d’arte, non quella folklorico-po-
polare, «trascendeva l’Italia»2, e trovava consensi e apprezzamenti anche grazie alla
lingua: «Il successo dell’opera italiana nel mondo», è stato osservato di recente, «si
deve soprattutto alla sua circolazione nella lingua originale»3. In tempi più vicini a noi,
«ciò che mezzo mondo ritiene essere la musica italiana» è di fatto la canzone napole-
tana: un’espressione artistica che, come sottolinea ancora Rosselli, non è propriamente
musica popolare4.
In tal senso è emblematico uno dei ricordi personali di colui che, in un cruciale
momento storico – siamo tra Otto e Novecento −, è stato della canzone non solo testi-
mone ma anche colto protagonista: Salvatore Di Giacomo. Il grande poeta e dramma-
turgo napoletano, figlio di un medico e di una musicista, testimonia come sia stata pro-
prio l’abitudine di cantare dei suoi conterranei a consentirgli di conoscere le canzoni
napoletane e come, attraverso queste, a ritroso di generazione in generazione, si potesse
risalire fino alle ariette del Settecento:

1
Rosselli 1992: 13.
2
Ivi: 18.
3
Coletti 2017: 22.
4
Cfr. Rosselli 1992: 131 (da cui si cita a testo) e seguenti.

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La canzone italiana sul palcoscenico: identità locale e riuso globale

[la loro] festevole e tenera eco giunse al nostro secolo decimonono e lungamente, fin oltre
la sua seconda metà, vi si ripetette nell’opera di poeti semplici e miti, a’ quali piacque di
contemplar le persone e le cose come in un riflesso della loro pacifica bontà. Così, di questa
produzione bonaria, furon le nostre mamme quelle che ci canticchiarono i ritmi innocenti.
E per la prima volta, e per non dimenticarle mai più, noi, muti e intenti, udimmo le canzoni
di Graziella, di Fenesta ca lucive e di Te voglio bene assaie5.

La canzone napoletana nasce infatti all’incrocio di «quattro prassi musicali diver-


se: l’opera, la romanza da salotto, la musica folklorica, la popular music»6; e a questi
natali socialmente e culturalmente compositi e sincretici la canzone napoletana deve
la sua identità e la sua capacità di autorigenerarsi al contatto con nuovi stimoli senza
snaturarsi7.
Musicisti di strada, posteggiatori e ambulanti diffondono melodie, canto e copielle8
delle canzoni di successo per le strade e nelle piazze non solo a Napoli e in Italia ma, a
seguito del fenomeno migratorio, anche in Europa e Oltreoceano. Accanto a costoro si
trovano affiancati, in attiva compartecipazione e in sostanziale continuità d’interesse e
d’ispirazione, professionisti della musica, del canto e della parola, come appunto Salva-
tore Di Giacomo (secondo il quale «Il popolo non c’entra: il popolo non crea, prende;
e talvolta certi maestri son popolo, per così dire»)9 e Raffaele Sacco, a cui si deve il testo
della citata Te voglio bene assaie, canzone che, essendo forse il primo componimento a
partecipare nel 1839 ad una gara canora pubblica per la festa di Piedigrotta, è da molti
ritenuto l’atto di nascita della canzone d’autore10.
E ancora a professionisti del settore si deve la rapida notorietà mondiale di queste
canzoni all’estero, diffusa presso ambienti colti da musicisti, interpreti e composito-
ri come Francesco Paolo Tosti, Luigi Denza, Mario Costa e cantanti-attori teatrali
come Farfariello e Gilda Mignonette, che agendo in contesti culturali stranieri trae-
vano fermenti artistici e creativi locali reimmettendoli nella propria arte11. Non è un
caso che, sessant’anni dopo Te voglio bene assaie, la canzone che chiuderà il secolo
divenendo poi la più nota canzone italiana al mondo è ’O sole mio (1898), brano che
assorbe in sé l’habanera, uno dei ritmi esotici, insieme a fox-trot, shimmy, maxixe, rag,
che Napoli seppe accogliere dall’estero, rielaborare in chiave partenopea e riespor-
tare nel mondo12. Ma il 1898 è anche l’anno di un’altra delle più antiche hit italiane

5
Cit. in De Blasi 1999: 487.
6
Privitera 2011: 10.
7
Cfr. Scialò 2008: XVII.
8
Cioè fogli volanti, quasi sempre illustrati, con il testo e la musica di una canzone – a volte trascritta
con una notazione non musicale ma numerica per consentire l’esecuzione anche a chi non sapesse
leggere le note − stampati dalle case editrici e messi sul mercato a poco prezzo o gratuitamente (cfr.
Del Prete 2013: 161-162).
9
Cit. in Scialò 2017: 55.
10
Cfr. Scialò 2008: XIII-XVII (per alcune ipotesi sulla nascita della canzone).
11
Cfr. ivi: XXIII e XXIV.
12
Cfr. Frasca 2014: 8.

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Stefano Telve

internazionali, Ciribiribin, scritta in piemontese da Carlo Tiochet e poi tradotta in


italiano e in altre lingue; una canzone che gli americani arriveranno persino «a rie-
sportarci in versione swing»13.
Da questa vocazione ricettiva e itinerante della canzone in sé e specie della can-
zone napoletana nasce, pochi anni dopo, nel 1911, Core ’ngrato (musica di Salvatore
Cardillo e testo di Riccardo Cordiferro), primo brano in dialetto composto non a
Napoli ma nel Nuovo Continente e soprattutto modello esemplare di ibridizzazione
della canzone napoletana con il blues e, insieme, emblema dell’italianità ‘portatile’
o ‘esportabile’, circolante fuori dai confini italiani a livello mondiale14: segno che la
cultura dell’emigrazione italiana aveva ormai ben avviato, all’estero, quel lavoro di
manipolazione, riuso, ibridizzazione e reinterpretazione di una delle più significative
e universalmente riconosciute eredità culturali della tradizione italiana, la musica,
accelerandone la circolazione transnazionale e aumentandone dunque la potenziali-
tà espressiva anche a beneficio, come vedremo, dell’originario genio creativo locale;
cosa che ha contribuito, infine, alla definizione di un’immagine chiara, sia pure nei
suoi limiti, di italianità.
Da questo punto di vista, la musica, fenomeno sociale e pubblico, è stato uno dei
più importanti palcoscenici sui quali far convergere e unificare le pluralità culturali
originarie e dare da subito forma, già nel corso dell’Ottocento, prima ancora che a una
lingua, a un linguaggio con valore finalmente identitario, da offrire a sé stessi e al mon-
do15. È stato d’altronde già osservato, con arguto parallelismo, che «nel periodo in cui
Metternich la definiva “un’espressione geografica” [...] l’Italia era già “un’espressione
musicale”»16: merito di musicisti e cantanti, di strada o professionisti, che nel corso dei
secoli, specie in epoca moderna, hanno contribuito insieme ad altre figure “itineranti”
alla diffusione della lingua e della cultura italiana in Italia e nel mondo17.
La naturale predisposizione all’ibridizzazione e la bidirezionalità dello scambio
(flusso e riflusso, dalla patria all’estero e ritorno) sono i due fattori sui quali è bene
soffermarsi, mettendo in evidenza l’evoluzione della canzone anche in relazione al rap-
porto tra italiano e dialetto.
Com’è stato già accennato, l’identità della canzone napoletana risiede anche nella
sua capacità di declinarsi in forme e riusi locali; cosa che ne garantisce l’espansione, la
circolazione a livello globale e il continuo rinnovamento. Ma il passaggio definitivo da
genere popolare a genere di consumo e alla stabilizzazione del tipo, o anche stereotipo,
musicale italiano all’estero, si deve a fattori esterni alla canzone in sé, vale a dire, sul
finire del secolo, alla rapida evoluzione del mercato editoriale musicale e alle nuove

13
Borgna 2007: 133.
14
Cfr. Sciorra 2016: 115-116.
15
Accanto a questo, si può ricordare anche «il ruolo linguisticamente socializzante della stampa
‘etnica’», in cui si riscontrava un uso riflesso del dialetto e dell’ibridismo: cfr. Pierno 2011: 70 (da
cui si cita) e 93-94.
16
Cfr. Tomatis 2019: 30, che cita da Sorce Keller 2014: 19.
17
Sulle figure “itineranti” (predicatori, attori, mercanti, viaggiatori) cfr. Trifone 2017: spec. 128-129.

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La canzone italiana sul palcoscenico: identità locale e riuso globale

tecnologie di diffusione sonora (radio, disco 78 giri). Fattori che aumenteranno espo-
nenzialmente il potenziale ‘esportabile’ e ‘reimportabile’ della canzone napoletana e
italiana18.
La forma-tipo della canzone subisce una prima trasformazione, nel corso dell’Ot-
tocento, per effetto dell’editoria musicale, anch’essa per riflesso di una certa stratigrafia
sociale della musica. La pratica della diffusione di fogli volanti e copielle diventa in bre-
ve tempo, a Napoli, un vero e proprio fenomeno di mercato, diffusissimo in loco (per
via della presenza di pubblicità e sponsor)19 ma «rivolto principalmente ai turisti stra-
nieri»20, affinché possano tornare in patria (da Napoli, ma anche da Venezia) portando
con sé souvenir musicali che tengano materialmente traccia del testo e semmai della
musica; una musica che peraltro il turista rientrato nel proprio Paese avrebbe potuto
riascoltare occasionalmente nelle strade e nelle piazze della propria città, europea o
d’oltreoceano, propagata dai suonatori di organetti. A questo stesso pubblico, locale
e forestiero, sono rivolte anche le prime raccolte di canzonette curate da Guglielmo
Cottrau nei Passatempi musicali (1824), «destinati principalmente ai turisti ma com-
mercializzati, anche attraverso una rete familiare degli stessi Cottrau, presso il pubblico
francese»21, e nelle successive 25 Nuove Canzoncine Nazionali Napoletane formanti se-
guito alla raccolta intitolata Passatempi musicali, 2ª parte (1843), dov’è contenuta, pe-
raltro, la seconda delle canzoni ricordate nella precedente citazione di Di Giacomo,
Fenesta che lucive, che avrà enorme fortuna nel corso del secolo e in quello successivo.
Con la pratica diffusa del foglio volante e con l’ingresso dell’editoria, la canzone
comincia a riconfigurarsi nella musica e nel testo: da una stesura polistrofica e narrativa
dettata dalla tradizione orale si tende verso una misura più breve, composta da strofe
e ritornello, mentre il vocabolario dialettale, solitamente elementare e comune, va ce-
dendo a un registro «più lirico e di maggiore invenzione». Sarà grazie a questo «uso
poetico del dialetto [...] che si avrà un diverso statuto linguistico, elemento decisivo per
la nascita della canzone d’autore. Grazie a ciò si diffonderà quella poesia melodica di-
giacomiana modellata adeguatamente per accogliere l’intervento del compositore»22.
Un’operazione, quella di Di Giacomo, che non mancò di sollevare polemiche, specie
presso i membri dell’Accademia dei Filopatridi, per aver finito con l’«imbastardire il
dialetto in un ibrido miscuglio tosco-partenopeo»23. L’italiano stava guadagnando ef-
fettivamente nuovo terreno.
Qualche anno più tardi, sul finire degli anni Venti, con il rilancio del genere teatrale
della macchietta per opera del “binomio” napoletano Pisano e Cioffi, vengono messe in
scena canzoni che prevedono, accanto al dialetto, l’uso dell’italiano. In Mazza Pezza e
Pizzo... (1936), capolavoro della canzone comica napoletana, «l’italiano è addirittura

18
Cfr. Frasca 2008.
19
Cfr. Del Prete 2013: 161-162.
20
Auletta 2013: 49.
21
Ivi: 43 n.1.
22
Scialò 2008: XVIII (da qui anche la precedente citazione a testo).
23
Costagliola 1967: 220 cit. in Scialò 2017: 94.

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Stefano Telve

la lingua principale, e il dialetto prende il suo spazio solo nei ritornelli, cioè dove il nar-
ratore parla in prima persona e l’autocontrollo necessario al racconto lascia spazio allo
sfogo emotivo»24. Di questa reinterpretazione della macchietta in chiave più sobria è
protagonista anche il napoletano Michele Testa (Armando Gill), che tra le altre cose
è anche noto come autore del testo e della musica di Come pioveva (1918), considerata
la prima canzone mediatica, letteralmente lanciata sul mercato25. Il brano è tutto in
italiano e risente evidentemente, nei temi e nella lingua, del modello melodrammatico
ottocentesco:
[...] Così quando al suo portone
un sorriso mi abbozzò,
nei begli occhi di passione
una lacrima spuntò.
Io non l’ho più riveduta,
se è felice chi lo sa!
Ma se è ricca, o se è perduta,
ella ognor rimpiangerà [...]

Con il passare dei decenni e la svolta del secolo, l’italiano estende dunque il proprio
raggio d’azione, anche se prima di allora il dialetto non aveva rappresentato, di per sé,
un ostacolo alla diffusione della canzone. Achille de Lauzières, giornalista e critico mu-
sicale napoletano d’origine francese, scrisse anzi nel 1882: «queste stupende canzoni
napoletane devono essere proprio belle e coinvolgenti in quanto melodie, giacché sono
apprezzate anche da coloro che, non comprendendo il dialetto della città delle sirene,
non possono afferrare il senso delle parole»26.
Eppure una questione linguistica si era posta già a metà secolo, perlomeno a livello
editoriale: lo stesso de Lauzières, oltre che librettista in proprio per diversi musicisti, fu
infatti anche traduttore molto attivo non solo nell’ambito della musica operistica (si
ricordi, su tutti, il Don Carlos di Verdi), ma anche in quello della musica napoletana,
avendo allestito per Ricordi, già nel 1853, una traduzione ritmica in italiano di varie rac-
colte di canzoni in dialetto27. Questione linguistica dettata però da ragioni commercia-
li, perché, come dichiarato in apertura, l’aggiunta della «fedele interpretazione italiana
dell’autore delle ballate napoletane signor A. De Lauzières» ha lo scopo di «facilitare
agli stranieri le espressioni da dare a questi canti»28.
Per incontrare un più largo pubblico, la canzone mira dunque ad uscire dalla nic-
chia locale e si espone a un’evoluzione musicale e a un raffinamento letterario, con più
ampie possibilità, come abbiamo visto, per il canto in lingua. Sono segnali importanti
di una direzione tracciata che nel corso dei decenni successivi trova notevoli sviluppi

24
Privitera 2008: 265.
25
Cfr. Liperi 2009: 98.
26
Cit. in Cottrau 2010: 142-143.
27
Cfr. Plenizio 2013: 25.
28
Cit. in Scialò 2017: 69.

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La canzone italiana sul palcoscenico: identità locale e riuso globale

anche e soprattutto nei rapporti con l’estero, dove l’immagine dell’immigrato italiano
è gravata da giudizi e pregiudizi spesso negativi29.
Le arti performative legate alla musica (canto, musica, teatro musicale) divengono
infatti per gli emigrati italiani uno dei mezzi privilegiati attraverso i quali costruire un
simbolo identitario e comunitario positivo e tentare un riscatto socio-economico. Una
delle più significative incarnazioni di questo simbolo e di questa aspirazione è stato
Enrico Caruso, che rappresenta il primo vero fenomeno di divismo musicale dell’era
discografica. Il grande tenore napoletano è universalmente riconosciuto come vera e
propria ‘stella’ del canto non solo grazie all’acclamata interpretazione del Rigoletto sul
palcoscenico del Metropolitan Opera di New York (23 novembre 1903), così come di
molte altre opere, ma anche grazie all’ingresso nel neonato mercato discografico della
sua voce, che si presta bene a brani operistici quanto alle canzoni vere e proprie, anche
contemporanee: per l’etichetta Victor Talking Machine Caruso incide negli studi della
Victor a New York e in quelli di Camden nel New Jersey nel 1909, per la prima volta,
una melodia napoletana, Mamma mia che vò sapè di Ferdinando Russo e Emanuele
Nutile, continuando negli anni successivi con altri brani napoletani recentissimi (Can-
ta pe’ me nel 1911, Maria Marì nel 1918, ’A vucchella nel 1919), tra i quali i citati Core
’ngrato (1911) e ’O sole mio (1916)30.
Sono gli anni in cui Piedigrotta si trasferisce, per così dire, nel nuovo continente,
con i suoi cantanti e con i suoi “animali da palcoscenico”. Così scriveva il periodico «La
Follia di New York» il 4 settembre 1910:
Avremo, dunque, anche in America la caratteristica festa di Piedigrotta. Essa avrà luogo nei
giorni 7 e 8 settembre all’Harlem River Park, che è alle 126 strade e Seconda Ave., col con-
corso di canzoni napoletane, per le quali sono stati fissati tre premii [...] I migliori canzonet-
tisti della colonia, primo fra tutti il popolarissimo Farfariello, prenderanno parte alla festa.
E non aggiungiamo altro31.

Alla diffusione della canzone e alla definizione dell’identità dell’italiano contri-


buì notevolmente anche il teatro di Farfariello (Eduardo Migliaccio, 1882-1946), che
rappresenta forse «the most delightful example of the complicated play of immigrant
language occurred in the Italian theaters in the Lower East Side of New York City and
in Boston»32.
Nelle sue canzoni e scenette comiche, Farfariello, sviluppando la produzione mac-
chiettista interpretata a Napoli da Nicola Maldacea in una nuova versione di teatro mu-
sicale da camera denominata “macchietta coloniale”, si presenta al pubblico variamente
travestito (da cafone, da sposa, da zampognaro e anche da Enrico Caruso, indossando
una maschera da lui stesso creata)33 e fa perno sul particolare idioma dell’immigrato e sui

29
Cfr. ad es. Zucchi 1992.
30
Cfr. Frasca 2010: 31-41.
31
Ivi: 26.
32
Blewett 2011: 93.
33
Cfr. Scialò 2017: 197.

144
Stefano Telve

fraintendimenti verbali per manifestare tensioni e disagi etnici e sociali e, in fin dei conti,
l’irriducibile resistenza dell’immigrato ad abbandonare il proprio dialetto e ad integrarsi
nel nuovo tessuto sociale, come bene testimonia ad esempio ’A lengua ’taliana34:
Sono trent’anne e cchiu ca so’ arrivato
Direttamente qua dal mio paese,
Anze trent’uno e nun m’aggio mparato
Ancora a di’ meza parola ngrese
Bicose mi no laiche lengue store
Ca nu so’ taliane dezze uaie
Io rimarraggio qua fino a la morte
Ma na parola nun m’amparo maie [...]35

Col passare del tempo l’immagine dell’italiano non cambia di molto ma, come
già in Farfariello, comincia ad essere guardata attraverso la lente nuova, distanziante e
sdrammatizzante, dell’ironia. Dialetto e italiano, che avevano convissuto fianco a fian-
co durante l’Ottocento e all’inizio del secolo successivo (in un sostanziale bilinguismo
della canzone), cominciano a sovrapporsi e a mescolarsi, spesso scherzosamente, per
caratterizzare in particolare la figura del “dago” nelle canzoni interpretate dai crooners,
dove ad essere mescolata non è solo la lingua ma anche la musica, naturalmente, insie-
me ad altre importanti componenti culturali-identitarie, come ad esempio le abitudini
alimentari (si vedano ad esempio Mambo italiano, Angelina, That’s amore)36. Altrettan-
to farà ad esempio, anni dopo, Enrico Carosone che, rientrato in Italia sul finire degli
anni Quaranta, dopo dieci anni passati in Eritrea a contatto con la musica americana
portata dalle truppe alleate, comprese «che si poteva rinnovare la canzone napoletana,
anzi italiana, sposandola ai ritmi che arrivavano dall’America»: fu così che in brani
come ’A casciaforte, Scalinatella, ’E spingule francese sono riconoscibili elementi del boo-
gie-woogie e del fox-trot, ma innestati nella tradizione della macchietta, con esecuzioni
teatralizzate37. Una generazione dopo, ancora a Carosone si richiamerà Pino Daniele,
ricordandolo come colui che «ci ha insegnato come restare napoletani pur facendo
gli americani, gli africani e gli orientali e i latini... Lui è il papà della moderna canzone
napoletana, contaminata, fiera delle sue radici ma anche aperta ai suoni del mondo»38.
Una contaminazione all’insegna della quale si muovono ad esempio orgogliosamente,
in tempi più vicini a noi, gli Almamegretta39.
Ai tempi di Carosone stanno però cambiando alcuni riferimenti essenziali: la versione
americana di ’O sole mio cantata da Elvis Presley rappresenta «un modello interpretati-

34
Cfr. Bertellini 2001: 531 e Carnevale 2009: 122.
35
In Bertellini 2001: 531; cfr. anche Scialò 2017: 194-195 e Haller 2011: 733-734.
36
Cfr. Prato 2016: 188-189. Può essere utile ricordare qui i paradigmi di parallelismo, discontinuità
e slittamento proprie delle tre fasi linguistiche dell’emigrazione (1880-1920, 1920-1945, 1946-1976):
cfr. Vedovelli 2011: 37-106.
37
Cfr. Scuderi 2010: 622-623.
38
Giannelli 2008: 137 cit. in Scuderi 2010: 632.
39
Cfr. Fuchs 2018.

145
La canzone italiana sul palcoscenico: identità locale e riuso globale

vo (per testo, stile vocale, arrangiamento, aggiunta del coro) almeno quanto Caruso lo è
stato per i tenori lirici. Così, Presley ha influenzato a sua volta Martin e Mc Cartney, e a
distanza di anni ha contaminato una versione come quella di Arbore (con il ritmo da bos-
sanova, il sassofono e il testo inglese) creando un duplice percorso che, partito da Napoli,
torna indietro e tratta questo materiale come una musica americana di importazione di
cui si può fare il verso, scimmiottando anche allo stile vocale del mitico Elvis»40.
È questo un esempio dell’importanza tanto dei flussi quanto dei riflussi o rientri,
che generano forme di ibridismo che ritroviamo, sia pure con altri esiti, anche in Su-
damerica. Qui, soprattutto in Brasile, Venezuela, Argentina, e poi anche in Canada, si
afferma, parallelamente a Farfariello, Gilda Mignonette (1886-1953), che offre modelli
socioculturali (e linguistici) in cui gli emigrati possono facilmente riconoscersi attra-
verso canzoni di grande successo in dialetto (A cartulina ’e Napule 1927, Ll’estero 1929,
L’emigrante chiagne 1931 e altre) e in italiano (Argentina)41. Anche in questo caso il
successo viaggia sulla spinta del mercato discografico: oltre a quattro canzoni incise per
la Phonotype Record «che sono il breve resoconto della vita emigratoria: Partenza da
Napoli, La dura traversata, Rimpatrio dei napoletani e Il festoso ritorno», negli anni ’20-
’30 le «incisioni dei più bei Canti degli Emigranti interpretate da Gilda Mignonette
sono state [...] vere e proprie hits intemazionali»42.
In Argentina la canzone napoletana si creolizza invece nella forma del tango canción
e del sainete, eseguiti in spettacoli che raffigurano musicisti italiani perlopiù napoletani
alle prese con le difficoltà di interrelazione e di identità rispetto alla società ospitante
(Conservatorio La Armonia 1917, El Bandoneón di Josè Antonio Saldías, del 1926)43. A
metà del secolo scorso, il re del samba, intrattenitore radiofonico e caratterista Ado-
niran Barbosa (Giovanni Rubinato, 1910-1982, originario di Caverzere) − divenuto
noto soprattutto con Trem das onze (Il treno delle undici, 1964), tradotta in Italia da
Riccardo del Turco nel 1966 e interpretata da lui stesso, da Mina e da altri − «con il
suo portoghese maccheronico seppe recuperare sotto una nuova veste ritmica e lin-
guistica brani del repertorio italiano e classico napoletano come Dicitencello vuie, tra
i più suonati alla radio già nei primi decenni del Novecento»44. In questo caso, il suo
eloquio incerto non comporta stigma sociale o ironia dissacrante, ma è tutt’al più una
componente caratterizzante di un umorismo leggero, come in Samba italiano, a metà
tra samba, canzone napoletana e opera45:
Gioconda, piccina mia,
va brincare en el mare en el fondo,
mas atencione co il tubarone, ouvisto?
Hai capito meu San Benedito? (parlato)

40
Conti 2008: 346.
41
Cfr. Scialò 2008: 18 e Sapienza 2013: 212.
42
Hernandez 2004: 54; cfr. anche Franzina 2005: 225.
43
Cfr. Cara 2016.
44
Frasca 2014: 13.
45
Cfr. Grosch e Kailuwait 2015: 191-192.

146
Stefano Telve

Piove, piove
Fa tempo que piove qua, Gigi
E io, sempre io
Sotto la tua finestra
E vuoi senza me sentire
Ridere, ridere, ridere
Di questo infelice qui.
Ti ricordi Gioconda
De quella sera in Guarujá
Quando il mare te portava via
E me chiamaste
Aiuto, Marcello!
La tua Gioconda ha paura di quest’onda.
Dicitencello vuie, como ha detto Michelangelo.

Le componenti caratteristiche del canto operistico e della canzone in napoletano e


in italiano (nel brano riportato rappresentate rispettivamente dal richiamo a O buon
Marcello, aiuto della Bohème di Puccini, da Dicitencello vuie e dal riferimento a Piove, di
Modugno) ritornano qualche decennio dopo in Zizi Possi, cantante brasiliana di origini
italiane (Lucca e Napoli) che, dopo vari album in brasiliano, ne pubblica due dedicati alla
canzone italiana, Per amore (1997) e Passione (1998). La prima raccolta abbraccia un arco
cronologico molto esteso, in cui il dialetto di canzoni più lontane nel tempo cede il passo
all’italiano di brani più recenti (da ’A vucchella di Tosti, a Lacreme napuletane di Libero
Bovio e Dicitencello vuie di Fusco, a Torero di Carosone, Senza fine di Gino Paoli, Caruso
di Lucio Dalla, Pace e serenità di Pino Daniele, fino alla più recente Per amore di Mariella
Nava); la seconda affianca altri classici napoletani (Passione, Chella llà, Io, màmmete e tu,
Torna a Surriento, Malafemmena, Core ’ngrato) a brani italiani anche recenti (Io che amo
solo te di Sergio Endrigo, Grande, grande, grande di Tony Renis e il Canto della Buranella,
di Andrea Zanzotto e Nino Rota, scritto per Il Casanova di Federico Fellini).
Nel canto, la differenza tra italiano e napoletano si assottiglia: ciò che vale per Zizi
Possi («Cantar em italiano/napolitano é pra mim mais ou menos como fazer vibrar
todo meu corpo, minha emoção e minha memória»)46, vale nel teatro argentino cre-
olizzato citato in precedenza, a proposito del quale, è interessante «la sineddoche che
si stabilisce tra gli aggettivi napoletano e italiano. Ciò lascia intendere che l’italiano in
quanto tale è un ideale astratto fuori dai confini nazionali ancora per buona parte del
XX secolo e che le specificità italiane sono a lungo sedimenti culturali regionali»47.
Concludiamo. È stato osservato che i primi esperimenti dialettali nella canzone
moderna in Italia si hanno a Napoli a partire dagli anni ’40, con la Tammuriata nera
(di E. Nicolardi e E. A. Mario, 1944) e poi con Tu vuo’ fa’ l’americano (di Renato Caro-
sone, 1956)48. Entrambi gli esempi sono, a ben vedere, espressione artistica di situazioni

46
http://www2.uol.com.br/zizipossi/.
47
Frasca s.d.
48
Cfr. Aime e Visconti 2014: 62-66.

147
La canzone italiana sul palcoscenico: identità locale e riuso globale

di vita socioculturalmente e linguisticamente ibride: la Tammurriata nera è ambienta-


ta nel periodo dello sbarco degli americani alleati all’epoca della Liberazione, quando
Napoli entra in contatto con la cultura americana e nuove etnie, nuovi balli, nuove
parole e nuovi ritmi si mescolano a quelli locali. In Tu vuo’ fa’ l’americano, brano dalle
basi swing, jazz e rock ’n roll, il dialetto consente a Carosone «di sfogare la sua ironia,
il ghigno beffardo e benevolo che la lingua italiana semplicemente non può dare, nata
seria dai libri e non educata per strada per saper resistere alla vita»49. Si tratta di stili, at-
teggiamenti e usi linguistici che preludono a quanto avverrà a partire con il movimento
hip-hop dagli anni ’90, in cui il dialetto, oltre che per il suo potenziale espressivo, viene
usato per il suo intrinseco portato socio-culturale identitario: un portato che, come
abbiamo visto, trova segnali anticipatori già nella canzone fuori d’Italia50.
Sembrerebbe insomma che la canzone italiana in dialetto napoletano e in lingua
(soprattutto nella veste operistica, integrale o commercialmente stralciata, e nelle sue
declinazioni neomelodiche più recenti) abbia trovato all’estero, prima ancora che
in patria, grazie anche alla predisposizione al contatto e all’ibridizzazione, il terreno
adatto per la costruzione di un’immagine nazionale e identitaria dell’Italia, foss’anche
sommaria e stereotipata, ma piuttosto chiaramente definita51. Un’immagine che ancora
oggi, a distanza di diversi decenni, non pare essere poi mutata di molto.

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Costagliola 1967 = Costagliola, Aniello, Napoli che se ne va, Napoli, Berisio.

49
Cfr. ivi: 66.
50
Cfr. Coveri 2012 e Sottile 2013.
51
Cfr. Conversi 2018 e Sorce Keller 2016.

148
Stefano Telve

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La canzone italiana sul palcoscenico: identità locale e riuso globale

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