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Pirandello e La Mitologia

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PIRANDELLO E LA MITOLOGIA TRA ANTICO E MODERNO

1. «IL TIPICO FIGLIO DELLA MAGNA GRECIA»

Con queste parole, Margherita G. Sarfatti ne L’amore, unica evasione, «Almanacco Letterario
Bompiani» del 1938, definiva l’autore siciliano Luigi Pirandello, nato ad Agrigento, l’antica città di
Akragas (Ἀκράγας) fondata nel 581 a.C. da un gruppo di coloni greci, e cresciuto nel paesaggio del
“Cavusu”, affacciato su Porto Empedocle, vicino alle rovine della Valle dei Templi.1 Risalgono
all’estate del 1893 queste parole scritte all’amico Pio Spezi: «… Io dunque son figlio del Caos; e
non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi
presso ad un intricato bosco, denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti.
[…]; «ma nessuno si è adattato al nuovo nome, e quella campagna continua, per i più, a chiamarsi
Càvusu, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Xáos.» Queste terre lo
porteranno a dire in una Confessione rilasciata nel 1934 al periodico letterario greco Nea Estia: «La
Grecia è dentro di me. Il suo spirito illumina il mio pensiero e consola il mio animo. Senza averla
mai vista, la conosco. Sono della Sicilia, cioè della Magna Grecia e in Sicilia molto di greco
ancora sopravvive: Ne sopravvivono la misura, l’armonia, il ritmo. D’altra parte io stesso sono di
origine greca. Certo, non vi meravigliate, il mio cognome è Pyragghelos. Pirandello non ne è che
la corruzione fonetica». A completare questo quadro di origine geografica si aggiunge la sua
formazione umanistica, con lo studio della cultura classica greca e latina, e il successivo
insegnamento della letteratura greca in qualità di docente all’Istituto Superiore di Magistero
femminile a Roma (1897-1923). Da questa attenta lettura dei miti, della storia e della letteratura
degli scrittori greci deriveranno le riflessioni sull’estetica e sulla poetica che ritroveremo nei suoi
saggi. Egli pone l’attenzione sugli dei come portatori sia di dolore che di speranza e denuncia la
decadenza morale e sociale dell’arte della sua epoca contrapponendola alla vitalità e alla forza del
teatro antico. Ritiene inoltre che Euripide sia più vicino al modo di sentire contemporaneo per via
del suo maggior livello di tragicità e nota, sempre in contrasto con il mondo moderno, che il senso
del dovere era uno dei valori fondamentali per i Greci e per i Romani, sebbene questi ultimi in
campo teatrale non abbiano fatto altro che imitare i loro grandi predecessori. Un altro campo di
interesse è la metrica, della quale Pirandello esamina alcuni versi, i ritmi e le movenze musicali,
mentre nel saggio su L’umorismo del 1908 la nascita dell’umorismo viene collocata proprio nella
letteratura greca («C’era dunque il pianto e il riso, non il pianto o il riso; e se l’intelletto poteva
cogliere il contrasto, perché non avrebbe potuto esprimerlo?»).

Al di là di questi riferimenti critici, si possono riscontrare continui rimandi al mondo greco


nell’opera artistica dell’autore, risalendo soprattutto a suoi primi esordi giovanili, segnati da opere
1
«In Luigi Pirandello, siciliano, io vedo il tipico figlio della Magna Grecia. Non invano, non a caso, nel suo testamento
si mostrò staccato da tutto, con una sincerità straziante, con una ricerca dell’annientamento così assoluta da giungere
allo spasimo, ma alla quale, suo malgrado, sopravvive il legame con il suo paese nativo. » Le volontà testamentarie
dell’autore furono infatti secche e perentorie, ma egli non rinnegò mai la relazione con la sua terra natale, e soprattutto
con il suo mare, il Mediterraneo, tra le cui onde avrebbe voluto che venissero sparse le ceneri. Nell’omaggio dell’amico
Corrado Alvaro, che fu anteposto all’edizione Mondadori del 1957 delle Novelle per un anno, si legge:«[…] Il suo
patriottismo era proprio da greco, o direi da meridionale. Quella balza, quel colle, quei templi, quella campagna, quel
mare. […] Aveva a volte, come nella sua opera, un certo tenebrore proprio del sud, ma molte volte egli ha cantato
come la cicala greca. Era greco, o meridionale, o mediterraneo, il suo modo di atteggiare a mimi assai spesso i fatti
umani […]. Greco o mediterraneo il senso del destino, e il modo tutto suo di scovare appetiti e passioni dominanti di un
personaggio».
poetiche mitologiche, intrise di immagini e figure provenienti dal mito antico, riprese anche con la
mediazione di autori precedenti, quali Foscolo, Leopardi e Carducci. La prima raccolta di poesie si
intitola Mal giocondo (1889), alla quale segue due anni dopo la Pasqua di Gea, che vede la Madre
Terra descritta con le caratteristiche che si ritrovavano nella Cosmogonia di Esiodo; le Elegie
renane chiudono questa triade nel 1895. I temi che ricorrono vanno dalle topiche opposizioni
amore-morte e giovinezza-vecchiaia all’amore non ricambiato e portatore di affanno di ascendenza
saffica, per arrivare all’infelicità e alla tristezza portate proprio da questo sentimento, tutti espressi
sotto forma di confessione, preghiera, elegia o monologo. Partendo dalla caduta di ogni illusione e
dal bisogno di innocenza, autenticità e interezza, la coscienza mitica dell’autore sta nel rivolgersi in
modo nostalgico a quell’età beata, cercando di recuperare l’altrimenti perduto stupor mysticus in un
mondo utopico di amori puri, dee e ninfe che non è ancora stato toccato dall’ombra del peccato. Il
paradiso che l’uomo moderno può ritrovare è «madre Natura», la Madre che contiene in sé la
nostalgia per i miti del passato e l’amore per la natura, unico punto di riferimento per superare la
crisi imperante.

Il paesaggio, e in particolare quello marittimo, non ha solo una funzione descrittiva, ma è uno dei
grandi temi delle opere pirandelliane,2 e in alcuni dei suoi versi dedicati al Mediterraneo affiora
l’enorme patrimonio archeologico e mitologico della Grecia: il mare nostrum, in quanto progenitore
di tutti i mari, si fa custode della storia e dei valori autentici, della saggezza e della verità degli
antichi, ma risulta un «inascoltato padre» da parte di una società moderna ormai inglobata nel
progresso tecnico-scientifico. Ritornano dunque scenari naturali pieni di tristezza e connotati da un
tono elegiaco, anche quando sono tendenti all’idillio, in quanto si fanno immagine dell’animo
variegato e contrastato del poeta. Proprio per questo il panorama circostante non ha mai una
funzione puramente decorativa, ma è una presenza totalizzante nella produzione di Pirandello, e
questa caratteristica lo rende unico tra gli scrittori novecenteschi. L’ambiente naturale si manifesta
anche nello scorrere delle acque, apparentemente meccanico e ripetitivo, ma che in realtà si
modifica sempre, rievocando il divenire ciclico della vita espresso dal principio eracliteo del pánta
rheî (πάντα ῥεῖ): l’universo è un’unità armonica di tensioni tra loro opposte che si riappacificano
nella ciclicità della natura, nell’infrangersi continuo delle onde, nel mutare delle stagioni e nel
movimento degli astri del cielo.

Al periodo giovanile, precisamente al 1906, risalgono anche due poemetti esplicitamente mitologici
che già dai loro titoli si presentano come rifacimenti di favole greche. La critica spesso non ha dato
la dovuta attenzione a questi due componimenti, che invece sono un importante punto di partenza
per indagare l’evoluzione del pensiero pirandelliano sul mito e che mostrano in forma autonoma e
conclusa quell’uso della mitologia classica abbozzato nelle prime raccolte poetiche e portato qui
alle più estreme conseguenze. Il contesto, come si è detto, si riallaccia a un mito preciso e specifico,
inserito in uno spazio senza tempo, mentre i personaggi sono inventati dall’autore. Dopo la
pubblicazione di queste due opere, non ritroveremo più esempi di questo tipo di scrittura
mitologica, se non in una forma anticlassica che unirà antichità e modernità in una dimensione
onirica.3 Laòmache, composta da 169 versi, propone un tema caro a Pirandello, ovvero quello della
donna orgogliosa che rifiuta il focolare domestico e che qui è rappresentata da una vergine
amazzone mediante un travestimento mitico. A causa di un rito impostole dalla sua sacerdotessa, la

2
Da sottolineare anche la tipica valenza archetipica e primordiale delle acque del mare.
3
e.g. La salamandra, 1924.
giovane rimane incinta e scopre che nel regno molte altre amazzoni, lasciata la loro vita bellica, si
sono accasate con i nemici. Il racconto pone dunque al centro anche la forza della maternità,
considerata il completo sviluppo della femminilità: la protagonista, dopo aver partorito, si converte
al proprio ruolo di moglie e madre casta e perfetta e si consegna nelle mani dell’uomo-padrone.
Scamandro invece iniziò a comparire a puntate nel 1906, ma venne scritto dall’autore
probabilmente già verso il 1898, sfociando anche in una rappresentazione teatrale a Firenze nel
1928. Il lungo poemetto ha come ambientazione una Troia post omerica fuori dal tempo e si ispira
liberamente al libro XXI dell’Iliade, ma viene dotato di una forma drammatica e dialogica
strutturata in versi e divisa in 5 episodi con Corifeo, Coro, Strofe e Antistrofi, preceduti da un
Pretesto che fornisce le premesse della vicenda narrata. L’iniziale descrizione omerica della siccità
apre un gioco di contrasti tramite la rievocazione nostalgica del passato da parte del vecchio fiume
Scamandro; viene quindi illustrato un rito notturno e segreto che prevedeva che le fanciulle troiane,
prima del loro matrimonio, si bagnassero i capelli e offrissero simbolicamente la propria verginità al
fiume, diventato nel frattempo il nuovo dio. I toni dell’idillio si mescolano poi alla commedia di
tipo plautino: un giovane ateniese, Eumene, è innamorato della bella Calliroe, una ragazza troiana
incontrata molte volte ad Atene e promessa sposa del suo amico Ascanio, di cui il protagonista
diventerà rivale.4 Con un intrigo, egli prende le sembianze del fiume Scamandro per poter sedurre
l’amata, profanando così il rito sacro, ma a salvare la conclusione dell’opera interviene un classico
lieto fine: Calliroe si dichiara da sempre innamorata di Eumene, il giovane riesce a difendersi
ribaltando tutte le accuse e con il consenso del padre della ragazza si celebrano le nozze in mezzo a
un corteo gioioso che accompagna i due novelli sposi. Cori e danze apportano dunque un tono
leggero e armonioso a questo racconto popolato da pastori, naiadi e ninfe, che mostrano come
Pirandello attinga in modo convenzionale e retorico a un insieme superficiale di immagini e
metafore prese dal mito e accompagnate qua e là da parole di derivazione o addirittura grafia greca.

E non è finita qui: in novelle e romanzi si affacciano sulla scena fatti e personaggi della storia greca,
mitica e non, come Creso (Fumo), Diogene (Concorso per referendario), Ercole (Il guardaroba
dell’eloquenza), le Muse (Risposta), Sofocle (Il fu Mattia Pascal) e infine Omero ed Euripide
menzionati in Tirocinio. Si trovano poi nomi propri e soprannomi di origine classica, formati
dall’unione di parole diverse per ottenere un effetto di comicità (e.g., Antropofago Capri-
barbicornipede in Amicissimi), accenni all’etimologia di alcuni vocaboli (e.g., “embolia” in Visitare
gli infermi) e riferimenti per esempio al mito degli amori di Diana o a quello di Pigmalione (Diana
e la Tuda). Nelle Novelle per un anno, alcune delle quali riprendono la struttura della favola
esopica, la grecità ritorna soprattutto nella rappresentazione del paesaggio agrigentino, tratteggiato
con dovizia di particolari, perché parte integrante del racconto, spesso in contrasto con il “nuovo”
(Lontano). Nell’instaurare un legame tra passato e presente, l’autore si mostra particolarmente
impressionato anche da come gli scrittori greci, per esempio Pindaro, avevano descritto la sua terra
natale (Capretto nero). Le rovine e i reperti archeologici possono simboleggiare l’idea della civiltà
greca ormai evaporata (Beretta di Padova), oppure un segno della corrosione del tempo (Altro
figlio) o ancora la base per una rivelazione (Vitalizio). Uno dei romanzi che ritrae questo paesaggio
greco-agrigentino si intitola I vecchi e i giovani e l’arte è qui indicata come unico elemento dotato
di linguaggio universale ed eterno, e perciò in grado di resistere al tempo.

4
tema tipico anche di opere successive di Pirandello, come O di uno o di nessuno, Il marito di mia moglie e Il fu Mattia
Pascal.
La Sicilia è anche l’importante scenario dell’’U Ciclopu, ovvero la breve traduzione in dialetto
siciliano del dramma satiresco di Euripide Il ciclope (Κύκλωψ), composta nel 1918 in seguito alle
molte richieste di un gruppo di amici che avevano l’obiettivo di riportare in vita il teatro locale;
venne poi rappresentata un anno dopo al Teatro Argentina di Roma. La vicenda riprende fedelmente
la trama euripidea e si svolge in un paesaggio agreste e dionisiaco tra le falde dell’Etna e la
spiaggia; secondo una tradizione che circolava nel V secolo ad Atene l’isola era la terra dei Ciclopi
e dei Lestrigoni.5 A sottolineare l’aspetto farsesco e l’idillica campagna di pastori troviamo il
personaggio di Sileno, accompagnato da un coro di satiri, funzionale anche per fare da contraltare al
promontorio selvaggio e pietroso in cui vivono i Ciclopi, chiusi in una cava che ci fa subito pensare
a quella di Ciaula scopre la luna.6 Polifemo è il terribile essere antropofago che si trovava anche in
Euripide, ma viene accentuata la sua dimensione ctonia e grottesca priva di ragione, data sia dalla
coesistenza di elementi di dolcezza e brutalità, che fanno provare verso di lui una certa simpatia, sia
dal fatto di rappresentare un mondo primitivo e agreste caratterizzato da sentimenti primordiali, in
contrasto con il mondo civilizzato e positivo di Ulisse, simbolo per eccellenza della conoscenza. 7 In
alcune novelle pirandelliane vi sono figure che osano togliersi quella maschera che la società ha
imposto loro e che portano alla luce la loro vera natura selvaggia, trovando un emblema proprio in
Polifemo. Questo bruto personaggio si presenta anche come l’opposto del dio Dioniso, dio del vino
e del piacere e portavoce del teatro e del sapere. Anche Sileno e Ulisse sono due figure antitetiche,
l’uno dissoluto e buffonesco, l’altro irreprensibile e serio. Pirandello individua in questo tipo di
contrapposizioni, che investono sia i personaggi che l’azione, il cardine dell’umorismo e ciò
porterebbe quindi a considerare il dramma satiresco euripideo come un dramma umoristico giocato
sui contrasti. Il corifeo Sileno e il suo corteo di satiri sono esseri che hanno una natura metà umana
e metà animale, mentre Ulisse e il Ciclope mostrano un rapporto contrastante. Ed è dunque l’eroe
che svela l’umorismo presente nel satiro e in Polifemo, sottolineato dall’ironia, dalla caricatura e dal
senso del grottesco, che affondano le loro radici in Euripide e che si ritroveranno in molte opere
dell’autore siciliano, unite a un certo gusto comico-farsesco. Nella conclusione il Ciclope, anche se
accecato e sbeffeggiato, uscirà vincitore grazie alla sua enorme forza che gli permetterà di sradicare
le rupi e gettarle contro l’eroe, ritornando così in modo catartico alla sua essenza originaria e al suo
destino, come faranno molti protagonisti pirandelliani, assetati di tranquillità e armonia e per questo
diretti nell’unico luogo che può utopicamente offrirla, ovvero la natura.

Pirandello non è poi immune al teatro antico e nelle sue opere riecheggiano figure quali Medea,
Ippolito, tragedie come le Trachinie, le Supplici, i Persiani, l’Orestiade eschilea e sofoclea, l’Edipo
Re con la ricerca della propria identità o ancora il suicidio di personaggi come Aiace e Antigone
(cfr. con Il fu Mattia Pascal). Nella commedia attica antica egli vede poi l’essenza del comico e
verranno riprese molte delle opere aristofanee come le Rane, le Tesmoforiazuse e le Nuvole. 8

5
Tucidide, VI, 2.
6
Pirandello afferma inoltre che il Ciclope, svestito di ogni miticità, rivive nell’epoca contemporanea nella figura dello
zolfataro, colui che con il suo occhio, ovvero la lumierina, rischiara il buio; questo parallelismo fa sì che la figura di
Polifemo non muoia mai nel patrimonio leggendario siciliano (cfr. De Crescenzo 2015:287 e Zangrilli 1996:194).
7
In realtà anche Ulisse è un personaggio pieno di contraddizioni, Zangrilli 194-195.
8
Esposizione dettagliata in Zangrilli 1996, pp. 195-204.
2. ROVESCIAMENTO E SVUOTAMENTO DEL MITO

2.1 Premessa

Fin dai suoi primi esordi, Pirandello intraprende un percorso di riflessione sul mito e sulle modalità
espressive da adottare per poterlo riportare in vita, e nonostante la complessità e la pluralità di
queste manifestazioni, il suo progetto mantiene al proprio interno una certa coerenza. L’interesse
dell’autore nei confronti del mito, a differenza di quanto ritiene una frangia della critica, è presente
già nella prima fase umorista e Simona Micali, tenendo sempre in considerazione i poemetti
mitologici di cui si è parlato sopra, ha sottolineato come il fulcro dell’analisi pirandelliana
troverebbe origine proprio nei primi decenni del secolo con Il fu Mattia Pascal e il saggio su
L’umorismo. Successivamente, partendo dalla consapevolezza che non si potranno mai avere
risposte certe, l’autore identificherà nel mito un mezzo per liberarsi dalle catene imposte dal
presente e per superare la solitudine e l’impotenza provenienti dalla condizione di dubbio
esistenziale in cui vive l’uomo novecentesco. Di conseguenza, fin dalla produzione umoristica,
quella mitica si configura come la vera chiave interpretativa, la stessa che in opere posteriori
permetterà di superare la crisi individuale e collettiva, recuperando i valori sacri e primigeni di cui
l’arte può ancora farsi portavoce.9

2.2 Il fu Mattia Pascal (1904)

Nelle pagine inziali del celebre romanzo, il protagonista inveisce fin da subito contro la rivoluzione
copernicana e il conseguente crollo del modello antropocentrico, ponendoli come simboli della crisi
delle certezze per l’intellettuale che si trova al confine tra due secoli, e così facendo entra nel cuore
della narrazione umoristica della storia del primo inetto del ‘900. L’umorismo gioca infatti sulla
scomposizione delle illusioni e porta alla creazione di un nuovo tipo di romanzo, il romanzo della
crisi, in grado di sostituire quello tradizionale ormai privo di funzione. In seguito alla caduta di tutte
le certezze e di ogni tipo di valore, alla scomparsa del «lume individuale» e dei grandi «lanternoni»,
non resta che fare i conti con un’esistenza immersa in un caos incomprensibile, di cui il personaggio
e la forma letteraria si fanno specchio e prodotto. L’uomo non può più aggrapparsi a nulla,
nemmeno al proprio nome, e il modello eroico ottocentesco di coerenza e indubitabilità non può più
esistere: emblema di tutto ciò è Oreste, che nel famoso del teatrino delle marionette ideato dal
signor Paleari si trasforma in Amleto e in seguito allo «strappo nel cielo di carta» rimane sospeso
nell’abisso e di fronte alla vista del mistero comprende che ogni azione è ormai insensata e priva di
significato. Ed è qui che il paradigma eroico cessa di esistere: dal momento che il caos non è ciò che
precede ma ciò che segue la caduta dell’illusoria civiltà, nemmeno l’intervento di un Eracle
civilizzatore può essere salvifico, e nel suo saggio Pirandello dirà infatti che «l’umorista non
riconosce eroi; o meglio, lascia che li rappresentino gli altri, gli eroi». Assenza di ordine,
frantumazione dell’io e scomparsa dei «lanternoni» portano a una totale incapacità di agire, e si

9
Nella cosiddetta fase del “teatro dei miti” (1928-36), Pirandello realizzerà una trilogia di opere composta da La nuova
colonia nel 1928 (mito sociale), Lazzaro nel 1929 (mito religioso) e I giganti della montagna nel 1937 (mito dell’arte).
Ciò che la poetica dell’umorismo aveva scomposto in precedenza viene qui ricostruito e assistiamo al risorgere della
figura dell’eroe. L’interesse dell’autore non è il recupero dei grandi miti classici, bensì la creazione di miti moderni,
ovvero vicende esemplari collocate in uno spazio senza tempo in cui sia possibile trovare una via di fuga dalla trappola
sociale e rifugiarsi in una natura selvaggia e primordiale. Lo sguardo del narratore si rivolge ancora una volta in modo
scettico alla persistente crisi del mondo moderno.
rimane intrappolati in una società, ovvero quella borghese, che mette da parte l’eroe classico e lo
sostituisce con il cittadino, che per essere considerato tale deve essere registrato pubblicamente
negli archivi oppure essere esaltato tramite una celebrazione giornalistica, proprio quel tipo di
glorificazione che Adriano Meis rifiuterà. L’antico atto di hybris (ὕβρις) viene limitato a una
semplice trasgressione ai danni della burocrazia, come il cambio del nome, e la punizione non sarà
altro che la rimozione dei diritti civili. Anche il finto suicidio finale non è che una messa in scena
per uccidere non la persona, bensì quella fittizia e formale marionetta creata dalla collettività.
L’individuo non può fare altro che tornare in quel sistema borghese dal quale in realtà non si è mai
allontanato, nemmeno durante la ricerca di una nuova vita, e dal momento che vigono i nuovi valori
di proprietà privata, matrimonio e onore, al rapporto tragico tra l’eroe e la Legge si sostituisce il
cosiddetto dramma borghese, ovvero la relazione dialettica tra il buon cittadino e questa triade di
principi. Cessata dunque l’esistenza del sacro e della tragicità nella società moderna, la storia di
Mattia Pascal potrebbe voler anche rappresentare proprio la parabola discendente che conduce alla
definitiva morte dell’ideale eroico per lasciare spazio a un perfetto antieroe.

2.3. L’interpretazione pirandelliana del mito di Prometeo

Il saggio su L’umorismo si configura sotto molti punti di vista come una giustificazione a posteriori
del precedente Mattia Pascal, poiché troviamo in esso l’esposizione teorica della poetica e della
filosofia che traspariva dalla lettura del romanzo. Uno dei concetti più importanti del racconto era la
cosiddetta «lanterninosofia», che viene ripresa anche nella narrazione saggistica, ma con la
particolarità di essere inserita in un contesto mitico:

Gli antichi favoleggiarono che Prometeo rapì una favilla al sole per farne dono agli uomini.
Orbene, il sentimento che noi abbiamo della vita è appunto questa favilla prometèa favoleggiata.
Essa ci fa vedere sperduti su la terra; essa projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio
di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se la favilla non fosse
accesa in noi; ombra che noi dobbiamo purtroppo creder vera, fintanto che quella ci si mantiene
viva in petto. […] Se tutto questo mistero, in somma, non esistesse fuori di noi, ma soltanto in noi, e
necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento che noi abbiamo della vita? […] Forse
abbiamo sempre vissuto, sempre vivremo con l’universo; anche ora, in questa forma nostra,
partecipiamo a tutte le manifestazioni dell’universo; non lo sappiamo, non lo vediamo, perché
purtroppo quella favilla che Prometeo ci volle donare ci fa vedere soltanto quel poco a cui essa
arriva.

Il lume che riflette la fioca luce della coscienza umana trova qui la sua rappresentazione metaforica
nel fuoco rubato dal Titano Prometeo e donato agli uomini. Si riprende dunque uno dei racconti
esiodei più famosi,10 diventato nel corso dei secoli uno dei miti fondanti dell’Occidente, noto per la
sua versatilità che lo ha reso oggetto di trattazioni e interpretazioni differenti. Il protagonista ha
potuto di volta in volta incarnare o un dio benefattore, filantropo e patrono della conoscenza, oppure
il responsabile della caduta del genere umano, o ancora un ribelle, un salvatore, un martire, o
addirittura prestarsi a varie ideologie politiche. La tradizione sette-ottocentesca lo aveva reso il
proprio racconto prediletto, e in ciò era stata seguita da quella romantica (dove troviamo Prometeo

10
Teogonia, vv. 507-616.
come campione della libertà contro la tirannia), postromantica, dannunziana e futurista. Come si
può leggere da queste righe, l’autore agrigentino si contraddistingue non tanto per la versione mitica
scelta, quanto per la sua particolare modalità di rielaborazione, che consiste in un totale
rovesciamento. La «favilla prometèa favoleggiata» non è più il simbolo della conoscenza, poiché la
sua rappresentazione viene completamente capovolta: questa fiaccola illumina solo un esiguo
spazio della realtà, creando un’immensa ombra destinata a schiacciare l’uomo e a evidenziare
l’impotenza della scienza. Allontanandosi dalla lunga tradizione celebrativa che vedeva nel
giapetide l’eroe per eccellenza che aveva avuto il coraggio di sfidare e infrangere i limiti imposti
dalla divinità per ottenere un bene giovevole sia all’individuo che alla collettività, Pirandello
identifica questo gesto come origine di tutti i mali.11 Il dono del fuoco, emblema della ragione e del
sentimento, perde qualsiasi valore positivo e si trasforma in un grave danno per l’umanità, fonte di
ogni male spirituale e intellettuale, poiché creatore di una visione ingannevole e distorta della
realtà.12

Oltre a essere il responsabile della rovina dell’umanità, Prometeo ha anche ingannato se stesso:

E domani un umorista potrebbe raffigurar Prometeo sul Caucaso in atto di considerare


malinconicamente la sua fiaccola accesa e di scorgere in essa alla fine la causa fatale del suo
supplizio infinito. Egli s’è finalmente accorto che Giove non è altro che un suo vano fantasma, un
miserevole inganno, l’ombra del suo stesso corpo che si projetta gigantesca nel cielo, a causa
appunto della fiaccola ch’egli tiene accesa in mano. A un solo patto Giove potrebbe sparire, a
patto che Prometeo spegnesse la candela, cioè la sua fiaccola. Ma egli non sa, non vuole, non può;
e quell’ombra rimane, paurosa e tiranna, per tutti gli uomini che non riescono a rendersi conto del
fatale inganno.

Il padre degli dei, che l’eroe crede di aver oltraggiato, non è altro che un’illusione prodotta dal suo
stesso dono, e Prometeo inizia lentamente a comprendere che quell’immagine non è Giove e
nemmeno la Legge, bensì «l’ombra del suo stesso corpo»: l’offesa alla divinità e la terribile
punizione sono dunque anch’essi irreali e il tormento che ne deriva diventa una cosa sola con la
fiaccola accesa. Se il raggio proiettato dalla favilla si è rivelato fallace, ne consegue che anche
quella grande ombra non è altro che «un inganno della nostra mente». Per farla sparire basterebbe
spegnere la luce, ma il Titano non può e non vuole compiere questa azione, e come tutti gli altri
uomini preferisce rimanere aggrappato a quella fonte luminosa grazie alla quale crede di poter
illusoriamente dare un senso alla realtà, rivelando così tutto l’umorismo nichilista dell’autore.
L’originario conflitto tragico viene eliminato e lascia il posto a una specie di farsa metafisica, che
permette di illustrare l’operazione, consapevole o meno, compiuta da Pirandello: non c’è infatti solo
un rovesciamento del racconto, ma anche la volontà di tagliare alla radice quella narrazione mitica,
bloccando così ogni ipotetico nuovo germoglio. Il tramonto di un’epoca culturale porta spesso

11
Va notato che nella letteratura greca Prometeo compare fin da subito con una connotazione negativa, simboleggiata
dalla figura del trickster, che con il suo inganno a Zeus provoca l’infelicità del genere umano. Nella narrazione esiodea
infatti, il Titano non veniva identificato come artefice di una missione civilizzatrice, in quanto il fuoco era un bene già
diffuso tra gli uomini ed era stato temporaneamente sottratto dal padre degli dei come punizione per il precedente
inganno del sacrificio. Inoltre, nelle Opere e i giorni (vv. 47-105), la creazione di Pandora costituisce la pena per il furto
del fuoco e ha come conseguenza la separazione del destino dei celesti da quello dei mortali, dal momento che questi
ultimi vengono fatti precipitare da una condizione edenica a una vita di mali e sofferenze, che nel mito viene
simboleggiata dall’età del ferro.
12
L’autore è qui in accordo con la filosofia schopenhaueriana del Mondo come volontà e rappresentazione, di cui
conservava una copia.
l’artista a voler consegnare ai suoi contemporanei un’ultima versione dei miti che erano stati
nutrimento ed espressione di quella società: si tratta di «portare a termine il mito»13, in modo tale
che il lettore non possa immaginare un’ulteriore rielaborazione futura, anche se questa riscrittura
finale è definitiva solo nell’intenzione dell’autore, poiché ci saranno sempre altri che tenteranno la
stessa strada. Con il mito di Prometeo, per esempio, si sono cimentati André Gide (Prométhéé mal
enchaîné, 1899) e Franz Kafka (Prometeus, 1918), mentre l’interpretazione di Nietzsche ne La gaia
scienza (1882) sembra essere quella più simile e affine al lavoro di Pirandello. Entrambi infatti, pur
con visioni opposte, attuano un vero e proprio svuotamento della trama mitica, poiché elementi e
personaggi importanti vengono ridotti a proiezioni fallaci o persino schizofreniche, prodotte dalla
mente del protagonista, portando così il mito a perdere la sua motivazione ad esistere. 14 La
prometheia aveva dominato per un secolo come simbolo della fiducia illimitata nelle capacità
dell’uomo e della scienza e come emblema del superamento dei vincoli imposti da natura, Dio e
società: in un’epoca in cui sono ormai le filosofie positiviste sono entrate in crisi e domina il caos,
tutto ciò non ha più valore e l’icona mitologica dello scientismo ottocentesco si sgretola. Va infatti
notato che non a caso questa narrazione è posta in conclusione del saggio che costituisce un
«manifesto dell’arte della crisi», Se Il fu Mattia Pascal rappresentava l’impossibilità del paradigma
eroico e di quello tragico all’interno della società moderna, la poetica umoristica, con la sua
scomposizione e il rovesciamento, si erge a decretare la fine del mito, che altro non è che il segno
della fine dell’epoca che proprio in quei miti aveva posto tutta se stessa.

13
La Micali sta qui facendo riferimento alle teorie del filosofo tedesco Hans Blumenberg.
14
«Non dovette Prometeo in un primo momento supporre erroneamente d’aver rubato la luce e pagarne il fio, per
giungere infine a scoprire che era stato lui nella sua brama di luce a creare la luce, e che non soltanto l’uomo, ma
anche il dio era stato opera delle sue mani e argilla nelle sue mani? Che ogni altra cosa era soltanto l’immagine del
plasmatore d’immagini? Così come l’illusione, il furto, il Caucaso, l’avvoltoio e l’intera tragica Prometheia di ogni
uomo della conoscenza?» (F. Nietzsche, La gaia scienza, trad. it. F. Masini, Milano, Adelphi 2008, pag. 217)
BILIOGRAFIA

A. De Crescenzo, Pirandello e il Mediterraneo: i molteplici aspetti del paesaggio, in «Mare


Nostrum, prospettive di un dialogo tra alterità e mediterraneità», 2015, Bordighera press, pp. 273-
291.

L. Gallotta, Il Pirandello dei “miti”, in «Studi del Liceo Ginnasio Statale di Cento», vol. VIII,
1981, pp. 163-181.

A. Meda, Tempo astorico e spazio mitologico nella riflessione e nella pratica pirandelliana, «Studi
d’italianistica nell’Africa australe, vol. 2, 2001, pp. 33-44

S. Micali, Miti e riti del moderno: Marinetti, Bontempelli, Pirandello, Le Monnier, 2002.

M. P. Pattoni, Introduzione. Il mito di Prometeo tra letteratura e arti: dai testi antichi alle
rivisitazioni contemporanee, «Aevum Antiquum», N.S. 12-13, 2012-2013, pp. 5-44.

F. Zangrilli, Pirandello e il mondo greco, «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», New Series, vol.
53, 1996, pp. 181-204.

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