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C 167 Cabiria 70-96

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Essential Cinema
Jerzy Skolimowski e l’invasione della Polonia
di Massimo Tria

Per definire il regista e pittore (e origi- Jerzy. Se la posizione centrata (se si


nariamente poeta) polacco Jerzy vuole anche centripeta) definisce in
Skolimowski potremmo spendere generale un intellettuale che abbia tro-
senza tema di smentita un termine vato un suo ubi consistam nell’appara-
invero alquanto inflazionato, ma in to artistico messogli a disposizione
questo caso tanto più veritiero: anti- dalla sua nazione, e che da questa
conformista. Nel novero degli autori posizione relativamente stabile osser-
cinematografici centroeuropei, più che va la storia e la società che gli si muo-
una comunanza generazionale o pret- vono attorno, allora Skolimowski è un
tamente stilistica, vorremmo rilevare regista decentrato, centrifugo, margi-
una sorta di condivisione “antropologi- nale. Egli si è posto per scelta di lato:
ca” con altri suoi colleghi notoriamente da questa ubicazione sghemba, dalla
sopra le righe: già fra i suoi connazio- distanza, quasi non compartecipe di
nali vengono in mente altri tre eccentri- quanto avviene nel fulcro degli avveni-
ci quali Roman Polanski, Andrzej menti, egli li osserva, senza giudicarli,
.
Zul/awski o ancora Walerian Borowczyk. con piglio apparentemente indifferen-
Tutti più o meno volontariamente coin- te, ma in realtà comprendendo meglio
volti in episodi ai limiti delle regole di altri il brulichio della città, le aspira-
della comune convivenza sociale, e zioni del suo popolo, la frenesia del
autori di alcune opere che flirtano con suo paese, dalla privilegiata posizione
le categorie dell’eccesso e dell’atipi- guascona che lo pone al di fuori e a
cità sociale, quando non affrontino di volte in alto rispetto all’oggetto osser-
petto i territori del maledettismo e del- vato. Nel suo caso dunque “eccentri-
l’unheimlich, con tanto di presenze co” non sottintende che egli si abban-
mostruose e demoniache1. doni ad atteggiamenti originali votati a
Anticonformista ed eccentrico dunque: creare scandali fini a se stessi, né
se il primo attributo lo definisce solo in tanto meno che la sua opera si limiti
negativo (la sua istintiva opposizione programmaticamente a posizioni auto-
alle convenzioni e la sua originalità referenziali di decadentismo. Al contra-
rispetto alle poetiche che lo avevano rio, con il loro approccio indiretto e tan-
preceduto), il secondo è forse il termi- gente, i film più riusciti del nostro dico-
ne dal quale si deve muovere per cer- no di più sulla società polacca (e
care di mettere a fuoco in maniera più anche sulla posizione dell’uomo e del-
tecnica la sfuggente figura del buon l’intellettuale dell’Europa dagli anni

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Sessanta in poi) di quanto non faccia- mento ottico ed extratemporale diven-


no tante drammatiche ricostruzioni ta gioco estremo, quasi diabolico
storiche di un Wajda o i rovelli psicolo- nascondino nel suo ultimo Essential
gici intimistici di uno Zanussi (entram- Killing (2010), come vedremo nell’ulti-
bi, al contrario, registi centrati)2. ma parte di questo saggio. Ad ogni
modo Skolimowski non si adagia
La Polonia vista di sghembo comodamente nel luogo dove gli è
Già dai suoi inizi, con quella manciata stato dato di nascere, il suo è spesso
di film polacchi che un numero troppo un cinema di movimento, di esilio (psi-
esiguo di privilegiati conosce, ma che cologico e, dopo i suoi contrasti con le
ne fanno uno dei più coraggiosi rappre- autorità, anche fisico): cinema del
sentanti dell’“angry young cinema” vagare, del moto perpetuo che non
anni Sessanta, Skolimowski si propo- permette ai suoi oppositori di prender-
neva invece con un atteggiamento fra gli le misure, come il gioco di gambe
l’autoriale e il provocatorio, fra la nou- della sua giovanile attività di pugile.
velle vague e lo «schiaffo al gusto cor- Anche per questo spesso i suoi proget-
rente» di futuristica memoria. I critici ti, realizzati o solo abbozzati, hanno a
della sua patria lo hanno definito un che fare con esseri senza fissa dimora
“outsider alla deriva”, il “boxeur- (i giovani déracinés dei suoi esordi), o
poeta”, un “uomo con la valigia” sem- con stranieri misteriosi e apolidi
pre in movimento, ma anche un narci- (L’Australiano, Moonlighting, Acque di
sista e un asociale3, mentre il regime primavera, Essential Killing), mentre i
comunista dei primi anni Sessanta lo suoi flirt letterari si riferiscono spesso
teneva sott’occhio temendo che la sua ad autori allontanatisi dalle proprie ori-
nonchalance artistica potesse tramu- gini (Nabokov, Conrad, Gombrowicz).
tarsi in esplicita attività da ribelle e Non è dunque un caso che quando
contestatore. Ma quello che qualcuno nella sua opera si parla di casa e ci si
ha anche fregiato del titolo di “Godard muove eccezionalmente fra quattro
polacco” in realtà non è un “rebel solide mura, combinazione vuole che
without a cause”, né tanto meno un questa sia spesso la sua vera dimora.
oppositore politico di professione. Egli Non la dimora patria però, bensì quel-
riesce (raro fra i cineasti mondiali e la inglese, che da emigrato scomodo è
forse l’unico fra i polacchi) a guardare stato costretto a utilizzare e riutilizzare
alla propria patria come ad una terra di come set anche per risparmiare sui
nessuno, come ad un mondo filtrato finanziamenti, fino a creare quel corto
attraverso uno specchio deformante, circuito semantico che il più bel saggio
per cui allo stesso tempo vediamo e mai scritto su Skolimowski descrive
non vediamo la società est-europea alla perfezione4: una casa privata-set
anni Sessanta, osserviamo e non cinematografico, martoriata da distru-
osserviamo i veri giovani del suo zioni e ristrutturazioni, che smette dun-
tempo, riconosciamo e non riconoscia- que di rappresentare un comodo rifu-
mo la Polonia di ieri e di oggi. E questo gio e tanto meno può offrire asilo poli-
non-riconoscimento, questo strania- tico. Non è una “home, sweet home”,

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bensì il riparo temporaneo di un cità di articolare la scala dei campi e
“bloody foreigner”. Anche a casa sua il dei piani.
nostro è ospite sgradito, “persona non
grata”, e se per Moonlighting (1982)
può sfondare i muri della propria
magione solo per finta al fine di rico-
struire la vicenda di alcuni operai
sfruttati, poi alla fine delle riprese di
Successo ad ogni costo (Success Is
the Best Revenge, 1984) sarà costret-
to a restare realmente con un tetto
scoperchiato e a svendere il film alle
banche, perché rimasto senza fondi
per rimettere a posto il set casalingo.

Come prendere il cinema a colpi di In Walkover (1965) si celebra la pre-


sciabola senza fisica di un atleta del set: pugile
Dopo aver abbozzato un piano carte- e combattente per vocazione, il giova-
siano di inquadramento fatto di agget- ne autore non si perita di prendere
tivi ed affinità elettive, continueremo pugni, saltellare, correre da un angolo
notando come per i suoi primi film lo si all’altro dell’inquadratura, sempre
possa accusare di essere anche un “mettendoci la faccia”, insanguinata o
egocentrico. Anticipando alcune con- imbronciata che essa sia, dove invece
clusioni valide per Essential Killing si la cultura di regime avrebbe preferito
può affermare che per le sue prime che il singolo ed il suo primo piano
prove valga quanto detto a suo tempo rimanessero celati in un’anonima e
riguardo alle opere da regista del suo bovina collettività pseudosocialista.
ultimo protagonista Vincent Gallo: «Se
si spostasse riusciremmo a vedere il
film…». Questo atteggiamento di onni-
presenza in primo piano vale per lo
meno per i suoi due primi lungome-
traggi, entrambi autobiografici ed auto-
celebrativi, dei quali Skolimowski è
anche interprete. In Rysopis – Segni
particolari: nessuno (Rysopis, 1964) si
celebra la sfacciata indipendenza intel-
lettuale di un giovane poeta e studen-
te di cinema che fa tesoro della sua
stessa povertà tecnica: lunghi piani-
sequenza che risolvono alla radice Si deve escludere Barriera (Bariera,
eventuali inesperienze nel montaggio 1966), in cui gli fu in pratica vietato di
e qualche probabile lacuna nella capa- tornare ad interpretare per la terza

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volta il suo alter ego Andrzej Leszczyc, Walkover del secondo lungometraggio
anche perché i controllori della politica sta invece ad indicare la vittoria per
culturale si erano finalmente accorti assenza del pugile avversario, che non
della potenziale pericolosità di un gio- si è presentato, permettendo così al
vane autore che si incaponiva eccessi- protagonista di vincere facile. Il finale
vamente in quello che poteva essere di quest’epopea pugilistica ambientata
in un kombinat socialista si propone
anche definito, secondo i canoni dell’e-
perciò a sua volta come la sarcastica
poca, un approccio segnato da “forma-
distruzione del mito dell’eroismo
lismo individualista”. In quel caso gli
polacco, in quanto il “vincitore” ed
prestò dunque sembianze e fisicità un alter ego del regista, Andrzej, si ritrova
ottimo Jan Nowicki e il gioco di svela- sul ring costretto da una pura contin-
mento e contemporaneo nascondi- genza (si è iscritto quasi per caso al
mento della Polonia e dei suoi miti fon- campionato dilettanti della fabbrica
danti continuò a funzionare anche dove stava in realtà cercando un impie-
attraverso un altro volto. go), prova a scappare in modo ben
Si accennava al formalismo: volendo poco glorioso dal suo impegno, e alla
essere pignoli ce n’è in abbondanza fine trionfa solo grazie ad un calcolo
nei priëmy dei suoi esordi, in quelle egoistico del suo avversario, in realtà
lunghe carrellate laterali perlustratrici, più forte. La chiosa potrebbe suonare
fortunata combinazione di ostinazione così: l’eroismo non abita più qui, che la
autoreferenziale ed esplorazione incu- Polonia si cerchi altrove i suoi paladini.
riosita del profilmico socialista. Esse Anche in questo caso ci sono lunghe
danno vita a piani sequenza allo stes- carrellate laterali, sguardi beffardi in
so tempo fluidi e testardi, arrabbiati e macchina, prove di atleticità in sou-
lirici, lunghi tour de force che ci si per- plesse, quasi casuali dimostrazioni di
metterà di definire “petrarcheschi” un “culto della personalità” sui generis
(«Solo et pensoso i più deserti campi / applicato ad un corpo di attore e non
vo mesurando a passi tardi e lenti» ver- un più ad un corpo sociale e politico
rebbe da citare…). In Rysopis poi, già deviato. Salti da treni o tram in corsa
nel 1964, c’è una vertiginosa scena in sono il portato della inguaribile tenden-
soggettiva con il protagonista/operato- za al ritardo dello Skolimowski studen-
re che scende le scale di corsa, mac- te, che lo costringeva a qualche impre-
china da presa in spalla, neanche sa acrobatica nel tentativo di arrivare
avesse già a disposizione il “giubbetto” in tempo a lezione. Ma qui più che il
della steadycam di James Muro in ritardo si evidenza un anticipo abissa-
Strange Days (1995) di Kathryn le su tutti i cineasti suoi conterranei:
Bigelow. Il titolo dà ad intendere che il novello Fairbanks, primo “one man
protagonista è un antieroe, non si band” del cinema moderno est-euro-
distingue per “segni particolari” di rico- peo, Skolimowski scrive, pensa, dirige,
noscibilità: ovvero non è etichettabile occupa fisicamente i suoi film realiz-
in nessuna delle categorie obbligatorie zando quell’unità di arte e vita che era
della gioventù socialista. Il termine alla base di alcune avanguardie centro

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ed est-europee dell’inizio del XX secolo l’autodeterminazione storiografica e
(si pensi al dadaismo, ma anche al letteraria polacca. Come afferma
poetismo cecoslovacco). Basta con il Bolesl/aw Michal/ek, uno dei più acuti
professionismo degli autori e con l’arte commentatori del cinema del suo
politicizzata: il creatore deve sporcarsi paese: «Nel cinema polacco si è pro-
le mani di vita, improvvisare, mettersi dotta dunque una “peculiarità”: la con-
in gioco in modo immediato e anti-ten- cezione dell’uomo in quanto vittima
denzioso, facendo cadere le artificiali della storia, di un essere rassegnato al
barriere fra vita ed arte. Niente contro- suo torto, addirittura al suo annienta-
figure (sarebbero un’eresia ontologica mento […]. Sul nostro cinema aleggia
per il nostro), e niente discorsi politici lo spettro del fatalismo storico»5. Da
diretti: mentre la scuola polacca si questo punto di vista Skolimowski fu
logora le interiora con i miti ingombran- uno dei primi a staccarsi dal modo
ti della Resistenza e della Guerra (vedi serioso e a tratti vittimistico con cui
Wajda e Munk) o del Potere (vedi buona parte dei suoi predecessori
Kawalerowicz), Jerzy mette tutto in aveva affrontato sullo schermo i grandi
beffa. Cos’altro è altrimenti quell’osti- “Temi” nazionali, ivi compresa la per
nato duello uomo-macchina in altri versi validissima e fondamentale
Barriera?: il protagonista prende a scuola polacca di Wajda, Munk, Has e
combattere con in mano una sciabola Kawalerowicz. Ed è ancora Michal/ek a
contro un’automobile che si muove in venirci in aiuto con una acuta formula-
caparbio ed insensato girotondo su zione: «…le sciabole degli ulani spezza-
una piazza notturna. È dichiaratamen- te contro i carri armati… non resta che
te una parodia del leggendario (e stori- un’amara smorfia di rassegnazione.
camente infondato) attacco della Temo proprio che – magari inconsape-
cavalleria polacca che subito dopo l’in- volmente – la “scuola polacca” abbia
vasione da ovest del settembre 1939 fatto suo lo stereotipo della “polonitas”
si sarebbe lanciata con impulso teme- plasmatosi nel secolo XIX […]. Visto
rario e disperato contro i carri armati che la “scuola polacca” non rinnega
tedeschi, raffigurato ad esempio in quell’ordine di idee, non abbandona
Lotna (“Che vola”, 1959) di Wajda: per quell’intonazione sentimentale, anche
quanto storicamente improbabile, dal la sua aspirazione all’universalismo
punto di vista visivo e simbolico è la
stessa inanità dichiarata dell’azione
che dà però un’impronta drammatica
quasi sacrale all’immagine mitopoieti-
ca dei cavalieri e dei loro destrieri, a
rappresentare l’élite di tutto un popolo
ancorato alle proprie tradizioni militari
e nobiliari, alle quali torneremo oltre.
Skolimowski si pone invece in modo
obliquo, quasi di traverso rispetto all’e-
redità romantica e “messianica” del-

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deve risultare inappagata»6. Ed è inve- rabile immaturità, in un assassino. La


ce l’universalità ironica del discorso di lotta contro una falsa maturità e l’at-
Skolimowski a farne un autore che tacco alla baionetta contro le conven-
supera a pie’ pari le pastoie autoimpo- zioni istituzionali (l’istruzione, la fami-
ste di certo cinema impegnato e i miti glia, le divisioni di classe, i privilegi dei
lacrimosi di un romanticismo risorgi- “vecchi”) costituiscono poi il nucleo
mentale ormai superato. fondante dell’interessante trasposizio-
ne del ’91, dove Skolimowski riesce a
Un uomo con la valigia dare una struttura giocosa e visiva alla
Una volta che l’aria della PRL, la “Forma” verbale di Witold Gombrowicz.
Polonia “popolare”, si era fatta troppo In mezzo a questi film tematicamente
pesante, Skolimowski continuò un affini c’è qualche passo falso e qual-
discorso di lotta trasversale contro la che stramberia, ma ondeggiando fra
normalità anche con i suoi primi film vari paesi e varie fonti di ispirazione
internazionali, Il vergine (Le depart, l’ex pugile ha assestato anche degli
1967) e La ragazza del bagno pubblico uppercut da capogiro: si vedano i for-
(Deep End, 1970), per poi riallacciarsi midabili L’australiano (The Shout,
a questa sua linea giovanilistica e con- 1978), la versione ampliata di un film
testataria solo dopo un discreto salto geniale e straziante che aveva comin-
temporale, nel 1991, con Thirty Door ciato in patria, Mani in alto (Rece do
Key/Ferdydurke (Ferdydurke). Nel film góry, 1967-1981) e poi ancora
del 1967 il feticcio truffautiano Jean- Moonlighting o Lightship – La nave
Pierre Léaud gli offre un ennesimo faro (The Lightship, 1985). Non si pre-
alter-ego sportivo e in moto perenne, tenderà di poter rintracciare dei deno-
con la sua passione per le corse che lo minatori comuni a una filmografia così
porta a diventare ladro di auto. In Deep complessa, piuttosto ci soffermeremo
End, ai margini della Swinging London, sulle pagine della sua opera che trovia-
l’inesperto protagonista si ritrova spae- mo più funzionali al presente discorso,
sato in un mondo sessualmente ovvero quelle in cui si esprime al
aggressivo e finisce con il trasformarsi, meglio la riflessione metaforica sulla
ancora una volta a causa di un’irrepa- storia e la mitologia di un paese. Sotto
questo punto di vista Mani in alto, a
lungo bloccato e completato con nuovi
materiali solo nel 1981, è esemplare:
gli operai che si distraggono mentre
eseguono il più alto compito simbolico
della costruzione del socialismo, ovve-
ro l’edificazione dell’effigie del Capo,
sono l’immagine più esplosiva e ricca
di doppi sensi della storia di tutto il
cinema del Patto di Varsavia. Il volto di
Stalin viene eretto sul manifesto cele-
brativo con modalità che si rivelano

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sproporzionate in tutti i sensi: con i dell’autoassoluzione, ovvero si isola
suoi quattro occhi, risultanti dall’aver dal mondo normalizzato del regime in
applicato per distrazione due volte lo costruzione, provando illusoriamente a
stesso elemento prefabbricato, la sfuggire al castigo che spetterebbe
guida del socialismo mondiale diventa loro, per scoprire purtroppo nel finale
il simbolo spaventoso del controllo di non essersi neanche mosso dal
eccessivo e della distruzione del priva- punto di partenza.
to. “Big Brother is watching you” ha Con questo che è il suo film più smac-
scritto qualcuno, e qui il Grande catamente antirealista Skolimowski
Fratello sovietico (che perfino nella affronta dunque il discorso del Potere,
mitologia annacquata dell’Italietta di come le istituzioni burocratiche e
guareschiana cercava di “vedere” poliziesche di qualsiasi segno politico
all’interno delle cabine elettorali) rea- siano riassumibili nel controllo (visivo e
lizza la metafora demo-scopica della psicologico) sul privato e nell’inscatola-
sua onnipresenza spionistica. Stalin si mento (che si tratti di vagoni o di codi-
rivela per il mostro occhiuto e invaden- ci di comportamento prestabiliti è
te che è: il controllo ossessivo delle indifferente) all’interno di norme
coscienze e della privacy, realizzato nei imprescindibili. A chi non si accontenta
vari paesi dell’est attraverso l’onnipo- dell’illusione del movimento di un
tente polizia segreta e la censura arti- vagone-prigione, a chi vuole davvero
stica, viene qui visualizzato in modo spostarsi e viaggiare con la mente non
tanto semplice quanto disgustoso. Iosif resta che lasciare la propria patria,
Vissarionovicv si impone come il Grande come fece per la prima volta Jerzy alla
Osservatore, il Controllore Totale, ed è fine degli anni Sessanta.
il figlio deforme della società novecen- Sebbene poi il suo sia stato un esilio
tesca, il sorridente padre protettore atipico (il carattere centrifugo del regi-
con il dito alzato in segno di avverti- sta non ha affatto escluso ritorni e
mento, a un tempo benedicente e attrazioni gravitazionali centripete) egli
punitivo, nonché portatore di una ha comunque poi usufruito di quel pre-
“visione” dominante e superiore che zioso “sguardo dall’esterno” che per-
non accetta, appunto, altri “punti di mette di ragionare con maggiore
vista”. Skolimowski, con una sola distacco analitico sulle sventure e sul-
immagine, è più eloquente sul totalita- l’evoluzione del proprio paese. In que-
rismo del secolo breve di centinaia di st’ottica l’ultimo film sul quale voglia-
pagine esemplari di Hannah Arendt. mo soffermarci è Moonlighting, altra
Non è certo un caso dunque che la gemma metaforica a più strati che il
vicenda dei cinque operai “distratti” e nostro estrae dal suo cilindro di
ubriachi prosegua addirittura all’inter- improvvisato e quasi involontario
no del vagone chiuso di un treno, che osservatore sbilenco dei fatti di casa
richiama in forza di un’inevitabile asso- sua. Il gruppo di operai condotti in mis-
ciazione mentale i convogli usati dai sione costruttiva nella Londra dei primi
nazisti. Al suo interno il gruppetto di anni Ottanta realizza miracolosamente
proletari-intellettuali inscena la farsa e cinicamente su scala ridotta quel fal-

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lito progetto di edificazione socialista regista (risistemata un paio di anni


che nella loro patria sta vivendo (siamo prima appunto grazie a manovalanze
nel dicembre 1981) il suo scacco più polacche a basso costo), mentre il film
doloroso: il colpo di stato e la legge diventa proprio la prima urgente testi-
marziale imposta dal generale monianza (per quanto indiretta e arti-
Jaruzelski per contrastare l’opera del sticamente stilizzata) sul colpo di stato
primo sindacato libero, quello della e i suoi deleteri effetti psicologici su
Solidarność di Lech Wal/esa e Adam tutto un popolo. Come spesso accade
Michnik7. Instant-movie per definizio- a questo autore bonariamente perse-
ne (fu girato nei mesi immediatamente guitato dal destino, qui la realtà e l’in-
successivi agli eventi), notevole nella venzione si inseguono e mettono in
sua essenzialità quasi muta, ma mal scena un esemplare corto circuito
compreso perfino da alcuni connazio- semantico, e sebbene non ci si possa
nali, che accusarono il regista di “diffa- appiattire su certe interpretazioni che
mare i polacchi”. In realtà è una acuta vedono in Nowak un parallelo diretto
metafora sul potere della disinforma- con Jaruzelski, Moonlighting rimane
zione: il severo capo degli operai uno splendido apologo sull’arbitrio di
Nowak (Jeremy Irons) li tiene all’oscuro chi domina l’informazione e la centelli-
del capovolgimento antilibertario na contro le masse ignare ad uso e
appena avvenuto in patria, affinché consumo dei detentori del potere (qui il
essi portino a compimento senza businessman invisibile che approfit-
distrazioni la ristrutturazione della terà della casa ristrutturata, ma che
casa di un loro ricco connazionale. sfrutta senza scrupoli la forza lavoro
Nella realtà quella è l’abitazione del sottopagata dei suoi connazionali). Più
che un’identificazione con i politici
comunisti dell’epoca si può piuttosto
rilevare nel capomastro Nowak un’effi-
gie neanche tanto nascosta della figu-
ra del regista, piccolo tiranno delle
maestranze filmiche e raffinato violen-
tatore dei propri attori, tanto più che in
questo caso l’autore si trova a casa
sua, e su quello che è ovviamente il
suo terreno di gioco preferito, un set
cinematografico, dove deve tenere
aperti tutti i suoi quattro e più occhi dit-
tatoriali affinché il progetto collettivo e
progressista chiamato film venga glo-
riosamente realizzato entro i limiti di
quel piano quinquennale che è l’agen-
da delle riprese.

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ANALISI 2
Sotto la superficie te costretto ad uccidere per poter pro-
Per la sua ultima fatica Skolimowski, lungare anche solo di un giorno la sua
da poco ritrasferitosi in patria dopo attonita agonia antropologica.
venticinque anni di America, ha scelto Ma di cosa parla Essential Killing? La
di collaborare con uno degli attori di domanda è semplice e fuorviante al
culto della scena statunitense, per tempo stesso, in quanto questo è un
interrogarci su una questione estrema: film multistrato, come un moderno
cosa c’è di “essenziale” nell’atto di supporto di riproduzione digitale che
uccidere? La risposta è disarmante: io nasconde degli “Easter Eggs”, ovvero
vivo – tu muori. dei grumi di senso non immediatamen-
C’era da aspettarsi una miscela esplo- te evidenti all’occhio distratto. Forse si
siva dall’incontro di uno dei più geniali può spendere la parola magica che
autori del cinema polacco con il lunati- aiuti ad aprire il vaso di Pandora del-
co e umorale Vincent Gallo. Il risultato l’ultimo parto skolimowskiano: questo
non ha affatto deluso, l’“esplosione” è in realtà un film esoterico, per inizia-
causata dall’incontro di due nature ti. Iniziati a cosa? Cercherò di spiegar-
artistiche sopra le righe c’è stata. I lo nelle pagine seguenti.
pezzi di cinema risultanti dalla defla- Per ora cambiamo per comodità opera-
grazione prendono a volare fin dall’in- tiva la domanda di partenza, trasfor-
cipit, insieme ai brandelli di carne dei mandola in un più lineare: che cosa
tre soldati americani fatti saltare in vediamo nel film Essential Killing? Che
aria da Mohammed, nome più simboli- cosa vede lo spettatore medio, abitua-
co che reale per questo antieroe silen- to, edotto (o forse, sedotto?) dalla

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visione dei vari Rambo, Il fuggitivo e quale non parla mai, aggiungendo così
altri film di genere della produzione di un fondamentale carattere di generi-
massa? Vediamo, ciò è incontrovertibi- cità, sovraterritoriale e sovratempora-
le, in un’impervia gola rocciosa un le, alla sua figura. Alcuni agenti coin-
uomo con la barba lunga e in abiti volti nell’operazione di trasferimento
orientali attaccare ed uccidere con iniziano a parlare polacco ed il resto
un’arma sottratta ad un avversario della vicenda si svolgerà interamente
alcuni militari che parlano inglese. nella patria dell’autore, senza però che
L’uomo (l’attentatore? o il perseguita- didascalie o indicazioni esplicative di
to? ricordiamo che era disarmato e che sorta chiariscano questo fondamenta-
probabilmente i militari occupano la le elemento diegetico allo spettatore.
sua patria, mentre non è vero il contra- Sorge naturale la domanda: questa
rio) viene catturato ed interrogato. decisione di sceneggiatura ha un fon-
Il fatto che un Vincent Gallo “elementa- damento storico reale? Si può dirimere
re”, animalesco venga catturato da la questione in due corni: ufficialmente
truppe straniere fornisce in realtà solo no, in quanto gli organismi governativi
una cornice storica di comodo, che è polacchi non hanno mai ammesso di
forse poco più che un pretesto per sca- aver fornito supporto logistico in que-
tenare una caccia all’uomo senza sto senso a velivoli statunitensi nel-
sosta in cui, nella seconda parte, il fug- l’ambito di operazioni antiterroristiche.
gitivo torna all’essenzialità scarna e Né risultano sui registri ufficiali degli
ancestrale della sua sopravvivenza. Ha aeroporti polacchi voli militari della CIA
luogo dunque il trasferimento del pro- adibiti al trasferimento di prigionieri
tagonista secondo le procedure di pericolosi. Da un punto di vista meno
massima sicurezza immaginabili per ufficiale invece nel periodo 2002-
quanti sono sospettati di terrorismo, e 2003 sono stati intercettati diversi
lo spettatore medio, almeno minima- movimenti sospetti di aerei americani
mente al corrente delle vicende post Gulfstream, in particolare attorno
11 settembre, si attenderebbe un tra- all’aeroporto nord-orientale di Szyma-
svolo fino alla poco accogliente base di ny (non lontano dall’attuale residenza
Guantanamo o qualcosa di simile. Ma dell’autore)8. Alcuni esponenti della
qui la superficie del film si incrina, e stampa polacca e di organizzazioni per
inizia a lasciar trasparire la sua vera i diritti civili hanno inutilmente richie-
essenza omicida (come da titolo), il sto delucidazioni in proposito, ma le
nucleo reale dell’interesse di Skoli- autorità governative si sono sempre
mowski: un discorso molto più com- rifiutate di desecretare le relative
plesso e diacronico sulle dinamiche di documentazioni.
potere e sul ruolo della sua patria e Il fatto che non solo in Polonia, ma per
della cultura europea. lo meno anche in Romania e nei paesi
Verso il minuto quindici inizia a risuo- baltici siano stati operativi dei centri di
nare un’altra lingua, e questa non è né detenzione segreti al servizio della CIA
l’inglese dei militari che conducono le non è dunque una mera invenzione
operazioni, né quella di Mohammed, il registica. Fra le problematiche solleva-

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ANALISI 2
te nelle indagini promosse dai media Ovvero in una No Man’s Land a dispo-
polacchi viene citata anche la questio- sizione dell’imperialismo, del totalitari-
ne della «perdita di sovranità di parte smo, e infine della globalizzazione poli-
del territorio della Repubblica tica di turno. E in questa terra di nessu-
Polacca». Il problema dunque esiste, e no, in questo paese che (come tradizio-
pur dichiarando di non voler trasforma- nalmente rileva la storiografia polacca)
re Essential Killing in un pamphlet poli- non è dotato di difese naturali che la
tico lo stesso Skolimowski ha affronta- proteggano dalle brame dei vicini più
to la questione in alcune conversazioni agguerriti, bisognerà pur difendersi.
con degli intervistatori connazionali9. Per garantire la propria sopravvivenza
Il problema della territorialità è comun- vale qualsiasi mezzo: per uccidere gli
que imprescindibile. Se non proprio altri animali, gli esseri viventi nemici
direttamente da una prospettiva socio- (che siano uomini, cani o pesci è “in-
politica, il discorso della terra, del dirit- essenziale”) in un ambiente ostile e al
to di un popolo ad una propria indipen- limite della sopportabilità umana non
denza geografica e culturale (per non si pongono remore morali. Una delle
parlare di una sovranità territoriale) sfide dichiarate della pellicola è dun-
deve essere rimasto ben presente nel que quella di condurre lo spettatore ad
DNA di un intellettuale polacco che sa interrogarsi fino a che punto il suo spi-
troppo bene come smembramenti, rito di immedesimazione con un perso-
suddivisioni ed “invasioni di campo” naggio braccato e sostanzialmente
abbiano rischiato di trasformare innocente possa sopportare tante cla-
Varsavia e dintorni in una terra di tutti. morose violazioni delle essenziali rego-

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le di convivenza sociale. A ben vedere Démanty Noci (“I diamanti della notte”,
Mohammed non gode mai nell’atto 1964) di Jan Nevmec, maestro della
dell’assassinio, è tremante, scosso, nouvelle vague praghese10. Anche lì
insicuro, a tratti piangente. Non è dun- due fuggiaschi vagavano senza spe-
que un killer professionista, il suo ranza per tutto il film in un bosco ino-
gesto di uccisione è infatti primario, spitale, riducendo le proprie attività
autoreferenziale, nel senso che con vitali all’essenziale: conservazione del
esso si persegue la mera conservazio- calore corporeo, sostentamento ali-
ne della propria vita in un habitat mentare d’emergenza e distanza mas-
avverso. La conseguenza logica che sima possibile dagli animali che li brac-
possiamo trarne è che nell’ambiente cavano (in quel caso i tedeschi).
ostile dell’Europa di inizio XXI secolo I parallelismi con il film di Nevmec si
valga homo homini lupus. Skolimowski sprecano. Lì si trattava di due ebrei
violenta la percezione dello spettatore, fuggiti ad un convoglio di deportazione,
costringendolo diabolicamente a pren- che arrancavano disperati per i pendii
dere le parti di un uomo capace di scoscesi di una natura inospitale, così
uccidere un altro essere umano con come fa il fuggiasco di Skolimowski per
una sega elettrica. È questo il parados- i paesaggi innevati della Polonia (a
so storico, l’aporia della fruizione, l’im- volte si ha quasi l’impressione che per-
moralità della visione davanti a cui fino le angolazioni siano identiche,
siamo scaraventati. ricreate ad hoc); sia nel film ceco che
Il massacro non è motivato dall’odio in questo polacco ci sono ripetuti flash-
(tanto meno razziale o fondamentali- back onirici sulla vita dei protagonisti
sta), bensì dal più basilare istinto di precedente allo scoppio della violenza
sopravvivenza. Siamo di fronte ad una e in entrambi i casi vengono ricordate
bruciante scarnificazione dei fonda- le figure femminili amate all’interno di
menti della vita umana, che la riduce un contesto familiare quotidiano (lì la
alle sue forme e funzioni biologiche Praga anni Quaranta, qui un villaggio
cardinali: caldo vs freddo; cibo vs ine- orientale)11; in entrambi i film c’è la
dia; sanità corporea vs dolore. stessa citazione buñueliana delle for-
Si sono già citati alcuni film d’azione di miche sulla mano (nel primo sono pre-
produzione hollywoodiana che potreb- sagio brulicante di morte, qui Gallo le
bero venire in mente per un superficia- mangia per sopravvivere); in entrambi i
le confronto. Non si può certo esclude- film c’è un incontro salvifico con una
re che essi rivestano una generica fun- donna sola e muta, ed in entrambi i
zione di riconoscibilità di genere, ma casi la figura femminile è “portatrice di
tanto meno si può escludere che il latte”. Vero è che Skolimowski si inven-
buon Skolimowski (sceneggiatore e ta con geniale sberleffo una suzione
studioso di cinema già dagli anni materna direttamente al seno, mentre
Sessanta) abbia tenuto invece a mente in Nevmec la bevanda è donata in una
un classico del cinema cecoslovacco ben più tradizionale tazza, ma gli
(del resto in quel paese ha anche vis- addendi dell’operazione sono gli stes-
suto, conoscendo Václav Havel e Milosv si. Lì come qui il fuggiasco non ha biso-
Forman e studiandone la lingua): gno di parole, ma di fonti vitali essen-

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ANALISI 2
ziali (il calore fornito dai rami, qualsia- criptica. Skolimowski è troppo esperto
si tipo di cibo che conceda un giorno in di cinema metaforico, troppo bene
più di sopravvivenza, l’acqua dei tor- conosce i rapporti di violenza fra gli
renti o della pioggia); lì, come qui, non Stati e dello Stato sull’individuo per
è importante lo scioglimento narrativo non celare in questa “semplice” fuga
o l’esito della fuga, bensì lo studio un’accusa più generale ad episodi di
entomologico delle possibilità ultime sopraffazione dei diritti dell’uomo. Ma,
della specie umana, posta in una bisogna ribadirlo, così come negli anni
situazione estrema. Ed altri ancora Sessanta dei suoi esordi neanche qui
sono i tratti ricorrenti, espressi anche egli si adagia nei canoni estetici o idea-
con modalità puramente visive, che li di un compiaciuto vittimismo nazio-
evocano a vicenda le due opere: si nale. Il discorso politico, se proprio lo si
prenda il motivo della scarpa e del vuole evidenziare, ha dimensioni uni-
piede sanguinante, l’albero che in versali e non si limita ad una contrap-
entrambi i film cade minaccioso dall’al- posizione manichea fra una patria
to verso i protagonisti, l’incomunicabi- innocente, lacerata e oppressa, e un
lità linguistica fra braccati e inseguitori malvagio invasore straniero. La patria
(nel film ceco si tratta di tedeschi dei è anzi in questo caso dotata di caratte-
Sudeti, fiancheggiatori dei nazisti). ristiche contraddittorie e non univoca-
Non si tratta affatto di plagio, sia ben mente classificabili: da un lato è terra
chiaro, ma di un’intelligentissima e invasa e dunque sofferente, dall’altro è
bruciante attualizzazione della stessa natura ostile e disumana. Anche il pro-
poetica della sopravvivenza ad ogni tagonista si muove in uno spazio idea-
costo, del doloroso ritorno a ritroso
le piuttosto eterodosso, fra lo straniero
lungo la scala evolutiva e della fusione
e l’apolide, e non è assimilabile a figu-
obbligata con la natura inospitale12.
re-modello di eroe, rivestendosi al con-
Di non immediata lettura anche alcuni
trario di tratti contraddittori e anche
riferimenti alla cultura polacca: nel
repellenti.
fatto stesso che il convoglio di prigio-
nieri non venga trasportato su territo-
Colori mimetici
rio americano, bensì in una landa inne-
vata che scopriremo essere la Polonia Una considerazione a parte merita poi
(o, piuttosto, lo “scopre” chi riconosce il finale, in cui osserviamo il mesto e
la lingua) si può leggere, come già desolato allontanamento di Moham-
accennato, un riferimento polemico med moribondo su quello che è il sim-
alle basi militari USA molto probabil- bolo della nobiltà e della gloria nazio-
mente presenti in diverse località del nale di un paese: il cavallo delle arma-
nord Europa, ai limiti della legalità te polacche, il miglior compagno degli
internazionale. Il fatto che la sua ussari e degli ulani che per secoli
patria, già soggetta nei secoli ad inva- hanno rappresentato la testa di ponte
sioni e spartizioni violente, venga tra- dell’orgoglio militare e nobiliare di una
sformata nel teatro di guerra di una nazione. In particolare l’animale ha poi
causa straniera, offre il destro ad un pelo bianchissimo, arricchendosi
un’interpretazione neanche troppo dunque facilmente di ulteriori nessi

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simbolici: dalla tradizione letteraria fia- indipendenza e libertà. Nel contesto


besca a quella iconografica legata polacco, che ha fra i suoi fondamenti
all’Ottocento (basti pensare anche mitopoietici quello della “szlachta”,
solo a Bonaparte, a Garibaldi, nonché della nobiltà fiera e combattiva che
alle connesse facili ironie popolari) il simboleggia il fiore della nazione e la
destriero dal manto niveo rappresenta rappresenta sullo scacchiere europeo,
un surplus di purezza e di valore, che il esso poi viene investito di ulteriori
cinema polacco non ha omesso, come significanze complesse, legate al desti-
era prevedibile, di tematizzare. Si ricor- no nazionale e alla libertà dello spirito.
di anche solo il già menzionato Lotna Senza voler andare troppo indietro nei
di Andrzej Wajda, storia di un cavallo secoli offriremo per comodità almeno
bianco “stregato”13 che accompagna alcuni spunti storici: durante la campa-
uno squadrone di ulani durante la gna napoleonica nella penisola iberica
seconda guerra mondiale14. Anche se (iniziata nel 1808) il corpo degli ulani
non è bianco, il cavallo gioca poi un polacchi si distinse per eroismo nell’e-
ruolo centrale anche in Cwal/ (Galoppo, sercito imperiale del Grande Corso,
1995) di Zanussi, dove l’equitazione nella speranza di riottenere indipen-
rappresenta la libertà del movimento e denza ed integrità territoriale dopo le
la sfida portata dall’antica tradizione varie spartizioni che avevano smem-
patriottica all’ignoranza e al grigiore brato il territorio polacco. Viene in
antiromantico del regime comunista. Lì mente almeno una trasposizione cine-
Zanussi ripescava, ristrutturandoli matografica che tocca il periodo:
opportunamente, alcuni episodi auto- Popiol/y (Ceneri, 1965), ancora una
biografici per proporre un’immagine volta di Andrzej Wajda. I cavalieri
ironica ma pur tuttavia realistica del polacchi diedero prova di ardimento in
profondo rapporto che certe classi quello che divenne forse il mito fon-
sociali del suo paese coltivavano verso dante della potenza militare nazionale,
i valori di una tradizione aristocratica, l’assalto della cavalleria alla fortezza
autoctona e antica, messi da parte spagnola di Somosierra16, e la carica
nella democrazia popolare in quanto quasi suicida che Wajda inscena nella
giudicati pericoloso “rimasuglio del sua trasposizione dal romanzo omoni-
.
passato borghese”, e tendenziosa- mo di Stefan Zeromski rende un’imma-
mente contrapposti a quelli che veni- gine plastica della temerarietà dei
vano spacciati come i reali bisogni pro- reparti di cavalleria leggera, pronti a
letari e contadini15. Fra gli altri film gettarsi in sella ai propri destrieri con-
dedicati all’epopea della cavalleria e ai tro una sfilza di barricate disseminate
suoi protagonisti si ricorderà poi alme- di cannoni17. Almeno en passant dire-
no Hubal (1973), di Bohdan Poreba, mo che molte sono poi le rappresenta-
dedicato alla figura del maggiore parti- zioni della cavalleria anche nell’icono-
giano Henryk “Hubal” Dobrzański. grafia romantica e post-romantica18.
In generale è piuttosto facile compren- Tale è la sottolineatura extra-storica di
dere come questo superbo animale sia queste imprese eroiche che in alcuni
da diverse culture associato ad idee di testi si arriva a paragonare anche altre

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ANALISI 2
unità militari ben più moderne a redime, il niveo territorio della madre
destrieri impegnati in coraggiose cari- patria, andandosi a versare copioso su
che in difesa del sacro territorio nazio- uno dei simboli della migliore società
nale o dell’onore polacco all’estero19. nazionale. È quasi una bandiera polac-
Proprio in contrapposizione ironica a ca sui generis quella che si trafila sul
questa prosopopea un po’ esagerata si manto insanguinato del destriero,
proponeva Skolimowski già nel 1966 un’interpretazione criptica e simbolica
con la già citata sequenza del duello che in effetti contraddice lo Skolimow-
fra la sciabola e l’automobile nel suo ski antiromantico dei primi film, ma
terzo film Barriera20. che ne fa un maturo rappresentante di
Nel finale di Essential Killing vedere il un tipo di arte complessa e non imme-
destriero bianco unto dal sangue di diatamente leggibile, di un’arte che
una “vittima di guerra” straniera, di un nasconde un’articolata riflessione
invasore involontario, non è dunque sulla storia di un paese sotto le sem-
solo un’immagine ad effetto, ma richia- bianze dell’ennesimo film d’azione.
ma (come pure precedentemente la La neve intatta e cristallina dell’ultima
tuta bianca di Mohammed insanguina- inquadratura, dalla quale sbucano fili
ta dopo la sua lotta ferina con gli d’erba che il cavallo insanguinato e
autoctoni) un contrasto di toni e di ormai abbandonato bruca serenamen-
colori simbolici che non può sfuggire te, fa balenare l’idea di una catarsi
soprattutto ad un pubblico italiano, già ottenuta attraverso il sacrificio dell’-
abituato alle simbologie del tricolore: il “assassino innocente”. Lo stesso fatto
sangue di un innocente sporca, o forse che la vicenda si svolge probabilmente

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durante il periodo natalizio (si veda il esegeti il dubbio se Mohammed rap-


fisarmonicista che suona Astro del ciel presenti più da vicino un diavolo por-
davanti alla casa dove la donna muta tatore di sventure o un novello Gesù
accoglie Mohammed) fa pensare ad respinto dalla globalizzazione tecnolo-
inevitabili addentellati cristologici. Se gica, così come agli specialisti lascere-
poi ricordiamo che nella sequenza d’a- mo l’analisi dei tratti più propriamente
pertura uno dei tre militari americani religiosi di un’opera che già dal punto
menziona la visione di «tre viaggiatori di vista generalmente antropologico ci
che scoprono l’Anticristo in una caver- pare superare di gran lunga ogni altra
na in Afghanistan» e che a un dato cosa vista alla Mostra di Venezia
punto Mohammed si addormenta in 2010, dove Essential Killing ha merito-
una mangiatoia, non possiamo che riamente conquistato Premio Speciale
ammettere una ulteriore dimensione della Giuria e Coppa Volpi per il prota-
spirituale in questo film a doppia, gonista, innocente Anticristo in terra
forse tripla lettura. Lasceremo ad altri messianica.

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ANALISI 2
Essential Killing
Regia: Jerzy Skolimowski; sceneggiatura: J.S. e Ewa Piaskowska; fotografia
(colori): Adam Sikora; montaggio: Réka Lemhényi; musica: Pawel/ Mykietyn;
suono: Robert Flanagan; costumi: Anne Hamre; interpreti: Vincent Gallo
(Mohammed), Emmanuelle Seigner (Margaret), Zach Cohen, Iftach Ofir (merce-
nari americani), Nicolai Cleve Broch, Stig Frode Henriksen (piloti di elicottero),
David Price (ufficiale), Klaudia Kaca (donna in bicicletta), Dariusz Juzyszyn
(taglialegna); produttori: J.S. e Ewa Piaskowska; produttori esecutivi: Jeremy
Thomas e Andrew Lowe; origine: Polonia, Norvegia, Ungheria, Irlanda, 2010;
formato: 1:2,35; durata: 83 min.

Note
1. Basterà qui ricordare funzionalmente un titolo per ciascuno: Rosemary’s Baby (1968),
Possession (1981) e La bestia (1975).
2. All’interno di questa nostra suddivisione anche Krzysztof Kieślowski è un autore centrato,
aggettivo che (ci teniamo a sottolinearlo) non va confuso con “pacificato” o “conformista”
(spesso si tratta di autori invisi ai regimi), e indica invece che essi hanno un piano carte-
siano piuttosto definito e adottano un punto di vista etico ed ideologico piuttosto stabile
dal quale descrivono la realtà attraverso il proprio cinema. Skolimowski ha invece un punto
di vista mutevole, mobile, e piuttosto esterno al sistema di valori considerati.
3. Molte di queste definizioni sono rintracciabili nell’ottimo Jerzy Skolimowski, (a cura di
Mal/gorzata Furdal e Roberto Turigliatto), Lindau, Torino 1996.
4. Abbiamo in mente Alberto Farassino, Ristrutturalismo o The Rise and Fall of the House of
Skolimowski, in Jerzy Skolimowski, cit., pp. 151-158, che ricostruisce le vicende dei film
inglesi del nostro, Moonlighting e Successo ad ogni costo, e le paradossali disavventure
del loro set domestico. Ricordiamo che la casa londinese si vede anche nel prologo aggiun-
to nel 1981 al film Mani in alto.
5. Dalla scuola polacca al nuovo cinema, 1956-1970, (a cura di Mal/gorzata Furdal e Roberto
Turigliatto), Ubulibri, Milano 1988, p. 110.
6. Idem, p. 112.
7. Fra i libri più interessanti (purtroppo ancora non disponibili in italiano) sulle vicende stori-
che della Polonia del XX secolo si segnalano Andrzej Paczkowski, Pu °l století devjin Polska
1939 – 1989, Academia, Praha 2000, e István Kovács, Pilsudski... Katynv... Solidarita...
/

Klícvové pojmy polských devjin 20. století, Barrister a Principal, Brno 2010.
8. Si vedano alcune voci giornalistiche indipendenti ai seguenti indirizzi:
www.rp.pl/artykul/291250.html; www.rp.pl/artykul/291762.html, o ancora
media.wp.pl/kat,1022939,wid,11044157,wiadomosc.html?ticaid=1c11d.
9. Si veda ad esempio menstream.pl/ludzie-rozrywka/skolimowski-essential-killing-wzial-sie-
z-lenistwa,0,676619.html.
10. Sul regista ceco si veda almeno il catalogo della retrospettiva a lui dedicata dal Festival
triestino Alpeadria, Jan Nemec, (a cura di Paolo Vecchi), Lindau, Torino 2003.
11. Nel film di Skolimowski troviamo quattro momenti in cui il protagonista ricorda o sogna il
suo passato o addirittura (negli ultimi due) prefigura la sua fine. Oltre che da un montag-
gio ricco di flash (back e forward) e da una fotografia sovraesposta, queste quattro brevi
sequenze mentali sono caratterizzate dalla presenza delle parole del Corano, recitate da

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una voce sacerdotale fuori campo, probabile richiamo ad un forte indottrinamento religio-
so di Mohammed, ma anche contrappunto scritturale alla vicenda umana del fuggiasco.
La prima volta avviene durante la tortura col metodo waterboarding praticatagli dai milita-
ri americani. Le parole del Profeta sono: «Non siete certo voi che li avete uccisi. È Allah che
li ha uccisi» (Corano 8,17), quasi a fornire una sorta di aura sacrale all’omicidio iniziale dei
tre soldati. La seconda è durante il sonno ristoratore in una mangiatoia (carica di rimandi
simbolici): «Invero io confido in Allah, mio Signore e vostro Signore. Non c’è creatura che
egli non tenga per il ciuffo. Il mio Signore è sul retto sentiero» (Corano 11,56). Anche
Mohammed fino a quel punto è stato salvato, tenuto per i capelli, da Allah. La terza occor-
renza è poco prima che il personaggio uccida un tagliaboschi in modo spietato. Il testo,
non a caso, recita: «Vi è stato ordinato di combattere, anche se non lo gradite. Ebbene, è
possibile che abbiate avversione per qualcosa che invece è un bene per voi, e può darsi
che amiate una cosa che invece vi è nociva. Allah sa e voi non sapete» (Corano 2,216).
L’ultimo inserto, dopo il tragico allattamento e il conseguente pianto del protagonista, è
accompagnato da un passo che sa di presagio: «Combattiamo, dunque, sul sentiero di
Allah, coloro che barattano la vita terrena con l’altra. A chi combatte per la causa di Allah,
sia ucciso o vittorioso, daremo presto ricompensa immensa» (Corano 4,74).
12. Non ho rinvenuto alcuna dichiarazione esplicita del regista in questo senso, ma i paralleli
con il film del 1964 sono tali e tanti che ritengo quasi certa la sua conoscenza dell’opera.
13. Si leggano alcuni interessanti saggi, inclusi in Andrzej Wajda, Il cinema, il teatro, l’arte, (a
cura di Silvia Parlagreco), Lindau, Torino 2004: ad esempio Massimo Causo, Il marmo, il
ferro, la carne. Il Cinema di Andrzej Wajda tra Storia, Uomo e Individuo (pp. 17-27), dal
quale citiamo: «…grande metafora del cavallo bianco incarnata da Lotna: quello che tradi-
zionalmente è un simbolo legato all’idea di un glorioso ritorno alla propria terra da conqui-
statori, si traduce infatti per Andrzej Wajda nell’emblema di un’armonia talmente impro-
pria per la realtà disgregata del mondo e della Storia da ribaltarsi in un segno di morte.
Questo nobile cavallo bianco […] si tramuta in un emblema di morte, per chi lo cavalca
senza avere nel cuore lo spirito giusto» (p. 22).
14. In merito ci piace citare un’intervista al regista, che proprio riguardo a questo suo film
dovette affrontare in patria alcune critiche su presunti “eccessi formali” o su un “abuso di
simbolismi”: «Cercare un significato cifrato un po’ ovunque è tipico di noi polacchi. Siamo
profondamente convinti che le cose che vediamo sullo schermo abbiano molteplici signifi-
cati» (Dalla scuola polacca al nuovo cinema, 1956-1970, cit., p. 98). Si ricordi poi almeno
un’altra apparizione simbolica del cavallo bianco nell’opera del regista, quella nella parte
finale di Cenere e diamanti (1958). Per curiosità si noterà come verso la fine di Acque di
primavera (1989), Skolimowski stesso sembra giocare con reminiscenze wajdiane:
Timothy Hutton vaga per il carnevale di Venezia alla ricerca della sua amata, quando all’im-
provviso ed in modo apparentemente illogico compare all’interno di una stanza gentilizia
un cavallo bianco che sembra quasi minacciarlo e che si impone come epifania magico-
onirica. È come se fosse penetrato nel palazzo nobiliare in virtù di quella stessa forza pro-
digiosa, legata alla sua ontologica e fiabesca nobiltà, che aveva portato il cavallo Lotna
davanti al letto del vecchio proprietario malato nelle prime sequenze dell’omonimo film di
Wajda.
15. Citiamo almeno uno scambio di battute ironico fra la protagonista interpretata da Maja
Komorowska ed un rappresentante comunista: «…ma se si dice che andare a cavallo è un
rimasuglio del passato borghese»; «Sì, ma anche il maresciallo Rokossowski va a cavallo…»
(Rokossowski – o Rokossovskij secondo la grafia russa – fu generale dell’Armata Rossa,
per poi divenire Ministro della Difesa polacco). Inoltre è lo stesso Zanussi a dichiarare: «[I
cavalli] è vero che li amo, fin da bambino vado a cavallo e questo è l’unico sport in cui ho
riportato qualche seppure minino successo (il mio nome apparve per la prima volta sulla
stampa quando, al liceo, conquistai il secondo posto nel Cross Country)» (Krzysztof
Zanussi, Tempo di morire. Ricordi, riflessioni, aneddoti, traduzione di Lucia Petti Lehnert,
Spirali, Milano 2009, p. 50).
16. Il 30 novembre del 1808 il “Reggimento di Cavalleria Leggera Polacca della Guardia
Imperiale” napoleonica realizzò una carica vittoriosa contro la fortezza spagnola di
Somosierra, difesa dall’artiglieria e situata sulla strada che portava verso Madrid. Si veda

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ANALISI2
.
in proposito Jerzy Roman Krzyzanowski, Legenda Somosierry, in American Contributions to
the Seventh International Congress of Slavists, Warsaw, August 21-27, 1973, Mouton The
Hague (Paris) 1973, pp. 357-371, anche per alcuni altri riferimenti letterari che tematizza-
no o citano l’episodio, fra i quali ricorderemo almeno il Pan Tadeusz di Mickiewicz: «On
potem w Hiszpaniji, gdy nasze ul/any / Zdobyl/y Samosiery grzbiet oszańcowany / Obok
Kozietulskiego byl/ ranny dwa razy!», ovvero «Poi egli in Ispagna, quando i nostri ulani / pre-
ser di Somosierra il crinal cinto da trincee / Insieme a Kozietulski due volte fu ferito!». Per
un inquadramento generale della letteratura polacca non si può che rimandare al più
recente e completo manuale in italiano, Storia della letteratura polacca, (a cura di Luigi
Marinelli), Einaudi, Torino 2004.
17. Essendo una sua opera sostanzialmente comica e girata su commissione, non considere-
remo all’interno del nostro discorso la farsa Le avventure di Gerard (1970), in cui anche lo
stesso Skolimowski sulla scorta dei racconti di Sir Arthur Conan Doyle tratta delle guerre
napoleoniche, con inevitabile profluvio di scene di cavalleria e, per inciso, di cavalli bian-
chi.
18. A titolo di esempio si osservi anche solo l’accompagnamento figurativo raccolto in Wl/odzi-
mierz Suleja, Kosynierzy i strzelcy, Wydawnictwo Dolnoślaskie, Wrocl/aw 1997.
19. Si veda il giornalista Ksawery Pruszyński, che ebbe modo di dire sui piloti polacchi in
Inghilterra: «Saranno quello che sono stati per la Polonia napoleonica gli ulani a
Somosierra» o Janusz Jasieńczyk che nel suo romanzo Sl/owo o bitwie (“Una parola sulla
battaglia”, 1955) si riferisce ai mezzi corazzati polacchi coinvolti nella campagna d’Africa
.
come ai continuatori delle cariche di cavalleria (si veda in proposito J.R. Krzyzanowski,
Legenda Somosierry, cit. rispettivamente a p. 366 e a p. 368).
20. Altri interessanti spunti sull’immagine del cavallo e sui suoi significati si possono rinvenire
in Bogdan Burdziej, “We krwi to jest, w tradycji” – szlachcic i jego konie w “noweli spor-
towej”. “Przeszkoda” Klemensa Junoszy-Szaniawskiego, pp. 259-270; Krzysztof Stepnik,
.
Ul/ani Legionów, pp. 299-308; Donat Niewiadomski, Koń in natura w rytach bozonarodze-
.
niowych i noworocznych, pp. 327-334 (in Dworki, pejzaze, konie [a cura di Krzysztof
Stepnik], UMCS, Lublin 2002).

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libri
Cinema e religione: a proposito di alcune
pubblicazioni recenti
di Stefanie Knauss e Davide Zordan

Il volto e gli sguardi. Bibbia letteratura cinema, a cura di Sandra Isetta,


«Letture patristiche» 13, EDB, Bologna 2010, pp. 454, € 38,00.
Cinema e religioni, a cura di Sergio Botta ed Emanuela Prinzivalli, Carocci,
Roma 2010, pp. 224, € 20,00.
L’altra visione. Donne che dicono Dio nel cinema, di Eugenia Romano e
Andrea Bigalli, Effatà, Cantalupa (To) 2010, pp. 320, € 17,00.
Handbuch Theologie und populärer Film, a cura di Th homas Bohrmann,
Werner Veith e Stephan Zöller, Schöningh, Paderborn, Vol. I, 2007, pp.
376, € 39,90; Vol. II, 2009, pp. 408, € 39,90.
The Routledge Companion to Religion and Film, a cura di John Lyden,
Routledge, London/New York 2009, pp. 506, USD 50,00.

Il complesso e ambiguo fenomeno del ritorno del religioso, inteso soprattutto


come rinnovata disponibilità ad accreditare alle religioni un ruolo determinan-
te nelle vicende storico-culturali, è rilevabile in modo forse più diretto ed espli-
cito negli studi sul cinema che non nel cinema stesso. Una serie di pubblicazio-
ni recenti, in gran parte di stampo scientifico accademico, italiane e non, sem-
bra corroborare questa osservazione. Ci proponiamo di offrirne qui una rilettu-
ra sintetica, da cui possa emergere anche uno sguardo d’insieme sullo stato
attuale di quell’area disciplinare degli studi culturali nota, nei paesi anglofoni,
come Religion and Film, i cui contorni risultano piuttosto incerti e difficili da
definire, ma che aspira indubbiamente, anche in casa nostra, a una qualche
riconoscibilità.
La nostra rivista ha già avuto occasione di occuparsi del tema proponendo in tra-
duzione italiana, nel n. 161-162, la proposta metodologica avanzata dalla stu-
diosa inglese Melanie J. Wright nel 2007, all’interno di un apprezzato volume
(Religion and Film. An Introduction, I.B. Tauris, London 2007). Wright, recente-
mente scomparsa al termine di una penosa malattia, osservava quanto l’interdi-
sciplinarità di chi lavora sul confine tra religione e cinema sia spesso più procla-

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mata che effettiva, e che, dietro la reticenza di molti autori e autrici a definire

LIBRI
dei criteri che informano la selezione dei film analizzati, si nascondano spesso
precomprensioni decisive, sia sul cinema che sulla religione.
Nel recensirle, sarà nostra cura valutare in che misura le pubblicazioni qui pre-
sentate sono ancora contrassegnate da questi limiti degli studi su cinema e reli-
gione, in modo da provare a capire se si tratti di limiti di crescita di una discipli-
na giovane o non, meno ottimisticamente, di limiti strutturali di una disciplina
fatalmente priva di uno specifico suo proprio.

Iniziando dal panorama italiano, il primo volume che mette conto segnalare è Il
volto e gli sguardi. Bibbia letteratura cinema, a cura di Sandra Isetta, raccolta
degli atti di un convegno celebrato nell’ottobre 2008 quale evento conclusivo di
un progetto di ricerca svolto presso l’Università di Genova sul tema «Bibbia e
mito nella letteratura europea e nel cinema». Con solo un paio di eccezioni (tra
cui il testo di apertura, affidato a Dario E. Viganò), i numerosi saggi che compon-
gono il volume sono opera di ricercatori/trici e docenti di filologia classica e let-
teratura tardo antica, che per l’occasione si confrontano con il cinema. Quasi
ogni saggio è dedicato a un singolo film, di cui si evidenziano i debiti, diretti o
indiretti, con la tradizione cristiana antica (vangeli canonici e apocrifi, letteratu-
ra patristica) e occasionalmente con l’antichità classica ebraica, ellenistica o
romana. La suddivisione interna in tre sezioni ben caratterizzate e distribuite
offre una pista di lettura convincente che attenua, senza poter cancellare, l’im-
pressione che la selezione dei film risponda a criteri di preferenza personali
(peraltro mai dichiarati) e che avrebbe potuto essere tutt’altra senza modificare
la traiettoria del lavoro. L’analisi dei film è generalmente circoscritta al loro con-
tenuto narrativo, con una particolare attenzione testuale ai dialoghi e comunque
all’uso della parola all’interno del film. La preoccupazione che guida il lavoro è
quella di esplicitare le fonti della parola filmica, la quale rischia così di essere
isolata, senza che si tenga sufficientemente conto che nel film la parola detta
(come la stessa narrazione) è uno degli elementi di una costruzione stratificata
e dotata di grammatica propria.
Emergono di tanto in tanto cenni di forzatura o enfasi interpretative, che tradi-
scono la volontà di dare il maggior risalto possibile alla presenza di temi specifi-
camente religiosi i quali potrebbero passare inosservati, specie a un occhio non
avvezzo allo studio delle antichità cristiane. Si nota anche qualche tendenza
all’elogio facile, e francamente immotivato, laddove un film si dimostri intessuto
di temi e rimandi alla letteratura religiosa canonica e non (come nel caso di
Nativity, di Catherine Hardwicke [2006]). Nell’insieme tuttavia i saggi sono cura-
ti e ben scritti, e hanno il merito di evidenziare aspetti che né il pubblico in sala
né gli studiosi e le studiose di cinema sanno sempre cogliere. Di particolare inte-
resse l’idea, sottesa a diversi saggi ed esplicitata soprattutto da Valeria
Novembri, che il cinema biblico funzioni come un apocrifo moderno nel veicola-
re certe convinzioni religiose di stampo popolare.

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Ma basta questo a legittimare la ricerca svolta – e a invogliarne la lettura? Ciò


di cui si sente maggiormente la mancanza, in un progetto la cui prospettiva è
così specifica da giustificarne la pubblicazione all’interno di una collana di
«Letture patristiche», è un qualche tentativo di situare questa specificità, di riflet-
tere insomma sul significato e il metodo del lavoro qui raccolto. Perché coinvol-
gere un valente consesso di patrologi e filologhe in un esercizio di analisi cine-
matografica che, per ciascuno e ciascuna di loro, appare marginale rispetto alla
“normale” attività di ricerca, senza provare a riflettere sui motivi e sulla legitti-
mità del progetto? Il sospetto è che, banalmente, non si sia percepita alcuna
necessità di legittimarlo: tanto sul cinema può scrivere chiunque, a condizione
di essere sufficientemente duttile da accettare di uscire, per una volta, dal
campo specifico dei propri interessi accademici. Se tale sospetto coglie nel
segno si capisce anche perché il volume non preveda quasi per nulla la parteci-
pazione di studiosi/e di cinema: ciò di cui esso si occupa non è pensato come
un territorio di confine tra discipline diverse, ma come un luogo aperto a possi-
bili perlustrazioni, luogo che, come l’immaginario cinematografico stesso, appar-
tiene a tutti, e ciascuno e ciascuna può leggervi al limite cose diverse, a secon-
da dei punti di vista e delle propensioni. Che poi la perlustrazione non finisca in
scorribanda – eventualità scongiurata, occorre dirlo, in questo caso – dipende
dall’equilibrio e dalla moderazione di chi scrive, e non dal metodo adottato.

Simile nei motivi ispiratori, ma più accorto nell’articolazione proposta, è il volu-


me Cinema e religioni, a cura di Sergio Botta ed Emanuela Prinzivalli. All’origine
del progetto ci sono alcuni seminari su cinema e religione promossi dal
Dipartimento di studi storico-religosi dell’Università La Sapienza di Roma, semi-
nari animati congiuntamente da studiosi e studiose di varie discipline tra cui
cinematografia, storia delle religioni, antropologia, letteratura cristiana antica e
medievale. La pratica del confronto interdisciplinare conduce qui ognuno degli e
delle scriventi a una puntuale dichiarazione del proprio punto di vista e della sua
inevitabile parzialità. Il risultato è un volume meno omogeneo del precedente,
che alterna alcuni contributi eccessivamente modesti nelle dimensioni e negli
obiettivi ad altri più sviluppati e consapevoli, in cui però, per riprendere l’imma-
gine precedentemente utilizzata, chiunque scriva si assume coscientemente il
rischio di addentrarsi su un terreno poco conosciuto sapendo anche quando è il
momento di fermarsi o fare marcia indietro.
Oltre a una maggior consapevolezza dei rispettivi limiti disciplinari, il volume si
segnala anche per il tentativo di offrire uno sfondo teorico alla riflessione, rileva-
bile sia nella Premessa che nei due saggi di apertura. La Premessa richiama la
necessità di ispirarsi alla lezione dei cultural studies per non ridurre la relazione
tra cinema e religione alla dimensione estetica o testuale, senza però venir
meno alle esigenze di una metodologia di analisi rigorosa. Solo a tale condizio-
ne, infatti, lo specifico cinematografico è parte in causa nel dibattito, che di con-
seguenza non rischierà di circoscriversi in modo esclusivo al “contenuto” religio-

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so dei vari film. L’ambizione di trattare di cinema e religione a partire dallo spe-

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cifico cinematografico, a sua volta, esige una grande accortezza, per non con-
cludere a una sacralizzazione a buon mercato del medium cinema e delle prati-
che di visione cinematografica. Più oculato, in questo senso, appare il percorso
sviluppato da Mauro Di Donato sulle tracce del trascendente nel cinema, rispet-
to alla disinvoltura con cui Ermelinda M. Campani intende attestare la sacra-
mentalità del cinema.
Come il precedente, infine, anche questo volume circoscrive la dimensione reli-
giosa al contesto cristiano. Sebbene alcuni saggi, e non tra i meno significativi,
si interessino allo sfondo etnoantropologico dei miti o dei sacrifici che si trova
implicato in certi film (si veda tutta la quarta parte del libro), quella cristiana
rimane l’unica religione storica positiva oggetto della trattazione. Perché allora
intitolare il libro Cinema e religioni, senza nemmeno un sottotitolo a correggere
una tale ambizione universalista? Difficile non attribuire questa scelta poco coe-
rente a una comprensione della religione cristianamente determinata. Il che non
è un delitto. Forse non è nemmeno una precomprensione di cui ci si possa
emancipare, nel nostro contesto culturale. Ma in ogni caso è bene esserne
avvertiti – e avvertirne chi legge.

Più circoscritto è il campo di indagine che si dà L’altra visione. Donne che dico-
no Dio nel cinema, di Eugenia Romano e Andrea Bigelli. Le donne del titolo non
sono cineaste che esprimono nel loro lavoro una particolare sensibilità religiosa,
come si potrebbe immaginare, ma le protagoniste di film che vivono sullo scher-
mo itinerari di ricerca, di turbamento, di approfondimento religioso. L’idea è intri-
gante: analizzare una serie di film per verificare se, attraverso di essi, emerga
una disponibilità del cinema a cogliere ciò che caratterizza una religiosità al fem-
minile, dunque (ipoteticamente) meno istituzionalizzata, meno legata all’ambi-
zione del ruolo e del potere, ma anche più capace di slanci, intimità, determina-
zione, coerenza. Peccato però che il confronto con i film selezionati non includa
una vera pratica analitica e si limiti a individuare nella trama delle vicende, delle
situazioni e dei dialoghi (ampiamente riprodotti) una serie di elementi che corro-
borino l’idea di partenza, che diano cioè una illustrazione efficace di temi religio-
samente cruciali e bisognosi di un ripensamento al femminile, quali la parola, il
corpo, la tradizione, il viaggio ecc. Le riflessioni proposte si alimentano di fatto o
esclusivamente alla sinossi dei film oppure all’emozione che questi suscitano,
emozione che però – anch’essa – è interpretata in relazione al significato che si
decide di assegnare a una certa rappresentazione del religioso o del divino, e
non alle modalità filmiche della sua resa in immagini. Per quanto apprezzato, il
cinema assume allora un ruolo strumentale, all’interno di una riflessione religio-
sa le cui coordinate sono pensate a prescindere da esso.

Al momento di rivolgere l’attenzione oltre gli italici confini si scopre una notevo-
le messe di pubblicazioni su cinema e religione. Tra le più recenti ne individuia-

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mo due assai cospicue, che si segnalano per l’ambizione manualistica di pre-


sentare lo status quo della ricerca: i metodi, temi e nodi centrali, oltre a una sin-
tesi della riflessione finora svolta. Iniziamo dal tedesco Handbuch Theologie und
populärer Film, a cura di Thomas Bohrmann, Werner Veith e Stephan Zöller, che
esprime già nel titolo una duplice limitazione del vasto campo di lavoro: l’ogget-
to del manuale sarà il cinema popolare nella sua interazione con la teologia
(intesa come teologia cristiana). I due volumi finora usciti (un terzo volume è
atteso per il 2011) sono organizzati in modo simile: ognuno propone una serie
di saggi sulle particolarità teologiche di alcuni generi cinematografici (western,
commedia, horror, fantascienza) e nell’opera di alcuni registi (Spielberg, Fincher,
Kubrick, ecc.), sulla rappresentazione di motivi e temi teologicamente rilevanti
(morte, risurrezione, colpa e redenzione) e di figure importanti (angeli, sacerdo-
ti e pastori, supereroi ecc.). Il secondo volume si chiude con un saggio sull’uso
del film nell’insegnamento scolastico. I saggi, scritti per la maggior parte da stu-
diosi e studiose di teologia cattolica e protestante che si occupano più o meno
intensamente e professionalmente di cinema (alcuni già autori di pubblicazioni
rilevanti sul tema), offrono una buona visione su una quantità di temi importan-
ti e di materiale studiato o ancora da studiare. Essi però variano notevolmente
nel loro approccio al tema: mentre alcuni si limitano a un elenco di film nei quali
ricorrono certe figure o temi teologicamente rilevanti, altri offrono un’analisi
approfondita e originale dei film trattati, destinando uguale attenzione agli
aspetti cinematografici e alla loro rilevanza teologica. Quando ciò accade, e solo
allora, il lettore e la lettrice sono messi in grado di apprezzare la specificità del
medium cinematografico (rispetto ad altri media quali la letteratura o il teatro) e
la sua rilevanza per la teologia.
L’opera consente di farsi una prima idea di ciò che è possibile nel campo della
ricerca teologica sui film. Essa soffre però di due limiti maggiori. Il primo è la
mancanza di un’idea organizzativa che giustifichi l’appellativo di manuale: man-
cano sezioni importanti sullo sviluppo storico della disciplina, sulle sfide affron-
tate e ancora da affrontare, sulle metodologie applicate, sulle differenze tra le
varie discipline teologiche e così via. Soprattutto la selezione dei registi (non è
presente nemmeno una regista, manca generalmente qualunque attenzione al
genere, alla provenienza sociale e geografica) appare del tutto arbitraria, come
pure in qualche misura la scelta dei motivi e delle figure. Per quanto non sia mai
possibile offrire un quadro esaustivo, e a prescindere dal piacere della lettura di
molti saggi, il criterio organizzativo di un’opera che si propone come manuale in
un campo di ricerca ormai sufficientemente definito non può limitarsi ad essere
la preferenza o il gusto di chi vi scrive.
Il secondo punto problematico non è tanto la delimitazione di campo al cinema
popolare, quanto piuttosto la rinuncia a definire tale ambito con qualche preci-
sione. Un breve cenno introduttivo al cinema di finzione hollywoodiano non sem-
bra sufficiente a chiarire la questione, né di fatto gli autori e le autrici si attengo-
no a questo canone, dal momento che trattano anche, all’occasione, del cinema

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europeo d’autore. Non è solo una questione di classificazioni ma di chiarire il

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proprio metodo di indagine, e dunque di essere attenti tanto alla dimensione
produttiva quanto alle scelte estetiche e drammaturgiche, e comprendere quan-
to queste influenzino le aspettative del pubblico e le modalità della fruizione:
tutti aspetti irrinunciabili nella prospettiva di uno studio culturale del cinema.
Laddove non si presti la dovuta attenzione a questi elementi, resta solo la pre-
comprensione teologica di chi scrive a guidare la ricerca, che porterà a concen-
trarsi sul “testo” del film, dando priorità agli elementi narrativi e tralasciando
quelli più cinematografici.

Gli scogli tra cui si è arenato il manuale or ora recensito sono stati più accorta-
mente evitati da The Routledge Companion to Religion and Film, curato da John
Lyden. Il volume è organizzato in quattro sezioni: la prima, di indirizzo storico,
traccia lo sviluppo dell’interazione tra cristianesimo e cinema dall’epoca del
muto fino a oggi. La seconda parte apre la visione su altre tradizioni religiose,
sulla loro rappresentazione nei film e sul loro coinvolgimento nella produzione
cinematografica. La terza parte presenta alcuni approcci metodologici più impor-
tanti per lo studio di religione e cinema, quali gli studi femministi, i cultural stu-
dies, la psicoanalisi, approcci più propriamente teologici ecc. La quarta parte
illustra alcune categorie che si possono applicare allo studio di religione e cine-
ma, quali la categoria della narrazione, dell’apocalittico, dell’iconografia ecc.
Ovviamente anche in questo caso il curatore ha dovuto operare delle scelte, che
appaiono però qui meglio ragionate e più rappresentative dell’oggetto studiato.
Permane tuttavia una preponderanza di temi e categorie cari alla tradizione cri-
stiana e della cultura occidentale, anche in saggi che nutrono l’ambizione di tra-
valicare l’ambito specificamente cristiano. Una tale prevalenza può essere giu-
stificata dallo sviluppo degli studi su cinema e religione nel contesto accademi-
co occidentale, ma dovrebbe essere sempre più e meglio integrata in considera-
zione della diversificazione dell’ambito di ricerca. Pur restando a metà del
guado, il volume si muove decisamente in questa direzione, con i saggi sulle reli-
gioni non cristiane e con una decisa sottolineatura della varietà del materiale
studiato e degli approcci applicati.
L’intenzione di illustrare e apprezzare la pluralità di tradizioni, approcci e temi,
piuttosto che tendere a un’unificazione armonizzante, si riflette anche nel back-
ground professionale degli autori e delle autrici, che provengono da discipline
diverse (studi di cinema, studi culturali, scienze religiose, teologia ecc.) e man-
tengono la loro prospettiva e i loro interessi specifici. Così, poniamo, la studiosa
di cultura e cinema dell’India mostra un’attenzione culturale ben diversa, nella
sua analisi delle motivazioni religiose dei registi indiani, da quella del teologo cri-
stiano che discute il tema della redenzione nei film da una prospettiva teologi-
co-cristiana. E chi si occupa della rappresentazione del buddismo nei film deve
tener conto di una visione del mondo che non distingue tra la realtà e l’illusione,
almeno non quanto lo fanno il cristianesimo, l’islam o l’ebraismo (tendenzial-

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mente critici nei confronti delle immagini) e nemmeno l’induismo (che segue una
tradizione più iconofila).
Il volume rappresenta un esempio riuscito di interazione ragionata tra varie disci-
pline nell’ambito della ricerca su religione e cinema. Da un lato, gli e le speciali-
ste di teologia e scienze religiose vi si dimostrano sufficientemente attenti al
medium del film, che affrontano con competenza professionale. Dall’altro lato,
chi studia i media o il cinema in un contesto culturale specifico si mostra più
attento/a alle influenze della tradizioni religiose sui prodotti culturali di una data
società. Il processo di avvicinamento reciproco è ormai avviato e, almeno nella
realtà accademica statunitense, procede di buon passo, con professionalità cre-
scente.
Se molto resta ancora da fare, la buona riuscita complessiva del Routledge
Companion to Religion and Film lascia supporre che i problemi metodologici e le
lacune evidenziate in lavori analoghi siano superabili con il tempo e il lavoro,
nella misura in cui crescerà la consapevolezza relativa alle problematiche e alle
prospettive in gioco. Notiamo infine, trasversalmente a tutte le opere recensite,
una comune ritrosia a confrontarsi con la letteratura scientifica prodotta in lin-
gua diversa rispetto a quella in cui si scrive. Ci pare un dettaglio significativo del
cammino ancora da fare per acquisire quella competenza e consapevolezza
disciplinare cui legittimamente ambiscono gli studi su cinema e religione.

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