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Riassunto Storia

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SIG - Studenti Indipendenti Giurisprudenza

I TEMPI DEL DIRITTO PROF.CAVINA

LE RADICI PROFONDE D’EUROPA

1-LA FINE DEL MONDO ANTICO


La tradizionale partizione scolastica afferma che la fine dell’età antica e l’inizio del medioevo
coincida con l’anno 476 d.C. anno in cui fu deposto l’ultimo imperatore (Flavio Romolo Augustolo)
dell’impero romano d’Occidente dal generale “barbaro” Odoacre. L’impero romano d’Oriente
invece sarà destinato a sopravvivere per altri mille anni.
Di questo evento si deve ridimensionare la portata per due motivi:

1. Da più di un secolo il centro politico, militare ed economico si era spostato verso est così
come aveva voluto l’imperatore cristiano Costantino. Egli a metà del IV secolo aveva
articolato il comando dell’impero in due aree, quella occidentale e quella orientale. Aveva
inoltre avviato la costruzione di una nuova capitale sita nella ex Bisanzio che verrà
chiamata Costantinopoli.
2. La deposizione di un imperatore per mano di un generale germanico non era un fatto
inedito infatti i contemporanei non lo percepirono come un evento di definitiva rottura.
Odoacre stesso aveva inoltre mandato le insigne imperiali a Costantinopoli come segno di
formale deferenza, e Zenone (imperatore d’Oriente) rispose conferendogli il titolo nobiliare
di “patritius”.

Il periodo di instabilità che si aprì in Occidente fece da contraltare all’ascesa politica di


Costantinopoli. Essa raggiunse una primazia ancora maggiore con Giustiniano. Egli non si ricorda
solo per il suo valore in ambito legislativo ma anche per la sua strategia di ricomporre l’unità
dell’impero. Questa sua scelta culminò con la guerra gotica (535-553), quindi avremo i bizantini
contro gli ostrogoti che si erano stanziati in Italia creando un regno autonomo.
La vittoria del generale Belisario permise per un periodo di tempo di riunire le due aree dell’impero
e in modo particolare l’Italia.
Il territorio peninsulare fu suddiviso in aree amministrative facenti capo a Ravenna situata al centro
dell’Esarcato. Ravenna era direttamente collegata a Costantinopoli, qui vi risiedeva il
rappresentante dell’imperatore chiamato “Esarca”, capo militare, politico dotato di una propria
burocrazia, inoltre deteneva l’ultima istanza della giustizia civile e penale.
Il dominio bizantino italiano era suddiviso in varie circoscrizioni con a capo dei duchi, nominati
dall’esarca. Essi replicavano nelle sedi locali i suoi poteri, con dei compiti particolari dediti
all’Exercitus Italiae. Sempre alle dipendenze dell’Esarca vi era il prefetto d’Italia che aveva compiti
fiscali e finanziari, a capo di due ampie circoscrizioni rette da due vicari Roma e Genova.
Questa era un’organizzazione ben articolata ed efficiente ma doveva fare i conti con la
complessità e la specificità italiana. Roma, era preda di aristocrazie locali costituite dalla classe
senatoria e latifondista, era inoltre la sede di un vescovo che però non aveva un’autorità
incontrastata (al contrario del vescovo di Ravenna) anche se cominciava ad avere un ruolo di
coordinatore di un patrimonio fondiario nel centro e nel meridione della penisola.
La Sicilia, era una postazione mediterranea di grande importanza, era organizzata nella forma del
“thema” guidata da uno stratega dotato di poteri militari e politici in modo da costituire un legame
diretto con Costantinopoli e libera dai vincoli di Ravenna.
Venezia e il suo ducato, si erano costituiti come risposta e difese alle incursioni germaniche, vi era
poi l’area del Capitanato d’Italia (puglia, Lucania, Calabria) dopo lo stanziamento del
Longobardi, era organizzato anch’esso nella forma del thema, vi era Pentapoli (Romagna
meridionale e Marche) era un’area importante a livello strategico e aveva una certa autonomia.
Le autorità bizantine avevano la necessità di creare dei legami con i potentati familiari locali i quali
molto spesso avevano dei ruoli di guida a metà strada tra l’ufficio pubblico e la supremazia privata
di tipo clientelare. Infine avremo anche gli enti ecclesiastici che esercitavano forme di
autorevolezza religiosa coniugata con la titolarità di porzioni ampie di territorio messo a coltura.
L’Italia bizantina anche in seguito alla vittoria di Giustiniano sugli Ostrogoti, restava una realtà molto
fragile, dopo il 568 in seguito all’invasione Longobarda nel territorio peninsulare si aprì un periodo di
forte instabilità. Cosi aveva inizio il Medioevo.

2-LA COMPILAZIONE GIUSTINIANEA


Durante l’impero di Giustiniano prenderà vita un grande progetto legislativo che sarà promulgato
tra il 529-534. Le fonti giuridiche romane, nel contesto storico di cui stiamo parlando, erano di molto
mutate infatti al tradizionale patrimonio delle consuetudini (mores), della dottrina dei giuristi più
autorevole (responsa), le deliberazioni del senato (senatoconsulta) in seguito ad un’evoluzione
politica che aveva visto concentrare il potere nelle mani del princeps e dei suoi funzionari, si erano
affiancati ed infine sostituiti i rescripta (risposte dei funzionari a singole questioni che poi sarebbero
diventate linee guida per i casi simili), le costitutiones (leggi generali scaturite dalla volontà
dell’imperatore).
Questo processo aveva portato l’idea di raggruppare il frutto dell’attività legislativa già prima del
progetto Giustinianeo. Il più importante fu il codice Teodosiano, promulgato da Teodosio II nel 438,
il quale nel raccogliere le costituzioni emanate da Costantino in poi si ispirava anche ad altre
raccolte come il codice Ermogeniano e codice Gregoriano risalenti al III secolo.
La codificazione teodosiana fu superata dall’opera giustinianea. A capo dei lavori vi era
Triboniano, che aveva il compito di inserire in un’unica opera tutto il materiale normativo e
giurisprudenziale che era in vigore. L’operazione si concentrò essenzialmente su due obiettivi:

1. Uno riguardava le costituzioni imperiali (leges)


2. L’altro l’elaborazione dottrinale dei giuristi romani dell’età classica (iura)

Nel 529 avremo una prima versione del Codex, la versione definitiva si avrà nel 534. L’opera era
formata da 12 libri i quali disciplinavano un’ampia varietà di materie: diritto ecclesiastico, privato,
penale, pubblico amministrativo e fiscale.
Nel 533 è la volta dei 50 libri dei Digesta in cui si selezionano 10.000 frammenti dei giuristi Romani
tra i quali spiccano i nomi di Ulpiano, Papiniano, Gaio, Modestino e Paolo fioriti tra il II-III secolo. Qui
manca il diritto pubblico ma si avrà una netta preponderanza del diritto privato e un ampio spazio
sarà dedicato anche al diritto criminale (libri terribiles).
Sempre nel 533 si pubblicarono le Institutiones che era una sintesi dello scibile giuridico formata da
4 libri, l’obiettivo era quello di fornire uno strumento utile per la formazione didi giovani giuristi nelle
scuole dell’impero, basato su uno schema tripartito: res, personae e actiones.
Giustiniano non fermò la sua attività legislativa infatti nel 534 aveva già accumulato altre
costitutiones che però verranno pubblicate in seguito alla sua morte (565) in una collezione di
Novellae costitutiones che completeranno la produzione normativa di Giustiniano che passerà
alla storia con il nome di Corpus iuris civili.
L’opera in un primo momento aveva trovato applicazione soltanto nell’impero d’Oriente, ma
Giustiniano predispose subito l’estensione della vigenza anche alla parte occidentale dell’impero.
Il provvedimento con il quale si predispone la vigenza in occidente è pragmatica sanctio del 14
agosto 554, dove l’imperatore bizantino affermava che aveva promulgato ciò per volere del
vescovo il quale legittimava l’opera di Giustiniano e contemporaneamente lui riconoscerà la
carica religiosa che diventerà estremamente potente nel corso dei secoli. La pragmatica non
dava vigenza solo al corpus, ma aveva anche l’obiettivo di eliminare il diritto gotico pregresso,
reintegrare i proprietari che erano stati usurpati dei propri beni... Nella primavera del 568 i
Longobardi invaderanno l’Italia.

3- I DIRITTI GERMANICI
I Longobardi era uno dei tanti popoli germanici che durante il VI secolo si insediarono stabilmente
negli ex territori dell’impero romano. Seppur questi popoli avevano una propria identità era
possibile rintracciare degli elementi comuni come: il nomadismo, la propensione militare e la
conquista, l’assenza di una cultura scritta. Queste peculiarità andavano a sottolineare la netta
distinzione con i romani specialmente nella dimensione giuridica: i popoli germanici si reggevano
su una serie di consuetudini orali che si consideravano pari ad altri elementi come la lingua, le
credenze e i riti fattori di identità etnica essenziali. Ciò spiega perché i germani considerassero
innaturale individuare l’ambito di vigenza delle regole sulla base del territorio di stanziamento
(principio di territorialità del diritto) poiché era l’appartenenza ad un determinato gruppo a
delineare l’adesione alle proprie usanze, comprese quelle di vigenza giuridica (principio di
personalità del diritto).
Questo aspetto era coerente con la natura originariamente nomadica dei germani, poiché
portavano con loro le loro credenze e le usanze identitaria tra trasmettere di generazione in
generazione. Ogni etnia aveva determinate consuetudini e la convivenza tra diversi popoli non
bastava per modificare quanto assunto di fondo, a ciò vi è un’unica eccezione data dal
fenomeno spontaneo della reciproca contaminazione.
Anche nei contenuti delle consuetudini di questi popoli si possono rintracciare degli elementi
comuni infatti vi sono alcuni valori di fondo che caratterizzano verso un’omogenea direzione le
regole tradizionali, vi sono dei valori e delle regole che appaiono nettamente in contrasto con la
sensibilità giuridica romana.
Il gruppo aveva una forte rilevanza giuridica rispetto al singolo, il gruppo non si definiva soltanto dal
nucleo familiare allargato ma anche dalle affinità, le tutele e le amicizie che potevano porre le
basi per creare un clan. Quando emerge il singolo come identità giuridica si allude all’uomo libero
e atto al combattimento.
Non esiste una dimensione pubblicistica dello Stato, vi è infatti una gestione collettiva delle
decisioni importanti attraverso l’assemblea degli uomini in armi. L’assenza di istituti volti a
legittimare la titolarità esclusiva di un bene, specialmente se tale bene è la terra: la titolarità si
manifesta tramite l’uso e il godimento del gruppo. Il singolo non ha la possibilità di godere solo lui di
un bene neppure al momento della morte tramite un atto simile al testamento dei romani, tuttavia
era ammessa la successione legittima considerata come un meccanismo naturale di passaggio
dei beni all’interno del nucleo familiare.
Anche la sfera penale mostrava degli elementi di discontinuità con il mondo romano e bizantino,
le offese legittimavano la reazione dell’offeso tramite la vendetta, la quale poteva assumere una
valenza collettiva coinvolgendo il gruppo o la famiglia di appartenenza della vittima in una
ritorsione contro la famiglia o il gruppo dell’offensore: la faida.
Le forme rituali della vendetta erano quelle delle ordalie “il Giudizio di Dio” nella convinzione che
la divinità avrebbe consentito l’individuazione del colpevole e dell’innocente: essa poteva
consistere in prove di dolore o resistenza ma spesso assumeva la forma del duello. Gli inconvenienti
che potevano scaturire da queste pratiche suggeriranno l’adozione di strumenti diversi per
risolvere le controversie tra le quali il pagamento di una composizione patrimoniale cioè il
pagamento di una cifra di denaro o beni a carico dell’offensore a favore dell’offeso o della sua
famiglia.
Con il passare degli anni le popolazioni germaniche si doteranno di testi giuridici scritti nei quali
raccogliere le proprie consuetudini. Questo passaggio consente: di superare la fluidità orale del
patrimonio consuetudinario al quale attribuire tramite la forma scritta la certezza e l’organicità,
produce o accelera l’integrazione con le altre culture presenti sul territorio in particolar modo con
la matrice latina, che tramite l’intervento ecclesiastico che è l’unico ente in grado di far veicolare
contenuti di una certa complessità infine consolida un processo di gerarchizzazione del potere e di
esaltazione della regalità la quale non perdendo il carattere di mera guida militare assume
progressivamente il ruolo di garante dell’osservanza delle regole e dei suoi meccanismi di
applicazione.
Abbiamo 3 esempi di legislazione scritta adottata dai sovrani germanici tra il VI-VII secolo:

1. Lex romana wisogothorum: promulgata dal sovrano Alarico II nel 506. Egli segue una
raccolta di norme precedentemente stesa dal padre il sovrano Eurico nella seconda metà
del V secolo. Il testo emanato da Alarico non aveva come obiettivo la semplice
trasposizione delle usanze del suo popolo, ma aveva lo scopo di dotare la nuova entità
territoriale di norme più vicine a quelle dei latini con i quali erano entrati in contatto. La Lex
romana wisigothorum era maggiormente composta da leges prese dal Codice Teodosiano
e di iura estratti dalle opere dei giuristi romani Paolo e Gaio. Ma tuttavia non si riuscirà a
superare l’attaccamento dei Visigoti alle loro usanze
2. Pactus Legis Salicae: redatta dal re Clodoveo (nei primi decenni del VI secolo). Egli era il
sovrano dei Franchi Salii che si convertì al cattolicesimo e dotò il suo popolo si un ampio
territorio a cavallo tra i Paesi Bassi, Francia settentrionale e la Germania centro-orientale. Il
termine “legge” si deve interpretare tramite il modo consueto per i germani cioè norma di
matrice consuetudinaria mentre il termine “patto” evoca l’accordo dell’assemblea
popolare circa la corretta trasfusione nella lingua latina degli originari contenuti della legge
salica, correttezza di cui Clodoveo si fa portatore. In quel testo troviamo i principali
contenuti che trattano in generale le consuetudini germaniche: la successione legittima è
l’unica forma conosciuta e sembrerebbe privilegiare la linea materna, si ricorre
ampiamente alle composizioni pecuniarie per evitare le faide per i delitti gravi come
l’omicidio, la lesione, lo stupro, il furto di bestiame… consegna del reo all’offeso o ai suoi
familiari nel caso di mancato pagamento della composizione prevista.
3. Questa terza forma coinvolge direttamente la penisola italiana, che dal 568 era stata
invasa dai longobardi capeggiati dal re Alboino (morto nel 572). In poco tempo i
longobardi attuano una violenta opera di conquista e spoliazione dei possedimenti latini e
di quelli ecclesiastici. Il successore di Alboino, Clefi (morto nel 574) si spingerà sino al sud
della penisola, vi furono una serie di contrasti tra i capi militari longobardi, dove oltre a
costare la vita al sovrano Clefi, diedero vita ad una fase di incertezza politica,
caratterizzata dalla formazione di una trentina di ducati indipendenti tra loro. Il pericolo
della disgregazione fu sventato dalla volontà di riconoscere nuovamente un’autorità
unitaria: quest’obiettivo fu raggiunto nel 584 con l’incoronazione di Autari (morto nel 590)
figlio di Clefi. Da questo momento è più facile delineare le coordinate del regno lombardo.
Il carattere militare della guida regia era un carattere che durerà nel tempo (il re era un
primus inter pares era una figura eminente ma aveva la stessa dignità dei capi militari che si
sottoponevano a lui), essa si configurava come di matrice ereditaria dotata di un ampio
patrimonio fondiario, il quale corrispondeva alla metà delle sostanze di cui i duchi si erano
appropriati. Tuttavia, non è possibile vedere nell’organizzazione del regno longobardo i
tratti statual-pubblicistici tipici dell’impero romano, il regno resta organizzato secondo
modalità di coordinamento militare e di sfruttamento dei possedimenti controllati, anche se
la presenza stabile di un palatium e di una curtis regia a Pavia consentono di individuare un
proc esso di maturazione tale da mettere in secondo piano i tradizionali centri decisionali,
quali l’assemblea (gairethinx) degli uomini liberi (arimanni) e i nuclei familiari allargati
(farae) e di esaltare il ruolo dei fedeli del re (gasindi) e degli amministratori dei possedimenti
regi (actores, gastaldi, iudices).
Si avrà una svolta significativa con il Regno di Rotari (morto nel 652) il quale provvede ad una
migliore amministrazione regia e ad una migliore efficacia del raccordo tra palatium e i centri
periferici, ma mette per iscritto per iscritto le tradizionali consuetudini popolari. Il suo Edictum
promulgato nel 643, è composto da 388 capitoli, probabilmente un’opera del genere era stata
richiesta dall’aristocrazia longobarda, che coinvolta in un processo di integrazione con i latini,
vuole preservare le sue leggi secondo il principio di personalità (che le vorrebbe applicabili
soltanto al popolo di appartenenza). Rotari accogliendo questa richiesta (cioè quella di
ricercare e ricordare le antiche leggi dei nostri padri che non erano scritte) si pone l’obiettivo di
rinnovare, correggere ed emendare le consuetudini longobarde (cawarfide) aggiungendo
quanto potesse mancare o sottraendo quanto di superfluo dovesse risultare.
Oltre a quest’obiettivo Rotari ne persegue un altro cioè: il valore della regalità, la centralità del
rex e del suo apparato di funzionari vengono rafforzati dal ruolo di garanzia che al sovrano
viene riconosciuto in vista della corretta trascrizione e dell’applicazione delle cawarfidae ma si
sottolineano inoltre le prerogative che amplificano il ruolo di guida militare e di eccellenza
patrimoniale del re, soprattutto in vista del mantenimento della pace pubblica e della
repressione dei reati più pericolosi.
Nell’Editto redatto in un latino capace di dare traslitterazione fonetica a termini giuridici
trasmessi in una lingua orale appaiono gli istituti consuetudinari tipici della tradizione
longobarda:

● Il mundium: potestà maschile sulla donna, esercitata prima dal padre ed in seguito
dal marito
● Gli scambi patrimoniali in occasione delle nozze: il faderfio dal padre alla figlia e il
morgengabe dal marito alla sposa
● Il launegild: corrispettivo simbolico offerto dal beneficiario in occasione di una
donazione
● La wadia: garanzia in forma di pegno offerta dal debitore sui propri beni
● Il gairethinx parte dall’essere l’originaria assemblea con valenza militare e politica
per assumere la funzione di atto formale pubblico certificativo di importanti effetti
giuridici quali manumissioni di servi, adozioni, donazioni universali mortis causa, ecc
● Processi giudiziari definiti per via di duello o di giuramento
● Meccanismi di successione per esclusiva via legittima, senza alcuna forma di
disposizione testamentaria
● Pur prevedendosi la faida era data preferenza alla soluzione della composizione
pecuniaria, detta guidrigildo (wergeld) di cui una quota spettava al re in quanto
garante del corretto funzionamento del meccanismo
● Alcuni gravi delitti come: attentato al re, la congiura, il tradimento… capaci di
minare la pace tutelata dal re venivano individuati come crimini di lesa maestà ed
erano puniti con la morte

Dopo qualche intervento del re Grimoaldo nel 668, l’intervento più significativo dopo quello di
Rotari è rappresentato dalle 153 norme promulgate dal re Liutprando durante il suo regno (712-
744). La svolta politica-religiosa di questo sovrano porterà ad abbandonare i residui dell’originario
orientamento religioso del popolo (l’arianesimo), avvicinandosi alla fede cattolica eregendosi cosi
a protettore della Chiesa e del vescovo di Roma.
Nel prologo delle sue prime leggi del 713 si definisce un “principe cattolico” impegnato a tutelare il
patrimonio giuridico tradizionale e l’editto di Rotari ma inoltre aggiunge che fu sollecitato da
un’ispirazione divina ad operare seguendo la lex Dei cassando, modificando o creando nuove
norme.
Tra le novità che risentono della conversione cattolica abbiamo ad esempio la manumissione dello
schiavo davanti all’altare (prevista da Costantino), il riconoscimento dell’asilo ecclesiastico, certi
impedimenti matrimoniali di evidente derivazione canonica, un trattamento migliore della
condizione successoria delle figlie, la valorizzazione del consenso della donna con l’accettazione
dell’anello (subharratio cum anulo) in occasione della cerimonia matrimoniale, la donatio pro
anima una sorta di lascito pio a favore di enti ecclesiastici che introduce nella cultura giuridica
longobarda una prima forma di successione testamentaria. A documentare una fase di
integrazione della tradizione giuridica tra longobardi e latini, si può comprendere tramite il valore
che viene attribuito alle prove testimoniali e il riferimento a una indistinta consuetudo loci.
Dobbiamo quindi analizzare in relazione a ciò il valore che viene attribuito a figure come il notaio in
seguito ad una disposizione di Liutprando, la quale nel prevedere la redazione della cartula
secondo le forme negoziali latine o longobarde consentiva ad una delle due parti di rinunciare alla
propria legge.
Soltanto in una situazione l’approdo ai nuovi valori condivisi nel segno della cattolicità e degli usi
latini sembrava impossibile cioè la risoluzione delle controversie tramite l’applicazione delle ordalie.
Il duello era una forma di giustizia irrinunciabile per gli ambienti dell’élite militare longobarda.
Liutprando pur essendo ostile a ciò dovette prendere atto dell’impossibilità di vietare un istituto
radicato nelle consuetudini del suo popolo, agli strumenti processuali dell’accusa e della difesa si
preferiva la valentia delle armi a cospetto delle divinità.

4-CONSUETUDINI E MONDO SIGNORILE


La civiltà altomedioevale è segnata dalle consuetudini. I rapporti intersoggettivi, quando non
sfociano in violenza, soggiacciono a delle regole che si sono consolidate nella tradizione e
vengono trasmesse da generazione in generazione. Anche quando la consuetudine viene scritta
non perde la capacità di esprimere il dato costante dei comportamenti sociali, delle credenze, dei
rapporti di forza definiti dai fatti umani e dalla realtà naturale.
Quando la sopraffazione sembra mettere in crisi l’equilibrio dei ruoli e delle gerarchie, o irrompe la
brutalità per la conquista delle risorse disponibili, la consuetudine non perde comunque la sua
capacità inerziale ma si adatta metabolizzando i cambiamenti traumatici e ridisegna le strutture
sociali.
Ciò viene confermato da quanto abbiamo detto per le consuetudini nei popoli germanici, prima
legate ai popoli nei loro movimenti nomadici e di conquista, a volte subalterne a quelle dei
vincitori, altre volte dominanti; in seguito sottoposte ad un processo di verifica e di trascrizione
scritta con l’assemblea e il re come garanti in seguito contaminate in un irreversibile processo di
integrazione legato alla convivenza dei popoli nei medesimi territori. Questo fenomeno viene
arricchito da altri incroci, che pongono in relazione e avvolte in conflitto regole tradizionali legate
alle singole etnie o di appartenenza cetuale con altre legate al singolo territorio e ai rapporti socio
economici definitisi localmente (consuetudini territoriali): il risultato molto spesso è un ulteriore
miscelazione realizzatasi progressivamente per prassi anche tramite l’aiuto di notai e di giudici,
chiamati a dar forma ai mutevoli conflitti ed interessi.
Tra i vari nuclei consuetudinari che si affermano nell’alto medioevo abbiamo il feudo e delle norme
che lo regolano. Il rapporto feudale si instaura all’interno delle comunità dei combattenti dei
Franchi, con il fine di disciplinare e codificare le forme di supremazia e di obbedienza necessarie
all’ordinato sforzo bellico. Davanti al capo di un gruppo di uomini in armi, primo fra tutti il re, si
realizza un atto di fedeltà implicante la collaborazione militare e l’assistenza nelle atticità di
comando e giustizia. Questa fedeltà giurata tramite l’atto dell’omaggio (homagium) implica per il
signore che l’ha ricevuta il divere di provvedere al mantenimento di chi si è posto al suo servizio,
una sorta di ricompensa (beneficium) che consisteva nella spartizione del bottino. Il bene più
ambito era la terra, che il signore concedeva al vassallo per consentirgli di trarre le rendite relative
necessarie per il suo armamento e per un decoroso tenore di vita. Quello feudale è un istituto
complesso e multiforme, avrà una vita secolare pur nell’inevitabile adattamento e travisamento
che il tempo impone ai fenomeni di lunga durata.
Un altro ambiente fortemente produttivo usi, destinato a recepire molti degli schemi giuridici
affermatasi nel mondo feudale, cioè la signoria feudale. Tramite questa espressione si intende il
fascio di poteri che si radica su un soggetto a partire dalle esigenze e dalla strutturazione di un
sistema produttivo che era l’azienda curtense, la quale si affermerà nei secoli dell’alto medioevo.

La curtis era l’unità abitativa principale del titolare (signore o dominus) al quale era ricollegato un
territorio coltivabile. La curtis era definita pars dominica poiché sotto il controllo del signore che vi
risiedeva, era resa produttiva attraverso l’opera dei servi che erano dei soggetti privi di piena
personalità giuridica. A questa porzione di territorio si aggiunge il massaricium chiamato anche
pars massaricia che prende il nome dalla circostanza di essere divisa in varie unità, erano affidate
alla cura dei coltivatori, liberi o semi-liberi, che si appropriavano di una parte del prodotto, mentre
il resto andava al dominus. Era libero l’uso dei pascoli e dei boschi all’interno della riserva
domenicale. I coltivatori del massaricium oltre a dare una parte del prodotto del mansus
dovevano anche prestare una quantità di lavoro presso la curtis e la pars massaricia come
sostegno al lavoro dei servi, in questo caso l’intero prodotto spettava al signore. In questo contesto
economico e produttivo assume una figura di rilievo quella del signore, quale definitore di conflitti:
il signore ha il compito di difendere la pace all’interno del territorio curtense tramite l’applicazione
delle leggi in loco e quelle tipiche dei gruppi appartenenti alle diverse etnie. Oltre queste regole ve
ne erano altre come quelle derivati dai rapporti specifici intercorrenti tra il dominus e i residenti
impegnati in prestazioni economiche a suo vantaggio (si parla di iustitia dominica). I soggetti che
aiutano il signore nell’amministrazione delle terre sono anche coloro che lo aiuteranno a regolare
una controversia.
Oltre a queste forme di amministrazione della giustizia (iurisdictio) sorte in modo spontaneo in quel
contesto di vita economica, senza quindi l’incarico da parte di un’autorità competente, si
aggiunge la potestà dei domini di esprimere “atti di comando” (districtio) rivolti ai residenti:
ingiunzioni di prestazioni straordinarie, definizione di tributi connessi all’uso di specifiche attrezzature
o aree di pertinenza signorile (mulini, fiumi), chiamata alle armi.
Queste innumerevoli prerogative che il dominus possedeva nelle mani, in un certo senso erano
necessarie affinché riuscisse a garantire la pace e la protezione della curtis. La durezza delle
condizioni di vita e le innumerevoli difficoltà nel procacciarsi materie prime esalteranno i poteri
direttivi del signore, e i fattori di soggezione dei residenti: anche i residenti nel massaricium (nati
liberi) verranno paragonati e assoggettati al signore come gli schiavi operanti nella curtis signorile,
in seguito a delle limitazioni definite “in facto”. Sono quindi degli uomini dipendenti i quali
nonostante possano vantare uno status di libero sono sottoposti ad una restrizione di movimento e
di un’autonoma capacità di scelta, quindi in seguito ad esse vengono certamente paragonati ai
servi. Possiamo affermare quindi di trovarci di fronte ad una dinamica di “schiacciamento” delle
qualificazioni personali che esalta il rapporto verticale tra il dominus e i soggetti a lui sottomessi. La
società rurale altomedioevale viene sottoposta ad un processo di stratificazione giuridica, con
l’intento di ridurre i soggetti liberi e aumentare il numero dei soggetti subordinati.
Le gerarchie si strutturano in una rete complessa di rapporti giuridici dove appare decisivo il ruolo
di assicurare la pace (contro la violenza altrui) e la protezione (per soddisfare i bisogni primari della
vita). In quest’ottica possiamo comprendere come la gerarchizzazione delle relazioni giuridiche si
articoli verticalmente non solo all’interno delle unità produttive ma anche nel rapporto che si
costituisce tra queste unita cioè i titolari dei territori resi produttivi dai residenti/dipendenti tendono
a replicare nelle loro relazioni lo schema del superiore capace di assicurare tutela e dell’inferiore.
Tra i signori più ricchi e potenti ve ne è qualcuno in grado di esercitare forme concrete, legata alla
vastità del patrimonio, alla numerosità dei residenti al suo servizio, tali da estendere il suo
predominio su un’area abbastanza ampia di territorio: in questo caso si parlerà di signoria
territoriale.
Per signore territoriale si intende il titolare di vari di vasti possedimenti fondiari, su cui esercita
iurisdictio e districtio, è inoltre conosciuto come colui che è in grado di assicurare pace e
protezione anche ai signori più piccoli. Furono dei signori territoriali i Canossa, era una famiglia
dotata di un grosso patrimonio fondiario in Toscana e in Emilia-Romagna, a loro veniva
riconosciuto il potere di giudicare o emettere direttive su tutti i soggetti che avevano una minore
entità e potenza che insistevano sulla stessa area. Furono signori territoriali anche gli uomini di
chiesa o gli enti ecclesiastici: ad esempio l’abbazia di Nonantola, vantava vasti possedimenti in
area padana sui quali esercitava poteri signorili e veniva riconosciuto come signore territoriale
anche dagli altri soggetti.
Il signore territoriale è signore fondiario solo nella parte di influenza, mentre nel resto del territorio
non partecipa al processo produttivo ma esercita e coordina la difesa, la protezione e la giustizia
garantendo insieme agli altri signori laici o ecclesiastici e le comunità libere la pace.
Queste relazioni si ergevano sulla base delle consuetudini, le quali nascevano e si consolidavano
sulla base delle modalità produttive assestatesi in un preciso momento e in un determinato luogo e
tra una certa categoria di soggetti, queste consuetudini ben presto si integrarono a quelle di
matrice feudale. Queste nacquero in degli ambienti e con finalità militari, si prestarono bene a
dare configurazione giuridica a rapporti fattuali nati dal mondo produttivo delle signorie fondiarie,
dove gli status si andavano polarizzando tra la figura del dominus e quella dei subordinati semi-
liberi o servi.
Il termine vassalli indica una subordinazione dei residenti/contadini che erano soggetti alla fedeltà
feudale, a volte emergenti tramite atti giurati di soggezione personale.
Questo processo è stato incoraggiato dalla circostanza che alcuni dei signori fondiari di maggior
peso avevano ottenuto o avrebbero ottenuto in seguito il titolo feudale di conte o duca. La
primazia del signore esercitante alcuni poteri sui suoi residenti, trovava piena copertura giuridica
nel complesso delle consuetudini feudali che si stavano assestando grazie anche agli interventi
sovrani.

5-CHIESA E IMPERO

A) LA CHIESA COME ISTITUZIONE GIURIDICA


Dopo una fase di persecuzione e di vita clandestina, il cristianesimo ottiene dalle autorità romane
un primo riconoscimento a metà del III secolo sino ad essere dichiarata religione di Stato.
Anticipato da alcuni provvedimenti di Gallieno del 260, Costantino emanava nel 331 l’editto di
Milano, concedendo ai cristiani la libertà di culto. Teodosio I con l’editto di Tessalonica del 380
insieme agli altri due augusti Graziano e Valentiniano II insieme ad una serie di decreti emanati tra
il 390 e il 391 vietavano i riti pagani ed elevavano il cristianesimo a religione ufficiale. Era l’inizio di
una stagione di alleanza e contemporaneamente di compenetrazione tra potere e religione.
Questo riconoscimento andava ad esaltare la potenzialità organizzative che le prime comunità
cristiane avevano espresso come elemento di coesione e di disciplina. Gli atti degli apostoli
documento l’importanza dell’assemblea in vista della definizione dei ruoli guida e di raccordo sul
territorio (elezione dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi) ma anche come strumento di gestione
dei beni in comune e per l’esercizio dei doveri di solidarietà.
Queste iniziali strutture organizzative assunsero caratteri gerarchici tali da prefigurare la
manifestazione di vere e proprie istituzioni.
I vescovi emersero come autorità locale dotate do una rappresentanza sui fedeli-residenti dei
territori di competenza, capaci di fungere da interlocutori credibili e rispettabili quando alcune
zone dell’impero dovranno affrontare la pressione conquistatrice delle invasioni germaniche.
La religiosità cristiana rappresentò un elemento conflittuale con la cultura giuridica romana e in
generale con quella europea. Certi contenuti ricollegati ai valori evangelici come l’indissolubilità
del matrimonio, la gratuità del prestito, il rifiuto della vendetta erano in conflitto con le convinzioni
che si erano consolidate in consuetudini popolari e norme sovrane. La legislazione imperiale da
Teodosio II a Giustiniano acquisirono progressivamente una parte di quei valori, declinandoli
opportunamente all’interno di una differenziata scala di principi e gerarchie che non scardinassero
gli assi portanti dell’autorità imperiale. Tuttavia questo assorbimento ebbe anche una battuta
d’arresto e ciò si può notare riferendosi al divorzio il quale era un istituto in contrasto con l’essenza
sacramentale del matrimonio cristiano, ma Giustiniano volle conservarlo all’interno delle sue leggi,
riducendone i requisiti legittimanti.
Sia il codice Teodosiano che quello Giustinianeo avevano codificato una normativa specifica per
gli uomini e le istituzioni della chiesa poiché erano considerati entrambi tasselli di “governo
imperiale” ed erano quindi meritevoli di godere di alcuni privilegi. Agli ecclesiastici veniva
concesso il privilegium fori i quali in deroga al processo ordinario, potevano essere giudicati
direttamente dai vescovi.
Un altro istituto era l’episcopalis audentia era una sorta di conciliazione che il vescovo concedeva
in forma privata, veniva utilizzata per specifiche questioni o a tutela di soggetti che meritavano la
tutela come le vedove, i minori o i poveri. Ciò nell’impero d’Oriente aveva un significato di
supplenza mentre nelle città disastrate d’Occidente molto spesso non munite di appositi
collegamenti con le istituzioni centrali assumeva il ruolo di un potere giurisdizionale effettivo
riconosciuto e sollecitato dalla popolazione.
Il ruolo dei vescovi in Occidente assume un ruolo fondamentale, erano chiamati a fungere da
guide spirituali ma anche ad autorità di riferimento per le città e le zone rurali, i vescovi
appartenevano alle famiglie più influenti in quanto otevano essere investiti anche di poteri civili. Le
prerogative samzionate dalle norme di Teodosio e di Giustiniano assumono il valore di una
legittimazione implicita di più ampie ed estese funzioni. E’ un profilo dai contorni complessi che
deve contestualizzarsi zona per zona, ad esempio vi è la tradizione italiana di identificare come
protettore di una città un vescovo (es: Bologna San Petronio) che tra la tarda antichità e la prima
età medioevale aveva assunto il ruolo di difensore e rappresentante dei cittadini.
Il ruolo dei vescovi nell’europa Occidentale ha favorito l’invadenza del potere laico su aspetti ed
esponenti del mondo religioso. L’intervento imperiale nella vita della Chiesa d’Oriente e dove
possibile anche i quella d’Occidente era compatibile e quasi richiesto dal ruolo riconosciuto
all’imperatore bizantino di capo dell’organizzazione ecclesiastica e di guida religiosa (è il
cesaropapismo). Il culmine di questa invadenza fu la campagna con il quale l’imperatore
bizantino Leone III l’Isaurico, nel VIII secolo avversò l’uso delle immagini religiose: contrasto tra la
chiesa d’Oriente e d’Occidente porterà nel 1054 al “grande scisma” tra cattolici ortodossi e
cattolici romani. L’ingerenza del potere politico laico muterà natura, con l’avvento del regno e poi
dell’impero franco, che rivendicando per sé la veste di defensor Ecclesiae si riterrà legittimato a
ricorrere a un ampio spettro di poteri relativi alla nomina dei vescovi e dei prelati, al funzionamento
delle istituzioni ecclesiastiche, all’amministrazione dei beni relativi.
Il vescovo di Roma fu impegnato nel fissare i confini tra potere laico e religioso. Gelasio I, pontefice
romano dell’ultimo decennio del V secolo, ndirizzò all’imperatore d’Oriente Anastasio I un testo in
cui l’auctoritas della chiesa veniva affiancata a quella dell’impero definendo gli ambiti di rispettiva
autonomia riconoscendo alla chiesa un primato poggiato sul rapporto con Dio. Essa è la prima
affermazione di separazione dei poteri politico e religioso che caratterizzerà la civiltà europea.
Basandosi su ciò si darà vita ad un edificio che farà della Chiesa una plurisecolare istituzione
produttiva di diritto.
Un primo presupposto di tale vocazione appare comune con le altre religioni monoteiste come
quella ebraica e musulmana segnate dal Libro come mezzo di rivelazione divina, da esso si
traggono i principi teologici della fede e le norme comportamentali ai quali i fedeli devono
uniformarsi. Il libro è il mezzo di comunicazione tra Dio e il suo popolo, esso va letto e usato
mediante una coerente e cauta tecnica di lettura che risolva dubbi e contraddizioni, che come gli
errori sono apparenti. Per la tradizione cristiana è fondamentale l’apporto dato dai padri della
chiesa come Sant’Agostino oppure San Girolamo i quali hanno trasmesso alle generazioni duture
un’autorevole interpretazione della parola di Dio.
Un altro fattore rilevante è quello relativo ai concili ecumenici cioè le assemblee plenarie di tutti i
vescovi della cristianità o ai sinodi locali cioè le assemblee di area regionale, le quali tramite le loro
delibere (i canoni) dovevano risolvere problemi di natura teologica e organizzativa: i canones
divennero una fonte primaria della Chiesa e le relative violazioni implicarono la messa al bando dei
disobbedienti attraverso le scomuniche (excommunicationes). Il fenomeno monastico fu differente
in Occidente rispetto a quello Oriente, l’Occidentale promosse la produzione e la codificazione di
regulae di convivenza dal marcato valore normativo all’interno della comunità. Ne è un esempio
la regula risalente al 534 adottata da Benedetto da Norcia redatta per disciplinare il
funzionamento dell’abbazia di Cassino, da lui fondata nel 529. La “regola benedettina” divenne il
corpo di norme alle quali altre abbazie si ispirarono e aiutò i vari istituti monastici a dotarsi di un
profilo organizzativo gerarchico finalizzato alla sussistenza dei medesimi monaci e all’assistenza dei
bisognosi. Nell’ambiente monastico benedettino prese vita un’ulteriore fonte cioè quella dei “libri
penitenziali” (libri poenitentialis) i quali si occupavano di affiancare ai peccati le penitenze da
irrogare come espiazione, con una logica tariffaria che legava l’onerosità del castigo non soltanto
all’oggettiva gravità della trasgressione, ma anche alla soggettiva intenzionalità di colui che se ne
era reso responsabile. Degno di nota è il penitenziale di San Colombano il monaco irlandese che
enl secondo decennio del VII secolo fondò l’abbazia di Bobbio, destinata a diventare insieme a
quelle di Nonantola e San Giulia una delle più potenti nell’area padana.
Alle interpretazioni della Bibbia ad opera dei padri della chiesa, ai canoni conciliari e sinodali, alle
regole monastiche e ai libri penitenziali, last but non least, vanno aggiunte le epistule (missive,
lettere) dei pontefici. Il vescovo di Roma comunica con le zone periferiche utilizzando gli
ecclesiastici-funzionari, i quali dotati di competenze teologiche e giuridiche sono in grado di dare
delle risposte a qualsiasi quesito gli venga posto da un qualsiasi soggetto ecclesiastico.
Il lavoro della cancelleria apostolica compie un salto di qualità con Gregorio I, il monaco
benedettino che divenne papa tra il 590 e il 604, provvide a formalizzare in un registrum le 800
epistulae che costituiscono un primo corpus di testi pontifici dotati di un implicito valore normativo:
le missive gregoriane dettavano la condotta richiesta dal postulante sulla base si uno o più passi
delle Sacre Scritture estrapolati e trattati come norme vincolanti, e vi erano inoltre dei riferimenti al
diritto romano. Successivamente a Gregorio, la produzione normativa dei pontefici si estese infatti
oltre alla forma epistolare assunse altre forme più o meno codificate come le costitutiones, edicta
e decreta. Insieme alle fonti del diritto divino che costituiscono il materiale proprio della chiesa, si
moltiplicarono per quantità e qualità le fonti del diritto umano della chiesa come istituzione; siam o
di fronte al primo deposito di diritto canonico destinato ad un’illustre ed interrotta storia

B) LA RINASCITA DELL’IMPERO
L’incoronazione di Carlo Magno avvenuta la notte di Natale dell’ottocento a Roma da papa
Leone III, viene ricordata come una degli eventi costitutivi la civiltà europea.
Carlo (742-814) è il discendete di Carlo “Martello” che aveva posto fine alla dinastia dei Merovingi
(dei quali faceva parte Clodoveo il primo sovrano dei Franchi Salii) per dar vita ad una nuova
dinastia, quella dei Carolingi. Essa si caratterizzò non soltanto per la sua notevole espansione
territoriale poiché possedevano la Francia settentrionale, la Germania e l’Italia ma anche per aver
interpretato il tradizionale ruolo di comando tipico dei popoli germanici a forte vocazione militare
secondo nuove modalità direttamente derivate dalla struttura feudale del regno carolingio ed
altre mutuate dal modello romano. Questo aspetto è stato valorizzato al tal punto da teorizzare la
rinascita dell’impero d’Occidente, qualificato dalla fede cattolica tipica dei Franchi sin dal VI
secolo e da un impianto organizzativo e politico-amministrativo che utilizzava i legami vassallatici
per fare dei capi militari (comites) i titolari di poteri delegati dal sovrano in sede decentrata. La
rinascita dell’impero seppur coincidente con l’evento storico dell’incoronazione di Carlo Magno,
deve vedersi come un’interpretazione forzata compiuta dalla Chiesa, la quale tramite i suoi
strumenti (cultura, scrittura e autorevolezza religiosa) era interessata ad assumere il ruolo di
continuatrice dell’impero d’Occidente e di suprema rappresentante della volontà di Dio in terra.
Lo stesso Carlo Magno era stato da essa incoraggiato ad intraprendere l’invasione dell’Italia e di
sconfiggere una volta per tutte i Longobardi poiché in essi la Chiesa vedeva i defensores capaci di
porsi al servizio dell’autorevolezza del pontefice nell’Europa occidentale.
Il regno di Carlo Magno non abbandonò mai i tratti caratterizzanti i regni militari di tradizione
germanica. I comites esercitavano sui territori ricevuti in feudo poteri ampi di comando e giustizia,
manifestavano inoltre un’autonomia difficilmente compatibile con un’idea gerarchica del potere
statuale e informavano i loro rapporti col sovrano sulla base delle convenienze e dei concreti
rapporti di forza. Questo lo si può dimostrare non solo dall’autonomia che dichiaravano di avere
ma anche dall’uso che il sovrano faceva dei missi dominici i quali erano incaricati di specifiche
mansioni ed erano inviati nei territori decentrati per attuare le direttive del re, non sempre recepite
dai conti locali e per questo dovevano essere confermate o imposte grazie al ruolo dei missi. Il
regno di Carlo Magno giunse alla massima espansione territoriale negli anni dell’incoronazione
imperiale (comprendeva i territori della Francia, i Paesi Bassi, parte della Germania e l’Italia del
centro-nord) mostrava elementi di adattamento alla nuova realtà territoriale e alle vaste mire
politico-militari soprattutto sul piano della legislazione. I re carolingi si fecero promotori di un
imponente produzione legislativa, organizzata e raccolta sulla base dell’ambito di applicazione o
dell’oggetto regolato. Le norme regie nonostante producessero già degli effetti basandosi
sull’oralità venivano raccolte per iscritto in “capitolari” chiamati in questo modo poiché erano
suddivisi in capitoli. I capitolari venivano distinti in base al territorio d’incidenza, sulla base delle
materie trattate (si distinguevano i capitularia ecclesiastica che riguardavano materie di interesse
ecclesiastico, la vita della chiesa e le sue istituzioni dai capitularia mundana aventi per oggetto
materie o soggetti laici). Questa normativa non toglieva validità alle consuetudini e alle altre
norme vigenti, in ragione dei gruppi etnici di appartenenza, dei territori, dei soggetti inquadrati in
singole categorie, la legislazione franca si inseriva quindi in un quadro pluralistico di fonti normative
dove la maggior parte erano di natura consuetudinaria. Tuttavia si registra solo una novità per
quanto riguarda l’applicazione di tali norme, ai tempi del re-imperatore Carlo Magno si costituì la
figura dello scabino, esso era un giudice semi-professionale incaricato di affiancare il signore o il
notabile locale nell’amministrazione della giustizia. I Franchi non assunsero mai toni perentori nei
confronti degli imperatori bizantini. La pace di Aquisgrana stipulata tra Franchi e Bizantini nel 812
riconosceva al monarca di Costantinopoli il titolo di imperatore dei Romani: cosi Carlo venne
identificato come imperatore dei Franchi. L’impero franco non durò molto nell’843 il trattato di
Verdun pose fine alla lotta nata tra i figli di Ludovico il Pio successore di Carlo Magno, andando a
suddividere i territori: Carlo il Calvo ebbe il regno franco, Ludovico II ebbe il regno di Germania
mentre Lotario I ebbe la parte di mezzo dell’impero che si estendeva dai Paesi Bassi, alla Borgogna
e alla Provenza sino all’Italia.
Nella seconda metà del X secolo l’idea imperiale troverà nuova linfa in una nuova dinastia, il duca
di Sassonia Ottone dopo essere divenuto sovrano di Germania nel 936, in seguito ad un’aspra lotta
di successione per la supremazia in Italia che lo vide prevalere su Berengario d’Ivrea fu incoronato
imperatore nel 962 a Roma da papa Giovanni XII. Con questa data si segna la lunga permanenza
dello scettro imperiale in Germania. Lo stesso rapporto con la Chiesa risentì del radicamento
imperiale in Germania e del tentativo di sottoporre a stabile soggezione la penisola italica.

C) EGEMONIA SIGNORILE E RIFORMA DELLA CHIESA


Seppur i ruoli furono differenziati tramite la rivendicazione effettuata dalla Chiesa, si confermarono
anche con i Carolingi gli ambigui aspetti do contiguità, tra potere laico e religioso. Il regno
carolingio vantava il ruolo di defensor Ecclesiae, tutela che i re francesi esercitarono con la forza
delle armi insieme alla pervasività della legislazione. I capitularia ecclesiastica rappresentano un
fattore di ingerenza del potere laico nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche, le quali in molte
aree d’Europea sottoposte ai Franchi vennero attratte entro la sfera di controllo sovrano.
I vescovi vennero spesso scelti tra gli esponenti delle famiglie legate al potere regio e talvolta
assumevano il ruolo di rappresentanti del medesimo sovrano: parliamo dei vescovi-conti, erano
uomini di Chiesa i cui compiti politici si univano a quelli pastorali sino a sopravanzarli. Questo
fenomeno non riguardò solo i vertici dei rispettivi poteri, in generale i rapporti feudali segnarono
profondamente la Chiesa e le sue istituzioni, nei loro legami col mondo signorile ma anche con la
platea dei fedeli.
Gli ecclesiastici in grado di rivestire determinati ruoli come quello di vescovo cittadino, abate a
capo di un monastero ecc venivano selezionati direttamente o indirettamente dalle famiglie
aristocratiche quando non erano essi stessi a ricoprire questi ruoli infatti capitava spesso che i figli
non primogeniti fossero avviati alla carriera ecclesiastica. Ciò a cui si ambiva erano le ricchezze e i
poteri conseguenti ai terreni dati in dotazione alla singola istituzione ecclesiastica (vescovato,
abbazia, diaconia, parrocchia, cappella) tutti produttivi sia di profitti ma anche di prerogative di
comando e di giustizia sui residenti. In questo contesto saranno frequenti i casi di simonia cioè
l’acquisto di cariche religiose mediante esborso di denaro e la degenerazione dei costumi
alludendo al concubinaggio.
A ciò la Chiesa rispose con le sue armi cioè la cultura e la dimensione religiosa connessa con le
finalità perseguite. Sul primo versante, la Chiesa si attrezzò con decisione sin dai primi anni della
supremazia carolingia, soprattutto nei primi anni della campagna italiana di Carlo Magno, quando
il successore di Pietro sentì con urgenza il bisogno di accreditare l’istituzione universale da lui
guidata sulla base di un patrimonio normativo di solida tradizione. Possiamo ricordare la Collectio
Dyonisiana una delle più antiche raccolte di diritto canonico, dove il nucleo più antico viene
attribuito al monaco bizantino chiamato Dionigi o Dioniso, la versione aggiornata di ciò fu
predisposta dal papa Adriano I nel 774 e donata a Carlo come testimonianza del prestigio e
dell’inattaccabilità della Chiesa e delle sue prerogative.
In Italia circolarono altre raccolte di rilievo: la Collectio canonum Anselmi dicata opera anonima
composta negli ultimi decenni del secolo IX e dedicata al vescovo di Milano Anselmo, la materia
base di ciò è costituita dai canoni conciliari che furono legati ai testi normativi romani di natura
imperiale, adattati ai bisogni della chiesa e alle sue funzioni, l’esigenza di ribadire la tutela offerta
dal diritto romano è alla base anche della Lex romana canonicae compta una selezione di 300
frammenti di argomento o interesse ecclesiastico risalente alla metà del IX secolo merita inoltre di
essere menzionato la Collatio legum mosaicarum et romanorum di autore e datazione incerti,
dove si confrontano i testi biblici con le norme romane con lo scopo di rappresentare la loro
compatibilità. Un discorso a parte meritano le decretali cosiddette Pseudoisidorianae, essi erano
una raccolta di canoni conciliari e di lettere pontificie per la maggior parte apocrife, la cui
compilazione viene attribuita a Isidoro Mercator. Anche questo testo risale al IX secolo cioè
l’epoca della Renovatio Imperii. Possiamo giungere ad alcune conclusioni per ciò che riguarda
l’ambiente ecclesiastico, esso oltre alla produzione di raccolte normative, di varia natura
accreditate sia dalla tradizione risalente e dal supporto del diritto romano, provvede anche alla
raccolta di testi manipolati spesso falsi accostanti a testi autentici. Vi era un obiettivo molto chiaro:
le decretali Pseudoisidorianae composte probabilmente in Francia, accreditano il primato
pontificio al vertice della gerarchia quindi vi era la centralità di Roma sulle cariche ecclesiastiche
minori diffuse sul territorio europeo. Al suo interno era conservata la famosa “donazione di
Costantino”, cioè il falso (poiché mai avvenuto) trasferimento dell’autorità imperiale al vescovo di
Roma avente efficacia sul territorio italiano e sul resto dell’Europa Occidentale. Sulla base di ciò fu
possibile legittimare l’incoronazione a vantaggio dei sovrani franchi e perpetuare nei secoli l’idea
di una preminenza politica oltre che religiosa della Chiesa di Roma fin quando l’umanista Lorenzo
Valla nel XV secolo dimostrerà la natura apocrifa del documento.
Il fiorire di queste raccolte certamente costituirà il serbatoio dal quale attingere materiale
essenziale per la confezione di altre raccolte di testi canonici: alludiamo alle opere di Burcardo
vescovo di Worms, autore nei primi anni del XI secolo di un celebre Decretum suddiviso in 20 libri, e
di Ivo di Chartres autore tra la seconda metà dell’XI secolo e i primi anni del XII secolo di tre
raccolte il Decretum, la Panormia e la Tripartita.
La Chiesa certamente non avrebbe potuto fronteggiare l’offensiva costituita dal dilagare del
mondo signorile se non fosse stata sostenuta oltre che dalla raccolta di testi canonici anche dal
patrimonio fondiario che trovava la sua massima concentrazione nel centro della penisola italiana
( Lazio, Toscana meridionale, Umbria, Marche e Romagna): parliamo del patrimonio di San Pietro
frutto delle concessioni dei sovrani longobardi prima e franchi in seguito, ma anche del
radicamento di attività produttive ecclesiastiche operanti anche nella dimensione signorile.
La creazione e la manipolazione di testi normativi capaci di suffragare la legittimità di tali
possedimenti sostennero le pretese territoriali della Chiesa, ma tuttavia non fu possibile arginare le
difficoltà che vennero a galla con le lotte dinastiche del X secolo, sino a giungere ad una vera e
propria crisi con il sorgere dell’impero di Ottone I (962-973) e di Ottone II (973-983) di Sassonia.
Gli ecclesiastici, provenienti dalle famiglie feudali che avevano poca vocazione religiosa o
addirittura era totalmente assente, gestivano le loro diocesi nello stesso modo in cui i signori
gestivano i loro fondi, i discutibili comportamenti dei singoli contribuiscono al discredito della
missione pastorale, l’affidamento delle cariche più importanti vengono decise dalle autorità
laiche, la sede apostolica romana non è in grado di esercitare nessuna azione di governo o di
coordinamento sulle altre sedi e lo stesso vescovo di Roma è selezionato tra gli esponenti del
mondo aristocratico più sensibili agli interessi dell’impero tedesco.
In questo contesto a Cluny in Francia si affermava il prestigio di un’abbazia benedettina e di un
folto gruppo di monaci e intellettuali convinti della necessità di seguire un percorso che
permettesse alla Chiesa di rifondarsi, capace di opporsi all’asservimento al potere laico e alla
secolarizzazione della missione pastorale.
Si ebbe così un percorso di consapevolezza religiosa e politica capace di porre le promesse per un
rapporto paritario col mondo signorile e con l’autorità imperiale.
Il vescovo di Firenze Niccolò II fu influenzato dalla riforma cluniacense, infatti dopo essersi elevato
al suolo pontificio nel 1058, si adoperò a reprimere i fenomeni di simonia e concubinato, a
modificare le modalità di elezione del papa affidandola ad un collegio di vescovi-cardinali, al fine
di limitare l’influenza dell’aristocrazia romana e dell’imperatore tedesco. La svolta si ebbe con il
monaco Ildebrando da Sovana divenuto papa nel 1073 sotto il nome di Gregorio VII, egli si era
formato sia in Germania che a Cluny, e nel 1075 emanò un testo normativo noto come: Dictatus
Papae, si tratta di 27 proposizioni con valore di principi fondamentali tramite i quali si affermavano i
principi cardini della “riforma gregoriana”, tutti questi erano volti ad affermare il primato della
Chiesa in particolare del pontefice romano. Questo veniva definito “universale” assumeva infatti i
tratti di un monarca, i cui attributi poggiavano sulla rappresentanza di Dio sulla terra. Veniva
affermata in questo modo il potere esclusivo di nominare, trasferire e deporre i vescovi, nonché di
creare e riunire le istituzioni ecclesiastiche (abbazie, canoniche, congregazioni) si ribadiva la sua
indiscussa autorità sui concili anche quando mediato da un legato, al pontefice veniva
riconosciuto un potere illimitato, egli rappresentava l’apice dell’ordinamento giudiziario della
Chiesa infatti le cause maggiori venivano portate al suo cospetto e le sentenze che lui emetteva
non potevano essere modificate da nessuno, inoltre il papa non poteva essere posto sotto giudizio
da nessuno (si allude all’imperatore), a lui veniva riconosciuto il carattere di infallibilità che era
coessenziale alla Chiesa medesima, al pontefice era inoltre permesso escludere dalla comunità
ecclesiale tutti coloro che gli disobbedissero tramite la scomunica infine il pontefice poteva
deporre lo stesso imperatore e sciogliere i suoi sudditi dal vincolo di soggezione e fedeltà.
Gregorio VII scomunicò e depose nel 1076 l’imperatore Enrico IV di Franconia, il quale si recò a
Canossa poiché il pontefice risiedeva nel palazzo di Matilde Canossa per ottenere la revoca e il
perdono. La riconciliazione tra i due non durò molto a lungo, si ruppe nel 1080 in seguito alla
pronuncia di Gregorio VII di un atto di decadenza, al quale seguirà la nomina di un antipapa da
parte di Enrico e nel 1084 vi sarà la presa militare di Roma e papa Gregorio scapperà a Salerno
dove morirà l’anno seguente.
Ciò fu uno dei versanti più drammatici della lotta per le investiture, che mise in opposizione il
papato e l’impero per il controllo delle nomine e dei benefici ecclesiastici. Questo scontro trovò
uno sfogo con il trattato di Worms concluso nel 1122 tra l’imperatore Enrico V e papa Callisto II. In
esso si stabiliva il principio della doppia investitura, importante quando si dovevano dotare di
benefici feudali i vescovi: l’investitura ecclesiastica dei poteri pastorali sarebbe spettata
esclusivamente alla Chiesa mentre le prerogative feudali connesse potevano continuare ad essere
concesse dall’imperatore, ma egli non avrebbe più potuto usare l’anello e il pastorale poiché
erano riservati soltanto al pontefice.
La Chiesa grazie al processo messo in moto dalla riforma gregoriana apparirà come un’autorità
posta nel medesimo livello dell’impero. Sulla base della riforma gregoriana si iniziano ad affermare
elaborazioni teoretiche di tipo religioso e giuridico che propugnano una decisa preminenza della
Chiesa rispetto all’impero anche sul piano politico e secolare. Negli ambienti ecclesiastici si
affermerà la linea politica nota come “ierocratia=sacro potere” che afferma il prevalere del
potere religioso su quello laico.

6-LA CULTURA GIURIDICA ALTOMEDIEVALE

A) LA SOPRAVVIVENZA DEI TESTI GIUSTINIANEI


La compilazione giustinianea composta a Bisanzio e vigente nell’impero d’Oriente, fu estesa
all’Italia e all’impero d’Occidente con la pragmattica sanctio del 554. Poterono beneficiare
dell’applicazione di queste norme solo la parte di Italia bizantina, in seguito i Longobardi ne
restrinsero l’ambito di applicazione sino a renderla ininfluente e dimenticata.
Sia in Italia che in Europa occidentale ebbero la meglio le consuetudini sia in forma orale che in
forma scritta. I riferimenti al diritto romano erano rari, frammentari e indiretti, restava abbastanza
vitale la tradizione giuridica latina operante nelle consuetudini dei popoli latini e nelle forme
spontanee dell’oralità, della prassi negoziale e giudiziaria.
Un discorso diverso si deve fare per i testi del diritto giustinianeo, di cui la documentazione del
tempo restituisce solo qualche traccia. Quando i documenti alludono alla lex romana non si deve
pensare ad un rinvio alla compilazione giustinianea ma con questo termine si alludeva alle
consuetudini, la tradizione giuridica di un popolo, in questo caso il popolo latino prima sottomesso
ai Longobardi e in seguito ai Franchi manteneva comunque la sua tradizione giuridica che era
differente da quella usata dai loro dominatori.
Questa tradizione emerge dagli atti notarili e da quelli processuali. Più rare sono le citazioni di passi
tratti integralmente sporadicamente contenute in testi di provenienza ecclesiastica. La Chiesa
rimane nei secoli dell’alto medioevo la depositaria predominante della scrittura e dei prodotti
culturali, l’interesse che la Chiesa ha sempre avuto di tener memoria delle prerogative e dei
privilegi riconosciuti da Giustiniano nelle sue norme, a partire dalla Renovatio Imperii la Chiesa ha
coltivato e diffuso una tradizione culturale, religiosa e politica a un tempo, in cui essa si
accreditava come autentica depositaria dei valori universali dell’Impero romano.
Delle norme promulgate da Giustiniano a Bisanzio e applicate in seguito nell’impero d’Occidente
nel 554 sono rintracciabili pochissimi passi testualmente integri. Le risultanze cambiano in base alla
parte di compilazione che si analizza, per ciò che riguarda i Digesta (50 libri contenenti la selezione
della scienza giuridica dell’età classica soprattutto del I e II secolo) si può affermare che i brani
superstiti hanno poca consistenza e non sono sempre riportati in modo corretti o perfettamente
compresi. Un fenomeno comprensibile poiché l’età altomedievale è caratterizzata dall’uso della
forza, del prevalere delle consuetudini e da un’economia non molto sviluppata, una società del
genere non aveva bisogno di testi giuridici. Le due raccolte di constitutiones imperiali (Codex e
Novellae) ebbero una diffusione tramite più versioni compendiate. Si conoscono diverse epitomi di
entrambi le raccolte: Epitome Codicis (risale al VIII) composta per riassumere il contenuto dei primi
nove libri del codex giustinianeo oppure la Summa Perusina anche questa una sintesi di una parte
del codex o ancora Epitome Iuliani un compendio delle Novellae attribuite al giurista bizantino
Giuliano. In alcuni manoscritti che riportano la sintesi è possibile trovare i segni di un’elementare
attività interpretativa attraverso l’apposizione di glosse. I libri delle Institutiones non ebbero bisogno
di essere compendiate, fu quindi conservato nella sua versione originale con l’apposizione di
glosse esplicative.

B) LE ARTI LIBERALI
Per ciò che riguarda la cultura giuridica altomedievale si è parlato di “un’età senza giuristi”, vi era
la totale assenza di centri di formazione, di insegnamento e di apprendimento specializzato del
diritto. Se pensiamo al disfacimento dell’impero d’Occidente, all’egemonia dei regni germanici e
all’affermazione della consuetudine, non ci possiamo stupire se nell’Europa dei secoli VII-X al
contrario che nell’Impero d’Oriente, non si sentisse il bisogno di competenze specifiche e
sofisticate per la conoscenza e l’applicazione delle regole vigenti. Tuttavia ciò non significa che
non esistessero soggetti che noi potremmo chiamare “operatori del diritto” come giudici e notai. Il
percorso formativo era nettamente differente, legate al luogo di residenza o al centro del potere
con cui entravano in contatto o al servizio del quale erano chiamati ad operare. Quasi impossibile
identificare maestri impegnati a fornire una preparazione esclusivamente giuridica.
La conoscenza durante l’alto medioevo era di tipo “enciclopedico”, essa aderiva alla visione
integrale della realtà visibile e invisibile, concepita come ordine della creazione divina. Questa
concezione della conoscenza possiamo trovarla espressa nel programma delle artes liberales (le
arti liberali) denominate cosi perché al contrario delle artes mechanicae (le arti meccaniche) non
comportavano lavori manuali di natura servile ma anzi attività di conoscenza tipicamente adatta
e riservata all’uomo libero.
Le arti liberali hanno origine antica, e trovano nei primi secoli dell’alto medioevo una sistemazione
con Isidoro da Siviglia e le sue Etymologiae (primi decenni del VII secolo) i cui 20 libri affrontano
tutta la conoscenza disponibile del tempo secondo l’utilizzo dell’ottica enciclopedica. Tramite le
nozioni di Isidoro che si diffusero grazie alla sua opera, l’insegnamento nei secoli a venire fu
impartito entro le griglie disciplinari delle arti liberali. Le arti liberali erano 7, 3 erano chiamate
sermocinales (riguardano l’organizzazione e l’esposizione del pensiero) ed erano la grammatica, la
retorica e la dialettica, mentre le altre 4 erano chiamate reales (riguarda le discipline che
indagano la realtà delle cose, della natura del creato) l’aritmetica, la geometria, l’astronomia e la
musica. La grammatica può definirsi come l’arte di esporre in modo corretto e comprensibile il
discorso, la retorica come l’arte di esporre efficacemente e convincentemente il discorso, la
dialettica come l’arte di ragionare, organizzare il pensiero, fissarne i passaggi secondo modalità
argomentative valide e coerenti. L’insegnamento impartito secondo le griglie contenitrici delle arti
liberali sermocinali forniva l’occasione per trasmettere alcuni generici elementi cultura giuridica.
Le Etymologiae di Isidoro era il testo fondamentale nelle scuole di arti liberali, vi sono 27 paragrafi
del capitolo V che sono dedicati al diritto, ma quei contenuti non erano sufficienti a costituire un
sapere solido anche se si considerava sufficiente per gli allievi della scuola. Il diritto era concepito
come un sapere radicato nella morale religiosa che la consuetudine era posta al medesimo piano
della legge e che la terminologia romanistica appariva generica e mai circostanziata. Da questo
materiale limitato si traevano le poche nozioni giuridiche trasmesse con la grammatica, la retorica
e la dialettica. Le scuole non erano caratterizzate dalla specializzazione, non esistevano scuole
dedicate esclusivamente al diritto. La cultura e la sua trasmissione erano affidate alla Chiesa infatti
erano luoghi di apprendimento i monasteri nelle aree rurali e le cattedrali in città. Il sapere veniva
incanalato nel prisma delle sette arti liberali le quali fatta eccezione per l’indottrinamento religioso
restavano la base per la formazione di qualsiasi uomo di cultura, laico o ecclesiastico. La Chiesa
era la depositaria dei centri di formazione e della cultura, ma si deve notare che vi erano delle
scuole che operavano all’interno delle corti sovrane o delle corporazioni professionali.
C) GIUDICI E NOTAI
La circostanza che nell’alto medioevo non si possa parlare di giuristi in senso stretto non può
interpretarsi come l’assenza di operatori del diritto. Le controversie oltre ad essere risolte con la
forza potevano essere anche risolte tramite l’applicazione delle norme vigenti inoltre si poneva il
problema di certificare gli atti con cui il singolo o le parti intendevano porre in essere determinate
volontà.
Le consuetudini potevano assumere a volte la forma scritta grazie alla sanzione dei sovrani,
approvata dall’assemblea popolare degli uomini liberi, ma tuttavia il tratto la forma orale di queste
era preponderante. Il problema dell’accertamento del contenuto specifico della singola
consuetudine, della sua vigenza in quel determinato territorio o gruppo etnico, aveva dei contorni
che non garantivano una soluzione facile. Si poteva ricorrere alla memoria degli antichi del luogo
chiamati gli antiquiores loci oppure si avviava un’indagine attraverso il ricorso a testimoni affidabili
cioè la inquisitio per testes.
Il giudice doveva essere al corrente delle consuetudini vigenti e delle modalità tradizionali per il
loro accertamento. Chi giudicava doveva avere la iurisdictio cioè doveva essere titolare del
potere di amministrare la giustizia, risolvere le controversie applicando le regole vigenti, questo
potere veniva tendenzialmente riconosciuto al papa, l’imperatore, ai re, ai vescovi, ai conti, ai
signori fondiari, territoriali e feudali. Tuttavia non si può affermare che essi esercitassero sempre
questo potere in prima persona, infatti spesso si avvalevano della perizia di soggetti esperti e fidati,
ai quali si chiedeva una consulenza quando si giudicava attraverso un organo collegiale
presieduto dal titolare della iurisdictio oppure si delegava il potere di emettere sentenza a soggetti
abilitati, in queswto caso possiamo parlare degli scabini oppure di iudices.
La pronuncia giudiziaria non aveva il valore dell’applicazione di una norma imperativa capace di
costituire, modificare o interrompere effetti giuridici, ma piuttosto si limitava a dichiarare operativa
una determinata regola consuetudinaria vigente, dalla quale discendevano certe conseguenze
tra le parti in causa: quindi possiamo affermare che si trattava di una sentenza dichiarativa.
Tuttavia, non si parlava di una sentenza: l’atto che documentava le fasi del processo individuava
la regola vigente e dichiarava valide le prove e si chiamava placitum (oppure notitia iudicati).
Anche se ci troviamo in ambiente germanico possiamo notare come la giustizia non sia vista come
un’attività autoritativa ma anzi come l’affermazione di un ordine di regole e di situazioni soggettive
iscritte nella tradizionale convivenza e se queste fossero state disattese o violate dovevano essere
ripristinate tramite un riconoscimento giudiziale prodotto dal titolare della iurisdictio.
In ambiente italiano il processo e il pronunciamento tendevano a valorizzare glie elementi
probatori com ela testimonianza, il giuramento, la confessione e il documento negoziale, questi
erano poco utilizzati in ambienet germanico poiché preferivano affidarsi agli strumenti tradizionali
della loro cultura, cioè l’ordalia e in particolar modo utilizzavano spesso il duello.
Un’altra figura molto rilevante in ambiente giuridico è il notaio, nell’alto medioevo questo poteva
provenire da un ambiente ecclesiastico oppure poteva essere un componente di corti giudicanti o
l’appartenente di uno specifico collegio professionale. La loro capacità di dar vita ad atti espressivi
della volontà dei privati era dovuta al riconosciuto valore della loro perizia nel redigere documenti,
perizia su cui era fondato il prestigio professionale di tali operatori. Un discorso diverso deve farsi per
l’élite che era al servizio di autorità signorili o ecclesiastiche, erano capaci di fornire al documento
una sanzione ufficiale promanante dal potere che rappresentavano.
La publica fides cioè l’affidabilità che si richiedeva al documento non era un elemento scontato e
solo in alcuni casi rari poteva fondarsi su un’autorità di cui il notaio incarnava la sanzione ufficiale.
Negli altri casi il notaio basandosi sulla sua personale professionalità o sul prestigio della
corporazione al quale appartiene doveva essere in grado di confezionare un atto dotato di
firmitas cioè la stabilità nel tempo che poteva tradursi concretamente come:

1. Nella sua irrevocabilità le parti non possono rinnegare quanto hanno concordato
nell’atto
2. Nella sua inattaccabilità l’atto può essere prodotto in giudizio in caso di controversia

La firmitas poggiava sulla sottoscrizione dei contraenti e dei testimoni, che conferivano forza
all’accordo documentato nell’atto. Il contenuto dell’instrumentum (documento) se contestato
poteva essere messo in discussione dal giuramento e dalle testimonianze, che in sede
processuale potevano avere la stessa forza della carta notarile. Cosi si spiegano le modalità di
corroboramento dell’atto che la prassi aveva messo in atto nel tempo, la prima era quella di
ricorrere all’autorità del signore territoriale o a quella regia o a quella imperiale o pontificia per
ottenere la sanzione ufficiale dell’instrumentum. L’alternativa era data dalla possibilità di ricorrere
alla pronuncia giudiziale: si ricorreva al giudice per trasformare il contenuto negoziale in una
sentenza, in modo da esaltare il valore vincolante del contratto. Il giudice intervenendo rendeva
più salda la firmitas che il notaio non poteva assicurare specialmente durante una contestazione.
Negli ambienti di cultura germanica il valore dell’instrumentum era molto più esile, infatti
preferivano affidarsi ad altri strumenti tradizionali per corroborare gli atti. Ad esempio, la traditio
chartae mediante il quale l’atto in sede processuale costituiva una mera prova che le parti
potevano utilizzare in concomitanza con le altre tradizionalmente ammesse. In territorio latino
l’evoluzione dell’instrumentum fu diverso, infatti esso anche quando non era corroborato da una
insuperabile publica fides poteva vantare comunque in sede processuale una firmitas
difficilmente scalfibile da altri strumenti.
Al notaio non bastava la scrittura e la perizia cosi come per i giudici non bastava la perizia e la
conoscenza delle regole vigenti: ma era necessaria anche la legittimazione dell’autorità. Il
cap.243 dell’editto del re di Rotari, puniva con il taglio della mano colui che era responsabile di
aver redatto una cartola falsa cioè una carta notarile falsa. I Franchi diedero al notaio grande
importanza, infatti ne nominavano uno ufficiale per ogni località in cui operasse un missus
dominicus, ciò evitava lòa possibilità che gli ecclesiastici potessero confezionare atti pubblici.
Con l’affermazione dell’autorità imperiale vi fu la necessità di avere un corpo di notai ufficiali
delegati dall’autorità pubblica a fornire publica fides, insuperabile anche dagli atti rogati. Notai
del genere possiamo ritrovarli nel Palatium di Pavia, sino alla sua distruzione avvenuta nel 1024
epoca in cui la prerogativa di nominare notai pubblici passò in mano alla potente famiglia
Lomello. A partire dal X secolo emersero contesti nuovi di relazioni giuridiche ed economiche, ciò
avvenne nelle città, i notai locali seppero produrre testi di supporto alla loro professione il
cosiddetto formularium erano delle raccolte di moduli finalizzati al raggiungimento di effetti
giuridici desiderati dal disponente o dai contraenti (donazione, compravendita, testamento,
affrancazione, affitto) sui quali intervenire in seguito con i dati specifici dell’atto da rogare. Sui
formulari si formarono varie generazioni di notai, i quali ebbero il bisogno di elaborare formule
notarili in grado di aderire ai bisogni dei disponenti e di dotare i propri strumenti di firmitas. Nel X
secolo si trovò una forma di stabilità nella tipicità negoziale ereditata dalla tradizione giuridica
del diritto romano. Il notaio ebbe l’abilità di porsi al servizio della vita economica dei territori,
tramite la prassi possiamo notare quanto sia importante ciò nelle città mercantili ad esempio a
Genova si elaborano atti notarili con promesse di pagamento o confessioni di debito in grado di
essere riconosciuti come immediatamente eseguibili, senza bisogno della sentenza del giudice:
si parla in questo caso di instrumenta guarentigiata cioè titoli di credito. La prassi delle
imbreviaturae i notai insieme all’atto richiesto compilavano una sorta di sintesi dell’atto
medesimo da raccogliere in un apposito registro di funzione di pubblica certificazione. Il notaio
era dotato di una cultura autonoma e parallela a quella ecclesiastica, a questa figura si deve
riconoscere il contributo nel recupero delle fonti giustinianee che nell’alto medioevo circolavano
in modo frammentario.

7-VERSO UN DIRITTO UNIVERSALE


La suggestione di quello che fu l’impero romano, le sue radici culturali e giuridiche non si sono mai
spente nell’alto medioevo. Ne abbiamo visto traccia nel progetto di rinascita imperiale perseguito
dalla Chiesa e di cui fu investito il regno franco di Carlo Magno. Le vestigia della romanità sono
presenti anche in ambito ecclesiastico, cosi come nella consuetudini di matrice latina, nella cultura
dei notai e nella sopravvivenza lacunosa dei testi giustinianei. Questa suggestione intorno all’XI
secolo iniziò ad avere dei contorni più definiti.
Si avverte una coscienza della limitatezza dei tradizionali meccanismi di accertamento,
applicazione e covigenza delle consuetudini. La consuetudine è una fonte molto apprezzata ma
adesso in seguito al mutamento della società verso una maggiore complessità risulta difficile
applicarle. I poteri territoriali forti hanno bisogno di un diritto meno frammentato e contradditorio, in
grado di superare la molteplicità irriducibile dei patrimoni consuetudinari di matrice personale e
locale. Si manifesta quindi la necessità di avere un diritto che sappia qualificarsi come superiore ed
unitario. Questa esigenza è maggiormente avvertita nei centri del potere, presso le istituzioni
ecclesiastiche, all’interno degli ambienti notarili e nelle aree urbane di rinnovata ascesa. Sembra
che nessuna autorità politica sia in grado di garantire un diritto superiore e unitario, tuttavia non
sarà necessario creare un nuovo diritto in quanto la suggestione dell’Impero romano non era mai
realmente svanita e nemmeno l’operato di Giustiniano. Ciò che si vuole dire è che probabilmente
l’attività iniziata da Irnerio cioè la riscoperta dei testi giustinianei e la successiva nascita di una
scuola giuridica a Bologna non si devono intendere come un fenomeno a sé ma anzi sono il frutto
di un processo articolato e complesso iniziato negli ultimi decenni dell’alto medioevo.
La storiografia ha superato la visione miracolistica dell’attività intrapresa da Irnerio mettendo in
relazione una serie di momenti della storia giuridica dell’XI secolo che sembrano preludere la svolta
bolognese.
In primo luogo si deve segnalare la presenza nella Pavia dell’XI secolo di una scuola giuridica,
Pavia era stata la capitale del Regno Italico prima con i Longobardi, in seguito con i Franchi ed
infine negli anni burrascosi seguiti dalla divisione dell’Impero (l’epoca dell’anarchia feudale). In
questo momento il Regno si reggeva su una pluralità di fonti consuetudinarie e per facilitarne la
conoscenza si erano create delle raccolte dove le più importanti sono:

1. Liber papiensis: conteneva tutti gli editti Longobardi da Rotari ad Astolfo quindi dal 643 al
755, aveva inoltre i capitoli franchi e le costituzioni imperiali contenuti nel Capitolare
Italicum (da Carlo Magno a Enrico II quindi dal 779 al 1014) ed il materiale era organizzato
seguendo il criterio cronologico.
2. Lombarda: vi appartenevano le stesse norme sopraelencate ma si era utilizzato un criterio
sistematico e l’utilizzo di questo criterio rispondeva ai bisogni della pratica e dello studio, ciò
ne decreterà il suo successo infatti rimpiazzerà il Liber Papiensis

Al Liber Papiensis si associa un testo di natura esegetica cioè l’Expositio ad Librum papiensem, si
tratta di una serie di annotazioni al testo normativo contenuto nel Liber le quali provengono
probabilmente da una scuola di giuristi attivi a Pavia intorno al 1070, i giuristi che le hanno prodotte
sono diversi, la maggior parte sono sconosciuti o addirittura anonimi, essi produssero queste
annotazioni per rendere più facile la comprensione delle norme e risolvere i problemi di
coordinamento e coerenza fra esse. I maestri che hanno costituito queste annotazioni si
distinguono in base alle scuole di appartenenza, infatti parliamo di maestri antiqui e moderni
intendendo così non solo la distanza generazionale ma anche le diverse sensibilità dottrinali. La
Expositio viene citata nei manuali di storia del diritto perché è la testimonianza di una scuola
giuridica di diritto germanico in Italia e perché i maestri citati nell’opera mostrano di avere
un’ottima conoscenza delle norme romane come le istituzioni, il codex, le novelle e in minor
numero del digesto. La storiografia è rimasta colpita del ricorso alle norme romane per colmare
lacune, risolvere antinomie, l’utilizzo della legge romana in funzione della comprensione e
dell’integrazione del diritto longobardo, franco e imperiale rappresenta la prima intuizione di quella
che sarà la missione storica del diritto romano e della scuola che su quel diritto fonderà una
scienza di respiro comune cioè il diritto comune che rappresenterà un patrimonio giuridico
condiviso e di indiscussa autorità.
Una seconda testimonianza del ricorso alle fonti giustinianee sono rappresentate da alcune
contese giudiziarie registrate nella seconda metà dell’XI secolo, la più nota è quella risalente al
Placito di Marturi del 1076. Davanti al missus della marchesa Beatrice di Canossa, la cui famiglia
controlla un vasto territorio dalla Toscana alla pianura padana, si svolge un processo che oppone il
monastero di San Michele in Castello al fiorentino Sigizone. Gli oggetto della disputa sono dei beni
e la chiesa di Sant’Andrea presso il castello di Papaiano, questi beni erano stati concessi
ottant’anni prima al monastero dal marchese Ugo di Toscana ma in seguito erano stati usurpati
illecitamente dal marchese Bonifacio. Il sopruso era stato spesso denunciato dal monastero presso i
giudici che operavano per i Canossa, senza che però questi svolgessero degli accertamenti sul
caso. Questi ricorsi furono allegati per contrastare la difesa di Sigizone, il quale riteneva di essere
protetto dall’usucapione. L’avvocato Giovanni che è il difensore del monastero sa di poter
contare sull’interruzione della prescrizione quarantennale grazie a delle prove documentali e
testimoniali rafforzati dal giuramento, che attestano gli avvenuti e che dovrebbero prevalere sul
possesso in buona fede di Sigizone. Nel proc esso germanico, il giudice decide in base alle prove
ammesse e dedotte in giudizio e ne dichiara la validità ai fini della prevalenza delle ragioni
dell’una o dell’altra parte ma in questo caso succede qualcosa di diverso, in quanto il giudice
Nordilo passa oltre le prove addotte dell’avvocato Giovanni e cita un frammento di Ulpiano che si
trova nel Digesto dove si tratta la restitutio ad integrum concessa dal pretore anche dopo i termini
consentiti nel caso in cui il ritardo sia dovuto all’assenza di giudici o alla loro inazione. Il giudice
preferisce quindi fondare la sua sentenza a favore del monastero sulla restitutio ad integrum. I
giudici dei Canossa prima avevano sempre riconfermato le norme della tradizione germanica
come possiamo notare nel placito di Garfagnolo (1098) che affidò gli esiti di una rivendicazione
patrimoniale tra il moanstero di San Prospero e una comunità della valle del Secchia. Nordilo,
sceglierà il passo del Digesto per affermare una regola generale cioè non è possibile essere privato
dei propri diritti in caso di dinegata giustizia: il rimedio della restitutio ad integrum, del ripristino della
situazione giuridica precedente al sopruso in oggetto, prevale sopra ogni considerazione, e si
afferma come principio di ampia portata rispetto alle prove messe al tavolo dal reclamante.
All’interno del Placito di Marturi troveremo una figura chiave per la scuola giuridica di bologna
(anche se non si ha la certezza sia lo stesso soggetto) Pepo legis doctor.

IL MEDIOEVO DEI DIRITTI

1-UN DIRITTO ANTICO PER IL NUOVO MILLENNIO: LA STAGIONE PREIRNERIANA


Con il XII secolo Italia ed Europa si schiudono a quello che la storiografia ha definito il
«rinascimento giuridico medievale». Rinascimento = una rinascita che segue alla pacificazione
politica e militare e alla correlata ripresa economica, entrambe germogliate nel secolo
precedente. Una nuova dinastia, quella di Franconia, reggeva l'Impero e ne garantiva gli assetti.
Sul versante dell'esperienza giuridica le acquisizioni della cosiddetta Scuola di Pavia e l'uso abile e
spregiudicato nel circuito giudiziario della dinastia feuda le dei da Canossa di norme giustinianee
da secoli cadute nell'oblio, costituiscono ben più di un segnale della avvertita necessità di
affiancare al diritto longo bardo-franco, un complesso normativo meglio confacente a una
società che si avviava a divenire più strutturata e articolata. Una società che vedeva affiancarsi
all'economia agricola di base curtense una dimensione mercantile e artigiana che necessitava di
strumenti giuridici adatti a certificare e tutelare una gamma ampliata di figure negoziali. Nella
seconda metà dell’XI secolo tale necessità si era convertita nella consapevolezza che la lex
generalis omnium la lex romana: ne erano consci gli operatori del diritto del tribunale pavese
quanto i giudici, i causidici (avvocati) e i notai che in area tosco emiliana nei medesimi decenni
operavano nell'ambito della giustizia feudale canossiana. Un ambito al quale appartiene anche il
notaio aretino Petrus, il firmatario di una quindicina di rogiti (=atto pubblico) nei quali ricorrono
formule di stile e trasparenti richiami al testo del Codice e delle Istituzioni di Giustiniano.
Entro i larghi confini della giurisdizione dei da Canossa, dall'Appennino alla Padania continentale,
alcuni 'addetti ai lavori’ uniscono l'uso del Digesto al manipolo di fonti giustinianee che l'Alto
Medioevo aveva cautamente maneggiato in forma riassunta e scarnita: i primi nove libri del
Codice, le Istituzioni, le Novelle nella redazione della Epitome di Giuliano. Un uso del Digesto, che
presumeva una conoscenza, limitata ai primi quattro dei cinquanta libri che compongono la
monumentale raccolta di iura. Fra questi addetti ai lavori, il Pepo legis doctor esce dall'ombra per
divenire il simbolo della stagione preirneriana. Che un quidam dominus Pepo aveva per primo
cominciato a legere in legibus a Bologna, cioè a tenere lezioni sulle leggi giustinianee. Ciò viene
affermato dal giurista duecentesco Denari che volle vedere il legis doctor presente nel placito
marturense. Egli depone una summa (=sintesi) del Codex nota come Iustiniani est in hoc opere: è
un'opera di origine provenzale attribuita alla seconda metà del 1100. Il fatto che a più di un secolo
di distanza e in terra di Francia si conserva il ricordo dell'antico giurista contraddice la sua scarsa
fama. Qui un magister Pepo invoca davanti l'imperatore Enrico IV, l'irrogazione della pena di morte
per l'uccisore di un servo, imponendo così il primato della legge romana, di cui si fa paladino, di
contro a quella longobardo-franca, che prevede, nel caso di specie, la semplice composizione
pecuniaria. Un Pepo che Rodolfo il Nero definisce «Co- S et Institutionum baiulus»,(=difensore del
Codice e delle Istituzioni di Giustiniano e buon conoscitore di entrambi). Un Pepo che si immagina
vestito di abiti talari. Il che non contrasterebbe con una ulteriore testimonianza valorizzata da Pietro
Fiorelli, che narra di un Petrus «clarum bo- noniensium lumen» («chiara luce tra i bolognesi») assiso
tra vescovi e dotti in un importante disputa teologica. Che la fonte sia da riferire a un Petrus
vescovo 'scismatico' di Bologna tra il 1085 e 1096; si pensa che il vescovo Petrus e il magister Pepo
siano una sola persona. La figura di questo o di questi precursori continuerà a mancare.

2-LA RIVOLUZIONE DI IRNERIO


Alla percezione da parte di Pepo e dei suoi seguaci dell'adeguatezza della compilazione di
Giustiniano a rispondere alle istanze del presente, si accompagna e fungeva da forza motrice un
fenomeno importante: la progressiva emersione dei manoscritti riproducenti il testo integrale se non
integro delle leggi imperiali. Una riemersione che nel caso del Digesto interrompe un silenzio,
racchiuso fra un dies a quo (una epistola del Pontefice Gregorio Magno del 604) e un dies ad
quem (il testo del placito marturense del 1076). Non si ha la certezza di quali siano stati gli itinerari
della ricomparsa delle singole parti della compilazione: fra la seconda metà dell'XI e la prima metà
del XII secolo, il moto politico della Riforma Gregoriana. Lo scontro fra le due supreme autorità
dell'Occidente cristiano, l'Impero e la Chiesa, celava il nodo intricato della convivenza delle due
istituzioni universali. La giurisdizione (iurisdictio) di entrambe operava nei confronti dei medesimi
soggetti: i sudditi dell'Impero erano un tempo anche i fedeli di Cristo, ne conseguiva la covigenza
sullo stesso territorio dell'Impero di due complessi normativi, distinti ratione materiae, ma coincidenti
nei destina tari. Un nodo insolubile, che fra tentativi di composizione e più frequenti tensioni
avrebbe attraversato tutto il medioevo sino alle soglie dell'età moderna. La Riforma coinvolse i
migliori intelletti e i vertici dell'Occidente - i pontefici e gli imperatori nel tentativo di supportare con
argomenti teologici e giuridici il primato del pontefice e delle gerarchie della Chiesa su imperatori
e Impero o viceversa. Un modus operandi che si basava sull'assunto, che l'autorità/autorevolezza
dell'argomentazione utilizzata nonché la sua antichità legittimassero la tesi da dimostrare. Per la
causa dei riformisti vennero rivoltati gli scaffali dei giacimenti di cultura libraria dell'epoca. Le prime
citazioni non in forma riassunta di Codice e di Istituzioni compaiono nella Collectio canonum
(Raccolta di canoni) del vescovo di Lucca e nel Decretum del vescovo di Worms: le Novelle di
Giustiniano sono citate nella redazione dell'Authenticum. Entrambe raccolte di canoni conciliari al
servizio della Riforma, esse appartengono alla seconda metà del secolo XI, al quale appartiene
anche l'anonima Collectio Britannica, che in anni vicini a quelli del Placito di Marturi mostra una
conoscenza più che buona del Digesto, inanellando ben 98 citazioni tratte da esso. E’ difficile non
ipotizzare che proprio dalle grandi biblioteche monastiche siano riemersi i manoscritti delle singole
parti della compilazione giustinianea: manoscritti disertati nei secoli precedenti che si avviavano a
divenire preziosi. Il fenomeno del «rinascimento giuridico medievale» prende l'avvio proprio dal
fortunato incontro fra i libri legales, i libri della risalente legge di Giustiniano, e uomini 'istruiti' e
lungimiranti in grado di coglierne il potenziale per le istanze di disciplinamento del loro tempo.
L'incontro era già avvenuto nella seconda metà del secolo XI: le testimonianze dell'ambiente
giudiziario pavese, il Placito di Marturi, il lumen del misterioso Pepo, i rogiti dei notai aretini, le
collezioni riformiste di canoni ecclesiastici ce lo dichiarano, ma un solco profondo separa questa
stagione prodromica e, in una parola, preirneriana, da quella destinata a prendere quota a
Bologna dal secondo decennio del 1100 grazie all’attività di Irnerio. La differenza riposa
nell’attitudine con la quale la lucerna iuris (=luce del diritto) si accostò ai libri della legge.
Un’attitudine 'scientifica' e sistematica a fronte della spontanea, strumenta: le utilizzazione che i
suoi immediati predecessori fecero delle medesime fonti. Irnerio dal suo ruolo di esegeta, di
divulgatore dello ius civile, Il mito del «primus illuminator scientiae nostrae». Suggestive informazioni
ci giungono tramite le praelectiones (lezioni scolastiche) di Odofredo. Il noto passo odofrediano
contiene due notizie:

1) il transito da Bologna dei libri legales, aggiuntivi dopo il collasso delle fantomatiche sedi
scolastiche altomedievali di Roma e di Ravenna, la cui esistenza è destituita di credibilità;

2) L'incontro del dominus Irnerio con i libri dell'antica sapienza giuridica mana, ai quali si accostò
con l'armamentario culturale di un maestro di arti liberali e li studiò e cominciò a farne oggetto di
insegnamento, regalando a Bologna per almeno un secolo il primato di culla degli studi giuridici.

Il nome con cui lui stesso si sottoscrive è Wernerius, mentre la variante Yrne rius è attestata dai
manoscritti solo nei decenni successivi alla morte. Le uniche date della sua vita da ritenere sicure
sono legate a 14 documenti che lo vedono partecipare a rilevanti vicende giudiziarie e
diplomatiche della seconda decade del 1100: due placiti fra il 1112 e il 1113 in veste di causidicus
(procuratore legale); ben 11 fra il 1116 e il 1118 in qualità di iudex Bononiensis (giudice bolognese);
la notizia della sua presenza a Roma all'elezione dell'antipapa Gregorio VIII nel marzo 1118; la
scomunica fulminata contro di lui nel 1119 dal Concilio di Reims per avere insieme ad altri giuristi
argomentato la legittimità dell'elezione dell'antipapa. Un placito del 1125 che lo vedeva avvocato
del Monastero di San Benedetto di Polirone è stato di recentemente sospettato di dubbia
autenticità. La nascita di Irnerio può essere presunta nell'ultimo quarto del secolo XI e la scomparsa
intorno alla fine degli anni 10 del 1100. Di recente è riemersa tradizione documentale deponente
per l'origine teutonica di Irnerio: tradizione che contrasta con la ricorrente qualifica di bononiensis e
de Bononia che si accompagna al suo nome nei placiti, ma che spiegherebbe la fiducia riposta in
lui dall'Imperatore Enrico V. La cittadinanza e il radicamento di Irnerio nel capoluogo emiliano sono
indiscutibili. I placiti e le altre testimonianze documentarie appurano un legame del giurista con i
territori appartenuti o governati dalla contessa Matilde di Canossa. Inoltre, Irnerio accompagna
l'Imperatore Enrico V nella sua discesa in Italia fra il 1116 e il 1118. In quell'occasione Enrico mirava
a riprendere possesso dell'eredità matildica come superiore feudale e parente più prossimo in
mancanza di eredi diretti. Una vicinanza politica, questa di Irnerio con l'imperatore nel decennio
caldo della Riforma Gregoriana che precedette il Concordato di Worms confermata da una delle
più celebri glosse irneriane. Nella breve nota a margine di una parola contenuta in una
costituzione del Codice di Giustiniano, glossa, si dicono passati dal popolo al sovrano tramite la lex
regia de maiestatei i poteri di governo. Proprio le molte glosse recanti la sigla di Irnerio, spesso
rielaborate. Deposto è la paternità irneriana di una serie di opere a lui attribuite ma appartenenti al
mezzo secolo successivo: la Summa Codicis, le Quaestiones de iuris subtilitatibus, il Formularium
tabellionum. Il profilo intellettuale di Irnerio è quello di un uomo di buona cultura del suo tempo,
formatosi nelle arti liberali: una formazione che includeva anche un’introduzione ai processi
argomentativi (dialettica) ed espositivi (retorica) del ragionamento giuridico. Con questo
essenziale strumentario la lucerna iuris accostò i manoscritti della compilazione giustinianea, che a
Bologna erano giunti e circolavano separatim (separatamente), in un disordine di contenuti.
Imprescindibile su questo punto nodale un notissimo passo dello storico/cronista Burcardo di
Biberach, secondo il quale Irnerio “rinnovò", su richiesta della contessa Matilde di Canossa, i libri
delle leggi, che fino ad allora erano stati abbandonati. Li ripartì sistematicamente l'imperatore
Giustiniano di “divina memoria", solo aggiungendovi a tratti qualche parola laddove necessario.
Emergono dalla cronaca le innovative finalità dell'attenzione e dell'applicazione dedicate da
Irnerio ai libri giuridici, rispetto a quelle dei suoi predecessori:

1) ricostruzione del testo delle antiche norme;

2) riordino sistematico delle singole parti della compilazione.

Una specie di edizione critica del complesso giustinianeo cui Irnerio si accinse su esortazione della
contessa Matilde, in conformità e sfruttando la sua formazione in artibus e la sua vocazione
filologica. Formazione e vocazione che vennero messe al servizio della iuris civilis sapientia, nei
secoli altomedievali ancella di dialettica e di retorica e da ora grazie a Irnerio branca autonoma
del sapere, divulgata nelle scuole che spontaneamente e 'privatamente' sorsero in Bologna.

3-LA FORZA DELL’INTERPRETAZIONE LETTERALE


La rivoluzione Irneriana e il primato di Bologna fra le sedi universitarie dell'Occidente escono dalla
leggenda ed entrano da protagonisti nella storia degli uomini e delle idee in quanto segnano
l'autonomizzazione dello studio e dell'insegnamento in legibus rispetto alle arti sermocinali del trivio.
Arti nelle quali Irnerio era un magister e dalle quali trasse le competenze per legere in legibus,
mettendo la tradizione al servizio del rinnovamento. Di rinnovamento conviene parlare poiché
nella formula didattica varata da Irnerio di originale c'era poco: la radice comune dei termini
legere, lectura, lectio evoca l'oralità di un magistero che si dipanava attraverso la lettura del testo
oggetto della lezione, come già avveniva nelle scuole di artes altomedievali e nell'esegesi del
Vecchio e del Nuovo Testamento nei centri didattici monastici e vescovili vocati alla formazione
del clero. Altrettanto risalente e collaudato era il metodo di spiegazione/interpretazione, che si
avvaleva di glossae, note esplicative raccordate a singole parole (litterae) del testo oggetto della
lezione. Il rinnovamento varato da Irnerio nei primi due decenni del 1100, che faceva del diritto
un’autonoma branca del sapere riposava essenzialmente:

1)nell'oggetto; vale a dire il complesso della normativa giustinianea contestualmente sottoposta a


un processo di revisione filologica e a un riordino strutturale:

2)nell'obiettivo, quello di ammodernare e rivitalizzare, attraverso un potente sforzo esegetico che


trovava principalmente nella glossa il proprio veicolo, l'antico ma nuovamente valido corpo di
leggi romane.

Un obiettivo cui erano totalmente estranee pulsioni erudite, ma che mirava a uniformare le
marcate specificità originarie di Codice, Digesto, Istituzioni, Novelle, nell'identità di genere di uno
ius commune dotato di universale vigenza per legittimazione imperiale (ratione Imperii). Dotato di
universale e coincidente giurisdizione per legittimazione pontificia sarà il parallelo corpo del diritto
canonico. Percependo la compilazione giustinianea come unitaria, furono proprio i legum
doctores della prima stagione bolognese a rinominarla Corpus Iuris Civilis e imporvi una nuova
architettura, destinata a perpetuarsi per tutto il medioevo e l'età moderna. Il complesso del diritto
civile si articola materialmente in cinque volumi, i primi tre occupati dalla partizione dei cinquanta
libri del Digesto in 1) Digestum vetus (libri 1-24); 2) Infortiatum (libri 25-38); 3) Digestum novum (libri
39-50). Seguivano al quarto posto il Codex Iustinianus, comprendente peraltro solo i primi nove libri
e, al quinto, il Volumen, miscellanea nel quale vennero fatti confluire i libri dal 9 al 12 del Codex, i
quattro libri delle Institutiones, le Novellae di Giustiniano nella redazione dell'Authenticum, secondo
la tradizione individuata dallo stesso Irnerio come la versione integrale e più attendibile della
legislazione novellare dell'imperatore bizantino. Tale redistribuzione, risponde più probabilmente a
concrete esigenze dell’attività didattica su di essi avviata nella stagione irneriana, una didattica
che aveva individuato nel Digesto Vecchio e nel Codice i primi strumenti per la formazione degli
aspiranti giuristi. Essi costituirono i libri legales, ai quali dalla fine del 1100 i dottori bolognesi
aggiunsero anche il testo delle consuetudini feudali raccolte nei Libri Feudorum, in quanto
settoriale espressione legislativa dell'Impero medievale. Il Corpus Iuris Civilis, immutabile nella littera,
cioè nella definizione testuale, nacque a nuova vita e fu rigenerato dalla scienza giuridica. Una
scienza che sino a tutto il 1200 si identificò con il metodo della glossa, che attraverso
l'interpretazione letterale manteneva i contenuti precettivi del complesso normativo giustinianeo in
stretta aderenza con le istanze dei tempi nuovi. Con le glossae si gettarono le fondamenta di un
diritto che poté dirsi comune' perché di universale vigenza entro i confini del Sacro Romano
Impero. Nell'Europa del diritto comune esso era destinato a convivere con gli ordinamenti giuridici
particolari facenti capo a singole realtà territoriali (įura propria) e con i diritti di status personali (iura
specialia). Le modalità di una tale convivenza, protrattasi fino a tutto il XVIII secolo, furono
rappresentate da Francesco Calasso (storico del diritto italiano) in forma di sistema: «il sistema del
diritto comune».

4-LA SCUOLA DEI GLOSSATORI


Scuola dei Glossatori o meglio delle 'scuole' dei glossatori che con Irnerio e da Irnerio fiorirono a
Bologna grazie a generazioni di giuristi/insegnanti che le fonti indicano con gli appellativi di legum
doctores e di domini legum. Si trattò di un fenomeno spontaneo, la cui fortuna fu governata dalla
montante richiesta, a livello europeo, da parte di giovani ambiziosi e abbienti di acquisire una
formazione giuridica da spendere nelle professioni legali e nell'impegno con le istituzioni locali e
universali. Che il diritto fosse scientia lucrativa, in grado di favorire carriere di successo economico
e di prestigio sociale e politico. Il complesso normativo veicolare, universalmente vigente e come
tale percepito, si identificava con il Corpus Iuris Civilis insegnato almeno fino alla metà del 1100
nella sola Bologna. Alle scuole dei glossatori mancò in origine il crisma di un riconoscimento
ufficiale da parte di Impero e di Chiesa: è destituita di attendibilità la tesi di un patrocinio di Matilde
di Canossa. La petitio che la contessa avrebbe rivolto a Irnerio nell'esercizio delle sue funzioni di
Vicaria per l'Italia dell'Imperatore Enrico V, deve considerarsi una semplice esortazione a
procedere nel cammino già avviato della renovatio (=rinnovamento dei libri della legge). Il
successo dell'operazione fu tributato dal grande richiamo e dalla rapida fama che
accompagnarono l'insegnamento di Irnerio e dei suoi primi allievi e seguaci, Ugo, Martino, Jacopo,
Bulgaro, denominati i "Quattro Dottori', attivi verso la metà del XII secolo.
In questa stagione fondativa dell'istituzione universitaria bolognese, le scuole dei glossatori non
ebbero una sede stabile e la trasmissione del sapere giuridico in esse somministrato ai giovani
discenti fu affidata allo strumento fluido dell'oralità. La lezione scolastica dei glossatori era una
lettura cathedra incentrata sui passi del Corpus Iuris. Il contenuto delle glossae che il legum doctor
sviluppava sollecitato da litterae (singole parole) del testo bisognevoli di una spiegazione filologica
o giuridica fino alla metà del secolo successivo –XIII- veniva raccolto e filtrato dall'attenzione e
dalla penna degli allievi, che riproducevano l'argomentare del maestro sui margini e fra le righe
dei manoscritti del Corpus Iuris Civilis, che costituivano i loro libri di testo. Questi appunti' dettero
corpo e contenuti alla scienza dei glossatori, una scienza in questa sua prima stagione trasmessa
dagli ascoltatori, che circolò spontanea raccogliendo e contornando le pagine del testo
normativo giustinianeo, divenendo indispensabile mediatrice.
Il Corpus Iuris Civilis glossato si diffuse prima a Bologna e poi in tutti i paesi d’origine degli studenti.
Nei manoscritti le glosse si chiudono con la sigla del legum doctor cui la spiegazione 'letterale' del
testo normativo era da ricondurre: questa modalità ha consentito agli studiosi di ricostruire il
pensiero dei più antichi maestri e di portarne a emersione le varianti. Esempio di differenze fra il
magistero di Bulgaro e quello di Martino Gosia (allievi di Irnerio). Il primo attestato su posizioni
rigoristiche che esaltavano l'autonomia della scientia iuris rispetto al sapere altomedievale delle
arti sermocinali, mentre il secondo sulla base del testo giustinianeo integrò con l’evocazione di
principi teologici e il richiamo di fonti canonistiche. Un’attitudine, questa di Martino, che si
sostanziò in un'interpretazione definita equitativa e più mite dei precetti delle leggi romano-
giustinianee, destinata a contrapporsi a quella strettamente tecnico-giuridica. Un
confronto/scontro di linee esegetiche che vide prevalere le posizioni bulgariane e che simboleggia
il passaggio dal vecchio al nuovo modo di essere giuristi e docenti. Il criterio argomentativo che i
glossatori applicarono al testo dei monumenti giustinianei per comprenderlo e interpretarlo,
utilizzava i processi della logica aristotelica tramandata dalle scuole di arti liberali. Il ragionamento
procedeva attraverso la dialettica dei pro e dei contra, scomponendo il concetto giuridico in
coordinazioni e subordinazioni fra genere e specie. Le declinazioni dell’interpretazione letterale
coinvolsero i contenuti e le forme, destinate dalla seconda metà del 1100 ad assumere una
struttura più articolata. Fra le molte specificazioni del genus (genere) basico della glossa vanno
ricordate:

1) la continuatio titulorum, esplicitante il nesso contenutistico fra i titoli in sequenza nelle singole
parti della compilazione giustinianea;

2) la summa, che riassume con intento di sintesi il contenuto di una singola lex per allargarsi ad
abbracciare interi titoli e intere parti del Corpus;

3) la distinctio, mirante a scomporre, attraverso un breve procedimento analitico rappresentato in


forma di elenco, un concetto generale in concetti specifici;

4) il brocardum e il notabile, incisive e sintetiche formulazioni di un principio generale e delle sue


subordinate contenute in una legge;

5) la solutio contrariorum, composizione delle apparenti antitesi fra le enunciazioni legislative con
l'obiettivo di acclarare l'armonia e la compattezza del complesso giustinianeo;

6) il casus, consistente nell’individuazione della fattispecie regolata dalle antiche leggi, con il fine di
tracciare la giurisdizione fattuale di ogni singola norma e le sue possibili pratiche applicazioni
estensive, pur rimanendo all'interno dei confini rigidi della littera del testo normativo;

7) la quaestio, in stretto rapporto dialettico con il testo normativo, che si presenta fino alla metà e
oltre dell’XII secolo nella forma di quaestio legitima, discussa cioè muovendo dagli interrogativi
sollevati dalle fonti stesse.

La scientia iuris si consolidò e circolò nella stagione della glossa attraverso l'esegesi sviluppata in
scuole legate alla vita e alla fama raggiunte da quattro generazioni di legum doctores che si
avvicendarono fino agli anni 20/30 del 1200, prevalentemente in Bologna. Si trattò di un fenomeno
corale e di genere, nel quale a fatica si precisano dati biografici, paternità e filiazioni scientifiche.
Ricerche di Ennio Cortese e di André Gouron hanno evidenziato come per tutta la seconda metà
del 1100 alcune scuole di glossatori mantennero vivaci legami con la cultura e l'insegnamento
delle arti liberali del trivio. Esempio: il caso di Rogerio, formatosi a Bologna, quindi docente di diritto.
Le testimonianze indicano Piacenza e Mantova per l'Italia, Arles, Aix en Provence, Saint Gilles,
Avignone e, Montpellier per la Provenza. Realtà che la storiografia ha accomunate con la
definizione di minori rispetto al paradigma bolognese, collegate alle locali sedi vescovili e
deputate alla formazione del clero. A Rogerio è attribuita un’opera di stile retorico-grammaticale
dal titolo Enodationes quaestionum super Codice, che sviluppa una selezione di questiones
legitimae incentrate sui passi del Codice di Giustiniano e l'embrione di una Summa al Codice che,
il Piacentino avrebbe inglobato nel corpo della sua più celebre silloge sempre del Codex. Si può
affermare che l'ampio ricorso al genere letterario della summa rappresenti uno dei tratti tipici di
questa didattica extra-bolognese. Una didattica finalizzata a impartire una formazione giuridica
non specialistica, preferiti per le dimensioni e l'esaustività dei contenuti, il Codice e le Istituzioni. Un
genere al quale appartengono l’anonima Summa Codicis Trecensis (cosiddetta dalla biblioteca di
Troyes ove è conservata), attribuita dal suo editore ottocentesco al grande Irnerio e ora emigrata
verso la Provenza e posticipata di un buon quarantennio rispetto agli estremi biografici della
lucerna iuris, nonché il Liber Pauperum del misterioso dominus lombardo Vacario. Si tratta di
un'agile sintesi di principi romanistici tratti dal Codice e dal Digesto che il proemio dichiara
composta per sovvenire gli scolari meno abbienti, impossibilitati a sostenere il costo elevato
dell'intero Corpus: l’opera è riconducibile agli anni 70 del 1100, ma geograficamente collocata
nelle scuole canonistiche anglo-normanne - la celebre Oxford. Alla vivace realtà della Francia
meridionale si è ora inclini a ricondurre anche le Quaestiones de iuris subtilitatibus: una breve
raccolta di dotte questioni legitimae scaturite dall'interpretazione delle leggi romane, attribuita a
Irnerio e poi a Piacentino. Allo stile fiorito di quest'ultimo il Sermo de legibus, mescola versi e prosa,
ben si addice il ricorso all'allegoria del templum iustitiae che introduce la discussione delle
questiones, un vezzo letterario che il medesimo giurista utilizza anche in un altro breve trattato
sull'iter processuale composto Cum essem Mantue, negli anni del suo insegnamento mantovano.
Scuole dell'Italia centro-settentrionale trovano la migliore esemplificazione in Modena dove tra il
1175 e il 1182 si trasferì il giovane Pillio da Medicina, fino ad allora docente di leggi in Bologna. Le
motivazioni del trasferimento furono legate ai rapporti, in quel momento difficili, fra i legum
doctores e il comune felsineo. Si aveva un'offerta didattica diversificata rispetto a quella praticata
nella Alma Mater. Un'offerta professionalizzante che trovò la sua espressione più originale nel
Libellus disputatorius, una monumentale raccolta di brocardi mnemonici tratti dal Codice e dal
Digesto di Giustiniano che Pillio propose dalla cattedra modenese in alternativa alla lettura e allo
dell'intero Corpus Iuris Civilis, con l'obiettivo di accelerare il percorso di studio quanti intendevano
indirizzarsi verso le professioni legali. Un percorso formativo al quale appartengono anche le altre
opere pilliane: una summa processualistica dal titolo Cum essem Mutine e una ai Tres Libri del
Codice, di argomento pubblicistico e disertati nelle aule bolognesi come i Libri Feudorum, che
Pillio, cogliendone l’importanza fece oggetto di insegnamento.
Nel frattempo dalle cattedre bolognesi si propagava il messaggio di una cultura nuova delle
norme romane. La lettura magistrale del corpus giustinianeo, incentrata sull'interpretazione
letterale, tocca punte di estrema raffinatezza ed esplode in una miriade di glosse, sempre più di
frequente organizzate in delle compilazioni. Apparati che nella spontaneità della trasmissione orale
si sedimentano e si stratificano sui margini dei manoscritti giuridici, molto spesso fondendosi gli uni
con gli altri in un processo costante di aggiornamento permanente. È il trionfo dei legistae (legisti).

5-DALLE SCUOLE ALLO STUDIUM

A) LA GLOSSA ORDINARIA
All'aprirsi del Duecento Bologna appare ancora il tempio dell'esegesi letterale del corpus
giustinianeo e della glossa: un'attitudine rigorosa e un monopolio nella didattica che
cominciavano peraltro a essere insidiati da diverse e fortunate esperienze. Già dalla metà del
secolo precedente alla primaria modalità di insegnamento incentrata sul legere, sulla lettura del
testo al quale il legum doctor ancorava le sue glosse, si affiancò la discussione di questiones
legitimae, volte a di panare percorsi argomentativi che dall'interno della compilazione giustinianea
conducevano al disciplinamento di un casus legis, dalla legge contemplato. Ne scaturì una messe
di dotti materiali didattici tendenti a condurre i discenti verso una capillare conoscenza
dell'architettura e dei percorsi dei libri legales, una conoscenza che riposava sulla certezza che la
risposta all'interrogativo teorico proposto dal dominus alla riflessione della sua classe fosse solo e
solamente quella indicata dalle antiche leggi di Giustiniano. Ricca testimonianza in merito alla
soluzione di casi disciplinati in prevalenza da costituzioni del Codex Iustinianus. Analoghi obiettivi di
una compiuta esegesi testuale dell'antica normativa perseguirono i celebri casus sintetizzati nella
seconda metà da Accursio e da Tosco al fine di illustrare il fatto sul quale il legislatore romano
aveva espresso un giudizio e formulato una risposta normativa: essi divennero una parte integrante
della Glossa Ordinaria di Accursio al Corpus luris Coulis.
Ma i fatti della vita si presentavano anche per altro tramite all'attenzione del glossatore, poiché
sempre maggiori situazioni giuridicamente rilevanti esulavano dalla previsione e quindi dalla
normativa contenuta nella compilazione di Giustiniano: si pensi alle nuove questioni dell'ambiente
cittadino politicamente organizzato in comune e a quelle scaturenti dai rapporti feudali. Spettava
al giurista/interprete compiere l'operazione di raccordo fra le norme antiche e i fatti nuovi
avvalendosi di tutte le possibilità argomentative esplicitamente o implicitamente contenute nella
littera del Corpus Iuris Civilis. Il casus generava la quaestio e si trattava di quaestio de fado o ex
facto emergens (scaturente cioè da una concreta situazione del presente e bisognosa di
disciplinamento). La differenziazione del casus legis (sfera della certezza), e dalla quaestie (sfera
della probabilità), recava con sé anche una diversa collocazione delle due species scientifiche
nell'ambito dell'attività didattica dei legum doctores della Scuola dei Glossatori. Il casus era
attratto all'interno della lezione accademica e sviluppato nell'ambito della lettura del testo
Giustiniano come parte integrante di esso mentre le quaestiones si mostrarono strumento più
duttile. Discusse in spazi della didattica destinati alla disputa pubblica e solenne, esse fornivano
agli studenti un esercizio di logica argomentativa che riproduceva l’andamento dialettico del
processo e metteva in osmotico rapporto la rigida precettistica de monumenti giustinianei con le
varianti fattuali del divenire storico. Sui margini dei manoscritti dei libri legales, tra le glosse
magistrali riportate dalla penna di anonimi studenti trova spazio anche una moltitudine di
quaestiones disputate nelle scuole e generate da fatti emergentes.
Ulteriore segnale di una mutata attitudine dei dottori di legge si coglie nel recupero del genere
letterario delle summae, nei decenni precedenti il Duecento. Le due più compiute sintesi al Codice
e alle Istituzioni di Giustiniano provengono all'aprirsi del secolo dalla fucina bolognese e dal genio
di Azzone. Non è un caso che proprio Azzone, nella Summa al Codex, esprima insofferenza nei
confronti dello stratificarsi intorno ai libri legali dei materiali esegetici prodotti dalle generazioni di
maestri avvicendatisi a Irnerio. Analogo scontento palesa Pillio da Medicina tentando di lanciare
dalla vicina Modena con il suo Libellus disputatorius un nuovo modello didattico affidato a formule
mnemoniche e destinato a coinvolgere nella trama della formazione giuridica accademica
anche il versante del diritto feudale. In questo contesto matura la lucida percezione del fiorentino
Accursio allievo di Azzone e a sua volta acclamato maestro di diritto dell'esigenza di omogenicità
e di univocità che proveniva dalle aule scolastiche come da quelle giudiziarie. Il patrimonio
interpretativo aveva provveduto ad aggiornare e vivificare l'antico diritto imperiale mantenendolo
'in presa diretta' e ancorato ai tempi nuovi, ma la sua ricchezza, testimoniata da opinioni magistrali
divergenti quando non conflittuali, rischiava di comprometterne l'efficacia sia sul piano della
didattica sia su quello concreto della pratica giudiziaria, entrambe bisognose almeno di univocità
se non di certezze. L'impegno fu immane: le glosse rifluite nei suoi apparati al Corpus Iuris Civilis
sono all'incirca 97.000 mentre è impossibile determinare l'entità dei materiali scartati dal maestro.
Ad agevolargli il compito prevede la fruizione dell'autorevole e robusta tradizione di cui era erede.
Studi recenti hanno dimostrato come gli apparati di quest'ultimo possano ben dirsi una prima
redazione di quelli accursiani: fra il 1228 e il 1230 ne sorti un corredo interpretativo delle leggi di
Giustiniano selezionato e ragionato. Accursio, padroneggiandolo con personali contributi
esegetici, immise nei circuiti della scuola e del foro una serie di apparati tanto chiari nel dettato
quanto esaustivi nei contenuti: essi ebbero una fortuna rapida e immensa, battezzati come
apparati 'ordinari' e come Magna Glossa al Corpus di Giustiniano. La Magna Glossa si impose sulla
fluida tradizione esegetica delle scuole dei glossatori, condannando all'oblio le tesi che Accursio
non aveva condiviso e inserito nella sua selezione. Trascritta sulla cornice esterna delle pagine.
manoscritte dei testi giustinianei, quindi stampata dalla prima edizione del 1468, essa si impose per
secoli come l'interpretazione corrente del complesso normativo civilistico, la sola capace di
certificarne i contenuti a fine scolastici e per l’applicazione in sede giudiziaria, strumento ius
comune nato nelle scuole di Bologna.
Il Corpus Iuris Civilis corredato dagli apparati accursiani segue la scansione in 5 volumi inaugurata
nella stagione di Irnerio: il Codex, il Digestum vetus, l'infortiatum, il Digestum novum. Nel Volumen
confluirono gli ultimi 3 libri del Codex, i 4 delle Institutiones, le Novelle di Giustiniano nella redazione
dell'Authenticum e i Libri Feudorum. Per il corredo di glosse, Accursio riprodusse fedelmente la
dottrina specialistica di Pillio da Medicina.

B) LA NASCITA DELL’ISTITUZIONE UNIVERSITARIA


Nell’arco della prima metà del Duecento ci fu un mutamento degli originari assetti spontaneistici
che avevano improntato i rapporti fra studenti e docenti, rapporti modellati sul tipo contrattuale
romanistico della societas. Gli scolari e i dottori erano legati da obbligo di reciproche prestazioni,
che impegnava gli uni a corrispondere una collecta, gli altri a somministrare il loro sapere in regime
di libera concorrenza fra scuole. La prima testimonianza di una organizzazione di doctores
discipulique (dottori e discepoli) risale al 1155: una numerosa rappresentanza di studenti
accompagnata da dottori di legge e maestri di arti liberali colse l'occasione del passaggio nelle
vicinanze di Bologna dell'Imperatore Federico I Barbarossa per ottenere un privilegio recante la
proibizione delle rappresaglie e comminante sanzioni a chi molestasse studenti e docenti, li
offendesse o derubasse sia durante il viaggio sia durante il soggiorno in città. Tale privilegio fu
trasformato tre anni dopo nella Dieta di Roncaglia, in una costituzione imperiale che ne ampliava il
contenuto con la previsione di un foro speciale per gli studenti forestieri convenuti in città nella
persona del loro maestro o del vescovo per gli ecclesiastici. Le scuole, i loro promotori e i loro
frequentanti divennero interlocutori preziosi per le magistrature del comune, spinte dalla necessità
di mantenere all'interno delle mura cittadine quel 'mercato' della cultura. La dialettica non sempre
facile fra le societates degli scolari e le istituzioni felsinee comportò un inevitabile irrigidimento delle
prime, che assunsero la forma delle nationes (raggruppamenti studenteschi su base regionale),
quindi quella più strutturata nelle due universitates degli studenti italiani citramontani e stranieri
ultramontani. Costituite sulla falsariga delle corporazioni di arti e mestieri, che nei medesimi
decenni qualificarono la piccola e media borghesia cittadini. Questi ultimi entrarono in diretto
rapporto con il comune, che progressivamente garantì loro lucrosi stipendia in cambio del diritto
all'esclusiva della didattica e di uno stabile radicamento delle scuole in città. Con la progressiva
strutturazione degli apparati organizzativi procedeva la determinazione dell'ordo studiorum (piano
degli studi). Un percorso di formazione la cui durata si stabilizzò fra i 5 e i 7 anni e delineato nei primi
statuti della Università dei giuristi del 1252. Nel 1219, il pontefice Onorio III aveva disposto che il
coronamento degli studi venisse celebrato con una solenne discussione di laurea nella cattedrale
di San Pietro. La laurea fu per Bologna una licentia ubique docendi, di insegnare cioè nell'ambito
della giurisdizione universale della Chiesa e dell'Impero. Il patrimonio dottrinale dei glossatori si
consolidava nella Magna Glossa di paternità accursiana, la prima metà del Duecento vide anche
le libere scuole dei dottori di leggi bolognesi radicalizzarsi nello Studium, al quale le articolazioni
delle università degli studenti e dei collegia dei docenti attribuirono i caratteri di una complessa
struttura didattica, scientifica e amministrativa destinata a vivere sino a oggi.

6-UN NUOVO ORDINE PER IL DIRITTO DELLA CHIESA

A) IL DECRETUM DI GRAZIANO
Il riformismo gregoriano e la lotta per le investiture connotarono la storia politica e giuridica della
Chiesa cattolica e delle sue istituzioni nel giro di un cinquantennio che toccò il suo apice nel
Concordato di Worms siglato dall'Imperatore Enrico V e da Papa Callisto II. Questa rivoluzione
papale' segnò in Occidente l'autonomia della giurisdizione spirituale e gettò le fondamenta della
dimensione ordinamentale della res publica cristiana. Un ordinamento politico e giuridico
'riformato', le cui gerarchie sollecitarono la produzione di un potente complesso normativo che
andò crescendo fino agli inizi del XIV secolo, accompagnato, al pari del versante delle leges
giustinianee. Un diritto e una scienza che si modellarono sui monumenti di Giustiniano da poco
riscoperti, mentre dai glossatori civilisti mutuarono il criterio dell'interpretazione letterale. Ai dottori di
leggi i canonisti erano uniti dalla salda convinzione che al giurista/interprete competesse di
conciliare, concordare le fonti normative con le mutevoli istanze del presente, in un processo di
costante adeguamento del vecchio al nuovo. Esempio di riformismo gregoriano fu la Concordia
discordantium canonum di Graziano, che sin dal titolo dichiara la volontà di conciliazione fra le
due supreme giurisdizioni da poco espressa a livello politico dal Concordato. Questa compilazione
di dottrina e di normativa rappresentò per la storia dell’istituzione ecclesiale una drastica svolta,
ossia la teologia e l'ecclesiologia occidentali assunsero una definita connotazione giuridica.
L'opera grazianea è stata descritta come «il primo sistema giuridico moderno»: vale a dire la prima
trattazione sistematica del complesso normativo canonistico, diretta a disciplinare l'organizzazione
della Chiesa, a ribadire la sua autonomia sul versante spirituale, a definire le sue relazioni con il
potere secolare, a circostanziare lo stato e la condotta del clero. La biografia di Graziano è
incerta, forse è nato fra Orvieto e Chiusi intorno alla fine dell'XI secolo, monaco camaldolese, negli
anni 1130-1140 fu attivo a Bologna, nel capoluogo felsineo acquisì la formazione e il titolo di
magister di arti liberali, compose la sua opera e tenne scuola. L'unica testimonianza diretta della
sua vita è un documento notarile del 1143 nella cattedrale di San Marco in Venezia, Graziano è
chiamato dal Legato Apostolico di Papa Innocenzo II a rendere un parere in materia di tassazioni
ecclesiastiche. Viene paragonato lo sforzo compilatorio di Graziano a quello di Irnerio,
evidenziando in un noto passo le analogie del modus operandi dei due maestri.
Mutatis mutandis, i materiali raccolti e ordinati dal sommo canonista afferiscono sia alla tradizione
del Vecchio e del Nuovo Testamento (legge divina), sia alla normativa espressa a partire dall'Età
Tardo Antica dalle assemblee conciliari dei vescovi (canones in senso stretto) e dai romani
pontefici (decretales). All'individuazione delle fonti contribuirono le collezioni maturate nella
stagione della Riforma, come quella di Anselmo da Lucca e di Ivo di Chartres.
Il Decretum non ebbe carattere ufficiale e non venne mai promulgato o riconosciuto come 'legge
dai pontefici, rimanendo opera privata e acquisendo autorevolezza e autorità dal suo pronto
radicamento circuito scolastico per la formazione del clero e nelle sedi della giustizia ecclesiastica.
L’opera composta da tre sezioni disciplinanti le gerarchie della Chiesa, il processo canonico e le
modalità di somministrazione dei sacramenti. A Graziano sono da ricondurre i dicta (brevi
annotazioni di raccordo fra i canoni= ossia i singoli precetti contenuti nella silloge). Attraverso i
dicta si concretizza l'ambizioso intento di conciliazione e di razionalizzazione. Un intento di
armonizzazione attraverso la metodica applicazione di quattro generali regole di concordanza fra
le norme giuridiche: la prevalenza della legge nuova sulla vecchia (ratio temporis), della locale
sulla universale (ratio loci), della speciale sulla generale in quanto eccezione e in quanto
delimitazione di contenuto.
Il Decreto di Graziano gettò le fondamenta di un ordine nuovo per il diritto della Chiesa e aprì le
porte a un cinquantennio caratterizzato da una produzione di collezioni di canoni di glosse e di
apparati di glosse, di summae, casus, notabilia, ecc. Una produzione che ricalcava nelle forme i
generi dell'interpretazione letterale elaborati nelle scuole civilistiche e che venne definita
decretistica. La scienza giuridica decretistica, mutuando il metodo e le manifestazioni espressive
raggiunse una dimensione e una diffusione universale, era la giurisdizione della Chiesa di Roma. I
risultati furono di alto livello, da singoli apparati di glosse alla Glossa destinata a divenire 'Ordinaria',
ossia l'interpretazione letterale più accreditata e ufficiosa del testo grazianeo. Gli apparati di glosse
rimasero un'espressione minore della scienza dei canoni, che brillò per le mirabili summae al
Decreto. Le fonti canonistiche parlavano la lingua della contemporaneità e necessitavano in
misura inferiore rispetto agli antichi monumenti giustinianei di un'interpretazione letterale del testo.
Assai più funzionali alle esigenze della didattica apparivano le opere di sintesi e di sistema. Di
ambito bolognese la più risalente si deve a Paucapalea, il vero modello di questo genere che
fondeva obiettivi riassuntivi, sistematici ed esegetici e che ebbe grande influenza sulle successive
esposizioni di Stefano Tornacense, di Giovanni da Faenza, di Uguccione da Pisa. La Summa di
quest'ultimo, costituisce il punto più alto di questa prima stagione della canonistica bolognese.

B) LE ALTRE COMPILAZIONI E LA DECRETALISTICA


Questa intensa attività esegetica aprì la strada a iniziative di raccolta, di sistematizzazione e di
studio delle decretali dei pontefici promulgate successivamente al Decreto. Tra il 1188 e il 1234
entrarono nel circuito della didattica e della pratica canonistiche cinque raccolte di decretali,
note come Quinque Compilationes Antiqua, le cinque antiche compilazioni. La raccolta è divisa in
cinque libri, ognuno abbraccia una materia basilare dell'ordinamento spirituale dei fedeli in Cristo:
fonti e norme generali, procedura, ordine ecclesiastico, matrimonio, diritto penale. Quest'ordine,
anche nella sua articolazione interna in titoli e in canoni, ricalca la sistematica del corpus civilistico
e venne riprodotto dalle collezioni successive. Dall'intensa attività legislativa dei papi maturò
l'esigenza di provvedere le scuole e il foro di raccolte decretalistiche costantemente aggiornate. Si
trattò di un processo accelerato che nel XIII secolo trovò un interprete istituzionale nel Pontefice
Innocenzo III e così nacque la prima raccolta ufficiale di decretali nella storia della Chiesa.
La storiografia parla di «cammino verso la codificazione» del diritto della Chiesa: il passo successivo
fu compiuto dal pontefice Gregorio IX che con la bolla Rex Pacificus promulgò in senso proprio il
Liber Decretalium Extravagantium o Liber Extra, comprensivo anche delle norme contenute nelle
precedenti cinque compilazioni. Dal 1234 al 1296 l'attività legislativa dei pontefici suscitò l’iniziativa
di nuove compilazioni al fine di aggiornare quella di Gregorio IX. In tutto questo divenne
importante anche la scienza canonistica. La dimensione politica di questa potente stagione della
scienza canonistica fu di decisa affermazione ierocratica, celebrando il primato della Chiesa e
delle sue gerarchie sull'Impero.
L'utrumque ius garantì la prevalenza al regime canonico solo nelle fattispecie 'tipiche' dal
contenuto spirituale dominante (matrimonio, usura) su quello secolare.
Tali operazioni e processi speculativi sortirono a breve termine l'omologazione del metodo
scientifico dei due iura: principi, concetti e rationes furono stabilmente percepiti in quanto comuni
e declinabili in entrambi o a favore di entrambi gli ordinamenti. L'interazione delle norme produsse
quella delle due culture.

C) IL CORPUS IURIS CANONICI


Nel 1500 l'editore Jean Chappuis diede alle stampe l'insieme delle collezioni pontificie ufficiose e
ufficiali fin qui ricordate e così nacque il Corpus Iuris Canonici, denominato a imitazione del Corpus
Iuris Civilis). Era formato dal Decreto di Graziano, dal Liber Extra di Gregorio IX, dal Sextus di
Bonifacio VIII, dalle Clementinae di Clemente V, dalle Extravagantes di Giovanni XXII. Il Corpus
rimase immutato nei secoli e costituì il diritto vigente per la Chiesa cattolica fino all'entrata in vigore
nel 1917 del primo Codex Iuris Canonici.

7-LE STORIE DIVERSE DELL’ITALIA E DELL’EUROPA

A) IL COMUNE CITTADINO
Dal secolo XII si avviarono in Europa i processi costruttivi dei due diritti universali dell'Impero e della
Chiesa, consolidati nei grandi corpi Iuris Civilis e Iuris Canonici, accompagnati dall’indispensabile
mediazione della sapienza giuridica dei glossatori, designati dall’endiadi utrumque ius. All’unità
dell’utrumque ius (o diritto comune) si accompagnavano le istituzioni territoriali antiche e nuove
(iuta propria) tutte soggette a itinerari evolutivi.
Negli stessi decenni in cui la Chiesa imboccava la strada della Riforma e si palesavano suggestive
testimonianze di utilizzazione pratica delle leggi di Giustiniano da gran tempo disertate o
volgarizzate, l’intera società occidentale entrò in una fase di profondi mutamenti che coinvolsero i
suoi assetti economici, politico-istituzionali e giuridici.
Alla crescita demografica si accompagnò un incremento della produzione agraria. L’aumento dei
prodotti favorì lo sviluppo di intensi commerci di lunga distanza.
Fra la fine dell’11 e l’inizio del 12 secolo nacquero il Regno di Sicilia, di Francia, d’Inghilterra e di
Germania. La rinascita dei contesti urbani, che come fenomeno sociale coinvolse l’intera nostra
penisola, dove le città di fondazione romana, non erano del tutto scomparse durante l’alto
medioevo. Le modalità della rinascita furono varie.
Nell’Italia settentrionale, lo sviluppo delle istituzioni fu precoce, infatti molti centri raggiunsero la
piena capacità di governo attraverso la nomina di consoli, responsabili dell’ordine interno,
nell’amministrazione della giustizia, della difesa militare. Ogni città, anche se in maniera differente,
giunse all’istituzione del comune, ossia una modalità di organizzazione politica della città. Modalità
incardinata nel patto giurato stretto tra le classi di potere politico ed economico aspiranti a
reggere le sorti delle singole realtà urbane.
A Genova, ad esempio, dopo un periodo di contrasti tra la cittadinanza e il vescovo, si giunse a
stipulare un'associazione volontaria giurata di tutti gli abitanti (Compagna communis) con
l'elezione di consoli e la rinuncia da parte del vescovo all’esercizio della giurisdizione temporale. A
Milano il comune dei consoli - individuati da parte del vescovo in tre ceti cioè quello dei capitanei
(feudatari maggiori), dei valvassori (feudatari minori), dei cives (artigiani e mercanti) - cominciò a
operare dal 1130. A Bologna l'atto di nascita del Comune si fa risalire alla concessione alla città nel
1116 di alcune funzioni giurisdizionali da parte dell'Imperatore Enrico V. A Venezia i poteri del dux
altomedievale furono limitati nel corso del 1100 ponendogli accanto alcuni giudici, istituendo un
Consiglio dei Savi e numerose altre magistrature, tutti retti da meticolose procedure di nomina,
competenza, funzionamento. A Firenze il comune nacque intorno agli anni 1125-1138 con
l'istituzione dei consoli, di un consiglio di boni homines e di una magistratura di provisores che
esaminava i reclami della cittadinanza.
Dall'Italia il modello del 'consolato trasmise alle città francesi della Provenza e della Linguadoca,
che erano in più stretti rapporti commerciali con il nostro Settentrione, fino a essere nel corso del
Duecento adottato da un numero crescente di realtà della Germania e delle Fiandre,
imponendosi come prevalente in Europa. Agli evidenziati denominatori della fioritura comunale nel
Regnum Italiae e cioè:
1) il patto giurato fra le componenti sociali di potere politico ed economico al fine di conseguire la
titolarità delle funzioni di governo sulla città mediante
2) la delega a un collegio di consoli dell'esercizio delle suddette funzioni si accompagnò per circa
un trentennio il confronto/scontro con l'Impero. L'indipendenza e l'autonomia di cui le città centro-
settentrionali godevano largamente già intorno alla metà del 1100 si sostanziavano nella gestione
della giustizia civile e criminale, nell'espressione di attività assimilabili a quella legislativa, nella leva
militare, nella riscossione dei tributi. Quando Federico I Barbarossa, imperatore e re d'Italia dal 1152,
cercò di ricondurre le città italiane entro la sua orbita giuridica, alla quale esse appartenevano in
linea di diritto, incontrò resistenze forti. La costituzione De regalibus («Sulle regalie»), conteneva un
dettagliato censimento dei diritti imperiali sulle persone, le città, il territorio: alla sua redazione
offrirono un apporto di tecnica competenza giuridica i 4 Dottori, allievi di Irnerio.

B) IL RUOLO DEI NOTAI


I giuristi di formazione scolastica furono fra i protagonisti della stagione fondativa dell'istituzione
comunale e delle sue evoluzioni. Sotto questo profilo non può essere taciuto il contributo del
notariato alla legittimazione delle nascenti aggregazioni. Formati in apposite scuole 'professionali', i
notai si tramandavano di padre in figlio per generazioni la facoltà di rendere pubblici' i documenti
da essi rogati (instrumenta). Tale facoltà discendeva dalla concessione di un privilegio da parte
dell'imperatore o di un grande feudatario e si materializzava nel possesso del sigillo recante il ‘logo'
dell'autorità concedente. La giustapposizione del sigillo alla firma del notaio aveva la forza di
'pubblicare' l'accordo stretto tra le parti e confortato da testimoni: attraverso questa procedura e
avvalendosi pertanto di uno ius regale appartenente all'imperatore, vennero stese, siglate e
pubblicate le dichiarazioni giurate costitutive degli organismi comunali, sorti in contrapposizione
all'Impero ma che da esso necessitavano di essere legittimati.

C) IL DIRITTO DEI COMUNI


La resistenza, massime dei comuni lombardi, alla dismissione delle facoltà di autogoverno e di
autonomia da tempo fattualmente esercitate provocò l’assedio e la distruzione di Milano da parte
del Barbarossa, cui seguì la costituzione della Lega Lombarda, alla quale aderirono fra gli altri i
Comuni di Milano, Bergamo, Brescia, Verona, Bologna, Mantova, Cremona. L’imperatore da un
lato garantiva ad alcune città a lui fedeli con privilegi che ne riconoscevano l'autonomia
giurisdizionale, dall’altro lato maturava la sconfitta imperiale nella battaglia di Legnano del 1176. Il
trattato della Pace di Costanza del 1183 riconobbe ai comuni italiani il legittimo esercizio delle
facoltà giurisdizionali da essi esercitate dal XII secolo; in seguito a tale concessione essi entrarono
con pieno diritto nell'organigramma dell'Impero al pari delle realtà feudali.
I comuni stabilirono che la carica consolare dovesse essere di breve durata, di regola un anno. Il
numero dei componenti del collegio consolare fu vario da città a città e diversificata la loro
estrazione sociale: accanto a esponenti della nobiltà cittadina, figurano agiati proprietari fondiari.
Essi erano gli organi di governo espressi dal giuramento politico all'origine del comune
dall'assemblea dei cives, da cui erano esclusi i soggetti privi di reddito. A questa assemblea venne
sovrapposto un collegio ristretto che direttamente consigliava e affiancava i consoli. Se lo 'statuto'
politico dei comuni italiani attuò un principio di rappresentatività oligarchico, esso costituì
un'originale creazione del Medioevo, democratica nella misura in cui allargò la partecipazione alle
classi sociali di recente emergenza fino ad allora escluse dalla gestione del potere. In analoga
accezione deve essere intesa la mitologia della libertà comunale, che, fece dei cives i soggetti di
un diritto cittadino vigente senza distinzione di status. Il diritto di quanti vivono all'interno delle mura
della civitas costituisce la forma più nota e diffusa dei diritti territoriali/particolari del Medioevo (iura
propria): in esso convivono il filone consuetudinario e il filone legislativo. Il
complesso delle regole vigenti all'interno delle singole realtà urbane nasce dalla giustapposizione
di fenomeni normativi eterogenei, che sono individuabili:
1) nel testo dei patti giurati stretti fra le magistrature di governo e i cittadini;
2) nelle consuetudini locali stabilizzate dal tempo e dall'uso;
3) dalle singole deliberazioni dei consigli cittadini, gli statuta in senso stretto.

Gli statuti cittadini, redatti da apposite commissioni di statutari fondono in un 'libro' i filoni diversi
delle norme vigenti in città, strutturandole secondo ratione materiae a imitazione di quelle
giustinianee. Gli ambiti di intervento privilegiano il diritto criminale e la corrispondente procedura,
imbrigliando la vita dei cives in un reticolo di precetti e di sanzioni tendenti a garantire la quiete
pubblica e la pacificazione sociale.

D) IL REGNO DI SICILIA, DAI NORMANNI ALL’IMPERATORE FEDERICO II


La cesura tra la parte centro-settentrionale della nostra penisola e il suo meridione seguì alle
vicende dell'insediamento dal 568 della popolazione longobarda, dove si costituì il Regnum
Langobardorum. Al sud i Longobardi guadagnarono sulla dorsale dell'Appennino campano i soli
avamposti dei Ducati di Salerno e di Benevento, lasciando le coste tirreniche e ioniche sotto il
blando ma ancora incontestabile presidio dei Bizantini, mentre la Sicilia era sotto gli arabi.
Uno iato profondo che destinò il Mezzogiorno a una precoce esperienza di monarchia europea,
segnandone una storia diversa rispetto al resto del Paese.
Nella prima metà dell'XI secolo, un gruppo di guerrieri normanni provenienti dal settentrione della
Francia e guidati degli Altavilla ebbe ragione delle deboli resistenze dei presidi bizantini e di quelle
più tenaci dei due Ducati longobardi, insediandosi saldamente nelle regioni peninsulari del
meridione e cacciando gli Arabi dalla Sicilia. Il condottiero Roberto il Guiscardo ottenne il titolo di
duca della Puglia e della Calabria, successivamente Ruggero II veniva incoronato a Palermo re di
Sicilia da un legato papale. La legittimazione del pontefice fu indispensabile a Ruggero e ai suoi
successori per fregiarsi di un titolo giuridicamente incontestabile da parte degli altri signori del
dominio normanno. La dipendenza feudale dalla Chiesa di Roma rimase un tratto caratterizzante
del Regnum: i re di Sicilia finirono per ottenere una 'legazia apostolica' cui si accompagnavano
ampie facoltà di ingerenza sulla scelta del clero regnicolo e sull'organizzazione del culto.
Il Regno di Sicilia si segnala per la precocità e la coerenza delle sue strutture amministrative e
giudiziarie che trovarono pronto disciplinamento. Ruggero II rivendicò l'esercizio del potere
legislativo emanando davanti a un'assemblea di grandi feudatari laici ed ecclesiastici e ai
rappresentanti delle comunità cittadine, una serie di norme generali destinate all'intero territorio
del Regno, generalmente note come Assise. Al breve 'codice' si sovrappose nel 1231, il Liber
Constitutionum o Liber Augustalis promulgato a Melfi per volontà di Federico II. Lo Svevo, erede per
parte di madre (Costanza di Altavilla) della corona di Re di Sicilia e per parte di padre (Enrico VI) di
quella imperiale, portò a compimento l'impresa dei suoi ascendenti facendo del Regnum Siciliae
l'antesignano delle monarchie territoriali europee. Punti di forza di queste normative regie furono
l'organizzazione degli apparati governativi e burocratici, l'accurata gestione dell'imposizione
fiscale, la stabilizzazione dell'amministrazione della giustizia e il disciplinamento dei rapporti con le
comunità cittadine suddite.
Il Regno ospitava città di antica storia e fortune economiche superiori a quelle delle realtà
settentrionali. Basti ricordare sulle coste adriatiche Bari, Trani, Otranto; su quelle tirreniche Napoli,
Amalfi, Salerno; in Sicilia Palermo, Messina, Catania, Siracusa. Tutte ebbero tarpata la loro
evoluzione verso formule di autogoverno e di autonomia che avrebbero potuto essere assimilabili
al fenomeno comunale nel Regnum Italiae, dall'insediamento dei Normanni e dal costituirsi di un
contesto monarchico fortemente accentrato, articolato e presente nel territorio. Una larga
maggioranza delle città rivendicò nei confronti dei regnanti il diritto di reggersi secondo le proprie
consuetudini, ma gli esiti di tali istanze vissero fasi alterne e subirono battute di arresto. Il modello più
diffuso fu quello dell'esplicitazione di patti giurati fra una o più comunità e la monarchia. Patti
formalizzati per mano notarile in carte di resa che dettagliavano i limiti delle concessioni e delle
deleghe ottenute: fu questa la dinamica dei rapporti di molte, floride città della Puglia e della
Sicilia con Ruggero II.
Una tendenza che subì una forte contrazione quando Federico II cominciò a esercitare i suoi poteri
nella direzione di un forte contenimento delle autonomie locali: la costituzione Puritatem presente
nel Liber Augustalis stabilì che i giudici nell'esercizio delle loro funzioni potessero fare ricorso alle
consuetudini cittadine a condizione che esse fossero ritenute giuste e ammissibili in quanto
sottostanti e compatibili con la normativa regia espressa dal medesimo Liber.
Alla politica centripeta dello Svevo nel Regnum Siciliae si accompagna il tentativo di rivedere gli
accordi siglati nel 1183 da Federico I Barbarossa con le città del Regnum Italiae nel trattato della
Pace di Costanza. Il timore di vedere intaccato l'ampio margine di autonomia consolidato indusse
un gruppo di comuni del centro-settentrione della penisola a riorganizzarsi militarmente in una
seconda Lega Lombarda che godette dell'appoggio dei Pontefici Onorio III e Gregorio IX.
Appartengono a questa stagione di rinfocolato scontro fra comuni e Impero:
a) l'evoluzione delle strutture di vertice dei comuni cittadini dalla magistratura collegiale dei consoli
a quella podestarile, monocratica. Il podestà era un funzionario straniero spesso di nobile progenie,
con assodate competenze militari e amministrative. I nuovi magistrati costituivano un’alternativa di
maggiore efficacia decisionale e operativa rispetto al regime dei consules.
b) la fondazione nel 1224 a opera dello stesso Federico II dello Studio di Napoli, la prima Universitas
Studiorum pubblica. L'iniziativa si colloca nell'ambito della conflittuale dialettica creatasi fra
l'imperatore e il comune di Bologna, uno dei promotori della seconda Lega Lombarda. La città
felsinea venne colpita attraverso il suo Studium che proibì agli studenti regnicoli di frequentarne i
corsi. Lo Studio di Napoli, nato per contendere a Bologna il primato della formazione in legibus, ne
riprodusse i modelli didattici e scientifici, adottando il canone esegetico dei glossatori e un
percorso di studio improntato sullo ius commune.

Alla mediazione nei confronti delle autonomie locali si attennero anche le dinastie regnanti degli
Angioini e degli Aragonesi e anche le altre due corone dell'Impero, quella di Germania e francese.

E) L’IMPERO E IL REGNO DI GERMANIA


Sin dall'incoronazione di Carlo Magno, il Sacro Romano Impero aveva riunito sotto l'egida del
Regno di Germania una pluralità di frazionati territori. Venuto meno il principio carolingio della
successione ereditaria al trono, in Germania si affermò il principio elettivo. Un gruppo ristretto di
elettori che sceglieva il successore al trono, dapprima sulla base della designazione compiuta dal
re medesimo fra i propri discendenti dopo individuati all’interno della stirpe regia degli Asburgo. Gli
'elettori' vennero individuati in tre principi ecclesiastici e quattro laici. L'elezione al trono di
Germania comportava anche il diritto alla corona di re d'Italia. Era al re di Germania che spettava
la corona imperiale. Nel Regno tedesco erano presenti città di florida fortuna economica e di
sviluppata organizzazione civile: esse vivevano secondo le loro antiche consuetudini e nel XII
furono gestite da organismi municipali. Gran peso vi ebbero le associazioni delle categorie di arti e
di mestieri, caratterizzanti in senso 'borghese' la dimensione cittadina nord-europea. Nel Regnum
Siciliae le normative consuetudinarie locali necessitarono di un riconoscimento di validità da parte
del re ed imperatore o del signore feudale o territoriale nella cui giurisdizione appartengono e da
cui attuare la legittimità delle funzioni esercitate. In tal modo, Federico I Barbarossa concedeva un
privilegio di riconoscimento ad Augusta, a Brema e a Lubecca. La pratica dell'elezione regia e
dell'incoronazione imperiale faceva del Regno di Germania una monarchia controllata dalle
signorie feudali e territoriali laiche ed ecclesiastiche.

F) IL REGNO DI FRANCIA
La dinastia carolingia aveva lasciato in eredità ai successori capetingi un'area di controllo
giurisdizionale contratta. La superiore dignità regia era nei fatti compressa da forti poteri territoriali
di retaggio feudale politicamente organizzati, giuridicamente caratterizzati da proprie
consuetudini, competitivi per dimensioni con la monarchia. Il processo attraverso il quale il potere
regio riuscì a irrobustirsi e ad accrescersi sino a eguagliare in estensione seguì gli itinerari della
diplomazia, delle alleanze matrimoniali, delle guerre. Fra gli strumenti di cui la monarchia si avvalse
per perseguire il proprio obiettivo, particolarmente efficace fu il rigido disciplinamento del diritto di
successione al trono sulla base del principio ereditario della primogenitura maschile, tipico ab
origine della feudalità franca. Per più di tre secoli non mancarono mai discendenti in linea diretta
che alla morte del padre salirono sul trono senza ostacoli, sviluppando così una faticosa politica di
contenimento delle aspirazioni centrifughe costantemente riproposte dalle grandi signorie
territoriali presenti nel Regno. La sovranità dei re di Francia aspirò con successo ad affermarsi non
solo verso le sottostanti gerarchie feudali, ma anche verso i due sommi poteri universali dell'Impero
e della Chiesa. Di chiara ispirazione anti-imperiale fu la richiesta rivolta dal re di Francia al
pontefice di vietare l'insegnamento del diritto romano giustinianeo presso lo Studio teologico e
filosofico di Parigi. Tale divieto, formalizzato nella decretale Super Specula, se concretamente mira
a salvaguardare i giovani chierici dalle suggestioni di una formazione in civilibus che avrebbe
potuto allontanarmi dalla vocazione spingendo verso lucrose carriere nelle professioni secolari,
idealmente contrastava e contestava la vigenza nel Regno di Francia del complesso normativo di
un Impero che si professava erede di Giustiniano. Il Papa Innocenzo III aveva espresso il principio
dell'assolutezza del re di Francia.
La monarchia francese sviluppò a sua volta rapporti con le istituzioni civili del territorio e con le loro
espressioni normative. Il Regno era diviso nelle due macro-aree dei paesi di diritto consuetudinario
(pays de droit coutu mier) e dei paesi di diritto scritto (pays de droit ecrit), rispettivamente a
settentrione e a meridione rispetto a Parigi. Nei primi, di prevalente modello giuridico innervato sulle
consuetudini germaniche, il complesso del diritto romano-giustinianeo era legge vigente come
ratio scripta, insieme di ragionevoli principi ai quali i giudici potevano conformare le proprie
decisioni. Nelle regioni meridionali di diritto scritto, influenzate dall'esperienza del vicino Regnum
Italiae, il medesimo complesso normativo era legge scritta, che in quanto diritto positivo rientra
obbligatoriamente nella rosa delle fonti da applicare in sede giudiziaria. Nelle due parti della
Francia si svilupparono esperienze non omogenee: la consuetudine giocò un ruolo fondamentale
nei pays de droit coutumier e uno ben più ridotto in quelli di droit ecrit. Nelle regioni settentrionali il
diritto cittadino ebbe espressioni diverse, con prevalenza della redazione scritta delle consuetudini
e di privilegi e di norme patteggiati con l'autorità superiore di riferimento, il re nelle regioni
appartenenti alla corona. Nei territori sottomessi a signorie l'iniziativa di singoli provvedimenti
contingenti alle esigenze di disciplinamento degli abitanti partirono dal vertice. Le coutumes, le
chartes de franchises, i privilegi, gli atours furono inglobati o fusi entro le grandi coutumes regionali
o pluriregionali, attraverso un processo di regionalizzazione che estendeva a intere aree
geografiche consuetudini nate da uno specifico contesto. Nel meridione del Regno l'attività
normativa delle città fu intensa e i relativi risultati simili agli statuti dei comuni dell'Italia
settentrionale, con i quali esse condividevano anche l'esperienza della magistratura consolare.

8-LA DIALETTICA DELLE FONTI NELL’ESPERIENZA DEL DIRITTO COMUNE: CONVIVENZA E


COVIGENZA
Nel corso dei secoli XI-XIÍI l'intera Europa appare percorsa da una fitta trama di diritti particolari, di
una città o di un territorio signorile, di un regno, di un'intera popolazione come di singole fasce di
essa. Questo 'disordine' normativo, prodotto fisiologico della debolezza politica e di conseguenza
'legislativa' della suprema potestà imperiale dell'auctoritas sacrata Pontificum per le materie che
rientrano nella giurisdizione spirituale e secolare della Chiesa, venne razionalizzato in virtù e
attraverso una dinamica combinazione con i due corpi universali Iuris Civilis e Iuris Canonici. Nel
Medioevo europeo nessuna terra era acephala, vale a dire priva di un legame diretto (feudi,
comuni, città) o indiretto (è il caso del Regno di Francia) con i due poteri universali dell'Impero e
della Chiesa. Da essi le istituzioni territoriali sottostanti derivavano la legittimazione di ogni funzione
giurisdizionale, fosse stata tale giurisdizione ottenuta attraverso concessioni, mediazioni o accordi.
Ne conseguiva la vigenza all'interno di ogni singola istituzione territoriale dei due iura communia: il
civile, che si sostanziava nel complesso giustinianeo rivitalizzato e aggiornato e il canonico,
sistematizzato e divulgato dalla decretistica e dalla decretalistica a partire dal Decretum di
Graziano. Le elastiche modalità della contemporanea vigenza degli ordinamenti giuridici
particolari (iura propria) e di quelli universali (iura communia) sono state analizzate nel secolo
scorso ed emblematizzate nella formula «sistema del diritto comune», un sistema applicabile e
replicabile per tutti gli ordinamenti giuridici particolari viventi nella sfera diretta o indiretta degli
ordinamenti universali. La più recente storiografia ha distinto due diversi piani di operatività del
sistema:
1)La prima e più immediata percezione del rapporto particolare/universale riconduce ai ruoli
giocati da iura propria e da ius commune in un ideale abbinamento delle fonti vigenti all'interno di
ogni singolo ordinamento giuridico. Evitando le suggestioni deterministiche che hanno indotto a
rappresentare tale rapporto nei termini rigidi di 'gerarchia' o anche solo di 'graduazione' delle fonti
del diritto, l'analisi dei testi normativi scaturiti dalla complessa temperie politica del XIII secolo
dimostra l'esistenza di diversi modelli di eterointegrazione fra i due ordini di fonti, che smentiscono
ogni meccanicità. Nelle redazioni statutarie dell'Italia comunale, ad esempio, è la previsione che
nella decisione del caso di specie, il giudice ricerchi la norma corrispondente nel medesimo statuto
e qualora essa manchi, nelle consuetudini della città, per approdare infine al ricchissimo serbatoio
di sapienza giuridica sistematizzato nel diritto comune civile o, ratione materiae, canonico. Da un
trattato dedicato alla formazione tecnica e composto intorno al 1240 da un dottore di leggi sulle
cattedre di Bologna, Vercelli, Modena e Parma, emerge che sulla disciplina delle condictiones
(azioni finalizzate al recupero di crediti di certa pecunia o di certa res), insistono norme diverse. La
scansione ubertina precede la lex imperialis et civilis, segue la lex municipalis (statuto), quindi i
mores non scripta (consuetudini), infine il ius canonicum et divinum.
Diverse declinazioni della medesima esigenza ordinatoria si ravvisano nella giurisdizione della
Repubblica di Venezia, che nel XIII secolo formalizzò nei suoi statuti l'esclusione del diritto comune
dalle normative vigenti entro i suoi confini, affidando all'equità e al buon arbitrio del giudice il ruolo
di fonte sussidiaria e residuale rispetto a quelle territoriali. Una scelta dettata dalla volontà politica
di garantire la Serenissima da ogni formale ingerenza di un diritto che discendeva dall'Impero,
rispetto al quale si pretendeva una completa ab solutio (mancanza di soggezione politica e
giuridica). Una dimensione vicina alla realtà dei francesi pays de droit coutumier, nei quali il
complesso romano-giustinianeo valeva imperio rationis, come imprescindibile serbatoio di modelli
giuridici. Nel Regnum Siciliae per volontà di Federico II i camerarii e i baiuli, (giudici), erano tenuti
ad applicare, nell'ordine, la legge regia, le consuetudini cittadine approbatae, infine il ius
commune. Ordinamento sussidiario che al diritto giustinianeo affiancava il longobardo per secoli
vigente e in seguito profondamente radicato nei ducati di Salerno e di Benevento. Nella
replicabilità e nella varietà di siffatte 'alchimie' è possibile individuare una linea di tendenza
evolutiva. Nel Duecento, giurisdizione degli iura propria, era di massima circoscritta alla materia
'pubblicistica', comprendente sia l'organizzazione e le modalità elettive delle magistrature locali sia
il versante del diritto criminale, attraverso il quale ogni regime si assicurava il rispetto dei propri
obiettivi di pacificazione sociale e di governo. In ambito di intervento ristretto, dal quale esulavano
il diritto delle persone, la materia successoria, le situazioni proprietarie e gli altri diritti reali, le
obbligazioni e i contratti.
Siffatto originario sbilanciamento fra la giurisdizione dei diritti particolari e quella del diritto comune
fu destinato a progressive modificazioni, mano a mano che nel trascorrere dei secoli gli interventi
legislativi delle istituzione politiche del territorio allargarono il loro raggio d'azione ai rapporti di
diritto privato, riducendo lo spazio di intervento in via sussidiaria e suppletiva degli iura communia.
Statuti comunali, consuetudini locali, diritto longobardo, diritto feudale si affermano dentro «il
grande respiro del diritto comune», ognuno con una sua specifica giurisdizione, che presuppone il
rispetto delle altre ed esclude pretese di espansionismi. A garanzia dell’effettività di quest’ordine
giuridico l'interpretazione della giurisprudenza dei glossatori contribuisce fornendo un
indispensabile tessuto connettivo tra i fatti e il diritto, o meglio i diritti.
2) È al di fuori della covigenza, della dialettica 'graduazione' o combinazione delle fonti che il
diritto comune giocò la sua partita decisiva, quella destinata a segnare in profondità la fisionomia,
il DNA del tessuto giuridico europeo. Gli iura propria e il ius commune non possono e non devono
essere intesi solo come due complessi di diritti positivi. Il redattore che fissa sulla carta una fluida
consuetudine locale, lo statutario che dà espressione scritta alla volontà di un'assemblea cittadina,
il 'ministro'/giurista di corte che sovrintende alla stesura di norme regie o principesche, ricorrono tutti
all’universale lingua latina e, sub specie iuris, ricorrono al vocabolario dei giuristi romani. I legum
doctor duecentesco è in possesso di una profonda conoscenza del Corpus Iuris Civilis di
Giustiniano e di quello Iuris Canonici per la materia di competenza, che testimoniano e
trasmettono i termini tecnici della lingua giuridica. Una conoscenza che ha acquisito presso lo
Studium felsineo o i suoi pochi emuli. Se il professionista del diritto parla, scrive, dispone in sede
giudiziaria in merito a una tutela, a una donazione, a un mutuo, presuppone che le figure
giuridiche evocate dai termini utilizzati abbiano il significato e i contenuti fissati dalle leggi di
Giustiniano e sviluppati dall’interpretazione dei glossatori: sia che vi aderisca sia che voglia
discostarsene. Il notaio che certifichi la volontà dei privati stendendo un testamento o le condizioni
di una vendita e le 'pubblichi', usa di necessità il vocabolario del diritto comune e scrive di
testamentum o di emptio-venditio, sussumendo tutti i derivati giuridici che tali istituti contengono.
Operazione simile compie il pratico del diritto, il giudice o l'avvocato chiamato a dare voce alla
legge. Se la giurisdizione locale prevede che la norma da applicare al caso di specie debba
appartenere al ius proprium, il giudice o l'avvocato non può prescindere dai significati comuni e
accettati dei termini tecnici contenuti nella norma individuata. Il diritto comune costituisce canone
interpretativo universale che circostanzia e disciplina le variae causarum figurae (le figure
giuridiche). Così, emergono i ruoli del giurista nella dinamica e duplice dimensione del diritto
comune.

9-IL TRIONFO DEL DIRITTO GIURISPRUDENZIALE E LE RADICUI PROFONDE DI UN METODO


NUOVO

A) ACCURSIO E ODOFREDO: DUE METODI A CONFRONTO


L'esegesi dei glossatori, sollecitata in sede scolastica dalla lettura del testo normativo giustinianeo,
la 'lezione' orale che dalla cattedra schiude agli studenti l’intrinseco significato dei verba legis,
individua con modalità autoptica all’interno della compilazione argomenti, passi paralleli, risposte
che tessono la fitta trama dell’interpretazione. Essa costituisce la chiave di lettura del corpus del
diritto civile, e rimane interpretazione letterale. Nel testo immutabile delle antiche leges i giuristi
sussumono le fattispecie, che esso è in grado di contenere sulla base di un processo di
specificazione. Un processo che allarga le maglie interpretando il testo con il testo. L’inizio del
Duecento vede gli ultimi maestri convivere, confrontarsi e scontrarsi. Il legum doctor entra a pieno
titolo nella storia del pensiero giuridico. La tradizione narra che Accursio e Odofredo si divisero a
causa di una rivalità, in quanto entrambi pensavano di scrivere un’opera di corredo al Corpus iuris
civilis però le differenze tra i due è dovuto all’approccio esegetico all’interno delle scuole
bolognesi dei glossatori. Quella olfrediana si dipana senza soluzione di continuità in una lectura
integrata da quaestiones, glossae e aneddoti di cui riproduce i soli incipit. Per contestualizzare il
significato di Odofredo occorre ricollegarsi alla tradizione della stagione preazzoniana, quando,
con la discussione delle quaestiones ex facto emergentes, si era avviato l'inarrestabile processo di
assimilazione dei casi pratici espressi dal quotidiano dibattito giudiziario nel corpo immutabile delle
antiche norme. Dal laboratorio di due legum doctores che fuori di Bologna raggiunsero l'apice
della carriera escono le più fortunate antologie di questioni di fatto. Le Quaestiones Aureae di Pillio
da Medicina e le Quaestiones Sabbatinae di Roffredo: entrambe le raccolte offrono per più di un
secolo a generazioni di studenti attratti dalle professioni legali una casistica sulla quale saggiare la
propria preparazione ed esperienza del diritto. Due dottori che alternano al tecnicismo e
all'essenziale astrattezza del ragionamento giuridico che negli stessi decenni trionfa nelle scuole di
Azzone e di Accursio, una spiccata attenzione per la realtà e le sue variabili. Con loro il mondo dei
fatti entra nelle scuole e nella formazione del giurista e i fatti appartengono a universi normativi o
da 'normare' esterni al Corpus Iuris Civilis. Essi sono il diritto statutario, il processo civile e criminale,
l'ars notaria, il diritto longobardo, sul versante del quale Carlo di Tocco elabora un apparato
ordinario alla Lombarda di fattura. Un filone dottrinale ha definito «alternativa» a quella espressa
dal modello accursiano destinato a imporsi: una alternativa che deve essere interpretata in termini
di diversità e varietà di obiettivi scientifici.

B) IL LEGAME CON LE ISTITUZIONI, L’ATTENZIONE AGLI IURA PROPRIA


L'attenzione che le istituzioni politiche e giudiziarie prestarono al mondo scolastico bolognese e ai
suoi legum doctores aveva radici lontane. Nella sede didattica, i giuristi di scuola non partecipano
a magistrature: le funzioni pubbliche che essi esercitano si estrinsecano in una mirata attività di
consulenza. Il professore civilista diviene per i comuni il sapiens, cui rivolgersi allorquando siano
coinvolti aspetti politici o giuridici dell’amministrazione locale. A Bologna il docente di leges è
chiamato a giurare al podestà di prestargli auxilium e adiutorium; dal Duecento per disposizione
statutaria i giuristi sono tenuti a presenziare ai consigli cittadini in quanto rappresentanti del collegio
dei dottori di diritto civile, per la sua dottrina specialistica onorato e onerato con questo delicato
compito e destinato ad affiancare e a superare le università degli studenti nell'interlocuzione con
le magistrature cittadine. Un'analoga partecipazione di prudenza e di cultura giuridica a
pubbliche funzioni si esprime attraverso il consilium sapientis iudiciale, modalità consultiva invalsa
già nella seconda metà del secolo precedente nei comuni consolari del Regnum Italiae e
continuata con il regime podestarile. Queste forme di governo erano espressione di accordi e
alleanze fra le rappresentanze di poteri aristocratici, ecclesiastici, economici ai vertici delle città, le
magistrature che le caratterizzarono scaturivano da scelte politiche e i loro titolari non erano in
possesso della specifica competenza giuridica necessaria, massime nell'amministrazione della
giustizia civile e criminale. Nato come consuetudine virtuosa, il consilium richiesto dal giudice al
dottore di leggi al fine di circostanziare il dispositivo della sentenza, venne disciplinato dalle norme
statuarie che ne fissarono le modalità e in alcuni casi anche il quantum, la parcella da
corrispondere al sapiens. Il prestigio del giurista teorico, quasi titolare di un nuovo ius respondendi,
finiva per vincolare di fatto la sostanza delle decisioni giudiziarie, imprimendo a esse il vocabolario
e le figure del diritto comune romano-giustinianeo.
Esiti simili furono prodotti dall'intervento dei giuristi alle ambascerie e alle missioni diplomatiche. Il
coinvolgimento in contesti che potremmo definire internazionali fu agevolato dal carattere
universale della scientia iuris di cui i legum doctores erano esperti e divulgatori e si impose come
criterio ordinatore sovranazionale dei rapporti tra diversi ordinamenti giuridici.
La filosofia del diritto civile si propone e si impone come canone ordinatorio di tutti i rapporti sociali
giuridicamente rilevanti. Ciò presuppone un’attenzione nuova per gli aspetti della vita pratica e
quindi per i diritti 'nuovi' che colorano la prassi con la loro potente vitalità. Le scuole bolognesi
accorciano la distanza che divide la didattica in esse impartita dai fenomeni normativi particolari
per soggetto o per oggetto del diritto feudale e del diritto commerciale, delle procedure civile e
criminale, del diritto statutario, dell'arte notarile. Il veicolo di questo coinvolgimento furono le
quaestiones scaturenti dai fatti e discusse in schola con i medesimi strumenti interpretativi utilizzati
nella lezione sul corpus romano-giustinianeo. La didattica questionante divenne parte integrante
della formazione degli aspiranti giuristi e ne formalizzarono tempistica e modalità all'interno dell'iter
studiorum (percorso degli studi).
Le porte della scientia iuris si aprirono ai complessi normativi particolari nel momento in cui essi
cominciarono a essere letti e interpretati secondo il canone della glossa, entrando da
coprotagonisti nelle dinamiche di convivenza vigenza caratterizzanti gli ordinamenti giuridici nella
stagione del diritto comune.
C) LE ESIGENZE DELLA PRATICA
Dello sposalizio, indissolubile ma conflittuale, fra il diritto civile e il diritto canonico vocati ab antiquo
a reggere ognuno per la sua giurisdizione le sorti del mundus, fu la Chiesa a farsi artefice. A valle
della potente consolidazione di Graziano, alla fine del secolo XII, due fenomeni esercitano un ruolo
uniformante fra gli iura universali. In primis l’esuberante produzione di decretali emanate da
pontefici formati nelle aule bolognesi e nutriti della medesima scientia che ivi si impartiva ai civilisti.
Conseguenze ebbe l’ingresso del diritto romano nella dottrina e nella didattica dei canones:
un'apertura che la storiografia ha a lungo legato al nome del canonista Uguccione da Pisa e alla
sua Summa Decreti, ma che fu un fenomeno diffuso. Entrambi i fattori sospinsero i canonisti nella
direzione di una fusione della loro scienza con quella raffinata e tecnica dei legisti. Una fusione
facilitata dalla tradizione. Non deve essere interpretata come contraddittoria la censura espressa
da alcuni pontefici nei confronti dello studio delle leges da parte dei membri del clero. Una politica
della Santa Sede: emblematizzata dalla decretale Super Specula di Onorio III, che vietava
l'insegnamento del diritto romano nello Studium teologico di Parigi, ma che mirava a contrastare
una mondanizzazione dei ministri del culto, nonché l'infiltrazione di tesi ereticali.
A partire dal primo Duecento non è raro incontrare canonisti che tengono anche insegnamenti di
leggi. La duplice formazione del giurista completo si istituzionalizza sul piano formativo nel diploma
di laurea in utroque iure: il passepartout di nuove generazioni che puntano ai successi professionali.
Se nella decretalistica duecentesca l'integrazione del diritto canonico e del civile in un'unica
scientia iuris si rivela un fatto compiuto, se sul versante canonistico si cominciano a rilevare le
concordantiae che uniscono i due ordinamenti piuttosto che le differentiae che li separano. Una
leva potente fu azionata dalla specificazione di una nutrita dottrina processualistica mirante a
soddisfare le richieste di conoscenza e di univocità dei professionisti del foro. Le giurisdizioni
secolare ed ecclesiastica fossero ab origine separate ratione materiae, il rito celebrato nei rispettivi
tribunali si era nutrito delle leges giustinianee arricchite e potenziate nella stagione altomedievale
da una mirata produzione di canoni e di decretali. Esso partecipava di entrambi i diritti e faceva
dei teorici e dei pratici dell’ordo iudiciorum i migliori veicolatori dell’utrumque ius. La vocazione
processualistica appare rappresentata da una ricca e autorevole produzione scientifica,
riconducibile alla mano di giuristi di scuola. I titoli sono eloquenti: la Summa arboris actionum, la
Summa de libellis et conceptione libellorum, i Libelli iuris civilis di Roffredo beneventano indicano
l'intento di tradurre il sistema delle azioni romanistiche e del processo extra ordinem giustinianeo
all'interno del contenitore medievale del 'libello' scritto, che segnava l'apertura del giudizio. Una
scienza che giovò anche ad avvicinare le scuole alla pratica professionale del diritto, esigenza
avvertita su entrambi i fronti se è vero che proprio gli studenti, desiderosi di una didattica dai più
concreti risvolti.
La discussione scolastica delle quaestiones de facto contribuì in modo incisivo alla recezione di
diritti pratici nel dibattito scientifico: attenzione esse dedicarono al fenomeno della legislazione
statutaria, che nel Duecento raggiunse l'apice del suo rigoglio e alla quale i dottori di leggi nel loro
ruolo di consiliatores delle magistrature comunali applicavano i canoni della scientia iuris. I maestri
della glossa legittimarono l'appartenenza degli statuti all'universo del diritto comune assimilandoli
alla consuetudine in un rapporto da genere a specie.
Una casistica riconducibile alla litigiosità cittadina e all'applicazione del corrispondente ius
proprium è nelle Quaestiones aureae di Pillio da Medicina e nella raccolta discussa da Roffredo.
Percorsi formativi lungo i quali incontrarono figure di giuristi di carriera, come Alberto da Gandino,
giudice. Un magistrato di eccellente cultura giuridica che con sforzo sistematico e ordinatorio
accorciò le distanze fra la scienza dei professori e quella dei pratici sui fronti paralleli del diritto
statutario e di quello criminale. Si segnalano nel primo ambito le Quaestiones statutorum, un'opera
alla quale il da Gandino impose un’omogeneità espositiva che mitiga di molto la diversa
provenienza e i diversi autori delle pratiche questioni organizzate all'interno di essa. L'elasticità
delle summae e dei tractatus quaestionum spiega l'elevato numero di redazioni successive del De
maleficiis, la più nota silloge del da Gandino cresciuta intorno a un nucleo più antico di questioni
criminali riconducibili con buona probabilità a Guido da Suzzara e all'anonima ma diffusa catena
di questioni De tormentis, relativa alla pratica, legittima, della tortura a fini probatori. Il diritto e la
procedura penale costituirono fra il tardo Duecento e il primo Trecento un ponte gettato tra il
diritto statutario e la dotta scientia iuris scolastica. Il tramonto del partito filoimperiale ghibellino, il
frantumarsi dei guelfi vincitori in fazioni contrapposte, l'emersione di un populus che chiedeva di
avere una rappresentanza al vertice dei comuni, le violente lotte intestine che seguirono,
accentuarono nelle città il ricorso a misure repressive che si rispecchiarono nelle normative locali e
segnarono la nascita di nuovi istituti. I trattati e le practicae criminali offrivano risposte a urgenti
problematiche della vita cittadina. Risposte introvabili nel Corpus Iuris, che al diritto criminale
dedicava solo tre dei cinquanta libri del Digesto. Un rito attivato dall'impulso della vittima del reato,
mentre il rito inquisitorio, presupponeva l'interesse pubblico alla repressione penale. Il giudice
informato di un delitto da una denuncia diretta o da una notitia criminis era investito del
diritto/dovere di compiere le indagini necessarie ad accertare le responsabilità dell'imputato. Nella
fase del dibattimento decisionale conosceva la diretta contestazione all'inquisito delle prove a suo
carico e la presenza di professionisti del diritto nei ruoli di procuratore/avvocato.
La Pace di Costanza del 1183 stimolò il perfezionamento della burocrazia cittadina, affrancata
anche de iure, che impegnandosi su uffici e cancellerie rette da notai ne rilanciò il ceto. A
Bologna, si istituì una matricola dell'arte che fu l'atto di nascita della corporazione, la societas
notariorum. La figura del notaio entrò a far parte dello Studio dei giuristi, solo nella metà del
Trecento, divenendo a tutti gli effetti una professione legale tipica. Nel Duecento, il notaio e
magister Salatiele tentò con una sintesi di ars notaria, di ancorarne i percorsi scientifici e formativi a
quelli della “iuris civilis sapientia” insegnata nelle aule giudiziarie.

D) LA SCUOLA DI ORLÈAN
La ricchezza e la varietà dei fenomeni politici, economici, sociali in inarrestabile divenire e tutti
bisognosi di un disciplinamento giuridico non poteva che mettere a dura prova la capacità della
esegesi dei glossatori di ricondurre alla lettera del testo normativo giustinianeo attraverso
l'argomentazione dialettica l'universo dei fatti nuovi. Le fondamenta del nuovo canone del
commento che avrebbe puntato alla ratio delle antiche leggi, sono profonde e partono da
lontano. Nel 1235 il pontefice Gregorio IX autorizzò presso le scuole vescovili di Orléans
quell'insegnamento del diritto romano che il suo predecessore Onorio III aveva vietato a Parigi.
Intorno agli anni Quaranta si incontrano in quella sede docenti di leges, francesi e italiani.
Se si rifletta sulla collocazione geografica della città di Orléans, nel cuore dei pays de droit
coutumier in cui il diritto romano giustinianeo integrava le consuetudini, le coutumes del territorio
imperio rationis, per la superiorità dogmatica; se si rifletta anche sulla natura ecclesiastica delle
scuole orleanesi, vocate alla formazione in spiritualibus del clero, per il quale la conoscenza delle
leges costituiva un quid pluris; se si rifletta su ciò apparirà facilmente comprensibile come
l'ambiente e i dibattiti sviluppatisi fra i domini delle scuole orleanesi abbiano costituito l'incubatrice
per la gestazione di una nuova stagione della scienza giuridica europea.

10-L’ETÀ DEL COMMENTO E DEI COMMENTATORI

A) PREMESSE
Il magistero giuridico dei dottori della prima generazione orleanese costituì un laboratorio e un
volano per una nuova modalità di interpretazione sapienzale dei monumenti dei due diritti
universali: civile e canonico. I giuristi neoterici si apprestarono a cambiare il passo della lezione
scolastica per acclarare la ratio o causa legis (=la ragione d’essere della legge). L’alternanza fra
la scienza dei glossatori e quella dei commentatori riposa in estrema sintesi nella diversità del
traguardo da cogliere, la loro ragione d’essere, all’enucleazione della quale necessitava
l’elaborazione di un nuovo mos (metodo). Con l’avvento del tredicesimo secolo la stagione delle
crociate e la Reconquista della penisola iberica avevano favorito il materiale ingresso in
Occidente del testo della Logica. La conoscenza in tutte le sue articolazioni del pensiero di
Aristotele comportò la familiarizzazione con il canone ermeneutico del sillogismo che si affiancò a
quello dialogico/dicotomico. Se il primo, ampiamente utilizzato nelle scuole dei glossatori,
poggiava sul distinguere, il secondo si snodava attraverso il quaerere. La discussione di quaestiones
tendeva all'individuazione di analogie fra postulati, nel nostro caso giuridici. L'efficacia della
scientia e dell'esperienza della glossa in quanto criterio interpretativo celebrava le potenzialità del
rapporto di specificazione, riconducendo al rigido contenitore letterale del testo normativo quante
più species era in grado di contenere senza snaturarsi e mutare il suo significato. Ad ampliare la
giurisdizione di una normativa altrimenti imbrigliata dalla perentorietà immutabile della sua veste
letterale provvide l'enucleazione della causa ultima delle leggi. In quanto elemento 'primigenio',
astratto da qualsiasi contingenza, la causa o ratio legis risultava applicabile alle inedite situazioni
del presente che potessero essere assimilate alle antiche soggiacendo a un medesimo diritto.
Esempio: la veste letterale di una situazione giuridicamente rilevante contemplata e disciplinata
dalla compilazione giustinianea si presenti sotto forma di scatola. Il Glossatore è in grado di
collocare all'interno della scatola quanto essa può contenere sino al limite della sua capienza, ma
gli è materialmente impossibile andare oltre se non rischiando la rottura del contenitore. Il
Commentatore applicando il ragionamento sillogistico mira al cuore della legge antica, alla sua
intima ratio: un diverso e capientissimo contenitore cui ricondurre un’infinita casistica in base alla
regola «ubi eadem ratio, ibi idem ius» ". Moltiplicando all'infinito le scatole, il Commentatore giunge
ad amplificare la giurisdizione dei due diritti universali e a prolungarne la vigenza come iura
communia di latitudine europea ben oltre la cronologia del Medioevo.

B) LE ORIGINI
Il successo delle scuole giuridiche orleanesi fu immediato. La bolla del pontefice Gregorio IX che
aveva autorizzato l'insegnamento del diritto romano andava incontro all'esigenza di impartire ai
futuri ministri della Chiesa anche una formazione in legibus, da spendere nell'amministrazione della
giustizia come nella collaborazione con le gerarchie di vertice di entrambi i poteri. A favorire
l'approccio interpretativo più duttile e creativo dei legum doctores d'Oltralpe rispetto al tecnicismo
del coevo modello bolognese contribuì il contesto: la dimensione di un magistero rivolto a
ecclesiastici che si dipanava fisiologicamente attraverso gli itinerari formativi della teologia e delle
arti liberali. Sulle prime cattedre orleanesi sedettero giuristi addottorati presso lo Studio felsineo:
come Guido de Cumis e Pietro Peregrossi. La gemmazione transalpina dei moduli scientifici e
didattici della scuola dei glossatori assunse tratti peculiari, ma solo in parte nuovi. Tratti che in parte
rinverdivano generi letterari praticati nella lunga stagione preaccursiana: i modus arguendi in iure, i
loci loicales, i notabilia, i brocarda. Tutte specificazioni del genus 'glossa' aventi la finalità di
spremere dalle norme principi e criteri di collegamento, dotati di evidente valenza sistematica e di
indubbia utilità ai fini della loro comprensione e del loro apprendimento. A compiere il passo
definitivo nel fissare le coordinate del percorso ermeneutico finalizzato all’enucleazione delle
rationes legum fu la terza generazione dei dottori orleanesi. Un percorso racchiuso entro i confini
letterari del commento e che trovò i suoi primi campioni in Jacques de Revigny e in Pierre de
Belleperche. Loro frequentarono a distanza di un decennio le medesime scuole e seguirono lo
stesso cursus honorum, che portò entrambi dall'esercizio del magistero didattico nella nativa
Orléans ai vertici delle gerarchie ecclesiastiche, a prestigiose collaborazioni con i re di Francia. La
loro produzione scientifica fu simile nei tratti caratterizzanti il nuovo genere esegetico: loro scrissero
maestose lecturae all'intero corpus iuris civilis. Secondo una veste redazionale l'aggancio alla
compilazione era espresso attraverso il lemma, ossia la prima parola del frammento normativo, cui
seguiva l'esegesi interamente opera d'autore. Il percorso interpretativo di questi antesignani
maestri del commento utilizzava i criteri del ragionamento sillogistico da poco attualizzati dai filosofi
scolastici (es. San Tommaso), ma nelle loro dense pagine si succedevano quaestiones, distinctiones
e repetitiones. Generi in auge sin dalla stagione preaccursiana che assumono nella declinazione
orleanese una valenza fortemente teorica e sistematizzante, funzionale ad astrarre dalle leggi
romane astratte rationes fungibili al di fuori dei loro confini. Esempio: frammento di un Dictionarium
Iuris attribuito a Jacques de Revigny, che rinverdiva il genere enciclopedico caro ai maestri di arti
liberali di età preirneriana nella specie originale di un lessico di astratte figure giuridiche. Il declino
della scienza dei glossatori e il progredire del nuovo metodo interpretativo trovano uno specchio in
due ripetizioni rimaste celebri: la prima vede un giovane Jacques de Revigny, non ancora
laureato, mettere a dura prova le 'invecchiate' argomentazioni di Francesco, chiamato a tenere
una repetitio magistrale nelle scuole orleanesi. Nella seconda è Pierre de Belleperche, a
infiammare gli studenti bolognesi convenuti in Piazza Santo Stefano per ascoltarne la lezione in
occasione di una sua visita in Italia. Fra quegli studenti c’era Cino Sighibuldi da Pistoia, fu per lui
l'unica occasione d’incontro con colui che avrebbe definito il suo dominus.
Nel corso del tardo Duecento alcuni maestri italiani pur aderendo agli apparati ordinari di Accursio
e leggendoli in scuola vi affiancavano additiones, vale a dire approfondimenti che muovevano
dalla Glossa per ampliarne la capacità espansiva riconducendovi casistica e figure di diritto
nuove. Le lecturae per viam additionum agli apparati del Corpus Iuris Civilis rappresentano un
genere letterario di manifesta transizione tra la glossa e il commento e in esse si cimentò con buon
esito lo stesso Cino. Se la formazione di Cino da Pistoia si perfezionò a Bologna, ma insegnò a
Napoli e a Siena, però la sua carriera termina a Perugia. Egli promulga la formula dell'esegesi dei
libri legali: il suo elegante e dotto commentario al Codice di Giustiniano e alla prima parte del
Digesto dipana la matassa del testo normativo attraverso cinque scanditi momenti. La lezione
segue un ordine: la legge viene divisa nelle parti che la compongono, poi si procede a
individuarne il casus (la concreta fattispecie sottesa), quindi a sottolineare nel testo i punti nodali e
infine a formulare opposizioni e interrogativi volti a saggiare la solidità dell'itinerario interpretativo
(commento), con l'obiettivo di cogliere l'intima e astratta ratio della legge in oggetto.

C) IL TRECENTO E IL QUATTROCENTO: I SECOLI D’ORO DEI COMMENTATORI


Gli studia di Padova e di Perugia furono il palcoscenico del nuovo modo di fare scuola. L'uno di
radicati natali, sorto nel 1222, l'altro giovanissimo, fondato all'inizio del Trecento da una bolla del
Pontefice Clemente V, entrambe le sedi universitarie erano segnate da marcata competitività nei
confronti dell'Alma Mater e trovarono nell’innovativa e prolifica dimensione della scuola dei
commentatori l'occasione per un 'lancio' di portata europea. Bartolo da Sassoferrato è entrato
giovanissimo nel circuito delle amministrazioni tardo-comunali a Todi e a Macerata, chiamato
come assessore a Pisa, poi insegnò diritto civile accanto a quel Ranieri Arsendi con cui a Bologna
aveva discusso la tesi di laurea. Rientrato nella città delle sue origini intellettuali vi rimase fino alla
morte. La produzione scientifica si è espressa nei tre generi dei commentaria, dei consilia, dei
tractatus di approfondimento monotematico: nelle edizioni a stampa essa è lievitata in 9 volumi
che testimoniano della fama e dell'autorevolezza raggiunte dal maestro. Il pensiero bartoliano
trova la sua espressione più classica nell'opera di commento all'intero corpus del diritto civile. Nelle
sue pagine hanno raggiunto definitiva sistematizzazione alcune acquisizioni dell'argomentazione
sillogistica presto entrate nel condiviso patrimonio della cultura giuridica europea. Esempio la
figura della persona ficta o rapresentata (l'odierna persona giuridica), assimilata in via analogica
alla persona fisica e riconosciuta titolare degli stessi diritti patrimoniali e non solo, che si voleva
sottoposto alla giurisdizione della terra d'origine e lo statuto reale, che imponeva nelle controversie
relative ai suoi beni mobili/immobili il primato della ratio loci.
Al Bartolo 'sistematico' ed esegeta si affianca il Bartolo cultore del diritto pubblico. Lo sforzo di
circostanziare in termini giuridici lo scontro fra guelfi e ghibellini, i fenomeni contingenti delle
rappresaglie e dei bandi nei confronti degli stranieri e degli avversari politici così come
l'inclinazione verso forme 'tiranniche' di governo delle città, mette a fuoco le patologie delle realtà
tardo-comunali. La diffusa e generalizzata metamorfosi dei regimi podestarili in esperienze
monocratiche di tiranni de facto o ratione exercitii, ma privi di consacrazione formale (defectus
tituli), necessitava di un inquadramento nelle figurae del diritto pubblico romano-giustinianeo. Un
inquadramento che solo la metodologia del commento poteva provvedere. Il ruolo di supremi
iudices delle rispettive giurisdizioni riconosciuto dal giurista di Sassoferrato a imperatore e pontefice
attualizzava le logiche del bilanciamento 'gelasiano' dei due poteri universali. Nell'opera di Bartolo
le dinamiche del diritto comune si stabilizzano e irrobustiscono in un assetto destinato nell'Europa
continentale a durare fino a tutto il XVII secolo. Un assetto nel quale la funzione sussidiaria degli iura
communia, rispetto agli iura propria del territorio, pur permanendo appare secondaria per rilievo
alla valenza di serbatoio dogmatico e di vocabolario giuridico che ai medesimi due iura fu
riconosciuta oltre ogni confine. Baldo degli Ubaldi è stato celebrato dalla storiografia per la sua
inclinazione a praticare itinerari scientifici canonistici. La competenza binaria in utroque iure
(Nell'uno e nell'altro diritto), divenne l'espressione del giurista completo. Baldo degli Ubaldi, di
notabile famiglia perugina, fu il campione, unendo all'esperienza didattica e scientifica su
entrambi i corpora del diritto civile e del canonico e all'attenzione per il diritto feudale espressa in
una densa lectura su Libri Feudorum, anche la spiccata capacità di declinare il sapere teorico in
consilia pro veritate nei quali il ponte gettato dalla scuola verso la prassi era costruito coi robusti
ma elastici materiali del commento.
Il Trecento e il Quattrocento furono i secoli dei 'bartolisti’ e dei consiliatori. Fra i dottori di leggi
furono molte le figure di prestigio scientifico. Giovanni Nicoletti da Imola acclamato doctor in
utroque. Fra i secondi basti ricordare Alberico da Rosciate, magnus practicus di formazione
padovana, lasciò orme profonde con le opere esegetiche, le questioni de statutis e, con il
monumentale Vocabolario di diritto tam civile quam canonicum, che per essere un contenitore di
‘lemmi' (termini) e rationes giuridiche universalmente riconosciute, rimase per secoli nell'uso della
scuola e del foro.

CAPITOLO TERZO “DALLA CRITICA UMANISTICA AL PARADIGMA DELLA MODERNITÀ

1-L’UMANESIMO GIURIDICO

A) DIRITTO COMUNE E CULTURA RINASCIMENTALE


Ai medievalisti l'Umanesimo giuridico è parso un fenomeno minore: in fondo umanista e filologo lo
era stato anche Irnerio, e ‘rinascimento giuridico' viene definita l'alba della scientificizzazione del
diritto nella scuola della glossa. Agli studiosi del diritto moderno e dei processi che condussero
all'età dei codici e delle costituzioni gli umanisti tendono ad apparire come i confusi pionieri di un
gigantesco fenomeno che troverà le sue eccellenze in altri movimenti: il giusnaturalismo o
l'illuminismo giuridico. L'Umanesimo giuridico si presenta come un’irruzione dell'umanesimo tout
court e della cultura rinascimentale nel mondo del diritto. Umanista è termine generico. Umanista è
l'uomo di lettere, che produce e analizza letteratura e linguaggio.
Quando parliamo in storiografia dell'umanesimo che si sviluppa particolarmente in Italia, facciamo
riferimento ad una specifica 'filosofia', cioè ad una scuola di pensiero. Sotto la cupola della
'filologia umanistica' si raggrumano fenomeni rilevanti anche per la scienza sociale come il diritto.
L'umanesimo, anche quello giuridico, fu una cultura riformatrice, e profondamente radicata nei
propri tempi. Gli umanisti si sentivano 'diversi’ e il loro giudizio sui secoli precedenti è spesso
stroncante e impietoso. Tuttavia, nell'umanista si intravvede quella cultura riformatrice d'antico
regime che fra Seicento e Settecento percorse un suo proprio itinerario razionalista.

B) CARATTERI SINCRONICI DELL’UMANESIMO GIURIDICO EUROPEO (SEC.XV-XVI)


I.La filologia
Le lezioni, le note e i saggi di Poliziano (dotto umanista e poeta latino) segnano negli ultimi decenni
del secolo XV il momento di massima concentrazione della tecnica e della Weltanschauung
filologiche. Quella filologica è per gli umanisti una doctrina orbicularis (dottrina universale):
l'umanista non è un medico, non è un astronomo, non è un giurista, ma insegna come leggere i
testi. La filologia, scienza del linguaggio, attraeva nella sua orbita tutte le discipline e le unificava
all’insegna di un rinnovamento sostanziale del sapere letterario e filosofico. Il letterato umanista è
prima di tutto un filosofo. Gli umanisti detengono il sapere che appartiene alla scienza della lingua.
La filologia è la scienza che ha come missione quella di comprendere le parole e i testi. Esempio:
per gli umanisti interpretare i testi giustinanei c’è bisogno di una conoscenza sofisticata del latino e
del greco. L’umanesimo giuridico è stato sintetizzato come l’età in cui graeca leguntur a
dimostrare la lontananza da quell’età dei glossatori che davanti ai termini greci dichiaravano la
propria ignoranza.
II. La secolarizzazione.
L'afflato filosofico della filologia rinascimentale si coglie appieno nella secolarizzazione e nella
storicizzazione che ne derivano. Per gli umanisti cogliere il senso profondo di un testo impone
un'analisi scientifica dei testi antichi nell'esatto significato lessicale e nel contesto storico-culturale di
provenienza. L’osservatore coglie il mondo del diritto come un mondo in divenire, contrariamente
alla concezione giuridica medievale che percepisce il diritto dotto come il continuum di quello
romano antico. L'aura di sacralità che i giuristi medievali attribuivano ai testi romani tende a venir
meno e diventano ricorrenti tra i giuristi atteggiamenti di critica nei confronti di Triboniano e di
Giustiniano, a cui si imputavano la scomparsa e l'oblio della biblioteca giuridica dell'antica Roma.
Si tratta di una manifestazione di 'anti-tribonianismo' e di 'anti-giustinianismo', però il diritto romano
continua ad essere considerato il principale e più ricco oggetto di analisi.
III. Il crollo delle auctoritates.
Nel tardo bartolismo quattrocentesco e posteriore, l'argumentum per eccellenza era diventato
quello ab auctoritate: il giurista giustificava le proprie asserzioni facendo riferimento ad analoghe
dottrine di altri importanti. Con l'Umanesimo giuridico si assiste all'abdicazione del principio
dell'auctoritas della scolastica medievale. Secondo l'approccio umanistico l'argomentazione deve
convincere per la sua razionalità.
IV. La riforma del mos docendi: la methodus.
Gli umanisti avvertono la necessità di una riforma del mos iuris docendi (modo di insegnare il diritto)
e della trasmissione del sapere giuridico attraverso una nuova methodus. I giuristi umanisti
riconoscono l'importanza scientifica dello studio del metodo nell'insegnamento e ricercano una
didattica fondata su di un metodo sistematico, categorizzando e classificando l'intera materia
giuridica del Corpus iuris diversamente dai maestri di ius commune. Nel XVI secolo si ebbe una
contrapposizione tra mos italicus iuris docendi (consiste nella conservazione della tradizione dei
commentatori italiani) e mos gallicus iura docendi (è degli umanisti caratterizzandosi in quanto
metodo giuridico-sistematico).
V. L'esigenza di sistema (ius in artem redigere).
La riforma della methodus nella didattica si connette sul piano scientifico al primo baluginare della
ricerca di un sistema razionale del diritto dotto, il cui viatico era lo ius in artem redigere di Cicerone.
Nel Corpus iuris la sistematica più soddisfacente era colta nelle Istituzioni, ed era provvisto di un
minimo di strutturazione sistematica sostanziale. Per tale ragione, lo schema tripartito delle Istituzioni
(persone/cose/azioni) divenne una sorta di archetipo di partenza nella ricerca di un nuovo ordine
del diritto dotto.
VI. Nascita di nuovi generi letterari: compendii e tractatus.
In questo disegno riformatore anche le tipologie della letteratura giuridica erano destinate a
mutare, con finalità e morfologie diverse. Ad esempio, il compendium, che consiste in una sorta di
sguardo generale su tutto il diritto o su alcune sue grandi ripartizioni. Si tratta di un genere letterario
che si sviluppò soprattutto tra Francia e Germania. Radici umanistiche si ritrovano alla comparsa
fra XV e XVI secolo di un modello letterario destinato ad una plurisecolare fortuna: il trattato. Nel
Medioevo il tractatus si presentava solitamente come una raccolta di quaestiones incentrate sul
medesimo argomento di cui si ponevano e risolvevano i principali problemi con metodo dialettico.
Nella prima età moderna nasceva la trattatistica giuridica specialistica, ancora oggi considerata,
nei più diversi campi del diritto. Su di essa agirono anche modelli medievali, ma nuovo è
l'approccio sistematizzante di evidente matrice umanista.
VII. Il mito della brevitas e del ritorno alle fonti.
Il metodo teoretico del giurista umanista, teleologicamente orientato al recupero della purezza
della fonte giuridica, impone il ridimensionamento del metodo argomentativo dialettico proprio
delle scuole dei glossatori e dei commentatori. La parola d'ordine è brevitas et simplicitas.
VIII. La centralità del testo e il nuovo ruolo dell'interprete.
Dietro alle incitazioni per il ritorno alle fonti e per la brevitas, dietro la richiesta di un nuovo e
prioritario rapporto diretto col testo normativo si intravede un modo nuovo di concepire il ruolo
dell'interprete, giudice o giurista. Tale rapporto con la legge assunse connotati diversi secondo la
personalità del singolo giurista umanista e secondo le strutture istituzionali in cui andava a calarsi.
Poteva limitarsi ad una ripresa in chiave filologica e razionalista nello studio del diritto romano
dotto, ovvero poteva rivolgersi alla rivalutazione del diritto patrio e alla proposta di produrre un
nuovo Corpus iuris civilis. Evidente era il richiamo alla subordinazione dell'interprete al testo
normativo ma era evidente anche il rifiuto del bartolismo e del giurista quale funambolico creatore
di diritto, che considerava il testo quale ‘pretesto', al fine di convalidare dottrine che di fatto erano
liberamente escogitate dal giurista per risolvere a modo suo i problemi del proprio tempo. Inizia il
tempo dell’ideologia anti-giurisprudenziale che imputa agli interpreti le evidenti criticità del sistema
a fine medioevo, soprattutto sul piano della certezza del diritto.

C) UMANESIMO E DIRITTO NEL QUATTROCENTO: VERSANTE PROPOSITIVO E VERSANTE


CRITICO
Nel XV secolo non si può ancora parlare di una nuova scuola giuridica qualificabile come
umanistica. Si può assistere ad una contrapposizione fra umanisti e giuristi bartolisti, due culture che
poco hanno in comune, infatti giuristi e umanisti comunicano ma non si miscelano.
Lo snodo cruciale riguarda l'interpretazione dei testi di diritto romano. Secondo gli umanisti,
glossatori e commentatori non erano muniti di strumenti culturali e linguistici sufficienti per
interpretare a fondo il corpus giustinianeo nella sua complessa profondità e stratificata storicità. La
fase embrionale del rapporto fra umanesimo e diritto si consumò fatalmente nel segno dello
scontro, a dispetto dei precoci contatti tra giuristi e umanisti.
Nel Quattrocento possiamo individuare due versanti di tale problematica. Si ha un versante
propositivo, che indusse nel campo del diritto alcune significative novità, per esempio, all'interesse
per il diritto pubblico romano, che nelle scuole medievali era stato percepito come marginale per
il suo scarso significato pratico, ma che ora viene invece studiato con rinnovato interesse,
impostando anche una prima scienza comparativa del confronto o alle dispute sui saperi, in cui si
impose come oggetto di una ricca letteratura il confronto fra scienza medica e scienza giuridica.
In tale versante si segnalano le ricerche documentali di nuovi codici che portarono al ritrovamento
di materiali significativi anche in campo giuridico. Si ricorda l'aspirazione a edizioni critiche, ed in
particolare la lunga gestazione dell’edizione critica umanistica del Digesto, fondata sul ricorso alla
littera florentina, (iniziata da Angelo Poliziano che poté valersi del favore di Lorenzo il Magnifico per
la consultazione e lo studio del documento). La tensione per l'analisi critico-filologica emerge in
ogni opera dell'Umanesimo giuridico.
Prevalente fu nel Quattrocento il versante critico del rapporto fra umanesimo e diritto. Un
momento emblematico di ciò può ritrovarsi nelle polemiche di Lorenzo Valla (1407-1457), fu uno
degli umanisti più importanti, a lui si deve la grammatica latina tramite “L’Elegatiae linguae
latinae” che determinò la scomparsa delle confuse e limitate grammatiche medievali, innovando
lo studio e l’insegnamento della lingua latina. Valla usava la polemica come strumento di
conoscenza. Egli utilizza la filologia come strumento secolarizzante che non riconosce ostacoli
autoritativi o sacrali al proprio esercizio. Si scagliò inoltre contro il diritto comune medievale in una
celebre lettera-trattatello. Durante il suo soggiorno pavese raccontava di aver parlato con un
giurista che sosteneva la superiorità di Bartolo su Cicerone, allora egli lesse un’opera bartoliana il
“De insigniis et armis” approfondendo cosi la conoscenza del lavoro del giurista, ma rimase
scandalizzato dall’ignoranza e dalla superficialità con cui essi scrivono e interpretano le opere
antiche.
Nemmeno la religione rappresentava un freno per l’esercizio della filologia, poiché Valla la utilizzò
anche sui Vangeli (Annotaztiones in novum testamentum).
Valla aiutando il suo protettore Alfonso d’Aragona in disputa con Roma per l’investitura di Napoli,
scrisse il De falso credita et ementita Constantini donatione, dove dimostrò grazie alle basi
filologiche e ai riferimenti storici e linguistici la falsità del documento sulla donazione di Costantino a
papa Silvestro, la donazione consisteva nel donare l’impero d’Occidente al papa in seguito alla
guarigione di Costantino dalla peste. Sulla donazione di Costantino si fondava inoltre la teoria
omni-insulare secondo cui il Papa avrebbe avuto nella sua disponibilità tutte le isole incluso il nuovo
mondo.

D)IL CINQUECENTO E LA FORMAZIONE DELL’UMANESIMO GIURIDICO: ANDREA ALCIATO


E L’ITALIA
Il Cinquecento è il secolo dell’Umanesimo giuridico, quindi si inizia a delineare la figura del nuovo
giurista. Ma come mai proprio il cinquecento? A nostro avviso fu decisiva nel secondo
quattrocento, la definitiva egemonia sugli studi pre-universitari da parte degli umanisti. Le loro
ricche grammatiche, le loro sfavillanti opere letterarie, sono ormai alla base della biografia di molti
giuristi del primo cinquecento. Una volta avviati gli studi giuridici, alcuni non dimenticheranno la
lezione di base e saranno vocati a realizzare un modo umanistico di fare diritto soprattutto nelle
aree giuridiche in cui le strutture pubbliche venivano rafforzandosi e miravano a circoscrivere il
ruolo degli interpreti, giudici e giuristi, allargando quello della norma pubblica. Il caso emblematico
è quello della Francia, l’assolutismo non fu l’unico fattore infatti deve anche considerarsi la politica
locale che può essere ugualmente assolutista in una piccola entità statale e non a livello
nazionale. Ciò spiega il successo che ebbe in Germania la quale era frantumata e il suo insuccesso
in Spagna. L’Umanesimo giuridico fu un fenomeno europeo, infatti alle sue radici si indica un
triumvirato formato da un italiano, un tedesco e un francese.
Andrea Alciato nacque nel 1492, proveniva da una nobile famiglia milanese ebbe una grande
cultura umanistica greco-latina grazie alla figura di Giano Lascaris, Demetrio Calcondila e Aulo
Giano Parrasio. Ancora ragazzo si dedicò alla ricerca di epigrafi milanesi e ipotizzò una storia di
Milano. Dal 1507 iniziò gli studi presso l’Università di Pavia sotto la guida di Paolo Pico, Filippo Decio
e Giason del Maino. Nel 1511 completò gli studi a Bologna grazie alla figura di Carlo Ruini. Si
addottorò a Ferrara nel 1516. Esercitò per qualche anno la carriera forense ma subito passò alla
cattedra. La sua carriera di docente si svilupperà tra l’Università di Bologna, Avignone, Bourges e
Pavia. In ambito religioso lo si può ascrivere al pirronismo era inoltre molto vicino ad Erasmo con il
quale aveva un rapporto epistolare. La sua operetta Contra vitam monasticham fu messa
all’indice dalla Chiesa. Egli è noto anche in ambiente letterario. Il pensiero e l’opera di Alciato
sono soggetti a varie interpretazioni segnate da una stretta insensibilità per il momento tecnico-
giuridico in senso stretto. Alciato non ha nulla da polemizzare contro i commentatori e i glossatori. Li
usa per ciò che gli serve e li giustifica, affermando che sia loro che le loro deficienze culturali
devono comprendersi in base al contesto in cui loro si trovavano. Al centro del suo pensiero vi è la
necessità di garantire la certezza del diritto negando valore assoluto alle auctoritas
ridimensionando inoltre la dialettica bartolista. Nella prefazione della sua opera intitolata Parerga,
egli afferma che l’incertezza del diritto è determinata dal mare magnum di una trattatistica
giuridica sterminata che era di pubblico interesse recidere piuttosto che onerare i lettori con
ponderosi commentari. Alciato affermava che si era di fronte ad una situazione sconsolante
poiché si era creato un enorme , indomabile, contraddittorio e magmatico ius novum incerto e
irrazionale, prodotto da interpreti di modesta qualità.
Sotto questo aspetto si possono individuare due aspetti tipici del pensiero alciateo:

● Il ridimensionamento del ruolo del giurista (emerge nei Parerga)


● La ricerca di una nuova ermeneutica e di un nuovo apparato interpretativo da
riportare sui testi romani.

Nel De verborum significatione si propone un chiaro programma, infatti già il titolo del digesto
De verborum significatione attirava un giurista umanista. Alciato fra il 1520 e il 1530 lo fece
oggetto di studio, redasse inizialmente un commentario secondo i modi tradizionali ma si
convinse quasi subito che era necessario un trattato specifico che sviluppasse i problemi
dell’ermeneutica con riguardo alle esigenze della scienza giuridica. Prima di lui mai nessuno si
era cimentato su quest’opera tranne Bartolomeo da Verona (che in realtà era Bartolomeo
Cipolla) ma affermava di non aver trovato nemmeno la sua opera vista la sua insignificanza,
anche se ciò non era vero in quanto Bartolomeo non era insignificante anzi.
La necessità di resecare tanta librorum multitudo (tagliare una cosi vasta moltitudine di opere)
era sostenuta anche da un altro giurista Italiano cioè Giovanni Nevizzano (1485ca-1540) il quale
proponeva l’integrazione del Corpus Iuris con un testo che risolvesse le controversie. La sua più
affascinante opera fu Sylva nuptialis (1524) dove possiamo trovare le nozioni concernenti il
matrimonio provenienti dai saperi più disparati integrando e organizzando entro schemi
dialettici le culture dotte con quelle popolari. Possono essere nominati altri giuristi italiani legati
all’Umanesimo giuridico come Guido Panciroli (1523-1599) che si segnalò per i suoi forti interessi
storiografici. Tuttavia, per ciò che riguarda la scienza giuridica del nostro paese rimase rilegata
alla tradizione medievale del diritto comune. Le ragioni addotte a tale fenomeno insistono
sulle istituzioni politiche particolaristiche italiane e sulla difficoltà di emersione di Stati almeno
tendenzialmente assoluti. Le istanze dell’Umanesimo giuridico, entrarono nel bagaglio di molti
giuristi italiani che pur facendo professione de fede bartolista, cureranno maggiormente il
latino, si porranno problemi filologici, si porranno problemi di inquadramento storico, si
professeranno fautori della brevitas e della chiarezza, e nemici delle sottigliezze e dei
funambolismi dialettici fini a se stessi.

E)L’UMANESIMO GIURIDICO IN EUROPA, CON PARTICOLARE RIGUARDO ALLA FRANCIA


L’umanesimo giuridico fu un fenomeno europeo anche se venne affrontata in maniera differente
nei paesi, ad esempio la Spagna mantenne un certo distacco a differenza della Germania. I giuristi
tedeschi si caratterizzarono per il loro conservatorismo, che salvaguardava molti aspetti del
bartolismo in uso in area tedesca. E ciò dopo la recezione formale del diritto comune da parte del
Reichskammergericht (il tribunale camerale dell'Impero) che dopo la riforma del 1495 giudicava
nach des Reichs gemeinen Rechten (secondo il diritto comune dell'Impero). Bonifacio Amerbach,
giurista umanista ma difendeva in una sua opera i giuristi bartolisti, sottolineando che anche le loro
lacune culturali dovevano essere oggetto di adeguata storicizzazione. Altri giuristi tedeschi si
applicarono a produrre sintesi del diritto comune. Ricordiamo fra loro Sebastian Derrer, Johannes
Apel e Konrad Lager (in lui si avverte l'influenza religiosa protestante e una impostazione pre-
giusnaturalista). Frequenti furono pure gli appelli al sovrano affinché tramite una commissione di
esperti, risolvendo le controversie più complesse, si circoscrivesse l'incertezza del diritto procurata
dal magma delle auctoritates.
È in Francia che si ha la pienezza dell'Umanesimo giuridico nei suoi aspetti caratterizzanti. Anche
nel Quattrocento, la Francia aveva conosciuto sussulti umanistico-giuridici. Esempio con l’opera di
Martial d'Auvergne: Les arrêts d'amour, in cui si disegna una giurisdizione per casi d'amore, in cui
confluiscono e si miscelano una raffinata cultura letteraria con quella giuridica dotta. L'Umanesimo
giuridico francese espresse le istanze della scuola nell'intero ventaglio delle sue potenzialità, si
possono individuare tre indirizzi principali:
1. indirizzo filologico.
Massimo esponente fu Jacques Cujas, che eccelse nell'esegesi analitica e critica del testo, con
una cultura umanistica, dalle Observationes et emendationes ai Commentarii alle Pandette e al
Codice.
2. indirizzo sistematico.
Ne furono esponenti François Connan, col suo interesse per il diritto delle genti e il diritto positivo, e
Hugues Doneau, che concentrò le sue riflessioni sulle geometrie del diritto privato secondo una
logica fondata sull'ordine naturale. Oltre a loro si possono anche ricordare Barthélemy de
Chasseneuz con il Catalogus gloriae mundi, un tipico prodotto dell'enciclopedismo rinascimentale,
opera umanistica e giuridica, che si incentrava sull'onore, problema per definizione interdisciplinare
e di vasto successo nel Cinquecento. Ma nel saggio del Chasseneuz l'onore divenne la griglia di
una vera e propria enciclopedia di tutto il creato. In dodici libri ed in 630 pagine l'intera esperienza
secolare e celeste si condensava compatta, ritrovando intorno all'onore (concetto giuridico,
filosofico e letterario) il proprio archetipico motivo d'ordine.
3. La relativizzazione del diritto, la richiesta di un nuovo Corpus e l'antitribonianismo.
La storicizzazione e la relativizzazione dei prodotti giuridici condusse più di un autore ad auspicare
un nuovo diritto per il presente. Charles du Moulin propose la redazione e promulgazione di un
nuovo Corpus iuris per la Francia, fondato anche sul droit commun coutumier. Tale processo
condusse ad esiti più radicali nell'opera di François Hotman, autore di una delle opere più celebri
dell'Umanesimo giuridico, di cui andò a rappresentare una vera e propria summa: l'Antitribonian ou
discours sur l'estude des loix, in cui criticava il Corpus iuris civilis sotto tutti i profili.
La Francia divenne la terra dell'Umanesimo giuridico per eccellenza, terra del mos gallicus iuris
docendi nel suo stato più puro, pieno e complesso. Le guerre di religione segnarono la fine del
primato francese, perché il protestantesimo attirava gli inquieti umanisti del Rinascimento. Del
l'Umanesimo giuridico sarà erede la 'scuola elegante' olandese, che proseguirà lungo tutto il
Seicento e oltre.

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