Riassunto Storia
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Riassunto Storia
1. Da più di un secolo il centro politico, militare ed economico si era spostato verso est così
come aveva voluto l’imperatore cristiano Costantino. Egli a metà del IV secolo aveva
articolato il comando dell’impero in due aree, quella occidentale e quella orientale. Aveva
inoltre avviato la costruzione di una nuova capitale sita nella ex Bisanzio che verrà
chiamata Costantinopoli.
2. La deposizione di un imperatore per mano di un generale germanico non era un fatto
inedito infatti i contemporanei non lo percepirono come un evento di definitiva rottura.
Odoacre stesso aveva inoltre mandato le insigne imperiali a Costantinopoli come segno di
formale deferenza, e Zenone (imperatore d’Oriente) rispose conferendogli il titolo nobiliare
di “patritius”.
Nel 529 avremo una prima versione del Codex, la versione definitiva si avrà nel 534. L’opera era
formata da 12 libri i quali disciplinavano un’ampia varietà di materie: diritto ecclesiastico, privato,
penale, pubblico amministrativo e fiscale.
Nel 533 è la volta dei 50 libri dei Digesta in cui si selezionano 10.000 frammenti dei giuristi Romani
tra i quali spiccano i nomi di Ulpiano, Papiniano, Gaio, Modestino e Paolo fioriti tra il II-III secolo. Qui
manca il diritto pubblico ma si avrà una netta preponderanza del diritto privato e un ampio spazio
sarà dedicato anche al diritto criminale (libri terribiles).
Sempre nel 533 si pubblicarono le Institutiones che era una sintesi dello scibile giuridico formata da
4 libri, l’obiettivo era quello di fornire uno strumento utile per la formazione didi giovani giuristi nelle
scuole dell’impero, basato su uno schema tripartito: res, personae e actiones.
Giustiniano non fermò la sua attività legislativa infatti nel 534 aveva già accumulato altre
costitutiones che però verranno pubblicate in seguito alla sua morte (565) in una collezione di
Novellae costitutiones che completeranno la produzione normativa di Giustiniano che passerà
alla storia con il nome di Corpus iuris civili.
L’opera in un primo momento aveva trovato applicazione soltanto nell’impero d’Oriente, ma
Giustiniano predispose subito l’estensione della vigenza anche alla parte occidentale dell’impero.
Il provvedimento con il quale si predispone la vigenza in occidente è pragmatica sanctio del 14
agosto 554, dove l’imperatore bizantino affermava che aveva promulgato ciò per volere del
vescovo il quale legittimava l’opera di Giustiniano e contemporaneamente lui riconoscerà la
carica religiosa che diventerà estremamente potente nel corso dei secoli. La pragmatica non
dava vigenza solo al corpus, ma aveva anche l’obiettivo di eliminare il diritto gotico pregresso,
reintegrare i proprietari che erano stati usurpati dei propri beni... Nella primavera del 568 i
Longobardi invaderanno l’Italia.
3- I DIRITTI GERMANICI
I Longobardi era uno dei tanti popoli germanici che durante il VI secolo si insediarono stabilmente
negli ex territori dell’impero romano. Seppur questi popoli avevano una propria identità era
possibile rintracciare degli elementi comuni come: il nomadismo, la propensione militare e la
conquista, l’assenza di una cultura scritta. Queste peculiarità andavano a sottolineare la netta
distinzione con i romani specialmente nella dimensione giuridica: i popoli germanici si reggevano
su una serie di consuetudini orali che si consideravano pari ad altri elementi come la lingua, le
credenze e i riti fattori di identità etnica essenziali. Ciò spiega perché i germani considerassero
innaturale individuare l’ambito di vigenza delle regole sulla base del territorio di stanziamento
(principio di territorialità del diritto) poiché era l’appartenenza ad un determinato gruppo a
delineare l’adesione alle proprie usanze, comprese quelle di vigenza giuridica (principio di
personalità del diritto).
Questo aspetto era coerente con la natura originariamente nomadica dei germani, poiché
portavano con loro le loro credenze e le usanze identitaria tra trasmettere di generazione in
generazione. Ogni etnia aveva determinate consuetudini e la convivenza tra diversi popoli non
bastava per modificare quanto assunto di fondo, a ciò vi è un’unica eccezione data dal
fenomeno spontaneo della reciproca contaminazione.
Anche nei contenuti delle consuetudini di questi popoli si possono rintracciare degli elementi
comuni infatti vi sono alcuni valori di fondo che caratterizzano verso un’omogenea direzione le
regole tradizionali, vi sono dei valori e delle regole che appaiono nettamente in contrasto con la
sensibilità giuridica romana.
Il gruppo aveva una forte rilevanza giuridica rispetto al singolo, il gruppo non si definiva soltanto dal
nucleo familiare allargato ma anche dalle affinità, le tutele e le amicizie che potevano porre le
basi per creare un clan. Quando emerge il singolo come identità giuridica si allude all’uomo libero
e atto al combattimento.
Non esiste una dimensione pubblicistica dello Stato, vi è infatti una gestione collettiva delle
decisioni importanti attraverso l’assemblea degli uomini in armi. L’assenza di istituti volti a
legittimare la titolarità esclusiva di un bene, specialmente se tale bene è la terra: la titolarità si
manifesta tramite l’uso e il godimento del gruppo. Il singolo non ha la possibilità di godere solo lui di
un bene neppure al momento della morte tramite un atto simile al testamento dei romani, tuttavia
era ammessa la successione legittima considerata come un meccanismo naturale di passaggio
dei beni all’interno del nucleo familiare.
Anche la sfera penale mostrava degli elementi di discontinuità con il mondo romano e bizantino,
le offese legittimavano la reazione dell’offeso tramite la vendetta, la quale poteva assumere una
valenza collettiva coinvolgendo il gruppo o la famiglia di appartenenza della vittima in una
ritorsione contro la famiglia o il gruppo dell’offensore: la faida.
Le forme rituali della vendetta erano quelle delle ordalie “il Giudizio di Dio” nella convinzione che
la divinità avrebbe consentito l’individuazione del colpevole e dell’innocente: essa poteva
consistere in prove di dolore o resistenza ma spesso assumeva la forma del duello. Gli inconvenienti
che potevano scaturire da queste pratiche suggeriranno l’adozione di strumenti diversi per
risolvere le controversie tra le quali il pagamento di una composizione patrimoniale cioè il
pagamento di una cifra di denaro o beni a carico dell’offensore a favore dell’offeso o della sua
famiglia.
Con il passare degli anni le popolazioni germaniche si doteranno di testi giuridici scritti nei quali
raccogliere le proprie consuetudini. Questo passaggio consente: di superare la fluidità orale del
patrimonio consuetudinario al quale attribuire tramite la forma scritta la certezza e l’organicità,
produce o accelera l’integrazione con le altre culture presenti sul territorio in particolar modo con
la matrice latina, che tramite l’intervento ecclesiastico che è l’unico ente in grado di far veicolare
contenuti di una certa complessità infine consolida un processo di gerarchizzazione del potere e di
esaltazione della regalità la quale non perdendo il carattere di mera guida militare assume
progressivamente il ruolo di garante dell’osservanza delle regole e dei suoi meccanismi di
applicazione.
Abbiamo 3 esempi di legislazione scritta adottata dai sovrani germanici tra il VI-VII secolo:
1. Lex romana wisogothorum: promulgata dal sovrano Alarico II nel 506. Egli segue una
raccolta di norme precedentemente stesa dal padre il sovrano Eurico nella seconda metà
del V secolo. Il testo emanato da Alarico non aveva come obiettivo la semplice
trasposizione delle usanze del suo popolo, ma aveva lo scopo di dotare la nuova entità
territoriale di norme più vicine a quelle dei latini con i quali erano entrati in contatto. La Lex
romana wisigothorum era maggiormente composta da leges prese dal Codice Teodosiano
e di iura estratti dalle opere dei giuristi romani Paolo e Gaio. Ma tuttavia non si riuscirà a
superare l’attaccamento dei Visigoti alle loro usanze
2. Pactus Legis Salicae: redatta dal re Clodoveo (nei primi decenni del VI secolo). Egli era il
sovrano dei Franchi Salii che si convertì al cattolicesimo e dotò il suo popolo si un ampio
territorio a cavallo tra i Paesi Bassi, Francia settentrionale e la Germania centro-orientale. Il
termine “legge” si deve interpretare tramite il modo consueto per i germani cioè norma di
matrice consuetudinaria mentre il termine “patto” evoca l’accordo dell’assemblea
popolare circa la corretta trasfusione nella lingua latina degli originari contenuti della legge
salica, correttezza di cui Clodoveo si fa portatore. In quel testo troviamo i principali
contenuti che trattano in generale le consuetudini germaniche: la successione legittima è
l’unica forma conosciuta e sembrerebbe privilegiare la linea materna, si ricorre
ampiamente alle composizioni pecuniarie per evitare le faide per i delitti gravi come
l’omicidio, la lesione, lo stupro, il furto di bestiame… consegna del reo all’offeso o ai suoi
familiari nel caso di mancato pagamento della composizione prevista.
3. Questa terza forma coinvolge direttamente la penisola italiana, che dal 568 era stata
invasa dai longobardi capeggiati dal re Alboino (morto nel 572). In poco tempo i
longobardi attuano una violenta opera di conquista e spoliazione dei possedimenti latini e
di quelli ecclesiastici. Il successore di Alboino, Clefi (morto nel 574) si spingerà sino al sud
della penisola, vi furono una serie di contrasti tra i capi militari longobardi, dove oltre a
costare la vita al sovrano Clefi, diedero vita ad una fase di incertezza politica,
caratterizzata dalla formazione di una trentina di ducati indipendenti tra loro. Il pericolo
della disgregazione fu sventato dalla volontà di riconoscere nuovamente un’autorità
unitaria: quest’obiettivo fu raggiunto nel 584 con l’incoronazione di Autari (morto nel 590)
figlio di Clefi. Da questo momento è più facile delineare le coordinate del regno lombardo.
Il carattere militare della guida regia era un carattere che durerà nel tempo (il re era un
primus inter pares era una figura eminente ma aveva la stessa dignità dei capi militari che si
sottoponevano a lui), essa si configurava come di matrice ereditaria dotata di un ampio
patrimonio fondiario, il quale corrispondeva alla metà delle sostanze di cui i duchi si erano
appropriati. Tuttavia, non è possibile vedere nell’organizzazione del regno longobardo i
tratti statual-pubblicistici tipici dell’impero romano, il regno resta organizzato secondo
modalità di coordinamento militare e di sfruttamento dei possedimenti controllati, anche se
la presenza stabile di un palatium e di una curtis regia a Pavia consentono di individuare un
proc esso di maturazione tale da mettere in secondo piano i tradizionali centri decisionali,
quali l’assemblea (gairethinx) degli uomini liberi (arimanni) e i nuclei familiari allargati
(farae) e di esaltare il ruolo dei fedeli del re (gasindi) e degli amministratori dei possedimenti
regi (actores, gastaldi, iudices).
Si avrà una svolta significativa con il Regno di Rotari (morto nel 652) il quale provvede ad una
migliore amministrazione regia e ad una migliore efficacia del raccordo tra palatium e i centri
periferici, ma mette per iscritto per iscritto le tradizionali consuetudini popolari. Il suo Edictum
promulgato nel 643, è composto da 388 capitoli, probabilmente un’opera del genere era stata
richiesta dall’aristocrazia longobarda, che coinvolta in un processo di integrazione con i latini,
vuole preservare le sue leggi secondo il principio di personalità (che le vorrebbe applicabili
soltanto al popolo di appartenenza). Rotari accogliendo questa richiesta (cioè quella di
ricercare e ricordare le antiche leggi dei nostri padri che non erano scritte) si pone l’obiettivo di
rinnovare, correggere ed emendare le consuetudini longobarde (cawarfide) aggiungendo
quanto potesse mancare o sottraendo quanto di superfluo dovesse risultare.
Oltre a quest’obiettivo Rotari ne persegue un altro cioè: il valore della regalità, la centralità del
rex e del suo apparato di funzionari vengono rafforzati dal ruolo di garanzia che al sovrano
viene riconosciuto in vista della corretta trascrizione e dell’applicazione delle cawarfidae ma si
sottolineano inoltre le prerogative che amplificano il ruolo di guida militare e di eccellenza
patrimoniale del re, soprattutto in vista del mantenimento della pace pubblica e della
repressione dei reati più pericolosi.
Nell’Editto redatto in un latino capace di dare traslitterazione fonetica a termini giuridici
trasmessi in una lingua orale appaiono gli istituti consuetudinari tipici della tradizione
longobarda:
● Il mundium: potestà maschile sulla donna, esercitata prima dal padre ed in seguito
dal marito
● Gli scambi patrimoniali in occasione delle nozze: il faderfio dal padre alla figlia e il
morgengabe dal marito alla sposa
● Il launegild: corrispettivo simbolico offerto dal beneficiario in occasione di una
donazione
● La wadia: garanzia in forma di pegno offerta dal debitore sui propri beni
● Il gairethinx parte dall’essere l’originaria assemblea con valenza militare e politica
per assumere la funzione di atto formale pubblico certificativo di importanti effetti
giuridici quali manumissioni di servi, adozioni, donazioni universali mortis causa, ecc
● Processi giudiziari definiti per via di duello o di giuramento
● Meccanismi di successione per esclusiva via legittima, senza alcuna forma di
disposizione testamentaria
● Pur prevedendosi la faida era data preferenza alla soluzione della composizione
pecuniaria, detta guidrigildo (wergeld) di cui una quota spettava al re in quanto
garante del corretto funzionamento del meccanismo
● Alcuni gravi delitti come: attentato al re, la congiura, il tradimento… capaci di
minare la pace tutelata dal re venivano individuati come crimini di lesa maestà ed
erano puniti con la morte
Dopo qualche intervento del re Grimoaldo nel 668, l’intervento più significativo dopo quello di
Rotari è rappresentato dalle 153 norme promulgate dal re Liutprando durante il suo regno (712-
744). La svolta politica-religiosa di questo sovrano porterà ad abbandonare i residui dell’originario
orientamento religioso del popolo (l’arianesimo), avvicinandosi alla fede cattolica eregendosi cosi
a protettore della Chiesa e del vescovo di Roma.
Nel prologo delle sue prime leggi del 713 si definisce un “principe cattolico” impegnato a tutelare il
patrimonio giuridico tradizionale e l’editto di Rotari ma inoltre aggiunge che fu sollecitato da
un’ispirazione divina ad operare seguendo la lex Dei cassando, modificando o creando nuove
norme.
Tra le novità che risentono della conversione cattolica abbiamo ad esempio la manumissione dello
schiavo davanti all’altare (prevista da Costantino), il riconoscimento dell’asilo ecclesiastico, certi
impedimenti matrimoniali di evidente derivazione canonica, un trattamento migliore della
condizione successoria delle figlie, la valorizzazione del consenso della donna con l’accettazione
dell’anello (subharratio cum anulo) in occasione della cerimonia matrimoniale, la donatio pro
anima una sorta di lascito pio a favore di enti ecclesiastici che introduce nella cultura giuridica
longobarda una prima forma di successione testamentaria. A documentare una fase di
integrazione della tradizione giuridica tra longobardi e latini, si può comprendere tramite il valore
che viene attribuito alle prove testimoniali e il riferimento a una indistinta consuetudo loci.
Dobbiamo quindi analizzare in relazione a ciò il valore che viene attribuito a figure come il notaio in
seguito ad una disposizione di Liutprando, la quale nel prevedere la redazione della cartula
secondo le forme negoziali latine o longobarde consentiva ad una delle due parti di rinunciare alla
propria legge.
Soltanto in una situazione l’approdo ai nuovi valori condivisi nel segno della cattolicità e degli usi
latini sembrava impossibile cioè la risoluzione delle controversie tramite l’applicazione delle ordalie.
Il duello era una forma di giustizia irrinunciabile per gli ambienti dell’élite militare longobarda.
Liutprando pur essendo ostile a ciò dovette prendere atto dell’impossibilità di vietare un istituto
radicato nelle consuetudini del suo popolo, agli strumenti processuali dell’accusa e della difesa si
preferiva la valentia delle armi a cospetto delle divinità.
La curtis era l’unità abitativa principale del titolare (signore o dominus) al quale era ricollegato un
territorio coltivabile. La curtis era definita pars dominica poiché sotto il controllo del signore che vi
risiedeva, era resa produttiva attraverso l’opera dei servi che erano dei soggetti privi di piena
personalità giuridica. A questa porzione di territorio si aggiunge il massaricium chiamato anche
pars massaricia che prende il nome dalla circostanza di essere divisa in varie unità, erano affidate
alla cura dei coltivatori, liberi o semi-liberi, che si appropriavano di una parte del prodotto, mentre
il resto andava al dominus. Era libero l’uso dei pascoli e dei boschi all’interno della riserva
domenicale. I coltivatori del massaricium oltre a dare una parte del prodotto del mansus
dovevano anche prestare una quantità di lavoro presso la curtis e la pars massaricia come
sostegno al lavoro dei servi, in questo caso l’intero prodotto spettava al signore. In questo contesto
economico e produttivo assume una figura di rilievo quella del signore, quale definitore di conflitti:
il signore ha il compito di difendere la pace all’interno del territorio curtense tramite l’applicazione
delle leggi in loco e quelle tipiche dei gruppi appartenenti alle diverse etnie. Oltre queste regole ve
ne erano altre come quelle derivati dai rapporti specifici intercorrenti tra il dominus e i residenti
impegnati in prestazioni economiche a suo vantaggio (si parla di iustitia dominica). I soggetti che
aiutano il signore nell’amministrazione delle terre sono anche coloro che lo aiuteranno a regolare
una controversia.
Oltre a queste forme di amministrazione della giustizia (iurisdictio) sorte in modo spontaneo in quel
contesto di vita economica, senza quindi l’incarico da parte di un’autorità competente, si
aggiunge la potestà dei domini di esprimere “atti di comando” (districtio) rivolti ai residenti:
ingiunzioni di prestazioni straordinarie, definizione di tributi connessi all’uso di specifiche attrezzature
o aree di pertinenza signorile (mulini, fiumi), chiamata alle armi.
Queste innumerevoli prerogative che il dominus possedeva nelle mani, in un certo senso erano
necessarie affinché riuscisse a garantire la pace e la protezione della curtis. La durezza delle
condizioni di vita e le innumerevoli difficoltà nel procacciarsi materie prime esalteranno i poteri
direttivi del signore, e i fattori di soggezione dei residenti: anche i residenti nel massaricium (nati
liberi) verranno paragonati e assoggettati al signore come gli schiavi operanti nella curtis signorile,
in seguito a delle limitazioni definite “in facto”. Sono quindi degli uomini dipendenti i quali
nonostante possano vantare uno status di libero sono sottoposti ad una restrizione di movimento e
di un’autonoma capacità di scelta, quindi in seguito ad esse vengono certamente paragonati ai
servi. Possiamo affermare quindi di trovarci di fronte ad una dinamica di “schiacciamento” delle
qualificazioni personali che esalta il rapporto verticale tra il dominus e i soggetti a lui sottomessi. La
società rurale altomedioevale viene sottoposta ad un processo di stratificazione giuridica, con
l’intento di ridurre i soggetti liberi e aumentare il numero dei soggetti subordinati.
Le gerarchie si strutturano in una rete complessa di rapporti giuridici dove appare decisivo il ruolo
di assicurare la pace (contro la violenza altrui) e la protezione (per soddisfare i bisogni primari della
vita). In quest’ottica possiamo comprendere come la gerarchizzazione delle relazioni giuridiche si
articoli verticalmente non solo all’interno delle unità produttive ma anche nel rapporto che si
costituisce tra queste unita cioè i titolari dei territori resi produttivi dai residenti/dipendenti tendono
a replicare nelle loro relazioni lo schema del superiore capace di assicurare tutela e dell’inferiore.
Tra i signori più ricchi e potenti ve ne è qualcuno in grado di esercitare forme concrete, legata alla
vastità del patrimonio, alla numerosità dei residenti al suo servizio, tali da estendere il suo
predominio su un’area abbastanza ampia di territorio: in questo caso si parlerà di signoria
territoriale.
Per signore territoriale si intende il titolare di vari di vasti possedimenti fondiari, su cui esercita
iurisdictio e districtio, è inoltre conosciuto come colui che è in grado di assicurare pace e
protezione anche ai signori più piccoli. Furono dei signori territoriali i Canossa, era una famiglia
dotata di un grosso patrimonio fondiario in Toscana e in Emilia-Romagna, a loro veniva
riconosciuto il potere di giudicare o emettere direttive su tutti i soggetti che avevano una minore
entità e potenza che insistevano sulla stessa area. Furono signori territoriali anche gli uomini di
chiesa o gli enti ecclesiastici: ad esempio l’abbazia di Nonantola, vantava vasti possedimenti in
area padana sui quali esercitava poteri signorili e veniva riconosciuto come signore territoriale
anche dagli altri soggetti.
Il signore territoriale è signore fondiario solo nella parte di influenza, mentre nel resto del territorio
non partecipa al processo produttivo ma esercita e coordina la difesa, la protezione e la giustizia
garantendo insieme agli altri signori laici o ecclesiastici e le comunità libere la pace.
Queste relazioni si ergevano sulla base delle consuetudini, le quali nascevano e si consolidavano
sulla base delle modalità produttive assestatesi in un preciso momento e in un determinato luogo e
tra una certa categoria di soggetti, queste consuetudini ben presto si integrarono a quelle di
matrice feudale. Queste nacquero in degli ambienti e con finalità militari, si prestarono bene a
dare configurazione giuridica a rapporti fattuali nati dal mondo produttivo delle signorie fondiarie,
dove gli status si andavano polarizzando tra la figura del dominus e quella dei subordinati semi-
liberi o servi.
Il termine vassalli indica una subordinazione dei residenti/contadini che erano soggetti alla fedeltà
feudale, a volte emergenti tramite atti giurati di soggezione personale.
Questo processo è stato incoraggiato dalla circostanza che alcuni dei signori fondiari di maggior
peso avevano ottenuto o avrebbero ottenuto in seguito il titolo feudale di conte o duca. La
primazia del signore esercitante alcuni poteri sui suoi residenti, trovava piena copertura giuridica
nel complesso delle consuetudini feudali che si stavano assestando grazie anche agli interventi
sovrani.
5-CHIESA E IMPERO
B) LA RINASCITA DELL’IMPERO
L’incoronazione di Carlo Magno avvenuta la notte di Natale dell’ottocento a Roma da papa
Leone III, viene ricordata come una degli eventi costitutivi la civiltà europea.
Carlo (742-814) è il discendete di Carlo “Martello” che aveva posto fine alla dinastia dei Merovingi
(dei quali faceva parte Clodoveo il primo sovrano dei Franchi Salii) per dar vita ad una nuova
dinastia, quella dei Carolingi. Essa si caratterizzò non soltanto per la sua notevole espansione
territoriale poiché possedevano la Francia settentrionale, la Germania e l’Italia ma anche per aver
interpretato il tradizionale ruolo di comando tipico dei popoli germanici a forte vocazione militare
secondo nuove modalità direttamente derivate dalla struttura feudale del regno carolingio ed
altre mutuate dal modello romano. Questo aspetto è stato valorizzato al tal punto da teorizzare la
rinascita dell’impero d’Occidente, qualificato dalla fede cattolica tipica dei Franchi sin dal VI
secolo e da un impianto organizzativo e politico-amministrativo che utilizzava i legami vassallatici
per fare dei capi militari (comites) i titolari di poteri delegati dal sovrano in sede decentrata. La
rinascita dell’impero seppur coincidente con l’evento storico dell’incoronazione di Carlo Magno,
deve vedersi come un’interpretazione forzata compiuta dalla Chiesa, la quale tramite i suoi
strumenti (cultura, scrittura e autorevolezza religiosa) era interessata ad assumere il ruolo di
continuatrice dell’impero d’Occidente e di suprema rappresentante della volontà di Dio in terra.
Lo stesso Carlo Magno era stato da essa incoraggiato ad intraprendere l’invasione dell’Italia e di
sconfiggere una volta per tutte i Longobardi poiché in essi la Chiesa vedeva i defensores capaci di
porsi al servizio dell’autorevolezza del pontefice nell’Europa occidentale.
Il regno di Carlo Magno non abbandonò mai i tratti caratterizzanti i regni militari di tradizione
germanica. I comites esercitavano sui territori ricevuti in feudo poteri ampi di comando e giustizia,
manifestavano inoltre un’autonomia difficilmente compatibile con un’idea gerarchica del potere
statuale e informavano i loro rapporti col sovrano sulla base delle convenienze e dei concreti
rapporti di forza. Questo lo si può dimostrare non solo dall’autonomia che dichiaravano di avere
ma anche dall’uso che il sovrano faceva dei missi dominici i quali erano incaricati di specifiche
mansioni ed erano inviati nei territori decentrati per attuare le direttive del re, non sempre recepite
dai conti locali e per questo dovevano essere confermate o imposte grazie al ruolo dei missi. Il
regno di Carlo Magno giunse alla massima espansione territoriale negli anni dell’incoronazione
imperiale (comprendeva i territori della Francia, i Paesi Bassi, parte della Germania e l’Italia del
centro-nord) mostrava elementi di adattamento alla nuova realtà territoriale e alle vaste mire
politico-militari soprattutto sul piano della legislazione. I re carolingi si fecero promotori di un
imponente produzione legislativa, organizzata e raccolta sulla base dell’ambito di applicazione o
dell’oggetto regolato. Le norme regie nonostante producessero già degli effetti basandosi
sull’oralità venivano raccolte per iscritto in “capitolari” chiamati in questo modo poiché erano
suddivisi in capitoli. I capitolari venivano distinti in base al territorio d’incidenza, sulla base delle
materie trattate (si distinguevano i capitularia ecclesiastica che riguardavano materie di interesse
ecclesiastico, la vita della chiesa e le sue istituzioni dai capitularia mundana aventi per oggetto
materie o soggetti laici). Questa normativa non toglieva validità alle consuetudini e alle altre
norme vigenti, in ragione dei gruppi etnici di appartenenza, dei territori, dei soggetti inquadrati in
singole categorie, la legislazione franca si inseriva quindi in un quadro pluralistico di fonti normative
dove la maggior parte erano di natura consuetudinaria. Tuttavia si registra solo una novità per
quanto riguarda l’applicazione di tali norme, ai tempi del re-imperatore Carlo Magno si costituì la
figura dello scabino, esso era un giudice semi-professionale incaricato di affiancare il signore o il
notabile locale nell’amministrazione della giustizia. I Franchi non assunsero mai toni perentori nei
confronti degli imperatori bizantini. La pace di Aquisgrana stipulata tra Franchi e Bizantini nel 812
riconosceva al monarca di Costantinopoli il titolo di imperatore dei Romani: cosi Carlo venne
identificato come imperatore dei Franchi. L’impero franco non durò molto nell’843 il trattato di
Verdun pose fine alla lotta nata tra i figli di Ludovico il Pio successore di Carlo Magno, andando a
suddividere i territori: Carlo il Calvo ebbe il regno franco, Ludovico II ebbe il regno di Germania
mentre Lotario I ebbe la parte di mezzo dell’impero che si estendeva dai Paesi Bassi, alla Borgogna
e alla Provenza sino all’Italia.
Nella seconda metà del X secolo l’idea imperiale troverà nuova linfa in una nuova dinastia, il duca
di Sassonia Ottone dopo essere divenuto sovrano di Germania nel 936, in seguito ad un’aspra lotta
di successione per la supremazia in Italia che lo vide prevalere su Berengario d’Ivrea fu incoronato
imperatore nel 962 a Roma da papa Giovanni XII. Con questa data si segna la lunga permanenza
dello scettro imperiale in Germania. Lo stesso rapporto con la Chiesa risentì del radicamento
imperiale in Germania e del tentativo di sottoporre a stabile soggezione la penisola italica.
B) LE ARTI LIBERALI
Per ciò che riguarda la cultura giuridica altomedievale si è parlato di “un’età senza giuristi”, vi era
la totale assenza di centri di formazione, di insegnamento e di apprendimento specializzato del
diritto. Se pensiamo al disfacimento dell’impero d’Occidente, all’egemonia dei regni germanici e
all’affermazione della consuetudine, non ci possiamo stupire se nell’Europa dei secoli VII-X al
contrario che nell’Impero d’Oriente, non si sentisse il bisogno di competenze specifiche e
sofisticate per la conoscenza e l’applicazione delle regole vigenti. Tuttavia ciò non significa che
non esistessero soggetti che noi potremmo chiamare “operatori del diritto” come giudici e notai. Il
percorso formativo era nettamente differente, legate al luogo di residenza o al centro del potere
con cui entravano in contatto o al servizio del quale erano chiamati ad operare. Quasi impossibile
identificare maestri impegnati a fornire una preparazione esclusivamente giuridica.
La conoscenza durante l’alto medioevo era di tipo “enciclopedico”, essa aderiva alla visione
integrale della realtà visibile e invisibile, concepita come ordine della creazione divina. Questa
concezione della conoscenza possiamo trovarla espressa nel programma delle artes liberales (le
arti liberali) denominate cosi perché al contrario delle artes mechanicae (le arti meccaniche) non
comportavano lavori manuali di natura servile ma anzi attività di conoscenza tipicamente adatta
e riservata all’uomo libero.
Le arti liberali hanno origine antica, e trovano nei primi secoli dell’alto medioevo una sistemazione
con Isidoro da Siviglia e le sue Etymologiae (primi decenni del VII secolo) i cui 20 libri affrontano
tutta la conoscenza disponibile del tempo secondo l’utilizzo dell’ottica enciclopedica. Tramite le
nozioni di Isidoro che si diffusero grazie alla sua opera, l’insegnamento nei secoli a venire fu
impartito entro le griglie disciplinari delle arti liberali. Le arti liberali erano 7, 3 erano chiamate
sermocinales (riguardano l’organizzazione e l’esposizione del pensiero) ed erano la grammatica, la
retorica e la dialettica, mentre le altre 4 erano chiamate reales (riguarda le discipline che
indagano la realtà delle cose, della natura del creato) l’aritmetica, la geometria, l’astronomia e la
musica. La grammatica può definirsi come l’arte di esporre in modo corretto e comprensibile il
discorso, la retorica come l’arte di esporre efficacemente e convincentemente il discorso, la
dialettica come l’arte di ragionare, organizzare il pensiero, fissarne i passaggi secondo modalità
argomentative valide e coerenti. L’insegnamento impartito secondo le griglie contenitrici delle arti
liberali sermocinali forniva l’occasione per trasmettere alcuni generici elementi cultura giuridica.
Le Etymologiae di Isidoro era il testo fondamentale nelle scuole di arti liberali, vi sono 27 paragrafi
del capitolo V che sono dedicati al diritto, ma quei contenuti non erano sufficienti a costituire un
sapere solido anche se si considerava sufficiente per gli allievi della scuola. Il diritto era concepito
come un sapere radicato nella morale religiosa che la consuetudine era posta al medesimo piano
della legge e che la terminologia romanistica appariva generica e mai circostanziata. Da questo
materiale limitato si traevano le poche nozioni giuridiche trasmesse con la grammatica, la retorica
e la dialettica. Le scuole non erano caratterizzate dalla specializzazione, non esistevano scuole
dedicate esclusivamente al diritto. La cultura e la sua trasmissione erano affidate alla Chiesa infatti
erano luoghi di apprendimento i monasteri nelle aree rurali e le cattedrali in città. Il sapere veniva
incanalato nel prisma delle sette arti liberali le quali fatta eccezione per l’indottrinamento religioso
restavano la base per la formazione di qualsiasi uomo di cultura, laico o ecclesiastico. La Chiesa
era la depositaria dei centri di formazione e della cultura, ma si deve notare che vi erano delle
scuole che operavano all’interno delle corti sovrane o delle corporazioni professionali.
C) GIUDICI E NOTAI
La circostanza che nell’alto medioevo non si possa parlare di giuristi in senso stretto non può
interpretarsi come l’assenza di operatori del diritto. Le controversie oltre ad essere risolte con la
forza potevano essere anche risolte tramite l’applicazione delle norme vigenti inoltre si poneva il
problema di certificare gli atti con cui il singolo o le parti intendevano porre in essere determinate
volontà.
Le consuetudini potevano assumere a volte la forma scritta grazie alla sanzione dei sovrani,
approvata dall’assemblea popolare degli uomini liberi, ma tuttavia il tratto la forma orale di queste
era preponderante. Il problema dell’accertamento del contenuto specifico della singola
consuetudine, della sua vigenza in quel determinato territorio o gruppo etnico, aveva dei contorni
che non garantivano una soluzione facile. Si poteva ricorrere alla memoria degli antichi del luogo
chiamati gli antiquiores loci oppure si avviava un’indagine attraverso il ricorso a testimoni affidabili
cioè la inquisitio per testes.
Il giudice doveva essere al corrente delle consuetudini vigenti e delle modalità tradizionali per il
loro accertamento. Chi giudicava doveva avere la iurisdictio cioè doveva essere titolare del
potere di amministrare la giustizia, risolvere le controversie applicando le regole vigenti, questo
potere veniva tendenzialmente riconosciuto al papa, l’imperatore, ai re, ai vescovi, ai conti, ai
signori fondiari, territoriali e feudali. Tuttavia non si può affermare che essi esercitassero sempre
questo potere in prima persona, infatti spesso si avvalevano della perizia di soggetti esperti e fidati,
ai quali si chiedeva una consulenza quando si giudicava attraverso un organo collegiale
presieduto dal titolare della iurisdictio oppure si delegava il potere di emettere sentenza a soggetti
abilitati, in queswto caso possiamo parlare degli scabini oppure di iudices.
La pronuncia giudiziaria non aveva il valore dell’applicazione di una norma imperativa capace di
costituire, modificare o interrompere effetti giuridici, ma piuttosto si limitava a dichiarare operativa
una determinata regola consuetudinaria vigente, dalla quale discendevano certe conseguenze
tra le parti in causa: quindi possiamo affermare che si trattava di una sentenza dichiarativa.
Tuttavia, non si parlava di una sentenza: l’atto che documentava le fasi del processo individuava
la regola vigente e dichiarava valide le prove e si chiamava placitum (oppure notitia iudicati).
Anche se ci troviamo in ambiente germanico possiamo notare come la giustizia non sia vista come
un’attività autoritativa ma anzi come l’affermazione di un ordine di regole e di situazioni soggettive
iscritte nella tradizionale convivenza e se queste fossero state disattese o violate dovevano essere
ripristinate tramite un riconoscimento giudiziale prodotto dal titolare della iurisdictio.
In ambiente italiano il processo e il pronunciamento tendevano a valorizzare glie elementi
probatori com ela testimonianza, il giuramento, la confessione e il documento negoziale, questi
erano poco utilizzati in ambienet germanico poiché preferivano affidarsi agli strumenti tradizionali
della loro cultura, cioè l’ordalia e in particolar modo utilizzavano spesso il duello.
Un’altra figura molto rilevante in ambiente giuridico è il notaio, nell’alto medioevo questo poteva
provenire da un ambiente ecclesiastico oppure poteva essere un componente di corti giudicanti o
l’appartenente di uno specifico collegio professionale. La loro capacità di dar vita ad atti espressivi
della volontà dei privati era dovuta al riconosciuto valore della loro perizia nel redigere documenti,
perizia su cui era fondato il prestigio professionale di tali operatori. Un discorso diverso deve farsi per
l’élite che era al servizio di autorità signorili o ecclesiastiche, erano capaci di fornire al documento
una sanzione ufficiale promanante dal potere che rappresentavano.
La publica fides cioè l’affidabilità che si richiedeva al documento non era un elemento scontato e
solo in alcuni casi rari poteva fondarsi su un’autorità di cui il notaio incarnava la sanzione ufficiale.
Negli altri casi il notaio basandosi sulla sua personale professionalità o sul prestigio della
corporazione al quale appartiene doveva essere in grado di confezionare un atto dotato di
firmitas cioè la stabilità nel tempo che poteva tradursi concretamente come:
1. Nella sua irrevocabilità le parti non possono rinnegare quanto hanno concordato
nell’atto
2. Nella sua inattaccabilità l’atto può essere prodotto in giudizio in caso di controversia
La firmitas poggiava sulla sottoscrizione dei contraenti e dei testimoni, che conferivano forza
all’accordo documentato nell’atto. Il contenuto dell’instrumentum (documento) se contestato
poteva essere messo in discussione dal giuramento e dalle testimonianze, che in sede
processuale potevano avere la stessa forza della carta notarile. Cosi si spiegano le modalità di
corroboramento dell’atto che la prassi aveva messo in atto nel tempo, la prima era quella di
ricorrere all’autorità del signore territoriale o a quella regia o a quella imperiale o pontificia per
ottenere la sanzione ufficiale dell’instrumentum. L’alternativa era data dalla possibilità di ricorrere
alla pronuncia giudiziale: si ricorreva al giudice per trasformare il contenuto negoziale in una
sentenza, in modo da esaltare il valore vincolante del contratto. Il giudice intervenendo rendeva
più salda la firmitas che il notaio non poteva assicurare specialmente durante una contestazione.
Negli ambienti di cultura germanica il valore dell’instrumentum era molto più esile, infatti
preferivano affidarsi ad altri strumenti tradizionali per corroborare gli atti. Ad esempio, la traditio
chartae mediante il quale l’atto in sede processuale costituiva una mera prova che le parti
potevano utilizzare in concomitanza con le altre tradizionalmente ammesse. In territorio latino
l’evoluzione dell’instrumentum fu diverso, infatti esso anche quando non era corroborato da una
insuperabile publica fides poteva vantare comunque in sede processuale una firmitas
difficilmente scalfibile da altri strumenti.
Al notaio non bastava la scrittura e la perizia cosi come per i giudici non bastava la perizia e la
conoscenza delle regole vigenti: ma era necessaria anche la legittimazione dell’autorità. Il
cap.243 dell’editto del re di Rotari, puniva con il taglio della mano colui che era responsabile di
aver redatto una cartola falsa cioè una carta notarile falsa. I Franchi diedero al notaio grande
importanza, infatti ne nominavano uno ufficiale per ogni località in cui operasse un missus
dominicus, ciò evitava lòa possibilità che gli ecclesiastici potessero confezionare atti pubblici.
Con l’affermazione dell’autorità imperiale vi fu la necessità di avere un corpo di notai ufficiali
delegati dall’autorità pubblica a fornire publica fides, insuperabile anche dagli atti rogati. Notai
del genere possiamo ritrovarli nel Palatium di Pavia, sino alla sua distruzione avvenuta nel 1024
epoca in cui la prerogativa di nominare notai pubblici passò in mano alla potente famiglia
Lomello. A partire dal X secolo emersero contesti nuovi di relazioni giuridiche ed economiche, ciò
avvenne nelle città, i notai locali seppero produrre testi di supporto alla loro professione il
cosiddetto formularium erano delle raccolte di moduli finalizzati al raggiungimento di effetti
giuridici desiderati dal disponente o dai contraenti (donazione, compravendita, testamento,
affrancazione, affitto) sui quali intervenire in seguito con i dati specifici dell’atto da rogare. Sui
formulari si formarono varie generazioni di notai, i quali ebbero il bisogno di elaborare formule
notarili in grado di aderire ai bisogni dei disponenti e di dotare i propri strumenti di firmitas. Nel X
secolo si trovò una forma di stabilità nella tipicità negoziale ereditata dalla tradizione giuridica
del diritto romano. Il notaio ebbe l’abilità di porsi al servizio della vita economica dei territori,
tramite la prassi possiamo notare quanto sia importante ciò nelle città mercantili ad esempio a
Genova si elaborano atti notarili con promesse di pagamento o confessioni di debito in grado di
essere riconosciuti come immediatamente eseguibili, senza bisogno della sentenza del giudice:
si parla in questo caso di instrumenta guarentigiata cioè titoli di credito. La prassi delle
imbreviaturae i notai insieme all’atto richiesto compilavano una sorta di sintesi dell’atto
medesimo da raccogliere in un apposito registro di funzione di pubblica certificazione. Il notaio
era dotato di una cultura autonoma e parallela a quella ecclesiastica, a questa figura si deve
riconoscere il contributo nel recupero delle fonti giustinianee che nell’alto medioevo circolavano
in modo frammentario.
1. Liber papiensis: conteneva tutti gli editti Longobardi da Rotari ad Astolfo quindi dal 643 al
755, aveva inoltre i capitoli franchi e le costituzioni imperiali contenuti nel Capitolare
Italicum (da Carlo Magno a Enrico II quindi dal 779 al 1014) ed il materiale era organizzato
seguendo il criterio cronologico.
2. Lombarda: vi appartenevano le stesse norme sopraelencate ma si era utilizzato un criterio
sistematico e l’utilizzo di questo criterio rispondeva ai bisogni della pratica e dello studio, ciò
ne decreterà il suo successo infatti rimpiazzerà il Liber Papiensis
Al Liber Papiensis si associa un testo di natura esegetica cioè l’Expositio ad Librum papiensem, si
tratta di una serie di annotazioni al testo normativo contenuto nel Liber le quali provengono
probabilmente da una scuola di giuristi attivi a Pavia intorno al 1070, i giuristi che le hanno prodotte
sono diversi, la maggior parte sono sconosciuti o addirittura anonimi, essi produssero queste
annotazioni per rendere più facile la comprensione delle norme e risolvere i problemi di
coordinamento e coerenza fra esse. I maestri che hanno costituito queste annotazioni si
distinguono in base alle scuole di appartenenza, infatti parliamo di maestri antiqui e moderni
intendendo così non solo la distanza generazionale ma anche le diverse sensibilità dottrinali. La
Expositio viene citata nei manuali di storia del diritto perché è la testimonianza di una scuola
giuridica di diritto germanico in Italia e perché i maestri citati nell’opera mostrano di avere
un’ottima conoscenza delle norme romane come le istituzioni, il codex, le novelle e in minor
numero del digesto. La storiografia è rimasta colpita del ricorso alle norme romane per colmare
lacune, risolvere antinomie, l’utilizzo della legge romana in funzione della comprensione e
dell’integrazione del diritto longobardo, franco e imperiale rappresenta la prima intuizione di quella
che sarà la missione storica del diritto romano e della scuola che su quel diritto fonderà una
scienza di respiro comune cioè il diritto comune che rappresenterà un patrimonio giuridico
condiviso e di indiscussa autorità.
Una seconda testimonianza del ricorso alle fonti giustinianee sono rappresentate da alcune
contese giudiziarie registrate nella seconda metà dell’XI secolo, la più nota è quella risalente al
Placito di Marturi del 1076. Davanti al missus della marchesa Beatrice di Canossa, la cui famiglia
controlla un vasto territorio dalla Toscana alla pianura padana, si svolge un processo che oppone il
monastero di San Michele in Castello al fiorentino Sigizone. Gli oggetto della disputa sono dei beni
e la chiesa di Sant’Andrea presso il castello di Papaiano, questi beni erano stati concessi
ottant’anni prima al monastero dal marchese Ugo di Toscana ma in seguito erano stati usurpati
illecitamente dal marchese Bonifacio. Il sopruso era stato spesso denunciato dal monastero presso i
giudici che operavano per i Canossa, senza che però questi svolgessero degli accertamenti sul
caso. Questi ricorsi furono allegati per contrastare la difesa di Sigizone, il quale riteneva di essere
protetto dall’usucapione. L’avvocato Giovanni che è il difensore del monastero sa di poter
contare sull’interruzione della prescrizione quarantennale grazie a delle prove documentali e
testimoniali rafforzati dal giuramento, che attestano gli avvenuti e che dovrebbero prevalere sul
possesso in buona fede di Sigizone. Nel proc esso germanico, il giudice decide in base alle prove
ammesse e dedotte in giudizio e ne dichiara la validità ai fini della prevalenza delle ragioni
dell’una o dell’altra parte ma in questo caso succede qualcosa di diverso, in quanto il giudice
Nordilo passa oltre le prove addotte dell’avvocato Giovanni e cita un frammento di Ulpiano che si
trova nel Digesto dove si tratta la restitutio ad integrum concessa dal pretore anche dopo i termini
consentiti nel caso in cui il ritardo sia dovuto all’assenza di giudici o alla loro inazione. Il giudice
preferisce quindi fondare la sua sentenza a favore del monastero sulla restitutio ad integrum. I
giudici dei Canossa prima avevano sempre riconfermato le norme della tradizione germanica
come possiamo notare nel placito di Garfagnolo (1098) che affidò gli esiti di una rivendicazione
patrimoniale tra il moanstero di San Prospero e una comunità della valle del Secchia. Nordilo,
sceglierà il passo del Digesto per affermare una regola generale cioè non è possibile essere privato
dei propri diritti in caso di dinegata giustizia: il rimedio della restitutio ad integrum, del ripristino della
situazione giuridica precedente al sopruso in oggetto, prevale sopra ogni considerazione, e si
afferma come principio di ampia portata rispetto alle prove messe al tavolo dal reclamante.
All’interno del Placito di Marturi troveremo una figura chiave per la scuola giuridica di bologna
(anche se non si ha la certezza sia lo stesso soggetto) Pepo legis doctor.
1) il transito da Bologna dei libri legales, aggiuntivi dopo il collasso delle fantomatiche sedi
scolastiche altomedievali di Roma e di Ravenna, la cui esistenza è destituita di credibilità;
2) L'incontro del dominus Irnerio con i libri dell'antica sapienza giuridica mana, ai quali si accostò
con l'armamentario culturale di un maestro di arti liberali e li studiò e cominciò a farne oggetto di
insegnamento, regalando a Bologna per almeno un secolo il primato di culla degli studi giuridici.
Il nome con cui lui stesso si sottoscrive è Wernerius, mentre la variante Yrne rius è attestata dai
manoscritti solo nei decenni successivi alla morte. Le uniche date della sua vita da ritenere sicure
sono legate a 14 documenti che lo vedono partecipare a rilevanti vicende giudiziarie e
diplomatiche della seconda decade del 1100: due placiti fra il 1112 e il 1113 in veste di causidicus
(procuratore legale); ben 11 fra il 1116 e il 1118 in qualità di iudex Bononiensis (giudice bolognese);
la notizia della sua presenza a Roma all'elezione dell'antipapa Gregorio VIII nel marzo 1118; la
scomunica fulminata contro di lui nel 1119 dal Concilio di Reims per avere insieme ad altri giuristi
argomentato la legittimità dell'elezione dell'antipapa. Un placito del 1125 che lo vedeva avvocato
del Monastero di San Benedetto di Polirone è stato di recentemente sospettato di dubbia
autenticità. La nascita di Irnerio può essere presunta nell'ultimo quarto del secolo XI e la scomparsa
intorno alla fine degli anni 10 del 1100. Di recente è riemersa tradizione documentale deponente
per l'origine teutonica di Irnerio: tradizione che contrasta con la ricorrente qualifica di bononiensis e
de Bononia che si accompagna al suo nome nei placiti, ma che spiegherebbe la fiducia riposta in
lui dall'Imperatore Enrico V. La cittadinanza e il radicamento di Irnerio nel capoluogo emiliano sono
indiscutibili. I placiti e le altre testimonianze documentarie appurano un legame del giurista con i
territori appartenuti o governati dalla contessa Matilde di Canossa. Inoltre, Irnerio accompagna
l'Imperatore Enrico V nella sua discesa in Italia fra il 1116 e il 1118. In quell'occasione Enrico mirava
a riprendere possesso dell'eredità matildica come superiore feudale e parente più prossimo in
mancanza di eredi diretti. Una vicinanza politica, questa di Irnerio con l'imperatore nel decennio
caldo della Riforma Gregoriana che precedette il Concordato di Worms confermata da una delle
più celebri glosse irneriane. Nella breve nota a margine di una parola contenuta in una
costituzione del Codice di Giustiniano, glossa, si dicono passati dal popolo al sovrano tramite la lex
regia de maiestatei i poteri di governo. Proprio le molte glosse recanti la sigla di Irnerio, spesso
rielaborate. Deposto è la paternità irneriana di una serie di opere a lui attribuite ma appartenenti al
mezzo secolo successivo: la Summa Codicis, le Quaestiones de iuris subtilitatibus, il Formularium
tabellionum. Il profilo intellettuale di Irnerio è quello di un uomo di buona cultura del suo tempo,
formatosi nelle arti liberali: una formazione che includeva anche un’introduzione ai processi
argomentativi (dialettica) ed espositivi (retorica) del ragionamento giuridico. Con questo
essenziale strumentario la lucerna iuris accostò i manoscritti della compilazione giustinianea, che a
Bologna erano giunti e circolavano separatim (separatamente), in un disordine di contenuti.
Imprescindibile su questo punto nodale un notissimo passo dello storico/cronista Burcardo di
Biberach, secondo il quale Irnerio “rinnovò", su richiesta della contessa Matilde di Canossa, i libri
delle leggi, che fino ad allora erano stati abbandonati. Li ripartì sistematicamente l'imperatore
Giustiniano di “divina memoria", solo aggiungendovi a tratti qualche parola laddove necessario.
Emergono dalla cronaca le innovative finalità dell'attenzione e dell'applicazione dedicate da
Irnerio ai libri giuridici, rispetto a quelle dei suoi predecessori:
Una specie di edizione critica del complesso giustinianeo cui Irnerio si accinse su esortazione della
contessa Matilde, in conformità e sfruttando la sua formazione in artibus e la sua vocazione
filologica. Formazione e vocazione che vennero messe al servizio della iuris civilis sapientia, nei
secoli altomedievali ancella di dialettica e di retorica e da ora grazie a Irnerio branca autonoma
del sapere, divulgata nelle scuole che spontaneamente e 'privatamente' sorsero in Bologna.
Un obiettivo cui erano totalmente estranee pulsioni erudite, ma che mirava a uniformare le
marcate specificità originarie di Codice, Digesto, Istituzioni, Novelle, nell'identità di genere di uno
ius commune dotato di universale vigenza per legittimazione imperiale (ratione Imperii). Dotato di
universale e coincidente giurisdizione per legittimazione pontificia sarà il parallelo corpo del diritto
canonico. Percependo la compilazione giustinianea come unitaria, furono proprio i legum
doctores della prima stagione bolognese a rinominarla Corpus Iuris Civilis e imporvi una nuova
architettura, destinata a perpetuarsi per tutto il medioevo e l'età moderna. Il complesso del diritto
civile si articola materialmente in cinque volumi, i primi tre occupati dalla partizione dei cinquanta
libri del Digesto in 1) Digestum vetus (libri 1-24); 2) Infortiatum (libri 25-38); 3) Digestum novum (libri
39-50). Seguivano al quarto posto il Codex Iustinianus, comprendente peraltro solo i primi nove libri
e, al quinto, il Volumen, miscellanea nel quale vennero fatti confluire i libri dal 9 al 12 del Codex, i
quattro libri delle Institutiones, le Novellae di Giustiniano nella redazione dell'Authenticum, secondo
la tradizione individuata dallo stesso Irnerio come la versione integrale e più attendibile della
legislazione novellare dell'imperatore bizantino. Tale redistribuzione, risponde più probabilmente a
concrete esigenze dell’attività didattica su di essi avviata nella stagione irneriana, una didattica
che aveva individuato nel Digesto Vecchio e nel Codice i primi strumenti per la formazione degli
aspiranti giuristi. Essi costituirono i libri legales, ai quali dalla fine del 1100 i dottori bolognesi
aggiunsero anche il testo delle consuetudini feudali raccolte nei Libri Feudorum, in quanto
settoriale espressione legislativa dell'Impero medievale. Il Corpus Iuris Civilis, immutabile nella littera,
cioè nella definizione testuale, nacque a nuova vita e fu rigenerato dalla scienza giuridica. Una
scienza che sino a tutto il 1200 si identificò con il metodo della glossa, che attraverso
l'interpretazione letterale manteneva i contenuti precettivi del complesso normativo giustinianeo in
stretta aderenza con le istanze dei tempi nuovi. Con le glossae si gettarono le fondamenta di un
diritto che poté dirsi comune' perché di universale vigenza entro i confini del Sacro Romano
Impero. Nell'Europa del diritto comune esso era destinato a convivere con gli ordinamenti giuridici
particolari facenti capo a singole realtà territoriali (įura propria) e con i diritti di status personali (iura
specialia). Le modalità di una tale convivenza, protrattasi fino a tutto il XVIII secolo, furono
rappresentate da Francesco Calasso (storico del diritto italiano) in forma di sistema: «il sistema del
diritto comune».
1) la continuatio titulorum, esplicitante il nesso contenutistico fra i titoli in sequenza nelle singole
parti della compilazione giustinianea;
2) la summa, che riassume con intento di sintesi il contenuto di una singola lex per allargarsi ad
abbracciare interi titoli e intere parti del Corpus;
5) la solutio contrariorum, composizione delle apparenti antitesi fra le enunciazioni legislative con
l'obiettivo di acclarare l'armonia e la compattezza del complesso giustinianeo;
6) il casus, consistente nell’individuazione della fattispecie regolata dalle antiche leggi, con il fine di
tracciare la giurisdizione fattuale di ogni singola norma e le sue possibili pratiche applicazioni
estensive, pur rimanendo all'interno dei confini rigidi della littera del testo normativo;
7) la quaestio, in stretto rapporto dialettico con il testo normativo, che si presenta fino alla metà e
oltre dell’XII secolo nella forma di quaestio legitima, discussa cioè muovendo dagli interrogativi
sollevati dalle fonti stesse.
La scientia iuris si consolidò e circolò nella stagione della glossa attraverso l'esegesi sviluppata in
scuole legate alla vita e alla fama raggiunte da quattro generazioni di legum doctores che si
avvicendarono fino agli anni 20/30 del 1200, prevalentemente in Bologna. Si trattò di un fenomeno
corale e di genere, nel quale a fatica si precisano dati biografici, paternità e filiazioni scientifiche.
Ricerche di Ennio Cortese e di André Gouron hanno evidenziato come per tutta la seconda metà
del 1100 alcune scuole di glossatori mantennero vivaci legami con la cultura e l'insegnamento
delle arti liberali del trivio. Esempio: il caso di Rogerio, formatosi a Bologna, quindi docente di diritto.
Le testimonianze indicano Piacenza e Mantova per l'Italia, Arles, Aix en Provence, Saint Gilles,
Avignone e, Montpellier per la Provenza. Realtà che la storiografia ha accomunate con la
definizione di minori rispetto al paradigma bolognese, collegate alle locali sedi vescovili e
deputate alla formazione del clero. A Rogerio è attribuita un’opera di stile retorico-grammaticale
dal titolo Enodationes quaestionum super Codice, che sviluppa una selezione di questiones
legitimae incentrate sui passi del Codice di Giustiniano e l'embrione di una Summa al Codice che,
il Piacentino avrebbe inglobato nel corpo della sua più celebre silloge sempre del Codex. Si può
affermare che l'ampio ricorso al genere letterario della summa rappresenti uno dei tratti tipici di
questa didattica extra-bolognese. Una didattica finalizzata a impartire una formazione giuridica
non specialistica, preferiti per le dimensioni e l'esaustività dei contenuti, il Codice e le Istituzioni. Un
genere al quale appartengono l’anonima Summa Codicis Trecensis (cosiddetta dalla biblioteca di
Troyes ove è conservata), attribuita dal suo editore ottocentesco al grande Irnerio e ora emigrata
verso la Provenza e posticipata di un buon quarantennio rispetto agli estremi biografici della
lucerna iuris, nonché il Liber Pauperum del misterioso dominus lombardo Vacario. Si tratta di
un'agile sintesi di principi romanistici tratti dal Codice e dal Digesto che il proemio dichiara
composta per sovvenire gli scolari meno abbienti, impossibilitati a sostenere il costo elevato
dell'intero Corpus: l’opera è riconducibile agli anni 70 del 1100, ma geograficamente collocata
nelle scuole canonistiche anglo-normanne - la celebre Oxford. Alla vivace realtà della Francia
meridionale si è ora inclini a ricondurre anche le Quaestiones de iuris subtilitatibus: una breve
raccolta di dotte questioni legitimae scaturite dall'interpretazione delle leggi romane, attribuita a
Irnerio e poi a Piacentino. Allo stile fiorito di quest'ultimo il Sermo de legibus, mescola versi e prosa,
ben si addice il ricorso all'allegoria del templum iustitiae che introduce la discussione delle
questiones, un vezzo letterario che il medesimo giurista utilizza anche in un altro breve trattato
sull'iter processuale composto Cum essem Mantue, negli anni del suo insegnamento mantovano.
Scuole dell'Italia centro-settentrionale trovano la migliore esemplificazione in Modena dove tra il
1175 e il 1182 si trasferì il giovane Pillio da Medicina, fino ad allora docente di leggi in Bologna. Le
motivazioni del trasferimento furono legate ai rapporti, in quel momento difficili, fra i legum
doctores e il comune felsineo. Si aveva un'offerta didattica diversificata rispetto a quella praticata
nella Alma Mater. Un'offerta professionalizzante che trovò la sua espressione più originale nel
Libellus disputatorius, una monumentale raccolta di brocardi mnemonici tratti dal Codice e dal
Digesto di Giustiniano che Pillio propose dalla cattedra modenese in alternativa alla lettura e allo
dell'intero Corpus Iuris Civilis, con l'obiettivo di accelerare il percorso di studio quanti intendevano
indirizzarsi verso le professioni legali. Un percorso formativo al quale appartengono anche le altre
opere pilliane: una summa processualistica dal titolo Cum essem Mutine e una ai Tres Libri del
Codice, di argomento pubblicistico e disertati nelle aule bolognesi come i Libri Feudorum, che
Pillio, cogliendone l’importanza fece oggetto di insegnamento.
Nel frattempo dalle cattedre bolognesi si propagava il messaggio di una cultura nuova delle
norme romane. La lettura magistrale del corpus giustinianeo, incentrata sull'interpretazione
letterale, tocca punte di estrema raffinatezza ed esplode in una miriade di glosse, sempre più di
frequente organizzate in delle compilazioni. Apparati che nella spontaneità della trasmissione orale
si sedimentano e si stratificano sui margini dei manoscritti giuridici, molto spesso fondendosi gli uni
con gli altri in un processo costante di aggiornamento permanente. È il trionfo dei legistae (legisti).
A) LA GLOSSA ORDINARIA
All'aprirsi del Duecento Bologna appare ancora il tempio dell'esegesi letterale del corpus
giustinianeo e della glossa: un'attitudine rigorosa e un monopolio nella didattica che
cominciavano peraltro a essere insidiati da diverse e fortunate esperienze. Già dalla metà del
secolo precedente alla primaria modalità di insegnamento incentrata sul legere, sulla lettura del
testo al quale il legum doctor ancorava le sue glosse, si affiancò la discussione di questiones
legitimae, volte a di panare percorsi argomentativi che dall'interno della compilazione giustinianea
conducevano al disciplinamento di un casus legis, dalla legge contemplato. Ne scaturì una messe
di dotti materiali didattici tendenti a condurre i discenti verso una capillare conoscenza
dell'architettura e dei percorsi dei libri legales, una conoscenza che riposava sulla certezza che la
risposta all'interrogativo teorico proposto dal dominus alla riflessione della sua classe fosse solo e
solamente quella indicata dalle antiche leggi di Giustiniano. Ricca testimonianza in merito alla
soluzione di casi disciplinati in prevalenza da costituzioni del Codex Iustinianus. Analoghi obiettivi di
una compiuta esegesi testuale dell'antica normativa perseguirono i celebri casus sintetizzati nella
seconda metà da Accursio e da Tosco al fine di illustrare il fatto sul quale il legislatore romano
aveva espresso un giudizio e formulato una risposta normativa: essi divennero una parte integrante
della Glossa Ordinaria di Accursio al Corpus luris Coulis.
Ma i fatti della vita si presentavano anche per altro tramite all'attenzione del glossatore, poiché
sempre maggiori situazioni giuridicamente rilevanti esulavano dalla previsione e quindi dalla
normativa contenuta nella compilazione di Giustiniano: si pensi alle nuove questioni dell'ambiente
cittadino politicamente organizzato in comune e a quelle scaturenti dai rapporti feudali. Spettava
al giurista/interprete compiere l'operazione di raccordo fra le norme antiche e i fatti nuovi
avvalendosi di tutte le possibilità argomentative esplicitamente o implicitamente contenute nella
littera del Corpus Iuris Civilis. Il casus generava la quaestio e si trattava di quaestio de fado o ex
facto emergens (scaturente cioè da una concreta situazione del presente e bisognosa di
disciplinamento). La differenziazione del casus legis (sfera della certezza), e dalla quaestie (sfera
della probabilità), recava con sé anche una diversa collocazione delle due species scientifiche
nell'ambito dell'attività didattica dei legum doctores della Scuola dei Glossatori. Il casus era
attratto all'interno della lezione accademica e sviluppato nell'ambito della lettura del testo
Giustiniano come parte integrante di esso mentre le quaestiones si mostrarono strumento più
duttile. Discusse in spazi della didattica destinati alla disputa pubblica e solenne, esse fornivano
agli studenti un esercizio di logica argomentativa che riproduceva l’andamento dialettico del
processo e metteva in osmotico rapporto la rigida precettistica de monumenti giustinianei con le
varianti fattuali del divenire storico. Sui margini dei manoscritti dei libri legales, tra le glosse
magistrali riportate dalla penna di anonimi studenti trova spazio anche una moltitudine di
quaestiones disputate nelle scuole e generate da fatti emergentes.
Ulteriore segnale di una mutata attitudine dei dottori di legge si coglie nel recupero del genere
letterario delle summae, nei decenni precedenti il Duecento. Le due più compiute sintesi al Codice
e alle Istituzioni di Giustiniano provengono all'aprirsi del secolo dalla fucina bolognese e dal genio
di Azzone. Non è un caso che proprio Azzone, nella Summa al Codex, esprima insofferenza nei
confronti dello stratificarsi intorno ai libri legali dei materiali esegetici prodotti dalle generazioni di
maestri avvicendatisi a Irnerio. Analogo scontento palesa Pillio da Medicina tentando di lanciare
dalla vicina Modena con il suo Libellus disputatorius un nuovo modello didattico affidato a formule
mnemoniche e destinato a coinvolgere nella trama della formazione giuridica accademica
anche il versante del diritto feudale. In questo contesto matura la lucida percezione del fiorentino
Accursio allievo di Azzone e a sua volta acclamato maestro di diritto dell'esigenza di omogenicità
e di univocità che proveniva dalle aule scolastiche come da quelle giudiziarie. Il patrimonio
interpretativo aveva provveduto ad aggiornare e vivificare l'antico diritto imperiale mantenendolo
'in presa diretta' e ancorato ai tempi nuovi, ma la sua ricchezza, testimoniata da opinioni magistrali
divergenti quando non conflittuali, rischiava di comprometterne l'efficacia sia sul piano della
didattica sia su quello concreto della pratica giudiziaria, entrambe bisognose almeno di univocità
se non di certezze. L'impegno fu immane: le glosse rifluite nei suoi apparati al Corpus Iuris Civilis
sono all'incirca 97.000 mentre è impossibile determinare l'entità dei materiali scartati dal maestro.
Ad agevolargli il compito prevede la fruizione dell'autorevole e robusta tradizione di cui era erede.
Studi recenti hanno dimostrato come gli apparati di quest'ultimo possano ben dirsi una prima
redazione di quelli accursiani: fra il 1228 e il 1230 ne sorti un corredo interpretativo delle leggi di
Giustiniano selezionato e ragionato. Accursio, padroneggiandolo con personali contributi
esegetici, immise nei circuiti della scuola e del foro una serie di apparati tanto chiari nel dettato
quanto esaustivi nei contenuti: essi ebbero una fortuna rapida e immensa, battezzati come
apparati 'ordinari' e come Magna Glossa al Corpus di Giustiniano. La Magna Glossa si impose sulla
fluida tradizione esegetica delle scuole dei glossatori, condannando all'oblio le tesi che Accursio
non aveva condiviso e inserito nella sua selezione. Trascritta sulla cornice esterna delle pagine.
manoscritte dei testi giustinianei, quindi stampata dalla prima edizione del 1468, essa si impose per
secoli come l'interpretazione corrente del complesso normativo civilistico, la sola capace di
certificarne i contenuti a fine scolastici e per l’applicazione in sede giudiziaria, strumento ius
comune nato nelle scuole di Bologna.
Il Corpus Iuris Civilis corredato dagli apparati accursiani segue la scansione in 5 volumi inaugurata
nella stagione di Irnerio: il Codex, il Digestum vetus, l'infortiatum, il Digestum novum. Nel Volumen
confluirono gli ultimi 3 libri del Codex, i 4 delle Institutiones, le Novelle di Giustiniano nella redazione
dell'Authenticum e i Libri Feudorum. Per il corredo di glosse, Accursio riprodusse fedelmente la
dottrina specialistica di Pillio da Medicina.
A) IL DECRETUM DI GRAZIANO
Il riformismo gregoriano e la lotta per le investiture connotarono la storia politica e giuridica della
Chiesa cattolica e delle sue istituzioni nel giro di un cinquantennio che toccò il suo apice nel
Concordato di Worms siglato dall'Imperatore Enrico V e da Papa Callisto II. Questa rivoluzione
papale' segnò in Occidente l'autonomia della giurisdizione spirituale e gettò le fondamenta della
dimensione ordinamentale della res publica cristiana. Un ordinamento politico e giuridico
'riformato', le cui gerarchie sollecitarono la produzione di un potente complesso normativo che
andò crescendo fino agli inizi del XIV secolo, accompagnato, al pari del versante delle leges
giustinianee. Un diritto e una scienza che si modellarono sui monumenti di Giustiniano da poco
riscoperti, mentre dai glossatori civilisti mutuarono il criterio dell'interpretazione letterale. Ai dottori di
leggi i canonisti erano uniti dalla salda convinzione che al giurista/interprete competesse di
conciliare, concordare le fonti normative con le mutevoli istanze del presente, in un processo di
costante adeguamento del vecchio al nuovo. Esempio di riformismo gregoriano fu la Concordia
discordantium canonum di Graziano, che sin dal titolo dichiara la volontà di conciliazione fra le
due supreme giurisdizioni da poco espressa a livello politico dal Concordato. Questa compilazione
di dottrina e di normativa rappresentò per la storia dell’istituzione ecclesiale una drastica svolta,
ossia la teologia e l'ecclesiologia occidentali assunsero una definita connotazione giuridica.
L'opera grazianea è stata descritta come «il primo sistema giuridico moderno»: vale a dire la prima
trattazione sistematica del complesso normativo canonistico, diretta a disciplinare l'organizzazione
della Chiesa, a ribadire la sua autonomia sul versante spirituale, a definire le sue relazioni con il
potere secolare, a circostanziare lo stato e la condotta del clero. La biografia di Graziano è
incerta, forse è nato fra Orvieto e Chiusi intorno alla fine dell'XI secolo, monaco camaldolese, negli
anni 1130-1140 fu attivo a Bologna, nel capoluogo felsineo acquisì la formazione e il titolo di
magister di arti liberali, compose la sua opera e tenne scuola. L'unica testimonianza diretta della
sua vita è un documento notarile del 1143 nella cattedrale di San Marco in Venezia, Graziano è
chiamato dal Legato Apostolico di Papa Innocenzo II a rendere un parere in materia di tassazioni
ecclesiastiche. Viene paragonato lo sforzo compilatorio di Graziano a quello di Irnerio,
evidenziando in un noto passo le analogie del modus operandi dei due maestri.
Mutatis mutandis, i materiali raccolti e ordinati dal sommo canonista afferiscono sia alla tradizione
del Vecchio e del Nuovo Testamento (legge divina), sia alla normativa espressa a partire dall'Età
Tardo Antica dalle assemblee conciliari dei vescovi (canones in senso stretto) e dai romani
pontefici (decretales). All'individuazione delle fonti contribuirono le collezioni maturate nella
stagione della Riforma, come quella di Anselmo da Lucca e di Ivo di Chartres.
Il Decretum non ebbe carattere ufficiale e non venne mai promulgato o riconosciuto come 'legge
dai pontefici, rimanendo opera privata e acquisendo autorevolezza e autorità dal suo pronto
radicamento circuito scolastico per la formazione del clero e nelle sedi della giustizia ecclesiastica.
L’opera composta da tre sezioni disciplinanti le gerarchie della Chiesa, il processo canonico e le
modalità di somministrazione dei sacramenti. A Graziano sono da ricondurre i dicta (brevi
annotazioni di raccordo fra i canoni= ossia i singoli precetti contenuti nella silloge). Attraverso i
dicta si concretizza l'ambizioso intento di conciliazione e di razionalizzazione. Un intento di
armonizzazione attraverso la metodica applicazione di quattro generali regole di concordanza fra
le norme giuridiche: la prevalenza della legge nuova sulla vecchia (ratio temporis), della locale
sulla universale (ratio loci), della speciale sulla generale in quanto eccezione e in quanto
delimitazione di contenuto.
Il Decreto di Graziano gettò le fondamenta di un ordine nuovo per il diritto della Chiesa e aprì le
porte a un cinquantennio caratterizzato da una produzione di collezioni di canoni di glosse e di
apparati di glosse, di summae, casus, notabilia, ecc. Una produzione che ricalcava nelle forme i
generi dell'interpretazione letterale elaborati nelle scuole civilistiche e che venne definita
decretistica. La scienza giuridica decretistica, mutuando il metodo e le manifestazioni espressive
raggiunse una dimensione e una diffusione universale, era la giurisdizione della Chiesa di Roma. I
risultati furono di alto livello, da singoli apparati di glosse alla Glossa destinata a divenire 'Ordinaria',
ossia l'interpretazione letterale più accreditata e ufficiosa del testo grazianeo. Gli apparati di glosse
rimasero un'espressione minore della scienza dei canoni, che brillò per le mirabili summae al
Decreto. Le fonti canonistiche parlavano la lingua della contemporaneità e necessitavano in
misura inferiore rispetto agli antichi monumenti giustinianei di un'interpretazione letterale del testo.
Assai più funzionali alle esigenze della didattica apparivano le opere di sintesi e di sistema. Di
ambito bolognese la più risalente si deve a Paucapalea, il vero modello di questo genere che
fondeva obiettivi riassuntivi, sistematici ed esegetici e che ebbe grande influenza sulle successive
esposizioni di Stefano Tornacense, di Giovanni da Faenza, di Uguccione da Pisa. La Summa di
quest'ultimo, costituisce il punto più alto di questa prima stagione della canonistica bolognese.
A) IL COMUNE CITTADINO
Dal secolo XII si avviarono in Europa i processi costruttivi dei due diritti universali dell'Impero e della
Chiesa, consolidati nei grandi corpi Iuris Civilis e Iuris Canonici, accompagnati dall’indispensabile
mediazione della sapienza giuridica dei glossatori, designati dall’endiadi utrumque ius. All’unità
dell’utrumque ius (o diritto comune) si accompagnavano le istituzioni territoriali antiche e nuove
(iuta propria) tutte soggette a itinerari evolutivi.
Negli stessi decenni in cui la Chiesa imboccava la strada della Riforma e si palesavano suggestive
testimonianze di utilizzazione pratica delle leggi di Giustiniano da gran tempo disertate o
volgarizzate, l’intera società occidentale entrò in una fase di profondi mutamenti che coinvolsero i
suoi assetti economici, politico-istituzionali e giuridici.
Alla crescita demografica si accompagnò un incremento della produzione agraria. L’aumento dei
prodotti favorì lo sviluppo di intensi commerci di lunga distanza.
Fra la fine dell’11 e l’inizio del 12 secolo nacquero il Regno di Sicilia, di Francia, d’Inghilterra e di
Germania. La rinascita dei contesti urbani, che come fenomeno sociale coinvolse l’intera nostra
penisola, dove le città di fondazione romana, non erano del tutto scomparse durante l’alto
medioevo. Le modalità della rinascita furono varie.
Nell’Italia settentrionale, lo sviluppo delle istituzioni fu precoce, infatti molti centri raggiunsero la
piena capacità di governo attraverso la nomina di consoli, responsabili dell’ordine interno,
nell’amministrazione della giustizia, della difesa militare. Ogni città, anche se in maniera differente,
giunse all’istituzione del comune, ossia una modalità di organizzazione politica della città. Modalità
incardinata nel patto giurato stretto tra le classi di potere politico ed economico aspiranti a
reggere le sorti delle singole realtà urbane.
A Genova, ad esempio, dopo un periodo di contrasti tra la cittadinanza e il vescovo, si giunse a
stipulare un'associazione volontaria giurata di tutti gli abitanti (Compagna communis) con
l'elezione di consoli e la rinuncia da parte del vescovo all’esercizio della giurisdizione temporale. A
Milano il comune dei consoli - individuati da parte del vescovo in tre ceti cioè quello dei capitanei
(feudatari maggiori), dei valvassori (feudatari minori), dei cives (artigiani e mercanti) - cominciò a
operare dal 1130. A Bologna l'atto di nascita del Comune si fa risalire alla concessione alla città nel
1116 di alcune funzioni giurisdizionali da parte dell'Imperatore Enrico V. A Venezia i poteri del dux
altomedievale furono limitati nel corso del 1100 ponendogli accanto alcuni giudici, istituendo un
Consiglio dei Savi e numerose altre magistrature, tutti retti da meticolose procedure di nomina,
competenza, funzionamento. A Firenze il comune nacque intorno agli anni 1125-1138 con
l'istituzione dei consoli, di un consiglio di boni homines e di una magistratura di provisores che
esaminava i reclami della cittadinanza.
Dall'Italia il modello del 'consolato trasmise alle città francesi della Provenza e della Linguadoca,
che erano in più stretti rapporti commerciali con il nostro Settentrione, fino a essere nel corso del
Duecento adottato da un numero crescente di realtà della Germania e delle Fiandre,
imponendosi come prevalente in Europa. Agli evidenziati denominatori della fioritura comunale nel
Regnum Italiae e cioè:
1) il patto giurato fra le componenti sociali di potere politico ed economico al fine di conseguire la
titolarità delle funzioni di governo sulla città mediante
2) la delega a un collegio di consoli dell'esercizio delle suddette funzioni si accompagnò per circa
un trentennio il confronto/scontro con l'Impero. L'indipendenza e l'autonomia di cui le città centro-
settentrionali godevano largamente già intorno alla metà del 1100 si sostanziavano nella gestione
della giustizia civile e criminale, nell'espressione di attività assimilabili a quella legislativa, nella leva
militare, nella riscossione dei tributi. Quando Federico I Barbarossa, imperatore e re d'Italia dal 1152,
cercò di ricondurre le città italiane entro la sua orbita giuridica, alla quale esse appartenevano in
linea di diritto, incontrò resistenze forti. La costituzione De regalibus («Sulle regalie»), conteneva un
dettagliato censimento dei diritti imperiali sulle persone, le città, il territorio: alla sua redazione
offrirono un apporto di tecnica competenza giuridica i 4 Dottori, allievi di Irnerio.
Gli statuti cittadini, redatti da apposite commissioni di statutari fondono in un 'libro' i filoni diversi
delle norme vigenti in città, strutturandole secondo ratione materiae a imitazione di quelle
giustinianee. Gli ambiti di intervento privilegiano il diritto criminale e la corrispondente procedura,
imbrigliando la vita dei cives in un reticolo di precetti e di sanzioni tendenti a garantire la quiete
pubblica e la pacificazione sociale.
Alla mediazione nei confronti delle autonomie locali si attennero anche le dinastie regnanti degli
Angioini e degli Aragonesi e anche le altre due corone dell'Impero, quella di Germania e francese.
F) IL REGNO DI FRANCIA
La dinastia carolingia aveva lasciato in eredità ai successori capetingi un'area di controllo
giurisdizionale contratta. La superiore dignità regia era nei fatti compressa da forti poteri territoriali
di retaggio feudale politicamente organizzati, giuridicamente caratterizzati da proprie
consuetudini, competitivi per dimensioni con la monarchia. Il processo attraverso il quale il potere
regio riuscì a irrobustirsi e ad accrescersi sino a eguagliare in estensione seguì gli itinerari della
diplomazia, delle alleanze matrimoniali, delle guerre. Fra gli strumenti di cui la monarchia si avvalse
per perseguire il proprio obiettivo, particolarmente efficace fu il rigido disciplinamento del diritto di
successione al trono sulla base del principio ereditario della primogenitura maschile, tipico ab
origine della feudalità franca. Per più di tre secoli non mancarono mai discendenti in linea diretta
che alla morte del padre salirono sul trono senza ostacoli, sviluppando così una faticosa politica di
contenimento delle aspirazioni centrifughe costantemente riproposte dalle grandi signorie
territoriali presenti nel Regno. La sovranità dei re di Francia aspirò con successo ad affermarsi non
solo verso le sottostanti gerarchie feudali, ma anche verso i due sommi poteri universali dell'Impero
e della Chiesa. Di chiara ispirazione anti-imperiale fu la richiesta rivolta dal re di Francia al
pontefice di vietare l'insegnamento del diritto romano giustinianeo presso lo Studio teologico e
filosofico di Parigi. Tale divieto, formalizzato nella decretale Super Specula, se concretamente mira
a salvaguardare i giovani chierici dalle suggestioni di una formazione in civilibus che avrebbe
potuto allontanarmi dalla vocazione spingendo verso lucrose carriere nelle professioni secolari,
idealmente contrastava e contestava la vigenza nel Regno di Francia del complesso normativo di
un Impero che si professava erede di Giustiniano. Il Papa Innocenzo III aveva espresso il principio
dell'assolutezza del re di Francia.
La monarchia francese sviluppò a sua volta rapporti con le istituzioni civili del territorio e con le loro
espressioni normative. Il Regno era diviso nelle due macro-aree dei paesi di diritto consuetudinario
(pays de droit coutu mier) e dei paesi di diritto scritto (pays de droit ecrit), rispettivamente a
settentrione e a meridione rispetto a Parigi. Nei primi, di prevalente modello giuridico innervato sulle
consuetudini germaniche, il complesso del diritto romano-giustinianeo era legge vigente come
ratio scripta, insieme di ragionevoli principi ai quali i giudici potevano conformare le proprie
decisioni. Nelle regioni meridionali di diritto scritto, influenzate dall'esperienza del vicino Regnum
Italiae, il medesimo complesso normativo era legge scritta, che in quanto diritto positivo rientra
obbligatoriamente nella rosa delle fonti da applicare in sede giudiziaria. Nelle due parti della
Francia si svilupparono esperienze non omogenee: la consuetudine giocò un ruolo fondamentale
nei pays de droit coutumier e uno ben più ridotto in quelli di droit ecrit. Nelle regioni settentrionali il
diritto cittadino ebbe espressioni diverse, con prevalenza della redazione scritta delle consuetudini
e di privilegi e di norme patteggiati con l'autorità superiore di riferimento, il re nelle regioni
appartenenti alla corona. Nei territori sottomessi a signorie l'iniziativa di singoli provvedimenti
contingenti alle esigenze di disciplinamento degli abitanti partirono dal vertice. Le coutumes, le
chartes de franchises, i privilegi, gli atours furono inglobati o fusi entro le grandi coutumes regionali
o pluriregionali, attraverso un processo di regionalizzazione che estendeva a intere aree
geografiche consuetudini nate da uno specifico contesto. Nel meridione del Regno l'attività
normativa delle città fu intensa e i relativi risultati simili agli statuti dei comuni dell'Italia
settentrionale, con i quali esse condividevano anche l'esperienza della magistratura consolare.
D) LA SCUOLA DI ORLÈAN
La ricchezza e la varietà dei fenomeni politici, economici, sociali in inarrestabile divenire e tutti
bisognosi di un disciplinamento giuridico non poteva che mettere a dura prova la capacità della
esegesi dei glossatori di ricondurre alla lettera del testo normativo giustinianeo attraverso
l'argomentazione dialettica l'universo dei fatti nuovi. Le fondamenta del nuovo canone del
commento che avrebbe puntato alla ratio delle antiche leggi, sono profonde e partono da
lontano. Nel 1235 il pontefice Gregorio IX autorizzò presso le scuole vescovili di Orléans
quell'insegnamento del diritto romano che il suo predecessore Onorio III aveva vietato a Parigi.
Intorno agli anni Quaranta si incontrano in quella sede docenti di leges, francesi e italiani.
Se si rifletta sulla collocazione geografica della città di Orléans, nel cuore dei pays de droit
coutumier in cui il diritto romano giustinianeo integrava le consuetudini, le coutumes del territorio
imperio rationis, per la superiorità dogmatica; se si rifletta anche sulla natura ecclesiastica delle
scuole orleanesi, vocate alla formazione in spiritualibus del clero, per il quale la conoscenza delle
leges costituiva un quid pluris; se si rifletta su ciò apparirà facilmente comprensibile come
l'ambiente e i dibattiti sviluppatisi fra i domini delle scuole orleanesi abbiano costituito l'incubatrice
per la gestazione di una nuova stagione della scienza giuridica europea.
A) PREMESSE
Il magistero giuridico dei dottori della prima generazione orleanese costituì un laboratorio e un
volano per una nuova modalità di interpretazione sapienzale dei monumenti dei due diritti
universali: civile e canonico. I giuristi neoterici si apprestarono a cambiare il passo della lezione
scolastica per acclarare la ratio o causa legis (=la ragione d’essere della legge). L’alternanza fra
la scienza dei glossatori e quella dei commentatori riposa in estrema sintesi nella diversità del
traguardo da cogliere, la loro ragione d’essere, all’enucleazione della quale necessitava
l’elaborazione di un nuovo mos (metodo). Con l’avvento del tredicesimo secolo la stagione delle
crociate e la Reconquista della penisola iberica avevano favorito il materiale ingresso in
Occidente del testo della Logica. La conoscenza in tutte le sue articolazioni del pensiero di
Aristotele comportò la familiarizzazione con il canone ermeneutico del sillogismo che si affiancò a
quello dialogico/dicotomico. Se il primo, ampiamente utilizzato nelle scuole dei glossatori,
poggiava sul distinguere, il secondo si snodava attraverso il quaerere. La discussione di quaestiones
tendeva all'individuazione di analogie fra postulati, nel nostro caso giuridici. L'efficacia della
scientia e dell'esperienza della glossa in quanto criterio interpretativo celebrava le potenzialità del
rapporto di specificazione, riconducendo al rigido contenitore letterale del testo normativo quante
più species era in grado di contenere senza snaturarsi e mutare il suo significato. Ad ampliare la
giurisdizione di una normativa altrimenti imbrigliata dalla perentorietà immutabile della sua veste
letterale provvide l'enucleazione della causa ultima delle leggi. In quanto elemento 'primigenio',
astratto da qualsiasi contingenza, la causa o ratio legis risultava applicabile alle inedite situazioni
del presente che potessero essere assimilate alle antiche soggiacendo a un medesimo diritto.
Esempio: la veste letterale di una situazione giuridicamente rilevante contemplata e disciplinata
dalla compilazione giustinianea si presenti sotto forma di scatola. Il Glossatore è in grado di
collocare all'interno della scatola quanto essa può contenere sino al limite della sua capienza, ma
gli è materialmente impossibile andare oltre se non rischiando la rottura del contenitore. Il
Commentatore applicando il ragionamento sillogistico mira al cuore della legge antica, alla sua
intima ratio: un diverso e capientissimo contenitore cui ricondurre un’infinita casistica in base alla
regola «ubi eadem ratio, ibi idem ius» ". Moltiplicando all'infinito le scatole, il Commentatore giunge
ad amplificare la giurisdizione dei due diritti universali e a prolungarne la vigenza come iura
communia di latitudine europea ben oltre la cronologia del Medioevo.
B) LE ORIGINI
Il successo delle scuole giuridiche orleanesi fu immediato. La bolla del pontefice Gregorio IX che
aveva autorizzato l'insegnamento del diritto romano andava incontro all'esigenza di impartire ai
futuri ministri della Chiesa anche una formazione in legibus, da spendere nell'amministrazione della
giustizia come nella collaborazione con le gerarchie di vertice di entrambi i poteri. A favorire
l'approccio interpretativo più duttile e creativo dei legum doctores d'Oltralpe rispetto al tecnicismo
del coevo modello bolognese contribuì il contesto: la dimensione di un magistero rivolto a
ecclesiastici che si dipanava fisiologicamente attraverso gli itinerari formativi della teologia e delle
arti liberali. Sulle prime cattedre orleanesi sedettero giuristi addottorati presso lo Studio felsineo:
come Guido de Cumis e Pietro Peregrossi. La gemmazione transalpina dei moduli scientifici e
didattici della scuola dei glossatori assunse tratti peculiari, ma solo in parte nuovi. Tratti che in parte
rinverdivano generi letterari praticati nella lunga stagione preaccursiana: i modus arguendi in iure, i
loci loicales, i notabilia, i brocarda. Tutte specificazioni del genus 'glossa' aventi la finalità di
spremere dalle norme principi e criteri di collegamento, dotati di evidente valenza sistematica e di
indubbia utilità ai fini della loro comprensione e del loro apprendimento. A compiere il passo
definitivo nel fissare le coordinate del percorso ermeneutico finalizzato all’enucleazione delle
rationes legum fu la terza generazione dei dottori orleanesi. Un percorso racchiuso entro i confini
letterari del commento e che trovò i suoi primi campioni in Jacques de Revigny e in Pierre de
Belleperche. Loro frequentarono a distanza di un decennio le medesime scuole e seguirono lo
stesso cursus honorum, che portò entrambi dall'esercizio del magistero didattico nella nativa
Orléans ai vertici delle gerarchie ecclesiastiche, a prestigiose collaborazioni con i re di Francia. La
loro produzione scientifica fu simile nei tratti caratterizzanti il nuovo genere esegetico: loro scrissero
maestose lecturae all'intero corpus iuris civilis. Secondo una veste redazionale l'aggancio alla
compilazione era espresso attraverso il lemma, ossia la prima parola del frammento normativo, cui
seguiva l'esegesi interamente opera d'autore. Il percorso interpretativo di questi antesignani
maestri del commento utilizzava i criteri del ragionamento sillogistico da poco attualizzati dai filosofi
scolastici (es. San Tommaso), ma nelle loro dense pagine si succedevano quaestiones, distinctiones
e repetitiones. Generi in auge sin dalla stagione preaccursiana che assumono nella declinazione
orleanese una valenza fortemente teorica e sistematizzante, funzionale ad astrarre dalle leggi
romane astratte rationes fungibili al di fuori dei loro confini. Esempio: frammento di un Dictionarium
Iuris attribuito a Jacques de Revigny, che rinverdiva il genere enciclopedico caro ai maestri di arti
liberali di età preirneriana nella specie originale di un lessico di astratte figure giuridiche. Il declino
della scienza dei glossatori e il progredire del nuovo metodo interpretativo trovano uno specchio in
due ripetizioni rimaste celebri: la prima vede un giovane Jacques de Revigny, non ancora
laureato, mettere a dura prova le 'invecchiate' argomentazioni di Francesco, chiamato a tenere
una repetitio magistrale nelle scuole orleanesi. Nella seconda è Pierre de Belleperche, a
infiammare gli studenti bolognesi convenuti in Piazza Santo Stefano per ascoltarne la lezione in
occasione di una sua visita in Italia. Fra quegli studenti c’era Cino Sighibuldi da Pistoia, fu per lui
l'unica occasione d’incontro con colui che avrebbe definito il suo dominus.
Nel corso del tardo Duecento alcuni maestri italiani pur aderendo agli apparati ordinari di Accursio
e leggendoli in scuola vi affiancavano additiones, vale a dire approfondimenti che muovevano
dalla Glossa per ampliarne la capacità espansiva riconducendovi casistica e figure di diritto
nuove. Le lecturae per viam additionum agli apparati del Corpus Iuris Civilis rappresentano un
genere letterario di manifesta transizione tra la glossa e il commento e in esse si cimentò con buon
esito lo stesso Cino. Se la formazione di Cino da Pistoia si perfezionò a Bologna, ma insegnò a
Napoli e a Siena, però la sua carriera termina a Perugia. Egli promulga la formula dell'esegesi dei
libri legali: il suo elegante e dotto commentario al Codice di Giustiniano e alla prima parte del
Digesto dipana la matassa del testo normativo attraverso cinque scanditi momenti. La lezione
segue un ordine: la legge viene divisa nelle parti che la compongono, poi si procede a
individuarne il casus (la concreta fattispecie sottesa), quindi a sottolineare nel testo i punti nodali e
infine a formulare opposizioni e interrogativi volti a saggiare la solidità dell'itinerario interpretativo
(commento), con l'obiettivo di cogliere l'intima e astratta ratio della legge in oggetto.
1-L’UMANESIMO GIURIDICO
Nel De verborum significatione si propone un chiaro programma, infatti già il titolo del digesto
De verborum significatione attirava un giurista umanista. Alciato fra il 1520 e il 1530 lo fece
oggetto di studio, redasse inizialmente un commentario secondo i modi tradizionali ma si
convinse quasi subito che era necessario un trattato specifico che sviluppasse i problemi
dell’ermeneutica con riguardo alle esigenze della scienza giuridica. Prima di lui mai nessuno si
era cimentato su quest’opera tranne Bartolomeo da Verona (che in realtà era Bartolomeo
Cipolla) ma affermava di non aver trovato nemmeno la sua opera vista la sua insignificanza,
anche se ciò non era vero in quanto Bartolomeo non era insignificante anzi.
La necessità di resecare tanta librorum multitudo (tagliare una cosi vasta moltitudine di opere)
era sostenuta anche da un altro giurista Italiano cioè Giovanni Nevizzano (1485ca-1540) il quale
proponeva l’integrazione del Corpus Iuris con un testo che risolvesse le controversie. La sua più
affascinante opera fu Sylva nuptialis (1524) dove possiamo trovare le nozioni concernenti il
matrimonio provenienti dai saperi più disparati integrando e organizzando entro schemi
dialettici le culture dotte con quelle popolari. Possono essere nominati altri giuristi italiani legati
all’Umanesimo giuridico come Guido Panciroli (1523-1599) che si segnalò per i suoi forti interessi
storiografici. Tuttavia, per ciò che riguarda la scienza giuridica del nostro paese rimase rilegata
alla tradizione medievale del diritto comune. Le ragioni addotte a tale fenomeno insistono
sulle istituzioni politiche particolaristiche italiane e sulla difficoltà di emersione di Stati almeno
tendenzialmente assoluti. Le istanze dell’Umanesimo giuridico, entrarono nel bagaglio di molti
giuristi italiani che pur facendo professione de fede bartolista, cureranno maggiormente il
latino, si porranno problemi filologici, si porranno problemi di inquadramento storico, si
professeranno fautori della brevitas e della chiarezza, e nemici delle sottigliezze e dei
funambolismi dialettici fini a se stessi.