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Commedia nuova

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Per commedia nuova si intende, secondo la suddivisione ideata dalla tradizione filologica alessandrina, l'ultima fase della commedia greca dopo la commedia antica e la commedia di mezzo.

Contesto storico

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Storicamente, essa coincide con l'inizio dell'età ellenistica,[1] in cui il cittadino è ridotto al rango di suddito, ininfluente dal punto di vista politico, sicché i temi della commedia si adattano alla nuova realtà, spostandosi dall'analisi dei problemi politici all'universo dell'individuo.

È, dunque, una commedia che riflette la mutazione politica in corso, in cui Atene è una città che si avvia a diventare cittadina di provincia, mancando un ruolo politico forte, mentre la gestione del potere è affidata a pochi, i kalokagathoi, formata da militari, giovani della buona società, proprietari terrieri.

I tre maggiori commediografi del "nea" sono Difilo, Filemone e Menandro, notevole fonte di ispirazione per i latini Plauto e Terenzio.

Si verifica, secondo quanto si può riscontrare soprattutto dalle commedie menandree, le uniche pervenuteci in porzioni cospicue, un indebolimento delle tecniche drammaturgiche dell'"archaia": il coro perde importanza, come già visibile nel Pluto aristofaneo, creando una divisione in cinque atti, separati da un intermezzo (embolima) in cui il coro canta e danza, senza legami fra la trama e gli intermezzi, annunciati spesso da un personaggio per mostrare l'entrata in scena dei coreuti[2].

Inoltre, manca la parabasi, quindi viene chiusa la cosiddetta “quarta parete”: se in Aristofane c'erano legami tra scena e pubblico e ipotesi dialogiche degli attori con gli spettatori (con uno spazio aperto, metateatrale[3]), nella commedia nuova viene eretto un muro e manca la partecipazione diretta allo spettacolo, sicché i personaggi vivono vicende circoscritte allo spazio scenico e rimangono distaccati.

Se il teatro di Aristofane era, per così dire, "primitivo", legato alla sua origine falloforica, Menandro risulta, invece, attentissimo all'unità temporale, bandisce musiche e danze, inserisce maschere fisse attinte da campionari di fisionomie: in effetti, i personaggi non riproducono che dei "tipi" secondo uno schema poi divenuto classico e adattato dalla commedia romana, con Plauto e Terenzio: i giovani innamorati, il vecchio scorbutico, lo schiavo astuto, il crapulone, il soldato fanfarone, l'etera, il cuoco.[4]

Il linguaggio scurrile è limitato[5] e l'attore, a quanto è dato sapere, recita in modo realistico, seppur ancora in trimetri giambici, quindi eliminando la polimetria aristofanea.

Le trame sono imperniate su vicende realistiche[6], prive di infrazioni temporali, in cui i personaggi hanno una psicologia profonda e sono caratterizzati per autonomia etica e affettiva; mancano, dunque, le invenzioni fantastiche di Aristofane. Questa innovazione si può spiegare con il fatto che ormai il pubblico sia più interessato alle tematiche private che a quelle sociali e voglia vedere rappresentato se stesso in un ambito domestico.

In effetti, la riduzione degli spazi e della partecipazione alla politica è verificabile anche dal contesto, dato che, abolito il theorikon, il contributo dato dal governo per permettere a tutti i cittadini di andare a teatro, si perde la valenza pubblica e il teatro, in generale, non è più un fenomeno di massa, ma elitario, che segue i gusti di una classe colta, educata e dotata di una certa sensibilità.

Inoltre, il protagonista non è più l'eroe comico dalle imprese straordinarie[7], ma una persona comune, rappresentata nella sfera privata, con atti minimi, mossi da motivazioni etiche: dunque, non si realizzano progetti grandiosi e il lieto fine è l'esito di un'azione difensiva contro gli imprevisti della Tύχη ("sorte") e ad esso partecipano tutti i personaggi[8].

  1. ^ Cfr., sul contesto ateniese, lo studio di M. Faraguna, Atene nell'età di Alessandro, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1992.
  2. ^ Cfr. ad esempio Menandro, Dyskolos, vv. 230-232, dov'è annunciato l'ingresso dei coreuti a sancire la fine del primo atto: "DAVO: E vedo già arrivare qui vicino / dei seguaci di Pan, un poco alticci, / e non mi pare il tempo di parlarci" (trad. A. D'Andria).
  3. ^ Cfr., ad esempio, la tirata di Diceopoli al pubblico in Acarnesi, vv. 496 ss., dove l'attore apostrofa gli ateniesi proprio chiamandoli "spettatori".
  4. ^ Sul cuoco, cfr. il classico H. Dohm, Mageiros. Die Rolle des Kochs in der griechish-römischen Komödie, Munchen 1964.
  5. ^ Pochissime attestazioni, ancora presenti nelle scene finali, ad esempio, del Dyskolos menandreo.
  6. ^ Solitamente una vicenda d'amore: la trama e l'intreccio sono unitari, con varie peripezie e un lieto fine.
  7. ^ Cfr., ad esempio il Trigeo della Pace aristofanea, un contadino, che può essere comparato al comune borghese Demea ne La donna di Samo di Menandro.
  8. ^ Cfr. G. Paduano, Uno tra i tanti: l'eroe comico di Menandro, in Menandro, Commedie, Milano, oscar Mondadori, 1980, pp. XVII-XXI.
  • G. Paduano, Uno tra i tanti: l'eroe comico di Menandro, in Menandro, Commedie, Milano, oscar Mondadori, 1980, pp. III-LV.
  • M. Faraguna, Atene nell'età di Alessandro, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1992.
  • A. A. Casanova (a cura di), MENANDRO e l'evoluzione della commedia greca, Firenze, University Press, 2015.

Voci correlate

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