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Vuoto (filosofia)

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Il termine vuoto (aggettivo e sostantivo dal latino volgare vocitus, derivante dal participio passato vacitus del verbo vacere - vuotare - dalla stessa radice del latino classico vacuus) vuole genericamente esprimere un'assoluta mancanza di una qualsiasi materia.[1]

Storia del concetto

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Filosofia antica

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L'interesse per la matematica non porta la scuola pitagorica a concepire quanto di più vicino al concetto di vuoto, lo zero (in greco antico: μηδέν?, medén, nulla, niente) ma a credere comunque nell'esistenza del vuoto che svolge un ruolo nel cosmo e nella differenziazione tra i numeri pari e dispari:

«I Pitagorici ammisero uno spazio vuoto, in cui si compirebbe la respirazione del cielo, e un altro spazio vuoto, che separerebbe le nature l’una dall’altra, formando la distinzione tra continuo e discreto; questo si troverebbe anzitutto nei numeri e separerebbe la loro natura.[2]»

Originata dall'osservazione "scientifica" della natura è la concezione degli atomisti del vuoto non solo esistente, ma rappresentante il principio ontologico degli enti: il vuoto infatti, che richiama dialetticamente il concetto di pieno, per gli atomisti rappresenta quello spazio infinito tra gli atomi che permette il loro movimento e la loro aggregazione.[3]

I primi a misurarsi con il concetto della non esistenza del vuoto sono gli eleati con la loro filosofia basata sull'essere come unica realtà. Solo l'essere può essere pensato poiché il non essere non esiste.

(EL)

«Εἰ δ' ἄγ' ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας, αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι· ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ - ,
ἡ δ' ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι, τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις.
... τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι.»

(IT)

«… Orbene io ti dirò, e tu ascolta accuratamente il discorso, quali sono le vie di ricerca che sole sono da pensare: l'una che "è" e che non è possibile che non sia, e questo è il sentiero della Persuasione (infatti segue la Verità);
l'altra che "non è" e che è necessario che non sia, e io ti dico che questo è un sentiero del tutto inaccessibile: infatti non potresti avere cognizione di ciò che non è (poiché non è possibile), né potresti esprimerlo.
... Infatti lo stesso è pensare ed essere.[4]»

La difficoltà per la mentalità antica, che permane nel pensiero parmenideo, a concepire il vuoto sembra correlarsi alla teoria sul pensiero greco arcaico di cui aveva parlato Ernst Cassirer a proposito di un'età "mitica", intesa come passaggio dal pensiero primitivo a quello razionale adulto, dove non si distingueva tra parola e cosa.[5]

Rifacendosi a Cassirer, Guido Calogero,[6] vedeva in questo atteggiamento del primo pensiero greco una "coalescenza arcaica" , una specie di fusione di linguaggio, realtà e verità. per la quale i greci avevano una visione della realtà come "spettacolo" non distinguendo dunque tra visibilità, esistenza e pensiero: solo ciò che era visibile esisteva veramente e quindi poteva essere pensato e da qui la difficoltà di pensare il non essere, il vuoto, che non è visibile e che quindi non esiste.[7]

Partendo dalla definizione di vuoto come un luogo e quindi uno spazio del tutto privo di corpi[8] Aristotele confuta le idee sull'esistenza del vuoto[9] che non è un concetto necessario, come sostenevano gli atomisti, per spiegare il movimento.

Solo una realtà piena permette il moto rotatorio mentre se esistesse il vuoto, contrariamente a quanto ci mostra la nostra comune esperienza, un corpo dovrebbe mantenere una velocità infinita poiché verrebbe a mancare ogni resistenza al suo movimento. Il vuoto infatti rende impossibile il movimento che si ha per esempio nello spostamento di un corpo poiché questo presuppone il contatto senza interruzioni tra chi muove e la cosa spostata.

Ad Aristotele si deve anche, in polemica con il meccanicismo degli atomisti, la teoria dell'horror vacui (il terrore del vuoto) che sostiene, come diranno gli alchimisti medioevali, che Natura abhorret a vacuo[10]: la Natura rifugge il vuoto ed essa stessa interviene finalisticamente a impedirne la formazione riempiendo ogni spazio.

«...ponendosi il problema filosofico del moto dei proiettili, [Aristotele] rispondeva che la causa motrice comunica la sua capacità di muovere al fluido circostante (aria, acqua ecc.), il quale a sua volta muove il soggetto mobile.»[11] La causa del movimento dei corpi quindi non era nel corpo stesso, ma nel mezzo. Un proiettile, una volta scagliato, proseguirebbe nel moto perché spinto dall'aria, che continuamente si precipita ad occupare il vuoto lasciato dal proiettile al suo passaggio.

Un corpo sarebbe quindi sempre soggetto ad una forza durante il moto e la sua velocità sarebbe direttamente proporzionale ad essa e inversamente proporzionale alla resistenza del mezzo. Ne segue che nel vuoto la resistenza sarebbe nulla e la velocità del corpo diverrebbe infinita, cioè il corpo avrebbe la caratteristica dell'ubiquità.

L'esistenza del vuoto fu affermata, in opposizione alle teorie aristoteliche, da Stratone di Lampsaco, che diresse la scuola aristotelica dal 288 a.C. al 269 a.C.. Le teorie di Stratone furono probabilmente connesse alla nascita della scienza della pneumatica, avvenuta ad opera di Ctesibio e proseguita da altri scienziati alessandrini, che studiarono la compressibilità dell'aria (Pneumatica di Filone di Bisanzio, 250 a.C.).

Essi assumevano una posizione intermedia fra i sostenitori e i critici della teoria dell'esistenza del vuoto. Per gli alessandrini non era possibile avere il vuoto in grandi volumi, ma solo vuoto disseminato tra una particella e l'altra (i latini lo chiamarono poi vacuum intermixtum) e con questo riuscivano a spiegare facilmente le proprietà di compressibilità ed elasticità dell'aria.

Nello stoicismo l'universo è concepito con la completa assenza del vuoto che invece è posto «al di fuori del cielo».[12]

Lucrezio riprende la teoria atomistica sull'esistenza del vuoto infinito come provano il movimento, la penetrabilità dei corpi e il fatto che corpi uguali per volume abbiano poi un peso diverso.[13]

Nel VI secolo Giovanni Filopono criticò la teoria aristotelica sul moto dei proiettili e mise le basi per quella che nel XIII-XIV secolo venne ripresa come teoria dell'impetus.

Secondo Filopono il moto del proiettile è dovuto all'azione di una "forza cinetica incorporea" che viene impressa al proiettile al momento del lancio (prefigurazione di ciò che oggi chiamiamo quantità di moto) e la resistenza del mezzo è ridotta a semplice componente addizionale; diventa così possibile il movimento nel vuoto.

Attorno al X-XI secolo la diatriba sul vuoto interessò gli studiosi e i commentatori arabi, che contribuirono allo sviluppo della teoria dell'impetus.

In particolare Avicenna riprese le idee di Giovanni Filopono, aggiungendovi un'importante novità: secondo Avicenna, nel vuoto la forza impressa al proiettile all'inizio del moto non si consumerebbe mai e il moto proseguirebbe all'infinito. D'altro canto il famoso commentatore aristotelico Averroè (XII secolo) si oppose a questa teoria, sostenendo che è esperienza di tutti che il moto avvenga sempre attraverso un mezzo e che ricorrere ad un'ipotetica forza incorporea significherebbe cercare la causa delle cose non nella realtà ma in un immaginario mondo astratto.

A partire dalla prima metà del XIII secolo le discussioni che animavano il mondo arabo si trasferirono di nuovo in Occidente, investendo alcune tra le più grandi menti dell'epoca (da Alberto Magno a Tommaso d'Aquino). L'approfondimento delle idee di Filopono e Avempace portò infine all'elaborazione sistematica della teoria dell'impetus, uno dei frutti più importanti della cosiddetta "scuola parigina di fisica".

Nel 1644 Cartesio pubblicò i suoi Principia Philosophiae, nei quali sostenne tra l'altro l'inesistenza del vuoto rifacendosi alla sua identificazione di estensione e sostanza corporea (res extensa). Nello stesso anno il fisico Evangelista Torricelli descrisse in una lettera l'esperienza del suo famoso barometro, eseguita l'anno precedente, in cui riuscì a dimostrare che il vuoto può esistere in natura e che l'aria ha un peso, ponendo quindi fine alle millenarie discussioni filosofiche sull'horror vacui. In quegli anni si moltiplicarono le discussioni sul vuoto tra "vacuisti" e "pienisti": lo stesso Blaise Pascal affrontò il problema secondo il metodo sperimentale galileiano, pubblicando nel 1647 uno scritto sull'argomento dove confermò l'esperienza di Torricelli. L'anno seguente diede i primi lineamenti della legge altimetrica di variazione della pressione con l'altitudine, proponendo di sfruttarla per la misura dell'altezza delle montagne.

Leibniz non esclude che in linea logica teorica si possa parlare di vuoto ma pensando alla creazione perfetta di Dio non è possibile che egli abbia lasciato delle falle vuote di materia.

Kant ritiene che l'argomento del vuoto non rientra nell'analisi razionale ma che tuttavia esso vada escluso come esistente per via sperimentale.[14]

La concezione attuale

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La speculazione filosofica seguente riterrà che il vuoto non rientri nel campo dell'indagine filosofica e lo lascerà agli studi della fisica che, reinterpretando la materia come forza e il vuoto come un campo "potenzialmente attivo", ha abbandonato del tutto l'antica concezione del vuoto. Secondo infatti la teoria quantistica dei campi il vuoto "fisico" non significa assenza di essere, il non essere degli eleati, ma è una realtà potenzialmente attiva, nel senso che è un vuoto che vive e che s'inserisce nel processo continuo della creazione e distruzione della materia.

«La vecchia idea del vuoto, che lo assimilava a puro spazio, al nulla, è essa pure cambiata. Dopo aver creato, negli anni trenta e quaranta, la teoria quantistica relativistica dei campi, i fisici cessarono di concepire il vuoto nei termini tradizionali Il vuoto, lo spazio in realtà sono fatti di particelle e antiparticelle che spontaneamente si creano e si annichilano.[15]»

  1. ^ Dizionario delle Scienze Fisiche Treccani alla voce corrispondente
  2. ^ Aristotele, Fisica, IV, 6
  3. ^ Framm. 67 A 1 Diels-Kranz
  4. ^ Parmenide, Il poema sulla natura, o Della natura; II, III (In philoctetes.free.fr)
  5. ^ E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. I, a cura di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1996
  6. ^ Primo capitolo della Storia della logica antica, ed. Laterza, Bari 1967, dedicato a "La struttura del pensiero arcaico"
  7. ^ G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 1977 (prima edizione Roma 1932)
  8. ^ Aristotele, Fisica, IV, 1, 208b 26
  9. ^ Aristotele, Fisica, IV, capp. 7-8
  10. ^ L. De-Mauri, 5000 proverbi e motti latini, Hoepli editore, 1995 p.390
  11. ^ Roberto Coggi, Filosofia della natura. Ciò che la scienza non dice, Edizioni Studio Domenicano, 1971, p.117
  12. ^ I frammenti degli stoici antichi, II, 534-546
  13. ^ Lucrezio, De rerum natura, I, 335-369
  14. ^ I. Kant, Primi principi metafisici della scienza della natura (1786)
  15. ^ Heinz Rudolf Pagels, Il codice cosmico, ed. Bollate Boringhieri, Torino 1994, cap.21, p.257

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