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Carlo Giussani

Al 2024 le opere di un autore italiano morto prima del 1954 sono di pubblico dominio in Italia. PD
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Carlo Giussani (1840 – 1900), latinista, filologo e traduttore italiano.

Letteratura romana

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  • Ai tempo suo questo metro, se pure aveva un nome, non si chiamava SaturnioFaunio. Saturnio vuol dire «antico italico», e questo nome gli fu dato più tardi quando subentrò la metrica greca, in contrapposto a questa, e diventò il nome tecnico presso i seriori grammatici. Fu detto, più raramente, anche faunio: e questo nome ha certamente origine da ciò, che Ennio scherniva il metro epico di Nevio colle parole:
    Scripsere alii rem | Versibus quos olim Faunei vatesque canebant.
    (cap. I, p. 33)
  • Ma come era fatto il verso saturnio? Un grandissimo dissenso è sorto in tempi recenti, circa al modo di spiegare il verso saturnio; e la discussione è oggi viva più che mai e più che mai importante, perché s'è allargata a considerare tutta la questione dell'origine della ritmica moderna, da una parte, e della ritmica popolare anteriore o parallela alla metrica classica. [...]. La questione è se l'antico verso italico fosse un verso quantitativo, come i metri greci che gli succedettero, o fosse invece un verso accentuativo, come i nostri versi moderni. (cap. I, p. 33)
  • [...] M. Catone soprannominava Fescennino un tal Cecilio, pel suo spirito mordace; e Ottaviano, triumviro[1], scrisse fescenninos contro Asinio Pollione, ai quali questi non osò replicare per la ragione che non est facile in eum scribere qui potest proscribere[2]. D'altra parte il petulante diverbio fescennino venne dalla campagna anche in città, o era comune alla città e alla campagna, come parte della festa nuziale; e il fescennino designò (anzi questo è il significato più comune) la licenza libertina (procax fescennina, locutio), i licenziosi carmina nuptialia, coi quali, secondo il noto costume, si festeggiavano e insieme si pigliavan di mira gli sposi. (cap. I, pp. 49-50)
  • Laberio era cavaliere romano, e come tale fu scrittore di mimi, ma non attore. Soltanto una volta, all'età di circa sessant'anni (nel 709), fu costretto da Cesare a gareggiar sulla scena, improvvisando un mimo, con Publilio Siro. La palma restò a Publilio; ma Laberio non tanto si senti ferito dalla sconfitta (che riconobbe anzi con buon garbo il valore del rivale), quanto dal disdoro inflittogli, sebbene Cesare cercasse di medicare subito la ferita assegnandogli una vistosa pensione, e porgendogli subito l'anello con cui era senz'altro rimesso nella dignità equestre. (cap. I, p. 59)
  • [Laberio] [...] è certo che i suoi mimi si sollevavano spesso al di sopra della comune volgarità nell'azione e nei concetti, come si sollevavano pel valore formale e poetico. (cap. I, p. 59)
  • Con Ennio le due forme più auguste della poesia, la tragedia e l'epopea, toccano un'altezza degna di Roma, per potenza di pensiero e bellezza formale. Anche altre forme minori, più modeste, della poesia, in particolare la satira (satura), si affermano e prendon corpo con Ennio. (cap. II, p. 88)
  • Senza Ennio non sarebbero stati né VirgilioOvidio, ma neppure la ricchezza, la magnificenza, la duttile eleganza del periodare ciceroniano. Anche l'arte della prosa fiorì per il greco senso d'arte poderosamente impiantato da Ennio fra i Romani. Il che si collega con due altri importanti aspetti dell'influsso esercitato da Ennio sulla letteratura romana; vale a dire in ordine alla metrica e alla lingua. (cap. II, p. 88)
  • Non è facile determinare bene il giudizio degli antichi intorno a Pacuvio. Cicerone una volta, e certo per momentanea esagerazione, lo chiama il maggior tragico; altrove censura la sua lingua rispetto alla latinità; Orazio lo chiama doctus poeta; Varrone rileva in lui la libertas; Lucilio trova in lui artificio e sforzo. In sufficiente accordo con questi giudizi, noi, per quanto si può giudicare dai frammenti, diremmo, che Pacuvio ha particolarmente studiata la forma per ottenere l'effetto. In questo senso è infatti doctus, ossia studioso di tecnica artistica e di artifici artistici. (cap. II, pp. 99-100)
  • Anch'egli [Pacuvio] sentì come Ennio la missione, lui straniero, di insegnar latino ai Romani, ossia di cooperare alla creazione d'un latino elevato alla dignità di forma artistica solenne e maestosa; ma si può dire che esagerò il suo compito, forzando il latino a novità di forme oltre il bisogno e la misura. (cap. II, p. 100)
  • Con Accio la tragedia raggiunse il suo massimo splendore presso i Romani. (cap. III, p. 127)
  • [...] a giudicare dai frammenti, Accio si può ben dire sublimis et acer, ma forse più acer che sublimis. Non è la magniloquenza imponente e tumida che caratterizza il tragico stile di Accio (ciò che troviamo piuttosto in Pacuvio), ma una nobiltà tranquilla e riflessiva e una eleganza della forma maggiore che in Ennio. (cap. III, p. 127)
  • Lucilio si può chiamare [dopo Ennio] il secondo e il vero fondatore della satira, perché egli v'impresse quel carattere, se non esclusivo, prevalente che in essa si fissò, e diventò anche esclusivo nella satira come l'intendiamo noi: la critica di uomini e cose in forma di derisione. (cap. III, p. 128)
  • Libero e franco, Lucilio era come in continua conversazione col lettore dicendo l'animo suo, e parlando de' fatti suoi, criticando eventualmente sé stesso. Dovunque trovava malvagità, vizi, o anche pregiudizi o affettazioni, egli faceva la critica, ora ragionando, ora mettendo in ridicolo – non risparmiando anche qualche amico – ora assalendo collo scherno feroce. E in tutti i campi della vita egli esercita il suo giudizio. (cap. III, p. 132)
  • [...] i Romani non eran fatti per la speculazione filosofica, per la quale, anzi, come speculazione pura, mostravan non di rado un certo disdegno; accolsero ed amarono la filosofia sopratutto in ordine alla pratica utilità, in quanto fornisse principi della condotta od anche addestramento alla discussione. E del resto era questa la caratteristica della stessa filosofia greca al momento in cui i Romani fecero conoscenza con essa. Dei grandi sistemi speculativi di un Platone o di un Aristotele i Romani non ebbero conoscenza, scarsa e imperfetta, che più tardi, nell'età di Cicerone; sicché quando si parla di filosofia nella letteratura romana, s'ha a intender sempre dei sistemi filosofici greci del periodo postaristotelico. (cap. IV, p. 146)
  • [...] pazzia e suicidio non sono punto in contraddizione coll'animo di Lucrezio, quale ci rifulge vivido dal suo poema. Una vivezza e determinatezza di fantasia che rasenta l'allucinazione; una accensione violenta di sensi e di sentimenti; all'appassionato entusiasmo per il vero, per la sapienza, per la serenità dell'animo, mescolato un cupo rancore contro l'amore, contro la natura, oggetto del suo canto, contro la vita, oggetto della sua dottrina; un iroso sprezzo pel timore della morte, come d'animo cupido del nulla. (cap. IV, p. 147)
  • Di Catullo e Orazio il vero grande poeta lirico è Catullo. (cap. IV, p. 157)
  • In Catullo ci colpisce subito il duplice aspetto: c'è in lui il poeta subiettivo, ispirato dalla prepotente passione, la quale pare che trovi da sé immediatamente la propria espressione poetica, la più bella e insieme la più naturale; e c'è il poeta, p. es., dell'epitalamio di Peleo e Tetide, di cui la perfezione artistica è l'effetto di un meditato studio e di un senso artistico squisitamente dotto. (cap. IV, pp. 157-158)
  • [Catullo] Due passioni sopratutto lo dominavano: la passione dell'amore e la passione dell'arte; per l'influsso dell'età in cui visse, l'una lo fece poeta lirico, l'altra lo fece poeta della scuola alessandrina. (cap. IV, p. 158)
  • [Gaio Elvio Cinna] Il più famoso de' suoi scritti poetici era un poemetto Smyrna, dove, conforme al gusto alessandrino di sfidare in certo modo l'antipatia degli argomenti colla bellezza della forma, si trattava dell'amore di Mirra pel padre. Impiegò nove anni a scriverlo e limarlo [...]; anzi i nove anni diventarono quasi proverbiali, [...]. Era cosi irto di erudizione che dovette esser commentato. (cap. IV, p. 170)
  • Cesare racconta [i Commentarii de bello civili] nella forma e nello stile di un rapporto ufficiale, colla maggiore (apparente) obiettività, sbandendo il pronome di prima persona, procedendo rapido nella successione dei fatti, senza mai soffermarsi a considerazioni di sentimento o di giudizio, senza lenocini retorici, descrittivi o drammatici, senza alcuna cura apparente di forma artistica.
    Eppure in tutto ciò vi è un'arte grandissima. (cap. IV, p. 172)
  • Alto – se non altissimo – valore ha Sallustio come storico artista. Primo fra i Romani egli ha avuto il concetto, e Tucidide glielo ha dato, che la storia possa o debba non essere soltanto racconto chiaro e fedele di fatti, ed anche delle loro concatenazioni causali, ma anche un penetrare nell'intimo dramma umano che entro i fatti si racchiude; uno studio delle umane passioni, di individui e di moltitudini, e de' loro effetti; una rivelazione dell'uomo all'uomo; e che questa severa opera di pensiero dello storico richieda una espressione artistica alta e severa, e un linguaggio suo, schivo della naturalezza e delle agilità, sia pure artistiche, del linguaggio dell'uso. (cap. IV, pp. 179-180)
  • [Marco Tullio Cicerone] Siamo al maggiore, non solo degli oratori, ma degli scrittori romani, e di gran lunga il più importante. Il più importante, se si considera la letteratura d'un popolo tutto come l'espressione dello spirito di quel popolo, poiché di nessun altro scrittore romano le opere sono cosi intimamente e multiformemente connesse colla vita tutta del popolo romano; il più importante perché da nessun altro abbiamo tanta copia di informazioni dirette intorno alle condizioni politiche e istituzioni politiche e sociali, istituzioni giuridiche e religiose, movimento letterario, idee e costumi, uomini e cose; il più importante nella storia stessa della letteratura, per la quantità degli scritti e la varietà dei generi a cui si riferiscono, e nella storia della lingua, la quale con lui arrivò al massimo svolgimento delle sue forze, e diventò strumento non mai inadeguato al pensiero, alla civiltà, all'arte romana, pur conservando ancora tutta la sua viva e vigorosa spontaneità e naturalezza. (cap. IV, p. 182)
  • [...] nessun personaggio storico ha messo a nudo sé stesso davanti ai posteri, come Cicerone. Ora, dato un uomo come Cicerone, amantissimo della patria e della virtù, radicalmente onesto e leale, che sentiva profondamente gli affetti della famiglia e dell'amicizia; ma insieme pieno di ambizione e di ingenua vanità, appassionato, nervoso, irritabile, sensibilissimo agli onori e alle offese, più forte contro il pericolo che nella sventura; qual meraviglia che nell'espansione così intera e così a lungo continuata dell'animo suo, noi troviamo molti momenti di debolezza, contraddizioni con dichiarazioni pubbliche, giudizi irosi, continua mescolanza delle preoccupazioni personali nelle preoccupazioni per la cosa pubblica? (cap. IV, p. 192)
  • Il più grande, anzi l'unico grande prosatore dell'età Augustea è Tito Livio; e grande è sopratutto per qualità che si potrebbero dire poetiche. (cap. V, p. 300)
  • Livio [...] non tanto si propone di procurare a' suoi concittadini una più completa ed esatta cognizione scientifica della loro storia, quanto di scuotere e commuovere gli animi loro nella contemplazione del valore, della magnanimità, della giustizia, della religiosità degli avi. Questa dignità morale e religiosa della storia è per lui la cosa importante; e come l'animo suo nobile e schietto era tutto compreso di questo sentimento, così l'alto ingegno, una fantasia come di poeta, la virtù d'un'eloquenza che la scuola aveva acuita e affinata senza renderla artificiosa, facevano di lui il vero artista atto a comunicare agli altri il calore de' suoi affetti e il suo entusiasmo. (cap. V, pp. 303-304)
  • In Livio era profonda la convinzione che la grandezza di Roma era per volere degli dei e frutto della grande religiosità dei Romani (cum rerum humanarum maximum momentum sit, quam propitiis quam adversis agant diis); nella pietas vede e ammira uno degli elementi più importanti del carattere romano. (cap. V, p. 304)
  • Nello scegliere i fatti per la sua rapida rassegna [l'Historiae romanae] l'autore [Velleio Patercolo] non è guidato dall'intelligenza della loro effettiva importanza; dà troppa parte all'aneddoto; commette sbagli troppo facilmente; si compiace di frapporre spesso le sue osservazioni e declamazioni, che di rado si levano al di sopra di semplici luoghi comuni; si interessa particolarmente dei caratteri personali, e qualcuno, p. es. Pompeo, gli riesce abbastanza bene; ma per lo più le sue caratteristiche si risolvono in una superficiale esagerazione di biasimo o di lode: gli uomini ch'egli definisce senza pari, nell'uno o nell'altro senso, s'incontrano a dozzine. (cap. VI, p. 331)
  • Come autore di nove libri factorum et dictorum memorabilium, ossia d'una voluminosa raccolta di fatti, aneddoti ed esempi storici, Valerius Maximus è generalmente classificato tra gli scrittori di storia, ma sarebbe molto più a suo posto messo in coda ai retori e declamatori, a completare il quadro di questa parte cosi vana e pur storicamente cosi importante della vita romana. (cap. VI, p. 332)
  • Di questi [uomini di mediocre ingegno] è Valerio Massimo. Il quale, non ammettendo mai che i fatti parlino da sé, non volendo lasciarne nessuno (pur in tante serie di simili) senza il corredo illustrativo di qualche considerazione o epifonema o antitesi o risalto, riesce in tutte queste cose troppo spesso o falso o arbitrario o tronfio o vacuo o stentato e, nell'insieme, monotono e stucchevole. Cosi, nello stile, suo studio principalissimo il non essere naturale: il periodare diseguale, spesso implicato e confuso per la mania di ammassar troppo, talora anche scorretto, e quindi non senza oscurità; e del pari oscurità per le inopportune imitazioni del linguaggio poetico, per l'abuso di traslati talora molto strani e capricciosi, sopratutto per la smania di spostare i naturali riferimenti logici sostituendo a un concreto una sua qualità astratta, o riferendo un aggettivo non al suo sostantivo, ma a un'aggiunta secondaria, e simili. (cap. VI, p. 334)
  • Nel famoso episodio della cena di Trimalcione, che è per sé stesso un quadro compiuto e finemente lavorato, quanti romani parvenus e ricchi ignoranti, quanti parassiti potevano trovare delle proprie fattezze [...]. Né mancavano de' tratti, in certi personaggi, che richiamassero certe personalità ben note. Nello stesso Trimalcione c'è, per fermo, qualche cosa di Nerone; sebbene si vada troppo in là e fuor di strada quando si vuol vedere in Trimalcione una caricatura di Nerone. (cap. VI, p. 364)
  • [Su Apuleio] [...] prevalendo nel suo spirito l'elemento fantastico e un vivissimo sentimento religioso e mistico, ne veniva come uno squilibrio nelle sue facoltà mentali, invase e ossesse dalla credula passione e ricerca del soprannaturale e del meraviglioso (nell'Apologia si difende dall'accusa di magia; ma a questa mostra però di crederci, e si guarda bene dal parlarne male: c'è piuttosto un tentativo indiretto di metterla in buona luce e in onore). Quindi la contraddizione dello scienziato superstizioso e bigotto e anche quella del filosofo moralista e pio, e pur dai costumi non troppo severi. (cap. VII, pp. 432-433)

Note

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  1. Gaio Giulio Cesare Ottaviano, detto l'Augusto, triumviro dal 43 al 33 a.C. e primo imperatore romano.
  2. Non è facile scrivere a chi può proscrivere.

Bibliografia

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Altri progetti

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