Papers by Chiara Calzana
Acta Histriae, 2023
ITA - L’articolo esplora il delicato lavoro di «provocare memorie» tra le comunità, le famiglie e... more ITA - L’articolo esplora il delicato lavoro di «provocare memorie» tra le comunità, le famiglie e gli individui colpiti da eventi catastrofici, partendo dal caso della raccolta delle memorie dei superstiti del disastro del Vajont. La costruzione intersoggettiva delle memorie richiede una cura particolare nella scelta delle parole, nell’ascolto, nella comunicazione corporea e nel rispetto dei silenzi. Si condividono tre casi emblematici, che mettono in evidenza l’importanza della costruzione nel tempo di relazioni di fiducia e reciprocità tra ricercatori e interlocutori, che risultano fondamentali per una buona riuscita del lavoro di produzione e raccolta delle memorie.
ENG - This article delves into the sensitive undertaking of “triggering memories” among communities, families, and subjects affected by catastrophic events, using the collection of memories from survivors of the Vajont disaster as a case study. The intersubjective process of constructing memories needs meticulous attention to word choice, active listening, non-verbal communication, and respect for silence. The study presents three emblematic cases that underscore the relevance of cultivating trusting
and reciprocal relationships between researchers and the subjects they engage with. Such relationships are pivotal in successfully producing and collecting memories.
Antropologia 10(2), 2023
ITA La notte del 9 ottobre 1963 un'enorme frana cadde nel bacino idroelettrico della diga del Vaj... more ITA La notte del 9 ottobre 1963 un'enorme frana cadde nel bacino idroelettrico della diga del Vajont. L'onda generata colpì le comunità di Longarone, Codissago, Erto e Casso insieme ai loro luoghi di vita. L'area coinvolta fu stravolta in modo drastico, ma già da qualche anno erano in corso importanti trasformazioni. L'onda accelerò il processo. L'innesto di un sistema di infrastrutture idroelettriche fu presentato come alternativa a una crisi del mondo economico e sociale della montagna-crisi che in realtà contribuì a generare e alimentare. Attingendo dal lavoro di ricerca etnografica e storica condotto nella Valle e dalle testimonianze raccolte, l'articolo analizza il processo di trasformazione della diga del Vajont da infrastruttura simbolo del progetto nazionale di modernizzazione del Paese a oggetto di memoria centrale in pratiche di narrazione e monumentalizzazione.
ENG On the night of October 9, 1963, an enormous landslide collapsed in the Vajont Dam hydroelectric basin. The resulting wave struck the communities of Longarone, Codissago, Erto, and Casso, along with their living environments. The affected area underwent drastic changes, although significant transformations had already been underway for some years. The wave accelerated this process. The introduction of a hydroelectric infrastructure system was presented as an alternative to a crisis in the economic and social world of the Italian mountain region – a crisis that this politics contributed to generate. Drawing upon ethnographic and historical research conducted in the valley and collected testimonies, this article analyzes the transformation of the Vajont Dam from a symbol of the national modernization project to a focal point of memory in narrative and monumentalization practices.
Ihab Saloul, Anna Schjøtt Hansen, Réka Deim, Dawid Grabowski, Mehmet Sülek, Jante van der Naaten (edited by), Witnessing, Memory, and Crisis – AHM Annual Conference 2022, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2022
In October 1963, an enormous landslide collapsed into the reservoir of the Vajont Dam, a giant in... more In October 1963, an enormous landslide collapsed into the reservoir of the Vajont Dam, a giant infrastructure recently inaugurated in northern Italy. The resulting waves caused the death of 1910 people and the destruction of the locals' living environment. The event was labelled an 'authentic massacre' caused by human greed in a network of colluded powers that could have prevented it. This human catastrophe constituted a severe break in the historical continuity by profoundly marking the line between a 'before' and an 'after'. We can define this event with the category of 'cultural trauma', which deeply marks subjective and collective biographies. The expression of this difficult memory has been at the centre of my ethnographic and historical work conducted among the survivors and their descendants. In this paper, I want to discuss the emotional relationship people developed with the destroyed places, emphasising their practices of remembrance and witness. Indeed, much has changed in recent years in how Vajont's history is told. New places and new media are the vehicles for counter-hegemonic narratives, which brought previously silent witnesses into the public arena. And yet, the multiple intersections of memories, narratives, and present imaginings of the same place are different and contrasting ways to rethink territories.
Studi e Ricerche di Storia Contemporanea [ISSN: 1974-2614], n.93, pp. 65-78, 2020
Book chapters by Chiara Calzana
Alessandra Brivio e Claudia Mattalucci (a cura di), La materia per pensare la morte, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2022
I cimiteri, «luoghi del lavoro del lutto» (Vovelle, 2000), offrono spunti importanti per riflette... more I cimiteri, «luoghi del lavoro del lutto» (Vovelle, 2000), offrono spunti importanti per riflettere sul legame tra la memoria, il presente e gli spazi. È nella loro materialità, nell’organizzazione delle sepolture e delle lapidi, che prendono forma processi di memoria e di oblio (Favole, 2003). Il Cimitero delle Vittime del Vajont è in tal senso emblematico. Luogo su cui nel tempo hanno agito diverse retoriche e politiche della memoria, è da anni al centro di scontri e dibattiti tra istituzioni e superstiti. Nato nei giorni successivi all’onda, il cimitero ha sin da subito svolto un ruolo fondamentale nel mantenere vivo il legame con i propri morti e con il ricordo di un’intera comunità scomparsa. Il rifacimento totale del 2003 lo ha trasformato da tradizionale cimitero alpino a monumento alla memoria, mutandone per sempre la funzione sociale: da luogo di incontro con i cari defunti a sacrario civile dalle finalità pedagogiche. La rimozione di fotografie, fiori ed epitaffi provoca un senso di smarrimento nella comunità, che stenta a riconoscere come proprio questo luogo. Ma il cimitero non è l’unico luogo dove commemorare i propri morti: vi sono vie alternative per il ricordo e il commiato, che i superstiti percorrono per resistere al rischio dell’oblio.
Previtali Enrico, Elena Ravera e Stefano Rozzoni (a cura di), Nuovi fascismi e nuove Resistenze: percorsi e prospettive nella cultura contemporanea, Pisa, Pacini Editore, 2022
La figura di Ferruccio Dell’Orto - giovanissimo partigiano caduto l’8 febbraio 1945 - verrà appro... more La figura di Ferruccio Dell’Orto - giovanissimo partigiano caduto l’8 febbraio 1945 - verrà approfondita sia attraverso la ricostruzione documentata della sua biografia, sia attraverso la straordinaria storia sociale della sua memoria, che lo ha reso parte integrante dell’educazione sentimentale e politica di diverse generazioni di giovani antifascisti bergamaschi. Della vicenda di Ferruccio fa parte anche la storia dei luoghi a lui intitolati, inscritti nella toponomastica della città di Bergamo. È infatti proprio dell’odonomastica delle città italiane rispecchiare una marcata tendenza ad uno “storicismo diffuso”: le nostre sono città di eroi (Piasere, 2000), in cui le biografie degli spazi e quelle degli uomini si intrecciano costantemente. La targa dedicata a Ferruccio in via Pignolo non è soltanto una traccia del passato, bensì un attivo “luogo di memoria” (Nora, 1984-1992): pratiche di antifascismo e Resistenza si attivano a partire dalle commemorazioni nel giorno della morte del giovane partigiano, e significativa è la scelta di circoli antifascisti, centri sociali e collettivi studenteschi di staccarsi dal corteo ufficiale del 25 Aprile per riunirsi proprio in via Pignolo. Ferruccio è vivo, e vive sono le sue idee. La sua storia è stata presa in carico dalla collettività dei giovani antifascisti, vera e propria “comunità di memoria” erede di pratiche resistenti da portare avanti contro vecchi e nuovi fascismi. Infatti, «esercitare l’atto della memoria sul passato si lega a una urgente questione morale che riguarda il male nel presente» (Cappelletto, 2010: 153). Il mio lavoro vuole essere un contributo antropologico agli studi sulla memoria, da intendersi come «analisi critica delle modalità di utilizzare il passato nel presente» (Fabietti e Matera, 2018: 180). Una memoria che è arma politica dell’oggi: siamo chiamati a esaminarne le forme proprio per comprendere questo nostro presente e, sulla base di tale comprensione, indirizzare le nostre modalità di azione per costruire scenari futuri.
PhD Thesis by Chiara Calzana
“Me peins”, “mi ricordo” in dialetto ertano e cassano, è l’assunto da cui partono molti racconti ... more “Me peins”, “mi ricordo” in dialetto ertano e cassano, è l’assunto da cui partono molti racconti delle persone legate alla storia della Valle del Vajont. Insieme ad altrettanti “no me peins”, i ricordi e i vissuti personali dei miei interlocutori (i superstiti del disastro del Vajont e i loro discendenti) sono alla base di questo lavoro di ricerca, nato da istanze metodologiche ed epistemologiche. Come si incontrano, intersecano e (talvolta) scontrano i metodi della ricerca etnografica con quelli della ricerca storica? Come metterli in dialogo volendo ricostruire una storia al contempo sociale ed evenemenziale, soggettiva e collettiva, puntuale ma non affannata nella ricerca del vero? Una storia che contribuisca a riflettere sulle traiettorie di vita dei soggetti, delle famiglie e dei territori, ma anche sulle dinamiche di potere che le determinano o che ne sono determinate. A questo scopo, risulta particolarmente adatta la vicenda di una comunità alpina che ricorda e racconta la lunga durata di un evento catastrofico, un “disastro” che è stato punto di cesura radicale, ma che non ha mai interrotto del tutto la continuità di vita.
"Me peins" - "I remember", in local dialects - serve as a foundation for many tales of those connected to the history of the Vajont Valley. Alongside numerous "no me peins", the memories and personal experiences of my interlocutors (the Vajont disaster survivors and their descendants) form the basis of this research, arising from methodological and epistemological considerations. How do ethnographic research methods intersect and, at times, conflict with those of historical research? How can we bring these methods into dialogue to construct a history of social phenomena and chronological events that are both subjective and collective, accurate but not overly focused on the pursuit of truth? A history that contributes to reflecting on the life paths of individuals, families and territories, as well as on the power dynamics that shape or are shaped by them. In this regard, the history of an Alpine community that recalls and recounts the prolonged aftermath of a catastrophic event - a "disaster" that represented a drastic turning point yet never entirely interrupted the continuity of life - is particularly appropriate.
Conference Presentations by Chiara Calzana
Book of Abstract XI Convegno SIAA "Usi sociali dell'Antropologia. Patrimoni, Salute, Territori" - Panel 1 "Memorie e 'nuove' subalternità: critical heritage contro il mercato delle 'identità" (coordinato da Roberta Altin e Giuseppe Grimaldi), 2023
Nella friulana Valle del Vajont, le memorie sono da tempo terreno di contesa. In seguito al disas... more Nella friulana Valle del Vajont, le memorie sono da tempo terreno di contesa. In seguito al disastro che colpì l’area il 9 ottobre 1963, le commemorazioni e le narrazioni ufficiali sono state spesso contestate dai superstiti, che hanno nel tempo dato vita a pratiche, memoriali e calendari alternativi (Margry e Sànchez-Carrettero, 2011; Fridman, 2015). Accanto una politica della memoria che assume la forma monumentale della diga – oggetto simbolo del disastro e attrazione turistica con il maggior numero di accessi annuali in Friuli-Venezia Giulia – sono diversi i luoghi e le forme delle “contro-memorie”. Il mio intervento si concentrerà in particolare su tre diverse modalità alternative di fare memoria. La prima è un vero e proprio caso di “attivismo della memoria” (Gutman e Wüstengerg, 2023): la rete di associazioni denominata “Noi, 9 ottobre” è infatti una realtà che intende produrre un cambiamento memoriale e politico lavorando al di fuori dei canali statali. Si tratta di un coordinamento che raccoglie associazioni di superstiti e familiari di vittime di diverse catastrofi che hanno segnato la storia italiana degli ultimi decenni (come, ad esempio, i terremoti de L’Aquila e dell’Emilia, le stragi del Rigopiano e del Ponte Morandi, e molte altre), e che riconosce il Vajont come il primo di una serie di “disastri” figli di politiche e logiche di profitto che non hanno cura della vita e della salute dei cittadini. Il secondo caso riguarda pratiche più private, legate alla sfera familiare: è infatti attraverso la cura delle rovine delle case distrutte dall’onda del Vajont che nella valle si porta avanti il ricordo dei morti, che riemergono in questi luoghi come defunti inseriti in reti interpersonali e familiari, contro la monumentalizzazione che li ricorda unicamente come vittime anonime di una grande strage collettiva. Infine, risulta esplicito sia nei racconti dei superstiti sia nei progetti portati avanti dalle associazioni locali il tentativo di non limitare la rappresentazione della valle al ricordo della notte del disastro: così le memorie si fanno più articolate, e non si riducono alla storia di una diga e alla conta dei morti. Accanto alla necessaria valorizzazione e gestione del “patrimonio difficile” (MacDonald, 2009) legato al disastro, gli abitanti dei borghi di Erto e Casso commemorano infatti un passato segnato da pratiche di commercio ambulante, migrazione stagionale ed emigrazione transoceanica, dal rapporto con i boschi e la terra, ma anche con le città, da transiti e tradizioni vecchie e nuove che per secoli hanno modellato relazioni comunitarie e familiari. Da questi casi emerge un quadro memoriale che trascende confini geografici e identitari precostituiti, nel quale le memorie vive e in continuo rimodellamento resistono ai tentativi di uniformizzazione e monumentalizzazione.
Bibliografia
• Fridman, O. (2015), “Alternative calendars and memory work in Serbia: Anti-war activism after Milošević”, Memory Studies, vol. 8(2), pp. 2012-226.
• Gutman, Y. e Wüstengerg J. (2023), “Introduction: The Activist Turn in Memory Studies”, in Gutman, Y. e Wüstengerg J. (a cura di), The Routledge Handbook of Memory Activism, Routledge, Londra-New York.
• MacDonald, S. (2009) Difficult Heritage: Negotiating the Nazi Past in Nuremberg and Beyond, Routledge, Londra-New York.
• Margry, P.J. e Sànchez-Carrettero C. (a cura di) (2011), Grassroots Memorials: Politics of Memorializing Traumatic Death, Berghahn, New York-Oxford.
Quarto Convegno Nazionale SIAC (Società Italiana di Antropologia Culturale) - Il ritorno del Sociale (Sapienza Università di Roma) - Panel 05: Etnografie degli archivi: esperienze e riflessioni sugli usi dei documenti (Venturoli e Gimenez), 2023
Con un procedimento inverso rispetto a quello operato da N. Wachtel, che titolava i suoi saggi di... more Con un procedimento inverso rispetto a quello operato da N. Wachtel, che titolava i suoi saggi di antropologia storica “Des archives aux terrains”, nell’ambito della mia ricerca al Vajont la pratica etnografica – con la conoscenza di territori, persone e memorie vive – è stata presupposto fondamentale per l’ingresso negli archivi che conservano tracce del passato. Oltre che luoghi dove trovare informazioni, gli archivi sono stati oggetto e terreno di ricerca, nel tentativo di comprendere le logiche sottese alla creazione e archiviazione dei documenti. I fondi documentali “ufficiali” che raccontano la storia del Vajont sono tasselli sparsi di un patrimonio documentale frammentato e spesso di difficile fruizione. Ma i documenti si trovano anche altrove: le case dei superstiti del Vajont custodiscono dei veri e propri archivi domestici ricchi di carte, immagini, ritagli di giornali, scritture private ed ego-documenti. Questi sono la materia con cui la testimonianza si corrobora e si rafforza. Talvolta mostrati, sempre evocati, i documenti raccolti contribuiscono attivamente alla costruzione della narrazione del proprio passato – spesso una narrazione diversa (nel contenuto, ma soprattutto nella forma) da quella “ufficiale” degli archivi istituzionali.
La mia riflessione sugli archivi si è arricchita quando sono stata chiamata a coordinare un progetto locale per la creazione di un archivio pubblico di testimonianze orali: come procedere per custodire e valorizzare queste memorie?
Convegno Associazione Italiana Storia Orale (AISO) Imparare dagli errori. Difficoltà, complicazioni, ripensamenti della storia orale (Treviso-Venezia), 2022
Quando si lavora con comunità, famiglie e soggetti la cui storia collettiva e personale è segnata... more Quando si lavora con comunità, famiglie e soggetti la cui storia collettiva e personale è segnata da un evento di portata catastrofica, “provocare memorie” è sempre un’operazione delicata. La pratica di costruzione intersoggettiva delle memorie diventa un lavoro che richiede una cura particolare nella scelta delle parole, nel predisporsi all’ascolto, nel comunicare con i corpi e con gli sguardi. Si impara con il tempo che nelle vite dei nostri interlocutori ci sono cassetti che contengono ricordi che è bene non riportare alla luce. Rispettare, accogliere e ascoltare i silenzi è fondamentale per mantenere equilibri spesso fragili. Nonostante tutte le precauzioni, nel mio lavoro con i superstiti del Vajont e le loro famiglie mi è capitato più di una volta –soprattutto all’inizio della ricerca - di aprire cassetti che non andavano aperti, accorgendomi solo in seguito dell’errore. Alcune persone hanno vissuto con eccessiva sofferenza il momento della testimonianza, oppure si sono pentite in seguito di aver riaperto le ferite. In certi casi è capitato anche che quelle memorie fossero più difficili da gestire per me che per i miei interlocutori – aspetto tutt’altro che secondario per la buona riuscita del colloquio.
I casi per me emblematici sono tre: il mio rapporto con C., che ancora oggi a quasi due anni dal nostro ultimo incontro mi telefona periodicamente per rivedere insieme la trascrizione, operare tagli e censure, avere rassicurazioni circa l’utilizzo della sua testimonianza, nel timore di avermi confidato cose troppo intime che potrei rendere pubbliche tradendo la sua fiducia; il pomeriggio passato con G., e la mia fatica emotiva nel vederlo rivivere la sua esperienza; l’aver provocato il pianto di N., che ha ricordato cose che non voleva ricordare sollecitato dalle mie domande.
Il rapporto con loro mi ha insegnato a valutare meglio situazioni e contesti, aiutandomi a adottare approcci diversi a seconda del carattere e della predisposizione dei diversi interlocutori. Quelli che inizialmente sembravano solo errori evitabili dovuti alla mia incompetenza si sono rivelati l’unica via per sviluppare un istinto che mi permettesse di interpretare e affrontare le conversazioni più complesse. D’altronde, la memoria, “forma principe della soggettività” (Passerini, 2003), è via d’accesso agli aspetti più personali della vita degli altri che mette in gioco le fragilità di chi ci racconta la sua storia, ma spesso anche le nostre. Il coinvolgimento e la vicinanza emotiva del ricercatore ai suoi interlocutori, insieme al tempo e alla cura nella costruzione dei rapporti con i soggetti e le comunità coinvolti dal nostro lavoro, sono aspetti dell’esperienza di produzione delle memorie che aiutano ad evitare il ripetersi di alcuni “errori” nella conduzione dei colloqui e delle interviste. Sono queste le basi di quel “impegno etico” (Cappelletto, 2010) che costituisce le fondamenta della relazione tra me e i mei interlocutori, legandoci reciprocamente in un “patto testimoniale” (Wieviorka, 1998) che ci impegna nel comune tentativo di ricostruire storie, memorie e significati.
17th EASA Biennial Conference (Queen’s University Belfast) - Panel 21 Haunting pasts, future utopias: an anthropology of ruins (Gamberi, Calzana), 2022
In October 1963, an enormous landslide collapsed into the Vajont dam water basin causing two wave... more In October 1963, an enormous landslide collapsed into the Vajont dam water basin causing two waves that destroyed villages and lives, resulting in 1917 human deaths. Along the river Piave, Longarone was cancelled entirely, becoming a "martyred city" that has been rebuilt on its ruins. Instead, the little villages scattered along the Vajont valley remain in ruins, giving the space a "structure of feeling" - a spiritual, emotional, and historical dimension that contributes to the orientation of the living activities. It's here that families commemorate their beloved dead, who forever disappeared that night, bringing flowers and candles, and praying for the souls, instead of going into the official Monumental Cemetery. And it's still here that - against the official narratives about the disaster - some of the survivors would like to start a form of "pilgrimage" that could bring tourists and students to discover what happened in the valley, getting closer to the family dimension of mourning practices instead of admiring the most spectacular aspects of the disaster. Observing how families manage material ad immaterial traces of the past is the best way to investigate the politics of memory, keeping together the experiential, emotional, and daily dimensions of kinship with the political meaning of kinship itself, which constitute real challenges to the power. The ruins create imaginaries and affective orientations toward the memories of the dead and the landscape and then transform the scars of the latter into materials to build an imaginary future.
Book of Abstract IX Convegno SIAA Next Generation: Prospettive Antropologiche - Panel 9 Abitare le montagne d’Italia fra ricomposizioni demografiche e politiche di sviluppo territoriale (Clemente, Martellozzo, Molinari, Orlandi, Viazzo, Vinai), 2021
Marzo 2021: le campane della chiesa di Erto smettono di scandire le ore notturne. Nella Valle del... more Marzo 2021: le campane della chiesa di Erto smettono di scandire le ore notturne. Nella Valle del Vajont non risuona più nemmeno l’Ave Maria delle 6, che dava il buongiorno al centro storico. È l’effetto delle lamentele di un turista, abituale frequentatore del borgo, che in una lettera di protesta al comune scriveva: “È intollerabile che una chiesa, in una piccola comunità come la vostra che si regge quasi totalmente con il turismo si permetta di suonare le campane insistentemente tutta la notte e tutto il giorno”. La reazione della comunità è immediata: vogliono che la campane tornino a suonare. Grazie a una petizione sottoscritta da molti abitanti di Erto, Casso e Vajont, già nel mese di maggio i rintocchi notturni vengono ripristinati. Nella risposta data a questa vicenda si intrecciano diverse questioni. A Erto - comune che fa parte dell’Area Interna delle Dolomiti Friulane - la popolazione rifiuta la definizione di “comunità che si regge sul turismo”: è un paese “vivo e che non ha solo una facciata per turisti. Molti tornano non più da turisti, ma da amici”. Il campanile di Erto, raffigurato sullo stemma comunale accanto al monte Toc con lo sfregio della frana, è un simbolo identitario molto forte per gli ertani, al di là del differente rapporto che ciascuno di loro ha con la religione cattolica. “Se è muto il campanile siamo noi ad essere in silenzio. Quello che per gli altri è rumore per noi è vita”. Per chi suonano dunque, le campane della chiesa di Erto? Chi ha il diritto di stabilire quando, come e per quanto debbano suonare? La legge tutela le ore di quiete notturna, e dunque il diritto del turista a vivere Erto come luogo di riposo e svago. Gli ertani percepiscono invece il silenzio come un’assenza di voce, che contribuisce a rendere più labile l’affermazione della presenza di chi ha scelto di rimanere sul territorio, e vedono come illegittime le ingerenze dei turisti o dei “togni” trasferitisi nel borgo - soprattutto di quelli che non si trasformano in “amici”. Le campane sono suono di casa per questa comunità alpina che più di altre ha vissuto gli effetti delle politiche di sfruttamento delle montagne, e che rimane nella Valle a presidio della memoria in un costante riaffermare la “continuità di vita” non interrotta dagli eventi del 9 ottobre 1963. Come favorire il dialogo tra gli ertani e i “nuovi montanari”?
Book of Abstract 8th Ethnography and Qualitative Research Conference (University of Trento), 2021
The graveyards, “places of mourning work, of questions without answers but incessantly reformulat... more The graveyards, “places of mourning work, of questions without answers but incessantly reformulated” (Vovelle, 2000), are important starting points for reflecting on the link between memory, spaces, and the present time It is in their materiality, in the organization of burials and tombstones, that processes of memory and oblivion take shape. The Vajont Victims Cemetery is emblematic of this: here rhetoric and politics of memory keep acting over time In October 1963 an enormous landslide collapsed into the
reservoir of the Vajont Dam, a giant infrastructure recently inaugurated in northern Italy. The resulting mega-tsunami caused the death of 1910 people and the destruction of the locals’ living environment. The event was labelled as an “authentic massacre” caused by human greed in a network of colluded powers that could have prevented it. In this context, the cemetery has been a matter of conflict and debate between institutions and survivors for many years now. Built in the days following the Vajont tsunami, the graveyard
played a fundamental role in keeping alive not only the survivors’ bond with their dead but also the memory of an entire community swept away together with its living environment. The bodies recovered from the mud were brought here, and many were unrecognizable. Lots of bodies were also missing and
their absence still causes great suffering to the families. The rebuilding in 2003 turned this traditional Alpine graveyard into a memorial monument, changing its social function forever: a gathering place where people could “meet” their beloved dead was turned into a civil monument with pedagogical purposes. The aim of this reconstruction is clear: focusing on the global effects of an “ecological disaster” rather than on the subjectivity of the victims (which disappears under white marble blocks) and the survivors’ demands for truth and justice, i.e. an actual condemnation of the human responsibilities that led to this massacre. The removal of photographs, flowers, and epitaphs, which are defined by Michel Vovelle as a “chronicle of a life and expression of the family bond”, caused a sense of further loss to the community members, who can’t acknowledge this place as their own. The survivors claim that uniformity is an expression of a politics of memory linked to monumental works, which aim to induce the visitor to sympathize rather than understand. Nevertheless, the cemetery is not the only place to commemorate the dead: other ways of dealing with remembrance and mourning exist, and survivors use them to preserve the memory. My reflections come from an ethnographic research in progress on the Vajont territory. The link between the living and the places of the dead, which plays a crucial role in survivors’ narratives and practices, is fundamental to understanding the political value that the memories of the Vajont Dam disaster have in the present days. My fieldwork on memories and practices in the Vajont area is an ongoing project I started for my master’s thesis, and I’m carrying on for my PhD work during the Covid-19 pandemic. Lots of new challenges came up in the attempt to combine observation and interaction with my informants. Are “interact” and “being there” concepts that have a new meaning today? How to carry on a work about grief, death, and trauma without losing the opportunity to empathize with our interlocutors?
Book of abstract - Nuovi fascismi e nuove Resistenze: percorsi e prospettive nella cultura contemporanea organizzata dal Dottorato in Studi Umanistici Transculturali (UniBg), 2021
8 febbraio 1945: Ferruccio Dell’Orto, 17 anni, muore colpito dal fuoco fascista durante un disarm... more 8 febbraio 1945: Ferruccio Dell’Orto, 17 anni, muore colpito dal fuoco fascista durante un disarmo. Il giovanissimo caduto diviene sin da subito uno di quegli eroi della Resistenza bergamasca i cui nomi spesso si inscrivono nei luoghi del martirio o nelle strade a loro intitolate. È infatti proprio dell’odonomastica delle città italiane rispecchiare una marcata tendenza ad uno “storicismo diffuso”: le nostre sono città di eroi. La targa dedicata a Ferruccio in via Pignolo non è però soltanto una traccia del passato, bensì un attivo “luogo di memoria”. Pratiche di antifascismo e Resistenza si attivano a partire dalle commemorazioni nel giorno della morte del giovane partigiano, e significativa è la scelta di circoli antifascisti, centri sociali e collettivi studenteschi di staccarsi dal corteo ufficiale del 25 aprile per riunirsi proprio davanti alla targa che ricorda Ferruccio, caduto per la Libertà. Ferruccio è vivo, e vive sono le sue idee. Di lui ha raccontato per molti anni la sua compagna d’azione Cocca Casile. Di questa memoria si è fatta carico la collettività dei giovani antifascisti, vera e propria “comunità mnestica” erede di pratiche resistenti da portare avanti contro vecchi e nuovi fascismi. Infatti, «esercitare l’atto della memoria sul passato si lega a una urgente questione morale che riguarda il male nel presente». Il mio lavoro vuole essere un contributo antropologico agli studi sulla memoria, da intendersi come «analisi critica delle modalità di utilizzare il passato nel presente». Una memoria che è arma politica dell’oggi: siamo chiamati a esaminarne le forme proprio per comprendere questo nostro presente e, sulla base di tale comprensione, indirizzare le nostre modalità di azione per costruire scenari futuri.
Book of abstract SIAA 2020 - Fare (in) tempo. Cosa dicono gli antropologi sulle società dell'incertezza - Panel 1 Costruire storie. Narrazioni del patrimonio e pratiche del tempo (Lusini, Parbuono), 2020
Disastro, catastrofe, genocidio, strage. Tanti sono i termini utilizzati per definire quanto avve... more Disastro, catastrofe, genocidio, strage. Tanti sono i termini utilizzati per definire quanto avvenuto il 9 ottobre 1963 nell’area del Vajont, così come tanti sono i modi di ricordare e raccontare questa storia. Dopo anni di silenzio e oblio, dalla fine degli anni ’90 si è (ri)costituita attorno a questa vicenda una comunità mnemonica. È anche grazie a una distanza temporale dagli eventi che è stato possibile avviare processi di memorializzazione, legati soprattutto alla volontà dei superstiti di trasmettere le loro storie alle generazioni che non hanno vissuto né il tempo del Vajont né tantomeno quello che ha preceduto questa “cesura temporale”. L’intervento prende spunto da una ricerca etnografica in corso. Si intende porre a confronto differenti strategie e retoriche della memoria messe in atto da istituzioni e superstiti, partendo dai risvolti più pratici, ovvero quelli legati alla gestione del turismo della memoria. Il fine è quello di portare uno sguardo critico sui progetti in corso, utile a pensare buone pratiche legate alla fruizione turistica di territori colpiti da eventi distruttivi. “Ti rivedrò con gli occhi della memoria” è un progetto dell’Ecomuseo Vajont che vuole creare un percorso alternativo per chi si approccia al territorio: distogliere lo sguardo dalla diga (principale attrazione turistica dell’area) per inoltrarsi tra i resti dei borghi distrutti dall’onda, dove sono stati collocati pannelli con immagini e storie dei luoghi e delle persone che li abitavano. Le narrazioni riportate sono memorie in prima persona dei superstiti, raccolte principalmente da altri membri della comunità. Una strada diversa da quella sinora intrapresa dalla Fondazione Vajont, ente che si occupa della formazione degli “Informatori della Memoria”. La Fondazione presenta la sua ultima pubblicazione Vajont. Una storia da raccontare (2019) come strumento per poter fornire una “narrazione sostenuta da sequenze logiche”, basata su “fatti documentati con assoluto rigore e adeguata oggettività”, tralasciando le memorie in prima persona e operando una precisa selezione dei fatti. Questa pubblicazione, “guida ufficiale” per Informatori e turisti, parte proprio dalla diga, considerata principale luogo della memoria. Sguardi diversi che portano a indicare cammini differenti per chi si reca nella Valle alla scoperta del suo passato. Quella del Vajont è “una storia da raccontare” o sono tante storie con voci differenti? Come può essere declinato il rapporto tra storia, memoria di gruppo e ricordo personale nella costruzione di itinerari didattici e turistici? Quali sono le vie possibili per “patrimonializzare” un evento distruttivo di tale portata? Ma soprattutto, qual è oggi il valore politico di queste memorie, e perché sono ancora terreno di contrasto?
Crisis and infrastructures: responses to change between materiality and immateriality. A dialogue between anthropology geography and history., 2020
La notte del 9 ottobre 1963, in un angolo di mondo tra Veneto e Friuli-Venezia Giulia, si consumò... more La notte del 9 ottobre 1963, in un angolo di mondo tra Veneto e Friuli-Venezia Giulia, si consumò un vero e proprio genocidio: un’enorme frana cadde nel bacino della diga del Vajont e l’onda generata spazzò via le comunità di Erto e Longarone insieme ai loro luoghi di vita. Fu all’interno di una complessa rete di poteri economici e politici che ebbe luogo questa “catastrofe umana, che fu anche una catastrofe della continuità storica” . L’area fu stravolta in modo drastico da quanto avvenne quella notte, ma già da qualche anno erano in corso importanti trasformazioni. Il boom economico che avrebbe cambiato il volto dell’Italia intera, alla ricerca del “progresso” e dell’industrializzazione, stava anche qui portando a quella che Pasolini definì “la scomparsa delle lucciole” . L’onda accelerò il processo. L’innesto di un sistema di infrastrutture idroelettriche fu presentato come alternativa economica a una crisi del mondo contadino che in realtà contribuì ad alimentare. Attingendo dal mio lavoro etnografico e dalle testimonianze raccolte, in questo intervento cercherò di analizzare la trasformazione della diga del Vajont da infrastruttura veicolo di modernità, rivolta unicamente al futuro, a infrastruttura di memoria, continuo stimolo a rivolgere lo sguardo al passato come monito per i tempi che verranno.
Séminaire TerA “Quand les eaux affectent le territoire”, CNRS - EHESS, 2020
In October 1963 an enormous landslide collapsed into the reservoir of the Vajont Dam, a giant inf... more In October 1963 an enormous landslide collapsed into the reservoir of the Vajont Dam, a giant infrastructure recently inaugurated in northern Italy. The resulting megatsunami caused the death of 1910 people and the destruction of locals’ living environment. The event was labelled as an “authentic massacre” caused by human greed in a network of colluded powers that could have prevented it. This human catastrophe constituted a serious break in the historical continuity, by profoundly marking the line between a “before” and an “after”. The expression of this difficult memory as been at the center of an ethnographic and historical fieldwork conducted in 2018 among the survivors and their descendants. In this presentation will be discussed the emotional relationship people developed with the destroyed places until now, with a specific emphasis on their conceptions, memory and practices of the first damned and then over flooded river waters.
Call for papers by Chiara Calzana
18th EASA Biennal Conference (University of Barcelona), 2024
Short Abstract:
This panel welcomes ethnographic explorations of how timespaces are manifested, ... more Short Abstract:
This panel welcomes ethnographic explorations of how timespaces are manifested, materialised, and performed through the doing and undoing of multiple intersecting forms of political engagement that animate temporal and spatial orientations. These dynamics are framed here as “crafting politics”.
Long Abstract:
Recent events, such as wars, disasters, the pandemic, and the environmental impact brought by climate change, have been experienced by communities across the world as sites of heightened political activity that animate multiple temporal and spatial orientations (cf., Bryant and Knight, 2019).
This panel welcomes ethnographic explorations of the ways in which timespaces emerge through "crafting politics". We use the term "crafting politics" as a way to indicate the doing and undoing of multiple intersecting forms of political engagement. These encompass but are not limited to the narrativisation of politics; the implementation of public policies; the impact and development of institutional interventions; the making of collective actions; the envisioning of political utopias and dystopias. Some examples include political processes of memorialisation; mobilisation and activism across physical and digital spaces; the planning and execution of projects of urban redevelopment, regeneration, and gentrification.
We encourage reflection on the following questions: how does the "crafting" of politics articulate different scales of pasts, presents, and futures (e.g., national, biographical, local)? How are intersecting timespaces produced, negotiated, and contested, through the doing and undoing of political engagement? How is politics "crafted" through the tension between temporariness and permanence? How are these emerging timespaces felt, experienced, and embodied? We are looking for contributions that consider the ways in which the "crafting" of politics becomes a site where temporal orientations and moods (e.g., anticipation, repetition, hope, uncertainty), as well as their affective resonance (see Gordon, 1997 on haunting) are manifested, materialised, envisioned, imagined, and performed.
Panel details and videos: https://nomadit.co.uk/conference/easa2024/panel/14734
Book of abstract Convegno SIAA 2022: Ripensare la sostenibilità attraverso l'antropologia applicata (Verona), 2022
I luoghi e gli spazi, attraverso pratiche di place-making, acquisiscono forme molteplici che ne e... more I luoghi e gli spazi, attraverso pratiche di place-making, acquisiscono forme molteplici che ne esprimono le differenti identità. Tali identità, spesso mutevoli e conflittuali, emergono nell’intersezione tra politiche pubbliche, memorie e azioni collettive, esperienze biografiche e personali. Attraverso la materialità dei monumenti e degli spazi e l’immaterialità delle memorie e delle narrative, i luoghi raccontano sé stessi e la storia dei processi e degli sguardi che li costruiscono nel tempo, coinvolgendo dimensioni pre-senti, passate e future.
Queste pratiche di place-making possono talvolta essere attuate attraverso l’implemen-tazione di politiche pubbliche dettate da attori istituzionali, volte a instaurare significati e visioni del luogo che non sempre riflettono il vissuto e l’esperienza di chi abita i territori e le città. Un’analisi di questi approcci ‘dall’alto’ rivela processi spesso conflittuali, par-ticolarmente evidenti in contesti (ri)costruiti ex novo (come, ad esempio, le new towns del periodo fascista, o le ricostruzioni post-disastro). Tali interventi, talvolta in contrasto con esigenze e caratteristiche dei contesti locali, agiscono sul territorio e influenzano in modo importante l’esperienza di chi vi abita. Nel riconoscere la dinamicità e il divenire dei luoghi al fine di elaborarne rappresentazioni non statiche, è fondamentale al tempo stesso analizzare anche le risposte alternative che intraprendono ‘dal basso’ pratiche di riappropriazione e risignificazione degli spazi. Questi processi permettono alle comunità di esercitare il loro “diritto alla città” (Lefebvre 1967), per ripensare collettivamente la materialità dei luoghi e far si che “le pietre della città poss[a]no agire” (Bastide 1970), diventando parte di narrative collettive che emergono da pratiche quotidiane e comuni-tarie di gestione e uso degli spazi.
In questo panel vogliamo esplorare entrambi i processi nelle loro divergenze e interse-zioni per riflettere su come diversi sguardi e progettualità agiscano sul territorio, su come questi si leghino all’esperienza del vivere e dell’abitare di grandi e piccole comu-nità, e sulle risposte, reazioni e resistenze che vengono messe in atto. Inoltre, porremo attenzione ai processi di memorializzazione e monumentalizzazione legati agli spazi su cui le storie e le biografie delle comunità si iscrivono, consegnandosi alle generazioni future. Accogliamo contributi di accademici e practitioners per esplorare le diverse mo-dalità attraverso le quali pratiche di place-making interagiscono con la sostenibilità (e l’insostenibilità) di territori e spazi di vita. Il panel si pone come obiettivo di raccogliere analisi e testimonianze di azioni di design del territorio in contesti urbani ed extra-urbani per riflettere insieme sul divenire dei luoghi, sulla loro (in)sostenibilità e sulla loro mu-tevole identità.
17th EASA Biennial Conference (Queen’s University Belfast), 2022
What if anthropologists let ruins speak? With the critical analysis of "Southern" epistemologies ... more What if anthropologists let ruins speak? With the critical analysis of "Southern" epistemologies by de Sousa Santos (2014) and a historical-material approach to the so-called "difficult heritage" (Macdonald 2008), there is a growing interest in the anthropological potential of ruins and post-disaster contexts. Ruins and traces of natural and historical tragedies are lost pasts shipwrecked in the present with their material trace that will continue to transform in future hopes, engagements and utopias. They embody a past haunting current practice, posing ethical dilemmas on their present and future usages by the social actors and collectivities that enter into contact with them. Ruins open a dialogical space between institutional politics of memory as well as grassroots claims on the past that can work in synergy or, conversely, in conflict with each other. At the same time, ruined material crafts imaginaries and affective orientations (Ahmed 2004) towards traumatic memories for then transforming the latter's scars into building materials for a future, collective res-publica. Not only are ruins material remaining, but they are also resistant, counter-hegemonic thoughts to venture the future otherwise.
This panel sets out to reflect on the sustainability of post-traumatic memories and what is lost with the vanishing materiality of difficult pasts. It reflects on possible ways to think ruins and difficult traces of the past beyond the Western-centric categories of the abject and the residual in favor of a resilient and counter-hegemonic perspective in which ruined worlds can be generative of something new (DeSilvey 2017; Martínez 2018).
Session a: https://nomadit.co.uk/conference/easa2022/p/11400
Session b: https://nomadit.co.uk/conference/easa2022/p/11890
Session c: https://nomadit.co.uk/conference/easa2022/p/11891
Uploads
Papers by Chiara Calzana
ENG - This article delves into the sensitive undertaking of “triggering memories” among communities, families, and subjects affected by catastrophic events, using the collection of memories from survivors of the Vajont disaster as a case study. The intersubjective process of constructing memories needs meticulous attention to word choice, active listening, non-verbal communication, and respect for silence. The study presents three emblematic cases that underscore the relevance of cultivating trusting
and reciprocal relationships between researchers and the subjects they engage with. Such relationships are pivotal in successfully producing and collecting memories.
ENG On the night of October 9, 1963, an enormous landslide collapsed in the Vajont Dam hydroelectric basin. The resulting wave struck the communities of Longarone, Codissago, Erto, and Casso, along with their living environments. The affected area underwent drastic changes, although significant transformations had already been underway for some years. The wave accelerated this process. The introduction of a hydroelectric infrastructure system was presented as an alternative to a crisis in the economic and social world of the Italian mountain region – a crisis that this politics contributed to generate. Drawing upon ethnographic and historical research conducted in the valley and collected testimonies, this article analyzes the transformation of the Vajont Dam from a symbol of the national modernization project to a focal point of memory in narrative and monumentalization practices.
Book chapters by Chiara Calzana
PhD Thesis by Chiara Calzana
"Me peins" - "I remember", in local dialects - serve as a foundation for many tales of those connected to the history of the Vajont Valley. Alongside numerous "no me peins", the memories and personal experiences of my interlocutors (the Vajont disaster survivors and their descendants) form the basis of this research, arising from methodological and epistemological considerations. How do ethnographic research methods intersect and, at times, conflict with those of historical research? How can we bring these methods into dialogue to construct a history of social phenomena and chronological events that are both subjective and collective, accurate but not overly focused on the pursuit of truth? A history that contributes to reflecting on the life paths of individuals, families and territories, as well as on the power dynamics that shape or are shaped by them. In this regard, the history of an Alpine community that recalls and recounts the prolonged aftermath of a catastrophic event - a "disaster" that represented a drastic turning point yet never entirely interrupted the continuity of life - is particularly appropriate.
Conference Presentations by Chiara Calzana
Bibliografia
• Fridman, O. (2015), “Alternative calendars and memory work in Serbia: Anti-war activism after Milošević”, Memory Studies, vol. 8(2), pp. 2012-226.
• Gutman, Y. e Wüstengerg J. (2023), “Introduction: The Activist Turn in Memory Studies”, in Gutman, Y. e Wüstengerg J. (a cura di), The Routledge Handbook of Memory Activism, Routledge, Londra-New York.
• MacDonald, S. (2009) Difficult Heritage: Negotiating the Nazi Past in Nuremberg and Beyond, Routledge, Londra-New York.
• Margry, P.J. e Sànchez-Carrettero C. (a cura di) (2011), Grassroots Memorials: Politics of Memorializing Traumatic Death, Berghahn, New York-Oxford.
La mia riflessione sugli archivi si è arricchita quando sono stata chiamata a coordinare un progetto locale per la creazione di un archivio pubblico di testimonianze orali: come procedere per custodire e valorizzare queste memorie?
I casi per me emblematici sono tre: il mio rapporto con C., che ancora oggi a quasi due anni dal nostro ultimo incontro mi telefona periodicamente per rivedere insieme la trascrizione, operare tagli e censure, avere rassicurazioni circa l’utilizzo della sua testimonianza, nel timore di avermi confidato cose troppo intime che potrei rendere pubbliche tradendo la sua fiducia; il pomeriggio passato con G., e la mia fatica emotiva nel vederlo rivivere la sua esperienza; l’aver provocato il pianto di N., che ha ricordato cose che non voleva ricordare sollecitato dalle mie domande.
Il rapporto con loro mi ha insegnato a valutare meglio situazioni e contesti, aiutandomi a adottare approcci diversi a seconda del carattere e della predisposizione dei diversi interlocutori. Quelli che inizialmente sembravano solo errori evitabili dovuti alla mia incompetenza si sono rivelati l’unica via per sviluppare un istinto che mi permettesse di interpretare e affrontare le conversazioni più complesse. D’altronde, la memoria, “forma principe della soggettività” (Passerini, 2003), è via d’accesso agli aspetti più personali della vita degli altri che mette in gioco le fragilità di chi ci racconta la sua storia, ma spesso anche le nostre. Il coinvolgimento e la vicinanza emotiva del ricercatore ai suoi interlocutori, insieme al tempo e alla cura nella costruzione dei rapporti con i soggetti e le comunità coinvolti dal nostro lavoro, sono aspetti dell’esperienza di produzione delle memorie che aiutano ad evitare il ripetersi di alcuni “errori” nella conduzione dei colloqui e delle interviste. Sono queste le basi di quel “impegno etico” (Cappelletto, 2010) che costituisce le fondamenta della relazione tra me e i mei interlocutori, legandoci reciprocamente in un “patto testimoniale” (Wieviorka, 1998) che ci impegna nel comune tentativo di ricostruire storie, memorie e significati.
reservoir of the Vajont Dam, a giant infrastructure recently inaugurated in northern Italy. The resulting mega-tsunami caused the death of 1910 people and the destruction of the locals’ living environment. The event was labelled as an “authentic massacre” caused by human greed in a network of colluded powers that could have prevented it. In this context, the cemetery has been a matter of conflict and debate between institutions and survivors for many years now. Built in the days following the Vajont tsunami, the graveyard
played a fundamental role in keeping alive not only the survivors’ bond with their dead but also the memory of an entire community swept away together with its living environment. The bodies recovered from the mud were brought here, and many were unrecognizable. Lots of bodies were also missing and
their absence still causes great suffering to the families. The rebuilding in 2003 turned this traditional Alpine graveyard into a memorial monument, changing its social function forever: a gathering place where people could “meet” their beloved dead was turned into a civil monument with pedagogical purposes. The aim of this reconstruction is clear: focusing on the global effects of an “ecological disaster” rather than on the subjectivity of the victims (which disappears under white marble blocks) and the survivors’ demands for truth and justice, i.e. an actual condemnation of the human responsibilities that led to this massacre. The removal of photographs, flowers, and epitaphs, which are defined by Michel Vovelle as a “chronicle of a life and expression of the family bond”, caused a sense of further loss to the community members, who can’t acknowledge this place as their own. The survivors claim that uniformity is an expression of a politics of memory linked to monumental works, which aim to induce the visitor to sympathize rather than understand. Nevertheless, the cemetery is not the only place to commemorate the dead: other ways of dealing with remembrance and mourning exist, and survivors use them to preserve the memory. My reflections come from an ethnographic research in progress on the Vajont territory. The link between the living and the places of the dead, which plays a crucial role in survivors’ narratives and practices, is fundamental to understanding the political value that the memories of the Vajont Dam disaster have in the present days. My fieldwork on memories and practices in the Vajont area is an ongoing project I started for my master’s thesis, and I’m carrying on for my PhD work during the Covid-19 pandemic. Lots of new challenges came up in the attempt to combine observation and interaction with my informants. Are “interact” and “being there” concepts that have a new meaning today? How to carry on a work about grief, death, and trauma without losing the opportunity to empathize with our interlocutors?
Call for papers by Chiara Calzana
This panel welcomes ethnographic explorations of how timespaces are manifested, materialised, and performed through the doing and undoing of multiple intersecting forms of political engagement that animate temporal and spatial orientations. These dynamics are framed here as “crafting politics”.
Long Abstract:
Recent events, such as wars, disasters, the pandemic, and the environmental impact brought by climate change, have been experienced by communities across the world as sites of heightened political activity that animate multiple temporal and spatial orientations (cf., Bryant and Knight, 2019).
This panel welcomes ethnographic explorations of the ways in which timespaces emerge through "crafting politics". We use the term "crafting politics" as a way to indicate the doing and undoing of multiple intersecting forms of political engagement. These encompass but are not limited to the narrativisation of politics; the implementation of public policies; the impact and development of institutional interventions; the making of collective actions; the envisioning of political utopias and dystopias. Some examples include political processes of memorialisation; mobilisation and activism across physical and digital spaces; the planning and execution of projects of urban redevelopment, regeneration, and gentrification.
We encourage reflection on the following questions: how does the "crafting" of politics articulate different scales of pasts, presents, and futures (e.g., national, biographical, local)? How are intersecting timespaces produced, negotiated, and contested, through the doing and undoing of political engagement? How is politics "crafted" through the tension between temporariness and permanence? How are these emerging timespaces felt, experienced, and embodied? We are looking for contributions that consider the ways in which the "crafting" of politics becomes a site where temporal orientations and moods (e.g., anticipation, repetition, hope, uncertainty), as well as their affective resonance (see Gordon, 1997 on haunting) are manifested, materialised, envisioned, imagined, and performed.
Panel details and videos: https://nomadit.co.uk/conference/easa2024/panel/14734
Queste pratiche di place-making possono talvolta essere attuate attraverso l’implemen-tazione di politiche pubbliche dettate da attori istituzionali, volte a instaurare significati e visioni del luogo che non sempre riflettono il vissuto e l’esperienza di chi abita i territori e le città. Un’analisi di questi approcci ‘dall’alto’ rivela processi spesso conflittuali, par-ticolarmente evidenti in contesti (ri)costruiti ex novo (come, ad esempio, le new towns del periodo fascista, o le ricostruzioni post-disastro). Tali interventi, talvolta in contrasto con esigenze e caratteristiche dei contesti locali, agiscono sul territorio e influenzano in modo importante l’esperienza di chi vi abita. Nel riconoscere la dinamicità e il divenire dei luoghi al fine di elaborarne rappresentazioni non statiche, è fondamentale al tempo stesso analizzare anche le risposte alternative che intraprendono ‘dal basso’ pratiche di riappropriazione e risignificazione degli spazi. Questi processi permettono alle comunità di esercitare il loro “diritto alla città” (Lefebvre 1967), per ripensare collettivamente la materialità dei luoghi e far si che “le pietre della città poss[a]no agire” (Bastide 1970), diventando parte di narrative collettive che emergono da pratiche quotidiane e comuni-tarie di gestione e uso degli spazi.
In questo panel vogliamo esplorare entrambi i processi nelle loro divergenze e interse-zioni per riflettere su come diversi sguardi e progettualità agiscano sul territorio, su come questi si leghino all’esperienza del vivere e dell’abitare di grandi e piccole comu-nità, e sulle risposte, reazioni e resistenze che vengono messe in atto. Inoltre, porremo attenzione ai processi di memorializzazione e monumentalizzazione legati agli spazi su cui le storie e le biografie delle comunità si iscrivono, consegnandosi alle generazioni future. Accogliamo contributi di accademici e practitioners per esplorare le diverse mo-dalità attraverso le quali pratiche di place-making interagiscono con la sostenibilità (e l’insostenibilità) di territori e spazi di vita. Il panel si pone come obiettivo di raccogliere analisi e testimonianze di azioni di design del territorio in contesti urbani ed extra-urbani per riflettere insieme sul divenire dei luoghi, sulla loro (in)sostenibilità e sulla loro mu-tevole identità.
This panel sets out to reflect on the sustainability of post-traumatic memories and what is lost with the vanishing materiality of difficult pasts. It reflects on possible ways to think ruins and difficult traces of the past beyond the Western-centric categories of the abject and the residual in favor of a resilient and counter-hegemonic perspective in which ruined worlds can be generative of something new (DeSilvey 2017; Martínez 2018).
Session a: https://nomadit.co.uk/conference/easa2022/p/11400
Session b: https://nomadit.co.uk/conference/easa2022/p/11890
Session c: https://nomadit.co.uk/conference/easa2022/p/11891
ENG - This article delves into the sensitive undertaking of “triggering memories” among communities, families, and subjects affected by catastrophic events, using the collection of memories from survivors of the Vajont disaster as a case study. The intersubjective process of constructing memories needs meticulous attention to word choice, active listening, non-verbal communication, and respect for silence. The study presents three emblematic cases that underscore the relevance of cultivating trusting
and reciprocal relationships between researchers and the subjects they engage with. Such relationships are pivotal in successfully producing and collecting memories.
ENG On the night of October 9, 1963, an enormous landslide collapsed in the Vajont Dam hydroelectric basin. The resulting wave struck the communities of Longarone, Codissago, Erto, and Casso, along with their living environments. The affected area underwent drastic changes, although significant transformations had already been underway for some years. The wave accelerated this process. The introduction of a hydroelectric infrastructure system was presented as an alternative to a crisis in the economic and social world of the Italian mountain region – a crisis that this politics contributed to generate. Drawing upon ethnographic and historical research conducted in the valley and collected testimonies, this article analyzes the transformation of the Vajont Dam from a symbol of the national modernization project to a focal point of memory in narrative and monumentalization practices.
"Me peins" - "I remember", in local dialects - serve as a foundation for many tales of those connected to the history of the Vajont Valley. Alongside numerous "no me peins", the memories and personal experiences of my interlocutors (the Vajont disaster survivors and their descendants) form the basis of this research, arising from methodological and epistemological considerations. How do ethnographic research methods intersect and, at times, conflict with those of historical research? How can we bring these methods into dialogue to construct a history of social phenomena and chronological events that are both subjective and collective, accurate but not overly focused on the pursuit of truth? A history that contributes to reflecting on the life paths of individuals, families and territories, as well as on the power dynamics that shape or are shaped by them. In this regard, the history of an Alpine community that recalls and recounts the prolonged aftermath of a catastrophic event - a "disaster" that represented a drastic turning point yet never entirely interrupted the continuity of life - is particularly appropriate.
Bibliografia
• Fridman, O. (2015), “Alternative calendars and memory work in Serbia: Anti-war activism after Milošević”, Memory Studies, vol. 8(2), pp. 2012-226.
• Gutman, Y. e Wüstengerg J. (2023), “Introduction: The Activist Turn in Memory Studies”, in Gutman, Y. e Wüstengerg J. (a cura di), The Routledge Handbook of Memory Activism, Routledge, Londra-New York.
• MacDonald, S. (2009) Difficult Heritage: Negotiating the Nazi Past in Nuremberg and Beyond, Routledge, Londra-New York.
• Margry, P.J. e Sànchez-Carrettero C. (a cura di) (2011), Grassroots Memorials: Politics of Memorializing Traumatic Death, Berghahn, New York-Oxford.
La mia riflessione sugli archivi si è arricchita quando sono stata chiamata a coordinare un progetto locale per la creazione di un archivio pubblico di testimonianze orali: come procedere per custodire e valorizzare queste memorie?
I casi per me emblematici sono tre: il mio rapporto con C., che ancora oggi a quasi due anni dal nostro ultimo incontro mi telefona periodicamente per rivedere insieme la trascrizione, operare tagli e censure, avere rassicurazioni circa l’utilizzo della sua testimonianza, nel timore di avermi confidato cose troppo intime che potrei rendere pubbliche tradendo la sua fiducia; il pomeriggio passato con G., e la mia fatica emotiva nel vederlo rivivere la sua esperienza; l’aver provocato il pianto di N., che ha ricordato cose che non voleva ricordare sollecitato dalle mie domande.
Il rapporto con loro mi ha insegnato a valutare meglio situazioni e contesti, aiutandomi a adottare approcci diversi a seconda del carattere e della predisposizione dei diversi interlocutori. Quelli che inizialmente sembravano solo errori evitabili dovuti alla mia incompetenza si sono rivelati l’unica via per sviluppare un istinto che mi permettesse di interpretare e affrontare le conversazioni più complesse. D’altronde, la memoria, “forma principe della soggettività” (Passerini, 2003), è via d’accesso agli aspetti più personali della vita degli altri che mette in gioco le fragilità di chi ci racconta la sua storia, ma spesso anche le nostre. Il coinvolgimento e la vicinanza emotiva del ricercatore ai suoi interlocutori, insieme al tempo e alla cura nella costruzione dei rapporti con i soggetti e le comunità coinvolti dal nostro lavoro, sono aspetti dell’esperienza di produzione delle memorie che aiutano ad evitare il ripetersi di alcuni “errori” nella conduzione dei colloqui e delle interviste. Sono queste le basi di quel “impegno etico” (Cappelletto, 2010) che costituisce le fondamenta della relazione tra me e i mei interlocutori, legandoci reciprocamente in un “patto testimoniale” (Wieviorka, 1998) che ci impegna nel comune tentativo di ricostruire storie, memorie e significati.
reservoir of the Vajont Dam, a giant infrastructure recently inaugurated in northern Italy. The resulting mega-tsunami caused the death of 1910 people and the destruction of the locals’ living environment. The event was labelled as an “authentic massacre” caused by human greed in a network of colluded powers that could have prevented it. In this context, the cemetery has been a matter of conflict and debate between institutions and survivors for many years now. Built in the days following the Vajont tsunami, the graveyard
played a fundamental role in keeping alive not only the survivors’ bond with their dead but also the memory of an entire community swept away together with its living environment. The bodies recovered from the mud were brought here, and many were unrecognizable. Lots of bodies were also missing and
their absence still causes great suffering to the families. The rebuilding in 2003 turned this traditional Alpine graveyard into a memorial monument, changing its social function forever: a gathering place where people could “meet” their beloved dead was turned into a civil monument with pedagogical purposes. The aim of this reconstruction is clear: focusing on the global effects of an “ecological disaster” rather than on the subjectivity of the victims (which disappears under white marble blocks) and the survivors’ demands for truth and justice, i.e. an actual condemnation of the human responsibilities that led to this massacre. The removal of photographs, flowers, and epitaphs, which are defined by Michel Vovelle as a “chronicle of a life and expression of the family bond”, caused a sense of further loss to the community members, who can’t acknowledge this place as their own. The survivors claim that uniformity is an expression of a politics of memory linked to monumental works, which aim to induce the visitor to sympathize rather than understand. Nevertheless, the cemetery is not the only place to commemorate the dead: other ways of dealing with remembrance and mourning exist, and survivors use them to preserve the memory. My reflections come from an ethnographic research in progress on the Vajont territory. The link between the living and the places of the dead, which plays a crucial role in survivors’ narratives and practices, is fundamental to understanding the political value that the memories of the Vajont Dam disaster have in the present days. My fieldwork on memories and practices in the Vajont area is an ongoing project I started for my master’s thesis, and I’m carrying on for my PhD work during the Covid-19 pandemic. Lots of new challenges came up in the attempt to combine observation and interaction with my informants. Are “interact” and “being there” concepts that have a new meaning today? How to carry on a work about grief, death, and trauma without losing the opportunity to empathize with our interlocutors?
This panel welcomes ethnographic explorations of how timespaces are manifested, materialised, and performed through the doing and undoing of multiple intersecting forms of political engagement that animate temporal and spatial orientations. These dynamics are framed here as “crafting politics”.
Long Abstract:
Recent events, such as wars, disasters, the pandemic, and the environmental impact brought by climate change, have been experienced by communities across the world as sites of heightened political activity that animate multiple temporal and spatial orientations (cf., Bryant and Knight, 2019).
This panel welcomes ethnographic explorations of the ways in which timespaces emerge through "crafting politics". We use the term "crafting politics" as a way to indicate the doing and undoing of multiple intersecting forms of political engagement. These encompass but are not limited to the narrativisation of politics; the implementation of public policies; the impact and development of institutional interventions; the making of collective actions; the envisioning of political utopias and dystopias. Some examples include political processes of memorialisation; mobilisation and activism across physical and digital spaces; the planning and execution of projects of urban redevelopment, regeneration, and gentrification.
We encourage reflection on the following questions: how does the "crafting" of politics articulate different scales of pasts, presents, and futures (e.g., national, biographical, local)? How are intersecting timespaces produced, negotiated, and contested, through the doing and undoing of political engagement? How is politics "crafted" through the tension between temporariness and permanence? How are these emerging timespaces felt, experienced, and embodied? We are looking for contributions that consider the ways in which the "crafting" of politics becomes a site where temporal orientations and moods (e.g., anticipation, repetition, hope, uncertainty), as well as their affective resonance (see Gordon, 1997 on haunting) are manifested, materialised, envisioned, imagined, and performed.
Panel details and videos: https://nomadit.co.uk/conference/easa2024/panel/14734
Queste pratiche di place-making possono talvolta essere attuate attraverso l’implemen-tazione di politiche pubbliche dettate da attori istituzionali, volte a instaurare significati e visioni del luogo che non sempre riflettono il vissuto e l’esperienza di chi abita i territori e le città. Un’analisi di questi approcci ‘dall’alto’ rivela processi spesso conflittuali, par-ticolarmente evidenti in contesti (ri)costruiti ex novo (come, ad esempio, le new towns del periodo fascista, o le ricostruzioni post-disastro). Tali interventi, talvolta in contrasto con esigenze e caratteristiche dei contesti locali, agiscono sul territorio e influenzano in modo importante l’esperienza di chi vi abita. Nel riconoscere la dinamicità e il divenire dei luoghi al fine di elaborarne rappresentazioni non statiche, è fondamentale al tempo stesso analizzare anche le risposte alternative che intraprendono ‘dal basso’ pratiche di riappropriazione e risignificazione degli spazi. Questi processi permettono alle comunità di esercitare il loro “diritto alla città” (Lefebvre 1967), per ripensare collettivamente la materialità dei luoghi e far si che “le pietre della città poss[a]no agire” (Bastide 1970), diventando parte di narrative collettive che emergono da pratiche quotidiane e comuni-tarie di gestione e uso degli spazi.
In questo panel vogliamo esplorare entrambi i processi nelle loro divergenze e interse-zioni per riflettere su come diversi sguardi e progettualità agiscano sul territorio, su come questi si leghino all’esperienza del vivere e dell’abitare di grandi e piccole comu-nità, e sulle risposte, reazioni e resistenze che vengono messe in atto. Inoltre, porremo attenzione ai processi di memorializzazione e monumentalizzazione legati agli spazi su cui le storie e le biografie delle comunità si iscrivono, consegnandosi alle generazioni future. Accogliamo contributi di accademici e practitioners per esplorare le diverse mo-dalità attraverso le quali pratiche di place-making interagiscono con la sostenibilità (e l’insostenibilità) di territori e spazi di vita. Il panel si pone come obiettivo di raccogliere analisi e testimonianze di azioni di design del territorio in contesti urbani ed extra-urbani per riflettere insieme sul divenire dei luoghi, sulla loro (in)sostenibilità e sulla loro mu-tevole identità.
This panel sets out to reflect on the sustainability of post-traumatic memories and what is lost with the vanishing materiality of difficult pasts. It reflects on possible ways to think ruins and difficult traces of the past beyond the Western-centric categories of the abject and the residual in favor of a resilient and counter-hegemonic perspective in which ruined worlds can be generative of something new (DeSilvey 2017; Martínez 2018).
Session a: https://nomadit.co.uk/conference/easa2022/p/11400
Session b: https://nomadit.co.uk/conference/easa2022/p/11890
Session c: https://nomadit.co.uk/conference/easa2022/p/11891
Coltivare la memoria del Vajont all’interno della comunità, per trasmetterla oltre i confini e alle nuove generazioni – questo è lo scopo de “Le Vie della Memoria”. È infatti proprio la memoria ad unire la toponomastica delle vie del Comune di Vajont ai luoghi della Valle. Una memoria che abbiamo ricostruito grazie ai racconti e alle fotografie di chi ha vissuto quei luoghi prima del disastro, per poterla custodire nel tempo. Alla geografia de Le Vie della Memoria, rappresentata dalle mappe, si affianca così la geografia dei ricordi delle persone che con le loro preziose testimonianze ci hanno permesso di conoscere questi luoghi ancor più da vicino. Anche il contributo di chi ancora oggi vive quotidianamente a Erto e Casso ci ha consentito di ricostruirne la storia e la geografia attuale, fondamentali per poter tracciare una linea di continuità tra le memorie e il presente.
Coordinamento progetto e attività di ricerca: Chiara Calzana
Collaboratori: Matteo Barzan, Kevin Considine, Marta Corona, Karim Manarin, Alessia Tomè
Foto, video e riproduzione immagini d’archivio: Martina Cavinato
Testi e comunicazione: Silvia Maronato
Archiviazione: Francesco Destro
Progetto Web e Digitalizzazione mappe: Samuele Schiavon / Babel Studio