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View metadata, citation and similar papers at core.ac.uk Università della Svizzera italiana brought to you by Accademia di architettura Archivio del Moderno Il cantiere tra empiria e “necessità” nell’architettura di fine Cinquecento Letizia Tedeschi CORE provided by RERO DOC Digital Library Archivio del Moderno Accademia di architettura Università della Svizzera italiana Il presente volume è stato pubblicato nell’ambito del progetto di ricerca “L’impresa Fontana tra XVI e XVII secolo: modalità operative, tecniche e ruolo delle maestranze”, diretto da Letizia Tedeschi e Nicola Navone, promosso dall’Archivio del Moderno, Accademia di architettura – Università della Svizzera italiana in collaborazione con il Dipartimento di storia disegno e restauro dell’architettura La Sapienza Università di Roma e il Dipartimento di architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Progetto finanziato dal FNSFondo Nazionale Svizzero per la Ricerca Scientifica (n. 100016_150268/1). Comitato scientifico Giovanna Curcio, Università IUAV di Venezia; Francesco Paolo Fiore, La Sapienza Università di Roma; Nicola Navone, Archivio del Moderno – Accademia di architettura, Università della Svizzera italiana; Letizia Tedeschi, Archivio del Moderno – Accademia di architettura, Università della Svizzera italiana; Sergio Villari, Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Comitato editoriale della collana Claire Barbillon, École du Louvre, Parigi; Barry George Bergdoll, Columbia University, New York; Jean-Philippe Garric, Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne; Silvia Ginzburg, Università degli Studi Roma Tre; Nicola Navone, Archivio del Moderno, USI; Bruno Reichlin, Université de Genève; Letizia Tedeschi, Archivio del Moderno, USI; Richard Wittman, University of California, Santa Barbara. Progetto grafico Paola Gallerani e Chiara Bosio Impaginazione Nicolò Rossi Redazione Maria Felicia Nicoletti e Paola Carla Verde Segreteria di redazione Serena Solla Ufficio stampa Luana Solla Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore. Officina Libraria Via Carlo Romussi, 4 20125 Milano www.officinalibraria.net Fotolito Maurizio Zeminian, Verona isbn: 978-88-99765-99-6 © Officina Libraria, Milano, 2019 © 2019 Fondazione Archivio del Moderno Stampa Ancora Arti Grafiche, Milano Printed in Italy pratiche architettoniche a confronto nei cantieri italiani della seconda metà del cinquecento a cura di Maria Felicia Nicoletti Paola Carla Verde Archivio del Moderno Accademia di architettura Università della Svizzera italiana SOMMARIO VII Prefazione. Il cantiere tra empiria e “necessità” nell’architettura di fine Cinquecento Letizia Tedeschi XXVII Nota dei curatori Maria Felicia Nicoletti e Paola Carla Verde 1 Costruire il Belvedere dopo Bramante: un cantiere papale a Roma nel secondo Cinquecento Rossana Nicolò 23 La cappella Gregoriana nella basilica vaticana: il cantiere della decorazione attraverso i documenti della Tesoreria Segreta pontificia (1578-1584) Emmanuel Lamouche 47 «Pare tutta, dai piedi fino alla cima, fatta d’un pezzo solo». La facciata della basilica di Loreto (1570-1587): progetto e gestione del cantiere Antonio Russo 65 Il cantiere delle Procuratie Nuove in piazza San Marco tra il 1582 e il 1615: progetti, gerarchie e organizzazione delle maestranze Paola Placentino 83 A Genova «ogni lavoro dovrà esser forte, sicuro, buono et bello». Cantieri e maestranze nel “Siglo de los Genoveses” Stefania Bianchi e Roberto Santamaria 97 L’impresa dei Silva di Morbio Lucia Aliverti, Alberto Felici e Giacinta Jean 119 «C’ha bisognato usarvi una diligentia quasi maravigliosa». Il cantiere dell’acquedotto dell’acqua Felice 1585-1587: il successo di Giovanni Fontana Paola Carla Verde 161 Un cantiere nel cantiere: Domenico Fontana e la costruzione con «non piccola difficultà» della cappella di Sisto V (1585-1590) Maria Felicia Nicoletti 199 Due complessi cantieri di Domenico Fontana nel Regno di Napoli: gli ornamenti delle «regie cappelle» di Sant’Andrea ad Amalfi e di San Matteo a Salerno (1599-1607) Concetta Restaino 223 Il cantiere per la costruzione del nuovo arsenale di Napoli Ciro Birra 235 236 236 257 267 Apparati Abbreviazioni Bibliografia Indice dei nomi Crediti fotografici Prefazione Il cantiere tra empiria e “necessità” nell’architettura di fine Cinquecento Letizia Tedeschi Pratiche architettoniche a confronto nei cantieri italiani della seconda metà del Cinquecento, il titolo stesso del volume a cura di Maria Felicia Nicoletti e Paola Carla Verde, che raccoglie una serie di saggi richiamanti le omonime giornate di studi svoltesi all’Archivio del Moderno il 30 e 31 maggio 2016 (promosse nell’ambito del progetto “L’impresa Fontana tra XVI e XVII secolo: modalità operative, tecniche e ruolo delle maestranze” finanziato dal Fondo Nazionale Svizzero per la Ricerca Scientifica FNS n. 100016_150268/1), propone una prima riflessione riattualizzante un assunto di Hans-Georg Gadamer che ruota attorno a quanto costituisce la tesi centrale di Verità e metodo: «L’essere, che può venir compreso, è linguaggio». Tale ricorso propone in sé una rinnovata attenzione nei confronti del linguaggio architettonico cinquecentesco espresso da una casistica esemplare, aprendosi alla scoperta del lessico dei protagonisti di questa storia ritrovata, andando a recuperare quando possibile persino il gergo di cantiere agito da tutte le figure professionali impegnate in questa edificazione in un arco di tempo e in riferimento a scenari storici particolarmente significativi. Che domandano d’essere considerati con la dovuta attenzione e prudenza, allargando il grand’angolo prospettico rivolto a queste vicende fino a comprendere quanto accompagna e rende possibile questo edificare. Mettendo così a confronto il linguaggio dei costruttori, dagli architetti alle maestranze implicate in gran numero e secondo competenze e ruoli professionali differenti nei singoli cantieri e, in parallelo, il sincronico linguaggio dell’apparato burocratico-amministrativo che fiancheggia e in parte disciplina questo fervore edilizio e quello, sovente ben più aulico, della committenza. Tutto questo in ragione di un interrogarsi suscitato dal focus dichiarato dal titolo del volume, insistente sulle “pratiche architettoniche” messe in atto nei cantieri presi, volta a volta, in esame. VIII LETIZIA TEDESCHI Ciò comporta, piuttosto che un abbandono fiducioso a quanto enunciato, un’inquietudine inattesa che provoca altri problemi. Le terminologie agite, i lessici espletati – naturalmente per ciò che ne dicono i documenti d’epoca e le pubblicazioni coeve – in che modo si commisurano alle tecniche in uso, dalle tradizionali alle innovative? In qual modo possono darsi come veicoli di conoscenza del cantiere e sue pratiche, riverberandosi nelle procedure edilizie espletate in questo giro di anni? Al tempo stesso, quale rispecchiamento di questi documenti e di questa pletora di pubblicazioni, capintesta i trattati, potrà darsi attraverso un puntuale riesame del costruito e una ricomposizione indiziaria della genesi attuata a Roma e contado, a Napoli, a Salerno o a Venezia nel costruire le nuove fabbriche? Nel caso di una pur parziale conferma di una corrispondenza dell’edificato nei documenti d’archivio e nell’editoria del tempo, che cosa è lecito ipotizzare? Nel caso di un effettivo riscontro – radicato su certezze storiche come i documenti d’archivio e il costruito – di una qualche assonanza tra tutte le componenti di questa narrazione, tra tutti i soggetti d’essa, ecco che si avrà conferma di una congruità tra i differenti linguaggi e ruoli, le relative competenze e dunque la prassi esplicitata nel cantiere. Proviamo a focalizzare la nostra attenzione su ciò che è condiviso e unifica, senza dover ricorrere a parole abusate come “identità culturale”, i diversificati casi presi in esame. Dato che il “culturale”, per dirla con François Jullien (Il n’y a pas d’identité culturelle, mai nous défendons les ressources d’une culture, Paris 2016), si manifesta e consolida nelle tensioni generate dal diverso, dallo scarto che di volta in volta ha il sopravvento e costringe a una trasfigurazione costante. Allo stesso modo non si può intendere queste diversità come differenza, poiché ciò porta a isolare ciascuna opera, il singolo cantiere e la sua cultura, nella propria identità, negando un dialogo da cui possa emergere la trasformazione che è alla base del culturale. Ebbene, tutto ciò corrisponde, a nostro avviso, a quanto accade nei singoli cantieri esaminati ed è questo susseguirsi di scarti la principale spinta che sta causando una trasfigurazione dell’architettura. La quale, anche quando sembra assumere toni più decisi non ricalca i clamori d’inizio Cinquecento e così verrebbe da dire: tutto sembra accadere a bassa voce. Questo invita a interrogarsi in merito a quale descrizione possa allora essere possibile. Facendo leva su quesiti come, per esempio: il coinvolgimento di ambiti diversi e di ruoli conformi, che cosa consente di immaginare? In principio si dovrà investire questi scenari di un unico sguardo storico per poter mettere a fuoco un profilo generale pertinente all’accaduto. Parimenti possiamo chiederci se un’“analisi” testuale riferibile alle fabbriche prese in esame possa risultare di una qualche utilità nei IL CANTIERE TRA EMPIRIA E “NECESSITÀ” riguardi del contendere. Nella consapevolezza di trovarci di fronte a un costruito che sulle prime parrebbe persino occultare – quanto meno parzialmente – le proprie peculiarità, rendendo più difficile l’identificazione delle novità e, allo stesso tempo, di ciò che costituisce una continuità con il pregresso. Inoltre, ci dobbiamo interrogare in merito a quale “lettura” fra le varie disponibili sia opportuno fare riferimento per ottenere descrizioni aderenti ai soggetti indagati. In considerazione del fatto che in questo volume è posta la maggiore attenzione sulla prassi di cantiere quale viene espletata caso per caso non possiamo esimerci dal confronto dialettico fra le nostre asserzioni e quanto restituisce il costruito. Nodi inestricabili? Forse sì e in ragione di ciò ecco la rilevanza dell’investitura congetturale ipoteticamente data a priori di un approccio analitico dei singoli soggetti considerati nei contributi del volume. Da ciò deriva pure una riflessione che esula, in parte, dalla trattazione che segue. L’idea è quella di lasciarsi guidare dalla genesi di ogni manufatto architettonico, dal progetto al cantiere, e da quest’ultimo al costruito, dal progettato alla pubblicazione nel caso di proposte restate sulla carta, per approdare infine ad alcune considerazioni più generali. Considerazioni che possano toccare questo o quell’aspetto proposto sia dalla trattatistica di settore sia dall’edificato in Italia, quest’eterogenea e diseguale realtà architettonica italiana, quale si manifesta nella seconda metà del Cinquecento, così ricca di proposte dissonanti da costituire in sé, in questa disparità, un problema. Ma al tempo stesso tale per cui essa sollecita, in virtù di ciò, una rinnovata attenzione per le processualità attuative, per i tempi e i modi esperiti nell’architettura. La curiosità riguarda ciò che dall’edificio consente di risalire al cantiere, e da questo permette di risalire ancora più indietro: all’ideazione e poi ancora alla stessa concezione dell’architettura quale si afferma nella seconda metà del Cinquecento. In ragione di questo, si ha la possibilità di seguire, attraverso le differenti tappe della costruzione, non solo il divenire o la genesi di ogni fabbrica ma anche il divenire dell’architettura come disciplina. Francesco Paolo Fiore in un saggio denso di annotazioni pungenti, nell’affrontare La fortuna italiana degli scritti di Burckhardt sull’architettura del Rinascimento (in L’idée du style dans l’historiographie artistique, a cura di Sabine Frommel e Antonio Brucculeri, Roma 2012) offre un bilancio storiografico esemplare in merito al lascito burckhardtiano. Tra 1860 e 1953 si è dipanato un dibattito avviato da Jacob Burckhardt e concluso momentaneamente da Eugenio Garin, attorno all’idea di architettura “rinascimentale” – al primo spetta il memorabile Die Kultur der Renaissance in Italien (1860 e 1869), al secondo il saggio Il “Rinascimento” del IX X LETIZIA TEDESCHI Burckhardt (in Jacob Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, a cura di Guido Manacorda, Firenze 1953). A questo fa seguito un nuovo svolgimento storiografico confermante, infine, l’attualità di alcuni rilievi burckhardtiani in riferimento agli scenari esplorati nel presente volume; saggi in cui parrebbe riattualizzarsi l’articolazione delle proporzioni che viene determinando lo spazio architettonico cinquecentesco appellandosi all’Alberti: «L’architettura gotica consiste in un puro ritmo dinamico, mentre il Rinascimento è ritmo delle masse». Quelle masse architettoniche che sembrano guadagnare nel secondo Cinquecento un’invadenza inedita, riuscendo altresì a manifestare un’idea di stile che si discosta da questi antefatti. Per approdare a che cosa? Una qualche risposta potrebbe venire dall’abbandono di questa tradizione storiografica, rompendo dunque con questa eredità vincolata in qualche modo a una lettura evolutiva e stilistica, su cui si effondono con acume alcuni saggi del volume summentovato, grazie a contributi quali Arte italiana e arte tedesca nell’opera di Henry Thode, di Michela Passini, ma se rinunciamo alla critica stilistica, come potremo procedere e con quali risultati? Proviamo a mettere in fila Benedetto Croce e Karl Vossler, Heinrich Wölfflin e Alois Riegl, al seguito di Julius von Schlosser. Attesta uno scritto autobiografico del 1924 che Schlosser veniva formulando sul conto di Riegl un quadro «mosso e problematico», come scrive Donata Levi, Julius von Schlosser tra Riegl e Croce: appunti su storia dello stile e storia del linguaggio (pubblicato nel medesimo volume). Ci viene ricordato da questa studiosa che lo stesso Schlosser argomenta precocemente del concetto di Kunstwollen, ma poi a mano che egli assorbe la lezione crociana si allontana da Riegl e al tempo stesso si appassiona alla sua critica. Intorno al 1900 arriva a concludere, recuperando alcune sue considerazioni del 1899, che vi è consonanza fra la propria idea di unitarietà dello sviluppo storico e l’intento riegleiano di realizzare una storia dell’arte come una disciplina scientifica. Egli viene restituendo a Riegl il merito di essersi superato con Stilfragen. Grundlegungen zu einer Geschichte der Ornamentik (1893) (Problemi di stile. Fondamenti di una storia dell’arte ornamentale, 1963). Ma, quel che più conta, quantunque Riegl consolidi le proprie acquisizioni nella più matura espressione dell’Industria artistica tardo romana del 1901, Schlosser se ne distacca ulteriormente cercando di appropriarsi e assorbire la lezione dell’Estetica (1902) di Benedetto Croce. Quantunque provveda a mutare l’identità crociana fra arte e linguaggio, arrivando a dire: «[…] come nell’arte così nella lingua, ugualmente non si può trattare di imitazione meccanica, ma dell’espressione di un “interno” evento spirituale, della forma di sviluppo di un fenomeno psicofisico». Fermiamoci qui. «Di fatto – scrive per noi IL CANTIERE TRA EMPIRIA E “NECESSITÀ” Levi – l’identità postulata da Croce fra arte e linguaggio, fra estetica e linguistica, costituisce uno dei punti più complessi e controversi del suo pensiero e soprattutto pone problemi a chi, conseguentemente a questa impostazione, si orienta verso un’applicazione concreta in campi affini. Con la distinzione, nella considerazione della lingua, fra il momento del progresso assoluto, cioè della libera creazione individuale e teorica, e quello del progresso relativo, cioè del cosiddetto sviluppo regolare e della creazione teorico-pratica collettiva, fra considerazione estetica del linguaggio, ossia di storia artistica, e considerazione storica, o di storia della cultura»; chiamando in campo Karl Vossler che distingueva tra «storia dello stile» e «storia del linguaggio». Infine, Schlosser – sollecitato dalla diade Vossler-Croce – affronta in termini ampi e articolati, nel 1935, la complessità della questione e ci consente di intravedere, nel suo stesso portato, almeno una possibilità di leggere l’architettura cinquecentesca come un linguaggio architettonico. Alla ricerca della soluzione di un problema: il mutare, talvolta persino sottobanco, dell’architettura della seconda metà del XVI secolo che guadagna un carattere, per così dire, più marcatamente linguistico. Un divenire dovuto ai più diversi fattori coinvolgenti l’intera compagine sociale del tempo, nonché la tecnologia e l’economia, la politica e il gusto, insomma uno slancio onnicomprensivo suscitatore di micro e macro rivolgimenti che impongono, per essere decrittati, indagini che interessano ambiti disciplinari differenti comprendenti le più varie aree o i più disparati scenari. E di conseguenza queste stesse indagini sono chiamate a coinvolgere e difatti coinvolgono, sul fronte documentale, le più varie carte d’archivio, dalle missive dei principali attori di questa storica vicenda ai documenti amministrativi, a quant’altre pezze d’appoggio vengano ad accompagnare la singola edificazione, ogni singola storia considerata: dove, per di più, ogni elemento finisce per assumere una certa rilevanza. Non possiamo non considerare con la dovuta attenzione, allora, oltre ai documenti rilasciati dalla committenza, sovente di primaria importanza, anche la diseguale presenza di carteggi tra i più vari attori. Per non dire delle pubblicazioni encomiastiche coeve, della sincronica trattatistica, dei manuali e ancora, i brogliacci di cantiere, ogni altra possibile testimonianza editoriale del tempo, o anche manoscritta (perciò destinata a circolare fra poche persone, tutte partecipi dell’impresa edificatoria in atto). Una coralità documentale, atta a superare i limiti a cui accennavamo richiamando un dibattito storiografico ben noto, nel tracciare un parziale quadro generale entro cui i cantieri assumono un ruolo a se stante, incardinato – si è visto – sul dialogo stretto tra tecnica e tecnologia, tra idea e prassi, tra arte e scienza su cui varrebbe XI XII LETIZIA TEDESCHI la pena aprire un’ampia digressione; cantieri rivelanti, per di più, un altro e nuovo fronte di ricerca e di meditazione incentrato su queste stesse pratiche cantieristiche. Dare specifico rilievo a un’economia di cantiere che favorisce protocolli utili alla definizione di una prassi finalizzata a un costruire più efficace e più economico, anche in termini temporali, costituisce in sé una delle chiavi di lettura dei saggi raccolti in questo libro. È – va riconosciuto – uno dei più significativi contributi proposti dal volume. Ma, a conti fatti, a che cosa porta? A ragionare in termini di costruzione di un linguaggio architettonico o meglio, uno pseudo-linguaggio. E allora, che cosa fa la differenza fra la ricerca di una definizione di uno pseudo-linguaggio e quella di uno stile? Forse la prima si avvicina maggiormente alla centralità del tema affrontato: le pratiche di cantiere, quali si manifestano nel secondo Cinquecento e primo Seicento italiano. Nell’intentare questo, quali problematiche si debbono considerare, quali ostacoli si verranno a presentare? L’intreccio di tutti questi quesiti e di questi differenti elementi raccolti attraverso la sommatoria dei vari apporti che si saldano alla costruzione del tempo, finisce per favorire una contestualizzazione delle singole fabbriche e consente così di constatare che l’architettura moderna, quest’attuale architettura è in sé in continua evoluzione. Parimenti, essa svolge tutta una serie di variazioni testuali, chiamiamole così, preservando tuttavia un’invarianza complessiva di struttura e di lessico che perdura nel tempo dichiarando una continuità rispetto ai primi anni del secolo. Una continuità calata nell’attualità. Questo problema, la sua stessa disamina allorquando tutto questo si riverbera nei cantieri è uno dei caratteri salienti dei manufatti architettonici quale viene esplicitato nei saggi del presente volume che ne assumono analiticamente la genesi. Le puntuali indagini presentate vengono a confermare una sorta di sospensione temporale in cui si attuano, nel corpo delle singole architetture, reiterati scarti innovativi. In forza di ciò, si giustificano interrogativi del tipo: l’archivio composto di manoscritti, di disegni e d’altre carte o anche la pubblicistica del tempo, le cronache, le memorie, altro ancora, a cosa porta un tale raccolto e dunque a quale possibile presentazione dei singoli casi indagati può approdare? Assunti tutti questi dati, acquisiti e soppesati in funzione di una lettura complessiva che intenta un profilo generale in merito agli scenari storici e geografici implicati, ecco che tramite un’analisi polarizzata sulla identità materiale, incentrata sulla fisicità delle singole edificazioni e dunque sulla centralità delle pratiche di cantiere, ecco che in linea con tutto ciò possiamo abbozzare, forse, la composizione di un utile paradigma, rivolto alla consistenza fisica oltreché la forma, delle architetture implicate. Ma questo può effettivamente aiutarci a mettere a punto tutta IL CANTIERE TRA EMPIRIA E “NECESSITÀ” una serie di questioni, solitamente emarginate o appena considerate in merito al costruito? Forse possiamo avviare una proposta di “lettura” del costruito che tenta una elaborazione tesa – diciamolo con semplicità – a una restituzione critica che muove dal basso, dalla materialità o fisicità dell’architettura; un approccio riecheggiante, sottotraccia, alcune assonanze con certa storiografia archeologica. Seppur questo può condurci verso orizzonti problematici assai vasti e tali per cui corriamo il rischio di non approdare a un qualche risultato, mentre è urgente il dover sciogliere, per tornare al filo dei nostri più specifici ragionamenti, ogni riserva in merito alla consistenza, alla datità fisica manifestata dal patrimonio architettonico di fine Cinquecento. Pertanto si dovrà procedere alla messa a fuoco di un cannocchiale privilegiato non troppo abusato e che riserva ancora molte sorprese, come è attestato dai saggi raccolti in questo volume. Si dovrà chiederci, nell’introdurre questi contributi, che cosa possa mai significare e a cosa mai possa corrispondere un’analisi confacente a una possibile interpretazione che muove dal cantiere e al tempo stesso tiene conto pure di un paradigma linguistico o para-linguistico particolare, vincolato, com’è, alle ragioni materiali o fisiche di questo costruito. Venendo conseguentemente a considerare proprio questa fisicità data, caso dopo caso, dal corpo di fabbrica sotto esame assunto e affrontato, da un lato, alla stessa stregua di un testo letterario e, dall’altro lato, paragonato piuttosto a una consistenza materiale di fronte alla quale si debbono intentare altri ragionamenti. Inscindibili, per loro stessa natura, dalla fisicità che appartiene appunto ai singoli edifici e, almeno in parte, ne determina strutturalmente gli stessi esiti formali. Conseguentemente, si dovrà articolare un insieme di annotazioni, un insieme di questioni. Con l’intento, dichiarato, di superare un po’ quanto ci è stato consegnato – si è visto – dal dibattito svoltosi a partire dalla fine Ottocento. In ragione di ciò, può tornare utile riflettere ancora, sia pure con tutte le riserve del caso, in merito a un possibile coinvolgimento linguistico. Otto Jespersen – stando a Noam Chomsky che ne argomenta nel 2015, in un suo articolo pubblicato nel “Journal of Psycholinguistic Research”, dal seguente titolo: Some core contested concepts (ora pubblicato in italiano con altri interventi nel volume, Il mistero del linguaggio. Nuove prospettive, 2018) – propone che lo studio del linguaggio tenti di scoprire la «nozione di struttura» interiorizzata da chi lo utilizza. Ciò permetterebbe, sostiene Chomsky, la produzione di «espressioni libere», generalmente nuove. Una condizione, dunque, in buona parte corrispondente alle novità offerte dal costruito del secondo Cinquecento. Ancor più intrigante per l’articolazione di una propositiva inferenza linguistica in grado di attivarsi XIII XIV LETIZIA TEDESCHI con qualche successo nei confronti dell’architettura parrebbe essere, però, il contributo filosofico di Willard V.O. Quine, Word and Object (capitolo 2: Translation and Meaning), del 1960. «Egli – scrive Chomsky – riteneva che una lingua fosse una sorta di “teoria”, dove per “teoria” si intende un tessuto di enunciati associati tra loro». Accostabile, dunque, alla definizione di architettura secondo la cultura architettonica cinquecentesca che deve pur qualcosa al dogmatismo illuminato di Leon Battista Alberti. Qualcosa che trova già nella storiografia di settore e prim’ancora nelle coeve scritture testimoniali, nella letteratura artistica del tempo, secondo la felice denominazione proposta in un memorabile volume da Julius von Schlosser, più di una pungente conferma. E questo riattualizza un dibattito storiografico svoltosi anni addietro. Non pochi studiosi, specie medievisti, basti considerare il portato di un Jurgis Baltrušaitis, hanno finito per presentare – apparentemente in linea con la linguistica contemporanea – non più un approccio formale legato per esempio allo Jakobson e sua scuola, alla «visibilità pura» o ad altri paradigmi (come può testimoniare il contributo formalistico del kantiano Fiedler), neppure un’analisi dei testi architettonici riferibile alla stilistica vincolata all’ekphrasis, e invece una conseguenza di quel “cantiere” di proposte innovative che è stato lo strutturalismo. Aperto piuttosto a una diversa e nuova interpretazione di tutti i segni e i segnali disponibili, tant’è che l’analisi proposta dal Baltrušaitis potrebbe definirsi “statistica”, nel senso di un computo delle reiterate migrazioni di elementi che sono parte integrante di ogni architettura. Per averne conferma, si guardi alla puntuale restituzione che questo studioso ha fatto delle migrazioni e delle varianti testuali relative a intere sequenze di capitelli romanici se non di conio ancor più remoto e dunque di reimpiego che si ritrovano all’interno di grandi edifici ecclesiali o civili in cui il riuso dei materiali si somma al reimpiego per assorbimento o inclusione del preesistente. Tale inclusione ne fa opere assai stratificate, fisicamente stratificate, facendo di questa convivenza una cifra distintiva. Al tempo stesso mette in difficoltà un’analisi stilistica tesa alla definizione di una cifra unitaria. Del resto, le stesse tipologie architettoniche confermano e rilanciano, per lungo tempo, la compresenza di modelli remoti accanto a proposte assolutamente nuove. E di pari, la convivenza all’interno di sé di materiali e di forme diseguali, cronologicamente dissonanti, stilisticamente o linguisticamente differenti. Alle spalle di tutto ciò sta forse l’Alois Riegl della Grammatica storica delle arti figurative (1899). Non per caso considerato, da alcuni autori come Iversen o Clausberger, tra 1979 e 1983, un proto-strutturalista. Soprattutto egli è stato implicato come referente da Paul K. Feyerabend, all’avvio degli anni Ottanta del secolo IL CANTIERE TRA EMPIRIA E “NECESSITÀ” scorso, nell’affrontare un rovesciamento del paradigma arte come scienza, declinato piuttosto da Feyerabend in «scienza come arte» (Scienza come arte. Discussione della teoria dell’arte di Riegl e tentativo di applicarla alle scienze (1981) in Scienza come arte, 1984). Più di altri autori, in effetti, Riegl rivendica fra i primi la necessità d’inaugurare un parallelismo fra la sfera linguistica e la sfera figurativa. Probabilmente anche per eredità humboldtiana l’approccio riegleiano alla visibilità si riallaccia alle istanze fiedleriane. Prim’ancora al pionieristico lascito di Winckelmann. Tutto questo rinvia, naturalmente, alla cosiddetta seconda scuola di Vienna, in cui – con dichiarata investitura scientifica – si avviava a più voci uno sviluppo dell’indagine strutturale dell’opera d’arte che può darsi come antefatto e modello ideale delle successive analisi linguistiche dell’arte figurativa a cui si va facendo riferimento per la stesura di queste note. La distinzione di Riegl degli stili tramite categorie estetiche radicate nella corporeità vivente dell’opera, peraltro, si confà a quanto sin qui argomentato nella misura in cui richiama il problema dell’implicazione materiale del costruito coinvolgente, a sua volta, la percezione partecipante, ma trascorrente, su cui insiste anche Walter Benjamin ragionando di «fruizione tattile» dell’architettura, accesa da «sguardi occasionali» (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936). In non poche occasioni proprio Riegl ha manifestato una indagine conoscitiva dell’arte e dell’architettura accostabile al modello linguistico di cui va ragionando Chomsky, riferibile a un’analisi computazionale. L’aver insistito su alcune possibili inferenze linguistiche, del resto, pone tra l’altro l’accento sulla possibilità di poter accedere, per questo tramite, assumendo le pubblicazioni del tempo e altro materiale documentale, a una qualche comprensione di quale fosse in questo stesso lasso di tempo la considerazione riservata proprio a queste costruzioni moderne, in parte legate a una loro continuità col pregresso e in altra parte, invece, caratterizzate da novità indubbie. Agite allo scopo, potremmo dire semplificando, di verificare se vi è un qualche riscontro in queste scritture di quanto sta accadendo in ambito architettonico o se, invece, ci si limita a trasmettere un modello culturale ormai diffuso su vasta scala, in cui recita un ruolo non secondario, per esempio, l’antico, nutrendo di sé, in effetti, un dibattito architettonico che stava guadagnando terreno di anno in anno. E di cui non si può evitare di dare testimonianza critica, implementando in tal modo l’attualità in ogni sua movenza. Senza illuderci di aver trovato la soluzione a tutti i problemi già messi in evidenza dalla storiografia specialistica, dal momento che non pochi nodi vengono al pettine e molte questioni restano irrisolte. Anche dopo che si è in possesso di una sempre XV XVI LETIZIA TEDESCHI più analitica conoscenza di questo frangente storico. Si è incentivati, così, a insistere su questo possibile approccio che parrebbe effettivamente in grado di offrire ancora qualcosa, alla ricerca di insperate soluzioni se non di tutti perlomeno di alcuni fra i molti problemi inevasi. Dal momento che adesso, come avverte Chomsky, si sta viepiù ragionando di linguaggio dando attenzione alle sue stesse ragioni interne, in linea, verrebbe da dire, con quanto sin qui argomentato nel proporre una implicazione della concreta fisicità del costruito. Benché questo non consenta ancora di ottenere i risultati desiderati, è pur vero che proprio l’attuale orientamento di questi studi linguistici parrebbe proporre, rispetto al passato, una più convincente valorizzazione delle problematiche or ora messe sul tappeto. Sollecitando, a conti fatti, un’analisi della stessa materialità e della prassi adottata in cantiere per abbozzare nei riguardi dei singoli edifici presi in esame un’analisi testuale computazionale. Nell’architettura quattro-cinquecentesca, una simile considerazione non appare troppo sorprendente rispetto alle idee-guida messe in campo dagli umanisti e da quella pletora di artisti di genio che operano di giorno in giorno rivolgimenti linguistici inaspettati e il cui operato collettivo ha fatto la storia. Converrà ricordare, malgrado le molteplici rotture dei paradigmi impostati nel tempo dai creatori che sono stati serializzati anche genialmente in più di un caso da seguaci e imitatori, converrà ribadire, allora, che non poche testimonianze comprovano una continuità col pregresso e tuttavia si assiste a un fervore di cambiamenti, a tutta una serie di scarti che determinano già attorno alla metà Cinquecento un continuo ma sommesso rinnovamento. Così come si assiste da un lato a un recupero attualizzante, richiamandoci ancora al modello linguistico, di sintagmi classicisti, in linea con il ritorno sulla ribalta contemporanea dell’antico e dall’altro lato, all’affermazione, viceversa, di innovative proposte strutturate gerarchicamente come insegnato dagli antichi, ma secondo inattese procedure implicanti in primo luogo un’altra e nuova idea di architettura. Muovendo da qui, le forme di queste architetture potranno essere indagate nell’intento di dar conto delle rispettive ragioni tettoniche, distributive, morfologiche e della loro stessa consistenza materiale fino ad includere ogni altra possibile istanza implicante, per esempio, il coinvolgimento degli ordini e di tutto il repertorio consolidato di elementi ornativi che è tramitato dalla storia e che, in questo preciso momento, va guadagnando un nuovo valore, finendo così per corrispondere all’affermazione di un discorso architettonico che modifica lo stesso ordine compositivo loro. Nel rispetto tuttavia di alcune invarianze o necessità edificatorie. Ma quale forma finiscono poi per assumere queste IL CANTIERE TRA EMPIRIA E “NECESSITÀ” fabbriche e quale ruolo viene recitato dalla loro stessa formatività? Per la prima parte della domanda si potrà trovare nelle pagine che seguono una risposta in buona parte soddisfacente attraverso le descrizioni analitiche delle differenti realtà architettoniche considerate. Esse vengono a confermare il sin qui detto: ribadiscono un’affermazione architettonica tipologica e morfologica che tende a farsi topologica nel volgere di poco tempo, grazie a precisi elementi, al consolidarsi di ricorrenti forme architettoniche. In particolare, si deve prendere in considerazione un fascio di direttive o linee-guida scaturenti, in parte, dalle istanze emergenti da quanto agito in cantiere, in molto condizionate dalle pratiche di cantiere. In altra parte, dalla consistenza fisica o materiale di questo costruito. Infine, da ulteriori elementi coinvolgenti il sincronico dibattito acceso attorno all’architettura. Per non dire di inferenze circoscritte ai luoghi, alle politiche locali, alle esigenze del potere, alle urgenze della committenza così come della popolazione di questa e quella comunità. Altri elementi emergono inoltre dall’apparato ornativo ora di questo e ora di quell’edificio, venendo a delineare un nuovo impatto visivo e una inedita “presenza” architettonica sia in città che nel contado o in aperta campagna. Anche rispetto a quanto precede di pochi anni, si devono registrare innovazioni di vario genere e infine va assunta pure una problematicità nuova. Si assiste, difatti, all’affermazione di una sorta di offuscamento che persiste nelle nuove edificazioni. Si debbono fare i conti, dunque, con quest’ottusità rilasciata sovente dai corpi di fabbrica di questo momento. Mentre per quanto attiene alla prima parte del nostro quesito si possono abbozzare risposte sufficientemente convincenti, ecco che invece per la seconda parte della nostra domanda le cose si mettono male. Si dovrà aspettare ancora qualche tempo prima che si possa dar soddisfazione a questo interrogativo che coinvolge direttamente una nozione linguistica tuttora in discussione e che vede un’assunzione della «grammatica generativa» di conio chomskyano. Si ha l’impressione, infatti, che in non pochi casi quest’architettura si ponga in una posizione sorprendente nella misura in cui essa viene, al tempo stesso, offrendosi e sottraendosi. Manifestando, da un lato, con enfasi la propria magnificenza, nel mentre dall’altro lato, essa si chiude in sé stessa, negandosi a una totale leggibilità. Ecco perché la serialità di alcuni elementi, la fissità e unitarietà dei volumi finiscono per presentare un’immagine incompleta e perciò ingannatrice, tendente di primo acchito all’insignificanza e all’indifferenza. La lettura del costruito qui proposta può ricondurci alle seguenti argomentazioni. Rimane a disposizione degli studiosi quanto analiticamente esperito nei singoli cantieri in relazione alle differenti committenze, XVII XVIII LETIZIA TEDESCHI funzioni d’uso, obbligazioni pubbliche od istituzionali. Ma poi anche in riferimento alle molteplici committenze private e le ragioni loro. Infine, mantenendo un costante e continuativo riferimento alle pratiche di cantiere che seguono altre direttive rispetto a quelle iconologiche o araldiche e simboliche che implicano un ambito politico – quello che oggi potremmo dichiarare come l’iconografia dei segni del potere, ma anche i suoi simboli, quanto attiene alla comunicazione e quanto invece all’autoreferenzialità – facendo di ogni proposta un’occasione ideale per dar conto della complessità di questo frangente storico. Uno scenario nei riguardi del quale non è semplice delineare un sintetico e soddisfacente profilo riferito all’architettura, il costruito che rappresenta comunque la fonte primaria da cui muovere e a cui ritornare per l’ultima parola. E tuttavia uno scenario che, ora, può essere riscoperto in termini nuovi, nella speranza di riuscire a ricomporne trama e ordito con l’intento di poterci approssimare sempre più alla complessità della realtà storica. La somma di tutti gli elementi considerati finisce comunque per condurci a un’attesa delusa, un’attesa irrisolta, dunque, che una gran parte di quest’architettura parrebbe manifestare. Volutamente? Per rispondere basti considerare la residua eredità della grammatica storica riegleiana e ciò che d’essa è presente nel dibattito storiografico, cosa che può riassumersi in un interrogativo che Riegl si è posto nel 1902: «Che cosa è l’essenziale di qualcosa nel mutamento, e da che è determinato il suo mutamento apparente?». Le nuove indagini rivolte all’ingegneria costruttiva emergente in quest’epoca hanno allontanato tale problema dal momento che hanno spostato l’attenzione degli storici verso la dimensione scientifica e così sono venuti interessanti contributi sul rapporto dialettico fra ingegneria meccanica e macchinismo tecnologico applicato al costruito, venendo ancora una volta a motivare la scelta prospettica presentata da questi studi. Ecco che si impone il problema della tecnica e della tecnologia applicata all’edilizia. L’inconfutabile avanzamento tecnologico, difatti, non manca certo di ricadute nella sincronica razionalizzazione delle attività di cantiere che viene ad incidere pure sulla sua stessa economia, sulla ridefinizione e riqualificazione dei ruoli e delle competenze attivate al suo interno. In parte riecheggiando la nuova mentalità ingegneristica che è seguita, a voler recuperare i suoi stessi prodromi, a pubblicazioni come, per non citare che un unico titolo, la Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità di Luca Pacioli (1494). Finendo con il condizionare non poco la stessa prassi di cantiere cinquecentesca, viepiù orientata da una ragione matematica coniugata a una ragione pragmatica che inclina a economizzare anche il dettato formale del costruito. E che, naturalmente, fa tutt’uno con la IL CANTIERE TRA EMPIRIA E “NECESSITÀ” prassi di cantiere, una pratica che risulta essere in più di un senso uniformata. Potremmo dire: un apparato procedurale i cui elementi conducono alla possibile identificazione di un procedere vicino o affine in qualcosa a uno pseudo-linguaggio. Venendo a costituire in tal modo, come si è detto, un comun denominatore al differentemente edificato. Vi è poi da considerare l’implicazione materiale condivisa da queste fabbriche. Una materialità che trova corrispondenza nella stessa economia di cantiere. Tali questioni, in ogni caso, pur nelle rispettive declinazioni vengono a manifestare una precisa inferenza percettiva. La quale, unitamente alla comune unitarietà materiale che si propone come un’invarianza testuale, viene a rappresentare un intrigante problema e al tempo stesso un ulteriore tessuto connettivo di questa stessa narrazione corale. Si verrà così considerando sotto tutta un’altra e nuova inquadratura prospettica il rapporto dialettico, dinamico e sempre mutevole, che vincola il progetto al cantiere cinquecentesco e le pratiche di cantiere al costruito e alla sua ricezione o percezione, la quale concorre a determinare uno scenario e un’appartenenza in base alla quale è possibile acquisire una nuova consapevolezza storica. Mettendo inoltre, a questo punto, da una parte quanto fin qui attivato congetturalmente possiamo onorare l’impegno di dare una risposta positiva al quesito posto dal Riegl in merito all’essenziale nel mutamento. Un interrogativo a cui, se non altro sul piano della percezione, dopo Benjamin e scartando la deriva panofskiana dovremmo coinvolgere perlomeno il contributo di Henri Maldiney che, nel 1953, dedica una sua riflessione a Le faux dilemme de la peinture: abstraction ou réalité, rintracciabile nel volume, Regard, Parole, Espace (Losanna 1973) a cui faranno esplicito riferimento Deleuze e Guattari. Dal momento che alla percezione delle cose, d’arte e di architettura innanzi tutto, si dà grande importanza a muovere proprio dal dibattito storiografico che abbiamo richiamato e che arriva a comprendere l’apertura epistemologica sovvenuta nell’ultimo dopoguerra. Allorquando, proprio la nodale questione della percezione dell’architettura ha finito per assumere una nuova importanza. Viene utile, allora, rivolgere l’attenzione a un contributo a firma di Jacques Derrida. Nella misura in cui egli suggerisce di fermarsi sulla soglia di ogni spazio incognito o che intendiamo affrontare come se lo fosse e che, pertanto, ci apprestiamo a esplorare-interrogare affinché si riveli pienamente, arricchendoci di altri e nuovi saperi. Al tempo stesso, questo autore suggerisce l’importanza di tornare a indagare e dunque a interrogare senza apriorismi il nostro contendere più e più volte, recuperando questa soglia, tornando ogni volta a visitare la soglia da cui si è partiti – i riferimenti sono al seminario di Derrida, XIX XX LETIZIA TEDESCHI La Bestia e il Sovrano. Volume I (2001-2002), 2009. Questo è ciò che può accadere nell’affrontare ogni singolo saggio raccolto in questo volume che interessa differenti luoghi del territorio italiano e il costruito nell’arco di tempo considerato in tali scenari particolari e certo differenti gli uni dagli altri. Il filosofo francese, inoltre, nel trattare di politica, si rifà alla fonte primaria e cioè a dire alla Politica di Aristotele, in cui per la prima volta si parla di «zoon politikon». E ciò riconduce al contesto socio-culturale, economico-amministrativo che interessa un po’ tutta l’Italia del tempo, manifestandosi secondo declinazioni differenti in corrispondenza di una complessa mappa geopolitica, caratterizzata da una pletora di particolarismi. Torna in campo nuovamente, allora, il problema della ricezione e descrizione non solo delle fabbriche, ma anche dei rispettivi cantieri, per non fare che un solo esempio, nella Roma post-sistina descritta dal Paruta nel 1595. La Roma di Clemente VIII Aldobrandini, il quale, come attesta Baglione, «fece far diverse e memorabili cose», prendendo le distanze, tuttavia, dall’impegno edilizio tanto massiccio quanto monumentale del predecessore. Cose che domandano di essere descritte, ma secondo quali parametri? E dove poi sembra manifestarsi ancora una residua eredità rinascimentale, un resto dell’eredità del Quattrocento che è attivo anche sul fronte sempre mutevole della scienza e della tecnica. Dal momento che essa era: «Una scienza attratta dalla realtà, ansiosa di mettere i propri risultati a confronto con l’esperienza, e una tecnica preoccupata di darsi spiegazioni più valide e più generali, [ch’è] divenuta del resto sempre più esperta nell’esprimersi in cifre», come scrive Bertrand Gille, nel 1964 (Les ingénieurs de la Renaissance). Cosa che finiva per condurre entrambe, la scienza e la tecnica, verso un comune orizzonte: erano destinate a incontrarsi. L’opinione di molti autori, Gille incluso, è che questa comunanza permane pressoché invariata fino ad andare ampiamente oltre il tempo indagato in questo volume. Dal momento che essa «doveva continuare a sussistere a lungo e protrarsi [così] sino alla fine del Settecento: gli scienziati si interessavano alla tecnica – conferma questo autore – con lo stesso diritto con cui i tecnici si vantavano di praticare la scienza». Tant’è vero che «Le due grandi accademie scientifiche, la Royal Society di Londra e l’Académie des Sciences di Parigi, furono create con finalità tanto tecniche quanto scientifiche. Desaurges, Roberval, Blondel, sono ancora degli ingegneri, come Monge» (Gille, Gli ingegneri del Rinascimento, 1972). E questo può provocare naturalmente l’urgenza di una rinnovata riflessione sul conto della confusione tra scienza e tecnica che all’epoca viveva un momento nodale, finendo peraltro con il coinvolgere anche ciò che incide sulla diversità che separa tecnica da tecnologia. Una problematica tanto IL CANTIERE TRA EMPIRIA E “NECESSITÀ” delicata quanto centrale se e quando si voglia cogliere fino in fondo il portato di questo volume, concorrente proprio grazie al focus sulle pratiche di cantiere all’elaborazione di «frammenti per una morfologia della volontà di sapere», secondo il suggerimento fatto da Michel Foucault durante le sue Leçons sur la volonté de savoir tenute al Collège de France, a Parigi, nel 1970-1971. Una volontà di sapere in merito a cui converrà acquisire e far interagire anche l’introduzione, che risale al 1942, del concetto di iconografia applicato all’architettura avanzato da Richard Krautheimer, proposta che ha mutato e non di poco l’analisi testuale di settore. Se si può assumere un’iconografia dell’architettura va da sé che è accantonabile il vincolo degli stili, mentre resta in sospeso quello delle tecniche: in più di un caso subordinato ad altro di contingente che non una pretesa evoluzione, in altri lasciato in disparte giacché soggiacente a ragioni politiche, amministrative o di rappresentanza, od altro ancora. In effetti, questo approccio interdisciplinare quale emerge dai vari saggi del presente libro, deve molto allo stesso Krautheimer. Dal momento che proprio questo studioso aveva allargato la ricerca fino a comprendere i finanziatori, le origini delle maestranze e via enumerando. Basti ricordare, per tutti, un suo grande libro, Rome. Profile of a City, del 1980, oppure – a voler testimoniare l’elaborazione di un complesso e raffinato paradigma indiziario – il suo saggio, Congetture sui mosaici scomparsi di Santa Sabina a Roma, del 1988. Come pure, visto che si è invitati a considerare con altri occhi tutto ciò da cui scaturisce il cantiere che detta il costruito in questi anni, per meglio intendere quest’ultimo nella sua stessa materialità legata strettamente alla vita del cantiere potremmo fare riferimento, contestualmente, a un altro modello storiografico chiamando in causa il Gaston Bachelard di Le matérialism rationnel, del 1972. Un testo in cui si affrontano le due dimensioni in antagonismo dinamico dell’onirico o immaginario che produce immagini e persino utopici sogni e del razionale dove, invece, si configurano le idee concretamente applicabili e risolvibili nella prassi quotidiana. In cui, insomma, parrebbe ritrovarsi il confronto costante tra i documenti cartacei e quelli di pietra inerenti l’architettura storica e in cui, effettivamente, i desideri si scontrano con le concrete o tangibili possibilità di operare. I progetti, sostiene questo filosofo, ogni ordine di progettualità che abbia a che fare con la concretezza materiale delle cose – nel caso: del costruito – finiscono per fare i conti con gli impedimenti della realtà andando ad urtare gli ostacoli costituiti da una ben precisa «topologia degli ostacoli», prodotta per di più da una materia concepita come un «campo di ostacoli». Ciò, secondo questo autore, non rappresenta un impedimento paralizzante, semmai l’esatto contrario: giacché porta a un XXI XXII LETIZIA TEDESCHI necessario superamento generante una processualità propositiva. Poiché, va precisato, per Gaston Bachelard, «l’ostacolo [stesso] suscita il lavoro, [e] la situazione si espone in descrizioni». Tanto è vero che «la situazione non può essere se non la topologia degli ostacoli» e, proprio per questo, è lecito convenire sul fatto che, all’interno di una tale dinamica, «i progetti vanno contro gli ostacoli». Vanno contro ogni ostacolo. Questo porta a prendere atto di una maturazione in sé, in cui la soluzione di ogni problema prende forma e giunge al superamento di ogni criticità dal proprio interno. È «allora [che, insiste Bachelard,] il materialismo attivo ha inizio e ogni filosofia che lavora, troverà, per lo meno, le sue metafore, la forza stessa delle sue espressioni, in breve tutto il suo linguaggio nella resistenza della materia». Le ultime annotazioni – unitamente al sin qui argomentato – portano a considerare in termini un po’ particolari la prassi di cantiere esperita tra metà e fine Cinquecento, la materialità del costruito e ciò comporta un avvicinamento a una visione storica subordinata alla scienza e all’obbligo, nietzscheiano, di una “interpretazione” che, unica, può dare senso e dunque inverare i fatti della storia, ciò che si presume venga a rappresentarla inanellando una sequela di accadimenti. Ora, questo può condurre – per tornare a insistere sul tema centrale del volume – a una revisione analitica del cantiere posto al centro della nostra attenzione quale scenario privilegiato del processo stesso dell’invenzione architettonica in cui si annuncia l’imminente rivoluzione galileiana. Implicante a suo modo l’avvento della storia dell’ermeneutica moderna e la parallela storia della scienza e della tecnica moderna. Dovremmo arguirne ciò che dirò l’urgenza di un potenziale ravvisamento della consonanza emergente, poco a poco, da questo costruire che consiste, tutto sommato, in un’altra e nuova consapevolezza del proprio fare, un’altra e nuova concezione del lavoro collettivo che forse dovremmo dire corale e dunque tutta un’altra idea di architettura che darà i suoi frutti nel nuovo secolo. Proviamo allora a far leva sul sin qui argomentato e cerchiamo di appuntare la nostra attenzione su alcuni elementi fra i molti proposti e restituiti attraverso i singoli contributi del volume. La schiera delle figure implicate nella mappa geostorica che è stata oggetto degli studi a muovere dal completamento del Belvedere ereditato da Bramante, la cappella Gregoriana nella basilica vaticana, per giungere, ancora a Roma, al cantiere dell’acquedotto dell’acqua Felice, la cappella di Sisto V, a cui seguono gli interventi fontaniani di Amalfi e di San Matteo a Salerno, oltreché il completamento del nuovo arsenale di Napoli. E ancora, la basilica di Loreto, l’edificazione delle procuratorie nuove di Venezia, la Genova cinquecentesca e altro IL CANTIERE TRA EMPIRIA E “NECESSITÀ” ancora, tutto questo implica ad un tempo una serie di “imprese” a loro modo emblematiche e, per limitarsi ai soli architetti coinvolti in questi cantieri, una notevole sequela di nomi che si snoda dal primo Cinquecento ai suoi ultimi anni, fino a comprendere l’avvio del Seicento, il secolo sovveniente, venendo a corrispondere a personalità note e perfino notissime e, parimenti, autori che sono ancora oggetto di studio da parte degli addetti ai lavori. Da Bramante e Giuliano da Sangallo a Antonio da Sangallo il Giovane, a Raffaello, Baldassarre Peruzzi, Andrea Sansovino, Jacopo Meleghino, Sallustio Peruzzi e Pirro Ligorio od Ottaviano Mascarino. Nonché, a voler insistere, Domenico Fontana – celebrato, fra l’altro, oltreché per l’impresa della “trasportatione dell’obelisco vaticano”, per la rapidità con cui ebbe a realizzare la biblioteca di Sisto V e per aver avviato, sotto questo pontefice, una nuova decorazione architettonica – e poi ancora Giacomo Della Porta, il Vignola, gli autori della facciata della basilica di Loreto, Giovanni Boccalini da Carpi, Giovanni Battista Ghioldi da Como e Lattanzio Ventura da Urbino. E ancora, Vincenzo Scamozzi, Bernardo Cantoni e un suo discendente egli pure architetto, Domenico Cantoni, Rocco De Angelis e Domenico Cattaneo di Pantaleone, Marcantonio Fontana, Bernardo Ferrandino. Inoltre, compare, a Genova, anche Giovanni Angelo Montorsoli, unitamente a Ottaviano e Nicola Doria, a Pietro Carlone e Gaspare da Corte. Si possono fare altri nomi, taluni di grande nomea come, per esempio, l’Ammannati, “l’architetto del granduca” di Toscana e Giovanni Antonio Nigrone, progettista di fontane di grande fama. Naturalmente non si possono dimenticare, nel rispetto dell’arco temporale implicato dai cantieri e dal costruito preso in esame e dunque in riferimento pure alle differenti realtà ambientali considerate, artefici come l’umbro Matteo Bartolani di Città di Castello, e per finire Giovanni Fontana che portò a buon fine il già ricordato acquedotto romano dell’acqua Felice ch’è alimentato dalle sorgenti di Pantano. Altri nomi ancora restituiti attraverso specifici luoghi e i corrispettivi cantieri agli onori della storia. Ebbene, si ha modo di percepire così il portato di questa pubblicazione in tutta la sua ricchezza documentale; al tempo stesso, allorquando si leggano i singoli casi studiati attraverso le chiavi di lettura accennate e si riportino infine nel sistema di relazioni sempre complesse e intrecciate offerto dalla cronaca eludendo il rischio di schematizzare la realtà, ecco che possiamo avvistare e apprezzare proprio attraverso il dialogo serrato intrapreso tra i documenti d’archivio, l’editoria del tempo, gli altri documenti reperibili e il costruito di cui, in più di un caso, si ricompone pure la dinamica di cantiere, il complesso paradigma proposto da questa raccolta di saggi. Limitiamoci a un solo esempio proprio per XXIII XXIV LETIZIA TEDESCHI poter enucleare ed esporre le varie istanze sollevate da questa articolata restituzione storica tuttora in fieri, ma già in grado di apporti significativi. Andando a scegliere fra i tanti disponibili, un solo cantiere, quello relativo alla realizzazione dell’acqua Felice (1585-1587), portato a buon fine, dopo un esordio contrastato (l’iniziale affidamento al Bartolani attivato ancora da papa Gregorio XIII) e poi un primo cointeressamento di Domenico Fontana, da Giovanni Fontana. A ordinare «che si desse principio a questa impresa» fu papa Sisto V, cadeva il 5 maggio 1585. L’opera di pubblica utilità finanziata dalla Camera Apostolica – ci viene ricordato – dava finalmente acqua corrente all’Esquilino, al Viminale e al Quirinale, colline salubri e di un belvedere unico su tutta una certa Roma, ma scarsamente abitate fino a questa data a causa della povertà idrica. Ne fu affidato il compimento, puntualizza Paola Carla Verde, il 22 luglio 1586 a Giovanni Fontana il quale, finalmente, riuscì a concludere positivamente il delicato e complesso cantiere. Si ha l’opportunità, grazie a questo cantiere, di riaffrontare e verificare sul costruito quanto sin qui proposto congetturalmente, laddove viene a evidenziarsi l’inferenza tecnica e procedurale, l’implicazione antiquaria e il suo contrario – dovuto all’ammessa (e anzi contrattuale) spoliazione del pregresso che relega i resti romani al ruolo di cave di materiali di pregio – e ancora, si ha modo di toccare con mano, di assumere quanto spetta all’evoluzione tecnica e al significativo coinvolgimento tecnologico qui in essere. Così come si può dare adito a una rilettura dell’ordito topografico romano in merito, per esempio, alla dislocazione del castello per la distribuzione dell’acqua dalle Terme di Diocleziano, com’era stato pensato in un primo tempo, in corrispondenza della basilica di Santa Maria degli Angeli, alla piazza di San Bernardo, di fronte alla chiesa di Santa Susanna. E che dire poi della precisazione relativa alla consistenza materiale del nuovo acquedotto? Esso consta di materiale che, si è accennato poc’anzi, per contratto, veniva prelevato in loco grazie alla pratica dell’estrazione dei materiali di spoglio: materiale consistente ne «gli inerti di tufo, peperino, travertino calcare e laterizio», assommati per «realizzare il conglomerato cementizio usato per le condotte». Per comprendere il significato pieno e definitivo di questa implicazione diretta dell’antico e controbilanciare questo aspetto ai nostri occhi irritante e certo deleterio giacché sottrattivo, converrà ricordare che nella realizzazione, in economia di tempo e costo ma anche nel rispetto di una necessaria riuscita, i ruderi dell’acquedotto antico, i resti romani di esso vengono inglobati nella nuova edificazione. Si assiste dunque a un propositivo riconoscimento determinato, in questa circostanza, dal riuso strategico di quanto può testimoniare ancora IL CANTIERE TRA EMPIRIA E “NECESSITÀ” la valentia edificatoria del mondo romano. Inferenza che getta nuova luce sulle relazioni dialettiche con il fronte antiquario. Un dualismo la sua parte paradossale che tuttavia pone in primo piano un aspetto di particolare attualità nel frangente storico considerato in questi studi. Trattasi, difatti, di un avanzamento concettuale e fattivo che implica scienza, tecnica e tecnologia. Oltreché di una restituzione dell’attività dell’architetto, ora iscritto pienamente in quel rinnovamento sommesso e tuttavia di rara complessità, di indubbie potenzialità che troveranno esito solo nel primo se non, per certi rispetti, nel secondo Seicento implicante un mutamento mentale che finisce per farsi anche linguistico proprio in merito a un più dinamico ed incisivo edificare. Bisogna tuttavia assumere la messe dei documenti d’archivio rintracciati e messi per così dire in gioco con il costruito e al tempo stesso vedere queste fabbriche per poter contestualmente avviare una prima riflessione comprendente le istanze sopra dette e per poterle verificare infine nella storia. Verificarle ravvisandone infine tutti i nessi e le movenze, tutte le non sempre risolte problematicità. Occorre rivedere e riverificare ogni elemento indiziario acquisito da questi studi direttamente sull’edificato per poter esprimere, finalmente, una valutazione calata in questa trama storica relativa al secondo e ultimo Cinquecento e ai primordi del secolo susseguente, in riferimento all’architettura, una trama or ora restituita in tutto il suo articolato disegno. XXV