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gimento è l’obiettivo della ricerca scientifica, la sua contemplazione è il fine ultimo a cui tende ogni uomo. Al giorno d’oggi, il riferimento alla ne, il sentimento personale, il consenso sociale, la semplice correlazione, ecc. La nozione di verità è ritenuta spesso inaccessibile, anacronistica e talvolta persino pericolosa. Eppure, sembrano esistere degli ambiti della conoscenza umana in cui distinguere il vero dal falso non solo continua ad avere senso, ma costituisce proprio il fine ricercato dall’intelligenza e anelato dall’esistenza stessa dell’uomo. Come contributo all’appassio CONTRIBUTI -3 Giacomo Maria Arrigo Claudio Tagliapietra a cura di fico, filosofico e teologico, il presente volume offre i frutti della riflessio 2019/2020 e al XII Workshop della Scuola Internazionale Superiore per la Ricerca Interdisciplinare (SISRI). è assegnista di ricerca in Filosofia morale pres so l’Università Vita-Salute San Raffaele, dove collabora con lo European Centre for Social Ethics. Laureato in Filosofia presso l’Università Cattolica dies presso l’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (ASERI), ha conseguito il dottorato in Filosofia politica presso l’Università della Calabria in cotutela con la Katholieke Universiteit Leuven. tificia Università della Santa Croce di Roma e membro della direzione del Centro DISF (Documentazione Interdisciplinare di Scienza e Fede). Laureato in Giurisprudenza presso l’Università Bocconi di Milano e dot presso le Università di Bologna, Amburgo e Rotterdam. Ha studiato Teologia dogmatica presso la Pontifi Fondamentale. DOVE ABITA LA VERITÀ? Riflessioni sul vero e sul falso nell’epoca contemporanea SCUOLA INTERNAZIONALE SUPERIORE PER LA RICERCA INTERDISCIP SCUOLA INTERNAZIONALE SUPERIORE PER LA RICERCA INTERDISCIPLINARE SISRI CONTRIBUTI - 3 - SISRI STUdI - STRUmeNTI - CONTRIBUTI COllaNa Direttore Giuseppe Tanzella-Nitti Comitato scientifico Giacomo Maria Arrigo, Ivan Colagè, Giampaolo Ghilardi, Stefano Oliva, Alberto Strumia, Mariachiara Tallacchini, Giuseppe Tanzella-Nitti, Roberto Timossi, Valentina Zaffino Volumi pubblicati Strumenti Alberto Strumia, Giuseppe Tanzella-Nitti Scienze, filosofia e teologia. Avvio al lavoro interdisciplinare, 2014 Alberto Strumia Percorsi interdisciplinari della logica, 2017 Alberto Strumia Dalla filosofia della scienza alla filosofia nella scienza, 2017 Studi Miriam Savarese La nozione trascendentale di bello in Tommaso d’Aquino, 2014 Lucia Alessandrini Un geologo di fronte alla Bibbia. L’opera apologetica di Antonio Stoppani tra scienza e fede, 2016 Enrico Cantore Umanesimo scientifico e mistero di Cristo. Raccolta di scritti (1956-2002), a cura di Claudio Tagliapietra 2023 Contributi Danilo Saccoccioni (a cura di) Educare alla realtà. Una proposta didattica di ispirazione tomista, 2015 Vincenzo Arborea, Luca Arcangeli (a cura di) Scienza e visioni del mondo. Contributi in occasione dei 400 anni della Lettera di Galileo a Maria Cristina di Lorena, 2017 Giacomo Maria Arrigo, Claudio Tagliapietra (a cura di), Dove abita la verità? Riflessioni sul vero e sul falso nell’epoca contemporanea, 2023 DOVE ABITA LA VERITÀ? Riflessioni sul vero e sul falso nell’epoca contemporanea a cura di GIaCOmO maRIa aRRIGO e ClaUdIO TaGlIapIeTRa EDUSC 2023 Prima edizione 2023 © Copyright 2023 – Edizioni Santa Croce s.r.l. Via Sabotino, 2/A – 00195 Roma Tel. (39) 06 45493637 info@edusc.it www.edizionisantacroce.it ISBN 979-12-5482-144-2 SOmmaRIO Prefazione 7 I. la veRITà Nelle SCIeNze NaTURalI. dall’Ideale all’OCCUlTameNTO e vICeveRSa Dominique Lambert 13 II. la veRITà SCIeNTIfICa IN pROSpeTTIva INTeRaTTIva e dIaCRONICa Ivan Colagè 29 III. SCIeNza e veRITà: peRChé la meTOdOlOGIa STaTISTICa CI aIUTa a CapIRe Il laTO UmaNO della SCIeNza Alessandro Giuliani 53 Iv. la RaGIONevOle INeffaBIlITà della NaTURa al lINGUaGGIO maTemaTICO. aSpeTTI paRadOSSalI della mISURazIONe della RealTà fISICa Giovanni Amendola 73 v. l’OGGeTTO della fISICa COme CaUSa fORmale. RealISmO ed INTellIGIBIlITà della NaTURa alla lUCe deI pOSTUlaTI fORmalI della fISICa 93 Francesco Santoni vI. la qUeSTIONe della veRITà IN pROSpeTTIva TeOlOGICa Giuseppe Tanzella-Nitti 117 vII. NeOmOdeRNO e deISmO: Il ReCUpeRO dI UN pROGeTTO mORale Giacomo Maria Arrigo 143 vIII. alBeRT eINSTeIN e Il RelaTIvISmO: ORIGINI STORIChe e CONSeGUeNze TeOlOGIChe dI UN fRaINTeNdImeNTO Claudio Tagliapietra 165 5 SOmmaRIO IX. ChaRleS daRwIN e la veRITà: vIaGGIO TRa SCRITTI pUBBlICI e pRIvaTI dI UN evOlUzIONISTa INSOddISfaTTO Anna Pelliccia 187 X. qUaNdO e COme UNa RICeRCa SCIeNTIfICa dIalOGa CON la veRITà? Il CaSO dell’aRTe RUpeSTRe dI laSCaUX e della GROTTa del ROmITO dalla SCOpeRTa alla dIvUlGazIONe Maria Covino e Eleonora Vitagliano 207 XI. BIG daTa: ORIeNTaRSI TRa INfORmazIONe, CORRelazIONI e OpINIONI Michele Crudele 223 Autori dei contributi 241 6 pRefazIONe Giacomo Maria Arrigo e Claudio Tagliapietra Nella storia umana esistono delle parole capaci di rappresentare contenuti che danno senso all’esistenza dell’uomo. Alcune di queste parole rappresentano significati a tal punto importanti che l’uomo può scriverle solo con la lettera maiuscola, o in certe culture gli è addirittura proibito scriverle o pronunciarle perché quanto esprimono è ritenuto sacro e venerabile. L’uomo è anche disposto a versare il proprio sangue o quello dei suoi simili in nome di queste parole. Esse sono doni da un altro mondo, usarle male costituisce una profanazione, o in ogni caso una condanna al nonsenso, alla morte. Non è strano che queste parole abbiano anche un significato religioso, l’ambito semantico dentro il quale l’uomo custodisce quanto ha di più caro e irrinunciabile. Una di queste parole è “verità”. E se questo è indubitabile, lo è anche il fatto che oggi si esita a impiegarla. L’ambito semantico cui appartiene è forse troppo debole, o troppo forte. Comunque sia, oggi si preferisce sostituirla con altre parole: l’opinione, il sentimento personale, il consenso sociale, la semplice correlazione, ecc. La nozione di verità è ritenuta spesso inaccessibile, anacronistica o talvolta persino pericolosa. La rapidità del progresso scientifico e l’odierno relativismo culturale paiono incoraggiare la prospettiva del giudizio sempre rivedibile e contestuale, da preferire all’esistenza di punti di riferimento stabili. Si preferisce allora non parlare di verità perché stentiamo a ricordare la strada che occorre fare per raggiungerla lì dove abita, forse perché dubitiamo che sia la nostra destinazione e preferiamo considerarla un luogo di passaggio in un cammino che conduce altrove. Ma, allora, dove abita la verità? Se riferita all’epoca contemporanea la domanda si rifrange in una molteplicità di altre questioni. Le riflessioni qui raccolte rappresentano, pertanto, una luce “prismatica” sulla questione, un quadro composto da una varietà di prospettive in cui la domanda “dove abita la verità?” agisce da motore per l’attività conoscitiva – molteplicità che sembra sottendere una dimensione unitaria, organica. Alcune domande suggeriscono l’opportunità di un approccio interdisciplinare: quanto è importante l’accesso alla verità nella ricerca 7 pRefazIONe scientifica, umanistica, filosofica e teologica? Quanto è rilevante per i singoli ricercatori nel loro impegno quotidiano? In che senso si potrebbe parlare di “scoperta” senza alcun riferimento alla verità? Quanto il “comunicare la scienza” – dati, risultati e applicazioni – ha a che fare con la verità? È possibile insegnare, trasmettere conoscenze, senza un impegno veritativo? La divulgazione scientifica, pur dovendo implicare una certa semplificazione, può andare a detrimento della comunicazione della verità? Ritenendo che l’interdisciplinarietà raggiunta attraverso il dialogo tra le singole discipline possa essere fruttuosa, i contributi del presente volume si fanno strada insieme verso il loro obiettivo comune, animati dalla consapevolezza che l’impresa conoscitiva è corale e che non sussiste uno iato tra le varie discipline ma che, in realtà, esse scaturiscono da un unico principio, l’innato desiderio di conoscere la verità. Presentiamo qui il lavoro che la Scuola Internazionale Superiore per la Ricerca Interdisciplinare (SISRI) ha svolto in occasione del Seminario permanente 2019/2020 e del XII Workshop annuale, esponendone brevemente i contenuti. Il volume si apre con il contributo di Dominique Lambert, il quale affronta il tema della verità nelle scienze naturali. Lambert ripropone l’idea della corrispondenza tra l’intelletto e la realtà, il cui abbandono ha portato «paradossalmente, in un mondo sempre più segnato dai contributi della scienza, […] a una sorta di diffidenza e di relativizzazione della conoscenza e della verità scientifica» (infra, cap. 1). Esistono alcune invarianti che emergono nello studio della natura, e queste invarianti si riferiscono a un vero che permane pure al variare dei metodi adottati per carpirlo. La proposta di Lambert è una “iperfisica”, termine mutuato da Pierre Teilhard de Chardin, cioè una filosofia della natura «informata dallo sviluppo delle scienze naturali» (ibidem), giacché storicamente – ed è ciò a cui Lambert intende rispondere – «il crollo dell’ideale di verità scientifica è stato accompagnato anche dal crollo della filosofia della natura, che è stata gradualmente sostituita dall’epistemologia o filosofia della scienza» (ibidem). A seguire, Ivan Colagè avanza la proposta di una concezione realista non ingenua, ove la rappresentazione che corrisponde alla realtà è la verità a cui costantemente tendiamo, non qualcosa che già possediamo. Con quest’idea regolativa di verità, tutte «le epistemologie storiche possono essere reinterpretate come teorie su come la scienza sia effettivamente un’impresa che tende ad approssimarsi sempre più alla descri8 pRefazIONe zione vera della realtà» (infra, cap. 2), valorizzando così la dimensione storica e collettiva dell’impresa conoscitiva. Alessandro Giuliani distingue due tipi di approcci conoscitivi, che chiama per semplicità “filosofia A” e “filosofia B”, laddove la prima mira alla dissoluzione delle zone d’ombra all’avanzare dell’uomo nello studio della realtà, mentre la seconda valorizza l’oscurità e l’incertezza che ci circonda, negando la possibilità di un dominio totale sulla natura. Il primo approccio è oggi più diffuso: non a caso «è diventato comune parlare, con linguaggio tipicamente militare, di “conquiste” della scienza senza soffermarsi a pensare che ogni conquista presuppone un vincitore (il conquistatore appunto) e un vinto (di solito l’autoctono)» (infra, cap. 3). La metodologia statistica, afferma Giuliani, mostra che la “filosofia A” è particolarmente dannosa nello studio dei fenomeni della vita, operando indebite generalizzazioni talvolta anche parecchio rischiose. Nella sua riflessione, Giovanni Amendola spiega come sia impossibile descrivere la totalità della natura adottando un linguaggio rigorosamente matematico. Amendola si concentra sui paradossi della misurazione: presentando alcuni casi specifici, la conclusione del saggio è che «già ad un livello esclusivamente fisico, siamo in presenza di una realtà impredicibile e caotica» (infra, cap. 4), e che quindi «la realtà nella sua fisicità esperienziale resta infinitamente oltre ogni concetto e teoria su di essa» (ibidem). Amendola appare in continuità con la riflessione di Giuliani relativamente alla “filosofia B”, che anche in questo caso risulta maggiormente pertinente rispetto alle pretese della “filosofia A”. In continuità con i contributi di cui sopra, Francesco Santoni denuncia l’idealismo hegeliano nella sua pretesa di dedurre il reale interamente da principi a priori. Scrive Santoni: «Ammettere nel sistema l’indeducibilità a propri del contingente concreto significa ammettere che la natura ha una sua oggettività irriducibile al soggetto. […] Ecco allora che appare con chiarezza come l’approccio idealistico non riesca davvero a comprendere e fondare il procedere del sapere scientifico, il quale invece muove da quel realismo ingenuo che, anche per contrasto con le vuote pretese dell’idealismo, dà prova di non essere davvero ingenuo, bensì critico» (infra, cap. 5). Critico perché la concezione obiettivante di una natura fondata su idealità logico-matematiche nasce e si sviluppa come articolazione critica – appunto – dell’esperienza originaria, la quale offre ad ogni soggetto conoscente un mondo già ed indubbiamente dato, in una costante auto-verificazione. 9 pRefazIONe Dopo questi primi contributi di taglio maggiormente scientifico, il volume imposta la questione della verità in termini ancora diversi, aprendosi a prospettive ulteriori. E così Giuseppe Tanzella-Nitti affronta il tema in prospettiva teologica. Non è vero che accogliere la fede cristiana equivalga a mettere un punto alla ricerca della verità, come se si fosse raggiunta la meta una volta per tutte e non ci fosse nient’altro da indagare. Invece, sostiene Tanzella-Nitti, «riconoscere che l’essere umano, in quanto tale, sia un “cercatore della verità”, è una qualifica che coinvolge anche il credente. Nell’esercizio della fede anch’egli è un pellegrino in cammino; la conoscenza che possiede in via è ben diversa da quella che acquisterà in patria» (infra, cap. 6). In questo itinerario, l’uomo è «pellegrino ma non viandante, perché il credente sa verso dove dirigersi e conosce la sua meta, sebbene sappia di non poterla, almeno in questa vita, totalmente raggiungere. Per questo, la Rivelazione non rende superflua la ricerca del credente, ma svolge per lui il ruolo di una “stella di orientamento» (ibidem). In più, se la verità è una – questa è l’intima convinzione del credente – ecco che le diverse conoscenze non possono non integrarsi vicendevolmente e giungere ad unità. Anche Tanzella-Nitti difende così un certo realismo conoscitivo. All’interno della società contemporanea, però, il nichilismo e il relativismo hanno messo in dubbio la semplice esistenza del vero. Giacomo Maria Arrigo parte dal concetto di “neomoderno” (sviluppato da Roberto Mordacci), inteso come proposta di superamento del postmoderno, per rilanciare un discorso forte sul reale. La presenza di una molteplicità di confessioni religiose è un dato oggi ineludibile: Arrigo parte da questo assunto per ricercare criticamente una verità solidamente condivisa. Riprendendo l’intuizione, ma non i risultati, del deismo inglese settecentesco, Arrigo lancia la proposta di un’etica interreligiosa non ingenua. Un «nuovo deismo avrebbe il compito di regolare dall’interno i rapporti tra le diverse religioni per il tramite del riconoscimento di qualcosa in comune» (infra, cap. 7), riconoscendo una «chiave di volta universale capace di evitare una (altrimenti inevitabile) dispersione e frammentazione delle variegate posizioni, pensieri, fedi [… e] che miri ad un’intesa che sia intrinseca e non estrinseca» (ibidem). Di relativismo parla anche Claudio Tagliapietra, impegnato a mostrare come la relatività di Einstein non abbia niente a che vedere con il relativismo in ambito filosofico e morale. Tagliapietra segue l’itinerario di questo fatale fraintendimento, facendo pure emergere come Einstein 10 pRefazIONe non fosse ostile alla religione, e che anzi il generale malinteso sulla sua teoria lo turbasse un po’. Occupandosi quindi della ricezione della relatività nella teologia cattolica del XX secolo, viene mostrato come «non si trovano […] fonti teologiche critiche sul relativismo che al contempo ne attribuiscano la paternità ad Einstein» (infra, cap. 8), e che nei documenti in cui la Chiesa condanna il relativismo etico «non si fa riferimento ad Einstein né alla teoria della relatività» (ibidem), essendo questa una teoria scientifica. Dopo Einstein è il turno di Charles Darwin. Attraverso uno studio della corrispondenza privata e dei taccuini darwiniani, Anna Pelliccia mostra come l’indagine scientifica del naturalista inglese si intreccia profondamente con pregnanti riflessioni esistenziali circa l’origine e il senso della vita. In Darwin, sostiene Pelliccia, «la ricerca naturalistica suscita continuamente in modo intuitivo, spontaneo e istintivo […] interrogativi metascientifici, metafisici ed esistenziali. Di fronte a tali interrogativi Darwin intuisce probabilmente, e senza possederne le prove […], che la verità dei fatti non è autofondante. Si accorge che gli interrogativi esistenziali emergono perché la verità scientifica non è tutta la Verità» (infra, cap. 9). Rintracciare le domande di senso sottese alla teoria scientifica darwiniana permette di scoprire un Darwin inedito e profondamente filosofo, un naturalista perennemente pellegrino e cercatore di verità. Dall’origine della vita all’origine della storia. Il contributo di Maria Covino ed Eleonora Vitagliano mette a tema le grotte preistoriche di Lascaux e del Romito, accomunate dalle modalità del loro ritrovamento avvenuto ad opera di persone comuni: imbattutesi casualmente in esempi di arte rupestre, esse hanno sentito l’esigenza di comunicarne la scoperta, rivolgendosi agli scienziati ed esperti. Soffermandosi sul «rapporto triadico uomo comune-scienziato-divulgatore» (infra, cap. 10), Covino e Vitagliano parlano dell’intero processo della conoscenza: «La scienza e la tecnica vivono del rapporto con gli scienziati di altre branche e di altre comunità, e le pubblicazioni scientifiche sono il frutto e il nutrimento di tale dialogo; […] e [per di più] non ci sarebbe stata necessità di alcuna comunità scientifica, se dei comuni cittadini non avessero sentito l’esigenza di comunicare l’esistenza dei siti in cui si erano casualmente imbattuti. Su questo passaggio di informazione, precedente e successivo alla fase scientifica, si fonda lo sforzo professionale delle comunità scientifiche» (ibidem). Nel contributo, quindi, la verità storica 11 pRefazIONe ed antropologica che abita nelle due grotte viene scandagliata dal punto di vista estetico e scientifico-geologico per restituire il percorso umano di creazione, oblio, scoperta e divulgazione lungo la storia. Il volume si chiude proprio con una riflessione sul processo di trasmissione delle informazioni nell’epoca contemporanea. Michele Crudele parla di Big Data e su come orientarsi tra informazioni, correlazioni e opinioni. Quanto possiamo fidarci del machine learning? Qual è l’affidabilità delle nostre fonti di informazione? C’è ancora speranza di poter distinguere una notizia vera da una falsa verosimile (deep fake)? Qual è il nostro grado di attenzione nel leggere sul web? Come possiamo educare i più giovani a un corretto spirito critico? A queste e ad altre domande intende rispondere Crudele nel saggio finale, proponendo infine alcuni criteri di analisi riassunti in altrettanti interrogativi da rivolgere a qualunque fonte d’informazione. Solo possedendo quella consapevolezza che potremmo chiamare «senso critico, giudizio d’insieme, visione sintetica, phronesis aristotelica» (infra, cap. 11) è possibile discernere il vero dal falso. Questi saggi mirano tutti, da diverse prospettive disciplinari ma a partire da uno stesso spirito, a mostrare che anche oggi è possibile e doveroso parlare di verità. Dove essa abiti – interrogativo sollevato dal titolo del volume – non è possibile affermarlo così, su due piedi. Nei saggi che compongono la “lettura prismatica” di questo volume il lettore non troverà una interdisciplinarietà intesa come mera giustapposizione di discipline, né una “multidisciplinarietà redazionale” che accosta contributi sullo stesso tema provenienti da più discipline, bensì – sperabilmente – un vero e proprio progetto che abbraccia tutte le discipline (dimensione orizzontale), aprendosi senza esitazioni alla dimensione trascendente/teologica (dimensione verticale), e rimandando costantemente alla dimensione di senso che anima ogni umana ricerca (dimensione della profondità). Ci auguriamo di essere riusciti a interessare sinceramente e lealmente il lettore, interpellandolo con la questione della verità. Considerando il proprio ambito di competenza e la disciplina che lo coinvolge, egli potrebbe trovare il punto di partenza di un cammino che, iniziando dal contesto professionale e scientifico nel quale è inserito, può giungere al traguardo verso cui ogni conoscenza è incamminata. Ovviamente, senza perdere la visione d’insieme che può offrire solo la prospettiva interdisciplinare, e dunque il dialogo con tutti i cercatori della verità 12 I. la veRITà Nelle SCIeNze NaTURalI. dall’Ideale all’OCCUlTameNTO e vICeveRSa1 Dominique Lambert 1. l’Ideale dI veRITà SCIeNTIfICa La scienza porta alla scoperta di una verità? Questa frase richiede un chiarimento. Considereremo essenzialmente la scienza empirico-formale, cioè la scienza basata su dati teorizzati (da cui l’aspetto “formale”) di osservazioni ed esperimenti (che giustifica il termine “empirico”). Il concetto ideale di verità che si realizza intuitivamente è quello di verità corrispondente (“veritas est adequaetio rei et intellectus”). Un’affermazione si dimostra vera se si riferisce, in un modo che deve essere specificato, a un “elemento di realtà” empirico. La corrispondenza in questione è misurata dalle procedure e dagli standard di verifica osservativa o sperimentale. È all’interno di queste procedure che si manifesta e si controlla la corrispondenza tra ciò che è espresso nella teoria forgiata dall’intelligenza e l’alterità naturale con cui lo scienziato si confronta. Questa alterità è proprio quell’“elemento della realtà” che è caratterizzato da un’unità (una struttura, una forma), da un’invarianza (una sussistenza sotto un cambiamento di punto di vista) e da una capacità di interazione. Idealmente, la scoperta di una verità nella scienza richiede l’identificazione di due elementi, da un lato, un’alterità (di qualcosa che, da un certo punto di vista, è indipendente dalle costruzioni del soggetto conoscente, dai sistemi di riferimento, ecc.) e, dall’altro, una consonanza tra affermazioni teoriche e affermazioni empiriche (esse stesse in parte cariche di teoria, ovviamente). Nella concezione dei filosofi della natura o degli antichi “fisici”, la scienza (conoscenza, epistêmê, che si differenzia dalla doxa, opinione arbitraria) è un ritorno ai principi e alle cause (fattori che spiegano la venuta all’esistenza delle realtà) che permettono di portare alla luce l’es1 Questo contributo, originariamente in francese con il titolo La vérité en science de la nature. De l’idéal à l’occultation et retour, viene qui presentato in una nostra traduzione italiana approvata dall’Autore. N.d.C. 13 dOmINIqUe lamBeRT sere, l’unità e le proprietà del mondo. L’ideale classico della scienza si basa su questa idea. Si tratterebbe di un’intelligenza che porta alla luce punti di partenza intelligibili che danno accesso almeno parziale alla struttura profonda delle realtà naturali. Questo ideale di corrispondenza dell’intelligenza con la realtà empirica si è progressivamente eroso fino a sembrare in tutto o in parte insostenibile. Seguiremo il percorso che ha portato a questa erosione, cercando di dimostrare che in realtà non è inevitabile. Al contrario, crediamo che la scienza empirico-formale non sarebbe ciò che è se non portasse con sé questo ideale di verità. La rinuncia a questo ideale è oggi un pericolo reale per la società che, in una sorta di rassegnazione della ragione, sembra affidare il suo futuro a pseudo-conoscenze, ma anche per la filosofia, che rischia di perdere le sue radici naturali rimanendo confinata in uno spazio dove regna solo l’arbitrio delle opinioni. Siamo chiari. Non si tratta di assolutizzare la scienza o di ignorare le difficoltà di accesso (sempre parziale) alla verità empirica. Non si tratta nemmeno di trasformare la scienza in ciò che non è: una pura filosofia. Si tratta di riscoprire l’esigenza di verità che anima le scienze e la carica ontologica che essa porta con sé e di cui non può, senza l’apporto della filosofia, spiegare appieno tutti i contorni. La nostra impresa consisterà quindi nel riscoprire, al di là delle concezioni che la oscurano, l’ideale di verità che è e rimane quello di una scienza degna di questo nome. Anche se stiamo considerando solo la verità in senso empirico-formale, è forse interessante dire qualcosa anche sulla verità puramente formale, quella che incontriamo nella logica e nella matematica. La verità in questo contesto richiede l’introduzione della nozione di linguaggio formale e del modello di tale linguaggio. Il linguaggio formale ci permette di dare un significato rigoroso alla nozione di dimostrazione. Ma quest’ultima è indipendente dal concetto di verità. La verità entra in gioco quando viene dato un insieme di oggetti intuitivamente noti in cui gli assiomi del linguaggio sono soddisfatti. Questo insieme è chiamato “modello”. La verità di un enunciato di un linguaggio formale si identifica quindi con la soddisfazione dell’interpretazione di questo enunciato in uno dei suoi modelli. La verità è quindi relativa a un modello. Questo modello è come un “mondo” a cui corrispondono i teoremi del linguaggio formale. È abbastanza facile costruire linguaggi (detti “corretti”) tali che tutto ciò che viene dimostrato in essi è interpretato come vero (cioè sono soddisfatti). D’altra parte, però, non tutte le affermazioni interpre14 I. la veRITà Nelle SCIeNze NaTURalI tate come vere in un modello di un linguaggio formale possono essere necessariamente dimostrate in esso. Se così fosse, il linguaggio formale si direbbe completo. Il teorema di incompletezza di Gödel dimostra che i linguaggi formali che contengono gli assiomi dell’aritmetica elementare non sono completi: esistono quindi “verità” non dimostrabili. Il vero si estende oltre il dominio delle affermazioni che possono essere ottenute passo dopo passo tramite dimostrazione. La nozione di verità in matematica è quindi molto ricca. È interessante notare che la dualità tra linguaggio formale e “modello” riproduce all’interno della matematica (vale a dire interiorizza) la distinzione tra teoria e mondo fisico. Il modello è quel mondo in cui gli enunciati teorici del linguaggio formale sono “veri”. La verità nelle scienze formali è puramente interna a queste scienze, ma si potrebbe dire che queste scienze producono al loro interno una nozione di mondo in cui le affermazioni formali hanno senso. Si potrebbe anche dire che attraverso questa dualità “linguaggio formale-modello”, la matematica è come co-adattata alla descrizione di un legame tra i suoi enunciati teorici e un mondo. Questo sarebbe uno degli elementi importanti per comprendere i fondamenti dell’efficacia della matematica con il fatto che essa costituisce insiemi di relazioni ricche di invarianti, necessarie per caratterizzare qualsiasi elemento della realtà (non esiste infatti un darsi del reale che non sia legato in qualche misura a un invariante).2 2. la peRdITa dell’Ideale dI veRITà SCIeNTIfICa L’ideale di verità scientifica è stato influenzato in epoca contemporanea da diversi fattori che si sono combinati per svuotare la scienza del suo significato ontologico. Da un lato ci sono fattori filosofici (idealismo kantiano, convenzionalismo e fallimento dell’empirismo logico rigoroso) e dall’altro, e più recentemente, fattori legati allo sviluppo tecnologico. L’epistemologia contemporanea è stata fortemente influenzata dall’idealismo kantiano. Alcuni scienziati di spicco hanno adottato questa filosofia per collocare l’ambito delle loro attività tecniche. In questo contesto, la scienza empirica si limita alla descrizione dei fenomeni costituiti dalle forme a priori della sensibilità (spazio e tempo) e non ha più una portata realmente ontologica. La scienza dei fenomeni non dice nulla e non può rivelare nulla dell’essere in quanto tale, del noumeD. lamBeRT, L’efficacité des mathématiques est-elle déraisonnable, «Comptes rendus de l’Académie royale de Belgique» 8 (6ème série) (1997), 1-6, 161-178. 2 15 dOmINIqUe lamBeRT no, della sua struttura profonda. Una profonda frattura separa quindi irrimediabilmente la conoscenza scientifica da quella metafisica. Qui, dunque, la scienza esplora le domande relative a una “realtà” costituita dal soggetto conoscente, le cui risposte sono strutturalmente segnate e modellate dalle capacità cognitive dell’uomo. Che il soggetto conoscente non possa conoscere altro che attraverso le sue capacità cognitive è una tautologia. Ma conosce solo ciò che è legato alle strutture della sua cognizione? Vedremo più avanti che non è così. Questo tipo di approccio filosofico ha progressivamente svuotato la scienza del significato profondo della verità, come corrispondenza tra l’intelletto e la realtà. La scienza è ormai solo una sorta di descrizione esterna di ciò che si offre alla sensibilità (in senso kantiano) e questa descrizione perde ogni contatto con una spiegazione della realtà, intesa nel senso di svelamento di qualcosa che ha a che fare con la sua struttura, la sua essenza. L’idealismo kantiano, presente ad esempio in Arthur Eddington, preparò gradualmente le menti di scienziati ed epistemologi a una visione puramente convenzionalista che apparve in parallelo e in modo indipendente. In Pierre Duhem e Henri Poincaré troviamo l’idea che la scienza non raggiunga una verità, cioè una corrispondenza tra l’intelligenza (e le teorie che ha prodotto) e la realtà. La scienza si riduce a un insieme di “modelli” che “salvano i fenomeni”,3 per usare questa famosa espressione che Duhem ha trovato in alcuni astronomi antichi e medievali. I “modelli” sono costruzioni teoriche basate su ipotesi e convenzioni arbitrarie, che riproducono i risultati di osservazioni o esperimenti. Questo tipo di visione potrebbe essere paragonata a quella secondo cui la scienza è un insieme di “scatole nere” costruite in modo tale da generare i risultati noti. La scienza è solo una “fabbrica” per riprodurre risultati e non più un modo per entrare nella conoscenza profonda della realtà. Gli scienziati descrivono i fenomeni ma non li spiegano. Per fare un’analogia di questa epistemologia, si potrebbe dire che gli scienziati si accontentano di trovare le curve di regressione che meglio rappresentano la mole dei dati osservativi o sperimentali, ma senza mai chiedersi sulla base di quali principi queste curve possano essere generate. Un’altra analogia ben nota è quella di una “rete” che verrebbe immersa in mare e che ci permetterebbe di conoscere solo i pesci la cui dimensione è superiore alle maglie della rete. La conoscenP. dUhem, To Save the Phenomena. An Essay on the Idea of Physical Theory from Plato to Galileo, Chicago University Press, Chicago 1969. 3 16 I. la veRITà Nelle SCIeNze NaTURalI za è qui condizionata dalla struttura della conoscenza. Naturalmente, l’analogia è un po’ zoppa, perché si potrebbe dire che si conoscono davvero i pesci di dimensioni adeguate. Ma l’idea è che la conoscenza non permetta di scoprire realtà diverse da quelle legate ai condizionamenti imposti dalla struttura delle capacità cognitive. La scienza, quindi, non mira più a rintracciare i fattori esplicativi dei fenomeni, cioè le loro cause. L’eliminazione delle cause (nel senso aristotelico e metafisico del termine) è stata una delle rivendicazioni centrali della scienza classica fin dal suo inizio. Sappiamo che il convenzionalismo di Duhem-Poincaré permette alla scienza di essere immune da qualsiasi contatto con la filosofia o la teologia. Da questo punto di vista, può servire ad alleviare le tensioni che sono sorte e sorgono tuttora tra scienza e metafisica, tra scienza e teologia, ecc. Ma è davvero corretto? Se è perfettamente giustificato cercare di non confondere scienza e metafisica, o scienza e teologia, forse non è impossibile articolarle senza confusione. Il desiderio di non sprofondare in un cattivo concordismo ha portato metafisici e teologi a promuovere talvolta unilateralmente un’epistemologia convenzionalista. Ma questo, portato alla sua conclusione logica, non può che condurre alla rottura dell’unità dell’intelligenza, tagliando la metafisica dal suo fondamento naturale e la teologia dal suo ancoraggio alla realtà. Dobbiamo insistere su questo punto perché un buon numero di pensatori ritiene che la duplice legittima difesa dell’autonomia delle scienze e di quella della metafisica o della teologia comporti spesso una sorta di radicalizzazione del principio dei “magisteri non sovrapposti” (NOMA) proposto da Stephen J. Gould,4 che porta a svuotare la scienza della sua portata ontologica (e di ogni pretesa esplicativa) e a privare la metafisica e la teologia delle loro radici naturali (trasformandole così in opinioni puramente arbitrarie). L’influenza dell’epistemologia kantiana e convenzionalista ha portato a quello che potremmo definire un fallimento dell’ideale di verità scientifica. Ma un colpo fatale a questo ideale fu inferto anche dall’impossibilità di soddisfare le esigenze del rigido empirismo logico emerso dal Circolo di Vienna. L’ideale di una rigorosa conferma delle affermazioni teoriche e il ripiegamento sulla falsificabilità propugnato da Popper hanno indebolito notevolmente l’idea che si possa raggiungere S.J. GOUld, Rocks of Ages: Science and Religion in the Fullness of Life, Ballantine Books, New York 2002. 4 17 dOmINIqUe lamBeRT positivamente qualcosa della struttura stessa della realtà empirica. L’incommensurabilità dei paradigmi, difesa da Thomas Kuhn,5 mette in crisi l’idea della cumulatività delle verità. La nozione di “paradigma scientifico” e la sua difesa con ipotesi ad hoc, ben descritta da Imre Lakatos, portano in un certo senso a mettere in discussione la capacità delle teorie di esprimere realmente qualcosa della struttura profonda della realtà. Questo grande movimento che parte dal Tractatus Logicus-Philosophicus di Ludwig Wittgenstein e dai suoi impossibili requisiti di verifica conduce infine all’opposto: una profonda relativizzazione della verità scientifica. La scienza è vista, in ultima analisi, come una costruzione di affermazioni, nel contesto di paradigmi basati su presupposti impliciti largamente arbitrari e socio-storicamente condizionati. La socio-epistemologia avalla questa concezione della tecnoscienza come un costrutto determinato più dagli interessi di parte di alcuni gruppi di pressione che dal desiderio di comprendere e spiegare la natura. Il famoso “tutto è buono” di Feyerabend6 porta a una concezione della verità scientifica puramente pragmatica. Non si tratta più di puntare a una progressiva chiarificazione della struttura profonda di una realtà attraverso teorie che la rivelino. Si tratta piuttosto di riuscire a realizzare e riprodurre azioni sui fenomeni utilizzando tutto ciò che “funziona”. È in questo senso che “tutto è buono”. L’obiettivo è la realizzazione pragmatica di un’azione e non più la corrispondenza tra la realtà e un’intelligenza che la comprenda. In effetti, il passaggio da una concezione tradizionale della verità scientifica come corrispondenza a una verità pragmatica (“è vera perché funziona e dà risultati utili”) potrebbe essere considerato solo come il frutto di una lettura molto particolare di filosofi scollegati dalla pratica della scienza o che insistono unilateralmente o esageratamente su condizionamenti contestuali (istituzionali, sociali, politici...) che hanno poco a che fare con il cuore dell’attività sceientifica. Ma in realtà, negli ultimi tempi l’indebolimento della nozione di verità scientifica è stato il frutto di alcuni scienziati ben integrati nella loro pratica. È nel campo dell’intelligenza artificiale che questo indebolimento ha trovato la sua sorgente. Infatti, la crescita estremamente significativa 5 T.S. KUhN, The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press, Chicago 1962. P. feyeRaBeNd, Against Method: Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, New Left Books, London 1975. 6 18 I. la veRITà Nelle SCIeNze NaTURalI del volume dei Big Data e la necessità di elaborarli con risorse informatiche sempre più potenti hanno portato all’implementazione di sistemi (reti neurali, sistemi di deep learning, ecc.) che permettono di individuare regolarità, forme, classificazioni e leggi fenomenologiche che non richiedono una teorizzazione a priori della realtà. Questi sistemi, per intenderci, sfruttano essenzialmente le correlazioni tra i dati senza preoccuparsi di alcuna causalità profonda o struttura esplicativa utile alla comprensione. Si è sviluppata l’idea che non si possa trovare un fondamento teorico profondo per questo diluvio di dati (una sorta di “infobesità”). La spiegazione teorica non è più un obiettivo perché sarebbe del tutto irraggiungibile. Dobbiamo quindi accontentarci di correlazioni fornite da sistemi di cui non possiamo sempre seguire le fasi di funzionamento, e rinunciare a una scienza basata su principi che facciano luce sulla struttura della natura. Si è parlato del passaggio a un “altro tipo di scienza” che rompe con l’ideale classico di verità. Una corrente filosofica che relativizza l’ideale scientifico classico e rovina l’idea di una verità corrispondente e quella della costituzione progressiva di principi e teorie che illuminano (approssimativamente) ciò che sarebbe dell’ordine della struttura della realtà, unita al trionfo del metodo dell’intelligenza artificiale che dimostra che ci si può accontentare di correlazioni senza dover e poter trovare cause e principi esplicativi, ci hanno entrambe portato a una situazione in cui spesso non ci si fida più della scienza come mezzo per comprendere una realtà indipendente dai soggetti conoscenti e dalle circostanze storico-sociali. Paradossalmente, in un mondo sempre più segnato dai contributi della scienza, assistiamo a una sorta di diffidenza e di relativizzazione della conoscenza e della verità scientifica. Ci chiederemo se questa progressiva deviazione dalla concezione classica della verità scientifica sia inevitabile o se sia solo legata a una sorta di ideologia dominante volta a non conferire più alla scienza una carica ontologica che altrimenti avrebbe sempre portato con sé. Ma prima di questo, dobbiamo chiarire un’altra questione: quella della limitazione interna delle teorie, soprattutto quando sono ampiamente matematizzate, come quelle della fisica, ad esempio. 19 dOmINIqUe lamBeRT 3. aCCedeRe alla veRITà NON SIGNIfICa pOSSedeRe TUTTa la veRITà! La ricerca della verità in fisica può essere stata confusa con la ricerca di una “teoria del tutto”. Questo sogno di una teoria unificante finale, che contenga in sé il riflesso isomorfico della natura (un po’ come il “quadro del mondo” evocato nel Tractatus di Wittgenstein) non è coerente. Gli argomenti sono noti, ma va sottolineato che non si tratta di impossibilità filosofiche, bensì di ostacoli logici interni ai formalismi. Riportiamo qui solo un’argomentazione formale ispirata a quella fornita da Patrick Grim,7 in un contesto filosofico completamente diverso. Consideriamo l’insieme V di tutte le verità enunciate in un linguaggio formale. Ingenuamente, potremmo pensare che questo insieme raccolga tutte le affermazioni che una “teoria definitiva del tutto” potrebbe offrirci. Il concetto di tale insieme V è coerente? La risposta argomentata da Patrick Grim è negativa. L’argomento è il seguente. L’insieme P(V) dei sottoinsiemi di V contiene un numero di elementi strettamente superiore a quello di V. Ciò deriva da un famoso risultato di Cantor (valido sia per gli insiemi finiti che per quelli infiniti). Fissiamo ora una particolare verità, detta u, e, per ogni sottoinsieme S di P(V), chiediamo se u appartiene o meno a questo sottoinsieme. Se vi appartiene, abbiamo acquisito la verità “u è in S”, che comunque è anche in V. Se non vi appartiene, abbiamo allo stesso modo acquisito una verità: “u non è in S”, anch’essa in V, poiché V contiene tutte le verità! Di conseguenza, a ogni elemento S di P(V) corrisponde una verità di V. Quindi, ci sono almeno tante verità in V quante in P(V). Ma questo provoca una contraddizione: P(V) conterrebbe un numero di elementi strettamente superiore a quello di V e allo stesso tempo V conterrebbe un numero di elementi almeno pari a quello di P(V). Questo può essere interpretato dicendo che non si può costruire formalmente l’insieme di tutte le verità. Ma questo non significa che il movimento teorico di unificazione sia privo di significato. Al contrario, l’unificazione di ampie parti della fisica è un dato di fatto. Ma una cosa è indicare un movimento crescente di unificazione teorica e un’altra è affermare che l’unificazione completa potrebbe essere raggiunta e realizzata a un certo punto. In modo simile, si può notare che importanti aree della matematica si stanno unificando. Ma la questione se si possa Cfr. J.-P. delahaye, Mathématiques et mystères. Quand la science rencontre des énigmes impossibles à résoudre… et en crée!, Berlin: Pour la science, Paris 2016, 94. 7 20 I. la veRITà Nelle SCIeNze NaTURalI mettere le mani su “il” concetto ultimo unificante di tutte le verità matematiche rimane in gran parte aperta. Si pensava che la teoria delle strutture di Bourbaki, o teoria delle categorie, potesse dare accesso a un’unificazione definitiva della matematica. Ma ogni volta ciò si è rivelato insoddisfacente. In effetti, il movimento che produce la matematica supera in ogni epoca i contesti in cui era destinata a essere confinata. Il movimento creativo del pensiero trascende e trasgredisce sempre i confini dei formalismi che dovrebbero rappresentarlo in un determinato momento. Dobbiamo quindi riscoprire un senso autentico della verità nella scienza, ma che rifiuti la chiusura delle verità in una rappresentazione ultima. La domanda che ci poniamo ora è se possiamo effettivamente dare un senso di verità alla scienza guardandoci da qualsiasi tentativo di chiusura definitiva del campo delle rappresentazioni formali ed empirico-formali. 4. ReCUpeRaRe Il SIGNIfICaTO dI veRITà Nella SCIeNza? Sembra che si debba riscoprire un legame, naturalmente senza confusione, tra la scienza dei fenomeni e la conoscenza dell’essere. Questa necessità non è arbitraria, né una semplice opinione filosofica. È suggerita e persino richiesta dal corso stesso della pratica scientifica. Cerchiamo di giustificare questa affermazione prima di vedere come si potrebbe realizzare la mediazione tra scienza fenomenica e ontologia fondamentale. Due argomenti possono sostenere la nostra tesi: la permanenza di un requisito di invarianza e la cumulatività delle verità. 4.1 La permanenza del requisito di invarianza (covarianza) Da un punto di vista teorico Quando si costruisce un formalismo in fisica si richiede sempre che la forma delle equazioni fondamentali sia invariante sotto certi insiemi di trasformazioni.8 Questi ultimi rivelano “simmetrie” locali o globali dello spazio-tempo o degli spazi più generali che utilizziamo (poiché lo spazio-tempo non è di per sé sufficiente a spiegare tutti i fenomeni fisici, ad esempio tutte le interazioni fondamentali). La nozione di simmetria rappresenta l’idea che il formalismo descriva un’entità che non 8 D. lamBeRT, Symétries formelles, mathématiques profondes et réalité in Actes de la 4ème rencontre “Physique et interrogations fondamentales”, Paris, 13-05-98, ed. by G. Cohen-Tannoudji, EDP Sciences, Paris 1999. 21 dOmINIqUe lamBeRT dipende dal punto di vista, dal quadro di riferimento utilizzato. Così, nella meccanica classica, la forma delle equazioni di Newton è invariante sotto il gruppo delle trasformazioni galileiane, mentre le equazioni di Hamilton sono invarianti sotto il gruppo delle trasformazioni simplettiche. Nella relatività speciale, le equazioni devono essere invarianti per il gruppo di Poincaré... Questo è chiamato requisito di covarianza: precisamente l’invarianza della forma delle equazioni sotto una certa trasformazione. Ma si noti che questo tipo di requisito è un modo per dire che il formalismo non descrive qualcosa che sarebbe prodotto dal fisico. Esprime che il formalismo è la presentazione di un’alterità reale. Il requisito di covarianza è l’espressione che la descrizione di un sistema da parte di un osservatore non dipende interamente da lui. L’intera struttura della teoria fisica sarebbe incomprensibile e incoerente se non si presupponesse che essa è la rappresentazione di qualcosa che sfugge al particolare punto di vista dello scienziato. Questo si può trovare in vari ambiti della fisica. Ad esempio, nella teoria dei campi o nella meccanica statistica, è necessario che le equazioni efficaci siano invarianti sotto l’azione del semigruppo di rinormalizzazione. Questo potrebbe essere interpretato come un’affermazione che la descrizione fisica macroscopica utilizzata per effettuare misure efficaci è indipendente dai dettagli “irrilevanti” dei vari modelli microscopici utilizzati. L’importanza e l’onnipresenza dei gruppi e dei semigruppi in fisica, e quindi delle simmetrie che essi formalizzano, è la manifestazione del fatto che la fisica è come “preadattata” alla descrizione di un’alterità, è qualcosa almeno in parte indipendente dal punto di vista utilizzato. Naturalmente, una teoria covariante può benissimo rivelarsi falsa, non corrispondendo a una realtà! Ma ciò che ci interessa qui è vedere che, prima di qualsiasi confronto con i risultati e le osservazioni empiriche, la teoria deve essere costituita in modo tale da manifestare qualcosa che rimanga invariante a delle trasformazioni, che esprima una sorta di indipendenza relativa rispetto a colui che la costruisce. In altre parole, la teoria si costituisce come un quadro omogeneo per la descrizione di una realtà. La simmetria non solo determinerà questa apertura ontologica, un’apertura all’essere, ma aiuterà anche nella costituzione di grandezze che descrivono la struttura e le proprietà di questo essere. Ad esempio, il requisito dell’invarianza rispetto al gruppo di Lorentz o di Poincaré nella relatività determinerà le classi di possibili “lagrangiani”; questi ultimi saranno utilizzati per costruire le equazioni fondamentali 22 I. la veRITà Nelle SCIeNze NaTURalI della teoria. Sappiamo anche dal famoso teorema di Noether (1918) che le simmetrie indicano le grandezze invarianti della teoria: energia, momento angolare, ecc. Ogni formalismo fisico è costituito dal fatto di dover manifestare una realtà e le sue proprietà fondamentali.9 Sarebbe interessante esaminare i formalismi esistenti in fisica e chiedersi quali non hanno queste proprietà di invarianza. Riteniamo che nessuna teoria fondamentale sfugga a questo requisito di invarianza (di covarianza). La fisica esprime nei suoi linguaggi le condizioni di possibilità del darsi di un ente e delle sue proprietà. Da una prospettiva sperimentale o osservativa Anche nella fisica sperimentale troviamo il requisito dell’invarianza. Un risultato di misurazione sarà accettato solo se si può dimostrare che è parzialmente indipendente dallo strumento scelto. Nel 1964-65 Penzias e Wilson scoprirono la radiazione cosmologica a 2,7°K, la famosa CMB (Cosmological Microwave Background), dimostrando che il rumore di fondo residuo rilevato dal loro radiotelescopio era indipendente dall’antenna utilizzata e dalle sue proprietà (difetti, ecc.), dalla direzione di puntamento dello strumento, ecc. Se un’osservazione non resiste a un test di (relativa) indipendenza dal dispositivo utilizzato, questa osservazione sarà rifiutata come effetto parassitario dello strumento. Ci sono molti esempi nella storia della scienza in cui si è pensato che fosse stata rivelata una nuova realtà, mentre era solo un effetto prodotto dalla strumentazione. Il professor René Blondlot, all’inizio del XX secolo, pensava di aver scoperto nel suo laboratorio di Nancy un nuovo tipo di radiazione, i “raggi N”.10 Ma dopo che un assistente modificò il dispositivo che doveva rivelarli e si dimostrò che questi “raggi” erano ancora presenti, si capì che le radiazioni erano un effetto del dispositivo utilizzato (in questo caso un effetto dello sviluppo delle lastre fotografiche) e non una realtà indipendente. In biologia, le prove dell’evoluzione sono supportate dall’intersezione tra analisi dei fossili, filogenesi molecolare, anatomia comparata, ecc. Facciamo un esempio: la biologia rivela la plasticità, cioè un equilibrio dinamico tra robustezza e deformabilità, a diverse scale di vita. D. lamBeRT, Deep mathematics and the structure of physical reality in Symmetries, Breaks in Symmetries in Mathematics, Physics and Biology, ed. by. L. Boi, Peter Lang, Bern 2006, 95-120. 9 M. J. Nye, (1980), N-Rays: An Episode in the History and Psychology of Science, «Historical Studies in the Physical Sciences», 11 (1980), 1, 125-156. 10 23 dOmINIqUe lamBeRT Questa plasticità svolge un ruolo centrale nella capacità dei sistemi di sopravvivere, ma anche di adattarsi ed evolversi. Diversi approcci indipendenti permettono di stabilire questa caratteristica.11 È una verità sugli esseri viventi. L’identificazione di una proprietà della realtà, in questo caso l’evoluzione di un organo o di un organismo, o la plasticità di un sistema biologico, si dà all’incrocio di più approcci, come una sorta di invariante perfettamente indipendente dalle concezioni a priori dello scienziato. Fondamentalmente, questi requisiti non sono molto diversi da quelli che si incontrano nell’atto ordinario della percezione. Se abbiamo un dubbio sulla realtà di ciò che percepiamo, se vogliamo distinguere tra realtà e illusione percettiva, cambiamo il nostro punto di vista. Guardiamo in modo diverso o da un luogo diverso, e vediamo se i dati raccolti scompaiono o si mantengono nel cambiamento. Non è quindi perché ogni osservazione o descrizione è fatta da un punto di vista particolare, con uno strumento molto specifico, che non si può dare un’alterità in quanto tale. La variazione dei punti di vista e degli strumenti, così come evidenziare le invarianti che persistono durante questa variazione, rivelano la traccia di un vero essere e talvolta anche le sue proprietà. 4.2 La cumulatività delle verità Questa persistenza delle invarianti sotto i cambiamenti sincronici dei punti di vista o dei modi di approccio empirico alla natura è accompagnata da una certa persistenza diacronica delle invarianti nella storia della scienza. Si è spesso insistito, soprattutto dopo Kuhn, sul fatto che i paradigmi che si susseguono storicamente nella storia della scienza sono fra loro incommensurabili. Una discontinuità concettuale segnerebbe i vari momenti di questa storia nella misura in cui la verità scientifica non potrebbe mai essere cumulativa. È certo che parti piuttosto antiche del discorso scientifico non corrispondono più in alcun modo ai dati attuali, anche se si possono ancora stabilire collegamenti molto vaghi. Pensiamo alla teoria dei quattro elementi, che si sovrapporrebbe alle principali classi di stati della materia (ad eccezione del fuoco). Ma oggi, D. lamBeRT, R. RezSöhazy, Comment les pattes viennent au serpent? Essai sur l’étonnante plasticité du vivant, Flammarion, Paris 2005, Nouvelle Bibliothèque Scientifique (nuova edizione: Flammarion, 2007, Collection “Champs”, n. 750); D. lamBeRT, Readings of Biological Plasticity in Nauka-Wiara. Rola Filozofii (Marek Slomka, redaktor tomu), Wydawnictwo KUL, Lublin 2009, Filozofia Przyrody I Nauk Przyrodniczych 1, 27-43; Plasticité: lectures blondéliennes d’un concept biologique, «Angelicum» 86 (2009), 115-135. 11 24 I. la veRITà Nelle SCIeNze NaTURalI contrariamente a quanto sostenuto, legami molto forti uniscono la struttura della meccanica classica a quella della relatività o della meccanica quantistica. La relatività generale possiede un quadro concettuale molto diverso da quello della meccanica classica, ma se consideriamo delle velocità assai piccole rispetto alla velocità della luce e dei campi gravitazionali deboli, ritroviamo la seconda teoria come approssimazione della prima. Inoltre, sappiamo che Einstein aveva sviluppato le equazioni della relatività generale basandosi su una sorta di modifica dell’equazione classica che descrive il campo gravitazionale, la cosiddetta equazione di Poisson. Se guardiamo alla meccanica quantistica, è chiaro che si tratta di una teoria molto diversa dalla meccanica classica. Tuttavia, se consideriamo la struttura algebrica della meccanica quantistica, vediamo che si tratta di una deformazione a un parametro della struttura (simplettica) della meccanica classica in una struttura algebrica non commutativa.12 Nella formalizzazione dello spazio delle fasi della meccanica quantistica, si può notare chiaramente la persistenza della simmetria simplettica che deriva dal quadro classico. I due formalismi, quello quantistico e quello classico, sono molto diversi, ma possiamo vedere che uno non è estraneo né incommensurabile all’altro. Infatti, molti studi descrivono, in termini teorici, la transizione, la “decoerenza”, tra il mondo quantistico e il mondo classico. Se la scienza fosse costituita da invenzioni arbitrarie che dipendono totalmente dalle epoche e dai singoli scienziati, le loro affermazioni che pretendono di essere vere (cioè affermazioni che dovrebbero essere vere per qualcosa in natura) non potrebbero essere correlate tra loro. Tuttavia, ciò che colpisce, almeno nelle scienze recenti, è che gli sviluppi odierni possono benissimo essere collegati in modo coerente e razionale alle conquiste del passato. I metodi di approssimazione, di deformazione delle strutture,13 di passaggio al limite... formalizzano adeguatamente questa “cumulatività” della verità. C’è quindi una progressiva scoperta di un’alterità che gli scienziati caratterizzano in modo progressivo ma efficace. La struttura delle teorie scientifiche e quella delle pratiche di osservazione e sperimentazione rivelano che la scienza è come informa12 m. helleR, d. lamBeRT, Ontology and noncommutative geometry in M. Eckstein, M. Heller, S.J. Szybka (eds.), Mathematical Structures of the Universe, Copernicus Center Press, Krakow 2014, 341-354. D. lamBeRT, Relativités et déformations de structures: lecture cohomologique de l’invention théorique, «Zagadnienia Filozoficzne w Nauce» 37 (2005), 98-118. 13 25 dOmINIqUe lamBeRT ta a priori dall’esigenza di descrivere e manifestare la realtà e le sue proprietà. Tutto nella scienza tende a confluire in un insieme di procedure il cui scopo sarebbe quello di catturare, se possibile, un’entità indipendente dal soggetto conoscente, e dal suo punto di vista. Ogni descrizione scientifica è fatta da un punto di vista, ma ogni descrizione scientifica mira a scoprire, nell’intersezione dei punti di vista, qualcosa che sia indipendente dai punti di vista stessi. Ma ciò che presenta questa proprietà di indipendenza è la traccia di una corrispondenza riuscita con la realtà, e quindi l’indicazione di una verità che si offre alla nostra conoscenza. La scienza è così preadattata e tutta tesa alla ricezione del vero. Ma naturalmente la scienza non può essere confusa con la metafisica, che ha per oggetto la comprensione dell’essere in quanto tale, ossia dell’essere in quanto essere. 5. UNa fIlOSOfIa della NaTURa? La scienza può raggiungere affermazioni che hanno proprietà di invarianza e indipendenza dalle modalità di approccio utilizzate dagli scienziati. Ciò corrisponde, come abbiamo visto, all’idea di verità come corrispondenza del pensiero a un’alterità. Ma se questo è corretto, allora può essere interessante partire da queste affermazioni per costruire un tentativo di caratterizzazione dell’essere empirico. Per esempio, la scienza contemporanea ha stabilito come solida verità che nulla può essere realmente compreso nel cosmo e nella vita se non attraverso l’idea di evoluzione. Si potrebbe anche dire che nulla può essere compreso nel mondo della materia, della vita e dell’universo nel suo complesso senza la nozione di interazione. Questo ci invita a partire da tali verità per caratterizzare tutto l’essere come realtà in divenire e in relazione: un pensiero generale dell’essere empirico, non più legato alla scienza in senso stretto, ma a un’interpretazione dei dati della scienza in un quadro più ampio che le offre un’ulteriore intelligibilità. Un simile quadro non è altro che una filosofia della natura informata dai dati scientifici. Si tratta di quella che Pierre Teilhard de Chardin ha definito una “iperfisica”,14 riferendosi a una sorta di interpretazione delle scienze della “Phy14 Lettera di Teilhard a P. de Lubac del 29 aprile, Lettres intimes de Teilhard de Chardin à Auguste Valensin, Bruno de Solages et Henri de Lubac, Aubier Montaigne, Paris 1972 (seconda edizione ampliata: Lettres intimes de Teilhard de Chardin à Auguste Valensin, Bruno de Solages et Henri de Lubac, André Ravier 1919-1955, Aubier Montaigne, Paris 1993), 269; lettere del 26 I. la veRITà Nelle SCIeNze NaTURalI sis”, della natura.15 Se la scienza dei fenomeni coglie effettivamente gli elementi della realtà, corrisponde veramente all’essere, allora dà luogo a una riflessione che può arricchire la metafisica collegandosi ad essa. Ma la scienza dei fenomeni non è la stessa cosa della scienza dell’essere. Pertanto, deve esistere una mediazione tra scienza e metafisica. E questa mediazione non è altro che una “iperfisica”, una filosofia della natura in costante evoluzione (ma che accumula progressivamente verità) informata dallo sviluppo delle scienze naturali. Notiamo che una tale filosofia della natura può avere senso solo se è stato dimostrato fin dall’inizio che la scienza ci rivela effettivamente qualcosa della realtà. Quello che abbiamo fatto qui è stato suggerire che la struttura teorica delle scienze empiriche, così come quella delle sue pratiche osservative e sperimentali, è tale da poter essere interpretata solo come una struttura “in attesa” che un elemento della realtà si offra alla nostra conoscenza (un’entità caratterizzata da “invarianti” e da una coerenza che riflette l’indipendenza dal soggetto conoscente). Se la nostra ipotesi è corretta, e poiché il fenomeno (e la scienza che lo caratterizza) non si identifica con l’essere in quanto tale (e con il sapere che lo apprende: la metafisica), allora è necessario che esista una “scientia media”, una mediazione tra scienza e metafisica – una mediazione che non è arbitraria perché è essa stessa informata dalle scienze. Questa mediazione necessaria, di cui si dimostra la rilevanza epistemologica, è una filosofia della natura. Ed è comprensibile che il crollo dell’ideale di verità scientifica sia stato accompagnato anche dal crollo della filosofia della natura, che è stata gradualmente sostituita dall’epistemologia o filosofia della scienza. Vediamo qui che la riscoperta dell’attualità dell’ideale classico di verità scientifica deve essere accompagnata dalla riscoperta di una filosofia della natura, ma fornendo a quest’ultima la spinta e le determinazioni conferite dalla sua “in-formazione” scientifica. 29 aprile 1934 a P. de Lubac, 269; lettere di Teilhard del 29 aprile 1934 a P. de Lubac e dell’11 ottobre 1936 all’abbé Gaudefroy, citate in C. Cuénot, Teilhard de Chardin, Club des Editeurs, Paris 1958, 258-259. Questo termine potrebbe essere paragonato a quello usato da Tommaso d’Aquino: “transphysica”, da ritrovarsi nel suo In Boetii de Trinitate, lect. 2, q. 2, a. 1, dove designa la conoscenza “meta-fisica” che dovrebbe essere studiata dopo la fisica e la matematica. Ci riferiamo qui alle bellissime analisi di Emmanuel Gabellieri in Le phénomène et l’entre-deux. Pour une métaxologie, Hermann, Paris 2019. 15 27 II. la veRITà SCIeNTIfICa IN pROSpeTTIva INTeRaTTIva e dIaCRONICa Ivan Colagè 1. INTROdUzIONe “Dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso; dire di ciò che è che è, o di ciò che non è che non è, è vero”. Così Aristotele, nella Metafisica (IV, 7, 1011 b), definiva la verità, e la falsità, in una maniera che condizionerà il pensiero occidentale per i successivi due millenni e mezzo, fino ai giorni nostri. Questa definizione è alla base dell’idea che la verità sia, essenzialmente, corrispondenza alla realtà. Se si asserisce “Il libro è sulla cattedra”, questa affermazione sarà vera se il libro è effettivamente sulla cattedra, falsa altrimenti. Be’, per la verità…, bisognerebbe specificare quale libro e quale cattedra, e persino in quale momento. Il punto, tuttavia, dovrebbe essere chiaro. Consideriamo ora l’affermazione “Tutti i cigni sono bianchi”. In quanto asserzione, essa ha una pretesa di verità: chi la afferma con convinzione “pretende” che, nella realtà, quegli oggetti che chiamiamo “cigno” abbiano quella proprietà che chiamiamo “bianco”. In quanto tale, quella asserzione può essere o vera o falsa, tertium non datur. Ma: possiamo sapere se essa effettivamente è vera oppure è falsa? Risposta: no! Non possiamo essere certi che tutti i cigni siano effettivamente bianchi, perché per esserlo dovremmo poter controllare tutti i cigni, in tutto l’universo, passati, presenti e… futuri. E questo non è possibile. Sottigliezze da filosofo, qualcuno potrebbe sogghignare. Sennonché, dietro a questa battuta si cela quasi per intero la questione della verità nella scienza. Obiettivo di questo contributo sarà porre tale questione e proporre due direttrici essenziali – almeno per chi scrive – per la sua soluzione. 2. la pReTeSa UNIveRSale della SCIeNza (mOdeRNa) È il sole al centro dell’universo o la terra? Questa domanda è spesso presa come simbolo della rivoluzione scientifica moderna. La 29 IvaN COlaGè “rivoluzione copernicana” – come Thomas S. Kuhn1 la sancì indelebilmente – è spesso intesa come quel processo che, tra XVI e XVIII secolo, porta l’astronomia da un sistema geocentrico (con la terra al centro dell’universo) di eredità aristotelico-tolemaica, ad un sistema eliocentrico (con il sole al centro) di cui Niccolò Copernico pose le basi con il De revolutionibus orbium coelestium del 1543. In realtà, la transizione tra geocentrismo ed eliocentrismo non è l’unico “guadagno” che la rivoluzione copernicana ha donato all’umanità; probabilmente, non è neppure il più importante. Pierre Duhem, nelle battute finali del suo Salvare i fenomeni,2 sottolinea bene come con la rivoluzione copernicana si afferma l’idea che le leggi della fisica (le leggi scientifiche, più in generale) devono avere una “aspirazione universale”: devono valere… sempre e ovunque. Infatti, la cosmologia Aristotelica – così come, mutatis mutandis, l’astronomia Tolemaica – concepivano il mondo come suddiviso in due “sfere”, quella terrestre e quella celeste. Queste due sfere avevano costituzione diversa (terra, acqua, aria e fuoco la prima, etere cristallino la seconda) e leggi del moto diverse (radiale per la prima – i quattro elementi tendevano al loro “luogo naturale” dal centro alla periferia del mondo –, circolare uniforme per la seconda). Fu solo con il compimento della rivoluzione copernicana che si affermò l’idea che le leggi dovessero essere le stesse in ogni istante di tempo e in ogni luogo. Galilei e Newton furono gli artefici della cosiddetta “unificazione di fisica terrestre e fisica celeste”; grazie a loro, le leggi che regolavano i moti celesti divennero le stesse che regolavano i moti dei corpi sulla terra. È questo, per inciso, che collega l’aneddoto della mela di Newton con la sua astronomia gravitazionale. Da allora in poi, nessuna legge scientifica, nessuna teoria scientifica, avrebbe mai potuto ammettere eccezioni in linea di principio. Ciò – e lo vedremo meglio – non significa pretendere che tutto funzioni sempre perfettamente. Non è mai così. Il principio di inerzia, strettamente parlando, non è mai perfettamente esemplificato da nessun corpo reale. Questo non accade per un capriccio della natura, ma perché nelle situazioni reali c’è sempre qualche forza (tipicamente, forze di attrito) che impedisce ad un corpo di conservare indefinitamente il suo stato T.S. KUhN, La rivoluzione copernicana. L’astronomia planetaria nello sviluppo del pensiero occidentale, Einaudi, Torino 2000 (edizione originale inglese 1957). 1 P. dUhem, Salvare i fenomeni. Saggio sulla nozione di teoria fisica da Platone a Galileo, Borla, Milano 1986 (edizione originale francese 1908). 2 30 II. la veRITà SCIeNTIfICa IN pROSpeTTIva INTeRaTTIva e dIaCRONICa di quiete o moto rettilineo uniforme. Senza queste forze, il principio di inerzia varrebbe rigidamente, sempre e ovunque. Anzi, più esattamente: di fatto vale sempre, al netto degli attriti o dei campi di forze presenti. È nella formulazione stessa di leggi e teorie scientifiche che è implicita questa pretesa universale. Una teoria scientifica pretende di valere sempre e ovunque per tutti i sistemi che rientrano nel suo dominio di applicazione. Questa pretesa, per quanto scontata possa apparire oggi per chi si occupa di scienza, è essenziale all’impresa scientifica. Se una teoria ammettesse eccezioni di principio, la scienza sarebbe paralizzata. Come distinguere, infatti, il caso in cui si verifica un’eccezione alla legge perché la legge non pretende di valere in quella particolare situazione, dal caso in cui l’eccezione alla legge si verifica perché… la legge è sbagliata? Se si verifica un’eccezione, ci sono solo due opzioni accettabili per la scienza: a) L’eccezione si verifica perché ci sono condizioni che modificano il comportamento dei sistemi naturali pur continuando questi ad obbedire (anche) alla legge in questione – sarebbe il caso della legge di inerzia in presenza di attriti; b) L’eccezione si verifica perché la legge è sbagliata (tecnicamente: è falsa); non vale in quel caso specifico e, non essendoci ragioni perché essa non venga rispettata dai sistemi naturali in quel caso coinvolti, allora essa non vale proprio: non vale per la realtà. La dottrina epistemologica del falsificazionismo3 costituisce lo snodo centrale della filosofia della scienza del ‘900. Nel suo nocciolo logico essa può essere così sintetizzata. Una teoria dà vita a previsioni empiriche, vale a dire, ad asserzioni singolari circa accadimenti specifici. Ad esempio, la teoria della gravitazione universale di Newton prevede che nel momento M, il pianeta P deve trovarsi nella certa posizione x-y-z. Questa previsione viene poi confrontata con i dati. Ad esempio, si osserva (si misura) la posizione del pianeta P nel momento M. Quindi, se la previsione viene smentita (vale a dire: P non si trova in x-y-z al momento M), la teoria da cui è stata ricavata questa previsione errata deve essere abbandonata in quanto falsa. In realtà, le cose non sono così semplici. Una teoria, da sola, non può dar vita a previsioni empiriche; occorrono sempre altri elementi, quali condizioni iniziali, condizioni al contorno, eventuali ipotesi ausiliarie, ecc. Dalla legge di gravitazione universale non è possibile ricavare K.R. pOppeR, La logica della scoperta scientifica. Il carattere autocorrettivo della scienza, Einaudi, Torino 1998 (prima edizione tedesca 1934; prima edizione inglese 1959). 3 31 IvaN COlaGè alcuna previsione empirica circa la forza di attrazione tra due corpi senza conoscere anche le masse dei corpi, la loro distanza e la costante di gravitazione. Tuttavia, questi elementi aggiuntivi rispetto alla teoria, indispensabili per ricavare previsioni, sono considerati nello schema popperiano come a-problematici: si assume che siano noti e che non vi siano ragioni per dubitarne.4 A questa condizione, se le previsioni ricavate con l’ausilio di una certa teoria vengono violate, sarà la teoria a dover essere considerata falsa. Ma questo vale soltanto se quella teoria porta con sé quella pretesa di universalità di cui stiamo dicendo. 3. la dImeNSIONe STORICa della SCIeNza Il falsificazionismo di Sir Karl R. Popper non è, in senso rigoroso, una “epistemologia storica”: essa non prende esplicitamente e profondamente in considerazione la dimensione storica per comprendere l’attività scientifica. Essa intende essere piuttosto una epistemologia “normativa” – pretende di dire agli scienziati come fare bene il loro lavoro – e non “descrittiva”. Tuttavia, proprio il falsificazionismo pone le basi logiche per l’idea che la scienza sia essenzialmente un’impresa che trae dalle sue vicissitudini storiche parte importante della sua forza. Infatti, se si prende sul serio il falsificazionismo, si giunge facilmente a concepire la storia della scienza come un susseguirsi di teorie congetturalmente proposte e poi falsificate perché latrici di previsioni smentite dai fatti. Questo processo di progressiva falsificazione di congetture teoriche presuppone – anzi, costituisce – una storia. Toccherà successivamente a Thomas Kuhn e a Imre Lakatos – per menzionare solo due importanti filosofi della scienza di metà ‘900 – elaborare un’epistemologia storica in senso stretto, vale a dire, una riflessione filosofica sulla scienza che parta dalla constatazione che le discipline scientifiche hanno una storia e che il loro operato – l’operato degli scienziati che lavorano in quei campi – non ha senso se non alla luce delle vicende storiche che lo preparano, lo motivano e lo contestualizzano. Queste epistemologie, diversamente dalla proposta popperiana, hanno un carattere descrittivo: ambiscono a studiare cosa gli scienziati effettivamente fanno, e le ragioni del loro agire scientifico, senza pretendere di dire loro cosa dovrebbero fare. 4 In realtà, dietro a questo punto si cela il più grosso problema del falsificazionismo di Popper, che Duhem aveva già individuato trent’anni prima della pubblicazione de La logica della scoperta scientifica. Torneremo su questo punto più avanti. 32 II. la veRITà SCIeNTIfICa IN pROSpeTTIva INTeRaTTIva e dIaCRONICa Ben nota a chi frequenta la filosofia della scienza è la nozione di rivoluzione scientifica, come proposta da Kuhn.5 La storia della scienza si configura, in questa prospettiva, come un susseguirsi di periodi di scienza ordinaria o normale, e periodi di scienza straordinaria o rivoluzionaria. Nei periodi di scienza normale, il lavoro degli scienziati è regolato da un paradigma che definisce i problemi rilevanti e i tipi di soluzione generali a quei problemi. Per fare un esempio, l’astronomia antica (quella dell’Almagesto di Tolomeo) era regolata da un paradigma che esigeva che i moti dei pianeti venissero ridotti (e previsti con esattezza grazie) a combinazioni di moti circolari uniformi centrati, alla fin fine, sulla terra. Nei periodi di scienza normale gli scienziati sono sempre alle prese con problemi, che Kuhn chiama puzzles (“rompicapo”). Questi rompicapo, in estrema sintesi, consistono in… conti che non tornano, previsioni derivate teoricamente dal paradigma che non coincidono con i dati ricavati empiricamente. Tuttavia gli scienziati “non sono popperiani”,6 non abbandonano le teorie paradigmatiche al cospetto di questi problemi; piuttosto, lavorano alacremente per risolverli avendo fiducia che, in futuro, le risorse del paradigma permetteranno di risolverli. Il paradigma, molto spesso, avrà già dato prova del suo valore nel risolvere rompicapo passati. Già in questo si scorge la rilevanza della dimensione diacronica della scienza. Basandosi su studi storici dettagliati, Kuhn chiarisce anche quelle situazioni in cui un paradigma finisce per essere abbandonato. Questo non accade certo, come abbiamo appena visto, ad ogni problema. Accade, invece, quando alcuni dei puzzles si rivelano particolarmente “testardi” (stubborn) e quando riguardano proprio quei problemi che costituiscono il cuore del paradigma. Essi costituiranno allora delle vere e proprie anomalie. Il rinvenimento di tali anomalie innesca una crisi durante la quale gli scienziati del campo perdono progressivamente fiducia nelle risorse del paradigma e, conseguentemente, iniziano ad esplorare soluzioni alternative (che esulano dell’orizzonte paradigmatico). Inizia così una rivoluzione scientifica, il cui esito sarà l’istaurazione di un nuovo paradigma. T.S. KUhN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1999 (edizione originale inglese 1962). 5 I. COlaGè, Interazione e inferenza. Epistemologia scientifica ispirata al pensiero di Ch. S. Peirce, Gregorian & Biblical Press, Roma 2010, 31-32. 6 33 IvaN COlaGè Ci sono due punti da sottolineare. Il primo è che in un senso importante – e indipendentemente dalla questione della cosiddetta “incommensurabilità dei paradigmi”7 – il verificarsi di una crisi, l’innesco di una rivoluzione e il conseguente cambio di paradigma non hanno senso se non alla luce del percorso storico di quella disciplina. Le anomalie di un paradigma dipendono in misura importante dalla costituzione stessa del paradigma, il che a sua volta dipende dal processo che ha portato a quel paradigma. Inoltre, le specifiche delle anomalie che avviano la crisi – che a loro volta dipendono dal lavoro svolto all’interno del paradigma – condizionano in misura rilevante le caratteristiche del paradigma successivo, il quale deve essere in grado di offrire una soluzione proprio ad esse. Si rintraccia qui un filo rosso, di carattere storico, che attraversa le vicissitudini all’interno di una disciplina scientifica. La seconda considerazione è che, da parte degli scienziati che operano in una certa disciplina scientifica, l’istaurarsi di un nuovo paradigma è, in fondo, una scommessa sul futuro. Con le parole dello stesso Kuhn: Colui che abbraccia un nuovo paradigma fin dall’inizio lo fa spesso a dispetto delle prove fornite dalla soluzione di problemi. Egli deve cioè aver fiducia che il nuovo paradigma riuscirà in futuro a risolvere i molti vasti problemi che gli stanno davanti, sapendo soltanto che il vecchio paradigma non è riuscito a risolverne alcuni. Una decisione di tal genere può essere presa solamente sulla base della fede.8 Un nuovo paradigma non ha ancora dato prova di sé in maniera sufficiente. Certo, deve offrire una soluzione alle anomalie che hanno messo in crisi il precedente, ma non ha ancora sviluppato le sue potenzialità, non è ancora stato diffusamente applicato. La sua accettazione da parte della comunità scientifica dipende da ragioni che guardano al passato (le anomalie del paradigma precedente), al presente (la sua capacità di risolvere quelle anomalie), ma forse soprattutto, al futuro (la fiducia nei suoi sviluppi potenziali). La Struttura delle rivoluzioni scientifiche di Kuhn ha rappresentato un punto di svolta nella filosofia della scienza del secolo scorso. Naturalmente, la riflessione successiva non ha mancato di rivedere e correggere alcuni aspetti. Imre Lakatos, con La metodologia dei programmi di ricerca Questa è l’idea che due paradigmi successivi sono talmente diversi da non poter essere paragonati in nessun modo. La nozione è stata molto dibattuta, e lo stesso Kuhn ha rivisto le sue posizioni in merito. Non è necessario soffermarvisi in questa sede. 7 8 KUhN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, 190. 34 II. la veRITà SCIeNTIfICa IN pROSpeTTIva INTeRaTTIva e dIaCRONICa scientifica,9 ha tentato una sintesi tra la proposta di Popper e quella di Kuhn, elaborando ciò che egli stesso chiama un “falsificazionismo sofisticato”.10 La storia delle discipline scientifiche viene vista come un susseguirsi di programmi di ricerca scientifica. Un programma di ricerca è costituito, secondo Lakatos, da un nucleo (o “euristica negativa”) e da una cintura protettiva (o “euristica positiva”). Il nucleo contiene quegli elementi teorici che, in virtù di una decisione metodologica, non possono essere né abbandonati né modificati – non possono, vale a dire, essere falsificati. La cintura protettiva contiene quegli elementi che, al contrario, possono essere liberamente modificati dagli scienziati che lavorano in quel campo. Le modifiche della cintura protettiva danno vita alle “varianti confutabili” del programma di ricerca. Naturalmente, la modifica della cintura protettiva – e, dunque, il susseguirsi delle varianti confutabili – avviene quando le previsioni teoriche del programma non si accordano con i dati empirici a disposizione. In questo quadro, sarebbe teoricamente possibile, da un punto di vista strettamente logico, riuscire sempre a modificare la cintura protettiva in modo che le discordanze tra previsioni e dati vengano meno. Questo, per inciso, è il cuore della cosiddetta “tesi di Duhem”,11 secondo la quale non soltanto è impossibile logicamente provare la verità di una teoria scientifica (in virtù della sua pretesa di universalità), ma è anche impossibile falsificare una teoria, dal momento che, come abbiamo visto, non è mai soltanto dalla teoria che si inferiscono previsioni e, quindi, è possibile modificare le previsioni (rendendole conformi ai dati) agendo non sulla teoria ma su qualsiasi altro elemento coinvolto nel calcolo delle previsioni.12 Tuttavia, nonostante questa situazione logica (essenzialmente corretta), Lakatos offre anche dei criteri metodologici per valutare un programma di ricerca e, eventualmente, decretarne il superamento, l’abbandono e la sostituzione. In primo luogo, Lakatos nota che, diversamente da quanto sembrava ritenere Kuhn, un programma di ricerca non viene mai di fatto abbandonato prima che sia già dispoI. laKaTOS, La metodologia dei programmi di ricerca scientifici, EST, Milano 2001 (edizione originale inglese 1978). 9 10 Ibidem, 42 ss. P. dUhem, The Aim and Structure of Physical Theory, Princeton University Press, Princeton 1991 (originale francese 1908). 11 12 Cfr. ibidem, 183-189. 35 IvaN COlaGè nibile un programma alternativo. Inoltre, il superamento di un programma di ricerca avviene quando uno dei due programmi rivali si trova in “fase regressiva” e l’altro (quello che sostituirà il primo) in “fase progressiva”. Un programma in fase progressiva è un programma il cui sviluppo teorico anticipa lo sviluppo empirico – in sostanza, il programma riesce a prevedere fatti nuovi prima che essi vengano “incontrati” sperimentalmente. Un programma in fase regressiva, al contrario, si limita a cercare spiegazioni per fenomeni già noti (post hoc); inoltre, nel far questo, formula ipotesi ad hoc. Lakatos distingue tre tipi di ipotesi ad hoc: quelle che non hanno alcun contenuto addizionale rispetto alle precedenti (ad hoc1), quelle che hanno tale contenuto addizionale ma nulla di esso è corroborato (ad hoc2), e infine quelle che non sono ad hoc in questi due sensi ma non costituiscono una parte integrante dell’euristica positiva (ad hoc3).13 Affinché un programma di ricerca non entri in fase regressiva, esso deve dunque evitare di formulare ipotesi ad hoc. Il punto che vorrei sottolineare è che, dal punto di vista logico, formulare ipotesi ad hoc non è “vietato”. Da un punto di vista metodologico, invece, risulta problematico soprattutto perché in tal modo il programma di ricerca perde consistenza interna (perché ingloba elementi estranei alle idee forti che costituiscono il suo nucleo) ed esterna (perché si frammenta in tante ipotesi esplicative locali, intaccando la sua pretesa di universalità e, conseguentemente, la sua presa con gli aspetti della realtà che intende spiegare). E, in tal modo, esso di fatto compromette il suo sviluppo futuro; mina alle basi il suo progresso. Evidentemente, un programma che è costretto a far questo palesa i suoi limiti nel comprendere quella porzione di realtà di cui intende occuparsi – e per tale ragione viene abbandonato dalla comunità scientifica rilevante. Da questo punto di vista, il carattere storico dell’attività scientifica è talmente profondo da riguardare, in qualche modo, persino il futuro. Il valore di una certa teoria scientifica (sia essa interpretata come teoria paradigmatica o come nucleo di un programma di ricerca) deve essere valutato con criteri rivolti al passato (se e come riesce a risolvere e superare i problemi di teorie precedenti), al presente (quanto bene riesce a render conto dei fatti noti – la sua “adeguatezza empirica”), e al futuro (la sua promessa di sviluppo). Per quanto questi ultimi criteri, quelli che guardano al futuro, siano probabilmente i più “scivolosi” 13 laKaTOS, La medodologia dei programmi di ricerca scientifici, 170, nota 36. 36 II. la veRITà SCIeNTIfICa IN pROSpeTTIva INTeRaTTIva e dIaCRONICa da catturare in definizioni tecniche e univoche, essi sembrano giocare un ruolo determinante in alcuni snodi delle vicissitudini storiche delle varie discipline scientifiche.14 4. la dImeNSIONe INTeRaTTIva della SCIeNza In ciò che precede, si è messo un certo accento sulla capacità predittiva delle teorie, e sul conseguente processo di controllo delle previsioni. Per fare buona scienza, tuttavia, le previsioni non bastano. Più esattamente, la scienza richiede interazione con la realtà, un’interazione che abbia successo, che porti ai risultati attesi. Non dal punto di vista delle applicazioni, ma dal punto di vista dell’attività di ricerca propriamente sperimentale. Preliminarmente, definiamo un esperimento come una manipolazione accuratamente progettata del mondo fisico – che si estrinseca nella produzione e variazione controllata delle condizioni iniziali e al contorno – che culmina nell’ottenimento – e nella successiva registrazione – di un risultato.15 L’enfasi qui è sulla “manipolazione”, vale a dire, sulla modifica pianificata dello stato del sistema oggetto, per studiare le “reazioni” di quest’ultimo a quella modifica, a quell’intervento. Ora, la rivoluzione copernicana si svolge per lo più in astronomia. In astronomia, esperimenti nel senso appena chiarito (soprattutto 2000, o anche solo 450, anni fa) non sono possibili. Infatti, la partita si è giocata, per così dire, soprattutto sulle previsioni – che, peraltro, si conformavano con i dati, solo al prezzo di notevoli complicazioni geometrico-matematiche della teoria, anche con Copernico. Solamente con Keplero e Newton si ebbero soluzioni semplici in grado di render conto elegantemente dei dati a disposizione.16 È solo con il compimento della rivoluzione copernicana che la scienza diventa eminentemente sperimentale; è solamente con l’unificazione di fisica celeste e fisica terrestre che esperimenti fatti su corpi terrestri (i piani inclinati di Galilei, ad esempio) potevano dire qualcosa sul comportamento dei corpi celesti. Per inciso, è per la stessa ragione che oggi esperimenti in acceleratori particellari sono rilevanti in astrofisica e cosmologia. Per Tolomeo, e per Copernico, questo non era possibile. Le loro previsioni I. COlaGè, Prospective fruitfulness as a criterion for theory-choice and research-strategy option, «Comprendre» 16 (2014), 61-89. 14 15 COlaGè, Interazione e inferenza, 166. 16 Salvo poi ritornare ad essere problematiche con la precessione del perielio di Mercurio. 37 IvaN COlaGè erano previsioni sui moti apparenti dei pianeti (vale a dire, sulle posizioni nel tempo che i pianeti assumevano dal punto d’osservazione terrestre sullo sfondo delle costellazioni), e i loro dati erano le osservazioni nel tempo di quelle posizioni apparenti. Solamente in una situazione simile – a mio parere – si può legittimamente assumere un atteggiamento strumentalista, e non realista, nei confronti della scienza. Lo strumentalismo – che trova proprio nel Duhem di Salvare i fenomeni il rappresentante forse più autorevole – è quella dottrina epistemologica che, in sostanza, concepisce le teorie fisiche solo come strumenti (appunto) per calcolare previsioni buone (che corrispondono ai dati), e non come qualcosa che possa informarci su come la realtà sia effettivamente fatta. Dal punto di vista strumentalista, gli epicicli e i deferenti usati da Tolomeo per calcolare le previsioni circa le posizioni dei pianeti non avevano alcun bisogno di essere reali, di corrispondere a qualcosa nella realtà naturale. Quel punto di vista, però, perde molto del suo fascino se accanto a previsioni e osservazioni mettiamo anche interazioni ed esperimenti. Non è un caso che fino a Copernico compreso, l’astronomia era essenzialmente una cinematica: studio di traiettorie. Con Keplero – e la sua teoria dell’anima motrix17 – inizia a farsi largo un discorso che, andando oltre alla pura cinematica, riflette sui “motivi” di quelle traiettorie. Con Newton, l’astronomia diventa propriamente una dinamica: lo studio delle forze che animano le traiettorie dei pianeti. A questo punto, appiattire il discorso scientifico sulle previsioni non basta più. Per radicalizzare il discorso, anche se le previsioni di Tolomeo – ma varrebbe lo stesso per quelle copernicane – fossero totalmente accurate, con la teoria tolemaica – come anche con l’astronomia di Copernico – non avremmo mai potuto interagire con… la luna. Per mandare l’Apollo 11 in orbita intorno alla luna, e per far atterrare in sicurezza il modulo lunare sulla superficie del nostro satellite, c’è bisogno di una dinamica; non basta una cinematica. Vale a dire, c’è bisogno di una teoria che, oltre a fornire previsioni buone, ci metta in grado di interagire con la realtà. 17 Cfr. KUhN, La rivoluzione copernicana, 268-277. L’anima motrix è l’idea che i moti dei pianeti nel sistema solare siano animati da una forza che si sprigiona dal sole e che sospinge i pianeti nel loro moto. È, per quanto ingenua possa sembrare agli occhi contemporanei, una teoria dinamica – e non più solamente cinematica – dei moti planetari. 38 II. la veRITà SCIeNTIfICa IN pROSpeTTIva INTeRaTTIva e dIaCRONICa A questo punto, è necessario notare che l’astronomia gravitazionale di Newton, quella che nel 1969 ha permesso all’essere umano di camminare sulla luna e che oggi permette l’andirivieni di astronauti tra terra e stazione spaziale internazionale, tecnicamente parlando, da un punto di vista strettamente formale, è da considerarsi falsa! È stata superata dalla Teoria della Relatività e dalla Meccanica Quantistica all’inizio del XX secolo. Sappiamo che l’idea di realtà che ci restituisce la fisica classica non corrisponde alla realtà naturale (o, meglio, all’idea che ne abbiamo oggi). Eppure, ci permette di interagire con successo con la realtà in una miriade di situazioni sperimentali e applicative – seppure non in tutte. 5. veRITà SCIeNTIfICa La dimensione storica (paragrafo 3) mette potenzialmente in crisi l’idea che la scienza possa effettivamente raggiungere la verità. Non soltanto perché mostra in modo lampante i fallimenti dei tentativi passati. Ma anche perché, più sottilmente, mostra come le vicissitudini storiche delle varie discipline scientifiche si dispieghino in misura significativa in dinamiche “intra-teoriche” dove i dati empirici giocano soprattutto un ruolo “negativo”, problematico e di smentita. Le anomalie sono tali rispetto a un paradigma, ma non rispetto ad un altro. Un nuovo paradigma non ha la pretesa di essere vero in senso forte, ma solo di essere migliore del precedente, risolvendo le anomalie che affliggevano quest’ultimo. Le varianti confutabili di un programma di ricerca risolvono progressivamente i problemi incontrati, ma sono per loro stessa natura confutabili. Due programmi di ricerca alternativi vengono confrontati rispetto al loro “stato di salute” (se progressivo o regressivo) ma non in base alla loro verità. La dimensione interattiva (paragrafo 4), pur nel suo essere essenziale all’avanzamento delle varie discipline, è in parte svincolata dalla verità delle teorie – abbiamo visto che teorie riconosciute false, nondimeno assicurano applicazioni affidabili – e mette de facto in difficoltà l’idea che la verità di una teoria sia un presupposto indispensabile per il suo funzionare bene nella realtà. Finisce qui la pars destruens di questo contributo. Nel seguito, cercheremo di vedere come proprio prendendo sul serio le dimensioni storica e interattiva della scienza si possa giungere ad una concezione di verità scientifica realista e non ingenua. 39 IvaN COlaGè Nel proporre il suo falsificazionismo, Popper non partì da considerazioni storiche. La base della sua proposta non sta tanto nella constatazione che lungo la storia le teorie scientifiche ritenute vere in un certo momento sono poi state “smascherate” come false. Partì, piuttosto, da considerazioni logiche e da una critica alle idee della logica induttiva.18 Il punto fondamentale è che, partendo dai dati a disposizione, non è possibile giustificare logicamente e definitivamente alcuna generalizzazione teorica. Un insieme per quanto ricco e denso di dati è sempre logicamente compatibile con più di una teoria. Nessun insieme di dati, per quanto ricco e denso, è in grado di forzarci ad una ed una sola teoria. Questo è il tema – classico in filosofia della scienza – della “sotto-determinazione delle teorie rispetto ai fatti”. Una teoria, dunque, non può essere tratta solamente a partire dai fatti – e ancor meno può essere provata vera a partire da essi. Ecco perché Popper si esprime così alla fine del primo paragrafo de La logica della scoperta scientifica: La teoria che sarà sviluppata nelle pagine seguenti si oppone radicalmente a tutti i tentativi di operare con le idee della logica induttiva. Potrebbe essere descritta come la teoria del metodo deduttivo dei controlli, o come il punto di vista secondo cui un’ipotesi può essere soltanto controllata empiricamente, e soltanto dopo che è stata proposta.19 Ma, come si propone un’ipotesi teorica? Popper (nel paragrafo successivo) liquida il problema relegandolo al campo della “psicologia della scoperta”, al di fuori della filosofia della scienza.20 Riponendo mente a quanto accennato sulle epistemologie storiche, al contrario, gran parte delle vicissitudini delle varie discipline scientifiche non si comprende se non considerando la capacità degli scienziati di inventare spiegazioni. Uso la parola “inventare” con cognizione di causa, perché in effetti le ipotesi teoriche vengono inventate dagli scienziati, talvolta in maniera assai creativa. Certo, non si tratta di invenzione pura; non è un lavoro di fantasia. È una invenzione che, del tutto generale, ha due “limitazioni” di enorme rilevanza. In primo luogo, questa invenzione è limitata dal processo storico che la precede. Nella misura in cui un’ipotesi teorica è proposta in una certa fase di sviluppo di una disciplina, essa di fatto “risente” di ciò che la precede. In secondo luogo, è limitata dal requisito che sia effettivamente una spiegazione possibile per i dati noti. Sebbene 18 K.R. pOppeR, La logica della scoperta scientifica, 3-9. 19 Ibidem, 9. 20 Ibidem, 9-11. 40 II. la veRITà SCIeNTIfICa IN pROSpeTTIva INTeRaTTIva e dIaCRONICa non si possa avere alcuna garanzia logica che l’ipotesi proposta sia quella giusta – quella vera – essa deve almeno essere potenzialmente in grado di offrire una spiegazione per i dati rilevanti. Questi dati sono, oggi sempre più, ricavati sperimentalmente – vale a dire, ottenuti attraverso manipolazioni ben progettate e controllate della realtà. Da questo punto di vista, la rilevanza “in positivo” delle dimensioni storica e interattiva della scienza iniziano a svelarsi. Prima di esplicitarle ulteriormente è necessario un piccolo interludio sulle inferenze a disposizione dell’essere umano, e un secondo interludio sull’importanza degli esperimenti. Questi si radicano nel pensiero epistemologico di Charles S. Peirce. 5.1. Abduzione, deduzione, induzione Peirce ha individuato in abduzione, deduzione e induzione le tre forme fondamentali di inferenza a disposizione del ragionamento umano. Secondo lui, in sostanza, i nostri ragionamenti per quanto complessi si costituiscono di abduzioni, deduzioni e induzioni. L’abduzione è quella forma di inferenza che sovrintende alla formulazione di ipotesi esplicative. Vale a dire, che cerca una spiegazione allorquando si è al cospetto di un fatto non atteso e che pertanto ci sorprende. La forma logica dell’abduzione può essere catturata dal seguente schema: Si osserva il sorprendente fatto C; ma se A fosse vero, C sarebbe spiegato come un fatto normale; perciò, c’è ragione di sospettare che sia vero A.21 Si noti che questa forma di ragionamento non è deduttiva: la verità della sua conclusione non è garantita dalla verità delle premesse. È, dunque, “rischiosa”. È, però, di fatto, l’unica forma di inferenza tramite la quale si possono proporre spiegazioni per fatti sorprendenti. Certamente l’abduzione è indispensabile per la formulazione di nuove ipotesi e teorie (che, come lo stesso Popper aveva chiarissimo, non seguono né direttamente né, tantomeno, necessariamente dai fatti a disposizione). Ma, si noti bene, vale anche in situazioni molto meno “di frontiera”. Per la precisione, vale anche nei casi in cui si ha già – almeno implicitamente – a disposizione una teoria in grado di spiegare quel fatto. Il lavoro abduttivo, in questi casi, non sta tanto nell’inventare un’ipotesi, ma nel reperirla all’interno dell’enciclopedia disponibile. 21 C.S. peIRCe, Le leggi dell’ipotesi. Antologia dai Collected Papers, M.A. BONfaNTINI, R. GRaG. pRONI (edd.), Bompiani, Milano 1984, 184-185. zIa, 41 IvaN COlaGè Cerchiamo di chiarire ulteriormente il punto. L’A nello schema sopra (che compare sia nella seconda premessa, sia nella conclusione) potrebbe essere già noto, e potrebbe essere già noto anche il fatto che A è in grado di spiegare C. Anche in questo caso, tuttavia, concludere che sia proprio A la spiegazione di C è un’inferenza abduttiva perché la spiegazione di un fatto non si presenta col fatto stesso e, nel caso generale, uno stesso fatto può essere spiegato in molti modi diversi. Un caso appena più sofisticato di abduzione si ha quando l’A è noto, ma non è noto che A sia in grado di spiegare C. In questo caso, il lavoro abduttivo sta nel reperire A all’interno dell’enciclopedia disponibile e nell’ipotizzare un legame esplicativo (persino “causale”) tra A e C. Il caso più “audace” di abduzione si ha quando l’A non è noto, non se ne immaginava l’esistenza, non è già parte integrante dell’enciclopedia disponibile. Questo caso è quello in cui lo scienziato ipotizza una entità teorica – vale a dire, precisamente, ipotizza l’esistenza di una entità di cui non si ha esperienza diretta e che avrebbe quelle caratteristiche tali da poter costituire una spiegazione per il fatto sorprendente. È dunque corretto ritenere che l’abduzione sia una inferenza? Non sembra assomigliare di più a uno slancio di pura intuizione? La questione è stata discussa in letteratura,22 ed era presente allo stesso Peirce, il quale riteneva che l’abduzione fosse, in qualche modo, entrambe le cose: un’inferenza e un’intuizione. C’è una componente intuitiva – in alcuni casi, si direbbe persino di genialità – nel suggerire spiegazioni (nuove) a fatti sorprendenti. Tuttavia, lo slancio abduttivo, soprattutto in scienza, è canalizzato in primo luogo da fattori di ordine logico-epistemologico, e in secondo luogo da fattori di ordine storico-metodologico. In primo luogo, come abbiamo già notato, il risultato di una inferenza abduttiva deve essere una spiegazione almeno possibile dei fatti da spiegare. Vale a dire, deve essere possibile dedurre i fatti da spiegare a partire dalla conclusione abduttiva (insieme, in genere, ad altri elementi dell’enciclopedia disponibile). In secondo luogo, la conclusione abduttiva deve, per così dire, inquadrarsi bene nel contesto teorico di riferimento. Vale a dire, deve essere coerente con i fondamentali assunti metodologici (i “tipi di spiegazione” ammessi e accettati) all’interno della disciplina di Cfr. T. KapITaN, In What Way is Abductive Inference Creative?, «Transactions of the Charles S. Peirce Society» 26 (1990), 4, 492-512; D.R. aNdeRSON, The Evolution of Peirce’s Concept of Abduction, «Transactions of the Charles S. Peirce Society» 22 (1986), 2, 145-164; COlaGè, Interazione e inferenza, 194-203. 22 42 II. la veRITà SCIeNTIfICa IN pROSpeTTIva INTeRaTTIva e dIaCRONICa riferimento.23 Questi fattori dipendono in misura importante dalla fase storica che attraversa quella disciplina. Si potrebbe dire che dipendono dal paradigma in vigore, o dal programma di ricerca di riferimento. Infatti, dal punto di vista che stiamo assumendo qui, paradigmi e programmi di ricerca potrebbero essere intesi proprio come i “depositari” di quei fattori che limitano il campo delle ipotesi possibili e accettabili e, di conseguenza, canalizzano le abduzioni. In questo modo, i passi abduttivi – pur conservando una componente intuitiva, che deriva essenzialmente dal fatto che nessun insieme di fatti può determinare, di per sé, una ed una sola spiegazione possibile – assumono un carattere inferenziale. Se l’abduzione presiede al processo di formulazione di ipotesi, la deduzione è il processo inferenziale che esplicita le aspettative a partire da un certo insieme di premesse. Le previsioni – che abbiamo visto costituire ciò che può essere confrontato con i dati al fine di controllare le ipotesi – sono esattamente le aspettative formulate dagli scienziati che operano in un certo campo. L’unico punto da sottolineare è che le previsioni ricavate deduttivamente portano con sé il carattere distintivo delle conclusione deduttive: la verità di una conclusione deduttiva è assicurata e garantita dalla verità delle premesse. 24 In tal modo, se le premesse da cui vengono tratte le previsioni fossero effettivamente tutte strettamente vere – e se i calcoli sono corretti, ovviamente – le previsioni non potrebbero essere sbagliate. L’induzione, infine, è quello schema inferenziale che presiede al controllo empirico delle conseguenze (previsioni) dedotte dall’ipotesi abdotta: Ora, avendo tratto per deduzione da un’ipotesi le previsioni dei risultati di un esperimento, procediamo a saggiare l’ipotesi eseguendo l’esperimento e confrontando quelle previsioni con i risultati effettivi di esso. [...] Questo tipo di inferenza da esperimenti provanti le previsioni basate su un’ipotesi è l’unico che può a buon diritto essere definito induzione. 25 23 Per fare un esempio storico, nel contesto dell’ottica emissiva elaborata da Newton a cavallo tra ‘600 e ‘700 per spiegare i fenomeni luminosi noti all’epoca, le ipotesi dovevano essere coerenti con l’idea che la luce fosse costituita da corpuscoli materiali e con la legge di gravitazione universale che regolava le interazioni tra corpi dotati di massa. 24 Si noti che questo vale anche nel caso di previsioni di carattere statistico o probabilistico, in quanto probabilistiche o statistiche, naturalmente. 25 peIRCe, Le leggi dell’ipotesi, 261. 43 IvaN COlaGè Anche la concezione dell’induzione in Peirce, e le sue caratteristiche all’interno del metodo scientifico di questo autore, è stata oggetto di ampie discussioni in letteratura.26 Senza addentrarci in questi dettagli,27 possiamo dire che l’induzione ha il fondamentale ruolo di classificare i risultati dei controlli empirici di un’ipotesi in “casi pro” (i casi che si conformano alle previsioni teoriche, alle aspettative) e “casi contro” (i casi che le violano), cercando di catturare (generalizzando) le caratteristiche salienti che raggruppano le circostanze empiriche in cui l’ipotesi “funziona bene” e le caratteristiche salienti che raggruppano le circostanze empiriche in cui l’ipotesi è violata. Va a questo punto notato che Peirce vede la conoscenza umana in generale, e quella scientifica in particolare, come il dispiegarsi di “cicli” di abduzioni (che propongono ipotesi), deduzioni (che esplicitano le aspettative a partire da quelle ipotesi), e induzioni (che catturano le caratteristiche dei casi che si conformano alle aspettative e quelle che non vi si conformano). Specificamente, i “casi contro”, nel non conformarsi alle aspettative tratte dall’ipotesi, innescano un nuovo passo abduttivo alla ricerca di una spiegazione di questi casi contro e del perché violano l’ipotesi di partenza. Infine, occorre spendere una parola in più sulla questione delle “entità teoriche”, talvolta anche dette “termini teorici”: quelle teorie scientifiche che hanno meglio mostrato la loro fruttuosità sono anche quelle che contengono termini (che chiamerò “termini teorici”) che con proposito esplicito designano entità che non sono osservabili e che, in qualche caso, sembrano inosservabili di principio.28 Secondo il punto di vista qui intrapreso, la formulazione di entità teoriche è l’attività più “alta” di cui uno scienziato (o una équipe di ricerca) possa rendersi protagonista. Ciò sia perché è in questo che lo slancio abduttivo trova maggior audacia, sia – e soprattutto – perché è nel formulare entità teoriche che lo scienziato tenta di assolvere a quel compito veritativo di proporre asserzioni che “corrispondano alla realCfr. R. ReSCheR, Peirce’s Philosophy of Science. Critical Studies in His Theory of Induction and Scientific Method, University of Notre Dame Press, Notre Dame-London 1977; D.G. mayO, Peircean Induction and the Error-Correcting Thesis, «Transactions of the Charles S. Peirce Society» 41 (2005), 2, 299-319. 26 27 Cfr. COlaGè. Interazione e inferenza, 218-227. J.A. wINNIe, The Implicit Definition of Theoretical Terms, «British Journal for the Philosophy of Science» 18 (1967), 3, 223-229, 226 (traduzione mia). 28 44 II. la veRITà SCIeNTIfICa IN pROSpeTTIva INTeRaTTIva e dIaCRONICa tà” (come anticipato all’inizio). Bisogna tener presente che formulare una entità teorica non è semplicemente dire, ad esempio, “esistono elettroni”, quanto piuttosto asserire che esistono delle particelle materiali elementari (cioè, non composte di parti) dotate di massa x, carica y, e spin semi-intero che chiamiamo elettroni. Si noti che questo significa stabilire le caratteristiche, le proprietà delle entità teoriche, e ritenere che queste proprietà siano responsabili del comportamento del sistema in ogni situazione possibile. Che la formulazione di entità teoriche sia un compito abduttivo si evince dal fatto che nella storia della scienza, talvolta, le entità teoriche sono cambiate – ad esempio la proprietà di spin semi-intero è stata attribuita all’elettrone molto dopo la prima formulazione di questa entità teorica –, vale a dire, è stata modificata la “lista” di proprietà attribuite all’elettrone. Naturalmente, poi, di tanto in tanto si sono aggiunte nuove entità teoriche – che costituiscono vere e proprie scoperte, quando sufficientemente corroborate e accettate dalla comunità scientifica di riferimento. Il punto cruciale a tale riguardo, tuttavia, è che le entità teoriche sono proposte ipoteticamente. La loro formulazione è un tentativo abduttivo di descrivere la realtà; sono descrizioni ipotetiche che ambiscono a corrispondere a qualcosa di reale (e, quindi, ambiscono ad essere vere).29 5.2. Entità teoriche ed esperimenti Potrebbe a prima vista sembrare che le entità teoriche, proprio in quanto “teoriche”, abbiano poco a che vedere con l’attività sperimentale in scienza. Tanto più, se questa è vista nei termini (prima accennati) di manipolazione dei sistemi oggetto. Sennonché, uno sguardo più attento a cosa sia un esperimento – e quali siano le sue “funzioni conoscitive” nella pratica scientifica – chiarirà in che senso le entità teoriche siano il presupposto fondamentale per un buon programma sperimentale. Abbiamo definito l’esperimento come una “manipolazione accuratamente progettata del mondo fisico”. Ora, su che basi si “progetta accuratamente” un esperimento? In sostanza, si progetta proprio sulla base della costituzione ipotetica delle entità teoriche rilevanti – sulla “lista di proprietà” che si ipotizza caratterizzino l’entità teorica che si sta studiando e che si assume sia il sistema oggetto che l’esperimento andrà a manipolare. In particolare, un esperimento ha il compito di accertare il legame causale sussistente tra le proprietà dell’entità teorica, le condi29 Cfr. COlaGè. Interazione e inferenza, 227-230. 45 IvaN COlaGè zioni sperimentali in cui quest’ultima viene immessa, e i risultati dell’esperimento (i quali in sostanza consistono nel comportamento specifico del sistema oggetto in quelle determinate circostanze). La progettazione dell’esperimento consiste dunque nel dar vita ad una situazione sperimentale che solleciti il sistema oggetto (con le sue proprietà ipotetiche) in maniera specifica, e nel registrare le risposte a quelle sollecitazioni che il sistema oggetto dà. Queste risposte dipendono dalle reali proprietà del sistema oggetto – vale a dire dalla reale costituzione dell’entità teorica, dalle proprietà che essa effettivamente ha. Vi sono due considerazioni da esplicitare riguardo a questo. In primo luogo, affinché sia significativo, è fondamentale che l’esperimento consista in manipolazioni progettate e controllate. Solo a questa condizione si può essere ragionevolmente fiduciosi che i risultati dell’esperimento dipendano proprio da quelle sollecitazioni a cui si vuole sottoporre il sistema oggetto. Più precisamente, un esperimento è tanto più significativo e informativo quanto più la situazione sperimentale è controllata – vale a dire, quanto più si può esser sicuri che le sollecitazioni siano esattamente quelle progettate e che non intervengano possibili fattori di disturbo (vale a dire, sollecitazioni di cui non si ha consapevolezza e che quindi falserebbero il risultato). Una simile ragionevole fiducia non si può raggiungere se non con un esperimento.30 In secondo luogo, è necessario approfondire un po’ la relazione tra proprietà reali e proprietà ipotetiche delle entità teoriche e, conseguentemente, sul valore “descrittivo” delle entità teoriche. Evidentemente, le risposte che il sistema oggetto offre alle sollecitazioni sperimentali dipendono dalle sue reali proprietà: è da queste che scaturisce il comportamento del sistema oggetto nelle varie situazioni in cui esso si trova e interagisce con altri sistemi. Tuttavia, l’esperimento è progettato sulla base delle proprietà ipotetiche del sistema oggetto. E queste ultime possono bene non essere esattamente quelle giuste. Più precisamente, la costituzione ipotetica dell’entità teorica in esame potrebbe non coincidere con quella reale; la lista di proprietà che definisce ipoteticamente Questo punto era chiarissimo già a John Stuart Mill, il quale riteneva che una conoscenza causale affidabile sul mondo si possa ottenere solamente mediante ciò che lui chiamava il “metodo della differenza” – che è molto vicino a ciò che per noi, qui, è un esperimento – e non tramite ciò che lui chiamava “metodo della concordanza” – che in sostanza consiste in pure osservazioni, senza la manipolazione del sistema oggetto. Cfr. J. S. mIll, Sistema di logica deduttiva e induttiva, UTET, Torino 1973-74, 537-544. Cfr. anche COlaGè, Interazione e inferenza, 173-177. 30 46 II. la veRITà SCIeNTIfICa IN pROSpeTTIva INTeRaTTIva e dIaCRONICa l’entità teorica può non coincidere con la lista di proprietà che l’entità (reale) effettivamente ha. Se un esperimento “fallisce” – vale a dire, non dà risultati compatibili con le aspettative previste – ciò significa, una volta escluse altre possibili fonti di errore (cosa non sempre facile raggiungere effettivamente), che la costituzione ipotetica dell’entità teorica coinvolta è scorretta: la lista di proprietà con la quale è stata definita teoricamente non è quella reale. Se un esperimento “riesce” – vale a dire, dà i risultati previsti – possiamo forse assumere che la lista di proprietà attribuite teoricamente all’entità sia vera in senso stretto? Che la costituzione ipotetica coincida con quella reale? Che l’entità teorica sia una descrizione vera (corrispondente alla realtà)? No: non possiamo esserne certi. Ciò che un esperimento ben riuscito ci assicura è che la costituzione dell’entità teorica coglie bene degli aspetti della realtà (di quella porzione di realtà ipoteticamente descritta dell’entità teorica e sollecitata sperimentalmente) nella misura in cui l’esperimento li sollecita. Questo non assicura della verità della descrizione contenuta nella definizione dell’entità teorica in toto. Assicura, però, che l’interazione effettiva che avviene nell’esperimento, in quanto progettata a partire dalla descrizione ipotetica contenuta nella definizione dell’entità teorica, coglie – seppure in maniera non descrittiva – alcuni aspetti della realtà. In altri termini, quella descrizione è parzialmente vera. Tuttavia, rigorosamente parlando, una descrizione (in generale, una proposizione) non può essere “parzialmente” vera in base alla concezione “corrispondentista” di verità: in questa prospettiva o una proposizione è vera oppure è falsa. Dire, dunque, che essa è parzialmente vera richiede una concezione di verità non completamente riconducibile a quella corrispondentista. Si noti (e riprenderemo il punto a brevissimo) che questo è reso possibile dal fatto che un esperimento è una interazione e manipolazione effettiva della realtà naturale; se ci si limitasse ad osservare la realtà, senza manipolarla, questa prospettiva sarebbe di fatto bloccata (e la posizione strumentalista accennata prima risulterebbe un’opzione effettivamente praticabile). 5.3. Verità “interattiva” e verità “asintotica” Quanto appena visto a proposito del rapporto tra entità teoriche ed esperimenti, insieme ai limiti della posizione strumentalista accennati più su, depone a favore di una concezione realista della conoscenza 47 IvaN COlaGè scientifica della natura. La scienza è effettivamente in grado di cogliere aspetti della realtà; ci informa efficacemente sulla costituzione delle porzioni di realtà naturale che indaga. Il realismo scientifico che emerge da quanto detto sin qui, però, non è “ingenuo”: non presume che le teorie scientifiche o le entità teoriche per come definite dalle teorie scientifiche possano considerarsi, de facto, come descrizioni vere (corrispondenti alla realtà) del mondo o di sue porzioni. Il rapporto tra verità e realtà a proposito della ricerca scientifica dovrebbe piuttosto essere compreso, per così dire, tra due estremi: una verità come idea regolativa di corrispondenza alla realtà, alla quale l’impresa scientifica tende asintoticamente; una verità che risiede nella capacità di cogliere aspetti della realtà nell’interazione con essa e in maniera non descrittiva. Prendo a riferimento alcune istanze della filosofia di Peirce. Egli si esprime come segue a proposito della realtà: E cosa intendiamo con il reale? È una concezione che dobbiamo aver avuto la prima volta che c’era qualcosa di irreale, un’illusione; vale a dire, la prima volta che ci siamo corretti.31 Dove deve essere trovato il reale, quella cosa indipendente da come noi la pensiamo? Una cosa simile deve esserci, poiché noi troviamo le nostre opinioni costrette [constrained]; c’è qualcosa, dunque, che influenza i nostri pensieri e che non è creato da loro.32 La realtà è dunque intesa come qualcosa di indipendente dal nostro pensiero (vale a dire, dalle nostre ipotesi teoriche su come essa potrebbe essere costituita) e che, di conseguenza, limita e corregge le nostre idee. Dal contesto del pensiero peirceiano – fondatore del pragmatismo, tra le altre cose – si evince chiaramente che il ruolo di correzione della realtà sulle nostre idee viene svolto proprio nell’interazione reale tra noi con le nostre idee e la realtà con le sue proprietà.33 Basterà in questa sede citare la “massima” del pragmatismo secondo Peirce: un concetto, cioè il senso razionale di una parola o di un’altra espressione, consiste esclusivamente nella sua concepibile influenza sulla condotta di vita; C.S. peIRCe, The Essential Peirce, ed. by N. Houser and C.J.W. Kloesel, Peirce Project Edition, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis 1998, vol. 1, 52 (traduzione mia). 31 32 Ibidem, 88 (traduzione mia). 33 COlaGè, Interazione e inferenza, 238-244. 48 II. la veRITà SCIeNTIfICa IN pROSpeTTIva INTeRaTTIva e dIaCRONICa cosicché [...] se si potessero definire con precisione tutti i concepibili fenomeni sperimentali implicati nell’affermazione o nella negazione di un concetto, con ciò stesso si avrebbe una definizione completa del concetto.34 Pertanto, l’interazione con la realtà, in quanto guidata dalle nostre opinioni, dai nostri “concetti”, ci permette di avvicinarci progressivamente alla verità – vale a dire, ad una descrizione che corrisponde alla realtà, ma di per sé non ci assicura in nessun modo di averla già raggiunta. Peirce offre alcuni spunti interessanti anche a proposito della nozione di verità: L’opinione, sulla quale, fatalmente, tutti coloro che indagano si troveranno in definitiva d’accordo, è ciò che intendiamo con verità, e l’oggetto rappresentato in questa opinione è il reale. In questo modo io spiegherei la realtà.35 […] l’opinione umana tende universalmente, nel lungo periodo, a una forma definita, che è la verità.36 Dunque, anche per Peirce, la verità è una “rappresentazione” che corrisponde alla realtà; ma questa rappresentazione – vorrei dire, questa descrizione – è qualcosa a cui l’indagine tende, non qualcosa che possiede già. Ciò nonostante, questa concezione di verità svolge un ruolo regolativo per la ricerca scientifica, ne fissa la meta. Un commentatore cattura la postura realista di Peirce in questo modo: Il realista caratterizza la realtà riferendosi al futuro: se una proposizione è vera, e cosa è reale, è caratterizzato in riferimento a ciò che crederemo o crederemmo se protraessimo l’indagine abbastanza a lungo e abbastanza bene.37 La questione è come interpolare queste due concezioni di verità – apparentemente non facilmente componibili – nel contesto della conoscenza scientifica della natura: l’una provvisoria, in un certo senso “negativa”, e radicata nell’interazione con la realtà; l’altra definitiva, “positiva”, ma radicalmente futura. Ci viene in aiuto un altro commentatore del pensiero di Peirce: La realtà è ciò che rende qualunque nostra particolare risposta tanto buona quanto essa effettivamente è. O, per metterla in modo più preciso, in termini dello svolgersi della ricerca: nel valutare qualsiasi ipotesi particolare, la realtà è ciò che determina il livello di successo empirico di cui l’ipotesi godrà. In questo senso, il fatto che 34 peIRCe, Le leggi dell’ipotesi, 132. 35 Ibidem, 124. 36 peIRCe, The Essential Peirce, vol. 1, 89 (traduzione mia). C. hOOKway, Truth, Rationality and Pragmatism. Themes from Peirce, Clarendon Press, Oxford 2000, 106 (traduzione mia). 37 49 IvaN COlaGè rispondere C è peggio che rispondere A, è tanto un aspetto della realtà quanto lo è il fatto che rispondere B è la cosa migliore possibile.38 […] “realtà” qui non denota un mondo-in-sé-stesso del tipo che potrebbe essere rispecchiato o catturato da una teoria, quanto piuttosto una esistenzadel-mondo che si rivela nella nostra esperienza epistemica. Le teorie che hanno successo non rassomigliano alla realtà, ma funzionano bene in essa.39 Per lo più, queste citazioni considerano lo stato di sviluppo di una certa disciplina in un determinato momento storico. Il senso di queste citazioni può essere colto solamente se si abbandona – o si mette tra parentesi almeno per un momento – l’idea che la verità debba riguardare necessariamente una “descrizione della realtà”, e se si prende invece in considerazione la prospettiva secondo cui la verità può anche avere a che vedere con la “interazione con la realtà”, non perdendo di vista, però, che questa interazione è guidata da descrizioni ipotetiche della realtà, la cui istanza più interessante è la formulazione di entità teoriche. Inoltre, questo atteggiamento non esclude affatto il ruolo regolativo dell’idea “corrispondentista” di verità. Questo emerge dalla prima delle ultime due citazioni, in cui… “rispondere B è la cosa migliore possibile”. Non tutte le risposte – vorrei dire, le ipotesi circa la costituzione della realtà – sono equivalenti, e non lo sono in virtù di un criterio ben preciso: la realtà o, epistemicamente, la verità intesa come rappresentazione fedele della realtà. Tuttavia, ogni risposta – incluse quelle, e sono la maggioranza, tecnicamente false in quanto non corrispondenti alla realtà – se inquadrata nel momento di sviluppo storico di una disciplina e se compresa come guida all’interazione con la realtà, coglie aspetti della realtà. In questa tensione tra la dimensione storica e quella interattiva della scienza, trova posto una tensione interessante tra la concezione interattiva e la concezione asintotica di verità. La verità scientifica si colloca in queste tensioni. 6. CONClUSIONe Per concludere il discorso portato avanti, vorrei solamente riportare l’attenzione del lettore su quanto abbiamo visto a proposito delle epistemologie storiche. Nelle loro formulazioni, esse sembrano perdere di vista il rimando all’idea regolativa di verità come corrispondenza alla 38 I. faRBeR, Peirce on Reality, Truth, and the Convergence of Inquiry in the Limit, «Transactions of the Charles S. Peirce Society» 41 (2005), 541-566, 560 (traduzione mia). 39 Ibidem, 561 (traduzione mia). 50 II. la veRITà SCIeNTIfICa IN pROSpeTTIva INTeRaTTIva e dIaCRONICa realtà. Questo dipende almeno in parte, a mio avviso, da una scarsa tematizzazione delle entità teoriche come descrizioni ipotetiche della realtà. Quando il ruolo delle entità teoriche nello sviluppo storico della scienza, e come guida all’interazione concreta con la realtà, è messo a tema adeguatamente, allora le epistemologie storiche possono essere reinterpretate come teorie su come la scienza sia effettivamente un’impresa che tende ad approssimarsi sempre più alla descrizione vera della realtà – per quanto quest’ultima sia destinata a rimanere per lo più un orizzonte futuro. Vorrei, infine, portare all’attenzione del lettore anche il fatto che, sebbene la maggior parte degli esempi menzionati in ciò che precede sono stati tratti dalla fisica – e sebbene anche i grandi epistemologi del ‘900 avevano per lo più presente la fisica, e talvolta la chimica, nelle loro riflessioni – il discorso proposto in ciò che precede dovrebbe valere anche per altri domini delle scienze naturali, incluse tutte le life sciences. Non è possibile sviscerare questo tema in questa sede. Basteranno un paio di allusioni, appunto, conclusive. Un Escherichia coli – batterio presente anche nell’intestino degli animali – potrebbe non essere considerato una “entità teorica”: possiamo vederlo quasi direttamente, con l’aiuto di un microscopio ottico. Tuttavia, il suo “funzionamento” – la sua fisiologia – è a tutti gli effetti da considerarsi una entità teorica: non possiamo in alcun modo osservarlo direttamente. Possiamo solo inferirne aspetti tramite ricerca teorica e sperimentale insieme. Lo stesso discorso, mutatis mutandis, vale anche, ad esempio, per il cervelletto del macaco: possiamo osservarlo direttamente (se fossimo anatomisti comparati “militanti” potrebbe persino capitarci di tenerne uno tra le nostre mani e osservarlo ad occhio nudo). Tuttavia, capirne il funzionamento non è qualcosa che si può fare mediante osservazione diretta, richiede (anche) ricerca teorica (che ne ipotizzi proprietà) e sperimentale (che lo solleciti sperimentalmente e ne registri le risposte). È proprio questo che rende, almeno a miei occhi, la ricerca scientifica così interessante 51 III. SCIeNza e veRITà: peRChé la meTOdOlOGIa STaTISTICa CI aIUTa a CapIRe Il laTO UmaNO della SCIeNza Alessandro Giuliani 1. INTROdUzIONe I mezzi di comunicazione di massa, i testi divulgativi, i manuali universitari, ci consegnano una mole sterminata di informazioni, a differenti livelli di approfondimento, dal documentario alla trattazione specialistica, su ogni campo della ricerca scientifica. A ben vedere però, c’è un punto cruciale che rimane nascosto e che era stato ben individuato dal pensatore colombiano Nicolás Gómez Dávila in questo brillante aforisma: «La scienza inganna in tre modi: trasformando le sue proposizioni in norme, divulgando i suoi risultati più che i suoi metodi, tacendo le sue limitazioni epistemologiche». In altre parole, è il motivo per cui esistono una infinità di opere divulgative e di manualistica sulla zoologia, la fisiologia, la fisica classica e moderna, la chimica biologica, ma praticamente nessun documentario sulla metodologia statistica. La situazione è analoga a quella di un ristorante provvisto di un menu sterminato, che però mantenesse uno stretto segreto sugli ingredienti utilizzati e soprattutto non permettesse di dare un’occhiata alle cucine. È invece proprio in cucina che si decide della sapidità e della genuinità di una pietanza. I risultati (le pietanze), serviti senza alcuna contezza dei metodi (il processo di preparazione) con cui sono stati conseguiti, forniscono una idea distorta della scienza che appare nascente come Venere dalle acque o Minerva dalla testa di Zeus già perfetta e completamente formata. Essa chiede al discepolo solo ammirazione per la sua perfezione e coerenza. Allo studente (ma spesso anche al ricercatore) si chiede solo di comprendere la necessità di certe conclusioni a partire da premesse e risultati sperimentali che si assume essere auto-evidenti. Invece nel mondo reale sappiamo che la nascita segue a un “travaglio” (equivalente a “lavoro”, come ancora si nota nei dialetti dell’Italia meridionale e in 53 aleSSaNdRO GIUlIaNI lingue neolatine come lo spagnolo e il francese). Il lavoro scientifico è a tutti gli effetti un travaglio, con il suo carico di sacrificio, di scelte personali e di contraddizioni. Ogni risultato scientifico che troviamo espresso in bella forma nei manuali ha alle sue spalle un lungo periodo di dibattiti, ripensamenti, incomprensioni, modifiche e limature. Ogni concetto scientifico che consideriamo fermamente stabilito viene alla luce come un neonato congestionato e piangente, bisognoso di cure e di affetto da parte di chi lo ama, crede in lui e lo accompagna nella crescita. Anche quando il neonato si sarà fatto uomo o donna matura, anche se camminerà sulle sue gambe, non sarà certo privo di affanni e contraddizioni, non sarà immune da dolori e malattie. Per questo l’affermazione (che abbiamo sentito troppo spesso in questi ultimi anni) “Ce lo dice la Scienza”, volendo intendere una verità indiscutibile e definitiva che non ammette repliche, nasconde un grave inganno. A ben vedere tutte le acquisizioni della scienza raccontano verità parziali, limitate sia in termini epistemologici generali (Gómez Dávila ci rammenta che esistono sterminati territori della esperienza umana in cui la scienza non ha nulla di rilevante da dire) che locali (ogni affermazione scientifica ha precisi limiti di applicabilità e condizioni al contorno). Ancora più importante è la constatazione che tutte le nostre teorie e acquisizioni, prima o poi, verranno superate, con il passare del tempo, da teorie più generali o da osservazioni più accurate. Ma allora dove cercare la verità nella scienza, visto che noi umani associamo (a mio avviso giustamente) alla parola “verità” un forte sapore di eterno? Questa verità la troviamo proprio nel travaglio, nei dolori del parto e nella sapienza del cuoco e della levatrice; non a caso ancora utilizziamo con profitto metodologie statistiche sviluppate per dimostrare teorie scientifiche ormai da tempo accantonate. Si pensi ad esempio all’eugenetica che negli anni tra le due guerre mondiali era considerata una posizione scientificamente assodata e che ora è stata abbandonata (almeno apparentemente, visto che risorge periodicamente in altre forme). Ebbene, la ricerca eugenetica ha permesso lo sviluppo di metodologie che usiamo ancora con grande profitto e che costituiscono la base delle attuali tecniche di machine learning. Insomma, i “buoni metodi di preparazione” restano, i contenuti scientifici a cui danno vita invecchiano e spesso vengono dimenticati. Il motivo è che il nostro angolo visuale sulla natura è fortemente ristretto dalle limitazioni dei nostri metodi di indagine e dalle scelte 54 III. SCIeNza e veRITà teoriche che decidono cosa sia di interesse misurare escludendo altre prospettive che solo dopo molti anni si riveleranno più fertili. Al contrario, la traduzione operativa in termini di indici statistici, di strategie di analisi, di metafore efficaci, delle domande che poniamo alla natura, mantiene il suo valore indipendentemente dal campo di applicazione. Lo stesso stile di rappresentazione accomunerà allora una investigazione sull’esistenza di un “nucleo idrofobico” all’interno delle strutture proteiche e un’indagine epidemiologica sulla dipendenza dell’efficacia degli antidepressivi dal contesto socio-affettivo dei soggetti. A ben vedere è il motivo per cui riconosciamo la stessa mirabile mano di Caravaggio in quadri dal contenuto diversissimo come la Canestra di Frutta conservata alla Pinacoteca Ambrosiana e la Maddalena della galleria Doria Pamphili di Roma. Esattamente come nell’arte, lo stile di un vero scienziato è insieme personale e condiviso in quanto consente ad altri scienziati di adottarne soluzioni ed espedienti. Vale quindi certamente la pena indagare il contenuto veritativo che questi metodi ci consegnano. Proprio per la loro generalità (la stessa tecnica di analisi dei dati può essere applicata in biologia cellulare, in ecologia o in dinamica molecolare) la verità che ci consegnano è relativa al processo piuttosto che all’esito scientifico. La verità della scienza e dell’arte è quella legata all’onestà della rappresentazione e all’amore per il lavoro ben eseguito. 2. vaRIaBIlITà, INCeRTezza, CORRelazIONe, leGGI dI NaTURa Qualsiasi legge scientifica (più o meno generale), qualsiasi regolarità empirica, implica una forma del tipo Y = f (X), in qualche modo echeggiando il suggestivo titolo “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” di un bel libro dello scrittore statunitense Raymond Carver. Infatti, una sintetica definizione dell’attività scientifica potrebbe essere proprio: l’arte di far scaturire una proprietà di interesse (Y) dalla considerazione di altre e diverse proprietà (X) del fenomeno considerato. Per cui, nel caso della legge di Boyle-Mariotte che governa il comportamento dei gas ideali ed espressa come PV=k, parleremo di pressione (P), attraverso il volume (V) grazie al fatto che le due grandezze sono legate da un vincolo corrispondente alla funzione P = k/V (Figura 1): 55 aleSSaNdRO GIUlIaNI Figura 1: La legge di Boyle-Mariotte: al crescere del volume (ascissa) la pressione diminuisce (ordinata) con una legge iperbolica, tendendo allo zero (senza mai raggiungerlo) al tendere del volume all’infinito. I punti vettore di coordinate p1,v1 e p2,v2 sono due stati “ammessi” dalla legge, detti di “equilibrio”, in cui il prodotto di pressione e volume soddisfa il requisito PV=k. La legge vale solo in particolari condizioni (dette “condizioni al contorno”), di cui le due più importanti per il nostro discorso sono: 1. La temperatura deve essere costante; per ogni differente temperatura avremmo curve della stessa forma (dette isoterme) ma con valori della costante k differenti. 2. Il gas deve essere molto rarefatto per poter essere considerato ideale. La prima condizione appare sicuramente la più facile da controllare: un sistema termostatico può agevolmente mantenere costante la temperatura. In ogni caso, l’effetto della temperatura è reso trasparente da un’altra funzione che lega il prodotto PV alla temperatura secondo la legge lineare PV = cT. Anche qui però si nasconde un’insidia: il sistema è considerato viaggiare solo attraverso stati di equilibrio (quelli per cui vale la relazione PV=k) ma, nella realtà dei fatti, risulta impossibile variare un qualsiasi parametro (e.g. volume, temperatura) contemporaneamente su tutte le parti di un sistema, per cui si sceglie di considerare come “accidenti senza importanza” le fluttuazioni attorno alla curva dovute alla temporanea condizione di “non equilibrio” del sistema derivante dalla 56 III. SCIeNza e veRITà eterogeneità del parametro di controllo durante la traiettoria considerata. Queste violazioni (e la conseguente incertezza sul “valore vero” del parametro da stimare) sono dette “transienti” per la loro breve durata. Per molti anni la termodinamica ha scartato come prive di importanza (allontanando l’ombra minacciosa che la dura realtà dei fatti spande sulla purezza dell’idea) le condizioni di non-equilibrio che solo alla metà del XX secolo (grazie soprattutto al lavoro del fisico russo naturalizzato belga Ilya Prigogine) sono state prese in seria considerazione. È qui opportuno notare come tutti i sistemi viventi, a qualsiasi scala di organizzazione si considerino, dalle cellule agli ecosistemi, siano sempre in condizioni più o meno marcate di non-equilibrio, e quindi le conseguenti deviazioni dalle condizioni che rendono possibile scrivere semplici leggi di comportamento sono tutto tranne accidenti senza importanza. La seconda condizione mostra in maniera ancora più chiara le minacce ordite dal mondo per sabotare la strategia di eliminazione dell’incertezza attraverso la formalizzazione matematica. Facciamo caso ai due termini piuttosto ambigui (“molto” e “ideale”) che abbiamo inserito al punto 2: essi sottendono alla sciagurata (per il progetto demoniaco di eliminazione totale dell’incertezza) propensione degli enti di natura (in questo caso le molecole del gas) a interagire fra di loro, per cui più il gas è rarefatto, minore è la probabilità che queste interazioni siano sufficientemente frequenti da invalidare la legge. Inoltre, solo nel caso di un gas molto rarefatto sarebbe sostenibile la scelta (una scelta personale anche se chiaramente motivabile) di non prendere in considerazione il fatto che le molecole non sono punti inestesi ma hanno un volume proprio. Un gas infinitamente rarefatto sarebbe insomma un gas “ideale” ma allo stesso tempo non sarebbe qualcosa in cui potremmo imbatterci nel mondo reale. Questa considerazione ci porta diretti al termine “molto” che ora assume dei connotati più chiari: quanta incertezza sul “valore vero” siamo disposti a tollerare per non dover prendere in considerazione le inevitabili manchevolezze di ogni modello ideale? Notiamo come anche questo semplice esempio stia facendo filtrare da una crepa del muro delle leggi fisiche “oggettive” uno sgradevole sentore di “soggettività”. La decisione sui “limiti accettabili” di scostamento da un modello teorico non è materia puramente filosofica, ma densa di implicazioni pratiche: se il discostarsi dal comportamento ideale provoca un problema “rilevante” (la termodinamica, scienza di sana derivazione ingegne57 aleSSaNdRO GIUlIaNI ristica, fa corrispondere di solito la parola “rilevante” a un malfunzionamento di una macchina o di un altro artefatto) vale la pena inserire dei correttivi al modello cercando di modificare l’equazione in modo da prendere in considerazione le sorgenti di “errore” che inquinano il modello ideale. Rimanendo nel campo delle leggi dei gas, è questo il caso delle correzioni introdotte dal chimico-fisico olandese Johannes Diderik Van der Walls a metà Ottocento alla equazione generale dei gas ideali per renderla in grado di trattare utilmente con i gas reali. Ma non sempre ciò è possibile e, in ogni caso, l’accumularsi di troppe correzioni ad hoc per domare una realtà recalcitrante fa rapidamente svanire il significato generale della legge in questione. Ciò fa sì che spesso ci si debba accontentare di una soluzione approssimata; dobbiamo però essere consapevoli dell’entità di questa approssimazione, dobbiamo avere insomma dei metodi che ci consentano di quantificare il grado di incertezza dei nostri modelli. A questo provvede la metodologia statistica con una geniale quanto inconsapevole versione quantitativa della definizione di verità di Tommaso d’Aquino come adaequatio rei et intellectus. Il metodo principe per calcolare l’incertezza legata a un modello esplicativo è quello detto “approssimazione ai minimi quadrati” ed è rappresentato in Figura 2. Figura 2. Ottimizzazione ai minimi quadrati: La relazione (Y=aX + c), che lega la X (variabile indipendente, parametro di controllo) alla proprietà di interesse (Y, variabile dipendente), che meglio approssima i dati sperimentali (rappresentati dai punti nel grafico) è quella che rende minima la somma delle distanze (da d1 a d6) elevate al quadrato tra i valori osservati (punti vettore) e la loro stima da parte del modello (proiezioni sulla retta). 58 III. SCIeNza e veRITà Il modello che si avvicina di più (adaequatio) alla realtà osservata (res) è quello che rende minima la somma delle distanze “d” e quindi riduce il più possibile la discrepanza tra stima derivante da un modello (intellectus) e osservazione minimizzando l’incertezza. Il quadrato del coefficiente di correlazione di Pearson (R2), una statistica corrispondente al rapporto tra varianza spiegata dal modello (variabilità lungo la retta tra le proiezioni dei punti sperimentali) e varianza totale (somma della varianza lungo la retta e di quella corrispondente alla somma dei quadrati delle distanze dei punti osservati dalla loro proiezione sulla retta), fornisce un indice del grado di adattamento del modello ai dati sperimentali. Il caso portato ad esempio è il più semplice possibile (modello lineare bi-variato) ma lo stesso approccio (con calcoli più sofisticati ma mantenendo intatto il significato) si applica a relazioni non-lineari, alle relazioni fra una molteplicità di variabili X e una molteplicità di variabili Y, all’esito delle previsioni di sistemi di intelligenza artificiale ecc. Il valore massimo di R2 è pari a 1, corrispondente alla presenza di sola variabilità spiegata: i punti sperimentali giacciono tutti sulla retta, i valori “d” sono nulli. È questo il realizzarsi del sogno deterministico di una totale mancanza di incertezza: la conoscenza del valore X permette di prevedere il corrispondente valore della Y senza alcun margine di errore. Allo stesso modo, un valore di R2 pari a zero indica una totale assenza di relazione tra la X e la Y, mentre i valori intermedi corrispondono a diversi gradi di incertezza. Un valore di R2 pari a 0.4 corrisponderà a una previsione che riduce l’incertezza iniziale (assenza totale di conoscenza) del 40%, un valore pari a 0.8 la riduce dell’80%, e così via. Al di là della significatività statistica dei diversi casi (che dipende anche da aspetti contingenti come la numerosità del campione sperimentale, il numero di variabili considerate, ecc.), nella pratica delle diverse scienze si sono sviluppate consuetudini artigiane (e quindi una tradizione basata sull’esperienza) che consentono di decidere a prima vista della raggiunta rilevanza esplicativa di un modello, per cui un valore R2 di 0.4 è più che dignitoso per la ricerca biomedica, laddove un valore di 0.8 è considerato essere del tutto insufficiente nel controllo di qualità di uno strumento analitico. Il legame tra rilevanza esplicativa e contenuto veritativo di una 59 aleSSaNdRO GIUlIaNI evidenza empirica ci aiuta a gettare un po’ di luce sulla natura della verità scientifica. Il fatto stesso che le nostre aspettative siano molto differenti nella ricerca biomedica e nella chimica analitica ci fa capire come la verità scientifica si giudichi a partire dalle aspettative a priori dello scienziato. Il risultato di una sperimentazione, lungi dall’essere auto-evidente come implicito nel dogma scientista, è valutato nel contesto di esperienze simili che hanno sedimentato una umanissima sapienza che sola può deciderne la rilevanza. Questa sapienza è molto più simile a quella del frequentatore delle sale dove si scommette sulle corse dei cavalli o sulle partite di calcio che a quella del filosofo. Maggiore l’adattamento al modello dei risultati di una sperimentazione, minore il rischio connesso a una eventuale scommessa informata dal modello stesso, esattamente come un broker formula le quote di una scommessa: l’informazione pregressa ha un ruolo preponderante nel definire tale rischio che si può ridurre ma mai eliminare completamente. Teniamo a mente questo punto: la matematica ci fornisce un valore numerico il cui significato operativo (e.g. la scoperta di una regolarità della natura) è lasciata alla soggettività umana. Ma ci torneremo. Ora conviene introdurre qualche breve nota sulla natura di quello che abbiamo chiamato “allontanamento dal modello ideale”. Al di là di profonde differenze epistemologiche e di stile della ricerca, tutte le scienze hanno come obiettivo quello di ridurre l’imprevedibilità del mondo intorno a noi. La generalizzazione, riconducendo un fenomeno particolare a una classe di fenomeni simili di cui conosciamo l’esito e/o la natura, è uno strumento imprescindibile per la conoscenza del mondo e quindi per la “domesticazione” del suo carico di imprevedibilità. Questo obiettivo (comune anche agli approcci conoscitivi puramente esperienziali e sapienziali) è una grande spinta verso la ricerca della verità, che però non tutti gli scienziati cercano nello stesso luogo. In maniera molto schematica possiamo immaginare due filosofie che attraversano i diversi campi della scienza, che chiameremo filosofia A e filosofia B. Esse differiscono profondamente sul significato da assegnare alla variabilità, alla resistenza insomma che la natura sembra opporre alle nostre teorie. Operando una fortissima schematizzazione potremmo riassumere le due filosofie con queste due affermazioni: 60 III. SCIeNza e veRITà A) Dissoluzione tendenziale dell’incertezza al crescere della conoscenza che progressivamente mette ai margini le aree d’ombra. B) L’incertezza è il segno distintivo degli enti di natura che ci aiuta rendere ragione del mondo intorno a noi. L’atteggiamento A sostiene l’idea di origine positivista della tendenziale possibilità di controllo totale sulla natura. La singolarità del particolare oggetto di studio è considerata come un’apparenza, magari molto pervicace, ma pur sempre un’apparenza. L’atteggiamento B nega la possibilità di un controllo totale che va sostituito da un adattamento reciproco tra uomo e ambiente. Per la filosofia B, la singolarità del singolo oggetto di studio è fonte primaria di conoscenza e non un noioso accidente. La ricerca di invarianti e regolarità che permettano la generalizzazione, e quindi la conoscenza verace, è comune alle due visioni del modo ma viene svolta in posti molto diversi. Le distanze dei valori osservati da quelli stimati da modelli e teorie scientifiche (fig. 2) sono calcolate allo stesso identico modo nei due approcci, e lo stesso vale per la gran parte della metodologia di misura e di analisi statistica dei dati. È sulla natura della sorgente dell’incertezza, della parte di variabilità non spiegata dal modello, che le due visioni divergono. Considerare l’incertezza come “rumore” corrisponde al non prendere posizione; non a caso è la definizione più in voga in campo ingegneristico, derivando direttamente dalla teoria delle comunicazioni e più in generale dall’analisi dei segnali. Un segnale puro emesso da una sorgente viene “sporcato” da elementi di disturbo contingenti che non hanno nulla a che fare con il segnale ma si sovrappongono ad esso facendo arrivare al ricevente una versione distorta del segnale originale. Possiamo pensare a disturbi su una linea di comunicazione dovuti all’agitazione termica delle molecole o al disturbo provocato dal sudore sull’elettrocardiogramma eseguito su un atleta sotto sforzo. Le differenti caratteristiche statistiche del segnale e del rumore permettono di separare (filtraggio), almeno entro certi limiti, il segnale dal rumore ad esso associato e quindi diminuire l’incertezza eliminando quote di rumore. Il progresso tecnologico che in questi anni ha permesso di sviluppare strumenti di diagnostica per immagini sempre più precisi è legato essenzialmente allo sviluppo di filtri sempre più efficienti. La Figura 3 esemplifica questa accezione dell’incertezza. 61 aleSSaNdRO GIUlIaNI Figura 3. Un’onda quadra (segnale puro) che alterna 50 punti a valore 20 con 50 punti a valore 10, viene sporcata da un segnale di disturbo corrispondente a un rumore gaussiano a deviazione standard 1 (segnale snr1), deviazione standard 7 (segnale snr7) e deviazione standard 12 (segnale snr12). La deviazione standard del segnale di disturbo corrisponde al livello di rumore aggiunto: si noti come il segnale iniziale, molto riconoscibile a snr1, diventi del tutto indistinguibile per livelli di rumore più elevati. Notiamo come a questo livello (precisione della misura) le cose siano piuttosto chiare: l’incertezza ha una natura esogena rispetto all’oggetto (segnale) in esame e l’eliminazione del rumore è un problema affrontabile in maniera esclusivamente tecnica che (almeno in termini tendenziali) può portare a una progressiva eliminazione dell’incertezza nella sua accezione di rumore. Notiamo come questa sia una fase preliminare alla vera e propria indagine scientifica: avere a disposizione misure il più possibile “pulite” è un prerequisito importante dell’indagine scientifica ma non la esaurisce. Non a caso è uso comune nella ricerca biologica separare la variabilità tecnica derivante da cause esogene, corrispondente ad esempio alla variabilità della stessa misura eseguita separatamente per aliquote dello stesso campione (e.g. plasma di uno stesso soggetto) dalla variabilità biologica (e.g. campioni di plasma di soggetti differenti, anche se tutti considerati “sani”) che ha un contenuto informativo importante. Definire l’incertezza come “errore”, invece, implica spesso una netta presa di posizione in favore della filosofia A. Anche qui non si tratta del termine in sé, che nella sua definizione formale è del tutto neutro rispetto a qualsiasi visione del mondo, ma dell’uso spesso improprio che ne viene fatto. Quando parliamo di “errore standard” in statistica ci riferiamo all’incertezza sulla stima di un parametro collettivo (ad esempio una media), che 62 III. SCIeNza e veRITà è giustamente definita come errore visto che a quel parametro è associabile un valore “vero” qualora avessimo a disposizione i dati dell’intera popolazione di riferimento. La conoscenza di tale valore vero, mentre annullerebbe l’incertezza legata alla stima del parametro collettivo, non avrebbe alcun effetto sulle ineliminabili differenze fra i singoli elementi della popolazione. La “funzione degli errori” (erf o error function) si deve al matematico tedesco Karl Friedrich Gauss e ha alla base una constatazione molto semplice. Si consideri qualsiasi parametro con un valore vero corrispondente a una media su una popolazione molto grande (ad esempio, l’altezza media degli italiani). In un certo istante di tempo, avendo una definizione precisa di chi sia da considerare appartenente alla popolazione italiana, possiamo senza dubbio assumere che la media delle altezze degli appartenenti alla popolazione abbia un valore unico e determinabile senza incertezza misurando l’altezza di tutti gli individui. Misurare l’altezza di tutti gli italiani a un dato istante di tempo però non è in pratica possibile, per cui ci limitiamo a un campione di N elementi: l’errore standard è allora l’incertezza sul valore vero (esistente ma non attingibile) della altezza media dell’intera popolazione dovuta alle discrepanze tra campione e popolazione totale. La formula dell’errore standard è: ES = SD/√ N, dove SD è la deviazione standard, cioè la radice quadrata della varianza che è a sua volta la media quadratica delle differenze dell’altezza dei singoli individui (Xi) dal valor medio (M) del campione, in formula: SD = √Σ (Xi – M)2 / N La deviazione standard tiene conto del fatto che nella popolazione esistono individui di diversa altezza. L’elevamento al quadrato è un’accortezza per far sì che deviazioni verso l’alto non siano annullate da deviazioni verso il basso attraverso la somma di valori positivi e negativi delle differenze. Questa operazione fa sì che tutti i termini della sommatoria (Σ) abbiano segno positivo. La successiva radice quadrata eseguita sul risultato della somma riporta la deviazione standard alla stessa unità di misura (i.e. centimetri) del parametro studiato. Se il campione è un campione casuale ben scelto (che in statistica indica una situazione in cui tutti gli individui della popolazione hanno a priori la stessa probabilità di entrare a far parte del campione) allora, visto che le sorgenti di variabilità tra individui tendono con la stessa probabilità verso l’alto e verso il basso, posso affermare che il baricentro 63 aleSSaNdRO GIUlIaNI (media = M) sia uno stimatore “non distorto” del valore vero. Osservando la formula della SD, notiamo che al numeratore c’è una quantità positiva che aumenta all’aggiunta di ogni nuovo individuo; lo stesso avviene al denominatore dove troviamo il valore N che naturalmente aumenta al crescere della numerosità del campione. Il rapporto tra queste due grandezze, corrispondente alla deviazione standard (SD), tenderà quindi a un valore finito, positivo e diverso da zero (gli individui non hanno tutti uguale altezza) tipico della popolazione studiata. Torniamo ora all’errore standard: ES = SD/√ N. In questo caso abbiamo al numeratore un valore finito, mentre al denominatore c’è la radice del numero di casi, che cresce al crescere di N. Questo fa sì che il valore dell’errore standard tenda a zero al crescere della numerosità del campione, con la conseguente diminuzione a zero dell’incertezza. Fin qui tutto bene, questo comportamento è del tutto in linea con la legge dei grandi numeri che ci conforta sulla maggiore rilevanza di campioni molto grandi rispetto a campioni esigui. Questo comportamento consente di agganciare una probabilità di errore alla nostra stima riferendoci alla distribuzione gaussiana che ha una forma nota, per cui all’interno dell’intervallo con estremi M-2*ES e M+2*ES intercetteremo il valore vero con una confidenza attorno al 95%. Al crescere di N, e quindi al diminuire di ES, osserveremo una progressiva scomparsa dell’incertezza con intervalli di confidenza sempre più stretti corrispondenti a una maggiore precisione della stima. Tutto ciò va benissimo fin tanto che ci si dimentica che l’incertezza che progressivamente svanisce all’aumentare della numerosità del campione è l’incertezza sul valore di una proprietà collettiva di una popolazione e non l’incertezza sul valore di un singolo individuo che (sempre in media) è quella che ci fornisce la deviazione standard e che è una proprietà ineliminabile del fenomeno in studio. A che tipo di verità ci riferiamo allora quando parliamo di “valore vero” della media? Molti aspetti della scienza si riferiscono solo alle proprietà collettive delle popolazioni. Ciò avviene perché il sistema di interesse è costituito da elementi a tutti gli effetti considerabili come omogenei (e.g. le leggi dei gas che si riferiscono a proprietà collettive come pressione o temperatura emergenti da sterminate popolazione di molecole) oppure, come avviene in demografia, perché le dinamiche globali di popolazione prescindono dalle differenze (fondamentali invece per la fisiologia o la patologia) tra gli individui. In questi casi è del tutto legittimo sostene64 III. SCIeNza e veRITà re che la disponibilità di campioni sempre più grandi e rappresentativi corrisponda a un progressivo avvicinamento alla verità. In caso contrario operiamo un passaggio indebito, passaggio che ha provocato la spaventosa crisi di ripetibilità delle scienze biomediche di questi ultimi anni dove risultati “altamente significativi” si sono rivelati del tutto inservibili quando trasportati al livello dei singoli individui. Siamo, insomma, di nuovo di fronte a una scelta soggettiva: l’ipotesi di considerare “a tutti gli effetti indistinguibili” i componenti di un collettivo da cui si trarrà una statistica globale non è una scelta neutra o (peggio) obbligata, ma implica una specifica ipotesi di lavoro. Insomma è una teoria (più o meno nascosta) sullo stato del mondo: la teoria in un caso può essere ragionevole (e quindi aumentare le nostre possibilità di vincere la scommessa), mentre in un altro si rivelerà del tutto fuorviante. La filosofia A (diminuzione tendenziale dell’incertezza, controllo completo) è quindi particolarmente rischiosa (e ce ne stiamo accorgendo con il proliferare di termini come “medicina di precisione”) nello studio dei fenomeni della vita dove è raro che l’ipotesi di “popolazioni omogenee” sia sostenibile, se non limitandosi ad aspetti molto particolari del vivente. Considerare la variabilità non come uno sgradevole vizio del mondo ma come la via principale per capire la natura è invece il segno distintivo di quella che abbiamo chiamato filosofia B. Un esempio di questa differente prospettiva è l’interesse verso le dinamiche temporali del singolo soggetto (dalla dinamica del battito cardiaco alle serie temporali di espressione genica) piuttosto che alle “medie globali” su molti individui. Chiaramente, prima o poi, anche nell’ottica di quella che abbiamo chiamato “filosofia B” si arriverà a definire un riassunto statistico in termini di medie e di intervalli di confidenza, sebbene a partire da viste molto diverse del sistema. Non si cercherà più, insomma, il “valor medio fisiologico” di un determinato parametro da confrontare con la sua controparte patologica, quanto piuttosto le differenze tra “strutture di correlazione” di diversi parametri in diverse condizioni. Ripetiamo ancora una volta che i fautori della filosofia B usano gli stessi formalismi matematici e le stesse tecniche di analisi dei loro opponenti A, ma ne interpretano le risultanze in modo molto diverso. Ciò genera una raffinata forma di incomunicabilità: usare la stessa lingua e non capirsi, fenomeno che risuona con molti aspetti dei nostri strani tempi. 65 aleSSaNdRO GIUlIaNI 3. pRevedeRe e/O SpIeGaRe. Mentre è piuttosto chiaro cosa vinca (o perda) uno scommettitore in una sala corse o in una borsa valori (somme di denaro), vale la pena spendere qualche parola sulla natura delle vincite nel gioco della scienza. Sin dall’inizio della scienza moderna, prima in sordina e poi, a partire dall’Illuminismo, in maniera sempre più evidente, il totalizzatore delle scienze registrava “vittorie in battaglia” piuttosto che “vincite al tavolo da gioco”. Non a caso è da quell’epoca che è diventato comune parlare, con linguaggio tipicamente militare, di “conquiste” della scienza senza soffermarsi a pensare che ogni conquista presuppone un vincitore (il conquistatore appunto) e un vinto (di solito l’autoctono). È la dinamica di ogni colonialismo, giustificato un tempo dal “fardello dell’uomo bianco” (teorizzato per il colonialismo inglese del secolo XIX da Rudyard Kipling e ritenuto auto-evidente dalla supposta intrinseca superiorità delle strutture sociali e dello stile di vita dei popoli europei) e rimasto in auge ai nostri giorni, solo reso più sfuggente da dichiarazioni spesso ipocrite su democrazia e libertà. Su un piano più elevato, il conflitto si giustifica nei termini di una lotta tra luce della conoscenza e tenebre dell’ignoranza. La stessa parola “Illuminismo” implica un progressivo arretramento delle zone d’ombra da parte di una luce sempre più splendente emanata dalla scienza (l’esercito dei conquistatori) che progressivamente mette ai margini il mistero (l’esercito sconfitto, sbrigativamente equiparato alla superstizione religiosa). Siamo agli antipodi di quanto affermavano poco meno di un secolo fa, con diversi accenti ma con lo stesso intento, l’orientalista Giuseppe Tucci («il valore della conoscenza non si giudica dalla quantità di luce, ma dalla lunghezza delle ombre che essa proietta») e il fisico Niels Bohhr («abbiamo un paradosso, bene, vuol dire che possiamo andare avanti») e che costituisce il senso profondo del fare scientifico. Con l’idea della scienza come luce che scaccia le tenebre siamo invece bel mezzo del “Ballo Excelsior”, la rappresentazione polare più in voga, a cavallo tra XIX e XX secolo, delle conquiste della scienza positivista, in cui uno stuolo di luminose ballerine mettono in fuga un arcigno ecclesiastico nerovestito. A ben vedere, la “conquista” è giustificata socialmente non all’interno del canone scientifico ma dalle conseguenze tecnico-produttive (anche se spesso la linea genealogica è piuttosto intricata) che ne derivano. Ciò provoca una netta cesura tra le motivazioni dello scienziato e 66 III. SCIeNza e veRITà il prestigio sociale del suo lavoro: le eleganti equazioni di Maxwell che rendono ragione del comportamento dei campi elettromagnetici rendono possibile la produzione di televisori e computer, ma certamente non sono state sviluppate dallo scienziato scozzese, a metà dell’Ottocento, con questo scopo, bensì per comprendere meglio un importante aspetto della natura. La convivenza tra obiettivi scientifici e tecnici è proseguita senza particolari problemi almeno fino alla metà dello scorso secolo. Il patto era fondato sulla diffusa consapevolezza che, anche se in un orizzonte temporale non immediato, la ricerca disinteressata di conoscenza avrebbe ripagato in termini di profitti economici. Negli ultimi decenni questo tacito patto è saltato: la differente scala temporale del lavoro scientifico e dell’innovazione tecnologica (decenni contro mesi), e il predominio del capitale finanziario su quello industriale hanno sconvolto il passo naturale della scienza, imponendo ritmi che non garantiscono più il raggiungimento di obiettivi di largo respiro ma solo il raffinamento del già noto. Il discorso ci porterebbe troppo lontano; qui ci si limita a rimandare all’articolo del 2016 a firma di D. Geman e S. Geman.1 Queste considerazioni sono comunque utili per comprendere una linea di faglia importante tra opposte concezioni di cosa sia da considerarsi come “verità” della scienza: tale linea di faglia si situa al confine tra “previsione” e “spiegazione”. Questi due aspetti del fare scientifico sono sempre stati indissolubilmente legati: una spiegazione scientifica valida deve produrre previsioni affidabili e, allo stesso modo, il campo di applicazione di una teoria risulta definito dal dominio delle sue capacità predittive. Il rapporto consolidato tra spiegazione e previsione si è incrinato nel volgere di pochi anni per l’azione convergente del rapido decadimento dell’efficacia produttiva della ricerca farmacologia che, a partire dagli anni Ottanta, ha intrapreso un calo drammatico del numero di nuove molecole immesse sul mercato, da un lato, e la veloce espansione della potenza del calcolo automatico che ha reso possibile l’analisi “libera da ipotesi” di immense ed eterogenee basi di dati non derivanti da un obiettivo conoscitivo specifico ma dalla pura accumulazione a partire da diverse fonti, dall’altro. D. GemaN, S. GemaN, Science in the Age of Selfies, «Proceedings of the National Academy of Sciences» 113 (2016), 34, 9384-9387. 1 67 aleSSaNdRO GIUlIaNI La crisi della ricerca farmacologica è uno dei più eclatanti segni dell’esaurirsi dell’efficacia dell’approccio che abbiamo definito come “colonialista” implicito nell’idea del controllo totale: l’idea di individuare una “pallottola magica” (il farmaco) che, imponendo alla natura una via predeterminata, guidasse i fenomeni naturali annichilendo la loro intrinseca complessità. Analoghe considerazioni valgono per lo studio dell’ecologia e della genetica; esse hanno portato a un generale ripensamento dei paradigmi scientifici dominanti favorendo l’interesse verso lo studio della complessità attraverso nuovi tipi di analisi e lo sviluppo di quella che abbiamo chiamato filosofia B del fare scientifico. Perché un nuovo paradigma raggiunga una maturità sufficiente per portare a dei benefici economici, però, è necessario molto tempo; da qui il sorgere, in molti ambienti scientifici, industriali e soprattutto economici, l’idea che si possa fare a meno della teoria e che il metodo scientifico basato sulla relazione tra spiegazione e previsione sia diventato obsoleto. Da qui, dunque, l’apertura della paradossale linea di faglia tra spiegazione e previsione portata avanti da chi si convince che solo la seconda sia il punto veramente importante dell’attività di sviluppo tecnologico (rimane difficile a questo punto chiamarlo scientifico). Posto un obiettivo da raggiungere (sviluppo di un nuovo farmaco, diagnosi medica, derivazione della struttura tridimensionale dalla conoscenza della sequenza di aminoacidi di una proteina), la strategia adottata è quella di raccogliere (senza alcun filtro particolare) tutta l’informazione disponibile sull’argomento con cui “nutrire” un sistema automatico di riconoscimento di forme. Tale sistema è guidato dalla minimizzazione (con metodi riconducibili alla tecnica dei minimi quadrati descritta nel secondo paragrafo di questo saggio) della discrepanza tra le previsioni fatte dal sistema sulla base dell’informazione di partenza e l’esito osservato in alcuni casi noti (farmaci attivi, diagnosi accertata da biopsia, strutture proteiche risolte con metodi spettrali). La capacità di generalizzazione a casi incogniti viene assicurata dalla perdurante efficacia del modello a fornire decisioni corrette a fronte di casi non esplicitamente usati nel processo di apprendimento (progressiva minimizzazione dell’errore). Il corretto funzionamento di una tale strategia, guidata esclusivamente dall’efficacia predittiva, non avrebbe alcun bisogno di una teoria esplicativa del fenomeno in esame, che anzi potrebbe essere di impaccio, limitando la libertà di esplorazione del sistema automatico. 68 III. SCIeNza e veRITà Al di là di gravi limiti metodologici tra cui forse i più importanti sono la difficoltà di ascrivere un determinato “caso singolo” alla classe di problemi su cui è stato allenato il sistema e alla importanza preponderante del contesto rispetto alle regole generali nei sistemi complessi che limita di molto l’efficacia di applicazioni a campi come la diagnosi medica basta su immagini, siamo di fronte a una contraddizione ancora più fondamentale. La questione è: ma perché dovremmo associare un contenuto conoscitivo al responso di una macchina che non ha contezza del significato delle informazioni usate e in cui la particolare configurazione che ha portato alla previsione corretta non ha alcuna relazione con il problema trattato? E soprattutto, visto che la macchina si deve basare su informazioni pregresse, queste non verranno mai messe in crisi, visto che la potenza di calcolo permette comunque di arrivare a un risultato. Saremmo insomma condannati alla ripetizione (magari sempre più precisa) dell’esistente. Se Keplero avesse avuto a disposizione questi strumenti, la scienza moderna verosimilmente non sarebbe mai nata, in quanto le (piccole) discrepanze del modello tolemaico sarebbero state facilmente superate da più sofisticati epicicli senza alcun bisogno di porre il problema su nuove e più semplici basi. Più prosaicamente, la mancata presa in considerazione dell’esistenza e dell’importanza delle zone destrutturate delle proteine (e del loro mutare a seconda del microambiente) ha fortemente limitato l’utilità dei sistemi automatici nello sviluppo di farmaci e ha costretto la comunità scientifica a ripensare il concetto di interazione tra farmaco e ricettore. In breve, il contesto, e quindi la necessità di un confronto serrato e costante tra previsione e teoria, ha fatto sentire la sua voce in molti casi, tanto che la ricerca sui sistemi “intelligenti” ha riconosciuto in questi ultimi anni la “possibilità di generare una spiegazione” (explainability) come un criterio importante tanto quanto le capacità predittiva per giudicare della validità di ogni approccio “guidato dai dati”. Queste critiche non devono però far dimenticare che una previsione “libera da ipotesi” ed esclusivamente guidata dai dati può essere di grande importanza per generare nuovi modelli e teorie che vadano oltre il già noto. Questo è senza dubbio un buon segno del richiudersi della faglia, ma il problema rimane a livello di politica della scienza: sempre più risorse vengono indirizzate verso aspetti puramente applicativi basati sullo sfruttamento della “conoscenza pregressa” con approcci computazionali (data mining), provocando un preoccupante impoverimento della 69 aleSSaNdRO GIUlIaNI cultura scientifica e il conseguente indirizzo dei giovani verso un lavoro routinario e massificato abbandonando la vocazione alla scoperta. Lo sviluppo di potenti metodi di machine learning ci consente di approfondire ulteriormente la natura del rapporto tra scienza e verità. L’aspetto forse più interessante è quello legato al cosiddetto fenomeno dell’overfitting (sovra-adattamento). Nel secondo paragrafo di questo capitolo (fig. 2) abbiamo fatto riferimento al metodo dei minimi quadrati come procedura di stima dell’adattamento di un modello ai dati reali, facendo notare come questo adattamento (fit, in inglese) fosse inversamente proporzionale alla distanza dei valori reali da quelli predetti dal modello. Fin tanto che ci limitiamo alla descrizione di uno specifico campo di dati questa asserzione è del tutto naturale; se però inseriamo nel gioco una dimensione ulteriore costituita dall’adattamento del modello a dati non esplicitamente usati nella sua costruzione (generalizzazione) assistiamo a un fenomeno molto particolare riportato nella figura 4. Figura 4. Il grafico riporta in ordinata l’entità dell’errore e in ascissa i cicli di apprendimento di un sistema di machine intelligence (in questo caso una rete neurale). La curva denominata training error riporta l’andamento degli errori sul campo di dati usato per tarare il modello (training set). La curva denominata test error riporta l’andamento degli errori su un insieme di prova (test set) contenente dati non utilizzati per generare il modello stesso (generalizzazione). Al crescere del numero di cicli di affinamento del modello su un determinato campo di dati (training set), come atteso dalla legge dei grandi numeri, l’errore tende a scomparire. Questo comportamento corrisponde a quanto abbiamo visto nel secondo paragrafo rispetto alla progressiva diminuzione dell’errore standard al crescere della numerosità del 70 III. SCIeNza e veRITà campione. Se invece passiamo alla dinamica dell’errore su un campione di prova (test set) costituito da unità statistiche differenti ma riferite comunque alla stessa popolazione da cui proviene il training set, notiamo che oltre un certo livello di affinamento (early stopping), la prestazione del sistema di previsione peggiora. Questo comportamento (comune a tutti i modelli di fenomeni reali) ci consegna un importante insegnamento: per quanto accurate possano essere le definizioni con cui stabiliamo l’appartenenza di un elemento a un insieme (e.g. l’insieme di malati di cancro al colon, l’insieme dei gatti, l’insieme delle piante di mais...) e conseguentemente di un campione a una popolazione di riferimento, esisterà sempre qualche idiosincrasia del campione che sfugge alla nostra definizione (e che lo distingue dalla popolazione di riferimento). Oltre un certo limite il sistema inizia a modellare non le caratteristiche che il campione eredita dalla sua popolazione di riferimento ma le particolarità idiosincratiche del campione non riferibili alla popolazione da cui proviene. Ciò fa sì che un modello troppo accurato perda in generalità e diventi, oltre un certo limite, inservibile. La scienza lavora per sottrazione, non per addizione di un numero sempre maggiore di particolari ma isolando le (poche) caratteristiche essenziali da cui scaturisce una rilevante (mai completa) riduzione dell’incertezza delle nostre previsioni sul mondo. La scienza, insomma, ha a che vedere con delle rappresentazioni fedeli di una classe di fenomeni. Il singolo accadimento avrà sempre qualcosa che sfugge anche al modello più accurato (anzi, oltre un certo limite l’accuratezza provoca danni). Ostinarsi con una ottica di conquista a costringere ogni aspetto del reale nei nostri modelli è causa di errore e, quando i modelli si traducono in attività che hanno una ricaduta sulla realtà, di gravi pericoli. Fermarsi in tempo è una lezione importantissima che i metodi di machine learning ci ricordano. 71 Iv. la RaGIONevOle INeffaBIlITà della NaTURa al lINGUaGGIO maTemaTICO. aSpeTTI paRadOSSalI della mISURazIONe della RealTà fISICa Giovanni Amendola La matematica nel senso comune è la scienza del contare, la scienza che si occupa dei numeri e delle quantità. Questa è sicuramente una (parte della) verità. Infatti la scienza matematica più antica è la geometria, che nella sua radice etimologica indica proprio la misurazione della terra, il quantificare le distanze e le aree di determinati territori. Aristotele concepirà la matematica come la scienza della quantità e della misura. Sebbene queste definizioni della matematica non risultano adeguate all’evoluzione di tale scienza (si pensi, ad esempio, all’astrazione delle teorie algebriche dell’Ottocento che si occuperanno di strutture e non di numeri), cionondimeno la misurazione resta un aspetto cruciale della riflessione matematica e del suo originario rapporto con la natura (physis). Non c’è dubbio che la matematica sia di grande efficacia nelle scienze della natura, come sottolineava il fisico e matematico ungherese Eugene Wigner oltre 60 anni fa in un famoso articolo intitolato L’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali.1 Come messo in luce nello stesso titolo, Wigner vuole sottolineare la meraviglia e la sorpresa dell’efficacia della matematica nella lettura della natura, la misteriosa corrispondenza tra il rigore del pensiero astratto e la regolarità della natura. Se tutto ciò è indubitabile e riscontrabile all’interno della nostra società sempre più tecnologica, tuttavia è anche questa soltanto una parte della verità. In questo saggio, indagheremo il rapporto tra matematica e natura soffermandoci su alcune stranezze che emergono dal tentativo di matematizzare la realtà fisica. Stranezze che si palesano già nei più antichi approcci di misurazione, agli albori della geometria e del pensieCfr. E.P. wIGNeR, The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sciences, «Communications on Pure and Applied Mathematics» 13 (1960), 1, 1-14. 1 73 GIOvaNNI ameNdOla ro filosofico, come mostra la scoperta ad opera della scuola pitagorica dell’incommensurabilità tra il lato e la diagonale di un quadrato; e, più recentemente, l’emergere nel finito di lunghezze indefinite o infinite con la teoria dei frattali e la scoperta di una imprevedibilità dei fenomeni, indipendentemente dal grado di approssimazione e dalla propagazione degli errori di misura. 1. alCUNe RIfleSSIONI pRelImINaRI SUlla maTemaTICa Prima di procedere ad evidenziare alcuni paradossi relativi alla misurazione matematica della realtà fisica, riteniamo importante una previa riflessione su cosa sia la matematica. È un tema su cui non c’è convergenza né tra i filosofi né tra i matematici. La matematica è stata per lungo tempo concepita come scienza della quantità: il riferimento è all’aritmetica, che appunto quantifica gli enti, associando un numero a un gruppo di oggetti. Sui numeri si attuano i calcoli, le somme, i prodotti, ecc. Questa definizione è stata forse adeguata almeno fino ai primi dell’Ottocento, quando un giovanissimo matematico Galois (morto in un duello a soli 20 anni) introdusse un approccio innovativo per lo studio dell’algebra. La cosiddetta teoria di Galois sarà un approccio fruttuosissimo che permetterà di dimostrare che non esistono formule risolutive per equazioni di grado superiore al quarto. In tal modo l’algebra, che prima studiava i numeri, ora si occuperà di studiare strutture algebriche (quali gruppi, anelli, campi) e proprietà delle strutture (come automorfismi e isomorfismi). La matematica non potrà dunque dirsi semplicemente una scienza della quantità. Con la teoria dei gruppi la matematica è più di una scienza della quantità, diviene anche scienza delle strutture. Eppure la matematica non può neppure considerarsi semplicemente una scienza delle strutture algebriche, perché è molto altro. Specie quando, dopo la riduzione della geometria all’analisi con Cartesio e dell’analisi all’aritmetica con Weierstrass, Cantor e Dedekind, si avvierà il processo di assiomatizzazione dell’aritmetica con Peano e della riduzione dell’aritmetica alla logica, ed emergerà l’idea della matematica come sistema assiomatico-deduttivo. Ma nemmeno questa idea riesce a definire la matematica; i risultati emersi dai teoremi di incompletezza di Gödel lo hanno provato definitivamente. Le verità matematiche sono al di là di ogni sistema assiomatico-deduttivo.2 2 Cfr. C. CellUCCI, La filosofia della matematica del Novecento, Laterza, Roma-Bari 2007, 148-155. 74 Iv. la RaGIONevOle INeffaBIlITà della NaTURa al lINGUaGGIO maTemaTICO La questione sull’essenza della matematica si pone, in particolare, all’interno della ricerca sui fondamenti della matematica che ha attraversato la riflessione filosofica occidentale dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima metà del Novecento, durante la quale emersero diverse correnti di pensiero. In particolare furono rilevanti i seguenti tre approcci: il logicismo, l’intuizionismo e il formalismo.3 Il primo di questi approcci, il logicismo, nasce con il filosofo e matematico Gottlob Frege, che avvia appunto il tentativo di logicizzare la matematica. Tentando di ridurre tutta la matematica a logica simbolica, tradusse i numeri in simboli logici e i procedimenti dimostrativi in regole logiche.4 Sulla stessa scia si porrà Bertrand Russell con la monumentale opera in tre volumi dei Principia Mathematica scritta assieme ad Alfred Whitehead.5 Secondo tale approccio, la matematica dovrebbe considerarsi come una procedura di calcolo meccanico ed automatico: poste le premesse assiomatiche e le regole di derivazione dai simboli primitivi, si sviluppano tutti i teoremi della matematica. Per gli intuizionisti, come Poincaré e Brouwer, invece, la matematica è concepita come un’attività mentale in grado di realizzare costrutti l’uno di seguito all’altro, attinti per via intuitiva. Il matematico intuisce e congettura la verità di una certa asserzione e, poi, sempre per via di salti intuitivi, individua dei passaggi che lo conducono da cose note (teoremi o assiomi) ad altre cose note, fino a “vedere” (in-tueor) la verità del risultato intuito con una sempre maggiore certezza.6 Infine, per i formalisti come Hilbert, la matematica non sarebbe altro che la scienza dei sistemi formali, ovvero una scienza che si occupa di definire un vocabolario di simboli e di individuare sequenze di simboli considerate valide e procedimenti per passare da certe sequenze di simboli ad altri.7 Il panorama è dunque complesso e la matematica, che si occupa rigorosamente di definizioni, sembra invece, in se stessa, sfuggire ad ogni 3 Cfr. ibidem, 8-82. 4 Cfr. G. fReGe, Grundgesetze der Arithmetik, I-II, Verlag Hermann Pohle, Jena 1893-1903. Cfr. B. RUSSell, a.N. whITehead, Principia Mathematica, I-III, Cambridge University Press, Cambridge 1910-1913. 5 Cfr. L.E.J. BROUweR, Collected Works. I. Philosophy on the Foundations of Mathematics, North Holland, Amsterdam 1975. 6 Cfr. D. hIlBeRT, Die Grundlagen der Mathematik, «Abhandlungen aus dem mathematischen Seminar der Hamburgischen Universität» 6 (1928), 65-85. 7 75 GIOvaNNI ameNdOla tipo di definizione.8 Ciò è forse spiegabile riconoscendo che la matematica non è soltanto un’invenzione dell’essere umano, ma una misteriosa dimensione della natura stessa. Questo è quanto sosteneva, ad esempio, il premio Nobel per la fisica Wigner nel 1960 parlando di una irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali. Dalla formulazione della legge di gravitazione universale, alla meccanica delle matrici o all’uso dei numeri complessi in meccanica quantistica, fino allo spostamento di Lamb in elettrodinamica quantistica, ci troviamo dinanzi a qualcosa di “miracoloso”: È difficile evitare l’impressione di trovarci di fronte a un miracolo qui, del tutto simile nella sua natura sorprendente al miracolo della mente umana che può concatenare un migliaio di ragionamenti insieme senza cadere in contraddizioni, o i due miracoli dell’esistenza delle leggi della natura e della mente umana capace di divinarle. […] Il miracolo dell’appropriatezza del linguaggio della matematica per la formulazione delle leggi della fisica è un dono meraviglioso che né comprendiamo né meritiamo.9 Dobbiamo, con Wigner e altri, riconoscere il sorprendente miracolo delle regolarità presenti in natura e della loro comprensibilità tramite la razionalità matematica. Se il concetto di “legge di natura” potrebbe rivelarsi eccessivamente totalitario, quasi ad imporre una necessità deterministica alla natura e un totalitarismo idealizzante, non possiamo tuttavia negare la presenza di regolarità nella natura10 – sebbene queste, come proveremo a mostrare in seguito, non riescano a razionalizzare la complessità della natura, che pertanto rimane ineffabile al linguaggio matematico. Questa ineffabilità non va appunto intesa nel senso di negare ogni regolarità nella natura o di una attribuzione soggettivistica esclusivamente operata dalla razionalità umana, come se ogni teoria fosse solo un modello che non ha nulla a che fare con la struttura ontologica della realtà o una semplice approssimazione della realtà tramite una idea puramente intellettuale. Non si tratta, per dirla con Hume,11 di una regolarità sorta per abitudine al post hoc, negando in tal 8 Cfr. G. BOffI, Alcune riflessioni sulla matematica, in R. pReSIlla, S. RONdINaRa (edd.), Scienze fisiche e matematiche. Istanze epistemologiche e ontologiche, Città Nuova, Roma 2010, 15-28. E.P. wIGNeR, The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sciences, «Communications on Pure and Applied Mathematics» 13 (1960), 1, 8. 9 Cfr. G. TaNzella-NITTI, Leggi naturali, in G. TaNzella-NITTI, a. STRUmIa (edd.), Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, I, Urbaniana University Press – Città Nuova, Roma 2002, 783-804. 10 11 Cfr. D. hUme, Opere filosofiche. I. Trattato sulla natura umana, Laterza, Roma-Bari 2008. 76 Iv. la RaGIONevOle INeffaBIlITà della NaTURa al lINGUaGGIO maTemaTICO modo ogni causalità della natura e trasferendola alle sensazioni soggettive. Se possiamo, fino ad un certo punto, giustificare le riflessioni che Hume esprime nel Trattato sulla natura umana, occorre tuttavia guardare all’evoluzione della scienza moderna. Infatti se, al tempo di Hume, il metodo delle scienze empiriche non dava adito ad eccessive sorprese sperimentali (dai dati empirici si ricavavano delle leggi/regolarità che poi venivano verificate attraverso altri esperimenti empirici dello stesso tipo), oggi assistiamo ad ideazioni completamente innovative nell’ambito delle sperimentazioni. Si pensi, ad esempio, alla teoria della relatività di Einstein e alla predizione dell’esistenza di onde gravitazionali oppure alle scoperte controintuitive della teoria quantistica. Non si tratta, in questo caso, di un’abitudine al sensibile, ma di scorgere una possibilità finora mai intravista nella natura stessa. È la prima volta in assoluto che l’uomo sperimenta tali onde gravitazionali. Ciò ci permette di parlare di una razionalità presente nella natura stessa, indipendentemente dal soggetto razionale che scopre (non crea) le regolarità. Il sensibile empirico rivela in se stesso una razionalità. Potremmo dire che nel particolare si mostra anche l’universale; nel contingente il necessario; nel sensibile il razionale. Si tratta del problema classico della filosofia occidentale: il rapporto tra sensibile ed intellegibile. Se Platone introduceva un mondo di realtà intellegibili di cui le realtà sensibili erano immagini imperfette, Aristotele poneva in stretto rapporto l’intellegibile con il sensibile, sostenendo che l’ente è composto di materia e forma, e la forma è l’intellegibile. La scienza moderna, matematizzando la natura, non attribuisce la dimensione razionale ad enti particolari, ma alla natura stessa nel suo complesso. Questo spostamento dal singolo ente alla totalità degli enti naturali ci invita a tenere in considerazione la dimensione relazionale della natura e degli enti di natura, che era considerata nella filosofia classica come un qualcosa di meramente accidentale. Anche la sostanza, specialmente quella umana, ha a che fare sia con l’identità (dinamica, non statica) che con la relazione.12 2. qUaNdO dIO GIOCava a dadI CON pITaGORa Una tra le scienze più antiche è certamente la geometria, nella sua originaria concezione di misurazione dei terreni, una geo-metria intesa etimologicamente come agri-mensura. Un tale processo di misurazione può essere condotto attribuendo un valore numerico ad una lunghezza 12 Cfr. N. COlafaTI, Introduzione alla Filosofia dell’Essere, Rubbettino, Catanzaro 2008, 61-66. 77 GIOvaNNI ameNdOla fisica, ad esempio al lato di un tavolo. Possiamo misurare il lato scegliendo una unità di misura (ad esempio, un piede, un pollice, un metro) e riferirci alla sua lunghezza come un multiplo dell’unità di misura scelta (ad esempio, 6 piedi, 180 pollici, 2 metri). Da queste elementari considerazioni si può giungere facilmente a situazioni paradossali di misurazione. Ad esempio, supponiamo di avere un’asta di lunghezza unitaria e cerchiamone un’altra della stessa lunghezza. Nel caso non la trovassimo, ne potremmo sempre prendere una più lunga e tagliarla, riducendone a poco a poco la lunghezza, fino a renderla di uguale lunghezza alla precedente. A questo punto possiamo anche sistemare queste due aste in modo perpendicolare l’una all’altra, formando un angolo di novanta gradi. Immaginiamo che queste aste siano due lati di un quadrato e vogliamo misurare la lunghezza della diagonale. Senza pregiudizi di alcun genere, ci aspetteremmo di trovare per questa lunghezza fisica un valore numerico (cioè qualcosa di finito, un valore preciso, almeno in linea teorica). Invece una tale valore preciso, anche teorico, non esiste. Anche se perfezionassi quanto voglio il mio strumento di misurazione, riducendo l’unità di misura scelta ad una inferiore, magari passando dal metro al millimetro, al micrometro o al nanometro, ecc., non riuscirei in alcun modo a misurare la diagonale del quadrato. Questo problema è passato alla storia come incommensurabilità della diagonale del quadrato13 ed è stato in qualche modo addomesticato dal pensiero matematico, perdendo la sua straordinarietà e assurdità, che invece continua a portarsi nel nome: i numeri irrazionali. Sono appunto numeri assurdi e impensabili, proprio perché non hanno alcun rapporto (ratio) con le misurazioni fisiche, un tradimento del principio numerico pitagorico, il numero come arché panthon, essenza di ogni cosa, come ricorda Aristotele nella Metafisica: i cosiddetti Pitagorici [...] credettero che i principi delle matematiche fossero anche principi di tutte le cose che sono. Ora, poiché principi delle matematiche sono i numeri, e nei numeri essi credevano di trovare, più che nel fuoco e nella terra e nell’acqua, somiglianze con le cose che sono e divengono […], e poiché inoltre vedevano espressa dai numeri le proprietà e i rapporti degli accordi armonici, poiché insomma ogni cosa nella natura appariva loro simile ai numeri, e i numeri apparivano primi tra tutto ciò che è nella natura, pensavano che gli elementi dei numeri fossero elementi di tutte le cose che sono, e che l’intero mondo fosse armonia e numero.14 Cfr. K. vON fRITz, The Discovery of Incommensurability by Hippasus of Metapontum, «Annals of Mathematics» 46 (1945), 2, 242-264. 13 14 aRISTOTele, Metafisica, A, 5, 985b23-986a3. 78 Iv. la RaGIONevOle INeffaBIlITà della NaTURa al lINGUaGGIO maTemaTICO Per i pitagorici tutto ciò che esiste doveva trovare la sua ragion d’essere nel numero (arithmos) ed essere pertanto rapporto (logos) di numeri. La diagonale del quadrato contraddiceva questo assunto. Giamblico nel De vita pythagorica accenna ad una leggenda secondo cui il divulgatore di tale sconcertante scoperta, Ippaso di Metaponto, subì l’ira funesta delle divinità. Dicono che colui [Ippaso di Metaponto] che per primo divulgò la natura della commensurabilità [symmetrias] e dell’incommensurabilità [asymmetrias] a uomini che non meritavano d’essere messi a parte di queste conoscenze, venne in tal odio agli altri Pitagorici, che questi non solo lo cacciarono dalla comunità, ma anche gli costruirono un sepolcro come se fosse morto, lui che una volta era stato loro amico. Altri aggiungono che anche la divinità s’adirò con quelli che avevano divulgato la dottrina di Pitagora; che perì come empio in mare colui che rese noto come la figura dell’icosagono (cioè del dodecaedro, che è una delle cinque figure solide) si può inscrivere in una sfera. Altri ancora dicono che ebbe questa sorte colui che parlò ad altri dei numeri irrazionali [alogos]15 e dell’incommensurabilità [asymmetrias; incommensurabili].16 La lunghezza associata alla diagonale di un quadrato non è considerata un numero in quanto non è misurabile. C’è dunque qualcosa in natura (la diagonale di un campo quadrato) che non è misurabile, che non ha a che fare con l’aritmetica. La natura in tal senso non è matematizzabile, almeno secondo la nozione pitagorica di numero. La diagonale può essere solo approssimata, ma mai identificata nella sua esattezza da un numero. I matematici hanno dovuto dare un “nome proprio” a questa lunghezza geometrica: radice quadrata di 2. È un “numero” molto strano che dovrebbe avere lunghezza infinita. È pertanto in-definibile numericamente. Possiamo solo dare una procedura di calcolo per dire cosa sia e calcolarne le cifre fino ad un certo punto, senza alcuna possibilità di conoscere tutte le sue cifre. Radice quadrata di 2 non si svela mai completamente, rimane sempre nascosta nella sua essenza: la conosciamo soltanto in potenza, mentre i numeri interi e razionali li conosciamo in atto. L’infinito, o l’indefinito, compare misteriosamente nell’ordinarietà della vita: la misura di una diagonale in un campo. L’incomprensibilità ed irragionevolezza delle grandezze irrazionali, come radice quadrata di 2, sembra intensificarsi ulteriormente con alcune scoperte più recenti all’interno della teoria matematica del calcolo delle probabilità. Quando lanciamo ripetutamente una moneta 15 Nel testo greco non si parla di numeri (arithmoi) irrazionali, ma semplicemente di alogos. 16 GIamBlICO, De vita pythagorica, 246-247. 79 GIOvaNNI ameNdOla (non truccata) otteniamo una successione dei possibili valori di testa e di croce. La distribuzione di questi valori, all’aumentare dei lanci, sarà uniforme, ovvero osserveremo che circa la metà dei lanci produrranno l’uscita di testa e l’altra metà l’uscita di croce. Testa e croce hanno infatti la stessa probabilità di uscita, pari al 50%, e la legge dei grandi numeri, o Teorema di Bernoulli, assicura che statisticamente si presenterà una distribuzione uniforme nella pratica corrispondente ai valori teorici delle probabilità di uscita. La stessa distribuzione uniforme si ottiene se lanciamo un dado (non truccato) o se estraiamo dei numeri da un’urna (non truccata). Se consideriamo nuovamente la radice quadrata di 2 e osserviamo il primo milione di cifre decimali, notiamo che lo 0 è presente 99814 volte; l’1, 99925 volte; il 2, 100436 volte; il 3, 100190 volte; il 4, 100024 volte; il 5, 100155 volte; il 6, 99886 volte; il 7, 100008 volte; l’8, 100441 volte; e il 9, 100121 volte. Pertanto ogni cifra compare con una frequenza relativa di circa 1 volta su 10 (100 mila su 1 milione), ovvero con la stessa frequenza con cui apparirebbe quella cifra se fosse estratta in modo casuale da un’urna contenente le 10 cifre, in quanto ciascuna avrebbe una probabilità del 10% di essere estratta. Questi numeri, in cui le cifre si distribuiscono uniformemente, sono detti semplicemente normali. Inoltre, se questa distribuzione uniforme accade per qualsiasi sequenza di cifre, i numeri sono detti normali. Se continuassimo la nostra analisi statistica anche sulle sequenze di cifre di radice quadrata di 2, ad esempio sui numeri a due cifre o a tre cifre, scopriremmo che tali numeri ricorrono rispettivamente 1 volta su 100 e 1 volta su 1000. Per cui la radice quadrata di 2 sembra essere ciò che abbiamo definito numero normale. In realtà non sappiamo con certezza matematica di nessun numero irrazionale algebrico neppure se sia semplicemente normale. Il matematico Émile Borel nel 1909 ha congetturato che radice quadrata di 2 (in generale ogni irrazionale algebrico), π, logaritmo naturale di 2, il numero di Nepero e, siano tutti numeri normali come le statistiche mostrano (ma non dimostrano).17 Inoltre, non è neppure noto se tutte le cifre occorrono infinite volte nell’espansione decimale di questi numeri e se tutte le sequenze di ciCfr. E. BORel, Les probabilités dénombrables et leurs applications arithmétiques, «Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo» 27 (1909), 247-271. 17 80 Iv. la RaGIONevOle INeffaBIlITà della NaTURa al lINGUaGGIO maTemaTICO fre appaiono nello sviluppo del numero. In particolare, non è noto se ogni stringa di numeri occorre in π. Ciò ha portato Alan Turing, nel suo famoso articolo sul gioco dell’imitazione, a riconoscere che «risulta impossibile determinare semplicemente osservando una macchina se essa contiene un elemento casuale, perché un effetto analogo può essere prodotto con un espediente, facendo dipendere le scelte, ad esempio, dalle successive cifre decimali di π».18 Anche Ludwig Wittgenstein fece riferimento a tale questione parlando della possibilità di trovare quattro 7 consecutivi nello sviluppo di π: «nell’espansione decimale di π o il gruppo “7777” occorre, oppure no; non c’è una terza possibilità».19 Le analisi statistiche, a cui abbiamo fatto cenno per le cifre di radice quadrata di 2, dovettero aspettare la nascita dei computer. Nel 1949 John von Neumann, utilizzando il calcolatore ENIAC (Electronic Numerical Integrator and Computer), calcolò le prime 2037 cifre decimali di π, senza tuttavia trovare la sequenza dei quattro 7, per la quale occorrerà arrivare a calcolare 5174 cifre.20 Finora i numeri normali sono stati soltanto costruiti artificialmente, come la costante di Champernowne (0.12345678910112131415…)21 o la costante di Copeland-Erdős (0.2357111317192329…).22 Nel 1952 Davenport e Erdős hanno dimostrato che ogni numero con espansione decimale data da f(1) f(2) f(3)… è normale quando f è un polinomio a valori interi positivi. Questi numeri costruiti artificialmente non mostrano “sorprese” allo sguardo umano. Sebbene non siano esprimibili come rapporto di numeri interi, essi mostrano fin dall’inizio tutto il loro sviluppo. La cifra che segue si lascia definire completamente dalle cifre precedenti. Non importa chi sia il numero in sé, ma soltanto la parte approssimata (troncata) che è stata identificata fino a quel punto. Basta guardare al troncamento per comprendere ciò che seguirà. Con la diagonale del quadrato le cose non stanno così. Le cifre da aggiungere non dipendono semplicemente 18 Cfr. A. TURING, Computing Machinery and Intelligence, «Mind» 49 (1950), 236, 433-460. 19 L. wITTGeNSTeIN, Philosophical Investigations, Blackwell, Hoboken (NJ) 1953, n. 352. Cfr. L. BeRGGReN, J. m. BORweIN, p. B. BORweIN, Pi: A Source Book, Springer-Verlag, Berlin 2004, 277-281. 20 Cfr. D.G. ChampeRNOwNe, The construction of decimals normal in the scale of ten, «Journal of London Mathemathical Society» 8 (1933), 254-260. 21 Cfr. A.H. Copeland, p. erdős, Note on Normal Numbers, «Bulletin of the American Mathematical Society» 52 (1946), 857-860. 22 81 GIOvaNNI ameNdOla dalle cifre finora individuate: l’approssimazione non dà alcuna informazione su cosa accadrà in seguito. Borel ha inoltre dimostrato che quasi tutti i numeri reali sono normali rispetto alla misura di Lebesgue. “Quasi tutti” si intende nel senso della teoria della misura, ovvero la misura di questi numeri sull’intervallo [0,1) vale 1, come appunto accade per la lunghezza dell’intero segmento da 0 a 1. Ciò tuttavia non dà una “misura” della “numerosità” di tali numeri. Ad esempio, è noto che l’insieme di Cantor ha misura 0 ma cardinalità pari alla potenza del continuo, ovvero è possibile porlo in corrispondenza biunivoca con tutti i numeri dell’intervallo [0,1). Già a questo livello, possiamo osservare una paradossalità, che sarà messa in evidenza con l’esempio di Vitali. Il matematico italiano Giuseppe Vitali costruisce un insieme non misurabile, in quanto l’assumerlo tale condurrebbe a ritenere la misura dell’intervallo [0,1) pari a 0 o infinita, il che sarebbe contraddittorio. Una stranezza simile nella teoria della misura si ritrova nel paradosso di Banach-Tarski (1924) che mostra la decomposizione di una palla (una sfera nello spazio a tre dimensioni) in un insieme finito di pezzi (non misurabili) ricomponibili, attraverso semplici operazioni geometriche, la rotazione e la traslazione, in due sfere aventi lo stesso volume di quella di partenza. Questi e altri paradossi, come sottolinea anche il matematico italiano Emanuele Paolini, nascono dalla teoria moderna degli insiemi, le cui contraddizioni rimanda appunto al voler ritenere gli irrazionali come numeri a tutti gli effetti: «Supporre che “esistono” numeri irrazionali risulta essere molto utile ma non ha un riscontro concreto ed è una delle fonti di questi “paradossi”». 23 Il cercare di addomesticare l’infinito all’interno delle teorie matematiche, sebbene abbia il merito di offrire strade per la risoluzione di problemi concreti, tuttavia non deve far perdere di vista l’astrattezza in cui tale concetto rimane. Per cui, conclude Paolini, «l’avversione spontanea di ognuno di noi (e di molti matematici professionisti) rispetto al paradosso di Banach-Tarski probabilmente non è molto diversa dall’avversione che doveva provare Pitagora rispetto all’esistenza di √2». 24 E. paOlINI, Dehn e Banach-Tarski: opposti paradossi, in «Matematica, Cultura e Società – Rivista dell’Unione Matematica Italiana» 2 (2017), 1, 95. 23 24 Ibidem. 82 Iv. la RaGIONevOle INeffaBIlITà della NaTURa al lINGUaGGIO maTemaTICO 3. Il paRadOSSO dI aChIlle, del CaNe , della TaRTaRUGa , del TOpO , della fORmICa , della SCydOSella … L’analisi matematica, nata nel XVII secolo ad opera di Newton e Leibniz, è spesso presentata come un approccio in grado di risolvere il paradosso di Achille e della tartaruga formulato da Zenone di Elea nel V secolo a.C. Il filosofo greco, difensore delle tesi radicali del suo maestro Parmenide sulla realtà dell’Essere e sull’illusorietà di ogni divenire, aveva immaginato una gara tra il piè veloce Achille ed una tartaruga. Se Achille avesse concesso un pur minimo vantaggio alla tartaruga, non sarebbe stato più in grado di superarla. Supponendo, infatti, che al momento della partenza Achille e la tartaruga distino una certa lunghezza A1, dopo la partenza, quando Achille avrà raggiunto il punto in cui si trovava la tartaruga, quest’ultima avrà percorso un brevissimo tratto in modo che ora disterà da Achille una certa lunghezza A2. Quando Achille raggiungerà quest’ultima posizione della tartaruga, la tartaruga disterà comunque da Achille una certa lunghezza A3, e così via. Per cui, continuando il processo, sarebbe necessaria una infinità di movimenti di Achille per raggiungere la tartaruga. Da qui Zenone deriva l’illusorietà di ogni moto, offrendo una conferma dell’ontologia parmenidea. Gli analisti matematici hanno analizzato questo paradosso attraverso il concetto di serie numerica, che permette di offrire un modo di calcolare una somma con infiniti termini. Nel caso in questione, se supponiamo, ad esempio, che A1 sia pari ad 1 metro, A2 a mezzo metro, A3 ad un quarto di metro e così via, il problema si riduce a calcolare 1 + ½ + ¼ +…, il cui risultato converge a 2. Sebbene dunque si sia in presenza di una somma infinita di termini, il risultato sarebbe finito, di modo che Achille supererebbe la tartaruga dopo 2 metri dal punto di partenza. Tuttavia, le questioni sulla divisibilità infinita dello spazio e del tempo e sulla realtà del movimento vanno ben oltre ogni concettualizzazione matematica del paradosso, e anche nella stessa matematica resta problematico il passaggio da un infinito solo potenziale (le somme sempre e solo parziali che si possono calcolare) ad un infinito attuale (la somma effettiva di tutti gli infiniti termini). La problematica posta in essere da Zenone è lungi dall’essere risolta, anzi sembra ripresentarsi con ulteriore insistenza all’interno dell’a83 GIOvaNNI ameNdOla nalisi matematica nella possibilità di definire i cosiddetti frattali, come la curva di Koch. Per costruirla o meglio per dare un’idea della costruzione, si può considerare inizialmente un segmento di retta. Al primo passaggio, si suddivide il segmento in tre parti, si rimuove la parte centrale, e si disegnano due lati di un triangolo equilatero avente la parte rimossa come base, ottenendo così quattro segmenti, ciascuno di lunghezza pari ad un terzo rispetto al segmento iniziale. Al secondo passaggio, si suddivide ogni segmento in tre parti, si rimuovono tutte le parti centrali, e si disegnano nuovamente i due lati di un triangolo equilatero, ottenendo così in totale sedici segmenti, ciascuno di lunghezza pari ad un nono rispetto al segmento iniziale. Questo procedimento continua all’infinito, e la curva che si ottiene è continua e non derivabile in ogni suo punto. Ma, al di là di queste caratteristiche analitiche, se immaginiamo questa superficie dinanzi a noi con un segmento iniziale di 1 metro e, stavolta, oltre ad Achille ed alla tartaruga, facciamo partecipare ad una gara anche un cane, un topo, una formica, una scydosella ed ulteriori altri animali sempre più piccoli di dimensioni, osserviamo, ancora una volta, qualcosa di paradossale. Achille percorrerà la curva di Koch facendo un singolo passo di un metro, in quanto la parte sporgente non sarà di alcun ostacolo al suo passo. Il cane (di taglia adeguata) dovrà percorrere invece i quattro tratti della costruzione fatta al primo passaggio, in quanto avrà un passo non superiore ad un terzo di un metro. La tartaruga (supponendola della misura adeguata), per raggiungere l’estremità opposta della curva di Koch, dovrà percorrere i 16 tratti della costruzione fatta al secondo passaggio, in quanto il suo passo è supposto essere un nono di un metro. Le cose peggiorano ulteriormente per il topo, che percorrerà 64 tratti con un passo lungo un ventisettesimo di un metro; per la formica, che dovrebbe percorrere 256 tratti con un passo pari ad un ottantunesimo di un metro; per la scydosella, che percorrerebbe 1024 tratti con un passo di un duecentoquarantatreesimo di un metro; e così via per gli altri animali di dimensioni (fantasticate) inferiori.25 Il discorso fin qui condotto ci mostra che la lunghezza della curva di Koch per Achille è equivalente ad 1 metro; per il cane a 4/3 di un metro (circa 1.33 metri); per la tartaruga a 16/9 di un metro (circa 1.78 metri); per il topo a 64/27 di un metro (circa 2.37 metri); per la formica a 256/81 di un 25 Gli animali proposti nell’esempio sono soltanto esemplificativi del fatto di avere dimensioni decrescenti, senza voler essere ulteriormente realistici per quanto concerne le loro effettive dimensioni naturali. 84 Iv. la RaGIONevOle INeffaBIlITà della NaTURa al lINGUaGGIO maTemaTICO metro (circa 3.16 metri); per la scydosella a 1024/243 di un metro (circa 4.21 metri). Ovvero, tanto più l’animale è di piccole dimensioni, tanto più il tragitto da percorrere sarà realmente lungo. Inoltre, a differenza del paradosso di Achille e della tartaruga, non raggiungiamo neppure un limite superiore alla lunghezza del tragitto, in quanto la successione delle lunghezze è divergente. In termini matematici, il limite di 4n/3n, al crescere di n, tende all’infinito. La curva di Koch ha dunque una lunghezza infinita, per cui un animale infinitamente piccolo impiegherà un tempo infinitamente grande per percorrerla. Si potrebbe pensare che il problema sia artificiale, che in fondo la curva di Koch è soltanto una costruzione matematica. A non essere, tuttavia, una costruzione matematica è la costa della Gran Bretagna.26 Eppure la situazione in cui veniamo a trovarci non è migliore della precedente. Se provassimo a misurarla, ci renderemmo conto che anche qui la misurazione dipende dalla scala scelta. Ad esempio, se provassimo a circoscrivere la superficie della Gran Bretagna con segmenti della lunghezza di 250 km, ne dovremmo utilizzare 7, per cui misureremmo un perimetro di 1750 km; se, per migliorare la stima, utilizzassimo una lunghezza di 200 km, otterremo un perimetro di 2600 km; se passassimo ad una lunghezza di 150 km, otterremmo un perimetro di 2550 km; invece con una scala pari a 100 km, otterremmo un perimetro di 2800 km; se fosse pari 50 km, un perimetro di 3350 km; se fosse pari a 25 km, un perimetro di 4175 km. Si nota immediatamente che più diminuiamo la scala, più cresce il perimetro dell’isola. Si pone, così, la domanda fino a che punto sia lecito diminuire la scala per misurare la costa, specie nel momento in cui ci troviamo dinanzi a quei frastagliamenti tipici delle costiere britanniche. Può sembrare assurdo, ma se scegliessimo unità di misura sempre più piccole, potremmo perfino superare la distanza tra la Terra e il Sole, oltrepassando il milione di km. La conclusione è l’impossibilità di misurare la lunghezza di una costa (di ogni costa, anche quelle apparentemente rettilinee), in quanto la lunghezza varia in base alla scala considerata e, al diminuire della scala, la lunghezza tende all’infinito, proprio come accade per la curva di Koch. La costa semplicemente non è misurabile e ciò non è un problema di errori di approssimazione o della strumentazione usata. Non possiamo neppure dire che la lunghezza sia inferiore ad un certo valore, quanto piuttosto Cfr. B.B. maNdelBROT, How Long Is the Coast of Britain? Statistical Self-Similarity and Fractional Dimension, «Science» 156 (1967), 3775, 636-638. 26 85 GIOvaNNI ameNdOla che la lunghezza dipende dalla scala in base alla quale si vuole misurare (e non, banalmente, dall’unità di misura scelta). Da un punto di vista ontologico potremmo dunque concludere che la lunghezza di una costa di un Paese non è un attributo (accidente) del Paese, non è cioè una proprietà attribuibile all’oggetto Paese. Similmente, anche la superficie di un qualsiasi corpo non è misurabile, in quanto potremmo argomentare sensatamente con ragionamenti analoghi che la sua superficie è potenzialmente infinita. Ciò ha a che fare col fatto che, sia le lunghezze sia le superfici, sono oggetti mono- e bi-dimensionali percepite in uno spazio con tre dimensioni, in modo che una linea costiera può essere rappresentata almeno in un piano ed una superficie all’interno di uno spazio. Il problema, nella nostra percezione comune, non si pone infatti per la misurazione dei volumi, in quanto possiamo effettivamente offrire una delimitazione di un certo oggetto volumetrico confrontandolo con un oggetto di volume maggiore e con un oggetto di volume inferiore. Ma, come abbiamo osservato alla fine della sezione precedente, anche la misurazione del volume produce paradossi notevoli. Infine, nel contesto della meccanica quantistica, John S. Bell prova a chiarire la questione della “misurazione”, spiegando che tale terminologia ha un significato non riconducibile all’esperienza ordinaria del misurare. Quando misuriamo qualcosa identifichiamo questa misura come una «proprietà preesistente dell’oggetto» che stiamo considerando (ad esempio, la massa di un uomo, la velocità di un treno, il volume di una bottiglia). A livello quantistico questa attribuzione non è affatto lecita, in quanto non possiamo fissare una linea di demarcazione tra sistema fisico ed apparato sperimentale.27 4. Il SOCRaTICO demONe dI laplaCe Che le nostre misurazioni non fossero precise e che altre addirittura fossero ignote era qualcosa di noto già nella fisica classica. Proprio a tali difficoltà è riconducibile la famosa citazione di Laplace posta proprio nell’introduzione al suo trattato sul calcolo delle probabilità, inteso come strumentazione necessaria ed utilissima al superamento di tali limiti: Cfr. J.S. Bell, Dicibile ed indicibile in meccanica quantistica, Adelphi, Milano 2010, 290291 (ed. or. Speakable and Unspeakable in Quantum Mechanics, Mary Bell, 1987). 27 86 Iv. la RaGIONevOle INeffaBIlITà della NaTURa al lINGUaGGIO maTemaTICO Dobbiamo considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto di un dato stato anteriore e come le causa di ciò che sarà in avvenire. Un’intelligenza che, in un dato istante, conoscesse tutte le forze che animano la natura e la rispettiva posizione degli esseri che la costituiscono, e che fosse abbastanza vasta per sottoporre tutti i dati alla sua analisi, abbraccerebbe in un’unica formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo come quello dell’atomo più sottile; per una tale intelligenza tutto sarebbe chiaro e certo e così l’avvenire come il passato le sarebbero presenti.28 Questa affermazione è generalmente contestata filosoficamente in quanto Laplace assumerebbe pregiudizialmente una posizione deterministica e meccanicistica della natura. Ma anche senza arrivare a tanto e assumendo che Laplace starebbe dicendo soltanto che l’uomo non potrà mai conoscere precisamente le condizioni iniziali di tutti i corpi presenti nell’universo e, per conoscere la natura, dovrà muoversi necessariamente nell’incertezza usando teorie probabilistiche, la possibilità logica del suo “demone” pone seri problemi: potrebbe davvero una intelligenza non umana e perfetta cogliere tutti quei dati nella loro esattezza? Il fisico teorico Nino Zanghì ritiene che i critici di Laplace confondano le nozioni di predicibilità e di determinismo e che sarebbe un problema dell’osservatore umano il non poter cogliere con un’unica formula i moti di tutti i corpi dell’universo, lasciando intendere che la natura invece avrebbe in sé, ontologicamente, stati esatti (posizioni e forze) per tutti i corpi esistenti.29 Zanghì, seguendo Bricmont,30 parla di determinismo della natura e di impredicibilità dell’uomo. Ma il determinismo di cui parla, che dovrebbe invece avere a che fare con la possibilità di determinare univocamente uno stato futuro in base ad uno stato iniziale ed alla legge dinamica, essendo inerente alla natura, sembra non tener conto dell’approssimazione della legge (matematica) rispetto alla natura, ovvero dell’essenza modellistica di ogni legge naturale, che non è mai totale rispecchiamento della natura ma soltanto una sua idealizzazione matematica. Questa idealizzazione mostra certamente una razionalità matematica nella natura, ma non può pretendere alcuna totalizzazione del reale fisico. P.S. laplaCe, Saggio filosofico sulle probabilità, in O. peSeNTI CamBURSaNO (ed.), Opere, UTET, Torino 1967, 323. 28 Cfr. N. zaNGhì, I fondamenti concettuali dell’approccio statistico in fisica, in v. allORI, m. dORaTO, f. laUdISa, N. zaNGhì, La natura delle cose, Carocci, Roma 2005, 171-173. 29 Cfr. J. BRICmONT, Science of Chaos or Chaos in Science?, «Annals of the New York Academy of Sciences» 775 (1996), 131-175. 30 87 GIOvaNNI ameNdOla Tralasciando i pregiudizi filosofici deterministici e meccanicistici nella concezione della natura, Laplace non ha tutti i torti. Egli ha in mente però soltanto alcuni fenomeni dell’universo come ad esempio le eclissi. Conoscendo infatti la posizione e la velocità degli astri, sappiamo fin d’ora che il 2 agosto 2027 alle ore 11:15 sarà possibile osservare da Ragusa una eclissi solare totale. L’idea di fondo è la seguente: più siamo precisi nella misurazione dei dati (cioè, più riduciamo gli errori di misura), tanto più riusciamo con accuratezza a prevedere il futuro e a conoscere il passato. Era noto infatti che l’approssimazione (imprecisione) nella misurazione di grandezze fisiche è inevitabile: ogni valore numerico si accompagna ad un intervallo di approssimazione in base alla sensibilità dello strumento utilizzato per operare la misura, in modo che per misurare con un centimetro da sarto una matita, la sua lunghezza sarà, ad esempio, 15.3 cm ± 0.1 cm, variando così in un intervallo compreso tra 15.2 cm e 15.4 cm. A tal motivo si è sviluppata una teoria degli errori e della loro propagazione nei calcoli. Se i dati iniziali sono sempre imprecisi, occorre valutare la propagazione di questi errori per valutare l’imprecisione del risultato finale. Tuttavia, già nell’Ottocento era noto il problema meccanico del doppio pendolo, ovvero un pendolo alla cui estremità è collegato un altro pendolo. Se si immagina l’estremità del primo pendolo fissata e si lascia partire il doppio pendolo da una posizione orizzontale, la traiettoria del moto descritto appare fortemente irregolare. Inoltre, se lasciamo partire due doppi pendoli contemporaneamente nella “stessa” posizione iniziale, dopo poche oscillazioni similari, le traiettorie cominceranno a divergere totalmente descrivendo curve completamente diverse. Matematicamente, ciò trova spiegazione considerando una equazione logistica del tipo xn+1 = 4xn (1 – xn), con x0 compreso tra 0 e 1. Se consideriamo, ad esempio, due valori iniziali di x0 molto vicini tra loro come 0.500 e 0.501, dopo soltanto dieci iterazioni avremo come valori, rispettivamente, 0 e 0.728. Questa crescita di variazione esponenziale, pur avendo dati iniziali molto prossimi, ha condotto lo studioso di meteorologia Edward Lorenz a parlare di un effetto farfalla secondo cui il battito delle ali di una farfalla in Brasile (piccolissime variazioni) potrebbe provocare un tornado in Texas (enormi conseguenze).31 Nel suo articolo originario, Lorenz aveva infatti osservato che «due 31 Cfr. E. lOReNz, Predictability: Does the Flap of a Butterfly’s Wings in Brazil Set off a Tornado in Texas?, «Proceedings of the 139th Meeting of AAAS (American Association for the Advancement of Science) Section on Environmental Sciences, New Approaches to Global Weather» (1972). 88 Iv. la RaGIONevOle INeffaBIlITà della NaTURa al lINGUaGGIO maTemaTICO stati che differiscono per misure impercettibili possono eventualmente evolvere in due stati notevolmente diversi», in modo che, «se c’è qualche errore nell’osservazione dello stato presente – e in qualsiasi sistema reale tali errori sembrano inevitabili – una predizione accettabile di uno stato istantaneo in un lontano futuro potrebbe essere impossibile» e, pertanto, «vista l’inevitabile imprecisione e incompletezza delle osservazioni meteorologiche, sembrerebbe inesistente una previsione precisa a lunghissimo raggio».32 Questa imprevedibilità radicale ha portato agli sviluppi della cosiddetta teoria del caos deterministico all’interno della teoria dei sistemi dinamici.33 Seguendo la distinzione tra causalità, determinismo e predicibilità proposta dal filosofo della scienza Federico Laudisa,34 la teoria dei sistemi dinamici mostra che sebbene ci sia una legge (ad esempio la funzione logistica) che permette di determinare uno stato finale in modo univoco a partire da uno stato iniziale (determinismo), tuttavia, data la sensibilità ai dati iniziali e l’inevitabile approssimazione, non si è in grado di predire lo stato finale del sistema (impredicibilità). Si parla in tal caso di caos deterministico. Quindi caotico (casuale) qui è connesso alla predicibilità più che al determinismo o alla causalità. Viceversa può darsi predicibilità (non in senso di esattezza assoluta) senza determinismo, ad esempio se abbiamo una legge probabilistica che prevede la possibilità di due stati differenti avente ciascuno probabilità del 50% (ad esempio lo spin “di” un elettrone), possiamo predire che si verificherà uno dei due stati con una certa probabilità. Ci chiediamo, infine, se sia davvero inevitabile l’imprecisione nella misurazione di una grandezza fisica. Prendiamo ancora una volta ad esempio la misurazione di una lunghezza. Possiamo misurarla con uno strumento sensibile ai millimetri (10-3 m), passare poi ai micrometri (10-6 E. lOReNz, Deterministic nonperiodic flow, «Journal of the Atmospheric Sciences» 20 (1963), 141. 32 Cfr. J. GleICK, Caos. La nascita di una nuova scienza, Rizzoli, Milano 2000 (ed. or. Chaos: Making A New Science, Viking Press, New York 1987). 33 La causalità indica che per ogni evento A esiste un evento B che lo causa (causa efficiente). La causalità è qualcosa di non legato alla temporalità, al prima e al dopo, è una causalità ontologica: senza l’evento B non può sussistere l’evento A. Per verificarsi A, deve verificarsi B. Può esserci causalità senza determinismo, e determinismo senza causalità. Il determinismo indica invece una teoria fisica che permette di determinare in modo univoco lo stato di un sistema al tempo t, cioè s(t), a partire da uno stato iniziale, s(t0), e da una legge dinamica L. Infine, la predicibilità riguarda la possibilità di prevedere lo stato di un sistema a partire da uno stato iniziale; cfr. F. laUdISa, La causalità in fisica, in La natura delle cose, Carocci, Roma 2005, 400-403. 34 89 GIOvaNNI ameNdOla m), proseguire con i nanometri (10-9 m) e, poi, con i picometri (10-12 m) e così via, migliorando la precisione, fino a raggiungere le dimensioni piccolissime dell’atomo, dove abbiamo a che fare con la teoria della meccanica quantistica. Infatti il raggio dell’orbita più interna dell’atomo di idrogeno è dell’ordine di 10-11 m (raggio di Bohr) e il raggio (classico) dell’elettrone è dell’ordine di 10-15 m (raggio di Compton o di Lorentz).35 Se volessi, dunque, calcolare la lunghezza esatta di un regolo dovrei conoscere “dove” si trova la “particella” del regolo più a sinistra e quella più a destra. Il principio di indeterminazione di Heisenberg (1927) ci pone dinanzi al fatto che è impossibile misurare simultaneamente la posizione e il momento di una particella, ma lascia ancora sperare sulla possibilità di conoscere almeno in linea ipotetica, con precisione infinita, la posizione di una “particella”. Tuttavia, la dualità onda-particella ci indica una realtà quantistica che non può essere intesa meramente come corpuscolare, unica forma di realtà per cui avrebbe senso parlare di posizione esatta. Non ha senso parlare della posizione puntuale nello spazio di un’onda, ma soltanto di una distribuzione di probabilità, per cui il “dove” non è ben definito. Queste probabilità, sia che siano legate all’osservazione (indeterminazione operazionale) sia che siano strutturali alla materia (indeterminazione intrinseca), sono ineliminabili e non consentono una precisione infinita nella misurazione, semplicemente perché ciò che si sperimenta a livello quantistico non è concepibile come una particella. Ritornando al demone di Laplace in grado di conoscere tutte le forze presenti in natura e tutte le posizioni dei corpi, dobbiamo riconoscere che per il principio di indeterminazione non è possibile conoscere tutte le forze e le rispettive posizioni dei corpi, e per la dualità onda-particella non è possibile conoscere in modo totalmente preciso la posizione degli esseri che costituiscono la natura, perché la realtà quantistica non è corpuscolare. Inoltre, conoscendo in modo (inevitabilmente) approssimato la misura di ogni grandezza fisica per via dell’esistenza di sistemi caotici, non è possibile prevedere in modo accurato gli stati futuri dell’universo. Quindi, già ad un livello esclusivamente fisico, siamo in presenza di una realtà impredicibile e caotica. Il demone di Laplace, inteso come un essere intelligente dotato di una conoscenza superiore 35 Inoltre sembra che non sia possibile scendere al di sotto della lunghezza di Planck (10-35 m): (con le teorie attuali) non è possibile parlare di posizioni di un oggetto ad una precisione più piccola della lunghezza di Planck; cfr. C.A. mead, Possible Connection Between Gravitation and Fundamental Length, «Physical Review» 135 (1964), B849-B862. 90 Iv. la RaGIONevOle INeffaBIlITà della NaTURa al lINGUaGGIO maTemaTICO a quella umana, può solo riconoscere intelligentemente che la struttura della realtà è di altro tipo rispetto a quella immaginata nell’Ottocento, non ritenendo socraticamente di sapere quello che essenzialmente non si può conoscere. 5. CONClUSIONI Sebbene possiamo sperimentare l’irragionevole efficacia della matematica nella descrizione del mondo che le scienze fisiche ci offrono, e possiamo anche ritenere che tale razionalità matematica non sia semplicemente nella mente dell’osservatore umano ma sia presente, in qualche modo, ontologicamente nella realtà naturale, tuttavia la natura porta con sé un enorme mistero e resta altresì ineffabile al linguaggio matematico, che mostra la sua inadeguatezza dinanzi ad ogni possibilità di totalizzare la realtà fisica. La celebre affermazione galileiana su una natura scritta in linguaggio matematico, che introduce metodologicamente la matematica all’interno del conoscere fisico, legando a filo doppio le sensate esperienze e le necessarie dimostrazioni, deve essere dunque rimodulata verso una conoscenza parziale e necessariamente incompleta della natura, che sfugge ad ogni concettualizzazione quantitativa e matematica, come d’altronde lo stesso Galilei riconosceva in una lettera a Mark Welser dell’1 dicembre 1612: Perché, o noi vogliamo specolando tentar di penetrar l’essenza vera ed intrinseca delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in notizia d’alcune loro affezioni. Il tentar l’essenza, l’ho per impresa non meno impossibile, e per fatica non men vana, nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti. Ma se vorremo fermarci nell’apprensione di alcune affezioni, non mi par che sia da desperar di poter conseguirle anco nei corpi lontanissimi da noi, non meno che ne i prossimi.36 L’essenza della natura, come d’altronde era emerso nella stessa scuola pitagorica, è al di là dell’arithmos e, avvicinarsi ad essa, richiede approcci che certamente oltrepassano la misurazione quantitativa e, aggiungiamo noi, approcci anche più generalmente matematici, in quanto questi approcci, passati, presenti e futuri (per quello che la matematica potrà essere), richiedono uno sviluppo astratto e, dunque, un allontanamento dalla realtà fisica che si vuole comprendere ed afferrare. La realtà nella sua fisicità esperienziale resta infinitamente G. GalIleI, Terza lettera a Marco Welser sulle macchie solari, in Opere, V, Edizioni Nazionali Barbera, Firenze 1929-1936, 187. 36 91 GIOvaNNI ameNdOla oltre ogni concetto e teoria su di essa, come in altro ambito ricordava papa Francesco, «la realtà è superiore all’idea»,37 anche a quella matematica. 37 fRaNCeSCO, Evangelii Gaudium, n. 233. 92 v. l’OGGeTTO della fISICa COme CaUSa fORmale. RealISmO ed INTellIGIBIlITà della NaTURa alla lUCe deI pOSTUlaTI fORmalI della fISICa Francesco Santoni 1. INTROdUzIONe: l’OGGeTTO della fISICa e Il CONCeTTO dI CaUSa fORmale Se la scienza è conoscenza delle cause,1 la scienza fisica indaga primariamente le cause formali dei fenomeni naturali. Si occupa, certamente, anche delle cause efficienti, ma solo secondariamente: così, ad esempio, prima ancora che a conoscere l’orbita di un dato pianeta, siamo interessati a sapere come si muovono i pianeti in generale; oppure, se ora avvertiamo una scossa di terremoto, siamo certamente interessati a conoscerne l’epicentro, e quale sia la faglia attiva che l’ha prodotto, che è la sua causa efficiente; ma ciò è possibile perché a monte abbiamo una conoscenza formale dei terremoti, senza la quale non potremmo nemmeno indicarne le relative cause efficienti. Chiaramente sotto la definizione generale che abbiamo dato rientrerebbe lo studio di enti fisici di ogni genere, tanto dei non-viventi quanto dei viventi, ed in effetti proprio così era inteso classicamente il campo della scienza fisica. La particolarizzazione attuale delle varie discipline corrisponde grossomodo ai diversi generi di enti presenti in natura, considerati sia in concreto che in astratto. Così, ad esempio, possiamo distinguere la fisica e la chimica in quanto la prima si occupa di enti che potremmo definire più semplici (come gli atomi o le particelle subatomiche), ovvero identificabili e descrivibili da un numero ristretto di caratteristiche, un numero ristretto di proprietà, di parametri, di relazioni; ed è proprio per questa semplicità dell’oggetto che è possibile ottenere quel rigore descrittivo, fondato sul linguaggio matematico, che è caratteristico della Cfr. aRISTOTele, Analitici Secondi, I 2, 71b9 e ss.; trad. it. a cura di M. Zanatta, UTET, Torino 1996: «Crediamo di conoscere ogni cosa in senso assoluto – però non nella maniera sofistica, cioè in maniera accidentale – quando crediamo di conoscere la causa per la quale la cosa è (dal momento che di ogni cosa vi è una causa) e non può capitare che essa sia in un altro modo». 1 93 fRaNCeSCO SaNTONI fisica. La chimica invece, occupandosi di oggetti via via più complessi e strutturati, si allontana man mano da questo rigore procedendo fino ad una conoscenza caratterizzata da un alto grado di empiria (si pensi ad esempio alla scienza dei materiali). Chiaramente le due discipline sono interrelate, e non è possibile tracciare confini netti. Non si può, ad esempio, rispondere in modo esclusivo alla domanda se lo studio degli orbitali atomici o molecolari, ossia della struttura elettronica di atomi e molecole, pertenga alla chimica o alla fisica; pertiene ovviamente ad entrambe, in quanto su tale questione le due discipline non si distinguono, avendo in questo caso il medesimo oggetto che indagano mediante gli stessi metodi. Infine la fisica ha per oggetto anche enti che nella loro concretezza non sono elementari, ma dei quali vengono indagate in astratto le proprietà più generali. Come ad esempio i sistemi a molti corpi, che non sono affatto elementari nella loro concretezza, ma che tuttavia la fisica approccia come sistemi di punti materiali semplici. Oppure come la struttura formale dello spazio-tempo, che in relatività generale viene studiata trattando ogni possibile oggetto presente nell’universo esclusivamente in termini di energia e momento. L’astrazione è ciò che permette, anche in questi casi, l’utilizzo di un rigoroso formalismo matematico. Indagare le cause formali in fisica significa cercare degli schemi strutturali e di relazione secondo i quali gli enti si strutturano, si muovono, si sviluppano, interagiscono. Si parla di schemi strutturali, e non di strutture, per l’appunto perché la fisica non si occupa semplicemente di descrivere strutture date ma di trovarne lo schema, ovvero un criterio di ordine, secondo il quale tali strutture vengono a costituirsi. Così, ad esempio, la fisica non si occupa semplicemente di determinare le orbite dei pianeti del sistema solare, ma di trovare dei criteri che permettano di calcolare l’orbita di qualsiasi corpo, a partire da principi e regole ben definiti; o ancora, non si preoccupa soltanto di determinare sperimentalmente attraverso tecniche spettroscopiche la struttura dei livelli energetici degli elettroni di atomi e molecole, ma di trovare le regole di costituzione di queste strutture. Il procedere della fisica consiste nel ricostruire schemi via via più generali che integrino quelli particolari. Ad esempio, se le leggi di Keplero determinano l’orbita di ogni pianeta, la gravitazione universale di Newton permette tanto di ricostruire le stesse leggi di Keplero, quanto la dinamica di infiniti altri sistemi fisici. È importante comprendere la natura di tali generalizzazioni; non si tratta di astrazione del tipo genere-specie, in 94 v. l’OGGeTTO della fISICa COme CaUSa fORmale cui il genere è concettualmente più povero, così che dalla specie si possa conoscere il genere ma non viceversa. La fisica mira invece a trovare, per quanto possibile, schemi generali che comprendano sotto di sé quelli più particolari senza confonderli, cioè degli schemi generali a partire dai quali quelli particolari si possano ricostruire. Tale è, fondamentalmente, la forma logica di ogni teoria fisica. Per fare un esempio immediato, un’equazione del moto è una forma semplice che contiene in sé infiniti moti possibili senza confonderli: in linea di principio a partire da una semplice equazione, infiniti moti possono essere ricostruiti senza ambiguità. La forma dell’equazione è un’unità semplice, chiusa in sé, compiuta e costituita da un insieme finito di termini. Ma, se analizzata, questa forma si dischiude da sé, si sviluppa e si particolarizza in un numero potenzialmente infinito di sistemi concreti. 2. la qUeSTIONe del RealISmO Gli schemi strutturali e di ordine introdotti sopra sono, nella loro forma concettuale ed espressiva, chiaramente delle costruzioni dell’intelletto, ma la fisica fa propria una concezione che potremmo dire ingenuamente realistica, in quanto presuppone e riconosce come tali forme concettuali rimandino ad un ordine oggettivo delle cose, un ordine che possiamo comprendere e decodificare, e che appare a tutti gli effetti come prodotto di una razionalità. Ci si può certamente porre la domanda se tale razionalità apparente – e diciamo apparente nel senso letterale del termine, intendendo una razionalità che appare, che si mostra, e non apparente nel senso di ingannevole, di non vero –, ci si può chiedere se e come tale razionalità apparente sia ultimativamente fondata, e questo ci porterebbe naturalmente fuori dall’ambito della fisica,2 ma qui ci limitiamo ad un punto più semplice: che la fisica, e le scienze naturali in generale, presuppongono che tale razionalità si presenti come dato di fatto. Diciamo che Cfr. e. BeRTI, Introduzione alla metafisica, UTET, Torino 1993, 100: «La problematicità dell’esperienza porta con sé, direttamente, la trascendenza del Principio, cioè la necessità che la risposta adeguata alla domanda costituita dall’esperienza stessa sia trascendente rispetto a quest’ultima. Questa conclusione non è semplicemente la soddisfazione di un’esigenza, quella per cui, se c’è il problema, ci deve essere la soluzione. Essa è il risultato necessario di una confutazione, cioè la confutazione della pretesa assolutezza dell’esperienza. Se infatti l’esperienza fosse assoluta, cioè autosufficiente, non dipendente da un Principio, essa non sarebbe problematica, non domanderebbe di essere spiegata, sarebbe perfettamente razionale, di una razionalità già attuata, già completamente dispiegata, quindi necessaria, compiuta, perfetta». 2 95 fRaNCeSCO SaNTONI nella natura c’è un ordine razionale perché lo vediamo, perché è un fatto, perché le cose vanno sempre o per lo più in un certo modo,3 e questo ordine lascia trasparire, permette di riconoscere una razionalità. Benché una tale concezione possa esser identificata come realismo ingenuo (e tale effettivamente è, ingenuo, nell’atteggiamento epistemico spontaneo e non indagato di buona parte dei fisici), essa si dimostra tutt’altro che ingenua se confrontata con prospettive epistemiche di altro genere, idealistiche ed empiristiche, le quali invece, come si argomenterà in questo lavoro, non sono state affatto capaci di fornire una comprensione adeguata dell’effettivo cammino di scoperta e concettualizzazione della fisica. La questione del realismo meriterebbe una trattazione estesa e certamente eccedente l’ambito di questo scritto, dunque ci limitiamo a dare solo alcuni cenni che sono pregnanti per il resto della trattazione. All’interno di quello che abbiamo chiamato realismo ingenuo si possono individuare due distinti atteggiamenti, uno originario e l’altro mediato. Il primo atteggiamento può essere descritto, seguendo Husserl, come quello secondo cui «il mondo è sempre un mondo già dato ed indubbio, è nella certezza d’essere e nell’autoverifica [...] il mondo e tutto ciò che esso è per me, ora obiettivamente legittimo e ora no, con tutte le scienze, le arti, con tutte le forme sociali e personali e tutte le istituzioni, appunto in quanto esso è il mondo che per me è reale. Non esiste dunque un realismo più radicale del nostro».4 La fenomenologia, come è noto, si pone il problema di spiegare questa ovvietà, di ricostruire riflessivamente come essa pervenga, nella sua totalità, a costituirsi per noi. In tal modo, la fenomenologia si pone come filosofia prima che sta a fondamento di ogni altro sapere. Le scienze naturali, come la fisica, si limitano invece perlopiù a presupporre il mondo, che Husserl chiama anche il mondo-della-vita. Vedremo tuttavia più avanti che anche all’interno della stessa fisica, nel suo proprio metodo, è già presente il momento fenomenologico attraverso cui si giunge alla definizione rigorosa di postulati e concetti elementari della teoria fisica. 3 Cfr. aRISTOTele, Fisica; trad. it. a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1995, II 1, 193a3: «Che la natura esiste, sarebbe ridicolo tentare di darne una dimostrazione. È infatti evidente che esistono molte cose di questo genere. E cercare di dimostrare cose evidenti, servendosi di cose che evidenti non sono, è proprio di colui che non è in grado di distinguere tra ciò che è conoscibile di per sé e ciò che invece non lo è». Inoltre: «Tutte le cose che sono da natura, o si generano sempre in questo modo, o per lo più, e nessuna di esse si genera per fortuna o per caso. Infatti non è in modo fortuito o casualmente che capita di piovere spesso in inverno, mentre questo sarebbe vero se accadesse durante la canicola; e la canicola non fosse in estate» (ibidem, 198b35). e. hUSSeRl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, a cura di E. Paci, Il Saggiatore, Milano 1961, § 55, 213. 4 96 v. l’OGGeTTO della fISICa COme CaUSa fORmale Il secondo atteggiamento realistico, che abbiamo definito mediato, è quello che Husserl definisce obiettivismo fisicalistico,5 e consiste nel “sostituire” al mondo-della-vita, che in questa concezione sarebbe solamente apparente, un presunto mondo vero che starebbe dietro e a fondamento del mondo-della-vita; il vero essere, fondato su idealità logico-matematiche conosciute mediante le scienze fisiche, le quali diventano un sapere esemplare alla cui forma deve essere ricondotta ogni altra scienza. Anche la psicologia viene, per l’obiettivismo, ricondotta a questo modello, e nel momento in cui questa psicologia naturalistica, secondo quell’approccio che Husserl chiama psicologismo, viene posta a fondamento della teoria della conoscenza e della logica, che sono presupposte alle stesse scienze naturali, l’intero cammino, tratte tutte le conseguenze, si risolve in un circolo vizioso che conduce allo scetticismo.6 Tuttavia l’obiettivismo, pur essendo oggi fatto proprio anche da tanti scienziati, non è parte integrante dei metodi della fisica e non ne è una conseguenza necessaria. Esso è un atteggiamento che nasce piuttosto quando i risultati della fisica sono sufficientemente affermati e dati per scontati, e si dimentica la loro originaria fondazione e derivazione dall’esperienza originaria del mondo. Questo orientamento ha condotto il famoso fisico e matematico ungherese Eugene Wigner a parlare di «irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali»,7 mentre il noto matematico russo Vladimir Arnold ha denunciato le derive formalistiche – dannose soprattutto per l’insegnamento – di una matematica dimentica delle proprie radici nella fisica e nell’empiria.8 Più recentemente, il matematico Giorgio Israel ha scritto: «Se si rigetta l’idea che la matematica abbia la sua origine in speculazioni empiriche, essa viene non soltanto separata dalla natura ma, soprattutto, viene espulsa dalla storia. [...] La storia permette di ricostruire la genesi dei concetti scientifici, [...] ha un ruolo fondamentale sul piano filosofico, [...] è uno strumento fondamentale nell’insegnamento e nella didattica della matematica».9 5 Ibidem, seconda parte, 51 e ss. 6 La critica all’obiettivismo e allo psicologismo è una costante in tutta l’opera husserliana. Per un’introduzione si può vedere v. COSTa, Husserl, Carocci, Roma 2009. 7 e.p. wIGNeR, The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sciences, in «Communications in Pure and Applied Mathematics» 13 (1960), 1, 1-14. 8 v.I. aRNOld, On teaching mathematics, in «Russian Mathematical Surveys», 53 (1998), 1, 229. G. ISRael, La natura degli oggetti matematici alla luce del pensiero di Husserl, Marietti, Genova-Milano 2011. 9 97 fRaNCeSCO SaNTONI Il mondo-della-vita si costituisce nell’esperienza originaria come totalità induttiva, ovvero come totalità che non è soltanto la somma di dati empirico-sensoriali, bensì una totalità intenzionalmente costituita in cui i dati empirici sono originariamente presentati, mediati, unificati e dotati di senso attraverso una serie continua di presunzioni, aspettative, verifiche e correzioni. Le categorie logiche, gli universali, come i concetti di sostanza materiale, di causalità, di necessità, di contingenza, ecc., non sono, come voleva Kant, forme puramente soggettive di cui ci si deve porre il problema di come possano riferirsi ai dati dell’esperienza. Esse sono bensì le forme dell’originario strutturarsi dell’esperienza nel suo aspetto di passività. La fenomenologia, infatti, ricostruisce riflessivamente il come del costituirsi dell’esperienza per il soggetto, ma originariamente il soggetto è rivolto passivamente all’oggetto dell’esperienza, che afferra come un mondo dato, il quale presenta aspetti obiettivi che, benché si costituiscano anche mediante gli atti intenzionali del soggetto, non sono riducibili ad esso e che il soggetto non può deliberatamente creare e modificare.10 Del mondo-della-vita come totalità induttiva sono possibili due tipi di descrizione.11 Di primo tipo sono le descrizioni di oggetti concreti, o di regioni di oggetti concreti, nelle quali, tanto nel loro mutare quanto nella staticità, è possibile riconoscere forme e strutture tipiche ed ordinate; di secondo tipo sono invece le descrizioni delle forme generali dell’esperienza del mondo nella sua globalità, come lo spazio, il tempo, la causalità e la forma stessa dell’obiettività irriducibile al soggetto (vedremo in particolare nella sezione successiva come proprio quest’ultimo aspetto sia stato determinante nella formulazione della teoria della relatività generale). Per ciò che concerne la relazione di causalità tra gli oggetti concreti, essa si presenta nell’esperienza di ogni oggetto in relazione alle circostanze in cui esso è esperito, attraverso i diversi aspetti che di esso vengono colti, ed i mutamenti che esso subisce in relazione a circostanze diverse e mutevoli. La proprietà [della cosa, in quanto elemento costitutivo della cosa stessa intesa come substrato di proprietà reali] perviene ad una datità [...] originaria, soltanto quando le serie funzionali giungono ad un decorso originario in cui le dipendenze dalle inerenti circostanze, pervengono a un’originaria datità, sono, in altre parole, 10 Il tema del costituirsi passivo dell’esperienza e del mondo come totalità induttiva, e di come essa stia a fondamento di ogni discorso scientifico, è diffusamente trattato da Husserl in due serie di lezioni che sono state raccolte e pubblicate: e. hUSSeRl, Lezioni sulla sintesi passiva, a cura di V. Costa, La Scuola, Brescia, 2016; Natura e Spirito. Lezioni del semestre estivo 1927, a cura di G.J. Mastrobisi, Aracne, Canterrano (RM) 2020. 11 Cfr. hUSSeRl, Natura e Spirito, op. cit., II, 4, § 18. 98 v. l’OGGeTTO della fISICa COme CaUSa fORmale dipendenze causali. In questo caso, le causalità non sono meramente supposte, bensì “viste”, “percepite”. [...] La cosa esiste costantemente in quanto, nelle circostanze che le ineriscono, si comporta così e così: la realtà o, ed è lo stesso, la sostanzialità e la causalità sono inseparabilmente inerenti. Le proprietà reali sono eo ipso proprietà causali. Perciò conoscere una cosa significa: sapere per esperienza come si comporterà sotto una spinta, sotto una pressione, quando verrà piegata, quando verrà rotta, quando verrà sottoposta al riscaldamento, al raffreddamento; vale a dire: come si comporterà nel contesto delle sue causalità, in quali stati verranno a trovarsi, e in che modo si troverà la stessa attraverso tutti questi stati. Esplorare queste connessioni e determinare, sulla base della progressiva esperienza, attraverso il pensiero scientifico, le proprietà reali – è questo il compito della fisica [...] la quale, guidata dalle più immediate unità, attraverso la successione di gradi dell’esperienza e di ciò che in essa si annuncia, procede verso unità sempre più alte.12 Un tale realismo, giustificato mediante la riflessione fenomenologica, può a buon diritto essere spogliato dell’aggettivo “ingenuo”, ed essere definito realismo critico o, per l’appunto, fenomenologico. 3. I fONdameNTI della fISICa e le lORO dIveRSe INTeRpReTazIONI Tenendo dunque fermo il quadro concettuale finora richiamato, che costituisce la struttura logica e ontologica basilare della fisica, ci proponiamo di illustrarla attraverso alcuni dei momenti del cammino di scoperta ed elaborazione teorica che, da un lato, esemplificano tale struttura generale, e dall’altro permettono invece di confutare quelle forme concettuali alternative, idealistiche ed empiristiche, che storicamente sono state proposte. Partiamo in realtà proprio da questo secondo aspetto, concentrandoci sulla confutazione delle prospettive epistemiche alternative, rimandando all’ultima sezione la presentazione di una serie di esempi concreti che saranno particolarmente illustrativi della portata dei principi formali della fisica. 3.1 L’idealismo La prima di quelle forme concettuali che intendiamo confutare nel loro tentativo di fondare la fisica, nel tentativo cioè di fornire alla fisica i suoi principi, è quella idealistica. Questa è probabilmente la parte più difficile di questo contributo, o quantomeno quella che ha richiesto il e. hUSSeRl, Idee per una fenomenologia pura ed una filosofia fenomenologica, vol. II, a cura di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, [44]-[45]. Viene qui lasciato fuori il problema della causalità trascendentale, ovvero del nesso della totalità del mondo dell’esperienza con il Principio, che è una questione metafisica. 12 99 fRaNCeSCO SaNTONI maggiore sforzo riflessivo, in quanto ci si dovrà confrontare con Georg Wilhelm Friedrich Hegel, proverbialmente il filosofo più difficile. È pertanto necessario richiamare per cenni il suo sistema filosofico in generale, per arrivare poi alle questioni specifiche che qui ci interessano; e per quanto possa sembrare che si stia così deviando dal tema del presente lavoro, facciamo notare che ci stiamo occupando della struttura concettuale e della presa veritativa della fisica, e che il tema di fondo dunque è proprio la verità; ha perfettamente senso pertanto ritornare ai primi principi, per poi ridiscendere al tema specifico. In questo caso parliamo dei primi principi secondo Hegel. 3.2 Il sistema di Hegel Richiamare in poche parole il sistema hegeliano non è cosa facile. Infatti, quando Hegel ci dice che il vero è l’intero, dietro questa semplice sentenza c’è tutto il suo sistema, e come ogni lettore di Hegel sa benissimo, non si riesce ad isolare un solo concetto dal suo sistema – o forse neanche una singola frase – senza che tale concetto non si articoli e si sviluppi da sé verso altri concetti, riallacciandosi ad ogni altra parte del sistema, costringendoci in qualche modo a ripercorrerlo interamente. Il vero è l’intero. L’intero è l’Assoluto. L’Assoluto è Soggetto. L’ultima delle tre proposizioni esprime in sintesi tutto il sistema hegeliano, ma la giustificazione di essa si può dare, come dice Hegel, unicamente mediante l’esposizione dell’intero sistema.13 La realtà è il dispiegarsi dei momenti dell’intero movimento del soggetto assoluto, unità onnicomprensiva che si costruisce da sé restando eternamente immanente a sé.14 Il soggetto assoluto si struttura secondo le categorie che Hegel espone nella Scienza della Logica, nella quale vengono dedotte tutte le categorie che appartengono all’essere in quanto essere. La Scienza della Logica culmina nell’idea assoluta, in cui soggetto e oggetto coincidono; l’idea che pensa sé stessa; l’idea assoluta è la totalità dei momenti del proprio sviluppo, cioè di tutte le categorie dedotte nella Logica e riportate all’unità. Questo riportare all’unità è un superare la Cfr. G.w.f. heGel, Fenomenologia dello Spirito, a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano, 2014. Si veda la famosa Prefazione dell’autore. 13 14 Per questa ridottissima sintesi si è fatto riferimento ai seguenti testi: G.w.f. heGel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, con le aggiunte a cura di Leopold von Henning, Karl Ludwig Michelet e Ludwig Boumann, a cura di V. Verra, UTET, Torino 2002; a. KOJève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano, 1996; v. höSle, Il sistema di Hegel, a cura di G. Stelli, La Scuola di Pitagora, Napoli 2012. 100 v. l’OGGeTTO della fISICa COme CaUSa fORmale mediazione che si è compiuta, e dunque un tornare all’immediatezza, cioè all’essere. L’idea assoluta, per la sua struttura logica, è dunque necessariamente l’idea essente. L’idea essente è la natura. Il razionale sfocia necessariamente nel reale. Passaggio alla Filosofia della Natura. Come esposto preliminarmente nella Fenomenologia dello Spirito, l’umanità, attraverso la storia, si eleva al sapere assoluto. La prima parte del sapere assoluto è la Scienza della Logica. Questa si conclude con l’idea essente, la natura. Nella Filosofia della Natura, la natura viene esposta come l’idea nella forma dell’oggettività. L’idea pone un mondo oggettivo fuori di sé in cui riconoscersi, realizzandosi così come soggetto cosciente di sé, come Spirito. La natura sarà dunque il riflesso dell’idea, e dunque il riflesso della razionalità esposta nella Logica. La natura si svilupperà fino a produrre gli esseri viventi, al vertice dei quali c’è l’uomo, che è soggetto autocosciente. Passaggio alla Filosofia dello Spirito. Si può così dedurre di nuovo l’intero cammino già percorso nella Fenomenologia, chiudendo il cerchio. Il soggetto assoluto realizza la propria autocoscienza non attraverso questo o quell’uomo, bensì attraverso l’umanità come totalità storica, la quale prende coscienza del mondo e di sé stessa, e realizza la propria libertà attraverso il cammino descritto nella Fenomenologia, che si conclude con l’approdo al sapere assoluto. L’intero ritorna in sé stesso. La circolarità è la cifra dei grandi sistemi idealistici. Se muovendo da un principio – il «cominciamento» – è possibile esporre interamente la totalità (che in quanto tale comprende anche il soggetto conoscente) fino a tornare al punto da cui si era partiti, il sistema è compiuto, è perfettamente chiuso e fondato in sé stesso. Ma se la circolarità è il criterio della verità, allora è anche il criterio della sua eventuale confutazione: se possiamo mostrare che il circolo in qualche punto si interrompe ed il cammino di ritorno non può essere interamente compiuto, il sistema crolla. Gli interpreti di Hegel ripetono spesso come la Filosofia della Natura sia la parte meno riuscita del suo sistema, e questo non è un dettaglio trascurabile. Se infatti il circolo si interrompe, che ciò capiti nella Filosofia della Natura o in qualsiasi altro punto del sistema, esso collassa su sé stesso. Si potrebbe rilevare come il circolo del sistema hegeliano si spezzi in diversi punti. Per ciò che concerne ad esempio la filosofia della storia, sul tentativo di Hegel di inquadrare tutta la storia dell’umanità, di tutti i popoli e civiltà, all’interno del suo sistema filosofico, sul suo tentativo di leggere tutta la storia come autosviluppo del soggetto assoluto, ci sarebbe sicuramente molto da obiettare. Ma dal momento che qui 101 fRaNCeSCO SaNTONI non ci occupiamo né di storia né di filosofia della storia, bensì di fisica, allora ci concentreremo sulla filosofia della natura, indicheremo dove e come in essa il circolo si interrompa, e come ciò vada a riprova di quella concezione realistica esposta più sopra che anche così si dimostrerà non essere ingenua. Il movimento dell’autocoscienza del soggetto assoluto si compie nel cammino dell’umanità fino alla piena coscienza di sé. Il movimento dell’autocoscienza comporta che il soggetto assoluto si faccia oggetto a sé stesso, ponendosi dunque fuori di sé. Il mondo è lo spirito nella forma dell’esteriorità. La natura è la soggettività posta in forma oggettiva. La natura non è il soggetto, non è autocosciente, ma è necessariamente tanto il prodotto quanto il presupposto della realizzazione del soggetto assoluto, che nella natura appare nella forma dell’oggettività. Ogni aspetto della natura dovrà essere riconosciuto a priori come prodotto del movimento dell’autocoscienza. Diamone subito, semplificando, un’illustrazione, con la quale siamo subito riportati alla fisica; infatti la Filosofia della Natura, dopo una breve premessa, parte subito con la trattazione dei concetti fondamentali della fisica. Hegel titola la prima sezione “meccanica”, ma oggi per noi essa è fisica a tutti gli effetti. Il soggetto assoluto è vita immanente a sé ed è riflessione in sé mediante l’altro da sé, e allo stesso modo la gravità è ciò che porta all’unità la molteplicità dei corpi mantenendoli perennemente in movimento intorno ad un centro; così è spiegata l’origine della gravità.15 Tali corrispondenze non sono per Hegel solamente evocative, delle semplici metafore, bensì sono le autentiche dimostrazioni a priori della verità dei principi della fisica, Cfr. heGel, Enciclopedia, Filosofia della natura, § 269: «La gravitazione è il concetto vero e determinato della corporeità materiale, che è realizzato come idea. La corporeità universale si scinde essenzialmente in corpi particolari e si conclude a momento della singolarità o soggettività, come esistenza manifestantesi nel movimento, che attraverso questo processo è immediatamente un sistema di parecchi corpi. [...] Nel sillogismo che contiene l’idea della gravità – e cioè come il concetto che attraverso la particolarità dei corpi si dischiude nella realtà esterna e, al tempo stesso, nella loro idealità e riflessione-in-sé, nel movimento, si mostra come concluso con se stesso è contenuta l’identità e inscindibilità razionale dei momenti, che altrimenti vengono rappresentati come indipendenti. Il movimento come tale ha in generale un senso ed esistenza soltanto nel sistema di parecchi corpi e, precisamente, di parecchi corpi che sono in rapporto l’uno con l’altro secondo una diversa determinazione. [...] Il sistema solare è anzitutto una molteplicità di corpi indipendenti che si riferiscono essenzialmente l’uno all’altro. [...] Manifestano la loro unità con il centro in quanto si muovono nella stessa curva intorno ad esso. Come indipendenti rispetto al corpo centrale si trattengono però anche nel loro luogo e non cadono più su di esso». 15 102 v. l’OGGeTTO della fISICa COme CaUSa fORmale che la fisica, da sé, non può invece dimostrare, ma solo assumere e constatare come fatto. 3.3 I fondamenti della fisica nella Filosofia della Natura di Hegel La dottrina secondo cui si potrebbe dedurre il mondo dalla pura forma della soggettività, una forma che sviluppa interamente da sé il proprio contenuto identificandosi con esso al termine del processo, è una concezione che Hegel mutua direttamente dai suoi due illustri predecessori filosofici, Fichte e Schelling. Tutto parte da Fichte, che già aveva posto come principio supremo l’Io che pone il Non-Io nell’Io stesso, posizione da cui si innesca un movimento necessario che conduce fino alla realizzazione della coscienza oggettiva, e dunque di un mondo oggettivo che per l’Io è condizione del suo realizzarsi come libertà.16 Fichte però si ferma qui, non procede concretamente nella deduzione del mondo dalla forma della soggettività, ed infatti Hegel accuserà la filosofia di Fichte di essere un vuoto soggettivismo.17 Schelling accetta il principio di Fichte, ma comprende la necessità di dover dedurre da esso la natura. Nel Sistema dell’idealismo trascendentale tenterà proprio questa deduzione, con argomentazioni sul genere della seguente: poiché l’Io pone il Non-Io nell’Io, nell’Io c’è uno sdoppiamento immanente all’unità, dunque una polarità, e a tale polarità corrisponde in natura lo schema del magnetismo. Quando poi si giunge alla realizzazione della coscienza oggettiva, alla separazione tra soggetto e oggetto, a questo sdoppiamento dell’unità corrisponde in natura lo schema dell’elettricità, con la carica positiva e negativa.18 Chiaramente queste deduzioni 16 J.G. fIChTe, Dottrina della scienza, a cura di F. Costa, Laterza, Roma-Bari 1987. Cfr. lUIGI paReySON, Fichte. Il sistema della libertà, a cura di C. Ciancio, Mursia, Milano 1976. 17 Cfr. heGel, Fenomenologia dello Spirito, [104]: «In quanto autocoscienza essa è movimento. Quando però differenzia da sé soltanto se stessa in quanto se stessa, ecco che ai suoi occhi è immediatamente rimossa la differenza come essere-altro; in tal luogo la differenza non è, e l’autocoscienza è solo l’immobile tautologia: Io sono Io». f.w. SChellING, Sistema dell’idealismo trascendentale, a cura di G. Boffi, Bompiani, Milano 2006. La deduzione sopra richiamata è presentata nel capitolo sulla teoria dell’intuizione produttiva, in cui Schelling, muovendo dall’opposizione interna alla soggettività assoluta (l’Io che pone in sé il Non-Io), deduce dapprima l’intuizione produttiva, ovvero la posizione del mondo dato nell’esperienza obiettiva come produzione inconscia dell’Io, proseguendo poi nella deduzione della materia ed infine delle forze. Benché l’intera trattazione sia ben più articolata rispetto alla succinta sintesi qui esposta, lo schema generale dell’impianto argomentativo è sostanzialmente quello richiamato, in cui ogni passaggio si regge sempre sull’opposizione originaria nell’Io. 18 103 fRaNCeSCO SaNTONI non stanno in piedi, sono fantasie escogitate in funzione del risultato cercato; ad esempio, parlare genericamente di polarità è solo una vuota astrazione, mentre il magnetismo ha un contenuto concreto del tutto indeducibile dal generico concetto di polarità. Hegel, da parte sua, paragonerà Schelling ad un pittore con solamente due colori a disposizione, ed affermerà che seguirne le argomentazioni è come assistere ad un gioco di prestigio di cui si conosce il trucco.19 Va certamente riconosciuto che il sistema hegeliano, con la sua deduzione della filosofia della natura, è più sofisticato di quello di Schelling; nondimeno, ed è ciò che intendiamo mostrare, cade in errori simili, e se le sue tesi vengono confrontate con i risultati della fisica, sorgono due distinti ordini di problemi: o i principi della natura che Hegel deduce a priori si rivelano delle vuote astrazioni, troppo povere rispetto ai contenuti concreti delle teorie fisiche che dovrebbero fondare; oppure, quando ritiene di aver dedotto a priori un qualche contenuto concreto, il risultato che ottiene è errato, ossia in contrasto con i contenuti della fisica. Vediamo ad esempio, in modo molto rapido, come Hegel deduce i concetti di spazio, tempo, movimento, materia e corpo.20 Tutto viene dedotto dalla forma della soggettività, che Hegel descrive come unità negativa,21 la riflessione in sé mediante la negazione dell’esser altro, l’essere uno dell’essere in sé e dell’essere per altro. Ovvero: l’autocoscienza si costituisce solo in rapporto all’altro, dunque mediante la negazione di sé, e al termine del proprio sviluppo riconosce sé stessa nell’altro e l’altro come sé stessa, negando dunque la prima negazione e ritornando all’unità. Questo è lo schema dell’intero processo, ed è quello che Hegel altrove chiama la potenza del negativo.22 Poiché la natura è l’idea fuori di sé, l’idea che si pone come altro oggettivo, la prima forma che compare in natura è dunque la forma dell’estrinsecità in quanto tale, ossia lo spazio, che consiste nell’estrinsecità ed indifferenza reciproca delle sue varie parti. Il punto, in quanto determinazione dello spazio, è a sua volta negazione di quell’indifferenza. Ma tanto lo spazio quanto le sue determinazioni sono la negatività meramente posta, mentre la ne19 Cfr. heGel, Fenomenologia dello Spirito, [37]. 20 heGel, Enciclopedia, §§ 254-264. Cfr. G.w.f. heGel, Scienza della logica, a cura di L. Lugarini, Laterza, Roma-Bari 1974, vol. I, l. I, sez. I, c. II: L’esser determinato. 21 22 Cfr. heGel, Fenomenologia dello Spirito, [27]. 104 v. l’OGGeTTO della fISICa COme CaUSa fORmale gatività per sé, la negazione come atto, in natura è la forma del tempo, per il quale è posta una determinazione, che poi viene negata ponendo una nuova determinazione, che a sua volta verrà negata e superata, ecc. L’unità dell’indifferenza reciproca e del superarsi dell’una nell’altra delle determinazioni, è la materia quale sostrato dei contrari. L’unità della materia e della determinazione spaziale è il corpo. A questo punto Hegel ha in mano i concetti fondamentali della meccanica, che sono stati dedotti a priori. Andiamo ora ad individuare quei due distinti ordini di criticità di cui parlavamo. Qui si vede subito un esempio del primo tipo di criticità del sistema hegeliano: la vuota astrazione dei concetti appena ottenuti. Infatti, ad esempio, lo spazio è molto di più che la mera forma dell’estrinsecità. Non si vede come i principi dedotti nella filosofia della natura possano fondare le diverse discipline scientifiche che si occupano dello spazio, sia esso lo spazio geometrico astratto o lo spazio fisico. Da taluni interpreti Hegel è stato salutato come precursore della teoria della relatività generale,23 avendo egli trovato come i concetti di spazio, tempo, movimento e materia sono strettamente interconnessi e non definibili separatamente. Ma in realtà, da un lato, le considerazioni che condussero Albert Einstein alla formulazione della teoria della relatività – illustrate più oltre – non hanno niente a che fare con l’argomentazione hegeliana, e dall’altro lato, dai postulati formali della relatività formulati da Einstein si possono dedurre sia una teoria che fa previsioni sul comportamento di sistemi fisici reali, sia alcune proprietà concrete della natura dello spazio, del tempo, del movimento e della materia, che sono indeducibili dalla formulazione hegeliana. Veniamo al secondo tipo di criticità, ossia l’errata determinazione dei contenuti concreti quando si tenta di dedurli a priori. Ciò è ben esemplificato dal tentativo hegeliano di deduzione della legge della caduta dei gravi come moto uniformemente accelerato, in cui gli spazi percorsi stanno tra loro come i quadrati dei rispettivi tempi.24 La dimostrazione hegeliana procede così: il tempo è la negazione per sé, e quando è posto quantitativamente è la misura del moto. Il movimento è una determinazione spaziale (dunque una negazione, in quanto omnis determinatio est negatio)25 che esce da sé stessa (negazione della negazione) 23 Cfr. höSle, Il sistema di Hegel, 361-373. 24 heGel, Enciclopedia, § 267. 25 Cfr. heGel, Scienza della logica, 108. 105 fRaNCeSCO SaNTONI verso una nuova determinazione. Poiché la caduta è un moto libero in cui non intervengono altri fattori esterni, nel moto di caduta lo spazio è misurato da quella doppia negazione, ossia dal quadrato del tempo. Questa è la dimostrazione hegeliana, a priori, della legge della caduta dei gravi. Il problema sta innanzitutto nel fatto che i concetti vengono chiaramente definiti e manipolati in funzione del risultato che si vuole ottenere.26 Ma se anche volessimo prendere sul serio questa dimostrazione a priori prodotta da Hegel, allora avremmo la prova che il suo metodo porta a risultati errati; infatti sappiamo, come ci insegna Newton, che nel moto di caduta l’accelerazione non è costante, bensì inversamente proporzionale al quadrato della distanza dal centro di gravità, e che essa è costante solo approssimativamente per brevi distanze. La dimostrazione a priori che muove dall’idea assoluta avrebbe dovuto cogliere questa verità, se il sistema hegeliano fosse davvero perfettamente fondato. Ma le maggiori criticità si ritrovano quando Hegel perviene a trattare la gravitazione e le orbite dei pianeti.27 Analogamente a quanto già fatto per il moto di caduta, Hegel propone qui un’oscura dimostrazione – sulla quale non ci soffermiamo – mediante la quale dichiara di dedurre a priori le leggi di Keplero, dalle quali si potrebbe poi ricavare la gravitazione universale di Newton, invertendo così l’approccio della fisica che invece deduce le leggi di Keplero dalla gravitazione universale. Un primo problema è che le leggi di Keplero in realtà sono valide se si considera soltanto l’attrazione gravitazionale tra i pianeti ed il sole, ma se si introduce anche l’attrazione reciproca tra i vari pianeti, allora le leggi di Keplero, benché restino approssimativamente valide, a rigore non lo sono più. Hegel riconosce su questo punto il merito di Newton di aver introdotto le perturbazioni delle orbite, ma allora avrebbe dovuto anche 26 Ad esempio, perché fermarsi a due negazioni? Si provi a proseguire liberamente la speculazione: la caduta è un moto verso un centro, il quale è altro dal corpo che si muove – terza negazione – e lo riporta all’unità con il centro – negazione della terza negazione, quarta negazione. Dunque, se sperimentalmente il moto di caduta fosse risultato inversamente proporzionale alla quarta potenza del tempo, si sarebbe comunque trovato il modo di dedurlo a priori. Non si vede inoltre quale sia il nesso logico che lega la reiterazione della negazione all’operazione matematica di elevamento a potenza. 27 heGel, Enciclopedia, §§ 269-271. 106 v. l’OGGeTTO della fISICa COme CaUSa fORmale riconoscere che non possono essere le leggi di Keplero il concetto vero da cui dedurre la gravitazione universale, e che quest’ultima sia invece il vero concetto. Se la gravitazione universale prevede diversi tipi di orbite, e non solo quelle ellittiche, ciò implica la necessità di riconoscerla come schema più generale che comprende sotto di sé le leggi di Keplero. Hegel difende il proprio approccio sostenendo che mediante esso le leggi di Keplero verrebbero dedotte a priori, mentre la gravitazione universale, come è noto, predice delle orbite sia chiuse che aperte, a seconda delle condizioni iniziali delle equazioni differenziali, legando la deduzione delle leggi di Keplero ad un dato empirico contingente, e dunque non a priori. Andiamo allora a mostrare come questa impostazione rifletta un’ambiguità di fondo del sistema hegeliano riguardo la contingenza. Da un lato, essendo la natura l’idea fuori di sé, dunque la contraddizione dell’idea, si manifesterebbe allora nella natura la contraddizione tra la necessità razionale e la contingenza delle sue infinite realizzazioni e particolarizzazioni.28 La contingenza sarebbe quindi prevista nel sistema di Hegel.29 Tuttavia, la famosa risposta di Hegel al professor Krug, che gli chiedeva provocatoriamente di dedurre a priori la propria penna, sembra suggerire come secondo Hegel tutto potesse e dovesse esser deducibile a priori, senza alcuna contingenza. Hegel infatti rispose con sarcasmo dicendo che avrebbe onorato Krug con la deduzione della sua penna, ma solo dopo aver terminato di dedurre le cose importanti.30 Non sembra coerente considerare questa risposta una semplice battuta, dal momento che Hegel rifiuta la dimostrazione delle leggi di Keplero dalla gravitazione universale, proprio in quanto in questa dimostrazione resterebbe un residuo di contingenza che Hegel rigetta in favore della sua dimostrazione a priori. Infatti in un sistema in cui si è preteso di aver dimostrato la necessità della contingenza non dovrebbe esserci motivo per non ammettere l’approccio newtoniano, dipendente dalla contingenza del dato. Il difetto della posizione hegeliana nasce in realtà proprio da un’incoerenza di fondo nell’inquadramento della contingenza nel sistema, laddove Hegel scrive31 che è sì possibile ritrovare le tracce della determinazione ideale sin nei minimi dettagli della natura, ma al tempo stesso non si deve pensare che 28 Ibidem, §§ 247-248. Cfr. heGel, Scienza della logica, vol. I, l. II, sez. III, c. II: La realtà. Nella categoria logica della realtà Hegel discute in maggior dettaglio la necessità della contingenza. 29 30 Cfr. heGel, Enciclopedia, § 250. 31 Ibidem. 107 fRaNCeSCO SaNTONI la realtà di tutti i dettagli si esaurisca in tale determinazione. Ma allora ne dobbiamo dedurre che la natura non possa essere riportata all’attività immanente del soggetto assoluto – il circolo non si chiude – e che conservi invece un’oggettività irriducibile. Se anche si fosse disposti ad ammettere che la contingenza in quanto tale nel sistema hegeliano risulti fondata, il contenuto di questa contingenza resterebbe comunque indeducibile a priori, e conseguentemente la pretesa di voler fondare a priori ogni sapere scientifico-naturale sull’automovimento dell’idea assoluta resta ingiustificata. Che la forza di gravità sia inversamente proporzionale proprio al quadrato della distanza, è un fatto contingente, un fatto trovato. È un fatto trovato che la stessa relazione alla distanza valga anche per la forza elettrostatica. È un fatto trovato (per citare esempi meno elementari) che l’elettromagnetismo sia descrivibile mediante un gruppo di simmetria abeliano, mentre le forze nucleari da gruppi di simmetria non abeliani. È un fatto trovato quali siano le proprietà geometriche dello spazio reale in rapporto alla materia e all’energia presenti. Ma Hegel non potrebbe ammettere tutto ciò come fatto nel suo sistema. Ammettere nel sistema l’indeducibilità a priori del contingente concreto significa ammettere che la natura ha una sua oggettività irriducibile al soggetto, significa riprodurre una scissione inconciliabile tra soggetto e oggetto, che invece è pretesa essere riconciliata e superata nel sistema idealistico. Ecco allora che appare con chiarezza come l’approccio idealistico non riesca davvero a comprendere e fondare il procedere del sapere scientifico, il quale invece muove da quel realismo ingenuo che, anche per contrasto con le vuote pretese dell’idealismo, dà prova di non essere davvero ingenuo, bensì critico. Approccio realistico che è suggestivamente descritto da una metafora attribuita a Newton: «Non so come io possa apparire al mondo, ma a me stesso sembra di essere stato solo come un ragazzo che gioca sulla riva del mare e si diverte a trovare di tanto in tanto un sassolino più levigato o una conchiglia più graziosa del solito, mentre il grande oceano della verità si stende del tutto inesplorato davanti a me».32 Scriveva Stanley Jaki: «Può darsi che Copernico, Galileo e Newton siano stati sfortunati a nascere prima di Hegel, ma il fatto storico è che compiendo le loro scoperte non 32 Parole che sarebbero state pronunciate da Newton poco tempo prima della sua morte, come riportato da John Conduitt, amico di Newton e marito di sua nipote Catherine Barton. La citazione si trova in un manoscritto autografo dello stesso Conduitt, presente nella collezione di manoscritti newtoniani di Portsmouth conservata a Cambridge, e per la prima volta pubblicato in e. TURNOR, Collections for the History of the Town and Soke of Grantham: Containing Authentic Memoirs of Sir Isaac Newton, William Miller, Londra 1806, 172. 108 v. l’OGGeTTO della fISICa COme CaUSa fORmale vedevano nella nuova legalità della natura che si manifestava le tracce delle proprie menti ma i segni di quella del Creatore; per loro il mondo era un’entità oggettiva, avrebbero provato solo sdegno per l’interpretazione hegeliana che vedeva nelle loro imprese il trionfo dell’autorità indipendente della Soggettività».33 3.4 L’empirismo Per quanto riguarda l’approccio empiristico, si è scelto di analizzare le idee di Ernst Mach, fisico-filosofo che ha dato contributi importanti alla fisica, liberandola da alcuni concetti mal fondati e riportandola sulla giusta carreggiata; ma il cui approccio empiristico mantiene evidenti limiti quando si tratta di fondare una teoria e di formulare leggi fisiche. Uno dei principali meriti di Mach è sicuramente la sua revisione critica della meccanica newtoniana,34 che egli libera da alcuni concetti mal formulati e da quelle che chiama oscurità metafisiche, quali i concetti di tempo e spazio assoluti. La sua critica è interamente basata sulla premessa di non dover introdurre nella teoria alcun concetto che non abbia un solido riferimento empirico. Ad esempio trova insensata la definizione newtoniana della massa come quantità di materia. Una tale definizione ha infatti senso solo se si considera un corpo omogeneo, per il quale si può stabilire una relazione di diretta proporzionalità tra la sua estensione geometrica e la sua massa. Ma per i corpi non omogenei la definizione è inutilizzabile. Per introdurre il concetto di massa si deve tener conto che fenomenologicamente essa appare come resistenza dei corpi allo spostamento. Si può allora considerare un corpo A che urta a velocità fissata contro un corpo B inizialmente fermo e che dopo l’urto acquisisca una certa velocità; e considerare poi un corpo C che subendo il medesimo urto da parte di A, acquisisca una velocità pari alla metà di quella di B. Allora possiamo attribuire al corpo C una massa doppia rispetto a quella di B . Scegliendo un corpo come riferimento di massa, potremmo determinare la massa di tutti gli altri corpi con esperimenti di questo genere o analoghi. Ma non c’è modo di sapere che ogni corpo sia caratterizzato da un solo parametro di massa. Potrebbe magari darsi il caso di un corpo A che abbia una certa massa in rapporto ad un insieme di corpi B1, B2, B3, etc., e che abbia una massa diversa in rapporto ad un diverso insieme di corpi C1, C2, C3, ecc. Che ad ogni corpo si possa attribuire un’unica massa è niente più che un 33 S.l. JaKI, La strada della scienza e le vie verso Dio, Jaca Book, Milano 1988, 209. 34 e. maCh, La meccanica nel suo sviluppo storico critico, Bollati Boringhieri, Torino 1977. 109 fRaNCeSCO SaNTONI dato di fatto verificato in tutti i numerosi esperimenti di meccanica succedutisi nei secoli. Tale critica di Mach al concetto newtoniano di massa è oggi universalmente accettata. La critica più significativa è però sicuramente quella applicata ai sistemi di riferimento inerziali. Un sistema di riferimento è detto inerziale se rispetto ad esso un corpo non soggetto a forze persevera in uno stato di quiete o di moto rettilineo uniforme; e sono inerziali anche tutti gli altri sistemi di riferimento che si muovono di moto rettilineo uniforme rispetto ad un sistema inerziale dato. Tutte le leggi della dinamica, le quali definiscono quali sono le forze presenti in natura, e le loro conseguenze ricavate da Newton sono valide nei sistemi di riferimento inerziali. Mach fa però notare che non è possibile fissare a priori un sistema di riferimento inerziale, perché solo l’osservazione ci permette di stabilire se un certo sistema di riferimento sia inerziale o meno, e tale osservazione consiste nella verifica sperimentale delle leggi della dinamica e delle loro conseguenze, le quali però, per l’appunto, sono valide, e perciò verificabili, solo se il sistema di riferimento scelto è inerziale. Dunque la scelta del sistema di riferimento e la forma delle leggi della dinamica sono tra loro inscindibili, e risultano dalla somma e dalla generalizzazione coerente di fatti sperimentali. Si abbandonino dunque, richiede Mach, tutte le oscurità metafisiche introdotte da Newton su spazio e tempo assoluti, e sui sistemi di riferimento privilegiati, e ci si limiti a sperimentare e a generalizzare dai dati. Nella sua critica tanto al concetto di massa quanto alla definizione dei sistemi inerziali, l’approccio di Mach è coerente con il realismo fenomenologico introdotto in Sezione 2, per il quale ogni concetto scientifico deve essere fondato sul dato dell’esperienza originaria nei limiti in cui si dà, e senza introdurre alcun concetto che non derivi coerentemente da essa. Il limite di Mach tuttavia sta nella sua riduzione dell’esperienza ai soli dati sensibili, non cogliendone adeguatamente la struttura originariamente induttiva, per la quale il dato si presenta sempre già nell’ambito di una serie di circostanze e di rapporti che seguono schemi generali; non si ha mai il dato singolo senza una struttura di senso che lo accompagni. L’analisi di Mach dei sistemi inerziali, terminante nella raccomandazione di limitarsi a sperimentare e a generalizzare dai dati sperimentali, non sarebbe stata particolarmente feconda se non fosse arrivato Einstein ad introdurre un postulato formale non dedotto dai dati empirici. 110 v. l’OGGeTTO della fISICa COme CaUSa fORmale 111 fRaNCeSCO SaNTONI 112 v. l’OGGeTTO della fISICa COme CaUSa fORmale 113 fRaNCeSCO SaNTONI 114 v. l’OGGeTTO della fISICa COme CaUSa fORmale 115 fRaNCeSCO SaNTONI 116 vI. la qUeSTIONe della veRITà IN pROSpeTTIva TeOlOGICa Giuseppe Tanzella-Nitti 1. INTROdUzIONe: paRlaRe della veRITà COme COmpITO ImpOSSIBIle e NeCeSSaRIO Indipendentemente dalle prospettive filosofiche o esistenziali che ciascuno di noi coltiva, tutti possiamo ragionevolmente condividere l’affermazione con cui Vittorio Possenti iniziava la voce Verità pubblicata più di 20 anni or sono sul Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede: «La questione centrale per la scienza, la filosofia e la teologia è quella della verità. In questi tre grandi ambiti della conoscenza umana essa viene incessantemente cercata, sia pure attraverso metodi e strade diverse, e ciò stabilisce il loro compito infinito».1 L’aggettivo “infinito” è qui pertinente perché inquadra subito il tema della verità come un tema aperto, in certo modo mai concluso, non confinabile entro concetti e schemi limitati. Al tempo stesso, la ricerca della verità viene qui indicata come questione sensata, capace di orientare la conoscenza e i comportamenti, determinare il soggetto verso scelte precise, sia in ambito scientifico che esistenziale. Parlare della verità è insieme difficile e necessario, faticoso e doveroso, disagevole e imprescindibile. Si ha come l’impressione di muoversi lungo due linee di forza contrastanti: da una parte la necessità di poggiare su conoscenze irreformabili, che fondino giudizi capaci di far progredire la conoscenza e rendere la società vivibile; dall’altra occorre fare i conti con la libertà e con la storia, con gli errori e con la novità imprevedibile. Questo fa sì che la verità si presenti come compito non solo infinito, ma anche difficile. Perché lo si possa affrontare, ritengo si debba subito indicare che esiste soltanto un terreno ove la partita può essere giocata e la sfida di comporre le forze contrastanti prima menzionate venire raccolta. Questo terreno si chiama realismo. Mi riferisco alla condivisione di una prospettiva filosofica realista come fondamento V. pOSSeNTI, Verità, in G. TaNzella-NITTI, a. STRUmIa (edd.), Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, II, Urbaniana University Press - Città Nuova, Roma 2002, 1502-1518, qui 1502. 1 117 GIUSeppe TaNzella-NITTI ultimo della conoscenza. È quanto lo stesso Possenti, nel prosieguo della frase prima citata, indicava: «Nessuna delle tre [scienza, filosofia e teologia] raggiungerà la verità tutta intera, possiamo però sperare in un avvicinamento progressivo a essa. Scienziati, filosofi e teologi di orientamento realistico procedono nel complesso affiancati, poiché riconoscono un impegno comune: ritengono che vi sia una verità da trovare o a cui avvicinarsi, in un incontro velato e difficile ma in linea di principio possibile».2 Fatte queste premesse, qualcuno potrebbe chiedersi: cosa avrebbe la teologia da aggiungere alla ricerca di una verità che parta dal reale e come potrebbe lecitamente scendere in campo, insieme con altre discipline, per giocare la medesima partita? I due aggettivi sottolineati in precedenza, “infinito” e “difficile”, sembrerebbero infatti poco idonei, almeno a prima vista, ad un discorso teologico sulla verità, specie ricordando quanto san Paolo scriveva a Timoteo: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). La salvezza è questione troppo importante e delicata per essere affidata a un compito che si presenta come infinito e difficile. Eppure la teologia – mi riferisco qui alla riflessione teologica sviluppata a partire dalla Rivelazione ebraico-cristiana – parla di verità con termini chiari e decisi, facendo quasi pensare che le tensioni prima indicate fra verità e storia, o fra verità e libertà, non la tocchino da vicino. Estendere un’analisi interdisciplinare, come quella che qui ci occupa, fino alla teologia, vuol dire chiarire se, e in che modo, la riflessione teologica abbia qualcosa da dire sulla verità visto che le altre discipline la considerano, almeno in linea di principio e sotto certi aspetti, meta di un cammino lungo, quasi infinito, e difficile. Potrebbe bastare, alla teologia, parlare della verità solo come una direzione da seguire o un lungo itinerario da percorrere, senza presentarla anche, e forse soprattutto, come una meta raggiunta e da possedere, come un fondamento sicuro sul quale edificare? Chi voglia invitare la teologia a un tavolo di dibattito con le scienze e la filosofia sul tema della verità dovrà, prima o poi, rispondere a questa domanda. È quanto cercherò di fare anch’io in questo intervento per poi chiedermi, come vedremo più avanti, se la teologia, dopo aver giustificato la sua presenza al tavolo del dibattito, possa andare anche più in là, fornendo ad esempio degli elementi, forse delle luci, per chiarire un approccio interdisciplinare fecondo per l’intera questione. Non vi sono dubbi che la teologia cristiana, in quanto discorso su Dio, abbia a che fare con la verità. Aprendo la sacra Scrittura vi troviamo la 2 Ibidem. 118 vI. la qUeSTIONe della veRITà IN pROSpeTTIva TeOlOGICa chiara affermazione che “Dio è Verità” (cfr. 2Sam 7,28; Rm 1,25; 1Gv 4,6), dalla quale derivano molteplici conseguenze. Nella storia della salvezza, il Dio di Israele viene invocato come Dio vivo e vero (cfr. 1Ts 1,9), un Dio che si distingue dagli idoli proprio perché vero, mentre questi ultimi sono falsi dèi (cfr. Bar 6,45-56; Sal 106,37; Ab 2,18; 1Gv 5,21). Nel Nuovo Testamento, Gesù di Nazaret si auto-rivela come Figlio inviato nel mondo dal Padre, e attribuisce alla sua persona la prerogativa di essere Egli stesso via, verità e vita (cfr. Gv 14,6). Lo Spirito Santo, inviato nel mondo dal Padre e dal Figlio, viene invocato come Spirito di verità e di Lui si afferma che condurrà lungo la storia alla verità tutta intera (cfr. Gv 16,13). Significativi i rapporti con la libertà: Gesù di Nazaret dichiara che è la verità a renderci liberi (cfr. Gv 8,32) e san Paolo sostiene più volte nelle sue lettere la convergenza fra Spirito e libertà; lo Spirito Santo, spirito di verità, è anche e indissociabilmente spirito di libertà, anzi dove c’è lo Spirito c’è la libertà (cfr. 2Cor 3,17). La vita cristiana è, nella sua essenza, vivere nella verità. Chi ama Dio e ne segue gli insegnamenti, rimane nella verità (cfr. 2Gv 1,2). In sostanza, parlare della verità è parlare di Dio. Non sorprende allora che, nello sviluppo storico del pensiero occidentale, debitore non solo alla cultura greca ma anche alla tradizione ebraico-cristiana, il tema della verità sia stato spesso legato al tema di Dio. Così alla verità, anche in sede di filosofia classica, soprattutto con Platone, vengono associati gli attributi dell’Assoluto (eternità, immutabilità, trascendenza, ecc.), e dunque gli stessi attributi di Dio. Affermare la verità o negare la verità equivale, pertanto, ad affermare o negare Dio. Questa associazione fra Dio e verità risalta in modo esplicito, ma anche piuttosto drammatico, nella seconda modernità, in particolare con Friedrich Nietzsche e Jean-Paul Sartre. Per negare Dio, occorre presentare la verità come qualcosa di apparente, convenzione, sovrastruttura senza fondamento: Cosa è la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non come monete.3 F. NIeTzSChe, Su verità e menzogna in senso extramorale (1873), in Opere, vol. III: La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti 1870-1873, Adelphi, Milano 1973, 353-372, qui 361. 3 119 GIUSeppe TaNzella-NITTI L’intreccio Dio-Verità-Libertà assume, prima nel materialismo e poi nell’esistenzialismo ateo, toni dialettici e radicali: affinché l’uomo sia qualcosa, Dio non deve essere nulla; per affermare l’uomo occorre negare Dio; se Dio esiste, allora l’essere umano non è libero. La verità, ovunque e in qualsiasi modo se ne parli, rimanda implicitamente a Dio. Nietzsche stesso ne è convinto e ritiene che perfino la scienza, continuando a parlarne, tenga viva, in modo quasi inconsapevole, la domanda su Dio: «La nostra fede nella scienza poggia sempre su una fede metafisica; anche noi, attuali ricercatori della conoscenza, noi senza Dio e antimetafisici, riceviamo tuttora il nostro fuoco dal braciere che una fede millenaria ha acceso ed alimentato, quella della fede cristiana condivisa anche da Platone, secondo la quale Dio è verità e la verità è divina».4 La prospettiva relativista contemporanea, specie nelle sue risonanze di ambito etico e morale, si colloca sulla scia di questa medesima associazione: affermare l’esistenza di Dio, e dunque di una verità in qualche modo normativa, è ritenuto fonte di un assolutismo che minerebbe il legittimo pluralismo di opinioni e l’esercizio delle libertà individuali. Sebbene ci separino oltre duemila anni dai grandi maestri della filosofia greca, non va dimenticato che il dibattito sulla verità era già al centro della disputa fra Socrate e Platone da una parte, e i Sofisti dall’altra. I primi manifestavano la fiducia di poter conoscere la verità e ritenevano che la dignità dell’essere umano, in certo modo la sua unicità nel panorama dei viventi, consistesse proprio nel cercarla, impegnandovi anche l’intera esistenza, se necessario; i secondi, invece, la svuotavano di significato, affermando che è l’uomo a creare autonomamente i criteri del proprio vivere e operare, senza doversi confrontare con alcuna verità assoluta. Per i primi il Bene, l’Uno, il Logos, indicano la strada da seguire, su un piano che trascende la materialità e la finitezza della vita umana; per i secondi, tutto è cangiante ed è disponibile a seguire quanto dettato dalla politica, dall’opportunità o dalle circostanze, non essendovi alcun altro piano di giudizio oltre l’orizzonte della propria immanenza. Se ci rivolgiamo alle visioni socio-culturali oggi dominanti, l’associazione Dio-Verità-Assoluto che il discorso teologico pare inevitabilmente recare con sé viene accolta con perplessità e percepita come possibile fonte di limitazione, quando non di intolleranza. L’affermazione di una verità fondata su un Assoluto filosofico o teologico (ab-solutum, F. NIeTzSChe, La gaia scienza, lib. V, n. 344, tr. it. La gaia scienza, Idilli di Messina e Frammenti postumi 1881-1882, Adelphi, Milano 1991, 243. 4 120 vI. la qUeSTIONe della veRITà IN pROSpeTTIva TeOlOGICa cioè incondizionato in Sé perché fonte di legami normativi verso altri) sembrerebbe condurre a molteplici fastidiose conseguenze. Fra queste: frenare le legittime esigenze di progresso; obbligare l’emergenza e la creatività suscitate dalla fenomenologia dell’esistenza a rientrare entro schemi stabiliti a priori; ostacolare ogni cambiamento storico circa i modi di vivere e di pensare; non garantire le condizioni della libertà umana e dell’espressione democratica; giudicare con sospetto ogni mutamento originato dal corso della storia. La Rivelazione ebraico-cristiana e la teologia che ne interpreta il contenuto sarebbero caratterizzate da una posizione che, con espressione sintetica a tutti familiare, potremmo chiamare conservatrice. Una teologia interessata ad entrare con pertinenza in un dibattito sulla verità dovrebbe mostrare di sapersi smarcare da queste visioni, o almeno chiarire i malintesi e le imprecisioni che esse sottendono. È questo il compito che mi propongo di svolgere in questo intervento, organizzandolo attorno a due questioni principali: a) quale concezione la teologia cristiana abbia della verità e come tale concezione vada rettamente compresa, al di là di luoghi comuni, false immagini o sofismi; b) quale contributo una riflessione teologica sulla verità possa fornire per illuminare alcune questioni che coinvolgono anche la filosofia e le scienze, in particolare i rapporti fra: • verità e realtà • verità e storia • verità e libertà. A questi tre rapporti sono dedicate tre specifiche sezioni di questo articolo (nn. 4, 5, 6), precedute da due brevi sezioni, una epistemologica e una teologica (nn. 2 e 3), sul modo di comprendere, appunto, la verità. 2. I mOlTI mOdI dI dIRe (e dI COmpReNdeRe) la veRITà La nozione di verità è chiaramente polisemica e diversi sono stati i modi di intenderla nelle diverse culture, le cui tracce sono giunte fino a noi nell’epoca contemporanea. È ben noto, ad esempio, come la cultura greca abbia consegnato un’idea della verità fondata sulla visione e sullo svelamento (a-letheia), mentre quella ebraica abbia sottolineato la verità conosciuta mediante l’ascolto. La logica, da Aristotele fino ai nostri giorni, giunge alla verità attraverso le dimostrazioni formali, siano esse 121 GIUSeppe TaNzella-NITTI affidate a proposizioni o a computazioni, mentre le filosofie personaliste e quelle dell’esistenza privilegiano il valore della testimonianza interpersonale e della tradizione. Possiamo tuttavia accorpare attorno a due ambiti principali i diversi significati che la nozione di verità assume. (i) Possiamo parlare della verità in senso logico, basandoci sulla correttezza formale, sull’esattezza, la non contraddizione, ecc. Ciò presuppone una forma logica del ragionamento riconosciuta come normativa. È in tal senso che parliamo di “verità di ragione”. (ii) Possiamo parlare della verità anche in senso ontologico, riferendoci a ciò che è, diversamente da ciò che non è. Ciò presuppone un’idea non fallace di realtà e una visione non ingannevole della cognizione umana. Parliamo in tal senso di “verità di fatto”. Alla “verità ontologica” si accede attraverso una verità epistemologica: abbiamo cioè bisogno di una teoria della conoscenza mediante la quale interpretare la realtà. Questa può essere assai semplice, come la convinzione che ciò che i nostri sensi ci presentano della realtà sia qualcosa che davvero esista; oppure assai complessa, come sono le teorie scientifiche, che generano categorie conoscitive entro le quali possiamo operare verifiche e giudizi di coerenza. Sono delle visioni epistemologiche a consentirci, seppure con alcuni limiti, di accedere a verità ontologiche: la metafisica dell’essere in filosofia, l’ontologia trinitaria relazionale in teologia, la Quantum Field Theory in fisica, la Extended Synthesis in biologia evolutiva; e molte altre ancora. Il modo di operare della teologia è in certo modo analogo a quello delle altre discipline: la dimensione logica nel lavoro conoscitivo del teologo è quella del giudizio razionale, raggiungibile mediante diversi itinerari (sillogismo, testimonianza, ecc.), mentre la dimensione ontologica si basa sul fondamento stesso dell’essere e ciò a cui l’essere rimanda, che per la teologia, in ultima analisi, altro non è se non l’intenzionalità del Creatore. In teologia la verità ontologica non è semplicemente ciò che la cosa è, bensì ciò che quella cosa è secondo i piani di Dio, perché essa è posta nell’essere così come è in quanto voluta e creata da Dio. Una certa sintesi dei due ambiti, logico e ontologico, la presenta Tommaso d’Aquino (1225-1274) quando qualifica la verità come adaequatio intellectus et rei. La verità è nell’intelletto, perché è in esso che l’essere umano formula il suo giudizio di verità; ma la verità è anche nelle cose, perché la verità di una cosa è l’idea che Dio creato122 vI. la qUeSTIONe della veRITà IN pROSpeTTIva TeOlOGICa re ha avuto (ed ha) di essa, creandola. Questa idea di verità è vicina al concetto odierno di autenticità. La cosa è vera e non contraffatta perché risponde perfettamente al progetto di chi l’ha realizzata. I prodotti delle arti si dicono veri in ordine al nostro intelletto; vera si dice, infatti, quella casa che riproduce la forma che è nella mente dell’architetto; vere le parole, quando esprimono un pensiero vero. Le cose naturali si dicono vere in quanto attuano la somiglianza delle specie che sono nella mente di Dio: p. es., si dice vera pietra, quella che ha la natura propria della pietra, secondo la concezione preesistente nella mente di Dio. Quindi, la verità è principalmente nell’intelletto, secondariamente nelle cose, per la relazione che esse hanno all’intelletto, come a loro principio.5 Il fatto che la verità sia non solo nelle cose, ma anche nell’intelletto, giustifica per Tommaso d’Aquino l’idea che possano esserci molte verità, non in senso relativista, ma nel senso che diversi intelletti possono rappresentarsi la realtà in modi diversi. Invece, dal punto di vista della res, la verità è una sola, quella presente nella mente di Dio che vuole quella res e pertanto la crea. Ed è a questa res che i diversi intelletti creati (le molte verità) devono, nel corso del processo conoscitivo, adeguarsi: Ora si è detto che la verità primieramente è nell’intelletto, secondariamente nelle cose in quanto dicono ordine alla intelligenza divina. Se dunque parliamo della verità in quanto, secondo la propria nozione, è nell’intelletto, allora, dato che esistono molte intelligenze create, vi sono anche molte verità; e anche in un solo e medesimo intelletto vi possono essere più verità, data la pluralità degli oggetti conosciuti. […] Come da un solo volto di uomo risultano più immagini nello specchio, così dall’unica verità divina risultano più verità. Se poi parliamo della verità in quanto è nelle cose, allora tutte le cose sono vere in forza dell’unica prima verità, alla quale ciascuna di esse si conforma nella misura del proprio essere. E così, sebbene siano molteplici le essenze o forme delle cose, tuttavia unica è la verità dell’intelletto divino, secondo la quale tutte le cose si denominano vere.6 Allo scopo di meglio comprendere la polisemia del concetto di verità, una volta chiariti i due principali ambiti, quello logico e quello ontologico, in cui essa opera, può essere utile ricordare brevemente alcune fra le principali distinzioni e specifiche consegnateci dalla storia della filosofia.7 5 Summa Theologica, I, q. 16, a. 1, resp. 6 Summa Theologica, I, q. 16. a. 6, resp. 7 Seguiamo con alcune differenze quanto riassunto da pOSSeNTI, Verità, 1503-1508. 123 GIUSeppe TaNzella-NITTI a) La verità come corrispondenza o conformità fra pensiero e realtà Si tratta di una prospettiva largamente impiegata, già presente nel pensiero classico. Così Platone: «Vero è il discorso che dice le cose come sono, falso quello che le dice come non sono».8 Analogamente, in Aristotele: «Vero è dire che l’essere è e che il non-essere non è».9 Entrambe le proposizioni sono contenute in modo implicito nella formulazione di Tommaso d’Aquino, come espressa sempre nella quaestio 16 della I pars della Summa Theologica: «Il vero si trova sia nelle cose sia nell’intelletto. Il vero che è nelle cose si identifica con l’ente in quanto essere nella realtà, mentre il vero che è nell’intelletto si identifica con l’ente come l’espressione con la cosa espressa. Ed infatti, proprio in questo consiste la ragione di vero».10 Da Galileo in avanti, ma in certo modo anche prima dello scienziato pisano, tutta l’attività delle scienze si muove lungo questa comprensione della verità come corrispondenza fra pensiero e realtà. Col passare del tempo, diviene però sempre più sofisticato e complesso il modo di accedere alla realtà, accesso che scienza contemporanea realizza attraverso strumenti e teorie, anzi ormai attraverso strumenti che funzionano mediante l’assunzione di teorie. Ciononostante, l’accordo fra pensiero e realtà resta sempre determinante: è ai fatti (realtà), confermati o sconfessati, che le teorie devono conformarsi (pensiero). Nel passato come nel presente l’idea di verità come conformità fra pensiero e realtà ha conosciuto e conosce alcune derive. Esse sono sostanzialmente il “nominalismo”, secondo il quale la verità è solo una qualità delle proposizioni e dunque è sufficiente la coerenza logica senza il ritorno sulla realtà; e l’“idealismo”, specie nelle sue versioni più radicali, secondo il quale la verità è solo nell’intelletto, come categoria a priori. Queste due derive, e altre ad esse analoghe, subentrano ogniqualvolta si impiegano forme di pensiero che penalizzano il realismo conoscitivo. La ricerca scientifica odierna può anch’essa incorrere in queste derive quando sviluppa in modo crescente e sempre più complesso delle simulazioni computazionali che non possono essere testate nei fenomeni reali; oppure quando sviluppa apparati teoretici, come accade in alcuni ambiti della cosmologia contemporanea, che non prevedono grandezze (dati sperimentali) osservabili, neanche indiretti, né al momento presente né in quello futuro. 8 plaTONe, Cratilo 385b; cfr. anche Sofista, 262e. 9 aRISTOTele, Metafisica IV, 1011b, 27-28; cfr. anche Categorie, 4b, 8. 10 Summa Theologica, I, q. 16, a. 3, ad 1um. 124 vI. la qUeSTIONe della veRITà IN pROSpeTTIva TeOlOGICa La conformità fra realtà e pensiero è operativa anche in campo filosofico e morale. Esiste una comprensione della verità come conformità fra comportamento e norma, o anche, assumendo un principio di tradizione, come conformità fra ciò che il maestro insegna e ciò che il discepolo acquisisce. L’ambito del pensiero, della norma, ma anche dell’arte intesa come conoscenze acquisite e tramandate, devono in sostanza trovare riscontro anche nella realtà dei fatti e delle manifestazioni storiche. È ancora esempio di conformità fra pensiero e realtà una filosofia ermeneutica non decostruttiva, che abbia cioè come fine sviluppare interpretazioni che tendano alla verità di un testo o di un evento, e possano finalmente riposare su di essa. In sostanza, una filosofia ermeneutica per la quale è la ricerca non frustrata della verità a guidare l’intero processo interpretativo. b) La verità come coerenza interna del pensiero La deriva idealista può giungere a considerare la verità come pura coerenza logica. Ciò accade quando si esige che un insieme di proposizioni logiche siano conformi fra loro, ma interessa assai meno la loro conformità alla realtà. In tal modo l’intera questione della verità risulta assorbita sul piano logico, formale, matematico. In un discorso sulla verità, la coerenza interna è necessaria ma insufficiente, vera ma incompleta. Chi vive in un mondo che non è fatto solo di simulazioni e di linguaggi formali – chi vive nell’universo reale e non in un metaverso, diremmo oggi – ha bisogno, prima o poi, di un criterio di conformità con la realtà. Va comunque riconosciuto, come accennato pocanzi, che l’idea di verità come mera coerenza assume un impiego crescente nelle scienze naturali (fisica, chimica, biologia, ecc.) quando esse simulano la realtà e studiano la consistenza di quanto generato da soli modelli numerici. Quando il criterio veritativo è fornito soltanto dalla coerenza fra asserti, principi e postulati del sistema di pensiero in cui ci si muove, si incorre presto o tardi in paradossi di incompletezza. Come hanno insegnato Gödel e Tarski, all’interno di un sistema logico-formale chiuso, che non riceve significati da un metalinguaggio o metasistema esterno ad esso, non è possibile stabilire tutte le regole di verità necessarie per poter prendere ogni decisione.11 Tuttavia, la nozione di verità come coerenza interna del pensiero è di fondamentale importanza, perché sot11 Cfr. A. STRUmIa, Percorsi interdisciplinari della logica, Edusc-SISRI, Roma 2017; A. TaRIntroduzione alla logica e alla metodologia delle scienze deduttive, Bompiani, Milano 1978. SKI, 125 GIUSeppe TaNzella-NITTI tolinea una richiesta necessaria: quella della non contraddizione, richiesta delle scienze basate sulla logica-matematica e condizione indispensabile per l’esercizio del pensiero umano. Se la comprensione della verità come sola coerenza viene radicalizzata, essa sfocia in una posizione filosofica idealista trasposta in logica. La teoria della verità come coerenza non fornisce, da sola, alcun criterio univoco di verità, poiché è logicamente possibile pervenire a un numero qualsivoglia di sistemi di proposizioni internamente non contraddittorie, ma fra loro incompatibili. È in questo quadro che si può giungere all’idea della doppia verità, anzi della molteplice verità. Diviene allora importante che la verità come coerenza preveda anche la non-violazione: due teorie o ipotesi sono coerenti se le implicazioni dell’una non violano quelle dell’altra. c) La verità come evidenza, manifestazione, apertura Da Platone ad Heidegger, la verità si mostra, si palesa, si ostende, in accordo con l’originale senso greco di a-letheia, svelamento. Questa prospettiva mette in luce un aspetto importante dell’umana ricerca della verità: la verità ci viene incontro come qualcosa di eccedente, talvolta in modo inaspettato. Non può essere misurata e circoscritta da quanto l’essere umano cerca o tematizza, ma trascende l’orizzonte antropologico del dire e del conoscere. Tale eccedenza è in fondo conseguenza della dimensione ontologica della verità, irriducibile, estesa e profonda quanto lo è l’Essere. Giace qui, anche solo a livello filosofico e non ancora teologico, l’idea che la verità sia qualcosa che ci possiede e non qualcosa che possediamo. La teologia ne svilupperà i canoni all’interno della teologia apofatica, impiegando la nozione di “mistero”, che rimanda in primo luogo all’idea di eccedenza e non a quella di oscurità o ignoranza. Da osservare che alla posizione di Heidegger secondo cui la verità è lo “svelamento dell’essere”, la metafisica classica risponde che, in senso stretto, l’essere non ha bisogno di svelarsi perché, in realtà, è sommamente intelligibile. Per Aristotele e per Tommaso l’essere – la dimensione ontologica delle cose – è di per sé evidente: l’essere è la prima evidenza, sulla quale si fondano poi tutte le altre determinazioni e qualità dell’ente. È però vero che in un mondo ove il senso metafisico è scarsamente esercitato, come nell’epoca presente, la raccomandazione heideggeriana di ascoltare l’essere e saperlo cogliere, forse anche con sforzo, diviene oggi di maggiore attualità. 126 vI. la qUeSTIONe della veRITà IN pROSpeTTIva TeOlOGICa Un aspetto della massima importanza per la questione della verità è che essa deve possedere il carattere dell’apertura. La verità è inclusiva, capace di dialogo e di relazione. Vi si oppone la visione ideologica di un discorso chiuso e autoreferenziale. Chi è nella verità accetta di essere provocato, è disponibile a fornire risposte, riconosce gli elementi veritativi presenti nell’altro. La verità sa leggere la storia, includerla. È più “vera” quella visione delle cose che mantiene viva la sua apertura sul reale, sull’essere. Apertura non vuol dire relativismo, né assenza di riferimenti stabili o irreformabili: vuol dire invece capacità di dare ragione delle cose, perfino capacità di riconoscere i propri errori, riconoscendosi parte di un processo che ha come fine riposare sulla verità e lasciarsi da essa comprendere. d) La verità come consenso, utilità, prassi Considerare la verità come risultato di un consenso condiviso, spesso funzionale a decisioni pragmatiche e di efficienza, è probabilmente oggi la prospettiva dominante a livello socio-culturale. Il contenuto della verità e le decisioni che ne derivano vengono stabiliti soltanto sulla base della condivisione sul piano intersoggettivo. Si tratta di una visione teorizzata da Habermas in ambito sociologico e dal giuspositivismo in ambito giuridico. L’approccio alla verità si muove così su basi convenzionali, rifiutando di doversi normare a fonti di conoscenza che non siano il soggetto (o semplicemente i suoi desideri), giungendo perfino a negare o a ricategorizzare l’evidenza – talvolta anche scientifica – della realtà delle cose. Non di rado espressa come una necessità della società democratica, la prospettiva della verità come consenso condiviso lascia però irrisolto il problema delle minoranze; ancor più, fallisce quando emergono conflittualità importanti, talvolta insanabili, che potrebbero essere risolte soltanto trascendendo il piano intersoggettivo e convenzionale per accedere ad un piano oggettivo, assiologico. Il forte intreccio oggi esistente fra consenso e mezzi di comunicazione di massa vizia e non di rado compromette l’ascolto sereno delle diverse opinioni, privilegiando quelle di maggior peso mediatico. Il consenso viene così manipolato, influenzato e interpretato da chi possiede maggiore potere e migliori capacità di gestire e impiegare i mezzi di comunicazione. L’idea di verità come consenso si coniuga con la posizione avanzata già in epoche passate dal pragmatismo e dall’utilitarismo: è vero ciò che funziona, causa benessere, genera profitto. È questa la posizione 127 GIUSeppe TaNzella-NITTI incarnata anche dallo storicismo di matrice idealista: verum est factum. La verità non è qualcosa che ci preceda o ci trascenda, bensì il risultato della nostra prassi. A Feuerbach che si era limitato a interpretare a livello teorico l’autonomia dell’uomo e la sua indipendenza da Dio, Marx rispondeva che occorreva adesso mettere l’uomo in piedi, farlo camminare con le proprie gambe, dando origine ad un agire rivoluzionario. L’efficienza pragmatica tende infine ad assorbire la domanda sulla verità, facendola quasi scomparire; non interessa se un giudizio o una prassi siano qualcosa di vero, perché trattasi di categoria astratta: interessa invece che essi generino quei risultati – quasi sempre profitto economico e libertà soggettive – reclamati dalla società in modo concreto. 3. la COmpReNSIONe TeOlOGICa del Tema della veRITà Se sceglie di prendere come compagne di viaggio la filosofia e le scienze, la teologia deve poter offrire una comprensione della verità che risulti significativa anche per le altre discipline. Riconoscere che l’essere umano, in quanto tale, sia un “cercatore della verità”, è una qualifica che coinvolge anche il credente. Nell’esercizio della fede anch’egli è un pellegrino in cammino; la conoscenza che possiede in via è ben diversa da quella che acquisterà in patria. Nella condizione di viatore esiste una certa tensione verso una verità conosciuta ma non ancora posseduta, intravista ma non del tutto compresa. Pellegrino ma non viandante, perché il credente sa verso dove dirigersi e conosce la sua meta, sebbene sappia di non poterla, almeno in questa vita, totalmente raggiungere. Per questo, la Rivelazione non rende superflua la ricerca del credente, ma svolge per lui il ruolo di una “stella di orientamento”. Nel suo modo di accostarsi alla verità, la teologia sottolinea alcuni aspetti dalle precise implicazioni filosofiche, altri di indole propriamente teologica. Vediamoli entrambi. a) Aspetti filosofici Una delle caratteristiche più importanti della dimensione filosofica della comprensione teologica della verità è una ferma persuasione circa l’unità della verità. La ricerca della verità, da qualunque versante venga condotta, porta necessariamente a unificare le diverse conoscenze che la intraprendono. Come nell’ascesa di un monte, si può giungere alla vetta seguendo diversi itinerari. Ad ogni disciplina è richiesta una visione realista (esiste la montagna da scalare) e la fiducia che la verità possa 128 vI. la qUeSTIONe della veRITà IN pROSpeTTIva TeOlOGICa essere, almeno in parte, conosciuta (vale la pena cominciare l’ascesa). Anche prima della Riforma protestante, foriera di una mutata visione nei rapporti fra fede e ragione, la teologia cristiana aveva giudicato la teoria della “doppia verità” avanzata da alcuni autori medievali come una contraddizione logica e causa di scissione esistenziale. L’unità della verità fu difesa in modo energico da Tommaso d’Aquino. Le conoscenze provenienti dalla Rivelazione, anche se conosciute mediante la fede, non possono contraddire le conoscenze vere raggiunte mediante altre fonti. Nella Summa contra gentiles egli sostiene che la direzione ascendente della teologia e quella discendente della filosofia (e delle scienze, incluse nella filosofia naturale) si snodano lungo l’unica strada che collega il mondo a Dio. Si consideri questo bel testo dell’Aquinate, nel quale al termine “Dio” si potrebbe talvolta sostituire il termine “verità”: L’intelligenza dell’uomo, desumendo il proprio sapere naturale dalle cose sensibili, non è in grado di raggiungere direttamente l’intellezione dell’essenza divina in sé stessa, la quale si eleva oltre misura al di sopra delle cose sensibili, anzi al di sopra di tutti gli esseri. Siccome però il bene perfetto dell’uomo consiste nel conoscere in qualche modo Dio, affinché una creatura così nobile non risultasse del tutto inutile, non riuscendo essa a raggiungere il proprio fine, è stata offerta all’uomo una via per potersi elevare alla conoscenza di Dio: cosicché mentre tutte le perfezioni delle cose discendono ordinatamente da Dio, vertice supremo della realtà, l’uomo, cominciando dalle cose inferiori e salendo gradatamente, può progredire nella conoscenza di Dio; poiché anche nel moto degli esseri corporei la via per cui si discende è identica a quella che sale, a prescindere dai rapporti con i rispettivi punti di partenza e di arrivo (eadem est via qua descenditur et ascenditur, ratione principii et finis distincta).12 L’unità della verità è affermata in modo esplicito anche in una pagina della Fides et ratio (1998), proprio in merito al rapporto fra teologia e scienze: [La] verità che Dio ci rivela in Gesù Cristo non è in contrasto con le verità che si raggiungono filosofando. I due ordini di conoscenza conducono anzi alla verità nella sua pienezza. L’unità della verità è già un postulato fondamentale della ragione umana, espresso nel principio di non-contraddizione. La Rivelazione dà la certezza di questa unità, mostrando che il Dio creatore è anche il Dio della storia della salvezza. Lo stesso e identico Dio, che fonda e garantisce l’intelligibilità e la ragionevolezza dell’ordine naturale delle cose su cui gli scienziati si appoggiano fiduciosi, è il medesimo che si rivela Padre di nostro Signore Gesù Cristo.13 12 Somma contro i gentili, libro IV, cap. 1, tr. it. UTET, Torino 1997, 969. 13 GIOvaNNI paOlO II, Fides e ratio, 14 settembre 1998, n. 34. 129 GIUSeppe TaNzella-NITTI Come segnalato in precedenza, in prospettiva teologica la verità di ogni cosa è il suo essere secondo il piano creativo intenzionale voluto da Dio. Ogni creatura custodisce questa verità come imprinting del Creatore. Va subito osservato che la verità di “essere ciò che si è” non impedisce che si debba “divenire ciò che si è”. La natura vera di ogni cosa è aperta sulla storia, ma una storia conosciuta e voluta dal Creatore. Verità non vuol dire immobilismo, ma accordo con la volontà creatrice di Dio: la verità è dunque aperta sulla storia ed ammette uno sviluppo. Dall’essere ciò che si è discende il poter/dover operare secondo ciò che si è: operari sequitur esse. L’agire morale altro non è se non “agire secondo verità”. La verità morale non è mai totalmente eteronoma (in senso stretto eteronomo è solo l’atto che pone la creatura in essere, atto che essa non può darsi da sé, ma riceve dal Creatore), bensì il riflesso di quanto la creatura è in sé e opera in sé stessa, in modo autonomo. Agire in modo diverso, cioè non secondo la natura che il Creatore le ha dato, equivarrebbe per la creatura a corrompersi e a perdersi. Un modo complementare di vedere il rapporto fra verità e piano intenzionale del Creatore è prendere in esame la convergenza fra verità e Parola creatrice, la cui fonte comune è il Logos creatore, perché le creature sono dette dal Logos e per questo esistono. La realtà/verità delle cose non è mai mera fattualità, ma anche significato, perché Dio, attraverso il Logos, parla/crea per un fine. Il significato (la verità) delle cose è ciò che esse sono per Dio, secondo il Suo piano creatore e provvidente. Il fatto che all’origine e nel fondamento dell’essere vi sia una Parola personale possiede un’importante implicazione: la verità non può essere conosciuta solo mediante una scoperta induttiva o una deduzione razionale, ma deve essere anche narrata, raccontata, e dunque ascoltata e accolta. I rapporti fra Dio (Autore del mondo) e l’uomo (che cerca di comprendere il mondo) coinvolgono pertanto i canoni tipici di un rapporto fra persone. Essi sono: la testimonianza, il riconoscimento della realtà come un dono, la trasmissione della conoscenza mediante narrazioni, l’accoglienza fiduciosa della verità narrata, la riconoscenza filiale, l’abbandono, la fede. Analogamente a come il bambino scopre gradatamente la realtà e il mondo esterno attraverso la parola e l’affetto della madre, e quasi prende coscienza dell’essere attraverso la sua consapevolezza di essere figlio, così l’uomo riceve da Dio, in modo personale, i racconti fondativi per la sua esistenza creaturale, attraverso una parola che gli narra il contesto e il senso di quel mondo creato in cui egli ha aperto gli occhi alla vita. 130 vI. la qUeSTIONe della veRITà IN pROSpeTTIva TeOlOGICa b) Aspetti biblici Riprendiamo e sviluppiamo alcuni suggerimenti provenienti dalla sacra Scrittura, accennati in apertura. Come già osservato, la verità è un attributo di Dio: il Dio di Israele, a differenza degli idoli, è vivo e vero. Dio è vero perché è stabile, fedele, mantiene le sue promesse. Nella storia della cultura umana, al centro del senso religioso vi erano sempre state le categorie del sacro e del profano, del puro e dell’impuro; con il Dio di Israele, nel discorso religioso entrano sorprendentemente in gioco anche le categorie del vero e del falso. Essi [gli idoli] sono stati costruiti da artigiani e da orefici; non diventano nient’altro che ciò che gli artigiani vogliono che siano. […] Come dunque è possibile non comprendere che non sono dèi coloro che non salvano se stessi né dalla guerra né dai mali? In merito a questo si riconoscerà che gli dèi di legno, d’oro e d’argento sono falsi; a tutte le nazioni e ai re sarà evidente che essi non sono dèi, ma opere degli uomini, e non c’è in loro nessuna opera di Dio. A chi dunque non è evidente che essi non sono dèi? Essi infatti non potranno costituire un re sulla terra né concedere la pioggia agli uomini; non risolveranno le contese né libereranno chi è offeso ingiustamente, poiché non hanno alcun potere. Sono come cornacchie fra il cielo e la terra. Infatti, se il fuoco si attacca al tempio di questi dèi di legno, d’oro e d’argento, mentre i loro sacerdoti fuggiranno e si metteranno in salvo, essi bruceranno là in mezzo come travi. A un re e ai nemici non potranno resistere. Come dunque si può ammettere e pensare che essi siano dèi? (Bar 6,45.49-56) La dimensione personalista della verità fa sì che, a differenza della cultura greca, per il popolo di Israele la conoscenza e la fede si basano sull’ascoltare piuttosto che sul vedere. È l’ascolto della Parola di Dio, parola vera ed efficace. Tale ascolto genera conoscenza ed è fonte di stabilità. Per l’uomo biblico, “essere nella verità” vuol dire aderire a Dio, poggiare su di Lui. La nozione biblica di verità (eb. emet) è fortemente collegata con il verbo credere (eb. aman), mostrando pertanto una certa convergenza fra verità e fede. In termini biblici, verità vuol dire “stabilità”, “sicurezza”, “affidabilità”. Conoscenza della verità, fedeltà di Dio alle sue promesse, e risposta di fede dell’uomo sono concetti tutti accomunati dalla medesima radice verbale (eb. ‘mn) ed appartengono tutti all’identico campo semantico. Israele conosce la verità aderendo a Dio, sua roccia stabile: ‘aman = stare saldo, sicuro; ‘emûn = aderire [a Dio]; he’mîn = aver fiducia, abbandonarsi.14 Il linguaggio biblico del NT Cfr. H. wIldBeRGeR, Stabile, sicuro (‘mn), in E. JeNNI, C. weSTeRmaNN (edd.), Dizionario Teologico dell’Antico Testamento, Marietti, Torino - Casale Monferrato, 1978-1982, vol. I, 14 131 GIUSeppe TaNzella-NITTI si arricchisce di una componente greca e neoplatonica e lega pertanto la verità alla contemplazione, all’immagine archetipa. Nei testi del NT, le opere di san Giovanni in particolare, vi è convergenza fra luce, verità e salvezza. Dio è vero perché svela definitivamente ciò che l’uomo ignorava. Verità converge con sincerità e si oppone ad ipocrisia. La verità è luce che indica il cammino e tiene lontane le tenebre del peccato. Tuttavia, la maggiore corrispondenza che il NT istruisce fra verità e visione non sorpassa quella che l’AT aveva già istruito fra verità e ascolto. Per conoscere la verità, Gesù Cristo orienta il credente verso l’ascolto della sua parola, che è la Parola di Dio. È la parola predicata che illumina e che salva. Tanto l’AT quanto il NT parlano della verità secondo una dimensione fortemente personalista, mai astratta o meramente concettuale. Una Parola personale è all’origine della verità della creazione. La persona di Cristo Gesù, pur nella sua storicità, accessibilità e concretezza, avoca a sé il contenuto di una verità dal valore universale. Dirà di Sé: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). I suoi discorsi sono spesso introdotti proprio dalla parola ebraica amen: in verità, io vi dico… Nella solenne visione dell’Apocalisse, Egli è il Verace, l’Amen, il testimone (cfr. Ap 3,14). Chiunque è dalla verità ascolta la sua voce. È proprio identificandosi con la verità venuta nel mondo che Gesù parla di sé stesso nel celebre dialogo con Ponzio Pilato: «Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. Gli dice Pilato: “Che cos’è la verità?”» (Gv 18,37-38). Come sappiamo dal seguito degli eventi, Pilato non si mostrerà interessato ad una risposta e tornerà pragmaticamente a contrattare l’improbabile rilascio del condannato, senza sortire alcun esito. Dato biblico essenziale, che ripropone la dimensione personalista della verità, è l’associazione che il NT opera fra la persona trinitaria dello Spirito Santo e la verità. Dopo aver affermato che il Padre cerca adoratori in spirito e verità (cfr. Gv 4,23-24), Gesù parla esplicitamente dello Spirito Santo come “spirito di verità”, come colui che guida alla verità tutta intera (cfr. Gv 16,13; 14,17). 155-183; A. JepSeN, ‘aman, ‘emûnâ, ‘amen, ‘emet, in G.W. aNdeRSON dell’Antico Testamento, Paideia, Brescia 1988-2010, vol. I, 625- 696. 132 eT al., Grande Lessico vI. la qUeSTIONe della veRITà IN pROSpeTTIva TeOlOGICa La Bibbia, in sostanza, sia nell’AT che nel NT, legge la verità come un rapporto personale, fonte di stabilità e di certezze, nutrito di amore e di testimonianza; rapporto singolarissimo perché rapporto con Dio che, come Creatore, è causa dell’essere e della verità di tutto il creato. 4. veRITà e RealTà Quanto appena visto in sede teologica può essere adesso posto in relazione con le domande provenienti dalla filosofia e dalle scienze, per esaminare se e come la teologia possa recare un contributo significativo ad alcune questioni centrali. Chi opera nella ricerca scientifica si imbatte talvolta in domande come le seguenti. Esiste davvero una verità nella realtà fisica, che merita di essere cercata? Siamo obbligati ad una concezione solo convenzionalista della verità, come coerenza interna su basi logiche, rassegnandoci ad essere prigionieri delle nostre simulazioni? Dobbiamo adattarci ad un’idea soltanto provvisoria di verità, quella generata dal consenso, anch’esso provvisorio, della comunità scientifica? Ascoltando quanto la riflessione teologica ha prima suggerito, siamo incoraggiati ad affermare che “la realtà non inganna”; o per dirlo con parole di Albert Einstein, il “Signore è sottile ma non malizioso”.15 La dimensione ontologica della verità, ancorata al fatto che ogni cosa ha un ruolo specifico nel piano creatore di Dio, possiede pertanto una sua natura e dunque una sua verità, incoraggia la conoscenza scientifica ad indagare con fiducia il reale. Corroborano questa fiducia sia l’idea che l’essere umano sia stato creato a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gen 1,26-27), e dunque capace di conoscere, sia il fatto che, partendo dal mondo creato, egli può giungere alla conoscenza dell’esistenza di Dio, cosa che conforta circa la verità della realtà.16 Proprio perché la realtà è vera si può fare scienza; proprio perché frutto di un’intenzionalità personale, quella di Dio Creatore, la realtà è intelligibile. La prospettiva teologica è in accordo con le dimensioni soggettiva e oggettiva della verità prima segnalate: la verità è nelle cose, perché create da Chi ha posto in loro un significato oggettivo, ma anche nel soggetto conoscente, perché capace di giudizio in quanto creato «Raffiniert ist der Herrgott, aber boshaft ist er nicht…». La frase è incisa, come è noto, sulla cornice superiore del camino del Faculty Club del Dipartimento di Matematica dell’Università di Princeton. 15 16 Cfr. CONCIlIO vaTICaNO I, cost. Dei Filius, cap. 2; CONCIlIO vaTICaNO II, cost. Dei Verbum, n. 6. 133 GIUSeppe TaNzella-NITTI a immagine e somiglianza di Dio. Affermare che la realtà non inganna equivale anche a dire che esistono delle conoscenze irreformabili, che danno origine ad un progresso significativo delle conoscenze umane, oltre le normali conoscenze provvisorie e riformabili. La verità della nostra conoscenza non dipende totalmente dal paradigma interpretativo adottato, ma in ultima analisi poggia sulla verità del reale. La tensione verso una verità ontologica e non solo logica funge da ideale normativo irrinunciabile per la ricerca scientifica, come a suo tempo segnalato, seppure con alcune insufficienze, da Popper; e giustifica perché, fra le varie teorie in competizione che secondo Kuhn accompagnano e condizionano il cammino della ricerca scientifica, alcune vengano preferite ad altre. Per tutti questi motivi, la teologia cristiana ha sempre difeso un certo realismo conoscitivo. Il guadagno della prospettiva realista su quella idealista è sagacemente messo in risalto da una suggestiva opera di Etienne Gilson, Il realismo metodico (1935), la cui rilettura è sempre assai suggerente.17 In merito al carattere personalista della verità – sul quale, come appena visto, insiste la teologia – suscita esso qualche opposizione rispetto al carattere oggettivo della verità scientifica? I due caratteri non si oppongono perché le due dimensioni, soggettiva e oggettiva, sono entrambe operative in ogni conoscenza della verità, anche in quella scientifica. Sappiamo, in particolare, che una dimensione umanistica e personale è ben presente nell’attività scientifica, nutrendola sia a livello epistemologico, sia sul livello dei fini e delle motivazioni. In linea più generale, la ricchezza del reale fisico non viene esaurita dalla misurabilità fornita dal piano empirico, ma resta aperta alla sfera dei significati che il soggetto personale coglie e intercetta nei diversi livelli di intelligibilità del reale e, in definitiva, nell’apertura della realtà fisica al senso di meraviglia, di riverenza e di mistero, come la stessa fenomenologia del lavoro scientifico manifesta attraverso le testimonianze e le riflessioni filosofiche dei suoi protagonisti.18 La teologia si limita a suggerire (e non è poco) che questa sfera dei significati ha la sua origine ultima in un Logos personale, Parola creatrice della realtà naturale. Infine, l’affermazione teologica che la verità del reale è espressa dal (e contenuta nel) concretum nella persona del Verbo incarnato non si 17 Cfr. E. GIlSON, Il realismo, metodo della filosofia, Leonardo Da Vinci, Roma 2008. Cfr. E. CaNTORe, L’uomo scientifico. Il significato umanistico della scienza (1977), EDB, Bologna 2021. 18 134 vI. la qUeSTIONe della veRITà IN pROSpeTTIva TeOlOGICa oppone al canone di universalità della conoscenza scientifica. I rapporti fra il Logos cristiano e l’universalità della verità possono essere spiegati in modo convincente mostrando la portata cosmica della capitalità di Gesù Cristo su tutto il creato, il ruolo da Lui posseduto nella creazione (cfr. Gv 1,1-3; Eb 1,1-3; Ef 1,9-10; Col 1,15-18). Come affermato secoli addietro da Nicolò Cusano e in tempi più recenti da Hans Urs von Balthasar, Gesù Cristo è l’universale concreto. Il concreto storico del suo mistero pasquale, della sua risurrezione creduta come primizia di una nuova creazione, possiede una portata universale; quest’ultima non è assimilabile a un’idea astratta, né a un semplice “valore” trascendentale, ma rimanda, in ultima analisi, all’universalità dell’essere, quell’Essere di cui Gesù non ha timore di attribuirsi la più profonda espressione verbale: «Io Sono» (cfr. Gv 8,24; 8,28; 8,58; 13,19). L’universalità del suo influsso causale e la portata della sua ermeneutica pasquale si estendono quanto l’universalità di quel medesimo reale che cade sotto gli occhi della scienza. La verità più profonda della natura creata, anche nei suoi aspetti più materiali, contingenti e finiti, giace misteriosamente nella verità del Verbo incarnato, crocifisso e risorto: chiunque entra in rapporto con l’essere può entrare in rapporto con il mistero del Cristo, centro del cosmo e della storia.19 5. veRITà e STORIa Il rapporto fra verità e storia attraversa di fatto tutto il pensiero umano. Esso è presente in nuce già nel dibattito classico fra essere e divenire messo in campo da Parmenide ed Eraclito. Il pensiero moderno, specie a partire da Vico e poi da Hegel, ha insistito sull’importanza della storia e sul fatto che ogni conoscenza le è soggetta. La prospettiva storicista non nega la verità, ma la rimanda alla fine del processo, alla cognizione dell’intero. La verità è come trascinata dal flusso della storia e non può essere fissata, determinata, conosciuta in modo finito. La presenza di una matrice storicista si riscontra nelle contemporanee ermeneutiche relativiste e in alcuni orientamenti della filosofia del linguaggio. È dunque la verità destinata a soccombere sotto i colpi della storia? È la storia deputata a trascinare inevitabilmente ogni cosa dietro di sé, impedendo la conservazione di ogni riferimento veritativo stabile? Il problema è avvertito dall’enciclica Fides et ratio, che lo imposta a livello filosofico: 19 Cfr. GIOvaNNI paOlO II, Redemptor hominis, 4 marzo 1979, n. 1. 135 GIUSeppe TaNzella-NITTI Per comprendere in maniera corretta una dottrina del passato, è necessario che questa sia inserita nel suo contesto storico e culturale. La tesi fondamentale dello storicismo, invece, consiste nello stabilire la verità di una filosofia sulla base della sua adeguatezza ad un determinato periodo e ad un determinato compito storico. In questo modo, almeno implicitamente, si nega la validità perenne del vero. Ciò che era vero in un’epoca, sostiene lo storicista, può non esserlo più in un’altra. La storia del pensiero, insomma, diventa per lui poco più di un reperto archeologico a cui attingere per evidenziare posizioni del passato ormai in gran parte superate e prive di significato per il presente. Si deve considerare, al contrario, che anche se la formulazione è in certo modo legata al tempo e alla cultura, la verità o l’errore in esse espressi si possono in ogni caso, nonostante la distanza spazio-temporale, riconoscere e come tali valutare (n. 87). La storia può mostrarci «che attraverso l’evoluzione e la varietà delle culture certi concetti di base mantengono il loro valore conoscitivo universale e perciò la verità delle proposizioni che li esprimono. Se così non fosse, la filosofia e le scienze non potrebbero comunicare tra loro né potrebbero essere recepite da culture diverse da quelle in cui sono state pensate ed elaborate. Il problema ermeneutico, dunque, esiste, ma è risolvibile. Il valore realistico di molti concetti, d’altronde, non esclude che spesso il loro significato sia imperfetto. La speculazione filosofica molto potrebbe aiutare in questo campo. È auspicabile, pertanto, un suo particolare impegno nell’approfondimento del rapporto tra linguaggio concettuale e verità, e nella proposta di vie adeguate per una sua corretta comprensione» (n. 96). Il punto per noi di interesse è esaminare se dalla teologia cristiana giunga qualche luce per illustrare il rapporto fra verità e storia e, per quanto riguarda la comprensione teologica della verità, se si tratti o meno di un rapporto insanabile. Procediamo con ordine. In primo luogo, dovremmo osservare che la nozione di “storia”, come oggi noi la conosciamo, è stata ereditata proprio dalla Rivelazione ebraico-cristiana: il mondo ha una storia perché creato dal nulla, ha avuto un inizio e tende verso un fine. Il mondo greco aveva un’idea di storia solo come insieme delle esperienze della vita; il mondo orientale in genere non la possedeva del tutto, perché rappresentava (e tuttora rappresenta) il tempo in modo ciclico, interpretandolo alla luce delle filosofie dell’eterno ritorno. Pur non possedendo un concetto moderno di storia, la filosofia classica greca poneva la verità alle origini: tutto ciò che segue è decadimento, perdita. La verità starebbe nel “tornare alle origini”. Il pensiero moderno, soprattutto lo storicismo idealista, ha posto invece la verità alla fine: “la verità è l’intero, il tutto”, affermava Hegel, e la si compren136 vI. la qUeSTIONe della veRITà IN pROSpeTTIva TeOlOGICa derà solo quando il tutto si sarà esplicitato, quando lo spirito Assoluto avrà concluso il suo corso. Su questa scia, la modernità ha preferito alla nozione di verità quella di progresso; tuttavia, se manca una direzione che indichi un contenuto veritativo, normativo o valoriale, ogni progresso potrebbe essere visto anche come un regresso… La Rivelazione ebraico-cristiana sembra compiere un’operazione inedita. Nei confronti della storia essa pone la verità simultaneamente alla fine e all’inizio. La fede cristiana afferma che Gesù Cristo (Logos incarnato) media all’inizio (tutte le cose sono create per mezzo del Verbo) e alla fine (Cristo giudice della fine dei tempi). Egli è Alfa e Omega. Eppure la Rivelazione – ed è questo un punto della massima importanza – pone la verità fuori della storia, perché la verità trascende la storia. L’inizio e la fine della storia non appartengono alla storia. Dio si può rivelare nella storia e attraverso la storia proprio perché Egli non è confinato dalla storia, né soggetto alle sue leggi. Dio è altro-dal-mondo e dunque anche oltre la storia. Queste sono le coordinate filosofiche che, in un mondo creduto creato da Dio, rendono il rapporto fra verità e storia, almeno in linea di principio, non conflittuale. Il rapporto fra verità e storia non è insanabile perché il Verbo-Figlio è confessato al tempo stesso come verità e come centro della storia: tutta la storia tende a Lui (cfr. Col 1,15-18). Anche lo Spirito Santo è confessato al tempo stesso come garanzia di verità e come Persona che dirige la storia, rendendo eterna nel tempo una Parola pronunciata una volta per tutte. Le missioni del Figlio e dello Spirito hanno dunque a che vedere simultaneamente con la verità e con la storia: esse rivelano al mondo la verità di Dio e custodiscono il fine della storia, lasciando che siano gli esseri umani, con la propria libertà, a cooperare con Dio nella costruzione della verità della storia. La sacra Scrittura presenta una storia della salvezza, nella quale Dio gradatamente si rivela: la verità è così progressivamente rivelata dalla storia. Già nei primi secoli del cristianesimo i Padri della Chiesa esprimono questa tesi mediante i due importanti concetti di economia e pedagogia, che indicano la “strategia” con cui Dio rivela e si rivela. La non conflittualità fra verità e storia – assicura la teologia cristiana – fa sì che il mondo sia depositario di verità che non si perdono nella storia, non vengono da questa assorbite. Se attribuiamo ad ogni creatura una “natura”, quella che Dio creatore ha voluto creandola e che costituisce la verità della creatura stessa, la storia non può stravolgerla, né perderla. Per negare la verità e la natura di una certa creatura 137 GIUSeppe TaNzella-NITTI occorrerebbe distruggerla. Anche la verità e la natura dell’essere umano, come creatura storica, si esplicitano lungo la storia. Affermare che l’essere umano possiede una natura non si oppone al suo divenire storico, perché è la sua stessa natura a possedere una dimensione storica, come mostra il fatto che l’essere umano sia consapevole di abitare la storia e tenda perciò verso un fine. Tuttavia, per “restare nella verità” egli non può essere soggetto di una qualsiasi storia ma della sua storia, quella conforme alla sua creazione, quella che Dio ha voluto chiamandolo all’esistenza. Portare a compimento questa storia è vivere secondo la propria vocazione. 6. veRITà e lIBeRTà Analogamente al rapporto fra verità e storia, anche quello fra verità e libertà è stato oggetto di riflessione critica durante l’epoca moderna. La nozione di verità è stata legata a quella di autorità (legge) e la nozione di libertà a quella di autonomia (libertà di coscienza): eteronomia (verità) e autonomia (libertà) sarebbero così in conflitto fra loro. Sulla scorta di questa visione non pochi autori, da Feuerbach a Marx, da Nietzsche a Freud, da Sartre a Camus, hanno affermato l’incompatibilità fra libertà dell’uomo e verità di Dio: se Dio esiste, l’uomo non è niente; per affermare l’uomo e la verità della sua libertà bisogna uccidere Dio. Come esito finale (e inaspettato) di questa impostazione dialettica, l’epoca contemporanea sembra aver trascinato nella negazione della verità anche quella della libertà. La libertà dell’essere umano, difesa strenuamente fino alla metà del XX secolo, in un’epoca di pensiero debole come la nostra è divenuta un concetto filosoficamente troppo forte, spesso sostituito dallo scomposto reclamo dei più diversi diritti, che equivalgono in buona parte a nuovi desideri. Alcune impostazioni fisicaliste delle neuroscienze sembrano andare incontro a questa visione e al nichilismo filosofico del Novecento, negando oggi la verità della libertà: il comportamento dell’essere umano non sarebbe più oggetto di vita morale, ma risultato di un fascio di pulsioni e di condizionamenti culturali. Il “peso”, a volte scomodo, della nozione di libertà, deriva anche dal fatto che essa richiama la nozione di coscienza, quella di dovere e, in ultima analisi, la nozione di Dio. Se l’epoca moderna per affermare la libertà umana doveva uccidere Dio, quella contemporanea per uccidere Dio sembra dover uccidere anche la libertà umana. 138 vI. la qUeSTIONe della veRITà IN pROSpeTTIva TeOlOGICa Lungo la storia non pochi autori hanno sostenuto posizioni diverse da quanto pretenderà l’ateismo dell’epoca moderna (per affermare la libertà umana occorre uccidere Dio), mostrando invece, in diversi contesti e a diversi livelli, come l’affermazione di Dio sia la garanzia della libertà dell’uomo: uccidendo Dio si finisce, presto o tardi, con l’uccidere anche l’uomo. Già Agostino di Ippona nella sua opera magistrale La città di Dio (scritta nel 427) aveva messo in luce che la fede cristiana contribuisce non poco a edificare una società veramente umana. Lo riafferma con stile diverso Blaise Pascal e, in tempi a noi più vicini, lo mostrano con le loro opere John Henry Newman e Fëdor Dostoevskij. Nel confronto con le ideologie del Novecento, prima Romano Guardini e Henri del Lubac, poi Alexandr Solzenicyn, hanno sostenuto appassionatamente che l’unico modo per difendere la dignità e la libertà umane è affermare la dipendenza filiale dell’uomo da Dio, creato a Sua immagine e somiglianza. Come mostrare allora, anche in termini filosofici, che la nozione di verità non entra in conflitto con quella di libertà (ove tuttora la si difenda) e quali luci potrebbe offrire in proposito la Rivelazione ebraico-cristiana? In merito al tema che qui ci occupa, riveste speciale interesse un’affermazione di Gesù di Nazaret riportata dal vangelo di Giovanni: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32). La libertà è qui presentata non in contrasto con la verità, bensì come una conseguenza di questa: senza verità non vi sarebbe libertà. L’affermazione pone in luce qualcosa di intuitivo: per scegliere, operare, determinarsi verso un fine è necessario conoscere, e conoscere in modo fondato, veritiero. L’agire libero non può essere conseguenza solo dell’entusiasmo, del volontarismo o di sentimenti intensi ma volubili: alla sua base deve esserci qualcosa di più profondo, di più stabile. Soltanto il soggetto che conosce in modo certo e sufficientemente chiaro il fine verso cui dirigersi può raccogliere le sue forze e determinarsi liberamente nell’impresa. Una conoscenza incerta e approssimativa, o solo probabile, non è sufficiente a porre il soggetto in azione; e se lo fa, conduce assai facilmente verso delusioni e ripensamenti. La libertà, in sostanza, si nutre di verità: una verità debole genererà libertà deboli, incapaci di perseverare, resistere alle difficoltà e raggiungere la meta. Non sorprende, allora, che un’epoca di ragione debole, di verità debole, sia anche un’epoca di libertà debole, con tutte le conseguenze che ne derivano, specie sul piano dei rapporti interpersonali. 139 GIUSeppe TaNzella-NITTI Ha riflettuto sul rapporto fra verità e libertà John Henry Newman (1801-1890), consegnandoci una profonda comprensione della coscienza umana. Convinto che la coscienza, quando libera e protetta dalle ideologie, tende alla verità, Newman fu asserto difensore della coscienza personale senza essere soggettivista. Il riferimento ultimo alla verità poggia su un principio di creazione: la verità che ciascuno cerca con sincerità nella propria coscienza non può essere diversa dalla verità che il Creatore ha impresso nel cuore di ognuno. Il divario fra eteronomia e autonomia cade: la creatura ha ricevuto l’essere e la natura da altri, cioè da Dio, ma costruisce la propria storia in piena autonomia. Alla propria coscienza, insegnava Newman, occorre obbedire, sempre e comunque. Anche se sopita, essa non tarderà a far sentire la propria voce, spingendoci a fare ciò che, in coscienza, sembra giusto, rifiutando invece ciò che risulta ingiusto, ciò che indigna, ciò che non vorremmo altri facessero a noi. Anche la coscienza, come la verità, ci rende umani. Newman ci dice che verità e coscienza, verità e libertà, possono essere difese e amate allo stesso tempo, diversamente da quanto sembrerebbe dirci la temperie post-moderna entro la quale oggi ci muoviamo. Seguendo quest’ultima, solo liberandoci da una verità oggettiva potremmo finalmente agire secondo coscienza: affermare la verità o darle troppo peso ci costringerebbe a perdere la nostra libertà. Newman non la pensava così. Leggiamo, ad esempio, nella sua celebre Lettera al duca di Norfolk (1874): La coscienza ha diritti perché ha doveri; ma al giorno d’oggi, per una buona parte della gente, il diritto e la libertà di coscienza consistono proprio nello sbarazzarsi della coscienza, nell’ignorare il Legislatore e Giudice, nell’essere indipendente da obblighi che non si vedono. Consiste nella libertà di abbracciare o meno una religione; oppure di professare questa o quella e poi di abbandonarla; di andare in chiesa o di andare all’oratorio; di vantarsi di essere al di sopra di ogni religione e di essere un critico imparziale di ognuna di esse. La coscienza è una severa consigliera, ma in questo secolo è stata rimpiazzata da una contraffazione, di cui i diciotto secoli passati non avevano mai sentito parlare o dalla quale, se ne avessero sentito, non si sarebbero mai lasciati ingannare: è il diritto ad agire a proprio piacimento.20 Se abbiamo il dovere di seguire sempre e comunque la coscienza, sostiene Newman, è perché essa ci mostra la verità del nostro essere, il nostro essere immagine di Dio, comune a tutti gli uomini. La coscienza non si oppone alla verità, ma anzi la custodisce, ce la fa ascoltare, ci pone 20 J.H. NewmaN, Lettera al duca di Norfolk, tr. it. Paoline, Milano 1999, 221-222. 140 vI. la qUeSTIONe della veRITà IN pROSpeTTIva TeOlOGICa in contatto con il suo fondamento increato. Grande ottimismo quello di Newman, paragonabile a quello di Agostino di Ippona e di Tommaso d’Aquino. Tutti questi autori hanno sostenuto che, cercando la verità nel profondo del proprio cuore, tutti gli esseri umani non giungono a conclusioni diverse, bensì alle medesime certezze di vita. Noli foras ire, in teipsum redi: in interiore homine habitat veritas, esortava sant’Agostino.21 OSSeRvazIONI CONClUSIve Al termine del nostro itinerario proviamo a riassumere alcune osservazioni conclusive, avendo in mente quanto chiestoci in apertura, ovvero come la comprensione teologica della verità potrebbe gettare luci sulla questione della verità in chiave interdisciplinare, coinvolgendo la filosofia e le scienze. In primo luogo, possiamo tranquillamente affermare che la ricerca della verità è ricerca di Dio. Il pensiero classico, che trova una sua sintesi matura con il cristianesimo in Agostino di Ippona, ha volentieri sostenuto che la felicità dell’uomo consiste nella conoscenza e nella fruizione della verità (Socrate, Platone, Aristotele, Agostino). La teologia recepisce e comprende questo dato illuminandolo: se ciò può accadere è perché conoscere la verità è conoscere Dio. Su questo asserto, oltre ad Agostino, concordano molti autori, fra i quali John Henry Newman ed Edith Stein. Il caso (o forse no) vuole che siano tutti e tre santi. La prospettiva teologica completa la comprensione del dinamismo “ricerca della verità - ricerca di Dio”, osservando che la ricerca della verità (intelletto) non può essere disgiunta dalla ricerca del bene (libertà). Entrambe sono espressione della tensione dell’essere umano verso Dio. In secondo luogo, la verità è un dono. La Rivelazione ebraico-cristiana ce ne parla spesso in questi termini. La verità ci precede, ci trascende, resta in sé inesauribile, è indisponibile alle manipolazioni. L’essere umano non la possiede, ma piuttosto è posseduto da essa. È in linea con questa riflessione la notazione che gli attributi della verità siano anche attributi di Dio. Come Dio, la verità non possiamo abbracciarla in modo completo, né solo con le nostre forze. La verità è un dono perché manifesta una dimensione relazionale. Implica l’umiltà dell’ascolto, la pazienza di percorrere un cammino, la 21 «Non cercare fuori di te, torna in te stesso: è nell’interno dell’uomo ove abita la verità» (aGOSTINO dI IppONa, De vera religione, XXXIX, 72). 141 GIUSeppe TaNzella-NITTI disponibilità a riconoscere Dio come Creatore che comunica senso ad ogni realtà creata. Infine, il dono della realtà, dell’esistenza e della vita, sono un dono vero. Questa osservazione vuol dire che la realtà non ci inganna e che la storia non nasconde né assorbe la verità, ma la rivela: sta all’uomo accoglierla oppure rifiutarla. L’essere umano è davvero libero, costruisce la sua storia: è chiamato a diventare ciò che è, ma potrebbe anche fallire, diventando qualcos’altro. Egli ha però una coscienza che tende alla verità e questa potrà muoverlo a dolersi di non essere ancora ciò che dovrebbe essere. 142 vII. NeOmOdeRNO e deISmO: Il ReCUpeRO dI UN pROGeTTO mORale Giacomo Maria Arrigo 1. Il NeOmOdeRNO COme NUOva STaGIONe del peNSIeRO In un libro pubblicato nel 2017 e intitolato La condizione neomoderna,1 Roberto Mordacci ha introdotto nel dibattito filosofico la categoria di “neomoderno”. Intenzione dell’autore è la proposta critica di un nuovo contrassegno per l’epoca contemporanea – un contrassegno che si ponga come il superamento della più nota etichetta di “postmoderno”. Nelle parole di Jean-François Lyotard, autore di La condizione postmoderna (1979), il postmoderno è l’epoca nella quale siamo entrati a partire dalla fine degli anni Cinquanta e la cui specificità è «l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni»2 o grands récits. Non è dunque più possibile, sostiene Lyotard, proporre elaborazioni complessive sull’uomo, sul bene, sul giusto e sul vero, e la storia nel suo complesso sarebbe solo un insieme di variegate esperienze tra loro impermeabili e incommensurabili. La fine dell’idea di un progresso lineare, unitamente alla dissoluzione di qualsivoglia teoria metafisica o morale, ha come contropartita la crisi della ragione come capacità critica. La ragione viene considerata dal postmoderno nei termini di una forza che opera una vera e propria coercizione sul reale, divenendo sinonimo di principio di calcolo, dominio e oppressione – sicché l’idea di un pensiero “forte” appare ormai intrinsecamente tirannica e violenta. La diagnosi che Mordacci svolge nella prima parte dell’opera La condizione neomoderna è un’attenta ricognizione degli errori del postmodernismo: dall’idea di tramonto dell’Occidente3 alla teoria della 1 R. mORdaCCI, La condizione neomoderna, Einaudi, Torino 2017. J.-f. lyOTaRd, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere (1979), trad. it. di C. Formenti, Feltrinelli, Milano 2018, 6. 2 3 I riferimenti sono a Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger e Oswald Spengler, ma anche a Theodor W. Adorno e Max Horkehimer di Dialettica del’illuminismo (1947), un testo che denuncia il pensiero occidentale nei termini di una forza che avrebbe viep- 143 GIaCOmO maRIa aRRIGO fine della storia,4 passando per l’auto-dichiarazione di morte della filosofia,5 la scomparsa del soggetto, cioè della nozione cartesiana di ego, ormai decostruito in un fascio di relazioni passive, in un vuoto gioco di maschere,6 fino alla dissoluzione dell’arte, quindi del bello, e all’impossibilità di avanzare alcuna etica. Finché Gianni Vattimo giunge alla difesa del nichilismo come di quella situazione in cui l’uomo riconosce l’assenza di fondamento (Ab-grund) come costitutiva della propria condizione, giacché «la stessa nozione di totalità è una nozione signorile, dei dominatori».7 In tal modo, «la verità è frutto di interpretazione […] l’essere esperisce l’estremo del suo tramonto […] e il pensiero – nel senso di pensiero filosofico, pensiero dell’essere – non potrà più rivendicare la posizione di sovranità che la metafisica gli ha attribuito – per lo più con un inganno ideologico – nei confronti della politica e della prassi sociale».8 La tesi di Roberto Mordacci è che questa stagione del pensiero è ormai giunta al termine, e che poco di buono, in fondo, poteva venire da essa, specialmente in virtù del suo disimpegno di fronte alle sfide dell’epoca contemporanea. Piuttosto, egli sostiene che qualcosa di nuovo si profila all’orizzonte, una nuova modernità. Infatti, sebbene il postmoderno consideri in blocco la modernità pretendendo di superarla tout court, in verità la modernità è suddivisibile in tre distinte fasi: «una prima modernità che va dalla fine del Quattrocento alla fine del Seicento; una fase centrale, matura, che ha luogo principalmente nel Settecento e che corrisponde all’illuminismo; e una seconda modernità, che va dagli inizi dell’Ottocento a tutto il Novecento».9 In particolare, Mordacci scorge una profonda discontinuità tra più «rinunciato al significato» (m. hORKheImeR, T.w. adORNO, Dialettica dell’illuminismo [1947], Einaudi, Torino 2010, 13) e considerato le cose nella loro vera essenza, ossia «come sostrato del dominio» (ibidem, 17). Il rimando più immediato è a La fine della storia e l’ultimo uomo (1992) di Francis Fukuyama, ma anche alla concezione secondo cui «la storia universale si dissolve in una rete di storie locali» (mORdaCCI, La condizione neomoderna, 39), non esistendo più una trama al di là della contingenza. 4 5 Ad essere citati in questa sezione sono Maurice Blanchot, Gianni Vattimo e Richard Rorty. 6 Tornano qui i nomi di Vattimo e Rorty. G. vaTTImO, Dialettica differenza, pensiero debole, in G. vaTTImO, p.a. ROvaTTI (edd.), Il pensiero debole (1983), Feltrinelli, Milano 2011, 17. 7 8 Ibidem, 26. 9 mORdaCCI, La condizione neomoderna, 9. 144 vII. NeOmOdeRNO e deISmO: Il ReCUpeRO dI UN pROGeTTO mORale Settecento e Ottocento, e le critiche postmoderne andrebbero dunque lette come se fossero rivolte solamente alle istanze ottocentesche, a quelle idee e proposte teoriche proprie della seconda modernità. In questo senso «Lyotard, e con lui tutti i postmodernisti, confonde l’illuminismo con la sua caricatura positivista, quella che mirava alla costruzione di un sapere scientista e riduzionista, dimenticando in toto la valenza critica e non definitiva che l’illuminismo assegnava alla ragione e alla ricerca del sapere».10 Ecco quindi che l’errore fondamentale del postmoderno è stato quello di «esprimere una diagnosi valida al massimo per l’Ottocento e il Novecento come una diagnosi su tutto il moderno».11 Detto ciò, Mordacci sottolinea le significative analogie tra l’epoca contemporanea e alcune tendenze tipiche di quella che ha definito la prima modernità europea, che comprende i secoli Cinquecento, Seicento e Settecento. «La mia tesi è, dunque, che ci troviamo in una nuova modernità, caratterizzata dal ripresentarsi, su una scala non più solo europea bensì globale e in un contesto potentemente accelerato, di conflitti politici, squilibri sociali, mutamenti culturali, ricerche scientifiche e movimenti artistici almeno in parte analoghi a quelli che furono il movente della modernità europea».12 Conflitti etnici, politici e religiosi che richiedono una risposta energica e innovativa, da reinventare; vere e proprie rivoluzioni scientifiche, dalla genetica umana alle neuroscienze, che necessitano di una antropologia rinnovata; il ritorno del soggetto e della sua libertà creativa; la richiesta di valori forti che possano rispondere alle nuove problematiche bioetiche ed ecologiche; il ritorno della denuncia sociale nell’opera d’arte, in contrapposizione alla provocazione fine a se stessa e al disimpegno postmodernista: tutto questo segnala che siamo di fronte ad esigenze che richiedono una rinnovata risposta filosofica forte. «Le ricerche scientifiche, filosofiche, etiche, politiche e artistiche mostrano uno sforzo di rinnovamento costruttivo, non decadente, alla ricerca di fondamenti, criteri e canoni. […] Il tempo attuale chiama all’impegno, non all’abbandono ironico e scettico».13 I parallelismi con la prima modernità sono molti e significativi, corroborando in 10 Ibidem, 16. 11 Ibidem. 12 Ibidem, 73. 13 Ibidem, 103. 145 GIaCOmO maRIa aRRIGO tal maniera la tesi di Mordacci relativa alla nuova modernità che stiamo già vivendo. E la nostra posizione europea risulta oggi privilegiata, giacché la sua peculiarità è quella «di aver vissuto nella propria storia una versione locale dei cambiamenti radicali che oggi emergono su scala mondiale».14 2. plURalISmO RelIGIOSO, qUale RISpOSTa? L’epoca contemporanea è contrassegnata da una particolare condizione che possiamo definire “multiculturalismo”.15 Una delle caratteristiche tipiche del multiculturalismo è la copresenza e coabitazione di una pluralità di fedi religiose – elemento, questo, su cui mi concentrerò nella presente trattazione. La grande e quasi sterminata “offerta” delle opzioni religiose produce un certo smarrimento nell’uomo moderno, come rilevano Peter L. Berger e Thomas Luckmann quando scrivono che «il più importante fattore nella genesi di crisi di senso a livello sociale e individuale non è dunque probabilmente l’asserito secolarismo della modernità, ma il suo pluralismo».16 Si potrebbe essere portati a ritenere che l’esito naturale sia il relativismo – e indubbiamente, in una certa misura, è proprio così. Ma come Robert Audi ammonisce, «pluralità non equivale a frazionamento [assoluto] e pluralismo non significa [necessariamente] relativismo».17 Sulla scorta di questa intuizione, diversi filosofi hanno indagato le implicazioni teoretiche e pratiche del multiculturalismo e del pluralismo religioso nell’epoca della globalizzazione, cercando soluzioni viabili per la ricomposizione delle differenze. E così, un autore come John Rawls ha proposto la pratica della “traduzione” delle ragioni della religione affinché esse siano accettate nella sfera pubblica, operando una distinzione epistemica tra ragione secolare e ragione religiosa; Jürgen Habermas ha proseguito lungo questa strada, consigliando la “traduzione” rawlsiana solamente nel contesto delle deliberazioni formali che si svolgono all’interno delle istituzioni 14 Ibidem, 126. Per una breve ma puntuale disamina delle varie sfide sociali che questo termine pone, cfr. K. malIK, Multiculturalism and Its Discontents: Rethinking Diversity After 9/11, Seagull Books, Kolkata 2014. 15 P.l. BeRGeR, T. lUCKmaNN, Lo smarrimento dell’uomo moderno (1995), a cura di L. Allodi, il Mulino, Bologna 2010, 66-67. 16 R. aUdI, Valore morale e multiculturalità (2007), a cura di P. Bernardini, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019, 83. 17 146 vII. NeOmOdeRNO e deISmO: Il ReCUpeRO dI UN pROGeTTO mORale politiche;18 Charles Taylor, per converso, discutendo della società secolare, ha equiparato le posizioni religiose a quelle di qualsivoglia dottrina comprensiva, dal kantismo19 all’utilitarismo, chiedendo quindi una revisione radicale dell’idea stessa di ragione secolare;20 Seyla Benhabib ha invece insistito sull’erroneità del multiculturalismo “a mosaico” e del contestualismo forte, pronunciandosi a favore di un universalismo democratico-deliberativo che regoli la conflittualità intra-culturale;21 Fred Dallmayr, abbracciando una diversa strategia, ha parlato di un «concrete existential appeal»22 comune a tutti i linguaggi religiosi, dove il primato non va a un paradigma epistemico ma a un esempio pratico, a una esperienza vissuta piuttosto che a una cognizione, sicché «le credenze cognitive di qualunque tipo diventano secondarie o subordinate all’ortoprassi»,23 e nella pratica sarebbe quindi possibile l’incontro tra le diverse religioni e la ragione secolare.24 18 J. haBeRmaS, “Il politico”. Il significato razionale di una discutibile eredità della teologia politica (2011), in e. meNdIeTa, J. vaN aNTweRpeN (edd.), Religioni e spazio pubblico. Un dialogo tra J. Habermas, C. Taylor, J. Butler e C. West, Armando Editore, Roma 2015, 33. A titolo d’esempio, Taylor scrive: «Se prendiamo affermazioni-chiave della moralità politica contemporanea, come quelle che attribuiscono diritti agli esseri umani in quanto tali, per esempio il diritto alla vita, non vedo proprio come il fatto che siamo esseri che desiderano/godono/soffrono o la percezione di essere agenti razionali possano essere fondamenti più sicuri che non il fatto che siamo stati creati a Sua immagine e somiglianza. Naturalmente, diversamente dall’essere creature di Dio, l’essere capaci di soffrire è una proposizione di base indubitabile […] ma ciò che è meno sicuro è cosa ne debba derivare normativamente» (C. TaylOR, Perché dobbiamo ridefinire radicalmente il secolarismo [2011], in e. meNdIeTa, J. vaN aNTwepeN [edd.], Religioni e spazio pubblico. Un dialogo tra J. Habermas, C. Taylor, J. Butler e C. West, Armando Editore, Roma 2015, 57). 19 Cfr. anche J. haBeRmaS, C. TaylOR, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, trad. it. di L. Ceppa e G. Rigamonti, Feltrinelli, Milano 1998. 20 S. BeNhaBIB, La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale (2002), trad. it. di A.R. Dicuonzo, il Mulino, Bologna 2005. Cfr. anche N. COTRONe, Seyla Benhabib. Nuovi paradigmi democratici, Mimesis, Milano-Udine 2019, 57-76. 21 22 f. dallmayR, Post-Secularity and (Global) Politics: A Need for Radical Redefinition, «Review of International Studies» 38 (2012), 5, 969. 23 Ibidem, 972. 24 Il primato, sostiene Dallmayr, deve essere la giustizia, e in particolare la giustizia globale. La differenza culturale tra Oriente e Occidente verrebbe così ad attenuarsi, e anzi i due termini diventerebbero complementari; cfr. f. dallmayR, “Asias Values” and Global Human Rights, «Philosophy East and West» 52 (2002), 2, 173-189, in part. 181. Si rimanda anche all’unico libro di Dallmayr tradotto in italiano: Il dialogo tra le culture. Metodo e protagonisti (2002), a cura di M. Toti, Marsilio, Venezia 2010. 147 GIaCOmO maRIa aRRIGO L’attenzione che oggi viene riservata al fenomeno religioso e al moltiplicarsi delle sue manifestazioni è dovuta anche alla crescente rilevanza delle confessioni spirituali nelle dinamiche globali, a dispetto delle molteplici diagnosi che consideravano la religione un fattore residuale di un passato morente e destinato a scomparire nel breve tempo. Agostino Giovagnoli rintraccia l’origine della cosiddetta “rivincita di Dio”, come è stata definita da Gilles Kepel,25 nella fine degli anni Settanta, e principalmente nella rivoluzione khomeinista in Iran.26 Ma, come ricorda Manlio Graziano, lungi dall’interessare solamente il cosiddetto mondo islamico, il revival religioso ha investito anche l’Occidente: con il nome di Great Awakening si designa un’ondata di religiosità che coinvolse il protestantesimo degli Stati Uniti all’inizio degli anni Settanta, specialmente in seguito alla sbandierata condizione di born again Christian del candidato democratico alla presidenza Jimmy Carter.27 Ugualmente, in Israele, dopo la Guerra dei sei giorni (5-10 giugno 1967) ci fu un maggior spazio dei sentimenti religiosi nel dibattito pubblico.28 Per non parlare del cattolicesimo e del ruolo carismatico (e diplomatico) svolto da Papa Giovanni Paolo II nella caduta del Muro di Berlino. Più di recente, si ricordino la piaga del terrorismo islamista (promosso dai due gruppi di al-Qaeda e dell’autoproclamato Stato Islamico) e il ruolo del cristianesimo ortodosso russo nell’attuale conflitto ucraino («siamo entrati in una lotta che non ha un significato fisico, ma metafisico», ha dichiarato Kirill, il patriarca della Chiesa ortodossa russa, il 6 marzo 2022). Le religioni sono impegnate anche nella rimarginazione delle ferite che sfigurano la storia recente, e le sempre più numerose dichiarazioni interreligiose ne sono una fulgida testimonianza.29 Possiamo notare che, da quanto detto, si sovrappongono due temi: il peso delle religioni sul piano internazionale, da una parte, e G. Kepel, La rivincita di Dio. Cristiani, ebrei e musulmani alla riconquista del mondo, trad. it. di C. Torre, Rizzoli, Milano 1991. 25 26 a. GIOvaGNOlI, Storia e globalizzazione (2003), Laterza, Roma-Bari 2010, 206-207. m. GRazIaNO, Guerra santa e santa alleanza. Religioni e disordine internazionale nel XXI secolo, il Mulino, Bologna 2014, 69, 87. 27 28 Ibidem, 78. Mi permetto di rimandare al mio Interreligious Dialogue and the Prospect of a Common Ethics: Between Nuclear and Ecological Catastrophe, in G.m. aRRIGO, J. fRaNCeSChINI (edd.), Revolutionary Times. Mediterranean Perspectives, Aracne, Roma 2023. Nel testo analizzo le più recenti e più rilevanti dichiarazioni interreligiose a partire dall’incontro di Assisi tenutosi il 27 ottobre 1986. 29 148 vII. NeOmOdeRNO e deISmO: Il ReCUpeRO dI UN pROGeTTO mORale il pluralismo religioso all’interno delle nazioni occidentali, dall’altra. I due fenomeni convergono nel riconoscimento che il fattore religioso non è (più) ininfluente ma emerge in tutta la sua rilevanza ad ogni livello della storia contemporanea. Tutto questo richiede di essere gestito e pensato, sicché la filosofia ne risulta profondamente interpellata. Ora, la tesi che mi propongo di sostenere è che, come negli altri ambiti analizzati da Roberto Mordacci in La condizione neomoderna, anche in riferimento alle questioni religiose ci troviamo in una situazione analoga a quella della prima modernità. Se così fosse, risulterebbe di primaria importanza considerare criticamente le proposte teoriche del Sei-Settecento, intese come strumenti concettuali utili ancora oggi per fronteggiare il disordine non più solo europeo bensì mondiale. Le categorie moderne, scrive Mordacci, «ci si presentano come un repertorio da reinterpretare, non come una zavorra da abbandonare».30 Quale risposta, quindi, per la gestione della diversità religiosa? 3. UNO SGUaRdO SUl deISmO INGleSe La rapidità delle comunicazioni ha reso possibile a culture distanti di entrare in un intimo e stabile contatto, e la promiscuità delle moderne città metropolitane ha intensificato la (ormai urgente) ricerca di modi di vita mutuamente compatibili. Da un punto di vista filosofico, come sottolinea Francesco Botturi, «il fenomeno multiculturale evoca e acutizza la crisi di senso della tradizione universalista occidentale»,31 richiedendo nuove formulazioni capaci di gestire la diversità. Va da sé che il pluralismo religioso è assai più difficile da regolare delle sole dissomiglianze nelle pratiche sociali, e la crescita inarrestabile della religione islamica a livello globale pone nuove sfide.32 30 mORdaCCI, La condizione neomoderna, 121. f. BOTTURI, Universale, plurale, comune. Percorsi di filosofia sociale, Vita e Pensiero, Milano 2018, 74. 31 Nel 2015 il Pew Research Center ha realizzato un dettagliato report sulla demografia religiosa a livello mondiale. Relativamente alla popolazione islamica, il report mostra che essa crescerà dal 23,2% della popolazione mondiale (circa 1,6 miliardi) nel 2010, al 29,7% (2,76 miliardi) nel 2050, raggiungendo quasi il numero dei cristiani. Il Pew Research Center, ipotizzando che questa tendenza continuerà anche dopo il 2050, ha sottolineato che i musulmani supereranno i cristiani a partire dal 2070: per quell’anno, infatti, le due comunità avranno lo stesso numero di affiliati (quasi il 32,2% ciascuna), fino a un inevitabile sorpasso della comunità musulmana su quella cristiana. Cfr. The 32 149 GIaCOmO maRIa aRRIGO Seguendo l’ipotesi accennata poc’anzi, chiediamoci: è mai esistita nel passato una situazione equivalente, o quantomeno similare, a quella che stiamo vivendo oggi? La domanda è senz’altro di difficile risposta, ma forse è possibile operare un paragone. Nella cosiddetta prima modernità l’Europa si è progressivamente aperta ad istanze culturali diverse dalle proprie, a civiltà lontane e, di primo acchito, incommensurabili a quella greco-romana e giudaico-cristiana. I viaggi, le esplorazioni e le scoperte geografiche della prima modernità hanno turbato l’uomo europeo, scuotendone nel profondo le certezze e le convinzioni. È Paul Hazard nell’ormai classico La crisi della coscienza europea (1935) a descrivere, proprio nel primo capitolo, l’enorme impatto che i nuovi viaggi ebbero sul pensiero moderno. Nel periodo compreso tra il 1680 e il 1715 gli italiani, i francesi, i tedeschi, gli inglesi, gli spagnoli, tutti viaggiavano verso la Cina, l’America, il Medio Oriente, l’India, e scrivevano resoconti e diari che poi raggiungevano il pubblico colto in patria, suggerendo un cambio di prospettiva circa la propria visione del mondo. Tra missioni religiose, scambi commerciali ed esplorazioni geografiche, l’Europa si era messa in movimento. Scrive Hazard che «tutte le idee vitali – quelle di proprietà, di libertà, di giustizia – vennero rimesse in discussione dall’esempio dei paesi lontani. […] Si constatò l’esistenza del particolare, dell’irriducibile, dell’individuale».33 Ma soprattutto, [d]i tutti gl’insegnamenti dati dallo spazio, il più nuovo fu forse quello della relatività. La prospettiva si modificò. Concetti apparsi sino allora trascendenti apparvero relativi alla diversità dei luoghi; pratiche ritenute fondate sulla ragione si rivelarono come semplicemente consuetudinarie; e, per converso, abitudini giudicate stravaganti, una volta spiegate con la loro origine e collocate nel loro ambiente, apparvero come razionali.34 Questo mutamento andava di pari passo con un altro fenomeno che frammentò ulteriormente e “pluralizzò”, per così dire, la coscienza europea, cioè la Riforma protestante e le conseguenti guerre di religione che lacerarono l’Europa tra i secoli XVI e il XVII, culminando nella Guerra dei trent’anni (1618-48). Cattolici e protestanti, divisi sia sul piaFuture of World Religions: Population Growth Projections, 2010-2050, Pew Research Center, 2 aprile 2015, https://assets.pewresearch.org/wp-content/uploads/sites/11/2015/03/ PF_15.04.02_ProjectionsFullReport.pdf. p. hazaRd, La crisi della coscienza europea (1935), a cura di P. Serini, UTET, Milano 2019, 8. 33 34 Ibidem, 9. 150 vII. NeOmOdeRNO e deISmO: Il ReCUpeRO dI UN pROGeTTO mORale no dottrinale che su quello politico, sembravano destinati a confliggere in perpetuo, senza la possibilità di una soluzione pacifica. Paradigmatica dell’insorgere di conflitti a livello interreligioso (o forse sarebbe meglio dire infra-religioso, all’interno del cristianesimo) è la Gran Bretagna, dove la Rivoluzione puritana (1649-1660), con tutti i suoi esperimenti egualitari e il suo entusiasmo millenarista,35 e la successiva Gloriosa rivoluzione (1688-1689), impressero un marchio indelebile sulla popolazione, vieppiù sconvolta dai sovvertimenti religiosi e alla disperata ricerca di un nuovo equilibrio non solo istituzionale ma anche filosofico. Si considerino anche le due tendenze presenti in seno alla Chiesa anglicana, «da un lato gli esponenti della cosiddetta High Church, sostenitori dell’ideologia del partito tory, soprattutto del principio di legittimità monarchica e dell’obbedienza passiva dei sudditi rispetto al sovrano; dall’altro i vescovi della Low Church, di tendenze più liberali in campo teologico e politico, la cui posizione era caratterizzata da una maggiore apertura e moderazione nei confronti dei gruppi protestanti non conformisti».36 In questo clima nacque il deismo, una corrente filosofico-teologica razionalistica che cercava un fondamento comune alle varie denominazioni cristiane. Partendo dall’assunto che i culti religiosi sono molteplici, il deismo sostiene che la loro sostanza è sempre la stessa ed è razionalmente rinvenibile e filosoficamente fondabile. L’idea dell’unità della religione, già propria di Nicola Cusano, viene qui sviluppata in tutte le sue implicazioni, fino all’elaborazione di una vera e propria religione naturale. La vera religione – questa, in sostanza, la posizione deistica – non può avere misteri né può ammettere miracoli, bensì deve consistere di sole proposizioni chiare ed evidenti. Emblematica è l’opera intitolata Christianity not Mysterious (1696) di John Toland (1670-1722), ove viene affermato che «dal momento che la religione è concepita per creature ragionevoli, è la convinzione e non l’autorità che dovrebbe avere effetto su di loro»,37 e anche che «la verità è sempre e dovunque la stessa, e una proposizione incomprensibile o assurda non diviene mai più autorevole per il Per uno studio sul fermento religioso puritano, si rimanda a m. walzeR, The Revolution of the Saints. A Study in the Origins of Radical Politics, Harvard University Press, Cambridge 1965. Cfr. anche U. BONaNaTe (ed.), I puritani. I soldati della Bibbia, Einaudi, Torino 1975. 35 36 C. GIUNTINI, Toland e i liberi pensatori del ‘700, Sansoni, Firenze 1974, 4. J. TOlaNd, Il cristianesimo senza misteri (1696), in J. TOlaNd, Opere, a cura di C. Giuntini, UTET, Torino 2011, 99. 37 151 GIaCOmO maRIa aRRIGO fatto di essere antica e stravagante, di essere stata scritta in latino, in greco o in ebraico».38 In sostanza, per Toland «la ragione è il fondamento di ogni certezza, e nessun oggetto della Rivelazione […] è escluso dalla sua indagine più dei comuni fenomeni della natura. Di conseguenza sosteniamo […] che non vi è nulla nel Vangelo che sia contrario alla ragione, né superiore a questa; e che nessuna dottrina cristiana può essere propriamente definita un mistero».39 Questo, in breve, il tono dell’intero movimento deista, i cui maggiori rappresentanti sono, dopo Toland, Anthony Collins (1676-1729) e Matthew Tindal (1656-1733). Collins è conosciuto come l’autore di A Discourse of Free-Thinking (1713), celebre manifesto del cosiddetto libero pensiero, da lui inteso come «l’uso dell’intelligenza nel tentare di scoprire il significato di qualsivoglia asserzione, nell’esaminare la natura delle prove a suo favore o ad essa contrarie, e nel giudicarla in base alla forza o alla debolezza delle prove».40 Ed è «solo ad opera del libero pensiero [che] gli uomini arrivano a comprendere che un Essere assolutamente buono, saggio, giusto ed onnipotente ha creato il mondo e lo governa, e di dedurre da tale assioma che Egli non può richiedere agli uomini, di qualsiasi nazione o condizione di vita, se non ciò di cui ha reso possibile la conoscenza mediante l’esperienza e la ragione».41 Infine Tindal, la cui opera principale, Christianity As Old As the Creation; or The Gospel, a Republication of the Religion of Nature (1730), è universalmente considerata la “Bibbia del deismo”,42 scrive che «Dio, in ogni tempo, ha dato agli 38 Ibidem, 101. 39 Ibidem, 107. 40 a. COllINS, Discorso sul libero pensiero (1713), a cura di I. Cappiello, Liberilibri, Macerata 20192, 7. 41 Ibidem, 37. Alla luce della citazione di Collins è possibile comprendere appieno le parole di Étienne Gilson: egli definisce il Dio dei deisti come «il fantasma filosofico del Dio cristiano. […] Per quanto sottolineassero con vigore che era un Dio conosciuto naturalmente, non lo concepivano affatto come i filosofi. Il Dio dei deisti non era un primo principio intelligibile come il Bene di Platone, il Pensiero autopensante di Aristotele o la Sostanza infinita di Spinoza. Il Dio dei deisti […] era un essere supremo, universalmente adorato da tutti gli uomini nello stesso modo, con i soli precetti della lode e della preghiera; un Dio che poteva essere offeso col peccato. […] Il più grande omaggio al Dio del cristianesimo che io conosca è la sua sopravvivenza in questa idea, affermata contro il cristianesimo sulla base della pura ragione naturale» (e. GIlSON, Dio e la filosofia [1941], intr. di A. Livi, Editrice Massimo, Milano 1998, 97-98). Cfr. S. lalOR, Matthew Tindal, Freethinker. An Eighteenth-Century Assault on Religion, Continuum, London 2006, 111 ss. 42 152 vII. NeOmOdeRNO e deISmO: Il ReCUpeRO dI UN pROGeTTO mORale uomini mezzi sufficienti per conoscere ciò che Egli richiede loro»,43 e che «la religione naturale consiste nell’osservanza di quelle cose che la nostra ragione, nel considerare la natura di Dio e dell’uomo, e la relazione che sussiste tra loro, dimostra essere nostro dovere».44 Per questi autori la ragione appare allora come una “rivelazione interna” e universale, posseduta da tutti gli uomini in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Altri elementi tipici del deismo, corollari negativi di tale posizione positiva, sono il forte anticlericalismo, la supposizione di un’alleanza sotterranea tra clero e potere temporale, una esegesi quantomai critica della Sacra Scrittura, il giudizio negativo su ogni tradizione umana, il rigetto di ogni dogma e la corrispondenza tra above reason e contrary to reason.45 Oltre alle tre figure citate, si ricordano altri esponenti del deismo inglese: William Wollaston (1659-1724), Thomas Woolston (1668-1733), Thomas Morgan (1671/2-1743), Thomas Chubb (1679-1747), Lord Bolingbroke (1678-1751), Charles Blount46 (1654-1693). Una menzione a parte merita Edward Herbert di Cherbury (1583-1648), considerato il precursore, o forse addirittura il fondatore, del deismo stesso. Autore di De veritate (1624) e di De religione laici (1645), Herbert propone un credo minimo composto da cinque nozioni strutturali alla coscienza dell’uomo che egli chiama “verità cattoliche” oppure notitiae communes: «1. C’è un qualche Nume supremo. 2. Quel Nume deve essere adorato. 3. La virtù e la pietà intimamente congiunte con la fede in Dio e l’amore nei Suoi confronti costituiscono la parte principale del culto divino. 4. Ci si deve pentire dei peccati. 5. C’è un premio o una pena dopo questa vita».47 Queste verità, poste da Dio nell’uomo fin dalla sua nascita, sono presenti ovunque nella storia, e sono dunque forti del consenso di tutte le nazioni nonché di verifica razionale. Ma ecco quindi che, come rinviene Mario Sina, «quanto di positivo è insegnato dalla Rivelazione viene ricondotto a mera espressione o chiarificazione delle fondamentali “noti43 m. TINdal, Christianity as Old as the Creation; or The Gospel, a Republication of the Religion of Nature (1730), printed by D. Denniston, Newburgh 1798, 9. 44 Ibidem, 18. 45 Cfr. G. fIlORamO, Religione e ragione tra Ottocento e Novecento, Laterza, Roma-Bari 1985, 19. Su Blount si rimanda a un interessante saggio, finora l’unico in Italia, dedicato interamente al suo pensiero: U. BONaNaTe, Charles Blount. Libertinismo e deismo nel Seicento inglese, La Nuova Italia, Firenze 1872. 46 h. dI CheRBURy, La religione del laico (1645), a cura di G. Bartalucci, Morcelliana, Brescia 2017, 126. 47 153 GIaCOmO maRIa aRRIGO tiae communes”. […] Herbert accomuna tutte le varie religioni positive di fronte all’unica vera e sublime religione: quella naturale».48 A conclusione del paragrafo è bene evidenziare un dato alquanto rilevante per il discorso qui svolto: il deismo inglese nacque sia da sollecitazioni teologico-filosofiche che da un insieme di circostanze storiche. John Orr individua nell’ascesa e la diffusione dell’Islam e nelle scoperte geografiche le due grandi novità che stimolarono la filosofia inglese, e specialmente il deismo.49 Le domande a cui bisognava trovare un’urgente risposta divennero ben presto le seguenti: quale salvezza è possibile per le popolazioni non-cristiane, vissute così a lungo all’oscuro della Rivelazione biblica? Quale significato ha la pluralità delle religioni nell’economia della salvezza? La pretesa veritativa del cristianesimo può essere sostenuta dinnanzi a una pluralità di fedi così ampia? «Siccome tra le popolazioni straniere e persino tra gli indiani esistono non soltanto storie umane ma anche storie divine e rivelate (se è lecito crederlo), sia scritte che non scritte, che opinione se ne dovrà avere?»,50 si domanda Herbert di Cherbury. È sulla scorta di questa domanda che egli scrisse De religione gentilium (completato nel 1645, pubblicato postumo nel 1663), ove sviluppa un embrionale studio comparato tra le religioni e approfondisce il tema dell’eventuale salvezza dei pagani. Egli sostiene che le cinque notitiae communes sono già presenti nelle svariate religioni mondiali, le quali sarebbero così diverse manifestazioni cultuali di una stessa esigenza interiore, e cioè l’innato desiderio della vita eterna. Lungi dal concentrarci su spiegazioni sociologiche del movimento deista, che pure sono rilevanti,51 ciò che importa ai fini del presente m. SINa, L’avvento della ragione. “Reason” e “above reason” dal razionalismo teologico inglese al deismo, Vita e Pensiero, Milano 1976, 158. 48 J. ORR, English Deism. Its Roots and Its Fruits, Eerdmans Publishing Company, Michigan 1934, 20-30. Altri fattori che Orr cita sono l’invenzione della stampa, che permise una capillare diffusione di opuscoli e scritti minori presso un vasto pubblico, e la nascita della scienza moderna, che fece germogliare una grande fiducia nelle capacità conoscitive umane, riducendo progressivamente lo spazio concesso a fenomeni sovrannaturali e misteriosi. 49 50 CheRBURy, La religione del laico, 77. Su tutte si rimanda all’analisi di Alfredo Sabetti, che scrive: «La sconfitta della ragione teologica e la conseguente nascita della ragione borghese potrebbero essere addirittura viste come l’ultimo approdo, sul piano ideologico, del tortuoso e tormentato cammino di quello che possiamo chiamare lo “spirito della Riforma”, nella misura in cui la Riforma ha portato allo smembramento del mondo uno e completo incarnato nella Chiesa universale, ed ha respinto il protestante nella solitudine della propria coscienza, solo di 51 154 vII. NeOmOdeRNO e deISmO: Il ReCUpeRO dI UN pROGeTTO mORale saggio è comprendere la finalità ultima del deismo come movimento filosofico, la sua vocazione profonda. Si è detto che lo sfondo storico della genesi del deismo è rappresentato dalle guerre religiose tra Stati europei e anche dai conflitti all’interno della stessa Inghilterra, nonché dalla pluralizzazione delle istanze confessionali a seguito delle grandi scoperte geografiche. Ebbene, Ernst Cassirer sottolinea lucidamente che il deismo scaturisce dal distacco interiore da quello spirito in nome del quale si erano combattute le lotte religiose dei secoli passati; esso si manifesta nella profonda nostalgia di quella pax fidei che il Rinascimento aveva sperata e promessa, ma non si era mai raggiunta. Non nella guerra religiosa, ma soltanto nella pace della fede (questa è l’universale convinzione dei deisti) si può schiudere e si schiuderà per noi la vera essenza di Dio.52 È proprio questo spirito, questa ispirazione, forse, ciò di cui abbiamo bisogno oggi più che mai. 4. veRSO UN NUOvO deISmO Se è valido l’assunto di Mordacci relativo all’affinità tra epoca contemporanea e prima modernità, è possibile dedurne che il mondo contemporaneo versa in una situazione analoga a quella vissuta dal continente europeo nei secoli Cinque-Sei-Settecento. Dal punto di vista religioso le similitudini sono tante, e tutte concernenti la moltiplicazione delle offerte confessionali sia all’interno delle società che all’esterno, vale a dire sul piano che oggi definiremmo internazionale. All’interno: come in passato la divisione tra cattolici e protestanti è risultata esplosiva, così oggi la pluralizzazione non riguarda più solamente la diversità infra-cristiana bensì tutto lo spettro delle posizioni religiose possibili. All’esterno: come in passato si intrecciavano le guerre religiose europee e la scoperta di nuovi orizzonti spirituali di civiltà lontane, così oggi la “rivincita di Dio” nelle decisioni globali e l’esposizione del singolo a tutte le opzioni spirituali possibili risultano decisivi per la definizione e l’inquadramento fronte a Dio. […] La critica delle religioni positive nasce all’interno del discorso che la Riforma ha iniziato, anche se si rivolge contro quelle che sono diventate le nuove strutture portanti delle chiese riformate, anzi rompe i limiti della confessionalità e del dogmatismo, nei quali esse si sono costruite» (a. SaBeTTI, All’origine della ragione borghese: la critica della religione nell’Inghilterra del Settecento, in Id. [ed.], I liberi pensatori inglesi del Settecento: Toland, Collins, Tindal, La Nuova Italia, Firenze 1978, Xv-XvI). e. CaSSIReR, La filosofia dell’Illuminismo (1932), trad. it. di E. Pocar, La Nuova Italia, Firenze 1973, 246. 52 155 GIaCOmO maRIa aRRIGO della condizione neomoderna – complice pure l’accelerazione esponenziale, l’accesso a Internet e il distacco tra religione e cultura.53 È possibile una ripresa del progetto deistico? È auspicabile un ripensamento – anche radicale – del paradigma deistico, alla luce delle sfide multiculturali e interreligiose della contemporaneità? Oggi una qualsivoglia intesa interreligiosa sembra essere quantomai vitale e urgente.54 Un deismo contemporaneo rappresenterebbe un tentativo non teologico (cioè interno a una posizione confessionale) né politico (concernente la convivenza fra le diverse comunità di fede), bensì interamente filosofico, impegnato a trovare un terreno comune tra le religioni, e primariamente un terreno morale. Esso non rappresenterebbe un altro volto dell’ecumenismo (quest’ultimo valido all’interno dei rapporti tra cristiani)55 né una proposta di convivenza tra più culture e più fedi all’interno di uno specifico territorio (che sarebbe relativo a tematiche 53 La diagnosi delle religioni sganciate da un contesto culturale è la grande intuizione di Olivier Roy. Lo scienziato politico francese riconosce infatti che «la secolarizzazione non ha cancellato la religione ma, scindendola dal suo contesto culturale, l’ha fatta apparire nei termini di pura religione» (O. ROy, La santa ignoranza. Religioni senza cultura [2008], Feltrinelli, Milano 2009, 18). Ecco quindi che «esiste uno stretto legame fra la secolarizzazione e il revival religioso» (ibidem, 19). 54 Ho insistito sulla necessità di un’intesa interconfessionale già qualche anno fa in un articolo pubblicato su Studi Cattolici. Intitolavo l’intervento Per un’intesa islamo-cristiana e sostenevo l’importanza di un terreno comune fondato sulla condivisa esperienza della trascendenza. Scrivevo che l’intesa tra cristiani e musulmani potrebbe «collocarsi sul terreno della trascendenza, cioè su elaborazioni teoriche […] fondate su una diretta esperienza del metempirico, su una vissuta intimità con Dio come uno e unico, non certo uno e trino, ma [che] è ben altra cosa dal nihil di cui è latrice la cultura occidentale post-moderna» (G.M. aRRIGO, Per un’intesa islamo-cristiana, «Studi Cattolici» 706 [2019], 850). L’adozione del paradigma neomoderno permette di superare proprio quel nihil in direzione di una rinnovata apertura al trascendente. Il nichilismo con cui il postmoderno ha così tanto flirtato, intendendolo come privilegiato terreno emancipativo, «lungi dall’essere un luogo di liberazione», scrive Mordacci, «è piuttosto il gesto di consegnarsi ai nuovi dogmatismi e agli istinti di aggressione. […] Al peggioramento del quadro di irrazionalità del mondo presente ha contribuito irresponsabilmente il gioco intellettualistico della denuncia della ragione, del tiro al bersaglio contro ogni pensiero, concetto, idea che si sia affacciata nella coscienza moderna. Il postmodernismo ha la responsabilità di aver fatto tracimare verso le masse la legittimazione del non-pensiero» (mORdaCCI, La condizione neomoderna, 70). Come definito nel decreto della Chiesa cattolica Unitatis Redintegratio promulgato il 21 novembre 1964, l’ecumenismo rappresenta «le attività e le iniziative suscitate e ordinate a promuovere l’unità dei cristiani, secondo le varie necessità della Chiesa e secondo le circostanze» (Unitatis Redintegratio, 4). 55 156 vII. NeOmOdeRNO e deISmO: Il ReCUpeRO dI UN pROGeTTO mORale come la cittadinanza, la tolleranza e il ruolo delle istituzioni). Piuttosto, un nuovo deismo avrebbe il compito di regolare dall’interno i rapporti tra le diverse religioni per il tramite del riconoscimento di qualcosa in comune. Un simile scopo era raggiunto dal deismo inglese sei-settecentesco attraverso l’individuazione di una religione naturale, primigenia e universale, intimamente razionale e perciò attestabile con il semplice lume della ragione. Oggi questa proposta è insostenibile e finanche irriguardosa verso le legittime pretese veritative delle singole religioni.56 Le ragioni del naufragio della religione naturale settecentesca sono svariate ed approfondite da John Orr al termine del testo già citato,57 e pertanto proibiscono un ritorno a tale posizione. In particolare, già nel tardo Settecento emergeva una certa ingenuità dell’intero progetto deista: la ricerca di un minimo comun denominatore razionalistico confliggeva apertamente con le posizioni dottrinali delle varie confessioni cristiane, non potendo essere difeso dall’interno delle comunità di fede; un simile minimo comun denominatore divenne persino uno strumento per operare una riduzione delle religioni storiche alla loro presunta matrice astorica, sfrondandole della loro positività e, di fatto, neutralizzandole attraverso un livellamento generale. D’altro canto, il riferimento acritico a un Dio buono e giusto che punisce i peccati degli uomini rimandava a dottrine smaccatamente cristiane, violando il proposito originario di andare oltre le concezioni dottrinali delle singole religioni. Il pensiero, così, giunse dinnanzi a un bivio: o le religioni avrebbero dovuto essere superate dal deismo settecentesco, che si presentava sempre più come 56 Andrea Aguti sottolinea che oggi «non è più possibile ragionare sulla religione a partire soltanto da una determinata forma storica di religione oppure da un concetto generale frutto della astrazione dalle religioni storiche o esemplificato al meglio da una religione storica» (a. aGUTI, Introduzione alla filosofia della religione, Editrice La Scuola, Brescia 2016, 143). ORR, English Deism. Its Roots and Its Fruits, 171-176. Tra queste ricordiamo l’energica e amplissima produzione apologetica di fronte al deismo, la speculazione scettica humeiana, le differenze interne alle stesse personalità deiste (attestanti il mancato accordo su quali fossero i decreti della religione naturale, specialmente dopo la critica di Locke all’innatismo di Herbert di Cherbury), e il comportamento talvolta libertino degli stessi autori deisti, in contrasto con la virtuosa semplicità della supposta religione naturale. Da non dimenticare è l’azione congiunta di Reasonableness of Christianity (1695) di John Locke, che sosteneva appunto la “ragionevolezza” e non invece la “razionalità” del cristianesimo (lasciando aperto lo spazio al mistero e alla Rivelazione), e dei Dialogues concerning Natural Religion (1779) di David Hume, assertore di uno scetticismo speculativo in opposizione a posizioni fideistiche e deistiche – due testi che giocarono un importante ruolo nell’eclissi della religione naturale. 57 157 GIaCOmO maRIa aRRIGO un super-religione, una dottrina autosufficiente per la salvezza dell’anima, oppure il deismo si sarebbe dovuto ridimensionare sotto le crescenti spinte di una rinnovata apologetica cristiana e dell’ostinazione e pervicacia della devozione tradizionale. Sicché col tempo non si avvertì più la necessità di un deismo trasformatosi, e anzi deformatosi, in una super-religione che pretendeva di valicare le religioni storiche, avendo vieppiù perduto i connotati di un progetto veramente filosofico (e questo anche in forza del suo forte anticlericalismo). Presentandosi come un sostituto delle religioni piuttosto che come loro avvocato, perse ben presto di interesse. Ecco perché un nuovo deismo dovrebbe evitare l’errore di presentarsi come alternativo alle religioni, invece mantenendo ben salda la sua identità di progetto filosofico-morale, una riflessione sulle religioni e non in luogo delle religioni. L’universalità della religione naturale dovrebbe cedere il terreno all’unicità delle religioni storiche, e questo proprio per salvaguardare la specificità di ciascuna. Come suggerisce Giuseppe Tanzella-Nitti, oggi «restano immutate le tensioni fra verità e storia, fra il registro di universalità, proprio della razionalità scientifica, e quello di unicità, proprio di chi si accosta all’evento irripetibile di un Dio, Creatore dell’universo, che ci si fa incontro in Gesù di Nazaret».58 Mantenendo le tensioni, le due polarità di universalità e di unicità non devono rappresentare un’alternativa: sganciare il tentativo deista dall’universalità della pura razionalità significa fare i conti con l’unicità del cristianesimo e con l’unicità di tutte le altre religioni – in altre parole, con la loro irripetibilità, frutto di una storia particolare che non coincide con il progredire della ragione calcolante e strumentale, e con la loro infungibilità, che garantisce a ciascuna dei caratteri specifici. Al contempo, senza abbracciare l’ormai naufragato esperimento della religione naturale, bisognerà presupporre una chiave di volta universale capace di evitare una (altrimenti inevitabile) dispersione e frammentazione delle variegate posizioni, pensieri, fedi – o perlomeno, è questa la speranza filosofica del tentativo deista, che si configura, lo ripeto, come un presupposto, un’ipotesi guida per un rinnovato progetto che miri ad un’intesa che sia intrinseca e non estrinseca. È dunque su questo terreno che si gioca la partita odierna, quello della storicità delle singole posizioni e quello della trascendenza, G. TaNzella-NITTI, Teologia della credibilità in contesto scientifico, vol. 1, Città Nuova, Roma 2015, 179 (corsivo aggiunto). 58 158 vII. NeOmOdeRNO e deISmO: Il ReCUpeRO dI UN pROGeTTO mORale o meglio dell’esperienza della trascendenza.59 Di seguito propongo, in via del tutto provvisoria, incerta e aperta a sostanziali revisioni e integrazioni, due possibili vie per un nuovo deismo che non ricorra alle pretese di una religione naturale e razionale – fermo restando che lo scopo del presente saggio è solamente quello di rilanciare la plausibilità di un rinnovato progetto deistico e non, invece, presentare in modo compiuto la fisionomia reale di un nuovo deismo. Nel 1985 Bernard Williams ha avanzato un argomento filosofico che distingue i termini morali “sottili” (thin) dai termini morali “spessi” (thick). Tra questi ultimi Williams cita, ad esempio, «codardia, menzogna, brutalità, gratitudine, e così via»,60 laddove invece esempi di termini sottili sono “giusto” e “sbagliato”, “buono” e “malvagio”. Williams sostiene che «i termini etici più pregnanti [thicker] non sono altro che dei composti [compounds] che comprendono questi termini […] generali e astratti»,61 cioè sottili, e conseguentemente che i termini thick posseggono uno specifico carattere descrittivo, non solo prescrittivo. Nel 1994 Michael Walzer ha proseguito questa argomentazione, sostenendo che termini sottili e termini spessi si riferiscono a contesti diversi e servono a scopi diversi. I termini thick formano il massimalismo morale e sono gravidi della propria materializzazione contestuale, della propria specificazione culturale. I termini thin rappresentano il minimalismo morale e si presentano come validi anche al di là delle barriere nazionali o culturali all’interno delle quali sono stati elaborati. Walzer mette in guardia dal considerare che ogni morale sia inizialmente thin per poi diventare progressivamente thick: egli sostiene invece che «la morale è spessa fin dall’inizio, culturalmente integrata e pienamente conforme, e si rivela sottile solo in occasioni speciali»,62 in particolare «per la critica sociale e 59 Uno studio sull’esperienza religiosa, divenuto ormai una pietra miliare nell’ambito della filosofia della religione, è The Varieties of Religious Experience: A Study in Human Nature (1902) di William James. Una discussione critica e un’attualizzazione del volume di James è stata svolta da Charles Taylor in Varieties of Religion Today: William James Revisited (2002). Una traduzione italiana del commento tayloriano è contenuta in C. TaylOR, La modernità della religione, a cura di P. Costa, Meltemi, Roma 2004, 7-78. Sulla crescente rilevanza degli studi filosofici sull’esperienza religiosa, cfr. I. maNCINI, Filosofia della religione (1968), Morcelliana, Torino 1999, 67 ss. 60 B. wIllIamS, L’etica e I limiti della filosofia (1985), trad. it. di R. Rini, Mimesis, Milano-Udine 2022, 198. 61 Ibidem, 187. M. walzeR, Geografia della morale. Democrazia, tradizioni e universalismo (1994), a cura di G. Palombella, Dedalo, Bari 1999, 17. 62 159 GIaCOmO maRIa aRRIGO per la solidarietà»,63 allorquando cioè si invocano valori come “Verità” e “Giustizia”64 intesi come aventi un valore universale. Esempi di valori spessi sono invece la democrazia liberale, il libero mercato e altre specifiche soluzioni e modi di vivere. Walzer argomenta che il minimalismo è meno il prodotto della persuasione che di un mutuo riconoscimento fra i protagonisti di diverse culture pienamente sviluppate. Consiste di princìpi e regole che si sono sviluppati in diversi tempi e luoghi e che sono ritenuti simili anche se si esprimono in diverse lingue e riflettono diverse storie e diverse visioni del mondo. […] Relativamente al contesto, essi determinano prospettive contrastanti; visti da lontano, in momenti di crisi e conflitto, cementano la comunanza.65 E questo perché, «benché abbiamo diverse storie, abbiamo comuni esperienze e, qualche volta, comuni risposte».66 Infine, di primaria importanza è l’assunto che «il minimum non è l’essenza fondante del massimo, bensì solo un suo pezzo».67 Con un po’ di esercizio e di tempo – che in questa sede scarseggia – è possibile applicare un simile ragionamento anche alle religioni: non c’è una religione naturale a fondamento delle religioni positive, non una dottrina comprensiva universale, non un esperanto morale/religioso, bensì un riconoscimento di comuni posizioni thin – posizioni che, però, hanno sempre un sapore «particolaristico e localistico, […] intimamente aderente alle morali [e alle religioni] massimaliste create qua e là, e in specifici tempi e luoghi»68 (evitando con ciò di mettere in discussione la verità di ciascuna posizione spirituale), ma che al contempo garantiscono una proiezione e un’apertura più ampia rispetto al contesto entro il quale tali termini si sono formati, specialmente in risposta a problemi avvertiti come urgenti, a questioni di convivenza pacifica, a problematiche relative a soprusi e violenze, al fondamentalismo e a storture identitarie. Una seconda possibilità per un nuovo deismo potrebbe essere edificabile a partire dalla feconda filosofia della religione elaborata da Ru63 Ibidem, 28. 64 Walzer scrive che «una visione minimalista è una visione da una qualche distanza oppure la visione di una crisi, in modo che noi possiamo riconoscere la giustizia solo in senso lato, non specifico» (ibidem, 49). 65 Ibidem, 29. 66 Ibidem (corsivo aggiunto). 67 Ibidem, 30. 68 Ibidem, 19-20. 160 vII. NeOmOdeRNO e deISmO: Il ReCUpeRO dI UN pROGeTTO mORale dolf Otto.69 Nel suo celebre Das Heilige (1917) propone un linguaggio del tutto rinnovato per parlare della religione: non Dio o il divino, bensì il sacro o il numinoso,70 oggetto di tutte le esperienze religiose, anche di quelle non istituzionalizzate o non positive. Il numinoso è l’irrazionale al centro dell’esperienza religiosa, un punto oscuro non concettualizzabile, «l’intima essenza di ogni religione, senza la quale religione non sarebbe»,71 accessibile al sentimento e non alla ragione – benché nel corso della storia il processo di saturazione etico-razionale abbia rappresentato un legittimo sviluppo delle religioni che egli chiama “superiori”. Il numen non è riducibile a un concetto chiaro ed evidente, e a partire da ciò Otto sviluppa una vera e propria fenomenologia della religione nella scansione dei suoi vari “momenti”: il numinoso come tremendum, come majestas, come energia, come mysterium, come fascinans, come portentoso, come augustum, ecc. Il numinoso, scrive Otto, è «un contenuto sentimentale qualitativamente specifico, un sentimento primordiale, non nel significato di tempo ma di principio»,72 al pari dell’istinto sessuale e del senso del bello, entrambi irrazionali ma non per questo inspiegabili. Così è espunta dal dibattito «l’ipotesi del monoteismo primitivo, questo aborto della apologetica missionaria»73 e, con essa, pure la religione naturale dei deisti («non vi è religione “naturale” in contrasto con la religione storica: e ancor meno vi è religione innata»).74 Il sacro, prosegue Otto, è una categoria a priori: «nel numinoso siamo in presenza di un momento conoscitivo puramente a priori»75 colto da una «occulta 69 Così si esprimeva anche Ernesto Buonaiuti nella Prefazione alla prima traduzione italiana del testo: «Questo libro […] racchiude le prime linee di una filosofia della religione destinata – noi lo crediamo fermamente – a una singolare larghezza di ripercussioni e di applicazioni. La terminologia che esso adotta e la raffigurazione schematica entro la quale essa incornicia i fatti e i momenti centrali della religiosità […] possono anche offrire un soccorso valido alla unificazione delle posizioni apologetiche in tutte le forme religiose positive» (E. BUONaIUTI, Prefazione [1926] a R. OTTO, Il sacro [1917], trad. it. di E. Buonaiuti, SE, Milano 2009, 9, corsivo aggiunto). 70 È forse più di una coincidenza l’adozione dello stesso termine – “numen” – da parte di Rudolf Otto e di Herbert di Cherbury, e segnatamente nella prima delle cinque notitiae communes. 71 R. OTTO, Il sacro (1917), trad. it. di E. Buonaiuti, SE, Milano 2009, 21. 72 Ibidem, 65. 73 Ibidem, 142. 74 Ibidem, 181. 75 Ibidem, 128. 161 GIaCOmO maRIa aRRIGO predisposizione dello spirito umano».76 E questo momento conoscitivo non comprende ma intende il numinoso77 – sebbene del numinoso si possa e anzi si debba parlare, giacché «una religione si salva dal precipitare nel razionalismo mantenendo vivi gli elementi irrazionali. D’altro canto, saturandosi di momenti razionali, si preserva dal cadere o dal permanere nel fanatismo o nel misticismo».78 Ora, grazie alla categorizzazione di Otto è possibile essere «indipendenti dalle fluttuanti oscillazioni delle conclusioni esegetiche e dal peso tormentoso delle giustificazioni storiche»,79 e diventa altresì ammissibile parlare delle religioni come manifestazioni di uno stesso impulso, di una stessa predisposizione intimamente umana – che, in larga parte, è la stessa intuizione del deismo inglese. L’elemento morale, che è indispensabile per un nuovo deismo, è qui coinvolto prepotentemente: scrive Otto che «la religione è essenzialmente, prescindendo da ogni trascrizione etica, intimissima obligatio, impegno per la coscienza e vincolo della coscienza, è obbedienza e servizio, non già basata sulla semplice costrizione della potenza superiore, bensì sulla prostrazione consapevole dinanzi al più santo dei valori».80 Contrariamente al comune giudizio di eteronomia applicato alle svariate morali religiose, Otto sottolinea invece una intrinseca autonomia di un codice etico fondato sul numinoso, una peculiare obligatio autonoma o, come la chiama lui, una “prostrazione consapevole”. Nella polemica con Hans Küng, e discutendo la proposta morale culminata nella Dichiarazione per un’etica mondiale firmata dal Parlamento delle religioni mondiali il 4 settembre 1993, Paul Ricoeur rileva che nella Dichiarazione non sono stati adottati termini religiosi o teologici, la qual cosa è di per sé problematica se, come invece era intenzione di Küng, tale etica intende riunire tutte le religioni esistenti.81 A parte le 76 Ibidem, 129. «Si può “intendere” profondamente senza “comprendere”, come accade ad esempio nella musica. E quel che nella musica è traducibile in concetti, non è più musica. […] La misteriosa oscurità, intraducibile in concetti, del numen, non coincide assolutamente con la sua “inconoscibilità”. Il Deus absconditus et incomprehensibilis non fu affatto per Lutero un Deus ignotus» (ibidem, 147). 77 78 Ibidem, 153. 79 Ibidem, 179. 80 Ibidem, 72. Cfr. h. KüNG, Progetto per un’etica mondiale. Una morale ecumenica per la sopravvivenza umana (1990), trad. it. di G. Moretto, Rizzoli, Milano 1991. 81 162 vII. NeOmOdeRNO e deISmO: Il ReCUpeRO dI UN pROGeTTO mORale considerazioni relative alla debolezza di una morale dichiaratamente interreligiosa che però fa a meno di un inquadramento religioso, Ricoeur sostiene che sarebbe conveniente «reinserirla nella dinamica profonda della credenza, per ridarle forza, approvazione, quel sentimento di anteriorità della parola, di superiorità della parola, che mi trascina e che fa in modo che io dica: non sono io che ho dato questa regola».82 Solo così è possibile parlare, insieme a Roberto Celada Ballanti, di «un’universalità che lega senza omologare, che non nega il particolare ma abita in esso»,83 «di un universale da edificarsi sul terreno etico, non astrattamente logico»84 – un’autonomia che viene da un’altra parte, un’eteronomia a cui si risponde con un assenso spontaneo. 5. CONSIdeRazIONI CONClUSIve Roberto Mordacci afferma che il postmoderno ha duramente condannato la modernità e la sua pretesa scientista e riduzionista, ma esso avrebbe sbagliato bersaglio identificando tra loro, e di fatto confondendoli, i tre momenti costitutivi della modernità: la prima modernità (Quattro-Cinque-Seicento), la fase centrale (Settecento), e la seconda modernità (Otto-Novecento). La diagnosi postmodernista sull’abuso della ragione sarebbe valida solo contro la seconda modernità, e quindi contro idealismo e positivismo, e non sarebbe per niente estendibile all’elaborazione filosofica dei secoli precedenti, cioè all’Illuminismo e alla sua preparazione. «In questo senso», così si esprime Mordacci, «possiamo dire che il postmoderno è piuttosto una patologia della seconda modernità»85 e che «senza avvedersene, ha diagnosticato la fine di un tradimento della modernità, che si è avviato subito dopo l’illuminismo e si è protratto fino a tutto il Novecento. L’aver addossato alla modernità le colpe di un movimento a essa contrario rende il postmoderno parte integrante dello stesso errore e perciò incapace di comprendere il mondo contemporaneo».86 Se dunque è vero che sussiste una così forte discontinuità tra Settecento e Ottocento – è questa la tesi di Mordacci –, e se è altresì vero h. KüNG, p. RICOeUR, Il lato oscuro della fede. Religioni, violenza e pace (1998), trad. it. di R. Beretta, Medusa, Milano 2015, 29 (corsivo aggiunto). 82 83 R. Celada BallaNTI, Filosofia del dialogo interreligioso, Morcelliana, Brescia 2020, 141. 84 Ibidem, 122. 85 mORdaCCI, La condizione neomoderna, 16. 86 Ibidem, 25. 163 GIaCOmO maRIa aRRIGO che il Novecento «si è aperto con tre grandi filosofie negatrici della trascendenza e soteriologiche nei confronti dell’uomo: idealismo, positivismo e marxismo»,87 l’analogia con la prima modernità riapre il discorso filosofico sulla trascendenza e sulla religione – e il recupero delle istanze deistiche appare come una mossa legittima, sia da un punto di vista teorico che, soprattutto, pratico, fondato su esigenze reali (le stesse, quantunque su scala globale, di quelle della prima modernità), in risposta alle profonde divisioni religiose (che sempre più s’impongono sulla scacchiera internazionale) e al grande turbamento dovuto alla esponenziale pluralizzazione delle visioni del mondo nelle nostre società. Come scrive Alessandro Volpe commentando il paradigma neomoderno di Mordacci, «non è detto che la riflessione contemporanea si diriga necessariamente verso un orizzonte “post-metafisico”, per come lo intendeva qualche decennio fa Jürgen Habermas».88 La celebrazione della contraddizione, dello scetticismo, del nichilismo e della contingenza propria del postmoderno ha forse esaurito il suo potenziale e la sua attrattiva, non risultando più credibile. L’intuizione del deismo inglese settecentesco, il suo desiderio di comporre la pluralità spirituale, è stato svolto nella prima modernità con gli strumenti ricavati dall’allora nuova consapevolezza dell’uomo europeo, che donava centralità alla ragione e al suo potere emancipatore. Oggi quella stessa intuizione, di cui si sente grande necessità, dovrebbe essere svolta con ben altri mezzi e facendo tesoro di due secoli di avanzamento negli studi religiosi e filosofici. Le strade proposte nel presente saggio sono solo timidi abbozzi di risposta e non rappresentano nient’altro che un dito puntato verso la possibilità di un serio progetto neodeista. La speranza è che la percezione di vivere in un’epoca non più postmoderna bensì ormai neomoderna possa imprimere una nuova direzione al pensiero filosofico, nel recupero critico di concetti e progetti che la prima modernità aveva coraggiosamente elaborato. d. aNTISeRI, Credere. Dopo la filosofia del XX secolo (1999), Armando Editore, Roma 2017, 34. 87 A. vOlpe, Neomoderno in filosofia pratica tra critica e utopia, in Id. (ed.), Storia, utopia, emancipazione, Mimesis, Milano-Udine 2022, 8. 88 164 vIII. alBeRT eINSTeIN e Il RelaTIvISmO: ORIGINI STORIChe e CONSeGUeNze TeOlOGIChe dI UN fRaINTeNdImeNTO Claudio Tagliapietra INTROdUzIONe La teoria della relatività è senza dubbio tra le scoperte che nel secolo scorso hanno maggiormente contribuito al progresso della fisica e influenzato la nostra visione del mondo. Nominato “uomo del secolo” dalla rivista Time nel 2000, Albert Einstein è ancora oggi associato allo sviluppo delle correnti artistiche avanguardiste e al relativismo filosofico e morale. Come ebbe modo di chiarire anche lo stesso Einstein in più occasioni, tale opinione non solo è erronea, ma è sostanzialmente infondata.1 Se tra gli scienziati il fraintendimento era noto, nella divulgazione esso ha avuto invece un sorprendente successo. Il luogo comune si è a tal punto radicato da essere giunto sino ad oggi. 2 Einstein si oppose fermamente ai tentativi di interpretazione extra-scientifica della teoria della relatività. Il fisico e storico della scienza Gerald James Holton riporta un interessante aneddoto in proposito: una volta uno storico dell’arte inviò ad Einstein una bozza di un saggio intitolato Cubism and the Theory of Relativity contenente una argomentazione che lo avvicinavano arditamente a posizioni relativiste. Egli rispose in maniera gentile ma risoluta che «l’essenza della teoria della relatività non è stata correttamente interpretata [nel suo saggio], anche concedendo che questo errore sia stato suggerito dai tentativi di popolarizzazione della teoria». Nel prosieguo della risposta, Einstein espone in sintesi cosa sia la relatività e conclude: «Questo non è affatto il caso della pittura di Picasso, senza che elabori ulteriormente. […] Questo nuovo “linguaggio” artistico non ha niente in comune con la Teoria della Relatività» (citato in G.J. hOlTON, The Advancement of Science and its Burdens, Cambridge University Press, New York 1986, 108-109, traduzione nostra). 1 Tra le risorse che riportano il luogo comune: Relativismo, nel Dizionario delle Scienze Fisiche (1996) disponibile nel sito dell’Enciclopedia Italiana Treccani (consultato il 14 febbraio 2023); G. STOlzeNBeRG, R. dawKINS, Relativity and relativism: who’s confused?, «Nature» 396 (1998), 510; ne parlano anche M. BaGhRamIaN, J.A. CaRTeR, Relativism, in Stanford Encyclopedia of Philosophy, consultato il 13 febbraio 2023; F. COlOmBO, Il diavolo relativista, «Diario», 10 (2005) n. 26. 2 165 ClaUdIO TaGlIapIeTRa Negli ultimi anni numerosi contributi hanno gettato luce sulla questione. Questi illustrano principalmente le differenze fra relatività e relativismo, e documentano la distanza del pensiero di Albert Einstein da posizioni relativiste.3 Sono invece quasi assenti gli scritti che documentano l’origine storica di questo luogo comune: in questo lavoro presento la ricostruzione effettuata dalla ricercatrice Barbara J. Reeves sulla base di documenti e corrispondenza dell’epoca.4 Questa ricostruzione servirà come base per procedere a una seconda ricostruzione: quella volta a scoprire se la relatività e il relativismo abbiano in qualche modo influenzato la teologia cattolica del XX secolo.5 Questo saggio si sviluppa secondo il seguente schema espositivo. Nella Sezione 1 illustro il processo che ha condotto alla confusione tra relatività e relativismo; nella Sezione 2 descrivo come il Magistero della Chiesa cattolica e la predicazione dei Pontefici hanno recepito il luogo comune; nella Sezione 3 discuto il rapporto tra scienza, religione e ricerca della verità in Einstein; nelle Sezioni 5,6 e 7 si valuteranno le posizioni di alcuni Pontefici in merito al rapporto tra relatività/relativismo e teologia cattolica; nella Sezione 8 offro alcune considerazioni conclusive. In questa sede ci limitiamo a ricordare i contributi più significativi, senza entrare nel merito della differenza: A. STRUmIa, Relatività, in G. TaNzella-NITTI, A. STRUmIa (edd.), Dizionario interdisciplinare di Scienza e Fede, Urbaniana University Press, Roma 2002, 1190 e 1195; P. JOhNSON, Modern Times. A History of the World from the 1920s to the 1980s, Harper & Row, New York 1984, 1-48; M. GaRGaNTINI, Uomo di scienza. Uomo di fede, Elle Di Ci, Torino 1991; F. aGNOlI, Relatività non è il relativismo, in Filosofia, Religione e Politica in Albert Einstein, ESD, Bologna 2016, 11-15; W. ISaaCSON, Einstein: la sua vita, il suo universo, Mondadori, Milano 2008, 9 e 270; P. mUSSO, La scienza e l’idea di ragione. Scienza, filosofia e religione da Galileo ai buchi neri e oltre, Mimesis, Roma 2001, 263. 3 Cfr. Sezione 2 di questo saggio. Il perché dell’emersione del luogo comune è invece un problema che interessa la psicologia sociale. Il lettore interessato può fare riferimento a C. mCGaRTy, v.y. yzeRByT, R. SpeaRS (edd.), Stereotypes as Explanations: The Formation of Meaningful Beliefs about Social Groups, Cambridge University Press, Cambridge 2002. 4 Questo saggio si occupa solo degli aspetti storici e delle possibili conseguenze del fraintendimento relatività/relativismo in teologia, non invece della ricezione della relatività nel pensiero filosofico e teologico. Su questo secondo aspetto si segnala, tra gli altri, l’interessante lavoro di J.w. haaS, Relativity and Christian Thought: The Early Response, «Perspectives on Science and Faith», 40 (1988), 1, 10-18. 5 166 vIII. alBeRT eINSTeIN e Il RelaTIvISmO 1. la RelaTIvITà TRa SCIeNza e pOlITICa: UNa TeORIa “RIvOlUzIONaRIa”?6 Quando scrisse Einstein Politicized: The Early Reception of Relativity in Italy (1987), Barbara J. Reeves (Ph.D 1980, Harvard University) era ricercatrice di Filosofia della scienza presso la Ohio State University. L’anno precedente Reeves aveva pubblicato un primo scritto sul tema, intitolandolo L’appropriazione politica delle teorie della relatività di Einstein nell’Italia fascista, ovvero, come Mussolini può avere avuto un ruolo indiretto per lo sviluppo della fisica teorica in Italia.7 La ricostruzione compiuta dall’autrice presenta in maniera autorevole e documentata il processo che ha condotto dal recepimento della teoria della relatività nei circoli accademici, al suo accoglimento nell’ambiente culturale e filosofico italiano, alla sua politicizzazione, e al suo impatto sullo sviluppo della fisica teorica nell’Italia del primo dopoguerra. Si può intuire già dai titoli dei contributi che la sua tesi si sviluppa lungo una traccia ben precisa: la teoria della relatività (1905) sarebbe stata mutuata dall’élite culturale e politica fascista per diffondere posizioni filosofiche relativiste e così fornire supporto agli ideali rivoluzionari del primo dopoguerra. I risultati di questa articolata operazione culturale vengono raggiunti con l’ascesa al potere del partito fascista nel 1922.8 In seguito, il relativismo contemporaneo ha potuto diffondersi nelle scienze umane e artistiche. A tutt’oggi Einstein è considerato da non pochi autori non solo il padre della teoria della relatività nella fisica, ma anche il teorico del relativismo filosofico del primo dopoguerra. Come è potuta transitare questa teoria, che si proponeva esclusivamente come teoria sul mondo fisico, alla filosofia e alla politica? Secondo Reeves si devono distinguere Questa sezione ripropone una sintesi del materiale contenuto in B.J. ReeveS, Einstein Politicized: The Early Reception of Relativity in Italy, in T.f. GlICK (ed.), The Comparative Reception of Relativity, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht, Holland, 1987, 189-229. Il lettore può fare riferimento all’apparato di note dell’articolo originale per i riferimenti alle fonti documentali a supporto delle affermazioni contenute in questa parte. 6 B.J. ReeveS, L’appropriazione politica delle teorie della relatività di Einstein nell’Italia fascista, ovvero, come Mussolini può avere avuto un ruolo indiretto per lo sviluppo della fisica teorica in Italia (The Political Appropriation of Einstein’s Theories of Relativity in Fascist Italy, or How Mussolini Could Have Played an Indirect Role in the Development of Theoretical Physics in Italy), in La matematica italiana tra le due guerre mondiali (Italian Mathematics between the Two World Wars), Milano-Gargnano del Garda, 8-11, ottobre 1986, Pitagora, Bologna 1986, 319-337. 7 8 Il lettore interessato a un altro studio storico, in lingua italiana, sulla visita di Einstein in Italia e sul rapporto tra teoria della relatività e fascismo, può consultare S. lINGUeRRI, R. SImIlI (edd.), Einstein parla italiano: Itinerari e polemiche, Pendragon, Bologna 2008. 167 ClaUdIO TaGlIapIeTRa in proposito due fattori. Un primo fattore è stato l’uso del linguaggio che si è fatto negli scritti degli scienziati destinati al grande pubblico. In molti di questi testi la teoria della relatività è stata associata ad aggettivi come “rivoluzionaria”, “evoluzione”, “distruzione”, “nuova costruzione” spesso con riferimento alla visione scientifica della teoria in relazione alla sua verifica sperimentale e al progresso scientifico che essa rappresentava. Il secondo fattore invece fu l’errata associazione della teoria di Einstein, considerato come un “relativizzatore” dei tradizionali assoluti concettuali (tempo e spazio) e della oggettività della scienza, con i contemporanei movimenti “relativizzanti” in filosofia, analisi culturale, letteratura, arte, e soprattutto politica. I due aspetti, visti in concomitanza al particolare clima di rapido cambiamento politico e culturale nell’Italia del primo dopoguerra, hanno contribuito a generare una confusione tra il linguaggio scientifico e le categorie di “assoluto” e “relativo” usate per valutare Einstein in contesto non-scientifico. Il filosofo e critico culturale Adriano Tilgher (1887-1941), ad esempio, nel suo scritto Relativisti Contemporanei (1921) collegò la teoria della relatività di Einstein al relativismo filosofico di Hans Vaihinger (1852-1933), al relativismo culturale di Oswald Spengler (1880-1936), e all’idealismo di Giovanni Gentile (1875-1944). Anche Benito Mussolini (1883-1945) fu lieto di associare l’ideologia del partito fascista a questa prospettiva filosofica.9 Un evento di capitale importanza per l’impatto della relatività nell’ambiente culturale italiano fu la visita accademica di Albert Einstein in Italia nel 1921. Lo scienziato fu invitato dal professor Federigo Enriques (1871-1946) presso l’Università di Bologna per dare alcune lezioni sulla relatività (speciale e generale) e sulla cosmologia. Einstein sapeva parlare italiano, avendo vissuto da giovane a Pavia, e le lezioni furono impartite sabato 22, lunedì 24 e mercoledì 26 9 Dimostrando di aver frainteso la teoria della relatività confondendola con il relativismo, Benito Mussolini se ne appropriò in chiave politica. In un suo articolo, di poco successivo alla visita in Italia di Einstein, Mussolini scrisse: «Se per relativismo deve intendersi il dispregio delle categorie fisse per gli uomini che si credono portatori di una verità obiettiva immortale, per gli statici [sic!] che si adagiano, invece che tormentarsi e rinnovellarsi incessantemente, per quanti si vantano di essere sempre uguali a se stessi, niente è più relativistico della mentalità e dell’attività fascista» (B. mUSSOlINI, Relativismo e fascismo, «Il popolo d’Italia», 22 novembre 1921). 168 vIII. alBeRT eINSTeIN e Il RelaTIvISmO ottobre 1921. Il 27 ottobre Einstein fu invitato a tenere una lezione all’Università di Padova (e presso altre istituzioni) nella stessa aula in cui Galileo tre secoli prima aveva esposto le sue lezioni sulla nuova meccanica. L’articolo di Reeves ripercorre l’itinerario che ha portato alla politicizzazione della teoria della relatività di Einstein in maniera molto dettagliata, riportando anche la copertura mediatica della scoperta e la diffusione della relatività e la sua recezione nella propaganda politica, soffermandosi anche sul suo ritorno alla accademia italiana e sulla costituzione delle prime cattedre di Fisica teorica in Italia. 2. RelaTIvITà e RelaTIvISmO Nella STORIa della ChIeSa e della TeOlOGIa CaTTOlICa Il relativismo filosofico, ben descritto nel saggio di Reeves quanto alle sue declinazioni culturali e filosofiche in relazione alla teoria della relatività, venne adottato dal discorso politico a supporto dell’ideologia fascista. In tale saggio emerge che la posizione relativista assunse dei toni anticlericali, e tale circostanza è di interesse storico per le sue conseguenze culturali. Il perché di questo anticlericalismo è probabilmente legato alle reazioni verso il ruolo storico istituzionale che indubbiamente la Chiesa rivestì nella difesa della verità durante la crisi americanista e modernista; esso è in parte è dovuto anche alla posizione della filosofia e della cultura relativista (supportata dal sistema politico) nei confronti della verità nel clima intellettuale del primo dopoguerra. In questo contesto storico non è da trascurare il ruolo rivestito dalle istanze di rinnovamento provocate dalle nuove scoperte scientifiche. Queste sembravano inaugurare una nuova “rivoluzione scientifica” che avrebbe condotto l’umanità ad acquisire una nuova visione del mondo. Tutti gli ostacoli a questo progresso andavano dunque rimossi. Tale visione fu ben rappresentata dalle inquietudini politiche avanguardiste e dal futurismo di Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944). Egli nel Manifesto dei pittori futuristi del febbraio 1910 scrisse: «Compagni! Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell’umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro […]». L’anticlericalismo di Marinetti va di pari passo con quello del movimento fascista, ed è forse ancor più radicale di quest’ul169 ClaUdIO TaGlIapIeTRa timo. Nel manifesto del 1919 Marinetti scrisse: «Contro il Papato e la mentalità cattolica, serbatoi di ogni passatismo». Il poeta propose di «sostituire all’attuale anticlericalismo retorico e quietista un anticlericalismo d’azione, violento e reciso, per sgomberare l’Italia e Roma dal suo medioevo teocratico che potrà scegliere una terra adatta ove morire lentamente».10 È noto come il Programma sansepolcrista del 1919 fosse fortemente anticlericale e presentasse addirittura un piano di “svaticanizzazione” dell’Italia mediante il sequestro di beni e l’abolizione dei privilegi ecclesiastici. All’adunata di piazza San Sepolcro del 23 marzo 1919 a Milano partecipa anche Marinetti in qualità di leader del Partito Politico Futurista. Occorre chiarire per quale motivo questa forma di relativismo, collegata alla spinta antigerarchica e di rinnovamento sociale, assunse una connotazione anticlericale. In secondo luogo, occorre far luce sul come questo anticlericalismo possa aver influenzato negativamente il dialogo tra scienza e religione. Una spiegazione convincente sul piano culturale e filosofico parte dal considerare il futurismo e il fascismo come relativismo in azione. La contrapposizione tra relativismo e realismo, già esistente sul piano filosofico, dapprima si trasferì sul piano storico e politico, seguendo il percorso descritto da Reeves; ne seguì poi una nuova trasposizione filosofica, stavolta sul piano del dialogo tra scienza e religione. Si può affermare che il fraintendimento ebbe delle conseguenze negative nel dialogo tra scienza e religione, ma soprattutto degli effetti sociologici negativi che già alcuni colleghi di Einstein erano in grado di intuire.11 L’evidenza storica e sociologica conferma che tali conseguenze furono riconducibili non tanto alla chiusura della Chiesa nei confronti del discorso scientifico, ma piuttosto al più generale processo di secolarizzazione che caratterizza la società contemporanea. È noto che la relativizzazione del concetto di verità ebbe un ruolo primario nel processo di secolarizzazione contemporanea.12 La teoria f.T. maRINeTTI, Manifesto del Partito Politico Futurista, «Italia Futurista», anno III, n. 39, 11 febbraio 1918. 10 11 Joseph Ratzinger riporta un dialogo fra Heisenberg, Dirac e Pauli a Bruxelles nel 1927 in cui i fisici, discutendo delle affermazioni sulla religione fatte da Einstein, convenivano sugli effetti destabilizzanti per la società causati dalla separazione tra i domini della scienza e della religione. Cfr. W. heISeNBeRG, Der Teil und das Ganze: Gespräche im Umkreis der Atomphysik, R. Piper, Munich 1969, 117, cit. in J. RaTzINGeR, Fede, Verità, Tolleranza. Il Cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 20052, 145-146. Sul rapporto fra relativismo e secolarizzazione cfr. S. BelaRdINellI, Diciamoci la verità: non è tutto una favola, Cantagalli, Siena 2016. Per una visione teologica sul processo di 12 170 vIII. alBeRT eINSTeIN e Il RelaTIvISmO della relatività, in questo processo, non riveste alcun ruolo teorico o pratico, in quanto limitata al mondo fisico; l’unico ruolo che le può essere riservato in tale processo è quello della sua politicizzazione (evidenziato da Reeves) e al fraintendimento che ne è derivato. Secondo la Stanford Encyclopedia of Philosophy il relativismo afferma che la «verità e la falsità, gli standard di ragionamento, le procedure di giustificazione, sono prodotti di convenzioni divergenti e di schemi di valutazione e che la loro autorità è confinata al contesto che le ha originate».13 È importante sottolineare che la connessione tra il relativismo contemporaneo e il processo di secolarizzazione in corso da tempo possiede una forte impronta antimetafisica. Alcuni fanno risalire questo processo alla critica antimetafisica kantiana, altri lo fanno risalire alla Riforma protestante.14 Il cuore della questione sta nel fatto che tale sistema filosofico nega statuto ontologico alla verità e ne afferma la relatività rispetto al “sistema di riferimento” (con leggi proprie) da cui questa verità emerge volta per volta: ad esempio, rispetto al contesto sociale e culturale del soggetto preso singolarmente o come parte di una data formazione sociale.15 In questo processo, le verità di fede sono considerate un epifenomeno sociale e culturale, soggette alle leggi della storia. Seguendo questa prospettiva, non è concepibile l’idea di un dialogo fra sapere teologico e scientifico, poiché scienza e religione sono due domini in contrapposizione. La spinta antimetafisica della post-modernità ha di fatto negato l’esistenza di un sapere stabile: nella sua analisi, François Lyotard (1924secolarizzazione e il rapporto con la verità cfr. RaTzINGeR, Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo. 13 BaGhRamIaN, CaRTeR, Relativism. Per una sintesi filosofica dei moderni relativismi in relazione alla post-modernità si vedano i contributi di Antonio Livi e di Carmelo Vigna in R. dI CeGlIe (ed.), Pluralismo contro Relativismo: Filosofia, religione, politica, Ares, Milano 2004; si veda anche V. pOSSeNTI, Verità, in G. TaNzella-NITTI, A. STRUmIa (edd.), Dizionario interdisciplinare di Scienza e Fede, Città Nuova - Urbaniana University Press, Roma 2002. Sulle radici religiose del processo di secolarizzazione vedasi B.S. GReGORy, Gli imprevisti della Riforma. Come una rivoluzione religiosa ha secolarizzato la società, Vita e Pensiero, Milano 2014. 14 15 Comprendiamo come il relativismo culturale si manifesti anche in forma di critica alla società occidentale. Cfr. J. RaTzINGeR, M. peRa, Senza radici: Europa, Relativismo, Cristianesimo, Islam, Mondadori, Milano 2004. Sulla domanda religiosa nella società dopo-moderna, cfr. P. dONaTI, La matrice teologica della società, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, e Idem, Pensiero sociale cristiano e società post-moderna, AVE, Roma 1997. 171 ClaUdIO TaGlIapIeTRa 1988) ha infatti distinto il sapere in “narrativo” e “scientifico tecnologico”, attribuendo carattere di stabilità relativa solo al secondo, un sapere fondamentalmente ipotetico perché composto di ipotesi soggette a verifica sperimentale, e stabile solo fino a prova contraria. La teologia sarebbe un sapere “narrativo”, o meglio, una “metanarrativa” da guardare con scetticismo.16 Queste brevi battute sul relativismo ci consentono, infine, di introdurre un’importante distinzione tra relativismo e pluralismo. Il pluralismo è fondamentale per l’esistenza della società civile; esso presuppone l’esistenza, l’affermazione e la difesa della verità. Vi sono però due tipi di pluralismo, uno relativista e uno non relativista: mentre il primo nega o svuota di contenuto la verità, il secondo afferma l’esistenza della verità e che essa può essere raggiunta attraverso strade diverse.17 L’ingresso in ambito teologico delle istanze relativiste si traduce nell’adattamento delle verità rivelate al contesto storico, sociale e culturale motivato spesso da esigenze di dialogo e di tolleranza. Tale adattamento comporta il rischio dello “svuotamento” della verità. Quando le verità di fede vengono svuotate del loro contenuto, e non solo adattate nel linguaggio o nei modi di espressione, vengono di fatto negate per essere meglio accette a un contesto che cambia sempre. Si tratta di quanto è avvenuto con l’affermazione dell’americanismo, del modernismo e del relativismo dogmatico. Tali prospettive, contemporanee ad Einstein, furono la traduzione in termini teologici di istanze di relativismo etico e culturale.18 Secondo il pensiero della Chiesa, il relativismo ha conseguenze negative per l’uomo: è negazione della sua realtà più profonda, lo impoverisce spiritualmente e gli impedisce la ricerca della verità. Come vedremo, la Chiesa non recise mai il dialogo tra scienza e religione. Né vi fu alcun sospetto teologico nei confronti della teoria della relatività, che è una teoria scientifica, non filosofica, né tantomeno teologica. 16 J.-f. lyOTaRd, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1980. 17 Una corretta comprensione di relativismo etico e pluralismo è essenziale per l’agire umano in società ed è fondamento naturale del diritto. Cfr. CONGReGazIONe peR la dOTTRINa della fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, 24 novembre 2002, Roma; RaTzINGeR, peRa, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, Islam. a. lIvI, Le forme attuali del relativismo, in dI CeGlIe, Pluralismo contro relativismo. Filosofia, religione, democrazia, 35-52. 18 172 vIII. alBeRT eINSTeIN e Il RelaTIvISmO 3. SCIeNza, RelIGIONe e RICeRCa della veRITà IN eINSTeIN Un primo aspetto da evidenziare è il pensiero di Albert Einstein sul rapporto tra verità, scienza e religione. Gli scritti del fisico documentano non solo che egli non fu relativista, in senso filosofico, ma neppure ateo. Holton nel suo testo riporta un interessante aneddoto sulla (ir) rilevanza della relatività per la religione: Il fisico J.J. Thomson raccontava che l’Arcivescovo di Canterbury, Randall Davidson, fu ammonito da Lord Haldane “che la relatività avrebbe sortito un grande effetto sulla teologia, e che era suo dovere come Capo della Chiesa d’Inghilterra familiarizzarsi con essa. […] L’Arcivescovo, che era uomo estremamente coscienzioso, si procurò numerosi libri sul tema e cercò di leggerli e lo condussero a quello che non è esagerazione definire come uno stato di disperazione intellettuale”. Quando Einstein visitò l’Inghilterra nel 1921, l’Arcivescovo di Canterbury lo cercò per chiedergli quale effetto avrebbe avuto la relatività sulla religione. Einstein replicò brevemente andando al punto: “Nessuno. La relatività è una questione puramente scientifica e non ha niente a che vedere con la religione”.19 In una conversazione con il diplomatico e scrittore tedesco anti-nazista Hubertus zu Löwenstein, durante una cena a New York Einstein si dissociò esplicitamente da una posizione di ateismo: In considerazione di tale armonia nel cosmo, che io, con la mia mente umana limitata, sono in grado di riconoscere, ci sono ancora persone che dicono che Dio non esiste. Ma ciò che veramente mi fa più arrabbiare è che mi citano a sostegno di tali opinioni.20 A chi lo considerava ateo, Einstein replicava: L’opinione corrente che io sia un ateo si basa su un grosso errore. Chi la deduce dalle mie teorie scientifiche, non le ha comprese. Mi ha frainteso completamente, e mi compie un cattivo servizio, se diffonde notizie sbagliate circa la mia posizione di fronte alla religione. [...] Posso dire con piena coscienze che nella mia vita non ho mai indulto a una concezione ateistica.21 Nel pensiero di Einstein, l’indagine scientifica del cosmo alla ricerca della verità non solo non elimina Dio ma lo presuppone. Pare che egli si rivolse al suo assistente Ernst Straus con le seguenti parole: 19 hOlTON, The Advancement of Science and its Burdens, 107-108 (nostra traduzione). H. löweNSTeIN (zU), Towards the Further Shore, Victor Gollancz, London 1968, 156, citato in M. Jammer, Einstein and Religion, Princeton University Press, 2002, 97; R. ClaRK, Einstein: The Life and Times, Hodder and Stoughton Ltd., London 1973, 400. 20 21 H. mUSChaleK, Dio e gli Scienziati (1964), Paoline, Alba 1972, p. 30. 173 ClaUdIO TaGlIapIeTRa La scienza contrariamente ad un’opinione diffusa, non elimina Dio. La fisica deve addirittura perseguire finalità teologiche, poiché deve proporsi non solo di sapere com’è la natura, ma anche di sapere perché la natura è così e non in un’altra maniera, con l’intento di arrivare a capire se Dio avesse davanti a sé altre scelte quando creò il mondo.22 Questa ricostruzione evidentemente scagiona Einstein da eventuali interpretazioni antireligiose, ma tale ricostruzione è facilmente replicabile anche per altri scienziati contemporanei allo stesso Einstein.23 4. la ChIeSa e la dIfeSa della veRITà: l’ameRICaNISmO e la CRISI mOdeRNISTa Un secondo aspetto meritevole di trattazione concerne la possibile esistenza di un giudizio negativo della Chiesa sulla teoria della relatività, vedendone un erroneo rapporto con la dottrina filosofica del relativismo. Un tale giudizio, di fatto, non esiste. Gli interventi magisteriali mirano piuttosto a prendere le distanze da un relativismo di indole filosofica. La Chiesa piuttosto diresse il suo insegnamento e le sue preoccupazioni nei confronti dell’americanismo e del modernismo. Queste furono le due “crisi” teologiche che la Chiesa di inizio secolo scorso dovette attraversare. La prima si concluse durante il pontificato di Leone XIII nel 1899. La seconda ebbe il suo epilogo con la condanna del modernismo da parte di Pio X nel 1907. Entrambe si manifestarono come prodromi di una mentalità che negava l’esistenza della verità, incoraggiava il soggettivismo e legittimava dissidenza e relativismo dogmatico. Mentre l’americanismo ebbe una limitata diffusione, il modernismo invece ebbe pesanti ricadute nel pensiero teologico. In sintesi, l’americanismo insisteva sulle iniziative interne nella vita spirituale (pericolose perché legittimavano di fatto la “dissidenza” in materia di fede), consisteva in un attacco ai voti religiosi, minimizzava l’importanza della dottrina e della direzione spirituale: Leone XIII nella lettera pastorale Testem benevolentiae del 22 gennaio 1899 chiedeva al cardinale James Gibbons, arcivescovo di Baltimora, e all’episcopato statunitense di sradicare queste opinioni, nel caso in cui esistessero. 24 Oltre alla corrispondenza 22 hOlTON, The Advancement of Science and its Burdens, 91. Cfr. RaTzINGeR, Fede, verità, tolleranza. Sulle reazioni iniziali di alcuni teologi circa l’influenza della relatività nel pensiero teologico, cfr. J.w. haaS, Relativity and Christian Thought: The Early Response. 23 leONe XIII, Lettera pastorale “Testem benevolentiae”, 22 gennaio 1899, ASS 31 [1898/99] 471; T.T. mCavOy, The Catholic Minority after the Americanist Controversy, 1899-1917: A Sur- 24 174 vIII. alBeRT eINSTeIN e Il RelaTIvISmO con l’episcopato statunitense interessato, non fu emesso un documento magisteriale di condanna esplicita verso l’americanismo, ma una sua critica “pratica” si ritrova tra l’insieme delle “opinioni pericolose” citate dalla letteratura spirituale dell’epoca.25 Il modernismo invece fu oggetto di condanna esplicita. Idee moderniste sorte in ambito esegetico meritarono una censura già da parte di Leone XIII nell’enciclica Providentissimus Deus del 18 novembre 1893;26 quelle che seguirono incontrarono l’opposizione dai Pontefici successivi fino alla conclusione con la condanna del 1907. Sorto nel 1881 in ambiente cattolico francese, italiano e britannico, il termine “modernismo” fu usato per la prima volta dal belga Charles Perin (1815-1905) nel saggio del 1881 Du modernisme dans l’Église, e fu usato ampiamente da Papa Pio X per riferirvisi. Fu un movimento teologico di riforma che voleva accomodare il pensiero cattolico con i progressi recenti di alcune scienze come, ad esempio, l’archeologia e la storia comparata delle religioni, e delle altre scienze fisiche e naturali interpretate secondo il paradigma positivista. Il movimento modernista vide attivi nella discussione numerosi intellettuali tra filosofi e teologi di cui furono esponenti eminenti Alfred Loisy, George Tyrell, Lucien Laberthonnière, Ernesto Buonaiuti, e Romolo Murri. Il Pontefice che si oppose con decisione al modernismo fu Pio X (1903-1914), il quale fu anche promotore di una grande, necessaria riforma della Chiesa. Uomo di grande intelligenza e fede, Pio X si trovò a esercitare il proprio pontificato innanzi a un clero secolare diffusamente poco preparato. Egli riformò l’istruzione nei seminari, pubblicò il Catechismo Maggiore e diede impulso alla riforma del diritto canonico, che sarebbe culminata con la pubblicazione del Codice del 1917. Nel 1905 i vescovi di Torino e Vercelli misero in guardia i sacerdoti delle loro diocesi nei confronti del “modernismo nel clero”. Pio X il 3 luglio 1907 pubblicò il decreto Lamentabili Sane,27 che conteneva la condanna di sessantacinque proposizioni eretiche riconducibili al modernismo. Nella vey, «Review of Politics», 21 (1959), 1, 53-82; S.J. ThOmaS, The American Periodical Press and the Apostolic Letter “Testem Benevolentiae”, «Catholic Historical Review», 62 (1976), 3, 408-423. 25 Cfr., ad esempio, la critica contenuta in alcuni passi di J.-B. ChaUTaRd, L’anima di ogni apostolato (1912), San Paolo, Cinisello Balsamo 2015. leONe XIII, Lettera enciclica “Providentissimus Deus”, 18 novembre 1893, ASS 26 [1893/94] 279. 26 27 pIO X, Decreto del S. Uffizio “Lamentabili”, 3 luglio 1907, ASS 40 [1907] 470. 175 ClaUdIO TaGlIapIeTRa enciclica Pascendi dominici gregis dell’8 settembre 1907,28 questo Pontefice definisce il modernismo come la summa di tutte le eresie. A partire dal 1 settembre 1910 fu in seguito richiesto a tutti i membri del clero di pronunciare il giuramento antimodernista Sacrorum antistitum, e tale giuramento rimase in vigore fino al 1967, quando Paolo VI lo sostituì con la recita del Credo. Le affermazioni afferenti al modernismo si manifestavano come particolarmente pericolose per la fede in quanto rappresentative di un relativismo in nuce. Ad esempio, propugnando forme di agnosticismo, gli esponenti del movimento ponevano in dubbio l’esistenza di una verità assoluta, e preferivano pensare a una verità in evoluzione. Si negava, inoltre, la trascendenza di Dio rispetto al creato; si negava la divinità di Gesù, presente solo nella coscienza del credente, e quella della Chiesa, derivata dall’esperienza collettiva. Veniva poi affidata al singolo la soluzione dei problemi di fede, negando così il ruolo necessario della mediazione della Chiesa. L’opposizione al modernismo portò all’adozione di una linea dura nei confronti dei suoi esponenti, che in molti casi comportò la sospensione a divinis e la scomunica. Ad esempio, George Tyrrell (1861-1909), uno dei massimi esponenti, fu espulso dalla Compagnia di Gesù nel 1906. In Italia, Romolo Murri fu sospeso a divinis nel 1907 e scomunicato nel 1909. Si tentò di equilibrare la linea d’intransigenza verso il modernismo con gli inviti alla tolleranza a opera del cardinale Andrea Carlo Ferrari (1850-1921), arcivescovo di Milano, e del cardinale Pietro Maffi (1858-1931), arcivescovo di Pisa. La morte di George Tyrrell nel 1909 e l’obbligatorietà del giuramento antimodernista imposto dal 1910 portarono rapidamente al tramonto della crisi modernista. Dopo la morte di Pio X (1914), successe al soglio pontificio Benedetto XV (1914-1922), il quale cercò la riconciliazione con i modernisti (alcuni dei quali incorsi nella scomunica) per ricomporre gli esiti della crisi. In alcuni casi, come con Ernesto Buonaiuti (1881-1946), scomunicato nel 1926, la riconciliazione purtroppo non riuscì. La polemica modernista si ridimensionò durante il papato di Pio XI (1922-1939), continuò anche durante il papato di Pio XII (1939-1958). La ricerca storica ha recentemente investigato anche lo sviluppo dell’antimodernismo in seno alla rivista La Civiltà Cattolica29 e grazie all’opera intellettuale di gesuiti 28 pIO X, Lettera enciclica “Pascendi dominici gregis”, 8 settembre 1907, ASS 40 [1907] 596. G. Sale, La Civiltà Cattolica” nella crisi modernista (1900-1907): fra transigentismo politico e integralismo dottrinale, Jaca Book, Milano 2001. 29 176 vIII. alBeRT eINSTeIN e Il RelaTIvISmO come Louis Billot (1846-1931) e Guido Mattiussi (1852-1925), proprio durante gli anni della crisi modernista.30 5. pIO X e la SCIeNza NeGlI aNNI dI eINSTeIN L’esame degli atti di Papa Pio X evidenza che il Pontefice non intervenne mai in materia di scienza. Questa circostanza può sembrare curiosa, dato il periodo particolarmente importante per il mondo della scienza: negli stessi anni Max Planck (1858-1947) formulò la teoria dei quanti (1900), Albert Einstein (1879-1955) pubblicò la teoria della relatività, e Joseph John Thomson (1856-1940), Ernest Rutherford (1871-1937) e Niels Bohr (1885-1962) svilupparono la moderna interpretazione atomistica della realtà fisica (1903-1913). Certamente lo sforzo pastorale del Papa lo impegnava su numerosi fronti, e se di fatto non vi furono pronunciamenti sul mondo scientifico, furono i fatti a parlare. Giuseppe Sarto, futuro Pio X, aveva da sempre coltivato studi scientifici, con speciale riguardo alla matematica e all’astronomia: uomo di intelligenza scientifica fuori dal comune, aveva espresso la sua versatilità scientifica nella costruzione di meridiane e, una volta divenuto pontefice, seguì l’attività della Specola Vaticana, fondata dal suo predecessore. Qui, proprio durante il suo pontificato, numerosi sacerdoti-scienziati si dedicavano ai più recenti progressi delle scienze astronomiche lavorando anche su progetti di ricerca legati alla teoria della relatività. 31 Fu proprio Pio X a chiamare Johannes Georg Hagen (18471930), astronomo gesuita, a dirigere la Specola Vaticana in Roma. Hagen vi rimase fino alla sua morte; il suo apporto fu determinante per l’ampliamento, la riorganizzazione rigorosa dell’attività della Specola e il consolidamento del programma scientifico.32 I principaSi ritiene ormai certo che la parte pratica dell’enciclica Pascendi (1907) fu redatta dal cardinale gesuita Louis Billot. Numerose altre stesure di altri teologi erano state considerate dal Papa insufficienti. 30 A. zamBaRBIeRI, Pio X, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, vol II: I protagonisti, Marietti, Torino 1982, 486-95; I. daNIele, San Pio X alunno del seminario vescovile di Padova (13 novembre 1850- 14 agosto 1858), Istituto per la Storia Ecclesiastica Padovana, Padova 1987, 17-41; S. maffeO, Nove papi una missione Cento anni della Specola Vaticana, Pontificia Academia Scientiarum, Città del Vaticano 1991, 52-56. 31 G. COyNe, Specola Vaticana, in A. STRUmIa, G. TaNzella-NITTI (edd.), Dizionario interdisciplinare di Scienza e Fede, Urbaniana University Press, Roma 2002. 32 177 ClaUdIO TaGlIapIeTRa li contributi scientifici di Hagen riguardarono lo studio delle stelle variabili, di cui egli preparò i primi atlanti e un trattato; si occupò anche di nebulose, di cui preparò un catalogo e di cui teorizzò l’origine cosmica come materia primordiale da cui le stelle si sarebbero condensate o andrebbero condensandosi; organizzò efficacemente «i lavori di misurazione delle lastre della Carte du Ciel – il progetto internazionale di fotografia celeste promosso dall’Observatoire de Paris nel 1887 – e la riduzione delle relative misure, portando a termine la pubblicazione del catalogo astrometrico per la zona assegnata alla Specola Vaticana».33 Dal 1904 fu chiamato a diventare presidente della Specola Vaticana l’Arcivescovo di Pisa Pietro Maffi (1858-1931), noto per la sua competenza nelle scienze astronomiche. Creato cardinale nel 1907, Maffi fu insegnante di fisica, matematica e scienze naturali presso il Seminario di Pavia, dove fece costruire l’Osservatorio Astronomico. Nel 1900 fondò la Rivista di fisica, matematica e scienze naturali. Rimase presidente della Specola fino al 1931. Fu grazie al suo lavoro che la Specola fu inserita nell’elenco ufficiale degli Osservatori incaricati di redigere la carta fotografica e il catalogo stellare Carte du Ciel su cui lavorò Hagen. 34 La relatività non fu materia proibita allo studio dei cattolici, né tantomeno dei sacerdoti impegnati nella ricerca scientifica. Uno scienziato che lavorò sulla relatività fu Georges Eduard Lemaître (1894-1966). Ordinato sacerdote nel 1923, studiò matematica e fisica a Lovanio, e in seguito astronomia a Cambridge. Nel 1924 si trasferisce per perfezionarsi in astronomia con Harlow Shapley presso l’Harvard College Observatory e poi iscriversi al Massachusetts Institute of Technology, dove nel 1926 presentò la sua tesi sui campi gravitazionali secondo la teoria della relatività generale. Per i suoi studi e le scoperte che ne conseguirono (ad esempio, l’espansione dell’universo da una “singolarità” iniziale, la teoria del Big Bang, ecc.), Lemaître può essere considerato uno dei padri della cosmologia moderna. La legge di espansione dell’universo, legge di Hubble-Lemaître, porta il suo nome. I. ChINNICI, Sacerdoti astronomi nella storia passata e recente: alcuni brevi profili biografici, in Documentazione Interdisciplinare di Scienza e Fede, gennaio 2009. 33 A. SpICCIaNI, Il cardinale Pietro Maffi, scienziato e organizzatore di cultura, in AA.VV., Il cardinale Pietro Maffi arcivescovo di Pisa. Primi contributi di ricerca, Pisa, Pacini 1983, 8°, 175 pp. 34 178 vIII. alBeRT eINSTeIN e Il RelaTIvISmO 6. pIO XII e Il RelaTIvISmO TeOlOGICO Posizioni relativiste furono in seguito introdotte nella teologia dai promotori del cosiddetto relativismo teologico che incontrò l’opposizione di Pio XII e fu infine condannato nell’enciclica Humani Generis nel 1950.35 René Latourelle illustra cosa sia il relativismo teologico nell’omonima voce del Dizionario di Teologia Fondamentale (1990).36 Esso non va confuso con il pluralismo teologico. Il relativismo teologico è la diretta riflessione in campo teologico di un cambiamento culturale occorso nella mentalità e nella coscienza comune tra la fine del XIX e lungo il XX secolo: «La società moderna diffida di ogni affermazione e posizione che cerchi di aver presa sull’assoluto». Secondo Latourelle, dal punto di vista religioso il problema del relativismo sta nel fatto che tratta tutte le differenze, anche le divergenze, come prive di significato. Karl Rahner e Herbert Vorgrimler definiscono il relativismo come una forma di pensiero secondo cui l’uomo coltiva dei pensieri che hanno valore solo in funzione di un insieme determinato e definito (ossia la totalità della sua esperienza vissuta in un dato momento), accanto al quale esistono altri insiemi altrettanto validi.37 Tale prospettiva, logicamente insostenibile, consente la coesistenza e la validità di una affermazione e del suo contrario, e dà origine a teologie che non stanno fianco a fianco, ma faccia a faccia. Il relativismo ha un aspetto seducente poiché sembra riconciliare le religioni e sistemi teologici opposti: tutti hanno ragione e nessuno ha ragione in maniera esclusiva.38 Il relativismo è stato indubbiamente fonte di confusione teologica, al punto da far coesistere affermazioni che consideravano ugualmente valido sostenere sia che Cristo è risorto, sia che Cristo non è risorto. La problematicità del relativismo dogmatico, sia nella sua forma più radicale che in quella moderata, viene segnalata nella prima parte della enciclica Humani Generis nel 1950. Secondo l’enciclica, il relativismo teologico ha come obiettivo il disprezzo della dottrina tradizionale e dei termini con cui essa si esprime, perseguendo con ostinazione i seguenti atteggiamenti: (1) ridurre al massimo il significato dei dogmi; 35 pIO XII, Lettera enciclica “Humani generis”, 12 agosto 1950, AAS 42 [1950] 561, 960. 36 R. laTOURelle, “Relativismo teologico”, in R. laTOURelle, R. fISIChella (edd.), Dizionario di Teologia Fondamentale, 917-918. 37 Ibidem. 38 Ibidem. 179 ClaUdIO TaGlIapIeTRa (2) dare soddisfazione alle odierne necessità di voler esprimere i dogmi con le categorie della filosofia moderna, sia dell’immanentismo, sia dell’idealismo, sia dell’esistenzialismo o di qualsiasi altro sistema; (3) pensare che i misteri della fede non possono mai esprimersi con concetti adeguatamente veri, ma solo mediante concetti approssimativi e sempre mutevoli; (4) pensare che i concetti antichi vanno sostituiti con concetti nuovi; (5) pensare che la storia dei dogmi consiste nell’esporre le varie forme di cui la verità rivelata si è successivamente rivestita, secondo le diverse dottrine e le diverse opinioni sorte nel corso dei secoli.39 A partire da queste premesse, il relativismo dogmatico può trasformarsi in relativismo ecclesiale e cristologico. Secondo questa prospettiva avrebbe poca importanza la chiesa che ciascuno scelga: una vale l’altra, in quanto tutte sono una risposta alla ricerca di salvezza dell’uomo. In cristologia invece ci si definirebbe cristiani potendo affermare sia che Gesù Cristo è soltanto un uomo, sia che egli è Dio fatto uomo. Joseph Ratzinger trattò in maniera magistrale il tema del relativismo teologico in una sua celebre conferenza tenuta nel 1996 in Messico e intitolata Situazione attuale della fede e della teologia.40 In questa lezione, Ratzinger sintetizza il processo che porta dalla crisi della teologia della liberazione, all’affermazione del relativismo come filosofia dominante, e alla insinuazione del relativismo nella cristologia. In quest’ultimo ambito, Ratzinger documenta come nel pensiero del presbiteriano americano John Harwood Hick (1922-2012) Gesù diventa uno dei tanti geni religiosi della storia, arrivando così a una vera e propria abolizione della cristologia. Ratzinger presenta Hick come l’«esponente di maggior spicco del relativismo religioso», ed illustra i contenuti della sua proposta relativista: Prende le mosse dalla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno: non siamo in grado di raggiungere la realtà ultima in sé stessa, ma possiamo solo vederla con diverse “lenti” nel suo apparire, attraverso il nostro modo di perpIO XII, Lettera Enciclica “Humani Generis”, I. Pio XII non solo non si oppose alla ricerca scientifica, ma, anzi, nella stessa Humani Generis richiamò la necessità di un confronto scientifico serio e prudente con le tesi evoluzioniste in dialogo con le verità rivelate della fede; cfr. “Humani Generis”, V. 39 40 RaTzINGeR J., Situazione attuale della fede e della teologia. Conferenza pronunciata durante l’Incontro dei Presidenti delle Commissioni Episcopali dell’America Latina per la dottrina della fede, celebrato a Guadalajara, México (1996), e riportata in Osservatore Romano, 1 novembre 1996. 180 vIII. alBeRT eINSTeIN e Il RelaTIvISmO cepire. Tutto quello che percepiamo non è la realtà vera e propria, come è in sé stessa, ma solo il suo riflesso nel nostro sistema di misura.41 Le conseguenze sul piano religioso del relativismo di Hick sono assai rilevanti: In base a questa concezione, che ha assunto oggi una posizione rilevante, anche al di là delle tesi di Hick, il ritenere che vi sia realmente una verità, una verità vincolante e valida nella storia stessa, nella figura di Gesù Cristo e della fede della Chiesa, viene ritenuto un fondamentalismo che si presenta come un autentico attentato contro lo spirito moderno e come una minaccia multiforme contro il suo bene principale, la tolleranza e la libertà.42 Da queste conseguenze sul piano religioso, che di fatto giungono a demolire la cristologia e la ecclesiologia, vi sono altre conseguenze sul piano filosofico: l’inconoscibilità della metafisica e l’affermazione di un pragmatismo che è di fatto un “relativismo pratico”. Segue Ratzinger: Il relativismo di Hick, Knitter e teorie analoghe si fonda in ultima analisi su un razionalismo che, alla maniera di Kant, ritiene che la ragione non possa conoscere ciò che è metafisico; la rifondazione della religione segue una strada pragmatica che assume una tonalità più etica o più politica.43 Nel prosieguo della conferenza Ratzinger fa risalire l’affermazione del relativismo in teologia alla critica kantiana e postkantiana della metafisica, mostrandone le conseguenze per il rapporto dell’uomo con la religione e con gli altri, e identificando il ruolo che ha la teologia per aiutare l’uomo a scoprire il senso della propria esistenza. 7. SCIeNza, RelaTIvITà e RelaTIvISmO IN GIOvaNNI paOlO II, BeNedeTTO XvI, e fRaNCeSCO Anche pontefici precedenti e successivi a Pio X manifestarono nei loro discorsi apprezzamento verso la scienza.44 Con riferimento specifico ad Einstein e alla teoria della relatività si possono citare almeno tre interventi di Giovanni Paolo II. Il primo di questi fu il discorso tenuto in occasione della commemorazione della nascita di Albert Einstein, il 10 novembre 1979, presso la Pontificia Accademia delle Scienze: 41 Ibidem. 42 Ibidem. 43 Ibidem. M. GaRGaNTINI (ed.), I papi e la scienza. Antologia del magistero della Chiesa sulla questione scientifica da Leone XIII a Giovanni Paolo II, Jaca Book, Milano 1985. 44 181 ClaUdIO TaGlIapIeTRa Anche questa Sede Apostolica vuole rendere ad Albert Einstein il dovuto omaggio per il singolare eccelso contributo portato al progresso della scienza, ossia alla conoscenza della verità presente nel mistero dell’universo. […] Nell’occasione di questa solenne commemorazione di Einstein desidero riconfermare le affermazioni conciliari sull’autonomia della scienza nella sua funzione di ricerca della verità scritta nel creato dal dito di Dio. Piena d’ammirazione per il genio del grande scienziato, in cui si rivela l’impronta dello Spirito creatore, la Chiesa, senza interferire in alcun modo, e con un giudizio che non le compete, sulla dottrina concernente i massimi sistemi dell’universo, la propone però alla riflessione di teologi, per scoprire l’armonia esistente tra la verità scientifica e la verità rivelata.45 In questo brano è chiaro l’apprezzamento per il contributo scientifico di Einstein, viene ribadita l’autonomia delle scienze, ma viene anche chiarito il ruolo della teologia. Giovanni Paolo II non negò che il caso Galileo avesse gettato un’ombra nel rapporto tra Chiesa e mondo scientifico, e per questo volle, in quel medesimo discorso, l’istituzione di una commissione storico-scientifica che tornasse ad approfondire il caso. Albert Einstein ricompare nel discorso di Giovanni Paolo II ai partecipanti alla sessione plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze del 31 ottobre 1992.46 Il rapporto tra scienza e religione, rappresentato dal rapporto che ebbero con la Chiesa le idee di Galileo ed Einstein rispettivamente, fu oggetto di un altro discorso pronunciato da Giovanni Paolo II durante la visita pastorale in Sicilia, dove incontrò gli scienziati del Centro “Ettore Majorana” l’8 maggio 1993.47 In questi tre discorsi, che menzionano l’importante ruolo ricoperto da Albert Einstein, è evidente l’intento del Papa di chiarire la posizione della Chiesa verso la scienza, incoraggiando tutti gli uomini a ricercare onestamente verità nel Creato e ricordando la legittima autonomia delle scienze nella ricerca della verità sul Creato. Un testo del cardinale Joseph Ratzinger sembrerebbe però accostare fra loro la teoria della relatività di Einstein e il relativismo morale: La teoria della relatività formulata da Einstein concerne, come tale, il mondo fisico. A me sembra però che possa descrivere adeguatamente anche la situazione del mondo spirituale del nostro tempo. La teoria della relatività afferma che GIOvaNNI paOlO II, Discorso per la commemorazione della nascita di Albert Einstein, 10 novembre 1979, Roma. 45 Idem, Discorso ai partecipanti alla sessione plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, 31 ottobre 1992, Roma. 46 Idem, Visita Pastorale in Sicilia: incontro di Giovanni Paolo II con gli scienziati durante la visita al centro “Ettore Majorana”, 8 maggio 1993, Erice (Trapani). 47 182 vIII. alBeRT eINSTeIN e Il RelaTIvISmO all’interno dell’universo non si dà nessun sistema fisso di riferimento. […] In un mondo senza punti fissi di riferimento non ci sono più direzioni. Ciò cui guardiamo come ad un orientamento non si basa su un criterio vero in se stesso, ma su una nostra decisione, ultimamente su considerazioni di utilità. In un simile contesto “relativistico” un’etica teleologica o consequenzialistica diventa ultimamente nichilistica, anche se non ne ha la percezione. E quanto in questa concezione della realtà viene chiamato “coscienza”, ad una più profonda riflessione, si mostra essere un modo eufemistico per dire che non c’è nessuna coscienza in senso proprio, cioè nessun “con-sapere” con la verità. Ognuno determina da solo i propri criteri e, nell’universale relatività, nessuno può neppure essere d’aiuto a un altro in questo campo, e meno ancora prescrivergli qualche cosa. 48 Il passo è tratto da un saggio in cui egli descrive il rapporto esistente tra coscienza e verità nel dibattito tra natura della moralità e modalità della sua conoscenza. Ratzinger afferma che la coscienza non coincide con i propri gusti, non con ciò che è socialmente più vantaggioso, col consenso del gruppo o con le esigenze del potere politico e sociale, ma deve poggiarsi sulla verità. La verità è il problema attuale dell’individuo moderno: egli ha eliminato l’idea di verità, sostituendola con quella di progresso. Il progresso diventa la verità. Ma così facendo si perde il senso della direzione, e in questo contesto tutto ciò che sembra un passo in avanti potrebbe ben essere anche un passo indietro.49 Altri scritti, come ad esempio Situazione attuale della fede e della teologia (pubblicato in italiano nel 1996) e quelli raccolti in Fede, Verità e Tolleranza (pubblicati in italiano nel 2003), consentono di meglio contestualizzare il brano prima proposto. Il riferimento ad Einstein svolge un ruolo puramente strumentale, quasi retorico. Si tratta di piani diversi della realtà (realtà fisica e dimensione morale dell’agire umano). Lo scritto ha un chiaro intento critico solo nei confronti del relativismo morale: mai ci fu un giudizio nei confronti della teoria della relatività o nei confronti del lavoro di Einstein come scienziato, verso il quale Ratzinger nutriva grande stima. Nella sua predicazione e nella sua produzione letteraria, il futuro Benedetto XVI insisterà molto sui pericoli del relativismo, coniando l’efficace espressione “dittatura del relativismo”. Abbiamo già indicato come nella conferenza Situazione attuale della fede e della teologia Ratzinger abbia esposto il suo pensiero sulle conseguenze del relativismo sul piano 48 J. RaTzINGeR, Coscienza e verità, in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Edizioni Paoline, 1991, 126. 49 Ibidem, 125. 183 ClaUdIO TaGlIapIeTRa antropologico, religioso e sociale.50 Possiamo affermare che ciò costituisce un punto programmatico dell’azione pastorale del futuro Benedetto XVI, tanto che nella Messa pro eligendo pontifice del 18 aprile 2005 egli si pronunciò con forza contro tale prospettiva filosofica.51 La predicazione di papa Francesco si pone in continuità con quella dei pontefici precedenti: alcuni giorni dopo la sua elezione al soglio pontificio Francesco ricordò, durante l’udienza al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede del 22 marzo 2013,52 che la povertà dei nostri giorni è anche spirituale, ed è quella associata alla “dittatura del relativismo”. Il relativismo viene in definitiva associato a un impoverimento spirituale che, mettendo ognuno a misura di sé stesso esaltando il soggettivismo e negando l’esistenza di una verità, mette a repentaglio il diritto, il bene comune, e in definitiva la pace sulla terra. In seguito la predicazione di Papa Francesco ritornerà sulla tematica del relativismo, riferendosi con questo termine non solo a un sistema di pensiero, ma anche alla sua manifestazione pratica: «Quel relativismo pratico quotidiano che, in maniera quasi impercettibile, indebolisce qualsiasi identità».53 Papa Francesco descrive esplicitamente i pericoli del relativismo legati al processo della contemporanea secolarizzazione nella lettera enciclica Lumen Fidei54 (n. 25) e nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium55 (nn. 64, 80, 167). BeNedeTTO XvI, Discorso di Sua Santità Benedetto XVI alla curia romana in occasione della presentazione degli auguri Natalizi, 22 dicembre 2005, Roma. 50 J. RaTzINGeR, Missa pro eligendo Romano Pontifice: Omelia del cardinale Joseph Ratzinger Decano del collegio cardinalizio, 18 aprile 2005, Patriarcale Basilica di San Pietro, Roma, AAS 97 [2005] 685. Per una ricognizione dettagliata sulla critica al relativismo in Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, cfr. P. IvaNeCKý, La critica di Benedetto XVI al relativismo odierno, «Teología y Vida» 55 (2014), 1, 173-199. 51 fRaNCeSCO, Udienza al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 22 marzo 2013, Aula Regia, Roma. 52 Idem, Discorso durante l’incontro con i Vescovi dell’Asia, Domenica, 17 agosto 2014, Santuario di Haemi, Corea. Papa Francesco ha parlato di relativismo anche nei discorsi tenuti il 15 maggio 2013, 14 giugno 2013, 11 ottobre 2013, 7 febbraio 2014, 14 febbraio 2014, 6 settembre 2014, 21 settembre 2014, 24 settembre 2014, 14 ottobre 2014, 1 novembre 2014, 21 novembre 2014, 27 novembre 2014, 16 gennaio 2015, 23 gennaio 2015. 53 54 Idem, Lettera Enciclica “Lumen fidei”, 29 giugno 2013, AAS 105 [2013] 555. 55 Idem, Esortazione Apostolica “Evangelii gaudium”, 24 novembre 2013, AAS 105 [2013] 1019. 184 vIII. alBeRT eINSTeIN e Il RelaTIvISmO 8. CONSIdeRazIONI CONClUSIve Nel presente saggio abbiamo ripercorso il processo storico che ha condotto alla formazione del luogo comune che associa la teoria della relatività e del pensiero di Albert Einstein al relativismo culturale e morale. Si è cercato nella seconda parte di ricostruire se tale luogo comune abbia influenzato il pensiero teologico. Mentre le origini storiche del fraintendimento tra relatività e relativismo sono documentate, affermare che la relatività abbia influenzato la teologia è storicamente infondato. Si sarebbe avuto comunque il relativismo teologico senza la relatività di Einstein? Tale giudizio richiede chiaramente un esercizio mentale impossibile: per supportarlo è necessario dimostrare l’esistenza di un nesso causale diretto o indiretto tra relatività e relativismo teologico che non è invece documentabile. Non si trovano infatti fonti teologiche critiche sul relativismo che al contempo ne attribuiscano la paternità ad Einstein. Tutte le fonti che abbiamo recuperato vanno invece nella direzione della sua inesistenza. Purtroppo, è vero che la diffusione del relativismo contemporaneo ha gravi effetti di impoverimento spirituale, e che tale relativismo sembra piuttosto riconducibile all’attuale processo di secolarizzazione. In questo processo la diffusione della teoria della relatività, che è una teoria solamente scientifica, non ha alcun ruolo. A supporto di questo argomento si possono formulare quattro considerazioni di sintesi. In primo luogo, Einstein stesso negava esplicitamente che la relatività potesse avere un qualche effetto sulla religione. Einstein inoltre rifiutava di definirsi relativista, così come rifiutava di definirsi ateo. Sia il pensiero della Chiesa sia lo stesso Einstein riconoscono che il cosmo parla di Dio, e che lo studio della realtà creata è una strada per giungere alla verità. In secondo luogo, abbiamo mostrato come le dottrine avanguardiste come il futurismo di Marinetti e il fascismo, entrambe basate sul relativismo filosofico, avessero un chiaro intento sovversivo, antigerarchico e anticlericale nel primo dopoguerra. La Chiesa cattolica degli anni ‘20 era invece reduce dall’opposizione all’americanismo e al modernismo, prospettive che di fatto contenevano in nuce quanto poi reso esplicito dal contemporaneo relativismo. Malgrado la forte difensiva dottrinale, la posizione della Chiesa, e in particolare dei Pontefici da Pio X in poi, non fu mai ostile allo sviluppo della scien185 ClaUdIO TaGlIapIeTRa za, e di conseguenza neanche alla teoria della relatività. In terzo luogo, abbiamo visto come le influenze relativiste che presero forma in teologia furono in seguito definite “relativismo teologico”. Queste opinioni furono oggetto di condanna nell’enciclica Humani Generis nel 1950 per la loro evidente dannosità, in particolare per la ecclesiologia e la cristologia. In queste fonti non si fa riferimento ad Einstein né alla teoria della relatività. In quarto luogo, riprendendo il pensiero gli ultimi Pontefici, abbiamo precisato che l’insegnamento della Chiesa si oppone al relativismo etico e culturale. Il fraintendimento qui descritto è esemplificativo di come i processi che relativizzano la verità giungono a essere processi “secolarizzanti”. E in questi processi la scienza deve essere difesa da strumentalizzazioni. Il lettore a questo punto non rimarrà sorpreso di leggere le seguenti parole di Einstein riportate nella rivista Time del 23 dicembre 1940: Solo la Chiesa ha fatto quadrato sul percorso della campagna di Hitler per la soppressione della verità. Non ho mai avuto in precedenza un interesse particolare per la Chiesa, ma ora sento verso di essa una grande ammirazione, poiché la Chiesa sola ha avuto il coraggio e la perseveranza per difendere la verità intellettuale e la libertà morale. Mi trovo quindi costretto a confessare: ciò che io un tempo disprezzavo, ora io lodo senza riserve.56 Time Magazine, 23 dicembre 1940, 40, come riportato da M. BURleIGh, In nome di Dio, Rizzoli, Milano 2007, 249. 56 186 IX. ChaRleS daRwIN e la veRITà: vIaGGIO TRa SCRITTI pUBBlICI e pRIvaTI dI UN evOlUzIONISTa INSOddISfaTTO Anna Pelliccia Il tema dell’origine e dello sviluppo della vita è uno dei tanti problemi aperti che sfidano le conoscenze scientifiche e le riflessioni filosofiche e teologiche di ogni epoca. A partire dalla seconda metà del XX secolo la biologia ha ampliato a tal punto le conoscenze sui meccanismi dei viventi da far percepire il bisogno di una rifondazione, se non a tratti di una fondazione di una filosofia della vita adeguata al livello delle scoperte biologiche. La considerevole espansione conoscitiva novecentesca delle scienze della vita deve il merito maggiore agli studi di un personaggio tranquillo, schivo, complesso e poliedrico, un «gentleman paradossale»,1 uno dei padri fondatori della biologia moderna, Charles Darwin.2 In questo saggio cercherò di indagare, attraverso l’analisi delle fonti dirette, il complesso rapporto che sussiste in Darwin tra scienza, ricerca della verità e riflessioni esistenziali. Esamineremo, a partire da una breve nota biografica sul giovane Darwin, un aspetto meno noto e meno studiato, e cioè come la verità scientifica sia per Darwin la garanzia di affidabilità delle sue scoperte e della sua teoria; ma al tempo stesso vedremo come emergano, dall’attività stessa di scienziato, interrogativi metascientifici che pongono Darwin al cospetto di domande e riflessioni sulla Verità che sfuggono ad ogni prova di scientificità. Vedremo se e come lo scienziato inglese risolverà quest’impasse. La conclusione mostrerà le profonde inquietudini esistenziali che tormentano l’animo di Darwin e la grande attualità delle sue riflessioni. 1. CORNICe INTelleTTUale e ORIGINI dI UN NaTURalISTa Appartenente ad un’agiata famiglia borghese di Shrewsbury, in Inghilterra, di ampie vedute ed intellettualmente vivace, Charles Darwin è notoriamente il padre dalla teoria della selezione naturale, un paradigma 1 a. deSmONd, J. mOORe, Vita di Charles Darwin, Bollati Boringhieri, Torino 2009, XII. 2 p. v. helveRT, J. v. whye, Darwin. A Companion, World Scientific, Singapore 2021. 187 aNNa pellICCIa scientifico che ha influenzato enormemente la scienza e la cultura a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Fin da giovane3 si appassiona alle scienze naturali; per volontà del padre, il medico Robert Waring Darwin, studia medicina a Edimburgo senza successo e poi si trasferisce a Cambridge per dedicarsi agli studi teologici e diventare, secondo le volontà della sua famiglia, un rispettabile curato di campagna con molto tempo libero da dedicare ai suoi amati studi scientifici. Non diventerà né medico né curato di campagna, preferendo alle lezioni di medicina e di teologia quelle di botanica e di geologia.4 Gli anni universitari sono per Darwin ricchi di esperienze; scarsamente interessato alla medicina – non sopporta la vista del sangue, della sofferenza e del dolore – e poco orientato alla teologia, si dedica alla zoologia (in particolare ad Edimburgo) alla botanica e alla geologia (soprattutto a Cambridge, dove conosce i suoi mentori, il botanico John Stevens Henslow e il geologo Adam Sedgwick, e dove diventa un appassionato cacciatore di coleotteri). Gli anni in cui Darwin studia a Cambridge sono stati in parte oggetto di studio degli storici della scienza.5 Meno approfonditi sono i primi anni di soggiorno a Edimburgo6 (anteriori al periodo cantabrigiense), tra il 1825 e il 1827, quando Darwin è poco più che adolescente. In questa città cosmopolita e piena di giovani menti provenienti da tutta l’Europa, Darwin, oltre che seguire le lezioni di geologia di Robert Jameson, stringe una forte amicizia con l’eccentrico, sarcastico, materialista e libero pensatore Robert Edmond Grant,7 un naturalista che aveva abbandonato la professione di medico per dedicarsi allo studio della biologia marina. Grant era uno dei pilastri della Plinian Society8 e 3 E. maNIeR, The Young Darwin and his Cultural Circle, Kluwer Academic, Dordrecht 1978. Darwin sostiene a Cambridge l’esame preliminare al diploma, il Little Go, e successivamente il Bachelor of Arts, risultando decimo su 178 promossi. 4 5 Cfr. J.v. whye, Charles Darwin in Cambridge, World Scientific, Singapore 2014. Cfr. J. f. deRRy, Darwin in Scotland. Edinburgh, Evolution and Enlightenment, Whittles Publishing, Glasgow 2010; B. JeNKINS, Evolution Before Darwin. Theories of the Transmutation of Species in Edinburgh 1804-1834, Edinburgh University Press, Edinburgh 2019. 6 A. deSmONd, Robert E. Grant: The Social Predicament of a pre-Darwinian Trasmutationist, «Journal of The History of Biology», 17 (1984), 2, 189-223. 7 8 «La Società Pliniana era sostenuta – e credo fosse stata fondata – dal prof. Jameson; era costituita da studiosi e si riuniva in una sala sotterranea dell’Università per leggere e discutere memorie sulle scienze naturali. Partecipavo regolarmente alle riunioni, le quali avevano su di me un effetto benefico, in quanto stimolavano il mio entusiasmo, e mi procuravano nuove gradite conoscenze» (f. daRwIN [ed.], Autobiografia di Charles Darwin, 1335). 188 IX. ChaRleS daRwIN e la veRITà della Wernerian Natural History Society, luoghi dove si discuteva delle più recenti scoperte in campo scientifico, delle loro implicazioni morali, e dove intellettuali «radicali in scienza e anticlericali in politica»9 esprimevano le proprie posizioni in accesi dibattiti.10 Il sarcastico naturalista divenne il primo docente di anatomia comparata e zoologia all’Università di Londra nel 1827, esperto di invertebrati, specialmente di spugne e nudibranchi. Spesso relegato alle note a piè di pagina nelle biografie e negli studi darwiniani, Grant è invece il primo vero maestro di Darwin, il quale da lui impara i primi rudimenti del metodo scientifico che poi affinerà negli anni successivi, e in particolare l’osservazione accurata, la registrazione dei particolari, l’attenzione alla natura nel suo insieme. Grande ammiratore degli scienziati Erasmus Darwin (nonno di Charles Darwin), Jean -Baptiste Lamarck ed Etienne Geoffroy Saint-Hilaire, Grant si reca spesso con Darwin sulla scogliera vicino a Edimburgo per catturare spugne, briozoi, alcionari, per osservare e studiare tali esseri viventi che Grant stesso riteneva interessanti per scoprire la radice comune di tutta la vita, convinto dell’esistenza di una trasformazione nella natura vivente guidata esclusivamente da forze fisiche e leggi naturali. Sotto la guida di Grant, Darwin scrive i suoi primi taccuini pieni di osservazioni su larve di molluschi e briozoi, e annuncia alla Plinian Society la sua prima scoperta sulle uova di Pontobdella muricata. L’interesse per le teorie di Grant suscita in Darwin la passione per i livelli più bassi della vita, una passione che costituisce il suo più prezioso bagaglio durante il viaggio di circumnavigazione del globo sul brigantino HMS Beagle tra il 1831 e il 1836 (sostenuto, anche se a malincuore, sia dal padre che dalla famiglia), quando studia i vermi piatti colorati e i coleotteri di Rio de Janeiro, i briozoi e i Flustra al largo di Bahia Blanca, le alghe incrostanti alle isole Falkland e i coralli degli atolli sulle isole 9 deSmONd, mOORe, Vita di Charles Darwin, 35. 10 La concezione proto-evoluzionista degli ambienti intellettuali di Edimburgo frequentati da scienziati quali Robert Grant, William Browne, William Greg e Robert Jameson, concepisce l’evoluzione un meccanismo le cui basi sono costituite esclusivamente da leggi fisiche e naturali, dove non c’è spazio per il soprannaturale nella spiegazione dell’origine degli esseri viventi. Questi proto-evoluzionisti erano dissidenti, sovversivi rispetto alla Chiesa ufficiale. Si ispiravano fortemente agli ideali della rivoluzione francese: la rivoluzione nasce dal basso, in natura come in politica. Li ispirava infatti l’idea che l’essere umano è frutto di una lunga catena iniziata da infime forme viventi; la vera rivoluzione della vita è dunque stata inizialmente quando essa era praticamente microscopica. 189 aNNa pellICCIa Keepling. Memore degli insegnamenti dei suoi professori di Edimburgo e Cambridge, ormai divenuti amici – Grant, Henslow, Sedgwick –, Darwin osserva, colleziona, cataloga, riempie taccuini11 di pensieri, ipotesi, intuizioni, costruisce l’impalcatura concettuale che poi culminerà nella formulazione della teoria della selezione naturale. Si può quindi ben affermare che Edimburgo – forse più di Cambridge – rappresenta per Darwin l’inizio della sua formazione intellettuale in quanto scienziato, il primo approccio alla scienza pratica, al “lavoro sul campo”, all’osservazione, all’importanza del porsi le giuste domande, all’attenta rielaborazione delle osservazioni, alla rilevanza della comunicazione delle proprie scoperte, all’attenzione per il mondo microscopico. L’immagine di un Darwin che seziona e impaglia animali, che annota, osserva, prende partito, fa scoperte, partecipa a emozionanti dibattiti, ci suggerisce che il suo secondo anno a Edimburgo non fu affatto un periodo sterile. Era infatti cominciata la sua formazione intellettuale. Il miglior zoologo specialista di invertebrati di tutta la Gran Bretagna gli aveva insegnato a studiare il più minuto dettaglio ponendosi al tempo stesso le più gravi domande.12 Durante il viaggio sul Beagle Darwin lavora al massimo delle sue possibilità, mosso da un lato dal piacere della ricerca, dall’altro dal «forte desiderio di aggiungere fatti nuovi alla gran massa di fatti delle scienze naturali. Ma mi muoveva anche l’ambizione di raggiungere un buon posto tra gli scienziati».13 Fin da subito spedisce in Inghilterra molti dei reperti raccolti, materiale botanico, geologico, ma soprattutto i megateri fossili trovati a Punta Alta, la cui conoscenza era fino ad allora molto limitata. La fama di grande naturalista precede il silenzioso arrivo di Darwin alla casa paterna, la residenza The Mount, la sera di martedì 4 ottobre 1836: Henslow aveva fatto stampare e pubblicare sotto forma di opuscolo alcune lettere tecniche di Darwin sulla geologia sudamericana, distribuendole privatamente alla famiglia e agli scienziati, amici Darwin scrive almeno 32 taccuini: 14 Field Notebook, Red Notebook, A, B, C, D, E, M, N, Old and useless Notes about the moral sense & some metaphysical points, Glen Roy Notebook, Torn Apart Notebook, Edinburgh notebook, Questions and Experiments, Experiment book, Notebook on the Darwin children, Books to be Read/Books Read (1838-51), Books Read/Books to be Read (18521860), Books read (1838-1858). 11 12 Cfr. deSmONd, mOORe, Vita di Charles Darwin, 48. F. daRwIN (ed.), Autobiografia di Charles Darwin in p. CaCUCCI, G. mONTaleNTI, p. OmOdeO, l. pavOlINI (edd.), Darwin. L’origine delle specie, L’origine dell’uomo e altri scritti sull’evoluzione, Newton Compton, Roma 2011, 1346. 13 190 IX. ChaRleS daRwIN e la veRITà di Henslow che frequentavano le maggiori società scientifiche londinesi. Darwin torna dunque dal viaggio con una mole ingente di reperti da classificare e studiare e con una già consolidata fama di scienziato e naturalista che lo accoglie in tutti gli ambienti intellettuali di Londra (Zoological Society, Geological Society, British Museum, Linnean Museum). Il padre che lo aveva sempre definito un inguaribile perdigiorno (tanto che nella sua autobiografia Darwin stesso ricorda che dopo i fallimenti di Edimburgo e Cambridge lo avesse sgridato dicendo «non ti occupi d’altro che di caccia, di cani e di acchiappar topi, sarai una disgrazia per te e per tutta la famiglia»)14 ora, inorgoglito dal figlio di ritorno dal viaggio con così tanti onori e riconoscimenti, comprende pienamente le passioni di Charles e gli assicura una rendita di quattrocento sterline l’anno tale da consentirgli una vita agiata, libera da preoccupazioni lavorative, sciolto dall’obbligo paterno di una carriera ecclesiastica, e in grado di dedicarsi alle sue passioni più care.15 Il futuro curato di campagna era diventato un famoso naturalista, tanto riservato e timoroso nella vita privata, quanto rivoluzionario e innovatore nel campo delle scienze naturali. Il viaggio aveva sopito le inclinazioni giovanili alla caccia, al collezionismo sfrenato, alle passeggiate e alle corse a cavallo, lo aveva reso padrone delle proprie passioni, conferendogli equilibrio, consapevolezza e responsabilità; aveva finalmente dimostrato alla sua famiglia – ma anche a se stesso – quanto valeva, conquistando l’amore dei suoi cari. Mentre l’Inghilterra si stava preparando alle grandi riforme sociali, Darwin aveva realizzato «la riforma di se stesso».16 I mesi immediatamente successivi al ritorno a Londra lo vedono impegnato nella conoscenza e frequentazione delle grandi menti della scienza inglese quali il geologo Charles Lyell17 e l’anatomista comparato Richard Owen, ma 14 Ibidem, 1332. Cfr. R. KeyNeS, Casa Darwin. Il male, il bene e l’evoluzione dell’uomo, Einaudi, Torino 2007; m. pIaTTellI, Pleasure of imitation. Naturalismo e filogenesi del linguaggio nelle teorie di Hensleigh Wedgwood e di Charles Darwin, ETS, Pisa 2019; a. paRRavICINI, La mente di Darwin. Filosofia ed evoluzione, Negretto, Castel D’ario 2009. 15 16 deSmONd, mOORe, Vita di Charles Darwin, 222. 17 Darwin incontra Charles Lyell il 29 ottobre 1836, in occasione di una cena nella quale era presente anche il noto anatomista comparato Richard Owen. Durante il viaggio Darwin aveva letto i due volumi scritti da Lyell, Principles of Geology, consigliati da Henslow prima della partenza. La visione uniformista di Lyell, di una terra che subisce lenti e progressivi cambiamenti fino a giungere allo stato attuale, una terra la cui storia può essere indagata e compresa attraverso 191 aNNa pellICCIa anche nella distribuzione delle migliaia di reperti raccolti durante il viaggio ai vari scienziati, ognuno specializzato in una particolare branca dello studio naturalistico. Terminato questo denso periodo di lavoro, Darwin inizia la lunga fase di ruminazione intellettuale delle intuizioni, idee, ipotesi che si erano fatte strada prima a Edimburgo e Cambridge e poi durante il viaggio. Il viaggio rischiara la mente del giovane naturalista, getta un fascio di luce sulle sue consolidate passioni, accende il turbinio di idee che si ritrovano in modo informe nei suoi numerosi taccuini e poi compiutamente nelle opere pubbliche e nella corrispondenza privata.18 Il 17 settembre 1842 Darwin chiude definitivamente la porta della sua casa di Londra al numero 12 di Upper Gower Street per raggiungere in carrozza la sua futura dimora di campagna: laboratorio, fucina di pensieri, ritrovo di amici e studiosi, rifugio sicuro, tutto questo è Down House, nel piccolo paesino di Down, lontano dai circoli londinesi e dalla mondanità. Lì mediterà a fondo e darà corpo a tutte le idee che avevano fino ad allora preso forma nella sua mente. Il giovane viaggiatore si stava lentamente trasformando in un uomo pieno di timori, schivo, ipocondriaco, sempre affabile e gentile, ma ancor più immerso nel suo mondo fatto di ipotesi “avventate” e di teorie rivoluzionarie.19 lo studio delle rocce e dei sedimenti visti come tante pagine di un libro (visione molto vicina, seppure quasi esclusivamente per questo aspetto, alle ipotesi e agli insegnamenti che il geologo Robert Jameson aveva trasmesso a Darwin durante gli studi all’Università di Edimburgo), ecco tale visione influenzerà tutte le idee di Darwin sulla storia della vita. La geologia di Lyell rappresenta, come giustamente nota Telmo Pievani, studioso e divulgatore del darwinismo, il “brodo di coltura” della teoria darwiniana. Lyell non accetterà mai completamente la teoria darwiniana, soprattutto il concetto di selezione naturale applicato all’essere umano, per lui creatura troppo “eccezionale” perché possa essere spiegata con il ricorso alla sola legge della selezione naturale. Nonostante questo, Lyell aiuterà sempre Darwin, invitandolo a pubblicare, nonostante le sue reticenze e riluttanze; sarà sempre al suo fianco, supportandolo e comprendendo la genialità e l’importanza della sua teoria, forse precorritrice dei tempi. 18 Cfr. f. BURKhaRdT (ed.), Charles Darwin. The Beagle Letters, Cambridge University Press, Cambridge 2008; S. evaNS (ed.), Darwin and Women. A Selection of Letters, Cambridge University Press, Cambridge 2017. Quando l’11 gennaio 1844 Darwin scrive una lettera al naturalista Joseph Dalton Hooker per discutere con lui sulla distribuzione di alcuni organismi fossili del Sud America e delle isole Galapagos, quasi alla fine annuncia all’amico di aver letto molti articoli e libri di orticoltura che lo hanno convinto che le specie non sono immutabili. Scrivere questo è per Darwin quasi come «confessare un delitto» (Letter no. 729, Darwin Correspondence Project [d’ora in avanti DCP]). 19 192 IX. ChaRleS daRwIN e la veRITà 2. l’aSSOlUTO daRwINIaNO della veRITà SCIeNTIfICa Il Darwin della maturità, lo scienziato famoso, con la nutrita schiera di seguaci e amici, l’autore de L’origine delle specie, L’origine dell’uomo, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, è il personaggio che oggi tutti conoscono, più o meno approfonditamente, attraverso i suoi scritti pubblici e la grande divulgazione operata già dalla sua morte, avvenuta il pomeriggio di mercoledì 19 aprile 1882. Meno nota è la biografia – che abbiamo solamente accennato nei suoi punti essenziali e fondamentali – del Darwin “pre-Origin” e nella quale si può rintracciare il lungo percorso che ha portato lo scienziato alla formulazione della teoria della selezione naturale. Questa approssimativa ed essenziale – soprattutto per ordine di spazio – nota biografica degli anni giovanili darwiniani (specialmente degli anni trascorsi all’Università di Edimburgo) ci mostra evidentemente un primo aspetto che costituisce un elemento di esame importante di questo saggio: la grande rilevanza data dal naturalista inglese alla garanzia di verità scientifica delle sue scoperte. Una verità che, come mostreranno le citazioni seguenti tratte dalla sua Autobiografia,20 emerge come conseguenza ed evidenza da un preciso metodo scientifico. Negli anni di permanenza all’Università di Cambridge: Allora rimasi sorpresissimo del fatto che Sedgwick non si entusiasmasse dinanzi alla scoperta meravigliosa d’una conchiglia tropicale trovata quasi alla superficie terrestre, nel centro dell’Inghilterra. Non avevo ancora compreso a fondo – pur avendo letto vari libri scientifici - che la scienza consiste nel raggruppare i fatti in maniera che se ne possano tratte leggi o conclusioni generali.21 Durante il viaggio sul brigantino Beagle: Altra mia occupazione era quella di raccogliere animali di tutte le classi, di descriverli in poche parole e di sezionare grossolanamente molta fauna marina. [...] Tutto ciò che pensavo o leggevo si riferiva direttamente a quel che avevo visto o che era probabile vedessi; e applicai questo metodo durante tutti e cinque gli anni del viaggio. È stato questo allenamento, ne sono certo, che mi ha messo in grado di realizzare quel po’ che ho realizzato per la scienza. […] Scoprii, sia pure inconsciamente e insensibilmente, che il piacere di osservare e ragionare era molto maggiore di quello di essere brillante o di fare dello sport.22 20 Scritta tra il 28 maggio e il 3 agosto 1876, rivista e corretta in alcune parti a distanza di anni, prima nel 1878 e poi, per l’ultima volta, nel 1880. 21 F. daRwIN (ed.), Autobiografia di Charles Darwin, 1343. 22 Ibidem, 1345. 193 aNNa pellICCIa Per molti anni avevo seguito un’altra regola preziosa: ogni qual volta mi si parava dinanzi la notizia di un fatto, un’osservazione nuova o una nuova idea che contrastavano coi miei risultati generali, facevo subito e senza eccezione una scheda;23 mi ero accorto per esperienza che è molto più facile che sfuggano dalla memoria idee e fatti del genere che non quelli favorevoli. Grazie a quest’abitudine, ben poche obiezioni sono state sollevate contro la mia teoria, che non avessi già previsto e alle quali non avessi già tentato di dare una risposta.24 Penso d’avere una capacità superiore alla media nell’accorgermi dei fatti che sfuggono facilmente all’attenzione, e nell’osservarli scrupolosamente. Ho posto la massima cura possibile nell’osservazione e nella raccolta di fatti. Cosa di gran lunga più importante, il mio amore per le scienze naturali è stato tenace e appassionato.25 Dunque il mio successo come scienziato, quali che siano state le sue proporzioni, è stato determinato – per quel che posso giudicare – da qualità intellettuali e da condizioni complesse e diverse. Le più importanti sono state: l’amore per la scienza, la pazienza illimitata nel riflettere a lungo su ogni questione, l’attività esplicata nell’osservare e raccogliere fatti, e una buona dose di inventiva nonché di buon senso.26 Dalle citazioni appena lette emerge il metodo scientifico darwiniano, appreso inizialmente dal suo maestro Grant negli anni giovanili, un metodo baconiano, definito ipotetico-deduttivo dal biologo e filosofo americano, studioso di Darwin, Michael Ghiselin.27 In linea generale, come afferma il grande biologo Ernst Mayr, ammesso che «Darwin was a pragmatist and used whatever method he thought would bring him the best results»,28 egli era un acuto osservatore; l’osservazione era il suo «most productive approach».29 In una lettera del vicario di Downe, John Brodie Innes, a Charles Darwin, suo intimo amico, Innes stesso scrive: «Egli aveva così tanti schedari di informazioni scientifiche da poter fare concorrenza a un ente statale» (deSmONd, mOORe, Vita di Charles Darwin, 630). 23 24 F. daRwIN (ed.), Autobiografia di Charles Darwin, 1356. 25 Ibidem, 1363. 26 Ibidem, 1365. m. T. GhISelIN, The Triumph of the Darwinian Method, University of California Press, Berkeley 1969. 27 28 e. mayR, The Philosphical Foundations of Darwinism, «Proceedings of the American Philosophical Society» 145 (2001), 4, 489. 29 Ibidem. 194 IX. ChaRleS daRwIN e la veRITà Ho il piacere dell’intima amicizia di uno dei migliori naturalisti d’Europa. Egli è un osservatore molto accurato e non afferma mai nulla come un fatto che non abbia indagato a fondo. È un uomo dal più perfetto carattere morale e il suo rispetto scrupoloso per la verità più rigorosa è al di sopra di quello di quasi tutti gli uomini che conosco. Sono abbastanza persuaso che ogni mattina, se incontrava un fatto che contraddiceva chiaramente una delle sue amate teorie, non lasciava che il sole tramontasse prima di averlo reso noto. Non ho mai visto una parola nei suoi scritti che fosse un attacco alla religione.30 Posto che l’osservazione è il focus del metodo darwiniano – in particolare l’osservazione di fatti trascurabili e/o trascurati – le altre tappe della ricerca sono sicuramente la raccolta dati, la descrizione, il ragionamento e l’“inventiva” finale nel dedurre ipotesi. Il tutto si basa su un amore indefesso per la scienza e la verità. Anche il paleontologo statunitense George Gaylord Simpson – che insieme al biologo Mayr e altri scienziati ha contribuito alla nascita della Sintesi moderna dell’evoluzione – è in linea con questa interpretazione, quando afferma che «il fondamento della scienza è l’osservazione, […] e che il conto in cui Bacone teneva l’osservazione e la sua concezione operativa della scienza sono quei punti grazie ai quali la sua influenza si fece sentire profondamente e beneficamente».31 Il fisico italiano Ugo Amaldi nota come la descrizione scientifica dell’evoluzione delle specie ha spostato l’attenzione da un metodo scientifico basato su esperimenti «ad un metodo basato su modelli/teorie che giustificano molti fenomeni e processi con poche ipotesi (assiomi), magari esteticamente soddisfacenti».32 La sperimentazione, infatti, ha avuto un ruolo marginale nella formulazione della teoria della selezione naturale; piuttosto, la descrizione dei fatti e la ricerca delle relazioni e delle connessioni che intercorrono tra fatti e fenomeni è l’aspetto fondamentale della teoria darwiniana, come ci ricorda anche il primo dei brani sopra riportati tratti dall’Autobiografia. Il grande merito di Darwin è quello di aver costruito una metodologia a tappe crescenti: osservare, raccogliere fatti, interconnettere i dati e formulare ipotesi, vagliare e verificare fatti contrari all’ipotesi in modo tale da rafforzare o eliminare l’ipotesi stessa. In un periodo dove la scienLettera di J. B. Innes a Charles Darwin, 1 dicembre 1878, lettera n. 11768, DCP [traduzione mia]. 30 31 G.G. SImpSON, Evoluzione. Una visione del mondo, Sansoni, Firenze 1972, 88. U. amaldI, Verità dei modelli e delle affermazioni scientifiche, in v. pOSSeNTI (ed.), La questione della verità. Filosofia, scienze teologia, Armando, Roma 2003, 113. 32 195 aNNa pellICCIa za europea si andava specializzando, dove nascevano le discipline come noi oggi le conosciamo, Darwin ha saputo coniugare specializzazione e transdisciplinarietà, adattando lo spirito tedesco della Naturphilosophie del suo amato Alexander von Humboldt33 (la cui opera, Personal Narrative, porta con sé durante il viaggio e legge appassionatamente più volte) con gli insegnamenti di Grant, di Henslow, di Sedgwick e dei suoi maestri scienziati, per costruire un metodo scientifico dove i dati empirici si interconnettono finalmente in un’unica grande rete rappresentata dall’intero mondo naturale. La grandezza di Darwin consiste dunque nella capacità, straordinaria per quel periodo storico, di avere uno sguardo “dall’alto” sui dati fenomenici, di metterli in relazione e analizzarli in maniera interdisciplinare e transdisciplinare, alla luce di più saperi e discipline scientifiche. Un grande aiuto nel forgiare questo tipo di approccio è stato sicuramente fornito dal filosofo Auguste Comte. Il 12 agosto 1838 presso l’Athenaeum Club di Londra, Darwin legge una lunga recensione di David Brewster scritta per la Edinburgh Review dell’opera del positivista Auguste Comte intitolata Corso di filosofia positiva. Rimane impressionato dalle teorie del filosofo e dalla sua visione della realtà tanto simile alla sua, dove una scienza matura si caratterizza per la fede in un mondo governato da leggi e dove ogni conoscenza possibile e vera è quella fornita dalle scienze. La verità così “costruita” diventa per Darwin un solido parallelepipedo indistruttibile. Riportiamo in proposito una bella immagine dell’uomo di scienza che ci viene proposta dal paleontologo George Gaylor Simpson, uno dei padri della Sintesi moderna. Ogni volta che lo scienziato interroga la realtà, afferma Simpson, [l]’investigazione razionale, vale a dire scientifica, dell’universo rivela le sue meraviglie come nessuna introspezione o rivelazione potrebbe fare. Noi stessi siamo davvero tali da suscitare timore e meraviglia e altrettanto lo è un’allodola, un ranuncolo e persino un granello di sabbia. Nessun poeta e nessun profeta ha mai contemplato prodigi così profondi come quelli che si rivelano allo scienziato. Pochi possono essere 33 «Humboldtianism was deeply imbedded in Darwin’s thinking. Humboldt’s conception of a holistic “physics of the earth”, a science connecting diverse scientific inquiries together in a more comprehensive science of nature, seems to form the model for Darwin’s own efforts to link geology and zoology, paleontology and stratigraphy, botany and zoology during the Beagle years» (p.R. SlOaN “It Might Be Called Reverence”, in v. höSle, C. IllIeS [edd.], Darwinism & Philosophy, University of Nostre Dame Press, Notre Dame 2005, 148). In questa sede è impossibile anche solo delineare i tratti principali della figura di Alexander von Humboldt, naturalista, esploratore, geografo e botanico tedesco. La sua visione della scienza e della natura è stata rivoluzionaria e ha anticipato di almeno un secolo concetti e paradigmi scientifici. 196 IX. ChaRleS daRwIN e la veRITà così ottusi da non reagire alla conoscenza materiale di questo nostro mondo con un senso di timore reverenziale che merita di essere definito religioso.34 Il paleontologo statunitense sembra suggerire che nell’atto di espletare il suo lavoro di scienziato la natura “parla” all’uomo di scienza, e non solo al suo livello razionale ma anche a quello emotivo, al suo “cuore” e alla sua “anima”; la natura svela all’uomo di scienza la bellezza del meccanismo vivente, e lo scienziato non può che ammirare con «timore reverenziale» lo spettacolo della vita. Se da un lato c’è il disvelamento della natura35 e delle sue meraviglie, dall’altro c’è sempre il soggetto che accoglie, che introietta tale disvelamento e rimane disorientato di fronte al mondo e alla sua stessa capacità di meravigliarsi ed emozionarsi, di fronte a se stesso che si scopre come un essere “eccedente” rispetto alla contingenza ma allo stesso tempo parte fisica e tangibile dell’universo che contempla. Simpson riflette dunque che accanto alla scienza, alle sue verità fattuali, alle sue certezze empiriche, c’è sempre lo scienziato, l’essere umano che osserva, esamina, intuisce, connette dati; accanto all’oggettività del dato c’è sempre la soggettività di chi indaga, una soggettività ineludibile, ineliminabile nel contesto scientifico della scoperta. Questo aspetto della ricerca scientifica apre la nostra disamina relativa al concetto di verità in Charles Darwin verso un nuovo punto di vista, una nuova prospettiva che, per prendere a prestito la metafora della moneta, come presto vedremo, costituisce il rovescio della medaglia della nozione di verità scientifica darwiniana che finora abbiamo analizzato. 3. TRa aSSeRzIONI SCIeNTIfIChe e INTeRROGaTIvI meTafISICI. a paSSeGGIO Nella meNTe dI daRwIN La scrittura è parte fondamentale del percorso umano e scientifico di Darwin. La sua produzione scritta è davvero di notevole entità.36 34 SImpSON, Evoluzione. Una visione del mondo, 213. Cfr. v. pOSSeNTI, Verità, in G. TaNzella-NITTI, a. STRUmIa (edd.), Dizionario Interdisciplinare Scienza e Fede, Urbaniana University Press, Città Nuova - Urbaniana University Press, Roma 2022, 1502-1518; v. pOSSeNTI, La domanda sulla verità e i suoi concetti, in Idem (ed.), La questione della verità. Filosofia, scienze teologia, Armando, Roma 2003, 15-46. 35 «Charles Darwin fu uno scrittore prolifico per tutto il corso della sua vita: si stima che abbia lasciato circa 12 milioni di parole, la maggior parte delle quali ancora inedite. Nell’insieme, gli appunti, […] i manoscritti inediti, i diari, gli elenchi e le lettere, più naturalmente i libri pubblicati, le monografie e i saggi scientifici, equivalgono a un vero e proprio tesoro ritrovato, poiché offrono una visione impareggiabile, al lettore attento, 36 197 aNNa pellICCIa Taccuini, diari, lettere, manoscritti, opere pubblicate, rappresentano la vasta gamma di scritti di un autore che utilizza svariati registri, stili e tecniche di scrittura. Egli annotava ogni singolo particolare e accadimento della sua vita, dai risultati delle partite serali a backgammon con la moglie Emma, agli animali uccisi durante le battute di caccia giovanili, fino ai suoi pensieri più profondi, le sue inquietudini, le sue congetture scientifiche. Forse è tra i pochi scienziati di cui possiamo indagare, quasi giornalmente, l’evoluzione delle ipotesi e la costruzione della teoria. Eppure, ad oggi, molti manoscritti rimangono inediti, alcune opere sono studiate solo superficialmente, gran parte della corrispondenza è tutta da esaminare,37 i taccuini ancora da comprendere a fondo. Darwin rappresenta senza dubbio un’icona, e come per tutte le icone il processo di destrutturazione è sempre complesso e “scomodo” perché mira a eliminare i luoghi comuni nati attorno al personaggio, a correggere gli errori e le interpretazioni posticce, a ridare voce all’autore e avvicinarsi a comprendere la sua genuina visione della realtà e della verità. Così attento e concentrato sulla scienza e sui dati oggettivi probanti, Darwin, fin dal ritorno dal viaggio sul Beagle, inizia a scrivere una serie di taccuini38 con osservazioni personali che attestano lo sviluppo magmatico e turbinoso delle sue ipotesi che andranno a costituire l’ossatura principale della teoria della selezione naturale. I taccuini – insieme alla corrispondenza – rappresentano gli scritti più interessanti per uno storico della scienza che voglia comprendere più i tratti “umani” che la teoria scientifica di Darwin. Ecco dunque che questo naturalista, che ha fatto della ricerca della verità fattuale la base fondante della sua impresa scientifica, riempie i suoi scritti più intimi e privati di una serie di considerazioni, ma soprattutto di interrogativi, che non possono essere indagati attraverso gli strumenti della scienza sul processo stesso della creatività umana» (T. pIevaNI [ed.], Charles Darwin. Taccuini, Laterza, Roma-Bari 2008, v). La ricognizione dell’intero corpus darwiniano è piuttosto difficoltosa anche per il fatto che è tuttora in atto l’opera di reperimento, trascrizione e annotazione degli scritti, soprattutto relativi alla corrispondenza privata, della quale è in corso di pubblicazione il trentesimo e ultimo volume nell’edizione cartacea The Correspondence of Charles Darwin, il cui primo volume è apparso nel 1985. Il Darwin Correspondence Project è un progetto fondato nel 1975 dagli studiosi Frederick Burkhardt, sua moglie Anne Schlabach Burkhardt, e Sydney Smith con lo scopo di localizzare, trascrivere ed annotare l’enorme mole di tutta la corrispondenza dello scienziato inglese. 37 38 Cfr. G. ChaNCellOR, J.v. whye (edd.), Charles Darwin’s Notebooks from the Voyage of the Beagle, Cambridge University Press, Cambridge 2009; l. CalaBI, I quaderni metafisici di Darwin. Teleologia «metafisica» causa finale, ETS, Pisa 2001. 198 IX. ChaRleS daRwIN e la veRITà e che esulano, quindi, dal campo dell’indagine scientifica. Darwin è stato lo scienziato che, con la pubblicazione de L’origine delle specie nel 1859, è riuscito ad estromettere argomenti di natura religiosa dalla spiegazione dello sviluppo della vita. «L’intuizione della realtà dell’evoluzione fu un enorme passo dalla superstizione ad un universo razionale».39 La teoria delle creazioni particolari non aveva più ragione di esistere dopo la pubblicazione della teoria della selezione naturale. Tutta la natura è governata da leggi e regole fisiche, Dio non ha creato i singoli esseri viventi perfettamente adattati ai loro habitat; piuttosto, essi si sono evoluti e si evolvono in una lotta continua per adattarsi all’ambiente, e la selezione naturale seleziona gli individui più adatti. Convinto sostenitore che la vera conoscenza è quella che deve essere verificata dalla prova dei fatti, Darwin legge con interesse, già negli anni di permanenza a Cambridge, il testo Evidences of Christianity di John Bird Sumner e tutte le principali opere di William Paley (Natural Theology, The Evidences of Christianity, The Principles of Moral and Political Philosophy), per rintracciare in queste opere le prove “scientifiche” dell’esistenza di Dio. Ben presto però, da fedele positivista, si convince dell’impossibilità di mettere al vaglio della ragione l’idea di Dio e la fede in generale, e il suo pensiero inizia una lenta ma costante evoluzione che lo conduce a diventare un perpetuo pellegrino, nella vana ricerca di una “teoria naturale del tutto” che potesse spiegare in modo convincente anche quelle intuizioni, quegli interrogativi che lo sorprendevano mentre pranzava tra tronchi marcescenti nelle foreste del Sud America, passeggiava tra la vegetazione lussureggiante dei tropici, mentre studiava i suoi cirripedi, le sue piante insettivore o le orchidee, oppure mentre piangeva la morte della sua amata figlia Anne Elizabeth scomparsa a soli dieci anni. Interrogativi metafisici popolano la mente di Darwin durante tutto l’arco della sua vita. Li leggiamo in alcuni passi del Beagle Diary.40 La prima delle seguenti citazioni risale a quando Darwin, il 1 gennaio 1835, viaggia da Capo Tres Montes verso l’arcipelago delle Chonos, mentre la seconda è scritta da Darwin il 24 settembre 1836, a pochi giorni dal ritorno in patria. L’anno nuovo ha fatto la sua entrata con le cerimonie che sono proprie di questa regione, che non lascia false speranze: un forte vento di NO e una pioggia regolare annunciano l’anno che nasce. Grazie a Dio, non sarà qui che ne vedre39 SImpSON, Evoluzione. Una visione del mondo, 16. R.d. KeyNeS (ed.), Charles Darwin’s Beagle Diary, Cambridge University Press, Cambridge 1988. 40 199 aNNa pellICCIa mo la fine, ma piuttosto nel Pacifico, dove un cielo blu ci dice che c’è un cielo, qualcosa al di là delle nuvole, al di sopra delle nostre teste.41 Di tutti i paesaggi che si sono profondamente impressi nella mia memoria, nessuno è più sublime delle foreste vergini, che la mano dell’uomo non ha deturpato, che siano quelle del Brasile, dove predominano le potenze della vita, o quelle della Terra del Fuoco, dove prevalgono la morte e la dissoluzione. Entrambe sono dei templi colmati dalle variate produzioni del Dio della Natura. Nessuno può restare impassibile tra quelle solitudini, senza avvertire che nell’uomo c’è qualcosa di più del semplice soffio del suo corpo.42 La meraviglia della natura non può che colpire ogni scienziato che si trova a indagarla – come già è stato sottolineato dal paleontologo Simpson in un brano che abbiamo riportato nel capitolo secondo di questo saggio – e non può che far sorgere in lui interrogativi fondanti, essenziali, di senso. I taccuini di Darwin sono pieni di riflessioni sul ruolo di Dio nella creazione.43 Darwin sembra abbracciare la credenza in un essere divino che ha agito nella natura creando «leggi progettate»44 e permettendo così alla natura di svilupparsi e di giungere a delle «conseguenze non progettate».45 Vediamo insieme alcuni brani tratti dai Taccuini B ed N. In passato gli astronomi avrebbero potuto affermare che Dio dispose affinché ciascun pianeta si muovesse seguendo il proprio particolare destino. – Allo stesso modo Dio dispone che ciascun animale sia creato con una certa forma in una certa regione: ma quanto più semplice e sublime sarebbe una forza per cui, 41 G. ChIeSURa (ed.), Charles Darwin. Diario di bordo del viaggio del Beagle, 1831-1836, Robin Edizioni, Torino 2017, 422. La traduzione non è forse del tutto corretta dato che il temine “cielo” compare due volte nella traduzione italiana, laddove invece nel testo originale inglese Darwin utilizza prima il termine “sky” per la prima ricorrenza, mentre la seconda volta adotta il termine “heaven” che rimanda non tanto ad un cielo inteso come entità fisica ma a qualcosa di soprannaturale. 42 Ibidem, 651. Cfr. C.G. hUNTeR, Darwin’s God. Evolution and the Problem of Evil, Wipf and Stock, Eugene 2001; P. CaSINI, Darwin e la disputa sulla creazione, Il Mulino, Bologna 2009; w.e. phIppS, Darwin’s Religious Odyssey, Trinity Press International, Harrisburg 2002; GIllISpIe N.C., Charles Darwin and the problem of creation, University of Chicago Press, Chicago 1979; J.f. haUGhT, God After Darwin. A Theology of Evolution, Westview Press, Boulder 2000; F.J. ayala, Darwin’s greatest discovery: Design without designer, «Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America», 104 (2007), 1, 85678573; f.J. ayala, Il dono di Darwin alla scienza e alla religione, San Paolo, Milano 2009. 43 44 Lettera di Charles Darwin ad Asa Gray (lettera n. 2855, DCP). 45 Ibidem. 200 IX. ChaRleS daRwIN e la veRITà agendo l’attrazione secondo certe leggi, tali siano le inevitabili conseguenze; essendo creato l’animale, tali saranno i suoi successori secondo le leggi prefissate dalla generazione.46 Grandiosa idea, e cioè che Dio diede le leggi e poi lasciò che tutto procedesse di conseguenza.47 Possiamo accettare che satelliti, pianeti, soli, universo, o meglio l’intero sistema dell’universo dell’uomo siano tutti governati da leggi, mentre per il più piccolo insetto, pretendiamo che esso sia comparso all’improvviso con un atto speciale di creazione, provvisto già dei suoi istinti, del suo posto in natura.48 4. «dImmI Che faRe qUaNdO mI daNNO dell’aTeO»49 L’idea di rintracciare in natura un disegno che possa, attraverso lo studio della natura stessa, condurre l’essere umano alla prova dell’esistenza di Dio non convince Darwin. Tuttavia, durante l’intero arco della sua vita non cesserà mai di porsi la domanda sulla creazione e di cercare soluzioni di fede per lui accettabili. Possiamo aggiungere di più: nelle sue peregrinazioni intellettuali, Darwin, tradendo in parte la sua fede assoluta nell’unica forma di conoscenza possibile, quella scientifica, si pone costantemente interrogativi di senso. Li ritroviamo nei taccuini della gioventù, nella corrispondenza e, velati, anche nelle opere pubbliche. La maturità rende anzi più forti tali interrogativi, più stringenti, più profondi. Come naturalista non può non credere in leggi fisiche che governino la natura, compreso l’essere umano, «perché esso non è un intruso»:50 come uomo sente, intuisce, percepisce che tutto l’universo non può essere il prodotto del caso. Egli si trova dunque di fronte a un’impasse, uno sdoppiamento nella sua visione che rischia di condurlo però nella strada fallace di una doppia verità, o meglio, in due strade diverse, delle quali l’una conduce alla conoscenza certa e vera perché provata, l’altra invece ad intuizioni e percezioni che non possono essere suffragate da prove. Se ammettiamo, come afferma Darwin, che la mente umana si è sviluppata a partire da un antenato in comune con 46 pIevaNI (ed.), Charles Darwin. Taccuini, (Taccuino B, 101), 163. 47 Ibidem, (Taccuino B, 114), 168. a. aTTaNaSIO (ed.), Charles Darwin. Taccuini filosofici, UTET, Torino 2010, (Taccuino N, 36), 91. 48 49 T. pIevaNI (ed.), Charles Darwin. Lettere sulla religione, Einaudi, Torino 2013, 111 (lettera di Charles Darwin a Reginald Darwin, 8 aprile 1879. Letter n. 11982, DCP). 50 pIevaNI (ed.), Charles Darwin. Taccuini, (Taccuino E, 65), 270. 201 aNNa pellICCIa animali inferiori, possiamo ritenerne veri e affidabili i pensieri? Chi si fiderebbe delle convinzioni della mente di una scimmia?, si domanda. Di seguito riportiamo degli estratti di lettere che Darwin scrive ad amici e corrispondenti per chiarire la sua posizione. Io sono in una completa confusione. Non si può guardare questo Universo con tutte le sue produzioni viventi e l’uomo senza credere che tutto sia stato disegnato in modo intelligente; tuttavia quando guardo ad ogni singolo organismo, non vedo alcuna prova di ciò. Perciò, non sono pronto ad ammettere che Dio abbia progettato le piume nella coda del torraiolo in modo che variassero in maniera molto particolare affinché l’uomo potesse selezionare tali variazioni e fare una coda a ventaglio; e se questo non è ammissibile (so che sarebbe ammissibile da molte persone), allora non posso vedere il disegno nelle variazioni della struttura negli animali allo stato di natura – quelle variazioni che furono utili alla conservazione dell’animale essere preservate e quelle inutili o dannose essere distrutte.51 Devo aggiungere che, a giudicare dal progresso della scienza fisica e chimica, mi aspetto (non che la mia conoscenza mi autorizzi a giudicare) che in un giorno molto lontano verrà mostrato che la vita è una delle numerose forze correlate e che è necessariamente legata ad altre leggi esistenti. Ma anche se fosse mai provato che un essere vivente è apparso così, questa convinzione, come mi sembra, non interferirebbe con quel sentimento istintivo che ci fa rifiutare di ammettere che l’Universo è il risultato del caso.52 Posso tuttavia affermare che l’impossibilità di concepire questo grandioso e meraviglioso universo, compresi noi, esseri coscienti, come fosse emerso per effetto del caso, mi sembra il principale argomento per l’esistenza di Dio; ma se questa sia un’argomentazione di effettivo valore, non sono mai stato in grado di stabilirlo. Sono consapevole che se ammettiamo una causa prima, la mente continuerà a bramare di sapere da dove essa sia venuta e come sia sorta. Né posso trascurare la difficoltà derivante dall’immensa quantità di sofferenza esistente nel mondo.53 Tuttavia hai espresso la mia convinzione interiore, anche se molto più vividamente e chiaramente di quanto io avrei potuto fare, che l’Universo non è il risultato del caso. Ma allora in me sorge sempre l’orribile dubbio, se le convinzioni della mente umana, che si è sviluppata dalla mente degli animali inferiori, siano di qualche valore o del tutto affidabili. Qualcuno si fiderebbe delle convinzioni della mente di una scimmia, se ci fossero delle convinzioni in una tale mente? Non è affatto probabile che tu voglia citare la mia opinione sulla portata teologica del cambiamento delle specie, ma devo chiederti di non farlo, poiché tali opinioni a mio giudizio dovrebbero rimanere proprietà privata di ogni singolo uomo.54 51 Lettera di Charles Darwin a J.F.W. Herschel, 23 maggio 1861 (lettera n. 3154, DCP). 52 Lettera di Charles Darwin a George Warington, 11 ottobre 1867 (lettera n. 5646F, DCP). pIevaNI (ed.), Charles Darwin. Lettere sulla religione, 2013, 94-95 (lettera di Charles Darwin a N.D. Doedes, 2 aprile 1873, lettera n. 8837, DCP). 53 54 Lettera di Charles Darwin a William Graham, 3 luglio 1881 (lettera n. 13230, DCP). 202 IX. ChaRleS daRwIN e la veRITà Le inquietudini degli ultimi anni di vita di Darwin derivano proprio da questo atteggiamento di continuo dubbio e ricerca relativamente alle domande di senso, a quelle particolari domande che sorgono dall’attività stessa di naturalista ma che fanno riferimento ad ambiti metafisici, privati, delicati e scivolosi. La posizione di Darwin nei confronti della fede non è del tutto chiara tra gli storici della scienza.55 In accordo con John van Wyhe, uno dei maggiori studiosi di Darwin al mondo, curatore del progetto Darwin online, data l’insufficienza documentaria e l’ambiguità dei messaggi darwiniani su questo tema che lui vedeva così intimo e “pericoloso” da divulgare al grande pubblico (soprattutto per paura di suscitare critiche, dibattiti e fraintendimenti), non saremo mai in grado di perfezionare completamente la comprensione delle opinioni religiose di Darwin. Questo non vuol dire però che non possiamo avvicinarci ad una conoscenza soddisfacente o avere dei punti chiari e indiscutibili, come ad esempio la presenza di prove che contraddicono la convinzione che Darwin fosse ateo.56 Generalmente gli studiosi sono propensi a definire Darwin un agnostico, anche perché lui stesso si è definito in questo modo, aggiungendo però: «anche se non sempre».57 Quest’ultimo inciso, unito allo studio di altri documenti, come ad esempio tutta la corrispondenza (circa ottanta lettere) tra Darwin e il vicario di Down nonché carissimo amico John Brodie Innes, fanno propendere per l’ipotesi che Darwin oscillasse tra i due estremi opposti di un agnosticismo filosofico58 e un insight a priori del fondamento. Al fine di spiegare la particolarità di tale posizione, leggiamo alcuni estratti di manoscritti, testimonianze e corrispondenza. Tra i documenti di Darwin presso la Cambridge University Library è stato ritrovato un manoscritto di Innes che tratteggia un profilo spirituale della figura del grande naturalista inglese, suo intimo amico. Ne riportiamo di seguito un brano. 55 Cfr. pIevaNI (ed.), Charles Darwin. Lettere sulla religione, 2013. Cfr. J. v. wyhe, Was Charles Darwin an Atheist?, «The Public Domain Review», 28 luglio 2011. 56 57 Lettera di Charles Darwin a J. Fordyce, 7 maggio 1879 (lettera n. 12041, DCP). «Tale posizione dovrebbe sostenere l’onere di confinare tutti i propri giudizi conoscitivi entro un ambito rigorosamente empirico, senza mai interrogarsi sui fondamenti meta-empirici di tale conoscenza, perché, se lo facesse, ciò aprirebbe al riconoscimento della significatività della domanda su tali fondamenti, fino a doversi interrogare sulla loro natura ultima, ovvero sull’Assoluto» (G. TaNzella-NITTI, Teologia della credibilità. La credibilità del cristianesimo, vol. II, Città Nuova, Roma 2015, 540). 58 203 aNNa pellICCIa Poiché mi sono sempre sforzato di essere prima di tutto un ecclesiastico, queste relazioni non avrebbero potuto essere mantenute se il Sig. Darwin fosse stato il non credente e oppositore della religione dichiarato da molti che lo conoscevano, non studiavano le sue opere, e supponevano che fossero sue le deduzioni che altri ne traevano, e i sentimenti che altri credevano che avesse. Prima di conoscere il Sig. Darwin, avevo adottato e pubblicamente espresso l’opinione che la storia naturale, la geologia e le scienze in generale dovrebbero essere studiate senza riferimento alla Bibbia. Che il libro della natura e la religione procedessero dalla stessa Sorgente e che, propriamente inteso, procedessero su linee parallele e non si sarebbero mai incrociate. Sermone di Pusey_ […] Il Sig. Darwin da parte sua aveva le stesse opinioni. Naturalmente qualsiasi conversazione che abbiamo avuto su questioni puramente religiose è “sacramente” privata ora come nella sua vita. […] Non ci siamo mai attaccati a vicenda. […] Non siamo mai stati d’accordo su nessun argomento ma una volta ci siamo guardati attentamente e abbiamo pensato che uno di noi doveva essere molto malato.59 Il secondo brano è una nota del Duca di Argyll su una conversazione avvenuta con Darwin poco prima della sua morte: Non ho mai pensato, e non lo penso ora, che la sua teoria sia in ultima analisi incoerente con il Fine e il Disegno Divino. […] La mia personale impressione è che c’è un gran numero di uomini di scienza nel mondo che sono molto più darwiniani di quanto fosse lo stesso Darwin. Ho visto alcune lettere pubblicate in giornali scientifici, dai quali era abbastanza ovvio che gli autori si rallegravano con Darwin semplicemente perché pensavano che Darwin si fosse liberato di Dio, e che avesse scoperto alcuni processi interamente indipendenti dal Disegno, che avesse eliminato del tutto l’idea di un Creatore personale dell’universo. Succede così che ho come l’impressione di sapere che questa non era l’intenzione nella mente del Sig. Darwin. […] Non potrò mai dimenticare la risposta del Sig. Darwin. Egli mi guardò molto intensamente e disse: “Gia! Questa idea si impossessa di me con una forza travolgente; ma altre volte” aggiunse scuotendo vagamente la testa “sembra sparire”.60 L’ultimo brano è una lettera di Darwin indirizzata a Giovanni Ettore Mengozzi, fondatore de La Scuola Italica di cui Darwin diventerà membro onorario. Scritta in italiano – probabilmente sotto dettatura o tradotta dalla moglie di Darwin, Emma Wedgwood, che conosceva bene molte lingue tra cui l’italiano – questa lettera non è mai stata oggetto, almeno in tempi recenti, di pubblicazione critica 59 R. m. STeCheR, The Darwin-Innes Letters. The Correspondence of an Evolutionist with his Vicar 1848-1884, «Annals of Science. A Quarterly Review of the History of Science and Technology since the Renaissance» 17 (1961), 4, 201-258, 255-256 [traduzione mia]. G. CampBell, dUKe Of aRGyll, What is science? The substance of a lecture delivered in Glasgow, «Good Words» (1885), 243-244 [traduzione mia]. 60 204 IX. ChaRleS daRwIN e la veRITà (se non la trascrizione sul sito del Darwin Correspondence Project). A mio avviso essa è estremamente illuminante nel percorso di avvicinamento alla comprensione della posizione di Darwin sulla fede e sulla verità in generale. Per l’importanza del documento, si trascrive di seguito l’intera lettera. Darwin risponde a Mengozzi che lo interroga su questioni di fede, in particolare sul tema religioso della creazione. Caro signore, Vi ringrazio per le vostre estremamente cortesi lettere. Il tentare una risposta alle questioni che Voi mi avete fatto l’onore d’indirizzarmi (per quanto io le comprenda) sarebbe una lunga impresa, e io sono in debole salute e il lavoro mi affaticherebbe molto. Ma avendo con l’ultima vostra compreso più chiaramente la questione, io volentieri risponderò ad essa come meglio potrò. Io non credo che nessun essere organico dimostra evidenza di disegno. Se Voi vi date la pena di leggere le ultime due pagine della mia Variazione degli Animali e delle Piante sotto la domesticazione, Voi in parte rinverrete le mie ragioni. Ma sebbene nessun organismo può mostrare disegno, ciò in nessun modo esclude la credenza nell’esistenza di un amoroso Creatore di tutte le cose. L’evidenza di un tale Creatore bisogna che sia indagata, come a me sembra, ancora fuori dei limiti della Scienza Fisica. Il problema è uno dei più difficili. Dall’altro lato io so che molti uomini, le cui menti sono incomparabilmente più chiare e profonde della mia (ed io non ho mai atteso abbastanza alle questioni metafisiche e religiose) sono convinti che l’evidenza dell’esistenza di Dio è quasi evidente per se stessa. Mi fo premura accusarvi ricevimento e ringraziarvi per il dono del vostro magnifico volume sulla Filosofia della Medicina. Di più vi prego ad essere così buono da portare alla vostra Società, La Scuola Italica, residente in Roma, i molti miei cordiali ringraziamenti pel grande onore che in si distinta maniera mi conferiscono. Pregovi di accettare i miei migliori ringraziamenti per le vostre molto amabili espressioni inverso di me, mentre io rimango, caro Signore, con molto rispetto, | Professor Mengozzi M. D. | Vostro fedelmente e molto obligato | CaRlO daRwIN.61 I brani sopra riportati mostrano con chiarezza un Darwin indeciso e insoddisfatto, uno scienziato che, come abbiamo già accennato, oscilla tra un agnosticismo filosofico e un insight a priori del fondamento. Con tale espressione si intende esprimere come in Darwin la ricerca naturalistica suscita continuamente in modo intuitivo, spontaneo e istintivo (insight)62 interrogativi metascientifici, metafisici ed esistenziali. Di fronte a tali interrogativi Darwin intuisce probabilmente, e senza possederne le prove (a priori), che la verità dei fatti non è autofondante. Si accorge che gli interrogativi esistenziali emergono perché la verità Lettera di Charles Darwin a G.E. Mengozzi, ottobre 1880 (lettera n. 12778F, DCP). Riportiamo il testo originale italiano (sic) come proposto dal Darwin Correspondence Project. 61 62 Da sottolineare che l’insight darwiniana è un’intuizione, una visione interiore che non arriva mai però a comprensione razionale ma rimane in sospeso nella forma percettiva, intuitiva ed essenzialmente istintiva. 205 aNNa pellICCIa scientifica non è tutta la Verità. Avverte, forse, che la verità è una sola ma si esprime in molti modi, e che lui, uno scienziato, e Innes, un religioso, si avvicinano per il tramite di due strade diverse, «come viandanti che procedono nel complesso affiancati, poiché ritengono che vi sia una verità da trovare o a cui avvicinarsi cumulativamente».63 Darwin, come egli stesso afferma chiaramente nella lettera a Mengozzi, non vede un disegno nella natura, ma un disegno della natura. Egli possiede l’abilità dello “sguardo da lontano” che riesce ad afferrare la realtà nelle sue relazioni e interconnessioni, ad abbracciare l’intero e spiegare ogni singolo fenomeno come parte di un tutto organico. Aver rimosso la presenza di un Dio costantemente attivo nella natura non vuol dire aver rimosso un Dio che è il Fondamento della natura. Così, per riprendere la suggestiva immagine che Darwin pone a conclusione de L’origine delle specie, mentre il pianeta Terra assiste al brulichio della vita, alla variabilità delle forme e degli esseri viventi, alle competizioni per risultare vincenti, alle mutazioni, alla selezione naturale, al di sotto di questa «multiversità della vita»64 egli intuisce, anche solo per un attimo fuggente, la presenza di un fondamento, di un senso, di una impossibilità (primariamente logica e ontologica) che tutta questa meraviglia di mondo possa basarsi sul mero caso. Percepisce che esiste un’unica “medaglia della vita” composta da due facce: l’una rappresentata dalla verità scientifica della scoperta, l’altra dalla scoperta della Verità. I due aspetti, pur nella separazione dei ruoli, interagiscono insieme nella formazione del tutto. Da un lato il fondamento, dall’altro il contenuto, la materia a cui si rivolge il fondamento stesso. Il nostro naturalista intuisce dunque che alla base dello spettacolo cangiante della vita ci potrebbe essere un’essenzialità, l’essenzialità del Vero. Darwin ha speso tutte le sue energie per fondare scientificamente la verità della sua scoperta, fino ad avvertire, in modo geniale, quello che il “cuore” gli esprimeva durante il viaggio, di fronte alla varietà delle forme di vita, la scoperta cioè di una Verità fondante. Non sapremo mai quanto Darwin abbia meditato su questi aspetti; la cosa certa è che andrebbero esaminati molti dei suoi scritti e tanta della sua corrispondenza per comprendere più a fondo non tanto la teoria e lo scienziato, quanto la personalità, l’umanità, le riflessioni esistenziali di un uomo che ci ha «condotto in un mondo diverso».65 63 pOSSeNTI (ed.), La questione della verità. Filosofia, scienze teologia, 7. m. BUIaTTI, La verità in biologia, in pOSSeNTI (ed.), La questione della verità. Filosofia, scienze teologia, 133. 64 65 SImpSON, Evoluzione. Una visione del mondo, 15. 206 X. qUaNdO e COme UNa RICeRCa SCIeNTIfICa dIalOGa CON la veRITà? Il CaSO dell’aRTe RUpeSTRe dI laSCaUX e della GROTTa del ROmITO dalla SCOpeRTa alla dIvUlGazIONe Maria Covino e Eleonora Vitagliano 1. INTROdUzIONe Quando nel 1872 Heinrich Schliemann, archeologo dilettante, scoprì le rovine della città fortificata di Troia, la ricezione dei fatti raccontati nell’Iliade cambiò irreversibilmente, il cambiamento di prospettiva fu radicale. Si passò a guardare avvenimenti ritenuti leggendari come frammenti di Storia. Secondo le sue stesse dichiarazioni, Schliemann era sempre stato convinto che quei versi, che lui leggeva in tedesco, fossero fondati su qualcosa di reale.1 Di più: che solo la forza della realtà li aveva resi così vivi, così comunicativi. E nella storia dell’archeologia si verifica spesso questo passaggio dalla sfera del leggendario fantastico a quella dello storico remoto.2 A un simile passaggio dal falso al vero, dal frammento di verità a una realtà resa sempre più tangibile dalla scienza e dalla tecnica si interessa il presente contributo. I casi da cui partono le riflessioni sono di ambito preistorico: la Grotta di Lascaux e la Grotta del Romito, che testimoniano entrambe il rapporto tra la curiosità dell’uomo comune e il lavoro sistematico dell’uomo di scienza. La premessa è che il reperto archeologico preistorico viene considerato vero in quanto reale, storico e scientificamente analizzabile. Il contributo solleva tante domande sul dialogo tra la ricerca scientifica e il vero, in una dimensione interdisciplinare. I dati storici e tecnici 1 C. w. CeRam, Civiltà sepolte, Einaudi, Torino 1961, 70. Cfr. m. COvINO, “Adattare Troilus and Cressida. Visioni di una guerra catastrofica” in S.m. BaRIllaRI, m. dI feBO (edd.), War! L’esperienza della guerra fra storia, folclore e letteratura, VirtuosaMente, Aicurzio (MB) 2016, 337-353. 2 207 maRIa COvINO e eleONORa vITaGlIaNO sono tratti da una cospicua letteratura scientifica3 e dai portali ufficiali dei due siti archeologici, mentre la riflessione teorica di fondo è portata avanti in dialogo con i testi di Pietro Greco sulla comunicazione della scienza,4 con The Outline of History di Herbert Wells ed il saggio antropologico The Everlasting Man di Gilbert Chesterton. 2. TeSTImONIaNze della pReISTORIa e dISCORSO ORGaNICO SUlle ORIGINI Nel 1992, a La Valletta, il Consiglio d’Europa si esprime sui siti archeologici in un documento intitolato European Convention on the Protection of the Archaeological Heritage. In esso, il lavoro degli Stati membri Tra questi, E. aNaTI, Origini dell’arte e della concettualità, Jaka Book, Milano 1989; J. L. ChampeRReT, The Lascaux Notebooks, Carcanet Classic, Manchester 2022; m. d e SIlva , G. pIzzIOlO, d. l O v eTRO, v. d e TROIa , p. m aCheTTI, e. f. O RTISI, f. m aR TINI , Ritual use of Romito Cave During the Late Upper Palaeolithic: an Integrated Approach for Spatial Reconstruction. Proceedings of the 43rd Annual Conference on Computer Applications and Quantitative Methods in Archaeology, Archaeopress Publishing Ltd, Oxford, 2016; l. e. e dwaRdS, J. pOJeTa , Fossils, Rocks, and Time, U.S. Government Printing Office, Washington, 1993; m. G hINaSSI , a. C. COlONeSe, z. d I G IUSeppe , l. GOvONI, d. lO veTRO, G. m alavaSI, f. maRTINI , S. R ICCIaRdI, B. Sala , The Late Pleistocene clastic deposits in the Romito Cave, southern Italy: A proxy record of environmental changes and human presence, «Journal of Quaternary Science» 24 (2009), 383–398; C. G IRaUdI, I rock glacier tardo-pleistocenici ed oloceni dell’appennino. Età, distribuzione, significato paleoclimatico, «Italian Journal of Quaternary Sciences» 15 (2002), 1, 4552; p.d. h UGheS, d. palaCIOS, J. m. G aRCía -R UIz, N. a NdRéS, The European glacial landscapes from the Last Glacial Maximum – synthesis, in European Glacial Landscapes: Maximum Extent of Glaciations, Elsevier, Amsterdam, 2022, 507-516 ; a. m aIeR, f. lehmKUhl paTRICK , l. m. m elleS, I. SChmIdT, y. ShaO, C. z eedeN, a. z Im meRmaNN , Demographic estimates of hunter–gatherers during the Last Glacial Maximum in Europe against the background of palaeo-environmental data, «Quaternary International» 425 (2016), 49-61; f. m alleGNI, p. f. f aBBRI , The human skeletal remains from the upper Palaeolithic burials found in Romito cave (Papasidero, Cosenza, Italy), «Bulletins et Mémoires de la Société d’Anthropologie de Paris» (1995), 99-137; f. m aRTINI , La cultura visuale del Paleolitico e del Mesolitico in Italia. Temi, linguaggi iconografici, aspetti formali, «Preistoria Alpina» 46 (2012), 17-30; e. a. m CCUlly , The Secret Cave. Discovering Lascaux, Farrar, Straus and Giroux, New York 2010; G. palmeNTOla , p. a CqUafRedda , S. f IORe , A New Correlation of the Glacial Moraines in the Southern Apennines, Italy, «Geomorphology» 3 (1990), 1-8. 3 p. GReCO, La comunicazione nell’era post-accademica della scienza, intervento del 24 aprile 2004, http://win.gregorianum.it/news/Conferenza_Lanziger_2006/Pietro%20 Greco%20-%20La%20comunicazione%20nell%20era%20post-accademica%20 della%20scienza.pdf (ultimo accesso: 15 settembre 2022); Idem, La scienza on line circola come ai tempi di Galileo Galilei, http://www.fub.it/ telema/TELEMA18/Greco18.html (ultimo accesso: 15 settembre 2022). 4 208 X. qUaNdO e COme UNa RICeRCa SCIeNTIfICa dIalOGa CON la veRITà? viene definito interdisciplinare e internazionale per sua natura: tecnici e scienziati dovranno lavorare in modo da fornirsi «un servizio mutuo».5 Il patrimonio archeologico, secondo tale documento, viene visto come «a source of the European collective memory and as an instrument for historical and scientific study»6 da proteggere, ed altresì come «essential to a knowledge of the history of mankind».7 In pieno “entusiasmo archeologico”, quando la pratica dello scavo di antichità andava facendosi via via sempre più metodica e regolamentata, l’allora famosissimo romanziere Wells scrive una sua “Storia del Mondo”, The Outline of History, partendo proprio dalla necessità, nei mesi più crudi della Prima guerra mondiale, di arrivare a «some understanding of human origins».8 Le evidenze scientifiche erano moltissime, sparse in diverse nazioni e analizzate da diverse comunità scientifiche. Mancava solo chi si prendesse il compito di unirle in una narrazione unitaria per tentarne una lettura comparata che gettasse luce sulle origini della società umana. Per far ciò, Wells si avvalse di un metodo interdisciplinare: dalla formazione del pianeta al periodo della Prima guerra mondiale, ciascun capitolo veniva scritto una prima volta, inviato ad un gruppo di esperti del periodo e della branca specifica, e poi riscritto completamente sulla base delle critiche ricevute.9 Il risultato di questo lavoro corale, di cui la responsabilità ricade sull’autore, auctoritas responsabile di tutto il progetto e che mette a sistema i dati raccolti secondo la sua propria visione del mondo, è «a current rendering of the opening vision of reality», resa possibile grazie alle «incalcolabile attività di geologi, paleontologi, embriologi ed ogni sorta di naturalista, psicologo, etnologo, archeologo, filologo e ricercatore di storia degli ultimi cento anni».10 CONSIGlIO d’eUROpa, Art. 12 intitolato “Mutual technical and scientific assistance”, European Convention on the Protection of the Archaeological Heritage (Revised), La Valletta, 6. 5 6 Ibidem, 2. 7 Ibidem, 1. h. G. wellS, The Outline of History. Being a Plain History of Life and Mankind, I, Doubleday & Company, Inc., New York 1971, 3. 8 9 Ibidem, 1-10. Ibidem, 5. Testo originale: «[…] a current rendering of the opening vision of reality that the multitudinous activities of geologists, paleontologists, embryologists and every kind of naturalist, psychologists, ethnologists, archaeologists, philologists and historical investigators, have unveiled during the last hundred years». 10 209 maRIa COvINO e eleONORa vITaGlIaNO In questo lavoro costante durato poco meno di vent’anni, Wells, uno dei padri della fantascienza, si rende conto che la Storia, se contemplata come un tutto organico e complesso, ha del fantastico: il suo metodo di lavoro diventa una contemplazione sistematica, condivisa da esperti di vario ambito, a cui si aggiunge un ultimo passaggio di sintesi narrativa. È la verità dei secoli, frammentaria, che entra in dialogo con l’uomo comune – uomo comune al quale si deve, per sua natura e dignità, che si forniscano dati sufficienti ed analisi per avere egli stesso una propria visione del mondo. In tempi più recenti, l’interesse scientifico suscitato dalla scoperta delle Grotte di Lascaux e del Romito ha ottenuto lo stesso risultato: un gruppo di esperti, internamente eterogeneo rispetto al sapere scientifico-culturale e alle capacità tecniche, offre un servizio al cittadino comune orientato sia alla divulgazione e musealizzazione dei siti, sia alla preservazione nel tempo della materialità dei luoghi e del loro valore storico-antropologico. Nel 1925, a cinque anni dalla prima apparizione della storia planetaria di Wells, il suo collega londinese Gilbert Chesterton gli risponde con The Everlasting Man, un saggio di antropologia culturale che prende le mosse proprio dall’arte rupestre. Nella prefazione, egli afferma di aver stimato Wells per il coraggio di aver raccolto una sfida tanto rischiosa: quella di aver condotto così tanti dati scientifici ad unità per offrirli al lettore comune.11 Qui Chesterton, nell’innestarsi nel dibattito darwiniano su cosa renda l’uomo veramente uomo,12 parte da un aneddoto legato alla scoperta della grotta di Altamira (1875-1876) in Spagna, prima scoperta di arte parietale distribuita su una superficie così lunga, e fonda la sua narrazione universale su un’atmosfera di meraviglia, la stessa che aveva provato Wells contemplando la massa di dati a cui aveva lavorato per anni e anni. Chesterton riporta il resoconto del papà e della bambina che scoprirono la grotta di Altamira per sottolineare la dimensione nella quale avviene ogni scoperta: si tratta della cosiddetta filosofia della meraviglia,13 che nasce dalla scoperta dell’esistenza di generazioni antichissime e che diventa la meraviglia per la personale appartenenza alla G. K. CheSTeRTON, The Everlasting Man, Hodder and Stoughton’s People’s Library, London 1927, 5-6. 11 Cfr. a. pellICCIa, Darwin e la “simpatia” fra l’uomo e gli animali nel 150° anniversario de L’origine dell’uomo, https://disf.org/editoriali/2021-10 (ultimo accesso: 15 settembre 2022). 12 Definizione di m. fazIO, Chesterton: la filosofía del asombro agradecid, «Acta Philosophica» 11 (2004), 1, 121-142. 13 210 X. qUaNdO e COme UNa RICeRCa SCIeNTIfICa dIalOGa CON la veRITà? comunità umana. Ciò che rende l’essere umano umano (punto di discrimine che Wells non riusciva a localizzare così nettamente) è la presenza di un impulso artistico – tanto da fargli affermare, a conclusione della sintesi dei ritrovamenti di arte rupestre: «Art is the signature of man».14 Nei ritrovamenti archeologici ad opera di persone comuni, Chesterton vede sempre quello che definisce «grasp of truth»,15 la presa, la stretta della verità, che diventa conoscenza e poi comprensione della verità, e tale verità è sempre una conferma della propria esistenza: tra scoperta e scopritore intercorre un legame di qualcosa di condiviso. Lo stupore per opere d’arte tanto antiche e fragili diventa stupore per la loro sopravvivenza. Allo stesso tempo, in questo stupore matura sia la consapevolezza dell’appartenenza ad una comune esistenza, sia la responsabilità di comprendere meglio e preservare. Ecco allora che i reperti rupestri da un lato ri-guardano chi li guarda e muovono ad un sentimento di bellezza (senso estetico), dall’altro generano un sentimento di timore, di paura di perderli (senso etico). Ad Altamira, a Lascaux e alla Grotta del Romito, questi due sentimenti spingono subito alla propagazione della notizia del ritrovamento: da una parte la scoperta diventa consapevolezza di un’antichissima attività umana, avviene nella meraviglia e si propaga con un annuncio di qualcosa di grande, dall’altra la scoperta viene trasmessa a chi si ritiene capace di completare, sistematizzare e preservare il sito grazie alla propria competenza (studiosi, archeologi, istituzioni governative d’ambito culturale). Proprio nella fase di studio dei reperti, una operazione che aumenta la consapevolezza della meraviglia è la comparazione con altri ritrovamenti: si analizzano tutte le testimonianze archeologiche coeve e si nota non tanto che nell’insieme ci sono dei buchi di presenza antropica, ma che, come afferma Emmanuel Anati, fondatore del Centro Camuno di Studi Preistorici, nel vuoto di presenza antropica ci sono delle zone di presenza.16 Dunque, la meraviglia scaturisce dall’osservazione della mappa di tali ritrovamenti: la presenza primordiale non è un continuum, ma una frattura nella non-attività umana. È questo che rende ciascun sito archeologico qualcosa di unico e meraviglioso: è un dato di novità 14 CheSTeRTON, The Everlasting Man, 15. 15 Ibidem, 18. Per il ciclo “Parlando di arte rupestre”, seminario Decifrare l’arte preistorica, tenuto dal Centro Camuno di Studi Preistorici, online a motivo della pandemia, 12 aprile 2021, dal min. 70:10 in poi. 16 211 maRIa COvINO e eleONORa vITaGlIaNO che emerge da qualcosa d’altro. Ogni vita, ogni realtà, nel nostro caso ogni sito archeologico, avrebbe potuto non essere, avrebbe potuto essere diverso, oppure avrebbe potuto non essere stato (ancora) scoperto, e invece lo è, e lo è in un determinato modo e in un determinato tempo.17 In tale scoperta, lo stupore aumenta man mano che aumenta la consapevolezza del rischio corso da tali reperti a partire dalla loro genesi e nei secoli, o millenni, della loro esistenza. Ad esempio, il ritrovamento di una conchiglia marina fossile in una parete rocciosa di una montagna appare subito come una discontinuità, perché l’esistenza di un reperto marino in un ambiente montano non si comprende immediatamente, e questo porta con sé sia lo stupore per la scoperta, sia il desiderio di capire come sia possibile la loro co-esistenza. In aggiunta, quanto più c’è conoscenza dei meccanismi di preservazione di quel reperto, tanto più si ha la consapevolezza dell’eccezionalità del ritrovamento. La trasformazione a fossile che subisce un organismo vivente col sopraggiungere della morte dipende non solo dal verificarsi di certe condizioni e di processi chimico-fisici ben precisi, ma dal fatto che quelle condizioni siano ottimali: la preservazione non si verifica solo quando l’organismo viene ricoperto da generici sedimenti, ma quando i sedimenti sono particolarmente fini e quando il seppellimento isola totalmente il reperto dall’ambiente esterno e avviene nel più breve tempo possibile. La normalità è che i resti di un organismo siano aggrediti da batteri, oppure frammentati e dispersi dall’azione dell’acqua e del vento, o distrutti dall’azione meccanica di altri eventi geologici. È l’anomalia rispetto al verificarsi di questi normali processi “distruttivi” a far emergere l’eccezionalità della scoperta e l’ulteriore stupore, perché «la Terra è in continuo cambiamento e nulla sulla sua superficie è veramente permanente».18 Nella dimensione della scoperta consapevole, la presenza antropica testimonia la comune natura umana, cosicché all’approccio progressista secondo cui ciò che viene prima nella linea del tempo è più arretrato e ciò che viene dopo è più “progredito”, Chesterton contrappone una visione perenne della natura umana. Parte dalla riflessione sulla paro17 fazIO, Chesterton: la filosofía del asombro agradecido, 126. l. e. edwaRdS, J. pOJeTa, Fossils, Rocks, and Time, U.S. Government Printing Office, Washington 1993, 353-390. Testo originale: «Earth is constantly changing nothing on its surface is truly permanent. Rocks that are now on top of a mountain may once have been at the bottom of the sea. Thus, to understand the world we live on, we must add the dimension of time. We must study Earth’s history”». 18 212 X. qUaNdO e COme UNa RICeRCa SCIeNTIfICa dIalOGa CON la veRITà? la «caveman»,19 cavernicolo, a cui si collega un’idea di uomo grottesca, quasi di subumano, “meno uomo di un moderno”, e ne rintraccia i tratti che sono comuni ad ogni essere umano vissuto sul pianeta. Da questo approccio di antropologia ontologica deriva anche una diversa visione dei protagonisti delle scoperte archeologiche: ogni attore, dall’uomo comune all’uomo di scienza, può essere portatore di una informazione veritiera e veridica, può afferrare un frammento di verità storica e parlarne come testimone attendibile. 3. SCOpeRTa, RICeRCa SCIeNTIfICa e dIvUlGazIONe 3.1 Cenni storici sulla scoperta e riflessioni Per andare più in profondità nella comprensione dell’arte rupestre, considerando che una sola figura non è analizzabile ma ha bisogno di essere inserita in un contesto,20 abbiamo deciso di mettere a confronto il caso di Lascaux con quello del Romito, mostrando in qual maniera i canali online finalizzati alla divulgazione raccontano la fase del ritrovamento. Il riassunto della narrazione e la descrizione fatta nei portali ufficiali21 sono i seguenti: laSCaUX (Dordogna, Francia). A fine estate 1940, nella Francia di Vichy, Marcel Ravidat, apprendista meccanico di 18 anni, scoprì una cavità nei pressi del maniero di Lascaux, in Dordogna. Il ragazzo vi tornò il 12 settembre con tre amici: Jacques Marsal, Georges Agniel e Simon Coencas. Essi allargarono l’ingresso nel terreno ed entrarono in metri e metri di un cunicolo ramificato, alcuni dei quali decorati con pitture colorate alle pareti che rappresentavano animali. Gli amici volevano mantenere il silenzio sulla scoperta, ma la notizia si diffuse rapidamente: il 18 settembre arrivò in esplorazione Léon Laval, professore di Jacques, ormai in pensione, esperto di archeologia sul campo. Anni prima aveva portato il ragazzino e la sua classe in gita alla Grotta di Font de Gaume: per questo al vedere le pitture, Jacques le aveva subito riconosciuto come preistoriche. 19 Cfr. CheSTeRTON, The Everlasting Man, 23-43. 20 Cfr. e. aNaTI, seminario “Decifrare l’arte preistorica”, dal min. 10:20. Per un riferimento bibliografico, cfr. aNaTI, Origini dell’arte e della concettualità, Jaka Book, Milano 1989. 21 I dati su Lascaux e sulla Grotta del Romito di questa sezione sono stati attinti rispettivamente dal sito del Governo francese https://archeologie.culture.gouv.fr/lascaux/ en/father-andre-glory-1906-1966 e dal sito italiano https://www.grottaromito.com/ it in data 7 settembre 2022. 213 maRIa COvINO e eleONORa vITaGlIaNO Il 21 settembre arrivò in loco l’abate Henri Breuil, massimo esperto francese di arte parietale, al tempo rifugiato nella stessa regione. Nel 1901 era stato uno dei protagonisti della scoperta della Grotta di Font de Gaume. Subito ordinò di iniziare a far disegni e fotografie di tutte le pitture presenti negli ambienti della grotta. A dicembre la grotta fu annoverata tra i Monumenti Storici di Stato, e nel 1979 entrò a far parte del patrimonio UNESCO. Nel 1948 venne aperta al pubblico fino al 1963, quando per motivi di preservazione fu permesso l’accesso soltanto a professionisti del settore. GROTTa del ROmITO (Calabria, Italia). Il sito archeologico del Romito, costituito da un riparo e da una grotta, fu oggetto negli anni ’60 di sistematiche ricerche e di scavi da parte di Paolo Graziosi, paletnologo e antropologo dell’Università di Firenze. All’interno della grotta Graziosi mise in luce un potente deposito archeologico di circa 7 metri di spessore, che documentava una presenza umana nei periodi più recenti del Paleolitico e nel Neolitico. Nel riparo è localizzato il grande masso inciso con l’imponente figura di toro. A partire dall’anno 2000 è stato dato un nuovo impulso alla ricerca con rinnovati scavi che la locale Soprintendenza archeologica ha affidato all’Università di Firenze (sotto la direzione di Fabio Martini), e con ricerche e studi affidati a specialisti italiani e stranieri. In primo luogo, è interessante notare come la scoperta della Grotta di Lascaux si basi sul racconto di alcuni ragazzini: saranno loro, nolenti o volenti, a far venire alla luce i cunicoli e ad allertare gli esperti. Poco dopo uno di loro, allora tredicenne, Simon Coencas, al termine dell’estate della scoperta si trasferì a Parigi, venne deportato nel campo nazista di Drancy, e liberato dalla Croce Rossa dopo un mese e mezzo.22 Nel racconto ufficiale sul portale online, l’intervento degli scopritori non-esperti, non-scientificamente-autorevoli, viene sempre riportato come parte decisiva della storia. Tanto che un giornalista alla sua morte dirà di Coencas che degli scopritori era «l’ultimo sopravvissuto, all’orrore così come alla meraviglia».23 22 Dall’intervista concessa a Peggy Frankston da S. Coencas, il 9 luglio 2014, con audio disponibile al seguente indirizzo: https://collections.ushmm.org/search/catalog/ irn86143 (ultimo accesso: 15/09/2022). Per approfondire la storia del ritrovamento, cfr. e. a. mCCUlly, The Secret Cave. Discovering Lascaux, Farrar, Straus and Giroux, New York 2010. G. S. BaRCellONa, Addio a Simon Coencas, l’ultimo dei ragazzi che scoprirono la grotta di Lascaux, «la Repubblica», 2 febbraio 2020. 23 214 X. qUaNdO e COme UNa RICeRCa SCIeNTIfICa dIalOGa CON la veRITà? Opposto invece è il caso del Romito: la narrazione sul sito ufficiale fa risalire tutto all’intervento di Paolo Graziosi,24 senza menzionare il momento della scoperta, di cui invece parla un’altra fonte.25 In questa narrazione non ufficiale è indicato che la presenza della figura di un toro nel riparo era stata segnalata già nel 1954 da un appassionato di archeologia di un paese limitrofo e che, nella primavera del 1961, la Grotta venne scoperta da due abitanti di Papasidero durante un censimento agrario nella proprietà di Agostino Cersosimo. Interessante è notare dunque come la comunicazione ufficiale ometta la descrizione della vera e propria scoperta, mentre in altri canali di informazione meno autorevoli o meno visibili tale dettaglio è mantenuto. Pur non conoscendo i motivi per cui la narrazione della Grotta del Romito inizia dalla ricerca scientifica e non dalla scoperta, la domanda che sorge è: si può considerare autorevole l’informazione comunicata da una persona comune, in questo caso appassionata di archeologia o di un paese, o può essere considerata veridica esclusivamente la testimonianza di un addetto ai lavori, con un alto livello di formazione in materia? È evidente che i due approcci narrativi, l’uno che ingloba la parte folcloristica, locale, della scoperta, e l’altro che la omette, hanno una diversa concezione della verità storica. Un approccio più inclusivo mette in luce il passaggio dal fantastico ancora non provato, presente nella comunicazione informale, allo storico scientificamente provato; e dà anche rilievo alla figura dell’uomo comune come scopritore veridico e fededegno di un frammento di storia. Un approccio più esclusivista, invece, attribuisce l’autorevolezza della comunicazione del patrimonio archeologico, oltre che dello studio, ad esperti del settore, non per caso chiamati a lavorare sul campo. È importante allora domandarsi: Può una persona comune avere una visione rilevante della realtà? E può comunicarla? In che rapporto questa persona si trova con gli uomini di scienza e con i divulgatori? Pietro Greco fa notare come spesso la comunicazione rilevante della scienza avvenga tra scienziati, sottolineando come ci sia una tendenza a considerare rilevante solo la comunicazione da parte di scienziati. 24 https://www.grottaromito.com/it/la-grotta-del-romito/il-sito/la-grotta-e-il-riparo (ultimo accesso: 15/09/2022). 25 https://www.progettostoriadellarte.it/2020/03/01/la-grotta-del-romito-a-papasidero/ (ultimo accesso: 15/09/2022). 215 maRIa COvINO e eleONORa vITaGlIaNO Invece la storia di questi due ritrovamenti rende palese il fatto che «gli scienziati sono cittadini del mondo».26 In secondo luogo, è importante notare che il ritrovamento della Grotta di Lascaux e quella del Romito invertono i normali percorsi che legano una ricerca ad una scoperta scientifica. Mentre infatti nella stragrande maggioranza dei casi la scoperta (casuale) si verifica a valle di una ricerca scientifica attorno a temi di interesse da cui poi emerge la chiave di comprensione inedita, nel caso di questi due esempi di arte rupestre, la scoperta non è stata compiuta da esperti come frutto-conferma-smentita di un percorso di studio scientifico, ma è avvenuta a monte della ricerca scientifica e ha rappresentato un importantissimo elemento di innesco del suo sviluppo. Lascaux, in questo senso, mostra un numero straordinario di pubblicazioni e coinvolge numerosi rami del sapere: fino al 2019 sono stati pubblicati più di 900 lavori scientifici attorno ad ambiti quali l’antropologia, le scienze del Quaternario, l’archeologia, la biologia, i metodi numerici, le applicazioni dell’ingegneria meccanica e le scienze ambientali. In scala più ridotta, anche il Romito ha visto la fioritura, fino al 2019, di più di 70 lavori scientifici finalizzati alla ricostruzione climatico-ambientale e allo studio delle opere figurative e delle sepolture. Inoltre, in entrambi i casi, le pubblicazioni negli anni seguono picchi e depressioni legate all’avvicendarsi di campagne di ricerca e di soluzioni divulgative (si pensi alla creazione di centri museali). In sintesi potremmo dire che si inverte e si modifica il classico percorso ricerca-scoperta-divulgazione (divulgazione qui intesa in senso stretto, come trasferimento di conoscenza da esperti a non esperti), diventando scoperta-prima trasmissione (da non esperti ad esperti)-ricerca e divulgazione. Per voler andare ancora più a fondo, la narrazione ufficiale di Lascaux sottolinea tutto il processo della conoscenza di un frammento di realtà ritrovato e preso in esame: la chiosa di Pietro Greco a John Ziman,27 secondo cui «non esiste scienza senza comunicazione»28, alla luce del caso di Lascaux risulta veridica in due sensi. Il primo è che la scienza e la tecnica vivono del rapporto con gli scienziati di altre branche e di altre comunità, e le pubblicazioni scientifiche sono il frutto e il nutrimento di tale dialogo; e il secondo è che non ci sarebbe stata neces26 p. GReCO, La comunicazione nell’era post-accademica della scienza. 27 J. zImaN, Il lavoro dello scienziato, Laterza, Bari 1987, 40. 28 GReCO, La comunicazione nell’era post-accademica della scienza. 216 X. qUaNdO e COme UNa RICeRCa SCIeNTIfICa dIalOGa CON la veRITà? sità di alcuna comunità scientifica, se dei comuni cittadini non avessero sentito l’esigenza di comunicare l’esistenza dei siti in cui si erano casualmente imbattuti. Su questo passaggio di informazione, precedente e successivo alla fase scientifica, si fonda lo sforzo professionale delle comunità scientifiche e tecniche. L’apparizione di un frammento di storia si porta sempre dietro una concezione ben definita di cosa e chi sia veritiero, veridico e degno di fede. La scoperta è sempre legata a una visione dell’autorevolezza. In più, la scoperta porta con sé una carica comunicativa connaturale: a Papasidero subito si passa dalla scoperta casuale all’affidamento quasi automatico del sito all’auctoritas tutelante. Si opera la scelta, a livello di narrazione ufficiale, di non istituzionalizzare la comunicazione informale alla base della scoperta.29 A Lascaux è diverso: i primi scopritori ne vogliono fare un segreto, ma è la carica emotiva della scoperta stessa a vincere questo desiderio di “privatizzazione” e a consegnare il sito alla comunità nazionale prima e internazionale subito dopo. Per questo, come fa notare Pietro Greco, nel momento stesso dell’entrata in scena degli uomini di scienza, la scoperta allo stesso tempo diventa in nuce e deve diventare «conoscenza pubblica».30 La storia museale e turistica di Lascaux (come anche della Grotta del Romito), poi, conferma le conseguenze di questo carattere pubblico della scienza. La comunicazione non è un prodotto secondario dell’attività di ricerca, ma un suo carattere determinante. Infatti, le scoperte degli scienziati, teoriche o sperimentali che siano, non sono, e non possono essere considerate, “conoscenza scientifica” finché non sono state riferite e registrate in modo permanente. Pertanto possiamo dire, in modo più formale, che l’istituzione sociale fondamentale della scienza è il sistema di comunicazione, ovvero il sistema attraverso cui i risultati dell’attività di ricerca diventano “conoscenza pubblica”.31 3.2 Dalla scoperta scientifica all’impresa culturale Nell’ambito dei sistemi di comunicazione, di seguito esponiamo una breve descrizione delle opere di preservazione e divulgazione dei siti preistorici, con particolare riferimento all’evoluzione delle realizza29 Cfr. ibidem. p. GReCO, La scienza on line circola come ai tempi di Galileo Galilei, http://www.fub.it/ telema/TELEMA18/Greco18.html (ultimo accesso: 15 settembre 2022). 30 31 Cfr. ibidem. 217 maRIa COvINO e eleONORa vITaGlIaNO zioni museali (per la Grotta di Lascaux) e alla situazione attuale (per la Grotta del Romito). laSCaUX – Negli anni ‘50, su invito di Breuil, entra in scena l’abate André Glory, ricercatore di arte preistorica, a cui viene affidata la supervisione dell’impianto di controllo della temperatura, uno dei fattori critici per la preservazione dei reperti. Entro il 1963 l’abate identifica più di 1500 immagini, riprodotte in una sequenza di circa 120 metri quadri di calchi. Il suo lavoro ha permesso di mettere insieme gli studi relativi alla decorazione e la documentazione relativa all’occupazione della grotta. In contemporanea iniziano i progetti per la realizzazione di strutture museali e d’attrazione per permettere ai comuni visitatori di far esperienza del mondo di Lascaux: del 1983 è Lascaux II, il museo-replica della Sala dei tori e della Galleria assiale, a 200 metri dal sito archeologico originale. Il fac-simile è frutto della scienza, della tecnica e dell’arte messe al servizio dei visitatori, che oggigiorno sono 250.000 all’anno. Lascaux III è una replica itinerante, che viaggia in tutto il mondo dal 2012. Entrambe le imprese culturali sono pensate per mettere in mostra l’intreccio tra antropologia, etnologia ed estetica. Ultima tappa, Lascaux IV apre nel 2016 come Centro Internazionale per l’Arte Parietale: la riproduzione della grotta originale è quasi totale e si basa sull’uso della tecnologia virtuale a scopo d’intrattenimento culturale. L’arte preistorica viene messa in collegamento, attraverso un continuum storico di opere d’arte, con il mondo contemporaneo. GROTTa del ROmITO – A differenza di Lascaux, il sito archeologico del Romito è attualmente accessibile al pubblico, dato il minore rischio di deterioramento. Consta di un ampio spazio esterno protetto da un tetto roccioso, chiamato “riparo”, e di una cavità interna o caverna. La presenza di passerelle e impianti di illuminazione garantiscono l’accesso alla grotta, mentre la disponibilità di audio-guide e materiali didattici rendono possibile la fruizione integrata del sito. A monte del riparo, su una serie di pianori, è riprodotto un tipico villaggio preistorico; a coronamento di questi elementi sorge la casa-museo dove è sintetizzata la storia del sito, sono esposti alcuni reperti e sono mostrate informazioni di varia natura (e.g., geologiche, paleobotaniche, etnologiche) attraverso pannelli descrittivi. Una riproduzione dell’incisione del bovino si conserva al Museo Nazionale di Reggio Calabria, mentre altri reperti sono esposti al Museo e istituto fiorentino di preistoria. 218 X. qUaNdO e COme UNa RICeRCa SCIeNTIfICa dIalOGa CON la veRITà? Vale la pena sottolineare che le due grotte differiscono per le dimensioni e la quantità di reperti scoperti, mentre sono simili per il periodo storico in cui si inserisce la presenza umana, cioè a partire dall’ultimo massimo glaciale.32 In particolare, la grotta di Lascaux è di origine carsica, si struttura principalmente in una serie di corridoi (gallerie, diverticoli) ed ambienti più ampi (sale, navata, abside) su un dislivello di quasi 30 metri e per una lunghezza di circa 250 metri. È decorata con circa 6000 figure raggruppate in animali, figure umane e segni astratti,33 realizzati a partire da 19000 anni fa. La Grotta del Romito si estende per 25-30 metri e lo spessore dei depositi paleolitici da cui provengono i reperti raggiunge i 6 metri. Fra i reperti rinvenuti, di particolare importanza è l’incisione di una imponente figura di uro (Bos primigenius) e nove sepolture. I reperti rinvenuti testimoniano una frequentazione umana della grotta a partire da 24.000 anni fa. Inoltre, le numerose testimonianze di arte parietale rinvenute sia in Francia34 che in Italia35 testimoniano che il periodo climatico di questa fase storica ha reso possibile un intenso sviluppo umano. 4. Il RappORTO del daTO SCIeNTIfICO CON la veRITà aNTROpOlOGICa In questa sessione partiamo da alcune evidenze oggettive per addentrarci nei significati che assumono dati e metodo, e nel rapporto tra verità scientifica e verità sull’uomo. laSCaUX – In uno degli ambienti centrali della grotta di Lascaux, chiamato Navata, sono state rinvenute griglie policrome di nove quadrati al di sotto di una figura bovina. Queste griglie si inseriscono tra raffigurazioni pittoriche di stambecchi, bovini, cavalli e cervi. ROmITO – La sequenza sedimentaria all’interno della grotta del Romito mostra uno strato che Ghinassi ed altri autori36 indicano con p. d. hUGheS, d. palaCIOS, J. m. GaRCía-RUIz, N. aNdRéS, The European glacial landscapes from the Last Glacial Maximum – synthesis, in European Glacial Landscapes, Elsevier, Amsterdam 2022, 507-516. 32 33 J. NeChvaTal, Immersion into noise, Open Humanities Press, Ann Arbor 2011, 74-76. 34 a. maIeR, f. lehmKUhl paTRICK, l. m. melleS, I. SChmIdT, y. ShaO, C. zeedeN, a. zImmeRmaNN, Demographic estimates of hunter–gatherers during the Last Glacial Maximum in Europe against the background of palaeo-environmental data, «Quaternary International» 425 (2016), 49-61. f. maRTINI, La cultura visuale del Paleolitico e del Mesolitico in Italia. Temi, linguaggi iconografici, aspetti formali in «Preistoria Alpina» 46 (2012), 17-30. 35 219 maRIa COvINO e eleONORa vITaGlIaNO la sigla RM2. Alla sommità di questo strato si colloca un livello di detriti ciottolosi, disposti non secondo un ordine naturale ma secondo un assetto riconducibile all’attività umana. Questo livello è chiuso verso l’alto e verso il basso da una alternanza di detriti distaccati da volta e pareti della grotta e sedimenti depositati dall’azione di flussi d’acqua canalizzati. Entrambi questi esempi mostrano un elemento che si discosta dal contesto in cui è inserito: nel caso di Lascaux, si tratta di una immagine astratta e geometrica, collocata all’interno di un insieme di raffigurazioni animali, mentre nel caso del Romito, si tratta di uno strato di origine antropica all’interno di strati di origine naturale. Le due informazioni rappresentano così una discontinuità rispetto alla cornice di riferimento, e per questo motivo attirano l’interesse scientifico. È spesso a partire dalle discontinuità, dagli aspetti che “non tornano”, che gli uomini di scienza cominciano una fase di interpretazione e ricerca di significato che porta a un risultato in una certa misura vero. Questa fase è tanto più vincolata e robusta quanto più è ampia l’integrazione con altri dati, e quanto più è ricca l’esperienza dell’interpretatore. Il raggiungimento di un significato veridico e la scoperta del nesso causale che spiega e chiarisce il legame fra dati oggettivi consegna in realtà all’umanità anche del materiale per ulteriori riflessioni sull’umano (di natura antropologica, etica, ecc.). Il risultato scientifico si può ritenere in una certa misura vero, perché è una comprensione di qualcosa di reale, acquisita a partire da un punto di vista ben preciso e sotto condizioni specifiche. La comprensione raggiunta è modificabile da un sopraggiungere di progresso che può esserci nel tempo: un fatto e la teoria a cui si lega sono compresi e concatenati con veridicità finché non sono smentiti dal sopraggiungere di altri dati o altre argomentazioni. La scienza compie continuamente errori, tuttavia ammette la correzione degli errori, e se dimostra che una certa teoria è errata, il sapere scientifico si corregge. Se una teoria viene smentita (attraverso gli esperimenti e le verifiche), tutta quella parte di una scienza che si basava su di essa deve cambiare. Al contrario, tutte le pseudo-scienze 36 m. GhINaSSI, a. C. COlONeSe, z. dI GIUSeppe, l. GOvONI, d. lO veTRO, G. malaf. maRTINI, S. RICCIaRdI e B. Sala, The Late Pleistocene Clastic Deposits in the Romito Cave, Southern Italy: A Proxy Record of Environmental Changes and Human Presence, «Journal of Quaternary Science» 24 (2009), 4, 383-398. vaSI, 220 X. qUaNdO e COme UNa RICeRCa SCIeNTIfICa dIalOGa CON la veRITà? hanno la caratteristica di rimanere valide e di non cambiare anche se si dimostra sperimentalmente che le basi stesse su cui si fondano sono errate.37 Tornando alle anomalie riscontrate nelle grotte, le griglie della Grotta di Lascaux sono tuttora di difficile interpretazione: per alcuni autori si tratterebbe di prove di colore38 realizzate utilizzando gli stessi colori usati per raffigurare le altre immagini rupestri, per altri sarebbero tentativi primordiali di linguaggio poetico.39 Per quanto riguarda la Grotta del Romito, Ghinassi ed altri autori collegano il livello ciottoloso ad un tentativo di bonifica realizzato dagli abitanti della grotta per ridurre l’azione delle acque dilavanti. L’attribuzione di questo significato deriva dall’analisi congiunta di dati e processi sedimentologici,40 poi integrati con informazioni paleo-climatiche.41 L’ultima nota riguarda la riflessione sull’homo sapiens che abitava le due grotte. Questa riflessione non appartiene strettamente all’ambito scientifico, ma non può essere, rispetto alla scienza, completamente indipendente. L’ulteriore percorso che in questo senso si può enucleare riguarda il passaggio tra verità scientifica e verità antropologica: le griglie policrome quale visione dell’uomo restituiscono? I ciottoli ordinati in che relazione mettono l’uomo con l’ambiente e la realtà che lo circonda? Lasciamo le risposte agli esperti e scienziati della materia. È probabile e auspicabile che ci siano altri rinvenimenti in un futuro prossimo, che permettano di recuperare ulteriori dati e così illuminare altre sfaccettature di verità. 37 J. RUSCIO, Clear Thinking with Psychology: Separating Sense from Nonsense, Wadsworth, Belmont 2001, 54. 38 d. hITChCOCK, Lascaux Cave - Grotte de Lascaux, https://www.donsmaps.com/lascaux. html (ultimo accesso: 20 settembre 2022). 39 J. l. ChampeRReT, The Lascaux Notebooks, Carcanet Classic, Manchester 2022, 67. 40 m. de SIlva, G. pIzzIOlO, d. lO veTRO, v. de TROIa, p. maCheTTI, e. f. ORTISI, f. maRTINI, Ritual Use of Romito Cave During the Late Upper Palaeolithic: An Integrated Approach for Spatial Reconstruction. Proceedings of the 43rd Annual Conference on Computer Applications and Quantitative Methods in Archaeology, Archaeopress Publishing Ltd, Oxford 2016; f. malleGNI, p. f. faBBRI, The Human Skeletal Remains from the Upper Palaeolithic Burials Found in Romito Cave (Papasidero, Cosenza, Italy), «Bulletins et Mémemoires de la Société d’Anthropologie de Paris» (1995), 99-137. 41 G. palmeNTOla, p. aCqUafRedda, S. fIORe, A New Correlation of the Glacial Moraines in the Southern Apennines, Italy, «Geomorphology», 3 (1990), 1-8; C. GIRaUdI, I rock glacier tardo-pleistocenici ed oloceni dell’Appennino; età, distribuzione, significato paleoclimatico, «Italian Journal of Quaternary Sciences» 15 (2002), 1, 45-52. 221 maRIa COvINO e eleONORa vITaGlIaNO CONClUSIONI Questa breve analisi di arte parietale si conclude con due punti fermi: le realtà geografiche e culturali rinvenute precedono scoperta e scopritori. In tutte le fasi del riavvicinamento tra realtà preistorica e presenza umana, il rapporto triadico uomo comune-scienziato-divulgatore non viene mai meno. Non è solo la ricerca scientifica che si riallaccia alla verità storica originaria, ma è anche la missione preservatrice e museale a far incontrare le origini con il visitatore comune. La scienza garantisce che la scoperta divenga conoscenza pubblica in virtù di quella dimensione comunicativa che ne è presupposto e, allo stesso tempo, finalità. La forza attrattiva del dato originario attrae a sé per meraviglia gli esseri umani: questo avvicinamento e frequentazione per alcuni avviene attraverso lo studio analitico dei dati scientifici, per altri come un evento di intrattenimento artistico e culturale, per altri ancora come informazione collaterale al loro vivere. Scienza, tecnica e arte, al loro culmine, restituiscono lo stupore degli scopritori originari a ciascuno dei fruitori contemporanei. Nell’uomo comune prevale la capacità di recepire la bellezza della realtà, che lo interpella e riguarda, perché la realtà è parte della sua storia. L’uomo comune riconosce l’auctoritas a partire dal sentimento di timore che accompagna il sentimento di bellezza: la paura di perdere un bene prezioso muove a cercare un garante che ne riconosca subito il valore e nel contempo che lo protegga. Colpisce che per preservare questa meraviglia, sia in senso materiale che in senso emozionale, tutte le branche del sapere e del saper fare devono essere interpellate unitariamente. Così nell’uomo di scienza prevale il sentimento etico, tanto nel rigore metodologico, cioè nei passaggi necessari, partendo dai dati, per arrivare alla verità scientifica (perfettibile), quanto nell’imperativo insostituibile di comunicare i risultati e le scoperte alla società. 222 XI. BIG daTa: ORIeNTaRSI TRa INfORmazIONe, CORRelazIONI e OpINIONI Michele Crudele 1. INTROdUzIONe Fino a pochi decenni fa il nostro tradizionale percorso per conoscere la verità era vedendo, toccando, gustando, annusando, chiedendo, leggendo, ascoltando, studiando. Utilizzavamo i cinque sensi e avevamo le nostre fonti affidabili: da bambini i genitori, da ragazzi la scuola, da adulti tutto il resto, che dipendeva dal contesto in cui ci muovevamo. Nel XXI secolo c’è stato un cambiamento radicale in questo processo: sono infatti disponibili per tutti, inclusi i più piccoli, moltissime fonti che prima erano irraggiungibili alla maggioranza. Rispetto alla disponibilità di radio e TV del XX secolo, si è aggiunta l’interattività: siamo noi a cercare e non siamo solamente fruitori passivi. Apparentemente siamo più potenti e più liberi, ma l’aspetto positivo di questo scenario è bilanciato dai rischi di bulimia informativa che può portare all’anoressia decisionale1 oppure a scelte sbagliate perché non riusciamo a distinguere il segnale dal rumore di fondo. Tutto ciò che è accessibile via Internet costituisce un insieme di big data. Treccani annovera questa locuzione inglese tra i neologismi definendola come una «immensa quantità di dati tra loro correlati, utilizzati per l’esecuzione di analisi valutative di vario tipo». Abbiamo alcune limitazioni in questo accesso universale perché in rete utilizziamo solamente due sensi, anche per metterci in contatto telematico con altre persone, e siamo condizionati dai risultati delle nostre richieste e dalla peculiare visualizzazione delle informazioni, causati dai motori di ricerca e dagli algoritmi di personalizzazione o profilazione. Tutto ciò spesso porta a non riuscire a cogliere correttamente i nessi tra le informazioni per poter giungere ad affermazioni veritiere, oggettive. M. CRUdele, Bulimia informativa & anoressia decisionale, «Studi Cattolici», novembre 2011: https://crudele.it/papers/bulimia-informativa-anoressia-decisionale.pdf. 1 223 mIChele CRUdele 2. BIg data, BIg errors Nel 2008 su Wired, Chris Anderson, editor in chief della rivista, pubblicò un articolo intitolato The End of Theory: The Data Deluge Makes the Scientific Method Obsolete in cui citava le parole del direttore della ricerca di Google, Peter Norvig: «Tutti i modelli sono sbagliati, e sempre più puoi avere successo senza di loro». La tesi di fondo era che, con l’accesso a grandissime quantità di dati, non era più necessario formulare teorie, basate su causa ed effetto, ma era ormai sufficiente analizzare le frequenze statistiche, le ripetizioni, le associazioni, le correlazioni per predire con certezza un risultato futuro. Sull’onda di queste affermazioni nacque, proprio in quell’anno, il servizio web Google Flu Trends2 per stimare, e quindi predire, la diffusione dell’influenza. Osservando il tipo di ricerche su Google, si pensava di poter capire quanti casi di influenza ci fossero al momento: parole come “febbre”, “aspirina”, “tosse” e altre simili diventavano indicatori dell’epidemia, molto più rapidi di quelli ottenuti dai sistemi sanitari nazionali. A parte le obiezioni sulla privacy, di cui non ci occupiamo in questa sede, il servizio fu accolto positivamente perché le curve di previsione si sovrapponevano quasi perfettamente con i dati raccolti dalle statistiche epidemiologiche, fino al 97%. Nel 2011 però cominciarono i disallineamenti e, negli anni successivi, le previsioni di Google sovrastimarono del doppio il fenomeno. Si tentò allora di cambiare il sistema di analisi, per esempio evitando di raccogliere dati dalle citazioni dei giornali sull’influenza, ma nel 2015 Google cessò di pubblicare nuovi dati, lasciando ad altri il compito di studiare quelli precedenti e concedendo solo alle agenzie sanitarie l’accesso a nuovi dati. Si era cercato di raggiungere il risultato partendo dagli effetti piuttosto che dalle cause. In qualche modo veniva confutata anche la tesi di Norvig, dimostrando che la semplice manipolazione di dati, per quanto numerosi, senza un modello di riferimento non basta per trarre conclusioni veritiere. Procediamo con ordine per orientarci tra dati, informazioni, correlazioni e opinioni, alla ricerca della verità. Infatti, nonostante alcune dichiarazioni teoriche opposte, tutti in realtà cercano la verità, sia in riferimento agli eventi passati (conoscere la storia) che a quelli futuri (cosa accadrà), e questo anche solo per ottenere il maggior beneficio 2 Cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Google_Flu_Trends (visitato il 26 novembre 2022). 224 XI. BIG daTa personale nell’interazione con gli altri e con il mondo. Banalmente, sapere se domani pioverà condiziona la mia scelta di andare al mare o in gita in montagna. 3. daTI e INfORmazIONI Per il Vocabolario Treccani il “dato” è «ciò che è immediatamente presente alla conoscenza, prima di ogni forma di elaborazione», mentre l’informazione è «notizia, dato o elemento che consente di avere conoscenza più o meno esatta di fatti, situazioni, modi di essere». Quindi il dato senza contesto e senza elaborazione non mi dà informazione; ad esempio, 39 °C può essere la temperatura di una torrida giornata estiva oppure la febbre alta di un bambino. Se il dato è errato, l’informazione sarà falsata. Nel mondo attuale dell’informazione giornalistica che richiede una velocità di pubblicazione esasperata non è infrequente imbattersi in errori clamorosi sui dati e quindi sulle loro elaborazioni. Una notissima agenzia di stampa italiana può così scrivere sul web un titolo come «Un italiano su 8 vaccinato a settembre» e, nell’articolo, «L’obiettivo è vaccinare l’80% della popolazione entro settembre» oppure, con una non voluta macabra ironia, annunciare che Maradona «sarebbe morto per una parata cardiorespiratoria», evidente errore di traduzione dallo spagnolo parada che ha sia il significato di “arresto” che quello di “parata calcistica”. Ipotizziamo che il traduttore automatico utilizzato sulla notizia originale abbia correttamente contestualizzato nel calcio la notizia, preferendo l’azione del portiere al blocco del muscolo cardiaco: ebbene, è il redattore a non aver controllato (e ci sono volute diverse ore prima che si accorgessero dell’errore). Anche le scarpe “d’orate” del campione di atletica sono un bell’esempio di refuso che, in tempi passati, non sarebbe stato possibile sui giornali stampati. Qual è la madre di molte delle informazioni attuali, incluse spesso quelle sui giornali? È presto detto: si tratta della Wikipedia, che appare sempre al primo posto delle ricerche in rete, che viene utilizzata per dare la risposta (unica!) a qualche domanda posta ad un assistente vocale, e che alimenta i sistemi di intelligenza artificiale utilizzati dai robot che emulano l’agire umano. Larry Page, cofondatore di Google, nel 2000 affermava: «Artificial intelligence would be the ultimate version of Google. So we have the ultimate search engine that would understand everything on the Web. It would understand exactly what you wanted, 225 mIChele CRUdele and it would give you the right thing»3, cioè avrebbe dato l’unica risposta giusta a qualsiasi domanda. Sappiamo bene che per moltissime domande non esiste la “risposta giusta”, eppure ci stiamo abituando ad averla, dedotta quasi sempre proprio dalla Wikipedia. Stiamo gradualmente cancellando le opinioni? Strana cosa, questa Wikipedia: è intrinsecamente inaffidabile perché gli autori sono perlopiù sconosciuti e non esperti del tema. Eppure regge al confronto con l’Enciclopedia Britannica e la supera perfino in molti ambiti. Wikipedia non dovrebbe essere una fonte primaria, come si afferma nel primo dei “cinque pilastri”:4 dovrebbe proibire contenuti originali, laddove invece ne contiene moltissimi, anche di alta qualità, soprattutto nelle materie tecnico-scientifiche. In Italia le voci più elaborate e frequentemente aggiornate sono quelle relative al calcio, e non esiste al mondo altra fonte più completa e accurata al riguardo. Il modello alla base della Wikipedia è il crowdsourcing, cioè sfruttare la potenza delle folle: ciascuno da solo non può fare molto, ma coordinato con tutti gli altri acquista un potere enorme. La folla non è perfetta, ma gli errori involontari o i tentativi di distruzione da parte di singoli sono una percentuale minima se la folla è enorme, e quindi risultano irrilevanti. La Wikipedia è una forma di big data con un controllo non centralizzato e non rigoroso ma sufficientemente efficace. La domanda è: la Wikipedia risponde a criteri di verità? Tra le sue pagine costitutive è scritto che il caposaldo è la verificabilità, la qual cosa «non significa verità né correttezza: un’informazione verificabile può anche essere falsa, un’informazione non verificabile può anche essere vera. Tuttavia in genere la verificabilità è un buon criterio di verosimiglianza di un’informazione. Per questo stesso motivo, su Wikipedia non sono accettate ricerche originali».5 Questo fenomeno collettivo ha alcune peculiarità. L’analisi delle statistiche globali è molto complessa, ma si sa che la piattaforma è utilizzata da miliardi di persone, di cui solamente una piccolissima percentuale apporta modifiche (interessante notare che tra gli editori registrati «L’intelligenza artificiale dovrebbe essere la versione finale di Google. Avremo il motore di ricerca definitivo che capirà tutto sul Web. Capirà esattamente ciò che vuoi e ti darà la cosa giusta». 3 4 Cfr.https://it.wikipedia.org/wiki/Wikipedia:Cinque_pilastri (visitato il 26 novembre 2022). 5 Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Aiuto:Creazione_guidata_di_una_voce/Rilevanza/Wikipedia:Verificabilità (visitato il 26 novembre 2022). 226 XI. BIG daTa l’87% è composto da uomini). È quindi un caso di big data generato da una comunità ampia ma non eccezionalmente numerosa e non equilibrata. Purtroppo, i redattori quasi mai sono professori di scuola o universitari. In una mia indagine pluriennale in diverse città d’Italia, su 5.000 interrogati al riguardo, tra docenti e studenti, solo una decina aveva modificato o corretto qualche voce della Wikipedia, e solo un paio di loro aveva creato nuove voci. Alla mia domanda sul perché non avessero corretto errori eventualmente trovati o non avessero aggiunto contenuti mancanti, le risposte furono: “non so come fare” (in realtà è un’operazione intuitiva, essendoci il tasto “Modifica”), “non sono sicuro che mi accettino il contributo” (anche in questo caso, se si scrivono cose sensate nessuno le elimina), “non sono competente” (ognuno di noi ha qualche tema in cui è esperto). Tra le lingue della Wikipedia, una storia particolare è quella del cebuano che, curiosamente, risulta al secondo posto dopo l’inglese come numero di voci redatte. Parlata da sole 16 milioni di persone nelle Filippine, è improbabile che sia così popolare da avere oltre 6 milioni di voci. Infatti, quasi tutte le voci in cebuano sono state prodotte da un sistema automatico, il bot Lsjbot, realizzato da uno svedese sposato con una cebuana, che traduce automaticamente voci da altre lingue e ne crea di nuove raccogliendo testi in giro per la rete. Il risultato fu accettabile, e la proposta di chiudere la Wikipedia cebuana perché non “umana” fu bocciata.6 Anche la lingua svedese consta di un numero di voci sproporzionato rispetto alla sua diffusione, e il motivo è lo stesso. Alla luce di tale esperienza, la pratica di utilizzare bot a questo scopo non è più generalmente accettata dalla comunità degli amministratori. Invece esistono, e sono molto utili, bot che controllano i vandalismi (insulti, oscenità, parole assurde e altri danni) o che svolgono attività di normalizzazione e pulizia dei contenuti. Wikipedia ha condotto a un cambio di paradigma rispetto al passato: abbiamo sempre accettato informazioni, prendendole per vere, sulla base del loro autore, a cui dare credito. Prima erano letterati famosi, poi scienziati importanti, poi giornalisti su carta stampata, alla radio e in TV. Con Internet tutto è cambiato e ci siamo fidati della popolarità, cioè del risultato sul motore di ricerca: Google ha il monopolio in Italia e altrove, ormai da molti anni. Anderson, nell’artico6 Cfr. https://meta.wikimedia.org/wiki/Proposals_for_closing_projects/Closure_of_ Cebuano_Wikipedia (visitato il 26 novembre 2022). 227 mIChele CRUdele lo citato nel secondo paragrafo del presente contributo, scrive anche: «La filosofia alla base di Google è che non si sa perché questa pagina è migliore di quell’altra: se le statistiche dei riferimenti ad essa dicono che è così, allora è sufficiente. Non c’è bisogno di analisi semantiche o causali». L’algoritmo che ordina i risultati di Google è segreto: è noto che utilizza oltre 200 variabili. Inizialmente Google pubblicò alcuni dettagli del metodo e il risultato fu catastrofico: chi voleva apparire al primo posto, anche senza averne diritto perché lo faceva per scopi promozionali senza effettivamente rispondere alla parola ricercata, riusciva a farlo perché aveva escogitato trucchi conoscendo il sistema di classificazione automatica. È quindi comprensibile che Google non abbia più raccontato nulla. Sappiamo però che un elemento importante è la popolarità, cioè quanto un sito sia citato da altri quando si parla di un tema utilizzando quella parola o quella frase cercata. Questo comporta che al primo posto della ricerca “gazzetta” non ci sia la più importante Gazzetta Ufficiale ma la più popolare Gazzetta dello Sport. Quanti utenti di Internet sono consapevoli di questa caratteristica fondamentale del motore di ricerca? È certamente un metodo democratico perché si basa sul comportamento della maggioranza ma, si sa, la verità non si fa ad alzata di mano. Figura 1 228 XI. BIG daTa Figura 2 Figura 3 229 mIChele CRUdele Ngram viewer è un servizio ausiliare di Google Books che permette di calcolare la frequenza di qualsiasi parola o frase nei libri digitalizzati. È molto interessante, ad esempio, scoprire che il verbo “velocizzare” è stato inventato dai futuristi all’inizio del ‘900, poi è sparito dall’uso fino all’era di Internet nella quale ha avuto grande successo e si è assicurato un posto stabile in tutti i dizionari italiani, pur essendo un sinonimo (forse superfluo) di “accelerare”. Fino a non molto tempo fa era possibile compiere ricerche solo relativamente ai libri scritti fino al 2008. Ciò era dovuto al fatto che, per i libri più recenti, Google non era ancora riuscito a digitalizzarne un numero sufficiente in tutte le discipline, talché le ricerche avrebbero avuto un bias: per esempio, se avessero digitalizzato solamente libri scientifici, il confronto tra parole tecniche e filosofiche avrebbe fatto prevalere le prime nel calcolo della frequenza generale. Invece oggi, nel 2023, è possibile arrivare fino a libri editi nel 2019 perché, nel frattempo, sono stati aggiunti al corpus digitale svariati testi su tutti gli argomenti. È apprezzabile da parte di Google lo sforzo di essere coerente e imparziale. Nella Figura 1 si vede l’andamento della locuzione “big data” nel corpus inglese, nella Figura 2 quello di “velocizzare” e nella Figura 3 l’interessante evoluzione della parola “Internet” che ormai è alla pari con la sua versione minuscola. Nell’utilizzare questo strumento, c’è chi ha rinvenuto migliaia di parole inglesi mai riportate nei dizionari, oppure ha fatto l’analisi degli scienziati più citati anno per anno dal 1850 al 2000 (spoiler: si conclude con Einstein e Darwin a pari merito, ma il secondo domina durante tutto il periodo).7 Pubblicando correttamente le metodologie utilizzate, e quindi conoscendone il grado di affidabilità, tali analisi risultano interessanti e veritiere ma le conclusioni restano opinabili soprattutto se la domanda è: “chi è il più famoso?”. Interrogativi simili hanno una risposta certa solamente se si definisce con rigore il criterio di valutazione, su una scala misurabile. Il più grande calciatore è quello che ha segnato di più oppure vinto di più, oppure quello che è valutato meglio dagli esperti? I big data ci aiutano ad avere elementi per rispondere a domande ancora più complesse delle semplici statistiche sulle partite di calcio, ma l’affermazione risultante dall’analisi ha quasi sempre una componente di opinabilità. Cfr. Scientific Fame: The Music Video, disponibile su https://youtu.be/GOm5D8DQx5Y (visitato il 26 novembre 2022). 7 230 XI. BIG daTa Con la disponibilità di tanti testi, sia in rete che nei libri digitalizzati, Google ha potuto anche creare un sistema di traduzione automatica per molte lingue senza dover ricorrere a una interlingua artificiale, come si invece è fatto in anni passati. Offrendo all’algoritmo testi nella lingua di partenza e nella lingua di destinazione (per esempio libri o documenti già tradotti), il sistema impara ad associare non solo parole ma frasi intere, riuscendo poi a tradurre nuovi testi in modo più affidabile. Figura 4 Sempre nella logica del crowdsourcing, il navigatore di Google raccoglie statistiche di comportamento degli utenti. Ecco perché Maps propone, come si vede in Figura 4, per il percorso in auto tra Bari e Barletta, un tempo di percorrenza di 32 minuti per 50 km: questo equivale a oltre 90 km/h di media, mentre il limite massimo in quel tratto di strada statale è proprio 90, e ci sono persino alcuni percorsi che impongono una velocità ancora inferiore. Come si spiega? Google conosce i limiti di velocità perché ce li propone il suo navigatore, eppure non li usa perché preferisce la statistica dei guidatori: e siccome praticamente tutti violano i limiti, anche Maps ci invita a farlo. Di chi è la colpa? Ecco quindi che questi big data sono utili ma discutibili. Con dati e informazioni facciamo molto, ma abbiamo bisogno di trovare connessioni tra loro per poter trarre conclusioni maggiormente elaborate o più profonde. 4. CORRelazIONI “Correlazione”, secondo Treccani, è «relazione reciproca, intima corrispondenza tra due termini, tra due (o anche tra più) elementi. Tra 231 mIChele CRUdele due variabili empiriche esiste correlazione quando si constata la tendenza di una di esse a variare con un’approssimazione più o meno grande (con un grado di correlazione più o meno alto) in funzione dell’altra». Per esempio, c’è una forte correlazione tra la visualizzazione di pagine del portale disf.org tra il 2010 e il 2018 e il numero di passeggeri per km volati in aereo tra il 1990 e il 1998: al passare del tempo, aumentano nello stesso modo. È tuttavia ovvio che i due fenomeni non hanno nessuna vera relazione: sono solo matematicamente correlati, ma non c’è causa-effetto né simbiosi o accoppiamento reale. Con l’analisi di grandi moli di dati è facile incorrere in situazioni simili, nelle quali si trova una correlazione quasi perfetta tra fenomeni diversi. La tentazione di dedurre che l’uno sia causa dell’altro è molto forte, e spesso lo si afferma con certezza anche se non si sa assolutamente nulla del meccanismo di influenza dell’uno sull’altro. In ambito medico la correlazione serve a validare nuove terapie, ma purtroppo capita che i metodi di analisi statistica utilizzati oppure i campioni abbiano difetti strutturali che inficiano la bontà del risultato. Tuttavia, anche in presenza di metodi e campionamento statisticamente corretti, non possiamo dedurre con certezza una relazione di causa-effetto se non conosciamo i processi biochimici in gioco: la possiamo solo supporre, in attesa di ulteriori indagini. Divertente è analizzare il grafico dell’OMS sul consumo annuo nazionale medio di sigarette per individuo rispetto all’aspettativa di vita media nazionale: nelle nazioni con maggior consumo di sigarette si vive più a lungo.8 Come è possibile? Non è forse vero che il fumo fa male alla salute? In realtà, è abbastanza facile capire che il rapporto di causa-effetto non è tra la longevità e il fumo, ma è riferito ad altri fattori di salute e benessere tipici dei Paesi più ricchi. Gli algoritmi che determinano graduatorie, basati sui big data, possono incorrere in questo errore: essi suppongono che determinati risultati, comportamenti o caratteristiche del candidato siano positivi per l’obiettivo da raggiungere (una promozione, un trasferimento, una nomina), magari perché l’allenamento fatto su dati precedenti dava quell’impressione. Quasi mai i candidati possono conoscere le motivazioni per l’inclusione o l’esclusione da una graduatoria, e questo perché il criterio di valutazione è una scatola nera, protetta dal diritto d’autore dell’azienda produttrice dell’algoritmo. Si potrebbero narrare tante storie di discriminazioni ingiuste o di errori clamorosi. Tant’è che è in corso un dibattito Cfr. p. RISSO, Impariamo a leggere i dati: come difenderci dalle statistiche?, disponibile su https://disf.org/editoriali/2022-07 (visitato il 26 novembre 2022). 8 232 XI. BIG daTa sulla necessità di pubblicare gli algoritmi realizzati da aziende private per sistemi applicati dalla pubblica amministrazione. Gli algoritmi della pubblicità tendono ad essere invece più efficaci perché si basano su analisi di comportamenti in rete (acquisti, consultazioni, letture, ecc.) che, sui grandi numeri, sono indicatori veri dei desideri degli utenti. Nel 2012 un negozio americano in rete inviava pubblicità di culle e pannolini ad una adolescente. Il papà protestò con i dirigenti accusandoli di incitarla a restare incinta. Poi si rese conto che sua figlia era già in stato interessante a sua insaputa! Il negozio, o meglio il suo algoritmo, l’aveva capito in anticipo a partire dal tipo di richieste di saponi, integratori e fazzoletti, tipici delle donne in gravidanza. È anche vero che, attraverso la conoscenza dei nostri comportamenti, tali algoritmi ci condizionano continuando ad alimentare alcune tendenze, positive o negative, finendo per toglierci una parte di libertà, quella di smettere di utilizzare quel tipo di prodotti. Delle maree conosciamo bene le cause e anche la periodicità, che è la somma di un numero piccolo di componenti: ecco perché con più dati storici abbiamo maggiore precisione nelle previsioni. Non è così con il tempo atmosferico, le cui cause sono talmente complesse che è praticamente inutile un’analisi temporale del passato per prevedere il futuro (che tempo farà domani vedendo com’era l’anno scorso). Paradossalmente è controproducente anche introdurre troppe variabili, sia pure effettivamente in gioco, perché gli algoritmi rischiano di dare più importanza a fattori meno rilevanti, e quindi produrre previsioni fallaci. Le previsioni si operano quindi prendendo alcuni dati della situazione attuale e, variando alcuni parametri iniziali, si fa lavorare il modello informatico più volte. Se le diverse previsioni risultanti coincidono, la probabilità dell’accuratezza della previsione diventa alta. Sappiamo infatti quanto possono cambiare le condizioni atmosferiche anche con una variazione minima di un solo elemento in gioco; se invece questo non accade durante l’elaborazione, siamo in presenza di una situazione relativamente stabile o con un’evoluzione prevedibile. Riducendo l’area di interesse otteniamo risultati migliori, così come non estendendo troppo nel tempo la previsione: insomma, dovrei essere in grado di sapere se andare al mare o in gita in montagna domani. In questo caso i big data giocano il loro ruolo nella quantità di informazioni ottenute da uno sterminato numero di sensori, ma richiedono una selezione previa. Ricordiamoci sempre il principio garbage in, garbage out, cioè se introduco 233 mIChele CRUdele dati spazzatura, ottengo spazzatura. Nell’informatica non ci sono termovalorizzatori che trasformano i rifiuti in energia, per produrre verità partendo da falsità. Con le previsioni del prezzo del petrolio (o di altri beni) che dipendono anche da fattori sociali, umani, liberi o condizionati ma imprevedibili, accade di peggio: tali previsioni sono irrealizzabili anche con i migliori modelli storici o teorici. Il “cigno nero”, l’evento imprevedibile, che esce fuori dalla statistica abituale, è sempre possibile. Ha una sua causa, sì, ma i sistemi automatici di decisione o di previsione non riescono a prevederlo perché si basano su eventi precedenti o su catene di cause più o meno frequenti. Allenare un algoritmo è un’operazione importante e delicata: se gli vogliamo insegnare a distinguere tra un viso umano e quello di una scimmia, non possiamo alimentarlo solamente con immagini di uomini e donne bianchi. Ugualmente, se vogliamo che sia capace di distinguere volti diversi, dobbiamo fornirgli esempi di tutte le etnie e colori della pelle. Non è un lavoro semplice e ci sono diversi casi di errori clamorosi per questo motivo. D’altronde non è molto diverso da quanto accadeva dopo la scoperta dell’America, quando alcuni europei si chiedevano se gli abitanti di quel continente fossero veramente umani: non avendoli mai visti prima nelle loro fattezze e nei loro comportamenti, potevano dubitarne in prima battuta. La tendenza è quindi cercare di avere big data più grandi possibile. L’ideale sarebbe avere i dati selezionati, “ripuliti” e, se possibile, classificati, ma non sempre è possibile soprattutto quando i volumi sono enormi. Recentemente si è arrivati a gestire sistemi di intelligenza artificiale alimentati da quasi 1012 parametri. Non siamo lontani dall’obiettivo dei 1014 o 1015, che dovrebbe essere il numero di sinapsi del cervello umano. C’è chi però cerca di semplificare, riducendo la complessità per migliorare la computabilità: recentemente i ricercatori di Amazon hanno raggiunto livelli interessanti di qualità di risultati in ambito linguistico, migliori di quelli con 10 volte più parametri usandone “solamente” 1010 con l’obiettivo di evitare di dover lavorare con un supercomputer. Nonostante tutte le accortezze, l’analisi automatica può portare a correlazioni fasulle. Un giornalista fu individuato come corriere di Al Qaida sulla base dei suoi spostamenti: in realtà stava cercando di intervistare i capi del gruppo terroristico. L’analisi era corretta, ma l’inferenza, la conclusione, era sbagliata. Un osservatore umano, leggendo i 234 XI. BIG daTa dati, l’avrebbe capito, a quanto dicono gli interessati. Un altro esempio recente, in positivo, è quello dello stagista diciannovenne della NASA che ha scoperto un pianeta di un sistema stellare binario guardando i dati relativi alle sue variazioni di luminosità. Un algoritmo costruito a tale scopo non ci riusciva: in questi casi l’occhio umano allenato e intelligente è più capace di trovare schemi regolari in schemi non periodici come nel caso in oggetto. Fin qui abbiamo parlato della ricerca di risposte a domande che ammettono una e una sola risposta. Abbiamo capito che l’analisi dei big data, per esempio attraverso l’intelligenza artificiale, può darci indizi o probabilità per arrivare alla soluzione. Sta a noi la verifica, nel tentativo di cogliere le catene di causa ed effetto, per migliorare i sistemi di previsione. Ma cosa capita quando siamo di fronte a domande che non ammettono una soluzione univoca? Quando cioè siamo in presenza di problemi opinabili? 5. OpINIONI “Opinione”, secondo Treccani, è «concetto che una o più persone si formano riguardo a particolari fatti, fenomeni, manifestazioni, quando, mancando un criterio di certezza assoluta per giudicare della loro natura (o delle loro cause, delle loro qualità, ecc.), si propone un’interpretazione personale che si ritiene esatta e a cui si dà perciò il proprio assenso, ammettendo tuttavia la possibilità di ingannarsi nel giudicarla tale». A volte chiedo ai partecipanti alle mie lezioni o conferenze: «Credete che 2+2=4?». La risposta quasi unanime è sì, mentre faccio loro notare che non è corretto dire che ci credono, perché lo sanno: non hanno bisogno di credere, cioè avere fiducia in qualcun altro. Ci sono però altre affermazioni alle quali siamo costretti a credere perché esse sono verificabili a seguito di un lavoro più o meno lungo: per esempio, se io dico che 2691959 è un numero primo, gli altri possono crederci subito ma anche andare a verificare successivamente. Invece ci sono affermazioni che non possiamo verificare perché superano le nostre capacità e possibilità, ma alle quali crediamo perché l’interlocutore è attendibile. Infine, ci sono le opinioni, molto più frequenti, di cui non si può affermare la verità semplicemente perché sono opinabili! Un test interessante che conduco da un po’ di anni è chiedere se il seguente testo sia veramente di Charles Darwin: «La distinzione principale nei poteri mentali dei due sessi è costituita dal fatto che l’uomo 235 mIChele CRUdele giunge più avanti della donna, qualunque azione intraprenda, sia che essa richieda un pensiero profondo, o ragione, immaginazione, o semplicemente l’uso delle mani e dei sensi. Se vi fossero due elenchi di uomini e donne che eccelsero […] non ci potrebbe essere confronto. Possiamo anche concludere […] che se gli uomini sono in molte discipline decisamente superiori alle donne, il potere mentale medio dell’uomo è superiore a quello di queste ultime». In forza delle abituali considerazioni positive sulla modernità rivoluzionaria delle opere di Darwin, la maggior parte delle persone risponde no, il testo non è di Darwin, affermando che è fake news. In pratica, dunque, risponde con un’opinione a una domanda che ha una risposta certa. Come verificare? La ricerca su rete potrebbe essere contestata perché le fonti (blog, portali, ecc.) potrebbero “imbrogliare” affermandone l’autenticità, magari perfino rinviando a fasulli riferimenti a libri. Non è inusuale in rete, anche sulla Wikipedia, scoprire affermazioni non veritiere, giustificate da citazioni altrettanto false. È stato stilato un lungo elenco di pagine in lingua inglese che hanno resistito anche anni prima che si scoprisse che non contenevano notizie vere.9 Recentemente una casalinga ha ammesso di avere totalmente inventato la storia medievale della Russia sulla Wikipedia cinese, scrivendo la bellezza di oltre 200 articoli. Per verificare il passo di Darwin potremmo andare in biblioteca e cercare nelle sue opere, partendo dalle citazioni trovate in rete. Questo metodo richiede uno spostamento fisico e una dedicazione di tempo che non tutti hanno. Si rischia quindi di lasciare la questione aperta, con la preferenza di non attribuire la frase a Darwin. In realtà è possibile farlo anche su Internet, utilizzando il già citato servizio di Google Books che ha digitalizzato decine di milioni di libri in molte lingue: ecco dunque che la rapida ricerca del passo incriminato riporta a una pagina del libro stampato L’origine dell’uomo e la selezione sessuale di Charles Darwin. Non è più opinabile il giudizio di attribuzione. Come abbiamo detto, la Wikipedia ha l’obiettivo di essere enciclopedica, ma sempre e solo come fonte secondaria, cioè facendo riferimento ad altre fonti considerate affidabili. Questo non toglie però che i suoi contenuti siano del tutto opinabili in molti casi, perché riportati o sintetizzati da libri o altri documenti che contengono altrettante opinioni. Ecco per9 Cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Wikipedia:List_of_hoaxes_on_Wikipedia (visitato il 26 novembre 2022). 236 XI. BIG daTa ché diventa preoccupante il fatto che i sistemi di ricerca vocale diano un solo risultato, soprattutto se proveniente dalla Wikipedia: qualora non si trattasse di un’informazione certa, come sarebbe opportuno presentarla affinché fosse chiaro che potrebbe non essere la risposta più corretta oppure che non esiste una sola risposta? Google a volte antepone la frase «In base al sito XY…», oppure «Ho trovato N risultati, di cui il primo è…». È possibile considerarlo sufficiente per non essere ingannati? 6. CONClUSIONI È possibile accontentarsi dei risultati di un’elaborazione senza conoscere le cause del processo? Se non c’è un modello alla base, possiamo essere giustamente scettici, per quanti big data siano stati utilizzati e per quanto l’algoritmo abbia prodotto risultati coerenti nei casi passati. Questo non vuol dire scartare a priori i sistemi intelligenti di recente sviluppo e che permettono di automatizzare operazioni prima appannaggio esclusivo degli umani, prima tra tutti la guida autonoma. Dietro un’automobile che procede senza autista c’è un insieme di regole molto complesse ma basate su criteri abbastanza conosciuti e reazioni prevedibili in base alle situazioni possibili. Non sappiamo ancora come gestire i casi limite, come quelli della Moral Machine:10 se l’auto robotica ha davanti due sole opzioni, deve proseguire investendo dei pedoni oppure scartare e sbattere contro un muro ferendo i passeggeri? In questi casi, però, riusciamo a risalire in qualche modo alla sequenza di decisioni e quindi alla catena di cause ed effetti, e possiamo programmare il sistema in base al criterio etico che riteniamo corretto. Dobbiamo temere piuttosto i sistemi nei quali il processo interno è del tutto segreto, sconosciuto o incomprensibile. Se invece abbiamo un modello, sia pure provvisorio o incompleto, è ragionevole tenerlo presente e fidarci dei risultati, soprattutto quando in quasi tutti i casi abbiamo verificato che essi coincidono con la realtà. Un caso abbastanza clamoroso è quello del sistema solare. Tolomeo descrisse un modello che non era, come alcuni ingenuamente pensano, una semplice terra al centro e il sole e i pianeti che girano intorno ad esso seguendo orbite circolari: il modello prevedeva deferenti (o eccentrici), epicicli ed equanti per far tornare i conti. San Tommaso d’Aquino scriveva: 10 Cfr. https://www.moralmachine.net (visitato il 26 novembre 2022). 237 mIChele CRUdele Si può portare un argomento non per dimostrare scientificamente un dato principio, ma soltanto per far vedere come siano legati intimamente al principio, posto [come assioma], gli effetti che ne derivano: così, p. es., in astronomia si ammettono gli eccentrici e gli epicicli perché, accettata questa ipotesi, si può dare ragione delle irregolarità che nel moto dei corpi celesti appaiono ai sensi: tuttavia questo argomento non è apodittico, perché forse [tali irregolarità] potrebbero spiegarsi anche ammettendo un’altra ipotesi.11 Aveva proprio ragione san Tommaso. Neppure nel sistema eliocentrico tornavano i conti con le orbite circolari intorno al sole e quindi Copernico fu costretto ad usare epicicli ed eccentrici per allinearsi al moto effettivo dei pianeti. In alcuni casi la costruzione copernicana e i calcoli connessi erano addirittura più complessi di quelli tolemaici. Chi poteva veramente credere che i pianeti si muovessero in quel modo contorto, con tutti quei “balletti” avanti e dietro? Il fascino della rivoluzione eliocentrica prevalse, per la sua semplicità concettuale, ma il modello ideale non concordava con le misurazioni reali. Con Keplero e la scoperta delle orbite ellittiche e delle sue “leggi” si semplificò tutto, evitando di aggiungere movimenti ausiliari dei pianeti: solo per Mercurio si è dovuta attendere la relatività generale per avere un calcolo preciso dell’orbita. Modelli affidabili, quindi. Ma come comportarci con l’affidabilità di ciò che leggiamo su Internet, dopo tutto quello che abbiamo detto di Google e della Wikipedia? Nel 2008, quando ancora si parlava poco di affidabilità delle informazioni in rete, rielaborai12 alcune proposte di criteri di analisi, riassumendoli in alcuni interrogativi relativi a: Autorevolezza • Sono noti gli autori dei contenuti? • Che reputazione hanno? • A chi sono affiliati? • Che importanza ha chi ha pubblicato il sito? Rilevanza • Quanto è pertinente il contenuto rispetto al tema? • Chi sono i destinatari previsti dagli autori? • È appropriato il livello di approfondimento? • Esistono altre fonti sulla rete sullo stesso tema? 11 TOmmaSO d’aqUINO, Summa Theologiae, I q 32 a 1 ad 2. Cfr. m. CRUdele, Test di valutazione dell’affidabilità di pagine web e siti Internet, disponibile su https://crudele.it/affidabilita (visitato il 26 novembre 2022). 12 238 XI. BIG daTa Accuratezza • Ci sono errori evidenti? • Ci sono prove verificabili delle affermazioni fatte? • Gli autori citano le fonti delle loro affermazioni? • C’è la data di pubblicazione? Oggettività • Gli autori hanno lo scopo di convincere o informare? • Come influenza il contenuto questo scopo? • Il testo contiene opinioni o fatti? • Tentano di far passare per fatti quelle che sono opinioni? L’obiettivo era cercare di esplicitare alcune delle domande che ci poniamo sempre, spesso inconsciamente, quando abbiamo tra le mani un libro. Per i testi stampati, infatti, è quasi sempre possibile rispondere a simili domande perché se ne conoscono gli autori, gli editori, l’anno di stampa e sovente sono correlati da un’introduzione e da un indice che aiutano a inquadrarne il contenuto. Per le pagine in rete, invece, molto spesso è impossibile fornire una risposta perché ne sono sconosciuti gli autori, a volte le date (per quanto incredibile sembri, capita di non riuscire a sapere quando sia avvenuto un evento), e spesso gli intenti. Provando a rispondere alle sedici domande, capiremo meglio il grado di affidabilità che possiamo attribuire alle risorse in rete, comportandoci di conseguenza. Sarà questo un allenamento per una sfida molto più complessa, quella del deep fake, recente minaccia globale. Il deep fake è quando non siamo più in grado di scoprire la falsità di una foto, di un filmato, di una registrazione audio, prodotti con sofisticati strumenti di elaborazione capaci di mettere in bocca a un personaggio una qualsiasi frase, sincronizzando il movimento delle labbra con le parole. Abbiamo bisogno di strumenti di analisi più sofisticati, e forse sarebbe anche necessario inaugurare un metodo di certificazione universale per garantire l’autenticità delle fonti. Michael Polanyi sosteneva che nessuna conoscenza può essere interamente esplicita: c’è sempre un aspetto sussidiario o implicito di un problema perché il percorso conoscitivo si sviluppa attraverso l’interpretazione personale di una serie di indizi che orientano verso una consapevolezza che da implicita o tacita si fa esplicita. Questa interpretazione e consapevolezza si potrebbe chiamare senso critico, giudizio d’insieme, visione sintetica, phronesis aristotelica (saggia prudenza), che cresce con 239 mIChele CRUdele le conoscenze, la cultura e l’esperienza. Non è facile formare le nuove generazioni a questo atteggiamento, ma è opportuno provarci nelle complesse situazioni moderne. Concludo con alcune parole scritte nel 1953 ma che sembrano recentissime e si applicano perfettamente alla diffusione di Internet: «Le opere dei classici ridotte così da poter essere contenute in quindici minuti di programma radiofonico, poi riassunte ancora in modo da stare in una colonna a stampa, con un tempo di lettura non superiore ai due minuti. […] Nessuna meraviglia che i libri non si vendessero più, dicevano i critici. [...] Non è stato il Governo a decidere; non ci sono stati in origine editti, manifesti, censure, no! ma la tecnologia».13 Mi sembra che queste frasi profetiche di Bradbury ci mettano in guardia dal subire passivamente l’evoluzione dei sistemi di comunicazione e di gestione senza farci la domanda fondamentale: è un bene per tutti noi? Per i genitori è una grande responsabilità, e spesso non è facile definire gli ambiti di utilizzo della tecnologia per i loro figli: quello che non devono fare è abdicare al loro ruolo di educatori e lasciare che le situazioni si sviluppino senza controllo o, peggio ancora, senza percezione delle conseguenze. Non è un segreto che le grandi aziende informatiche stanno interessandosi sempre più ai temi etici. Forse lo fanno solo per motivi opportunistici, per difendersi da accuse di responsabilità quando c’è di mezzo un possibile danno verso persone o cose. Oppure hanno il buon senso di rendersi conto che il progresso non è neutrale e che le sue conseguenze ricadono sull’intera umanità: vale la pena di pensare a chi verrà dopo di noi. 13 R. BRadBURy, Fahrenheit 451, Mondadori, Milano 1989, 65-69. 240 aUTORI deI CONTRIBUTI GIOvaNNI ameNdOla Ricercatore presso il Dipartimento di Matematica e Informatica dell’Università della Calabria e docente incaricato di Teologia Fondamentale presso l’Istituto Teologico Calabro. GIaCOmO maRIa aRRIGO Assegnista di ricerca presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. IvaN COlaGè Professore incaricato di Filosofia della Conoscenza presso la Pontificia Università della Santa Croce, Roma. Vice-Direttore del Centro DISF. maRIa COvINO Dottore di ricerca in Scienze del Testo. È stata assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre. mIChele CRUdele Direttore del Collegio Universitario di Merito IPE Poggiolevante, Bari. Vicedirettore della SISRI, Scuola Internazionale Superiore per la Ricerca Interdisciplinare. Consigliere di amministrazione della Fondazione Giovanni Paolo II, Bari. aleSSaNdRO GIUlIaNI Dirigente di Ricerca presso l’Istituto Superiore di Sanità, Roma. dOmINIqUe lamBeRT Professore ordinario di Filosofia della Scienza presso l’Università di Namur, Belgio. 241 aNNa pellICCIa Dottore di ricerca in Scienza del libro e della scrittura, dottoranda in Filosofia presso la Pontificia Università della Santa Croce e ricercatrice presso il Centro DISF. fRaNCeSCO SaNTONI Ricercatore presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Perugia. ClaUdIO TaGlIapIeTRa Ricercatore di Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università della Santa Croce e membro della direzione del Centro DISF. GIUSeppe TaNzella-NITTI Professore ordinario di Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università della Santa Croce e Adjunct Scholar della Specola Vaticana. Direttore del Centro DISF. eleONORa vITaGlIaNO Ricercatrice presso l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Roma. 242