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Archeologia Medievale XXXVII, 2010, pp. 513-527 Michele Nucciotti Paesaggi dell’Impero nella Toscana del X secolo. Il palatium di Arcidosso: senso storico di un tipo edilizio europeo trattazione sarà per questo motivo centrale e tendenzialmente esaustiva in questa sede. INTRODUZIONE I paesaggi della Marca Un punto di vista euro-mediterraneo Questo articolo si propone di documentare archeologicamente le strategie di manifestazione del potere che la Marca di Tuscia, tra la seconda metà del X secolo e i primi decenni del successivo, promosse nelle campagne, attraverso un uso consapevole e puntuale dell’architettura. L’Amiata, che per tutto il Medioevo rappresentò uno dei territori rurali toscani maggiormente dotati di forte fisionomia politica1 fu anche uno dei luoghi elettivi della realizzazione di questo paesaggio marchionale. Le vicissitudini del governo di Ottone I e la comparsa del marchese Ugo di Toscana condussero, infatti, quest’ultimo ad assumere un controllo de facto dell’area Amiatina, nel periodo di riferimento (Nucciotti 2006. pp. 165168). In seguito a ciò, lo stesso Ugo e il suo successore Ranieri, sia agendo in prima persona, sia influenzando con i riferimenti ideologici imperiali (Le Goff 2008) enti strutturati nel sistema di governo della Marca, realizzarono sulla montagna una sorta di programma architettonico attorno a due edifici significativi: il palatium di Arcidosso e la ‘nuova’ chiesa abbaziale di San Salvatore. Quest’ultima è da oltre un secolo nota alla storia dell’architettura (Thummler 1988, Giubbolini 1988, Moretti 1990) e da qualche decennio anche alla letteratura archeologica (Dallai 2003, Nucciotti 2008, pp. 172-184, Gabbrielli 2008), mentre il palatium2 di Arcidosso costituisce una recente acquisizione dovuta allo studio stratigrafico degli edifici amiatini3. La sua Evidenziando la formazione e i componenti di uno dei prototipi del paesaggio marchionale di Toscana si è sentita la necessità di allargare il raggio dei possibili confronti tipologici per il palatium al Continente e all’Oriente latino, dati i punti di contatto tra l’edificio amiatino e il donjon franco-normanno (Bandmann 1951, Pringle 1986, Marshall 2002, Fernie 2002). Prendendo in considerazione gli edifici associabili morfologicamente con il palatium di Arcidosso, la loro cronologia e i rispettivi ‘proprietari’ (bauherren) si è ipotizzato un archetipo carolingio comune per entrambi i tipi (donjon e palatium di Arcidosso) che, per il resto, mantengono vicende indipendenti in Francia-Normandia e nell’Impero, fino al XII secolo. Donjon e palatium (di Arcidosso), secondo questa ipotesi, replicherebbero, anche simbolicamente, le salae o aulae soprelevate carolinge. I due tipi acquisiscono, tuttavia, funzioni simboliche diverse che ne giustificano modalità, tempi e luoghi di affermazione per larga parte indipendenti (v. infra) (fig. 1). IL PALATIUM DI ARCIDOSSO4 L’edificio L’edificio più antico tra quelli che compongono il complesso architettonico della rocca di Arcidosso è una costruzione di forma grossomodo cubica (Cf 1), con pianta quadrata e uno sviluppo maggiore in orizzontale che in elevato. Esso non presenta attualmente alcun prospetto esterno completamente visibile, per l’appoggio in epoca successiva di altri corpi di fabbrica o strutture fortificatorie. La costruzione misura alla base circa 1 Come sede dell’abbazia imperiale di San Salvatore al Monte Amiata dall’VIII secolo (Kurze 2004) e poi, progressivamente dall’XI secolo, come sede signorile e comitale degli Aldobrandeschi (Collavini 1998), con la maggiore concentrazione insediativa di tutta la contea (Ginatempo 1988, pp. 165 e ss.). 2 L’uso del termine “palatium” per l’edificio di Arcidosso non si basa sulla documentazione coeva, di cui non disponiamo, ma sulla supposta funzione di luogo di esercizio della giurisdizione, associabile con la struttura (v. infra per la discussione dei contatti tipologici tra il palatium di Arcidosso e i palatia di epoca carolingia e ottoniana). 3 Il palatium di Arcidosso è stato individuato a studiato archeologicamente nell’ambito del progetto scientifico dell’ateneo fiorentino: “Produzione edilizia e gestione del potere nell’Amiata medievale”, da me diretto con la supervisione scientifica di Guido Vannini e congiuntamente promosso sulla base di un protocollo ratificato tra il Comune di Arcidosso e l’Università di Firenze, con il contributo di Far Maremma scrl. Al progetto sono state dedicate 10 campagne di indagine sul campo, due tesi di dottorato (2005, 2008), una tesi di specializzazione (2010), due tesi di laurea (2000, 2005) e tre tesi di nuovo ordinamento (2007, 2009). Il progetto amiatino fa parte del “Progetto strategico di Ateneo, La società feudale mediterranea: profili archeologici” diretto da Guido Vannini (si ringraziano per i confronti con i contesti comitali guidinghi: per Modigliana Chiara Molducci, per il Casentino Riccardo Bargiacchi, per Montaccianico e il Mugello Elisa Pruno e Chiara Marcotulli, per Calenzano Laura Torsellini) e nel suo ambito è stato elaborato l’Atlante dell’Edilizia Medievale (Nucciotti 2009) all’interno del quale sono stati condotti confronti con contesti edilizi medievali della Toscana meridionale: per l’Amiata grossetano a cura di Marianna De Falco, per le Colline del Fiora a cura di di Francesca Cheli. I confronti con l’area Montalbano/Pistoia, nel quadro dei progetti di ricerca promossi della Cattedra di Archeologia Medievale fiorentina sono dovuti a Silvia Leporatti (Pistoia) e a Lapo Somigli (Montalbano). I confronti con le architetture di area mediterranea indagate dalla Missione Archeologica dell’Università di Firenze “Petra ‘medievale’, archeologia degli insediamenti di epoca crociato-ayyubide in Transgiordania” sono dovuti a Guido Vannini. 4 La descrizione del palazzo proposta è una sintesi aggiornata dell’analisi di dettaglio in Nucciotti 2008, pp. 97-156. 513 NOTE E DISCUSSIONI fig. 1 – Carta dei siti citati nel testo. 12×12 m per una elevazione originaria, stimabile dal prospetto sud-est, di poco superiore ai 9 m. Le mura portanti presentano una sezione ampia, variabile tra 155 e 180 cm. L’interno risulta attualmente suddiviso rispettivamente in 2 ambienti al piano terreno e in 3 ambienti al piano alzato, ma si tratta di un’organizzazione spaziale successiva all’impianto. La superficie utile è di circa 77 m² per ogni livello, per un totale di 154 m² di superficie abitabile sui due piani. Gli interventi di restauro e rifunzionalizzazione databili all’età moderna (Nanni 1999, pp. 204 ss.) hanno condotto alla sostituzione del solaio ligneo tra piano terra e primo piano con una copertura a doppia volta a botte in muratura, che rende pressoché impossibile comprendere le modalità dell’eventuale collegamento interno tra i due livelli all’epoca del primo impianto. L’edificio non presenta sui prospetti a vista alcuna traccia di decorazione architettonica e la superficie muraria appare scandita dalle sole aperture, tutte tranne una osservabili solamente sui prospetti interni. Al piano terreno si aprivano 3+1 monofore (usm 1120, 1229, 1336+1017), attualmente tamponate, una al centro di ogni lato. Dalla strombatura si doveva trattare di tre feritoie più, forse, un portalino, sul prospetto nord-ovest. In corrispondenza dell’attuale accesso al locale sono visibili dall’interno i due conci d’arco e un concio di imposta pertinenti alla quarta apertura in fase con la muratura (usm 1017). L’ipotesi che si tratti di una piccola porta, invece che di una quarta feritoia, poggia sul posizionamento della ghiera d’arco, stimato sulla base dei conci superstiti, che si verrebbe a trovare circa 40 cm più in basso delle ghiere delle due monofore ‘complete’ (usm 1120 e 1229). La presenza di un portalino al piano terreno è comunque conciliabile, quantomeno prima del XII secolo, con le necessità di un edificio fortificato. Le dimensioni massime ipotizzabili per tale apertura, ca. 50×195 cm, avrebbero, infatti, consentito l’accesso, e con qualche difficoltà, a una sola persona alla volta. Il portalino garantiva inoltre una più efficiente articolazione della mobilità interno/esterno, svincolandola dalla sola entrata principale, collocata al piano superiore. Va inoltre considerato che anche il principale confronto italiano per il tipo edilizio del palazzo di Arcidosso, ovvero il “palatium castri” di Genova (Cagnana 1997, pp. 82-92), presenta aperture al piano terreno, così come il palazzo asturiano di Santa Maria di Naranco, un altro importante antecedente di IX secolo del tipo edilizio (Early 2002, p. 253). Sullo stesso prospetto, a sinistra del portalino dall’interno, si trova una nicchia delimitata da un’archeggiatura irregolare ad andamento triangolare (usm 1007) che, considerando il primo livello d’uso coincidente con il limite superiore delle fondazioni, si doveva trovare a livello del piano di calpestio, nell’ipotetico assetto originario. La nicchia dà accesso a una breve canalizzazione ‘inginocchiata’, con un andamento longitudinale ‘a zeta schiacciata’, a sezione rettangolare. Impossibile al momento dire se la sua funzione fosse l’evacuazione di reflui per mantenere asciutto il piano terreno, oppure se si trattasse del terminale di un sistema di captazione per un invaso, dato che la cisterna bassomedievale del castello sarà realizzata quasi in linea con il foro di uscita della canalizzazione. Al piano superiore monofore-feritoie si aprivano al centro del prospetto nord-est (usm 707, 731, 732) e probabilmente dei prospetti sud-ovest e nord-ovest, sebbene in questo caso gli interventi successivi non permettano un accertamento stratigrafico. Il prospetto sud-est, invece, presenta al centro della parete una grande apertura ad arco ribassato (usm 602, 609) con una luce interna di 142×256 cm (l’altezza originale è stata modificata nel 514 NOTE E DISCUSSIONI fig. 2 – Arcidosso (Gr). Le murature del palatium sono visibili, all’esterno, al primo piano della Rocca aldobrandesca (a sinistra). Si noti la discreta leggibilità del portale soprelevato, oggi la finestra centrale del primo piano, che originariamente era affiancato da due monofore (al centro – rielaborazione da Nanni 1999). A destra la facciata a due torri dell’abbazia di San Salvatore al Monte Amiata (Abbadia San Salvatore – Si). XIX secolo per l’inserimento di una nuova finestra) e una esterna di 111×235 cm (usm 458), priva di mazzette interne nei montanti. A sinistra della grande apertura (osservandola dall’interno), a una distanza di circa 230 cm si apriva una feritoia simile alle altre dello stesso piano e del piano inferiore, di cui si conserva attualmente solo l’attacco dell’archeggiatura e un lacerto dello stipite destro (usm 608 e 606), e sembra possibile, per la simmetria osservabile nella disposizione delle aperture dell’edificio, che una seconda feritoia potesse trovarsi anche sulla destra della grande apertura centrale, dove la muratura è stata asportata per l’inserimento o la sostituzione di una finestra (usm 459). L’accesso principale all’edificio avveniva quindi dal piano alzato, probabilmente attraverso un ballatoio ligneo servito da una scala che permetteva di salire dall’esterno del piano terreno (fig. 2). più consistente sono invece generalmente meglio orizzontate, sebbene anche in quel caso il paramento presenti occasionali sovrapposizioni dei conci lungo direttrici non orizzontali o talvolta arcuate. Nello spiccato in peperino l’evidenza di azioni di livellamento è piuttosto limitata, anche se significativa, con orizzontamenti meno curati nei prospetti 8 e 9 e più regolari nel 7 e nel 10. Il primo orizzontamento di qualche rilevanza è relativo alla messa in opera delle due monofore sui prospetti pp8 e pp9. Anche in questo caso però, secondo un uso che sarà tipico in tutto il processo di edificazione, non viene creato un vero e proprio piano di livello (tranne v. infra Or35) a cui si adeguano tutti i ‘blocchi costruttivi’6. La linea di livellamento coincide cioè solo occasionalmente con il limite delle unità stratigrafiche, quasi a seguire un procedimento di ‘minimo sforzo’ che organizza, volta per volta, il lavoro, armonizzando secondo gli orizzontamenti soltanto i blocchi costruttivi immediatamente interessati dalle operazioni non di routine, generalmente quelli più vicini ai punti di inserimento delle aperture. Il prospetto 7 invece presenta una scansione di orizzontamenti più regolari e autonomi, alle quote inferiori. La serie di tre livellamenti (collettivamente Or2) relativa al prospetto è un ulteriore indizio a favore della presenza del portalino. La tendenza a organizzare il cantiere in funzione degli elementi architettonici da inserire nella muratura, già individuata in relazione alla posa delle due monofore, potrebbe infatti essere la chiave per comprendere la costruzione in questo punto. La totale indipendenza della sequenza costruttiva del pp7 rispetto Il cantiere L’analisi stratigrafica adottata nello studio del palatium è stata indirizzata all’individuazione di elementi microstratigrafici che potessero permettere una comprensione delle principali dinamiche del cantiere edilizio, a questo scopo sono stati raccolti dati indicativi del modus operandi dei costruttori nelle varie fasi del lavoro. In particolare sono emerse informazioni relative ai procedimenti di orizzontamento, alle modalità di avanzamento del cantiere e alle infrastrutture di impalcatura della fabbrica medievale. Per quanto riguarda il primo punto, ovvero i procedimenti di orizzontamento, gli esecutori non sembrano aver tenuto costantemente sotto controllo tale aspetto. La mancanza di orizzontamenti è un carattere comune a tutte le murature in arenaria della fondazione e in misura minore anche di quelle del completamento, al limite superiore dell’edificio. Le murature della fase costruttiva 5 Gli orizzontamenti individuati verranno indicati con il prefisso “Or” seguito dal numero identificativo dell’orizzontamento discusso. 6 Sono state denominate “blocchi costruttivi” le unità stratigrafiche di cantiere. 515 NOTE E DISCUSSIONI fig. 3 – Analisi stratigrafica del palatium di Arcidosso. Sezioni interne e orizzontamenti principali (a destra). alle altre pareti indica inoltre che le due angolate relative (est e sud) fossero già state realizzate fino a una certa quota prima dell’innalzamento del prospetto. Un procedimento già osservato nell’edilizia della piena età ‘romanica’ (es. il caso di Monsummano Alto in Nucciotti, Vannini 2003). Il terzo orizzontamento del piano terra, l’ultimo visibile al di sotto delle volte di copertura, differisce dai precedenti in quanto viene grossomodo rispettato su tutti i prospetti. Ancora una volta la sua posizione coincide con una delle tappe di realizzazione delle aperture, in questo caso il piano di posa degli archi, dei prospetti 7, 8 e 9. Or3 segna infatti il limite superiore di 9 usm distribuite nei prospetti interni e di 3 nell’unico prospetto esterno visibile a questo livello. È possibile che un limite così regolare venisse raggiunto in una particolare fase di avanzamento del cantiere, forse in vista di una interruzione temporanea del lavoro. A questo livello, infatti, l’edificio era ormai delineato nei suoi volumi e, per quanto riguarda il primo piano, anche planimetricamente. Presentava un accesso e quattro finestre praticamente realizzate e poteva verosimilmente essere coperto (e parzialmente utilizzato?) durante la cattiva stagione, in cui il cantiere doveva sicuramente interrompere il proprio lavoro7. Tralasciando i dettagli di altri orizzontamenti, che mostrano dinamiche simili a quelle osservate nel piano terreno, l’ultimo orizzontamento rilevante è Or10, posto alla quota dell’estradosso della porta monumentale superiore, e che viene generalmente rispettato su tutti i prospetti interni ed esterni. A cavallo tra gli orizzontamenti 9 e 10 avviene la transizione dal tipo murario 1A al tipo 1B (v. infra), in continuità delle operazioni di cantiere. La sostituzione di un tipo di apparecchiatura con l’altro (in realtà entrambi varianti dello stesso tipo), che a partire dall’orizzontamento 10 si generalizza su tutti i prospetti visibili, si avvia già sul prospetto 2/13, dove le nuove maestranze sembrano per un periodo lavorare contemporaneamente alle precedenti. Un avvicendamento graduale, attraverso un periodo di affiancamento e collaborazione delle due équipes. Tra gli orizzontamenti 9 e 10 compare, infatti, per la prima volta il nuovo modo di costruire recentemente introdotto, sebbene in questa fase l’organizzazione del cantiere resti quella impostata precedentemente. In un secondo momento infine le nuove maestranze affermano non più solamente un diverso tipo murario ma anche una diversa organizzazione del lavoro, con l’abbandono dell’esecuzione differenziata di angolate e paramenti e la scomparsa dei “blocchi costruttivi”, sostituiti da corsi continui che corrono lungo tutto il perimetro visibile dell’edificio. Per quanto riguarda le strutture temporanee del cantiere, lo studio ha fornito alcuni indizi sul ponteggio del 7 Le malte a base di calce non possono, infatti, essere utilizzate a temperature inferiori ai 5°, una soglia inconciliabile con il clima invernale di Arcidosso, posto a circa 650 m slm e prossimo alla vetta dell’Amiata (1738 m slm). 516 NOTE E DISCUSSIONI poligonali tendenti frequentemente al rettangolare/quadrato. Gli elementi sono disposti su corsi sub orizzontali (raramente non paralleli) e di norma per orizzontale con rari elementi in verticale. Le angolate sono gerarchizzate con materiale dalla forma più regolare e sommariamente squadrato (soprattutto al piano alzato esterno). Giunti e letti sono cospicui e abbastanza regolari, mancano come già illustrato corsi di orizzontamento in muratura e il paramento presenta una complessa serie di piani di livellamento. La presenza di giunti di attesa quasi esclusivamente verticali (da 3 a 6 corsi) potrebbe indicare che nella messa in opera di alcuni blocchi costruttivi siano state impiegate armature lignee laterali per contenere il sacco nel periodo di indurimento iniziale. Estensivo appare infine l’uso di regolarizzare la superficie dei blocchi con una punta piuttosto grossolana, usata in modalità corrente, i cui segni sono variamente orientati ma tendono generalmente ad essere paralleli al lato verticale del concio o comunque mai allineati con le diagonali dello stesso. Le tracce dello strumento presentano un diametro di 4-5 mm e una profondità di 7 mm. I tratti sono lunghi tendenzialmente 10 cm e distanziati 2-3 cm l’uno dall’altro10. È molto probabile che i costruttori fossero direttamente (come gruppo o in prima persona) impegnati nei lavori sia di cava sia di sbozzatura11, come sembra indicare la modalità di avvicendamento tra le maestranze del tipo 1A e quelle del tipo 1B. A lavori non ultimati si assiste, infatti, all’introduzione di innovazioni sia nella tecnica muraria, sia nella morfologia degli elementi impiegati. Il tipo 1B, sebbene analogo all’1A per l’impiego di pietrame sbozzato e finito a punta, si distingue da esso sia per la posa in opera, sia per la forma dei blocchi utilizzati. La muratura di tipo 1B presenta, infatti, corsi ondulati, senza sdoppiamenti, di elementi sbozzati di peperino dalle forme e dimensioni molto variabili. A differenza del tipo 1A abbondano in 1B i blocchi sub-quadrati e quelli disposti in verticale (circa il 35%), entrambi con dimensioni mediamente superiori in altezza a quelle di 1A (fino a 44-50 cm); viene inoltre abbandonato il sistema di muratura per blocchi costruttivi che aveva caratterizzato fino alla quota di Vor10 la fabbrica del palatium. L’arrivo di altri magistri coincide cioè con l’affermarsi di un nuovo modo di murare e lavorare il materiale da costruzione, che cambia forma e dimensioni, suffragando l’ipotesi di un intervento diretto di entrambi i gruppi di costruttori del palatium nell’attività di cava, sbozzatura e muratura. Per concludere quindi sugli aspetti propriamente produttivi inerenti alla costruzione del palatium, l’opera fu realizzata con l’intervento di maestranze specializzate, il palatium. Sebbene si tratti, anche in questo caso, di tracce piuttosto labili, la cui lettura è talvolta compromessa dagli episodi costruttivi basso e post medievali e dal restauro di giunti e letti di posa, alcuni elementi emergono con chiarezza, soprattutto sul sistema di collegamento tra i vari livelli del ponteggio. Un percorso inclinato correva lungo il perimetro interno dell’ambiente, in successione su tutti i prospetti, e seguendo più o meno una inclinazione di 13° poteva raggiungere il piano alzato in corrispondenza delle buche pontaie usm 752 e 785. Oltre alla piattaforma inclinata restano tracce di ponteggi mobili collegati forse da scale. Entrambe le soluzioni sono documentate nell’iconografia basso e tardo medievale (Baragli 1998) e forse indice di una gerarchizzazione dei collegamenti con una piattaforma inclinata per i carichi pesanti, blocchi e materiali del sacco, e le scale per il sollevamento della calce (fig. 3). Le tecniche murarie Il palatium è stato costruito sulla sommità del colle di arenaria giallo/marrone su cui si è sviluppato, tra XIXII e XIV secolo, il villaggio fortificato di Arcidosso. In particolare il palazzo si situa al limite sud occidentale di un microrilievo che si innalza per circa 4 m al di sopra della quota della piazza di castello, e che dovette costituire il primo perimetro del castellum citato nel 1121 (CDA: II, n. 333), topograficamente coincidente con l’area occupata dal cassero bassomedievale. Il primo approvvigionamento del materiale da costruzione avvenne sicuramente sul posto, dato che l’arenaria della roccia di base è la stessa utilizzata per la fondazione della struttura. La muratura (indicata come tipo 58) è composta da blocchi di arenaria spaccati di medie dimensioni (h 14-20 cm; l 25-40 cm) organizzati su corsi sub-orizzontali piuttosto irregolari e normalmente non paralleli. Assieme al materiale di medie dimensioni compaiono inoltre elementi lamellari e occasionalmente poligonali a regolarizzare porzioni dei corsi di posa. Già questo tipo murario presenta una messa in opera per blocchi costruttivi, con giunti di attesa tendenzialmente verticali e solo raramente inclinati a circa 45°. Al di sopra della fondazione l’edificio fu realizzato in peperino locale, materiale trachitico disponibile a qualche chilometro di distanza dal sito. Con l’edificazione del palatium si assiste al primo esempio di questo trasferimento di materiale da costruzione dai banchi di deposizione a un sito di cantiere ‘distante’ che costituirà un fortunato precedente nella tradizione edilizia di molti centri amiatini, incluso Arcidosso, per tutto il Medioevo e anche oltre. Il peperino venne inizialmente lavorato (tipo 1A; fino a Or10) in blocchi sbozzati di dimensioni piuttosto variabili (h 20-30 cm; l 20-60 cm)9, con facce 10 Era stato inizialmente ipotizzato che si trattasse di segni di rilavorazione recenti. Pur non escludendo del tutto tale ipotesi, tuttavia non sono stati osservati segni che continuano su blocchi contigui e la presenza costante della finitura in tutta l’apparecchiatura muraria (interna ed esterna) depone a favore di una regolarizzazione precedente alla messa in opera. 11 Una specializzazione distinta dei due gruppi, causata probabilmente dal fortissimo sviluppo del settore edilizio medievale in area Amiatina, è stato evidenziato nel Trecento dallo studio archeologico murario del vicino centro comitale aldobrandesco di Santa Fiora (Nucciotti 2000). Data la diversità di materiale, lavorazione e messa in opera rispetto alla muratura dell’elevato (tipo 1A) si è preferito distinguerla da quest’ultima. Si noti inoltre che le dimensioni della sezione del muro non presentano, né all’interno, né all’esterno, alcun ingrossamento in corrispondenza di questa muratura che, pur costituendo sicuramente parte integrante della fondazione, presenta altresì caratteri compatibili con un suo utilizzo anche in elevato. 9 Per una contestualizzazione delle murature di Arcidosso nel panorama toscano si veda la recente importante della sintesi pubblicata da G. Bianchi (Bianchi 2008). 8 517 NOTE E DISCUSSIONI del palatium amiatino sono tuttavia osservabili con i contesti di IX secolo di Donoratico (Li), dove compaiono murature in bozze organizzate su corsi non sempre regolari, piuttosto simili a quelle del manufatto di Arcidosso (Bianchi 2008). Similitudini tra la tecnologia di preparazione degli elementi murari e forse anche a livello planimetrico, ancora in area maremmana, possono essere inferite anche per la turris aldobrandesca di Lattaia (Gr), documentata in uso nel X secolo e, purtroppo, non ancora indagata archeologicamente (Farinelli 2007, p. 122 e scheda). Analogie relative alla geometria e alla tecnologia edilizia delle aperture del palatium di Arcidosso sono riscontrabili nelle archeggiature di X secolo della base del campanile della Badia Fiorentina (per l’apertura principale – Uetz 2003, pp. 24-40) e nelle monofore originali del campanile di Santa Maria Maggiore, ancora a Firenze (in corso di studio dallo scrivente; un inquadramento storico-archeologico in Forcucci et al. 2004, Scampoli 2008, pp. 264-266). In relazione al tipo edilizio, in Italia settentrionale si registra la recente scoperta di un palatium analogo a quello amiatino in provincia di Udine, a Broili presso Tolmezzo, datato al X secolo (Cagnana et al. 2006, Cagnana 2007), di cui si conserva il piano terreno connesso a un elevato di oltre 3 m. Ancora nel nord Italia infine, un altro edificio confrontabile con quello amiatino è il “palatium castri” della sede vescovile di San Silvestro a Genova. Analogamente al palatium di Arcidosso anche l’edificio ligure presenta una pianta quadrata e uno sviluppo a due piani, con accesso principale al piano alzato (lì servito da una scala in muratura) e accesso secondario al piano terreno, differenziato per funzione. Durante i primi interventi archeologici sul sito l’edificio venne datato tra la fine del X e i primi anni dell’XI secolo, sia sulla base della stratigrafia (è anteriore rispetto a un interro di XII secolo), sia su quella di una prima contestualizzazione cronologica della muratura (Andrews, Pringle 1977). Le indagini più recenti, condotte da Aurora Cagnana, hanno invece considerato tale datazione troppo alta (ancora) sulla base della cronotipologia aggiornata delle murature storiche genovesi, e hanno proposto la seconda metà dell’XI secolo come probabile epoca di realizzazione del manufatto (Cagnana 1997). Questa seconda datazione pone qualche problema nell’identificazione del riferimento tipologico dell’edificio genovese come palatium piuttosto che come donjon franco-normanno, che alla fine del secolo XI è già attestato positivamente nel sud Italia (Donato 2004). L’appartenenza di Genova alle terre dell’Impero e la sua tradizione come centro amministrativo marchionale contestualizzerebbero comunque, a mio parere in modo più congruo, il “palatium castri” nell’alveo culturale imperiale come palatium; considerando anche che il donjon ancora per tutto il secolo XI resta un tipo edilizio in formazione, per lo meno in ambiente normanno. Ad esempio, la White Tower di Guglielmo il Conquistatore, a Londra, non viene completata prima del XII secolo14. lavoro durò probabilmente circa un anno12 e vide l’avvicendamento di due equipes, la seconda delle quali intervenne poco prima del completamento dell’opera. L’impianto del cantiere infine si valse di almeno due bacini di cava per la preparazione dei materiali da costruzione, arenaria e peperino, con la maggior parte del materiale dei paramenti estratto a una certa distanza dal sito e ad esso probabilmente collegato dalla rete viaria pubblica (Pruno 2008). Resta da chiarire chi fosse il committente di questa opera, ovvero chi potesse e volesse costruire sull’Amiata un simile edificio e se e quanto ciò sia stato effettivamente possibile nel X, quando un palatium come quello di Arcidosso avrebbe costituito una realizzazione di prestigio nel contesto dell’edilizia regionale e comunque notevole in quella dell’intero Regnum. IL CONTESTO TIPOLOGICO ITALIANO E IL CONTESTO GEOPOLITICO LOCALE: UN PALATIUM MARCHIONALE DEL SECOLO X I confronti tipologici. La datazione del manufatto si basa rispettivamente sulla stratigrafia del complesso architettonico della Rocca di Arcidosso e sui confronti, in positivo e in negativo, della tecnica muraria e del tipo edilizio. Dal punto di vista stratigrafico il palatium (cf 1) precede la torre maestra della rocca (cf 2), databile al XII secolo, che presenta una muratura analoga ai tipi T1 e T3 delle torri della roccaccia di Selvena – Gr (Citter 2001, p. 204) – e al tipo 3Aa della coeva torre maestra di Santa Fiora – Gr (Nucciotti 2000, p. 81). Per quanto attiene alla tecnologia muraria non sono state individuate al momento altre murature di X secolo con cui istituire confronti diretti in area amiatina, dove sono state, invece, ben documentate murature di XI secolo, che presentano caratteristiche diverse dai tipi murari del palatium13. Analogie tecnologiche con la muratura 12 L’innalzamento della muratura, seppure differenziale, appare scandito da una serie ‘principale’ di cinque orizzontamenti (Or 1, 3, 5, 6, 8 – di cui 1, 3 e 8 ben visibili all’interno) distanziati di circa un metro l’uno dall’altro. Ognuno di questi ‘stralci’ realizza complessivamente una superficie di 80 m² di paramento (circa 32 m² all’interno e 48 m² all’esterno) il cui volume, ipotizzando una media di 30 cm di profondità per i conci, si aggira attorno ai 24 m³, per un peso complessivo di 48 tonnellate di pietra (calcolando 2g/cm³ di peso specifico del peperino). Se consideriamo un trasporto di 800 kg di materiale per ogni carico di pietre proveniente dalla cava il risultato è che per ogni stralcio di avanzamento servirono circa 60 trasporti. Questo dato, assieme a quello più sopra ricordato dell’uso di 10-15 blocchi costruttivi per completare ogni ‘giro’ della costruzione, e della necessità di 2 di tali ‘giri’ per formare uno stralcio delimitato da un piano di livello della serie principale consente di stimare un trasporto di due carichi di pietre da 800 kg al giorno e un tempo di realizzazione di circa un mese (60 carichi) per ogni intervallo (1 m) tra due orizzontamenti successivi della serie principale. Fino al livello dell’orizzontamento Or 10 l’attività propriamente costruttiva dovrebbe quindi essersi protratta per circa 7 mesi (inclusa la fondazione) in cantiere. A questo periodo va aggiunto il tempo necessario alla preparazione del materiale da murare. 13 Si veda ad esempio la muratura comunemente attestata nell’aula di San Salvatore al Monte Amiata, la cui collocazione cronologica è sicuramente risalente all’abbaziato di Winizo e agli anni immediatamente precedenti alla consacrazione del 1035 (Gibert Tarruell 1989). Il tipo murario caratteristico di quella fase si segnala per la messa in opera di materiale di grandi dimensioni, spianato ad ascia e sagomato con facce quadrangolari frequentemente parallelogramme o trapezoidali. La stessa muratura è caratterizzata dall’impiego di diàtoni o semidiàtoni che configurano la ripresa volontaria di modelli antichi, con maestranze di possibile tradizione laziale (Nucciotti 2008, pp. 172-183). 14 La struttura, eretta per volontà di Guglielmo il Conquistatore, viene documentata come completa solo all’inizio del XII secolo (Keevill 2000, pp. 92-99, 120-125). L’edificio si mostra come un palazzo dallo sviluppo verticale, in cui le componenti pubbliche della sala e della cappella palatina sono fuse in un solo complesso architettonico, sebbene planimetricamente separate. La chiesa di San Giovanni, infatti, occupa un’intera porzione 518 NOTE E DISCUSSIONI fig. 4 – Tipi murari del palatium di Arcidosso 1B (a), 1A (b), 5 (c); Campione di muratura della turris aldobrandesca di Lattaia (d); Campione di muratura dal basamento del campanile della Badia Fiorentina (e); Campione di muratura dalla chiesa del Castello di Donoratico (f). Tipi edilizi palatini: ricostruzione assonometrica della prima fase del palatium castri di San Silvestro a Genova (g); Pianta (h) e dettaglio (i) del palatium di Broili (Tolmezzo). Immagini tratte da Uetz 2003 (e), Bianchi 2008 (f), Cagnana 2007 (g). Le immagini “h” e “i” sono pubblicate per gentile concessione di A. Cagnana. ‘politica dell’equilibrio’ (Pauler 1982). Su chi potesse avvantaggiarsi di questa situazione le opinioni degli storici sono state discordanti. Da un lato Wilhelm Kurze proponeva che fossero stati gli Aldobrandeschi a beneficiare della estromissione abbaziale a ovest della montagna (Kurze 1988), dall’altro Simone Collavini, qualche anno più tardi (Collavini 1998, p. 79 e ss.) escludeva questa possibilità, dato che i ‘principi’ maremmani furono piuttosto malvisti negli ambienti di corte ottoniani. Si potrebbe aggiungere, infine, che proprio tra il 964 e il 996 si sviluppa un solido partenariato tra San Salvatore e gli Aldobrandeschi, come dimostra una nota transazione simulata che, tra il 973 e il 989 (CDA: II, nn. 203, 206), trasferisce e successivamente retrocede, dai conti all’abbazia, una vasta congerie di diritti e beni immobili localizzati in Toscana e nel nord Italia. I due poteri storici del territorio mostrano quindi, in età ottoniana, due crisi parallele e indipendenti che sono forse responsabili del deciso avvicinamento politico documentato dalle fonti scritte. Infine, l’unico ente per cui è concordemente accettato un progresso in area amiatina nel X secolo sembrerebbe esser stato l’episcopato chiusino che, nell’XI e XII secolo, controlla i castelli di Potentino e Montegiovi (quest’ultimo in comproprietà con l’abate di Sant’Antimo – Wickham 1989, p. 108 ss.), oltre a una rete di pievi episcopali inserite in aree tradizionalmente controllate da San Salvatore (Ronzani 1989, pp. 145 ss.). Tuttavia, dal punto di vista politico, il vescovo di Chiusi non fu mai così attivo da costituire una vera minaccia né per l’abbazia né, tanto meno, per gli Aldobrandeschi. La soluzione più probabile di questa equazione a molte incognite sembra essere un’altra: l’attività di Ugo di Tuscia nella Toscana meridionale e l’assunzione diretta del governo Per concludere sui confronti tipologici e tecnologici tutte le evidenze archeologiche individuate sono databili entro una forbice compresa tra il IX (Donoratico) e l’XI secolo (“palatium castri” di Genova), con una concentrazione attorno al secolo X che meglio si presta, anche sotto il profilo storico, a motivare l’edificazione del palatium di Arcidosso (fig. 4). Il contesto geopolitico Un ulteriore elemento a suffragio della datazione al X secolo del palatium amiatino è provvisto dall’analisi del contesto politico di quel periodo, la cui seconda metà fu, per l’Amiata occidentale, un tempo di grandi cambiamenti. Fino a quel momento, infatti, l’unico ente investito stabilmente del ruolo di rappresentante del potere pubblico nell’area era stato San Salvatore al monte Amiata. Sorta sullo scorcio dell’ultimo regno longobardo, l’abbazia era stata ampiamente privilegiata dai sovrani carolingi che avevano garantito all’ente il controllo della montagna, dalle sue pendici occidentali, alla Francigena a est. Ottone I, però, mutò de iure la geografia del patrimonio di San Salvatore nel 964 (CDA: II, n. 202), privando il monastero dei beni nell’Amiata occidentale e assegnandogli, in cambio, diritti e concessioni lungo la Francigena, nel tentativo di promuovere anche nella Toscana meridionale la cosiddetta dell’edificio, con l’aula accessibile dal primo piano e il cui doppio volume si estende al piano superiore. La chiesa inoltre occupa anche le planimetrie inferiori, quelle rispettivamente del piano di accesso e del piano terra, con la doppia cripta. Nella White Tower quindi la cappella palatina viene inglobata strutturalmente nel palazzo ma mantiene una propria autonomia spaziale nel contesto del complesso architettonico. 519 NOTE E DISCUSSIONI fig. 5 – La viabilità pubblica sul Monte Amiata attorno al X secolo. dell’Amiata occidentale da parte della Marca. Gli studi più recenti sul “gran barone” confermano infatti un crescente interesse del marchese per la Toscana meridionale a partire dagli anni ’80 del secolo (Puglia 1999, p. 18), quando a Ugo venne affidato anche il ducato di Spoleto. Gli indizi a supporto di questa tesi sono piuttosto rilevanti. Il Marchese opera direttamente dal comitato di Sovana sullo scorcio del X secolo15 e nello stesso territorio invia almeno un comes, tale Uberto, che rende giustizia per due volte, nel 991, all’abbazia di San Salvatore (CDA: II, nn. 207, 208). La Marca quindi opera direttamente, attraverso i suoi funzionari, dal cuore di uno degli appannaggi tradizionali aldobrandeschi che, per contro, emanano, negli stessi anni, gli atti amministrativi di maggior rilievo dal comitatus di Roselle (dove si trova anche la “turris” di Lattaia), su cui sembrano momentaneamente ripiegare. Più in particolare, per quanto riguarda l’Amiata, formalmente inserito nel comitato di Chiusi, si segnala nella stessa epoca la mancata attestazione di titolari del comitato chiusino (Spicciani 1996, 43 ss.) e la contemporanea attestazione di un «Venerandus vicecomes de Monte Amiato» come sottoscrit- tore di una donazione di Ugo di Tuscia al monastero del Santo Sepolcro di Acquapendente (Vt – sulla Francigena) del 29 ottobre 993 che, dalla titolatura e dall’occasione della citazione non può essere altri che un funzionario marchionale (Puglia 1999, 19n16). Si consideri inoltre che negli stessi anni, nella prima delle due notitiae placiti del conte Uberto, del 991 (CDA: II, n. 207), compare un certo «Betjo de Monte Amiato», una allocuzione topografica del tutto inusuale nel resto della documentazione medievale superstite che, proprio in quegli anni, avrebbe potuto fare riferimento a un contesto amministrativo ben delineato, con tutta probabilità un vicecomitatus amiatino, all’interno del comitato di Chiusi. La coincidenza tra attestazioni documentarie e comparsa del palatium sembra francamente troppo sospetta per essere casuale. Il palatium dovrebbe quindi esser stato edificato per volontà di Ugo di Tuscia nel quadro della ridefinizione delle forme di controllo esercitate dalla Marca in area amiatina e sovanese ed esser stato la sede di un ufficiale pubblico di rango vicecomitale oltre che, occasionalmente, di comites marchionali 16 Martene et Durant, I, col. 349. Anche in considerazione della mancanza di una moderna edizione del documento, secondo Andrea Puglia, Wilhelm Kurze avrebbe dubitato della sua autenticità. Sulla questione Andrea Puglia rimanda a Kurze 1969, p. 280. L’indicazione non trova riscontro nella ripubblicazione dell’articolo tradotto in italiano in Kurze 1989b. Non ho, infine, trovato la obiezione sull’autenticità del documento in Puglia 2003, che costituisce un aggiornamento rispetto a Puglia 1999. In attesa di ulteriori riscontri sono quindi propenso a considerare affidabile la citazione del vicecomes amiatino, anche in considerazione dell’occorrenza di un’analoga indicazione di provenienza «de Monte Amiato» in un documento coevo ricollegabile all’ambiente marchionale (CDA: II, n. 207, del 991 – cfr. testo). Ugo intervenne nel 995 a sostegno dell’abbazia amiatina quando, dalla località di Marta, in territorio sovanese, rilascia, il 25 dicembre, un’ampia donazione concernente beni posti in comitato chiusino tra cui la sua casa e corte di Bagno (San Casciano dei Bagni), con la chiesa lì edificata e il “burgus” di “Rota Cardusa” (alias Burgorico in val di Paglia), con le chiese ivi ubicate (CDA II, n. 211). Secondo l’uso invalso nelle concessioni di beni fiscali la disposizione contiene la proibizione di alienare i beni donati tramite vendite, livelli e permute. Ugo si riservò inoltre, per tutta la durata della propria vita, la potestas sui beni oggetto della donazione, i quali dopo la morte del marchese dovevano pervenire iure proprietario al monastero (Puglia 1999, p. 17). 15 520 NOTE E DISCUSSIONI e dello stesso marchese. La localizzazione ad Arcidosso consentiva a Ugo di controllare uno snodo fondamentale della viabilità regionale verso Roma, situato in posizione baricentrica nella viabilità nord-sud tra Castiglion d’Orcia (sulla Francigena) e i collegamenti con l’Aurelia (attraverso la viabilità ‘longobarda’ tra Triana e Scansano) e con la Clodia (in territorio sovanese). Lo stesso asse viario sarà una delle infrastrutture nevralgiche della futura contea aldobrandesca17 di XII-XIV secolo (fig. 5). FORMAZIONE, STORIA ED ESITI DI UN TIPO EDILIZIO: AULA, SALA E DONJON TRA VIII E XII SECOLO Il senso storico di una presenza Nel 1951 Günter Bandmann sosteneva, nel volume dedicato all’architettura dell’inizio del Medioevo «come portatrice di significato»18 che, facendo ricorso all’evoluzione stilistico-formale, la comparsa dei tipi in architettura veniva di fatto svincolata dal contesto storico. La necessità di reintrodurre il senso storico e l’agency individuale dei bauherren (committenti/proprietari/costruttori) nel processo di selezione dei modelli architettonici condusse Bandmann a utilizzare il metodo storico per comprendere i contesti di formazione e le modalità di ricezione dell’architettura, principalmente di quelle palatina ed ecclesiastica, dall’età tardo antica ai secoli centrali del Medioevo. Attraverso una puntuale analisi delle fonti scritte, iconografiche e architettoniche, Bandmann giunge a una serie di conclusioni di cui due particolarmente rilevanti, per quanto qui attiene. La prima: le fonti scritte attestano che alcuni edifici erano percepiti come copie di altri, senza che le strutture condividessero somiglianze formali con i modelli di cui erano copia (Bandmann 1951, pp. 38, fig. 6 – Il palazzo di Teodorico raffigurato nei mosaici di Sant’Apollinare nuovo a Ravenna (alto) e la Torhalle di Lorsch in un rilievo ottocentesco (basso). 49-51)19. La seconda: i bauherren dimostrano di possedere la capacità, o piuttosto la funzione, di selezionare le forme architettoniche che esplicitamente potessero richiamare gli exempla storici dei poteri da essi esercitati, in modo evidentemente legittimante (Bandmann 1951, pp. 39, 47-48). Su tale base e in relazione al caso di studio si propone che Ugo di Tuscia, promuovendo la costruzione del palatium di Arcidosso, abbia volontariamente fatto ricorso, come grande ufficiale pubblico, a un tipo edilizio di ascendenza carolingia, per legittimare il proprio governo in area amiatina, nel tardo X secolo (fig. 6). 17 Si veda Nucciotti 2008 pp. 50-95 per una presentazione dettagliata della viabilità medievale amiatina attorno al X secolo (una sintesi in Nucciotti 2006, pp. 178-185). 18 Il volume di Bandmann è stato recentemente tradotto in Inglese a cura della Columbia University Press (Bandmann 2005, New York, USA). Si tratta della prima versione non in Tedesco di un’opera che ha avuto enorme influenza sulla storia dell’architettura medievale in Germania (dove è stata costantemente ristampata dal 1951 fino a oggi), essendo rimasta invece pressoché sconosciuta oltre i confini nazionali. L’opera di Bandmann, per la qualità della ricerca e per la convincente dimostrazione delle conclusioni resta ancora estremamente attuale, specie nel caso di comunità scientifiche di settore che, com’è il caso per l’Italia, non si siano misurate con i suoi parametri di analisi dell’architettura storica. Su un piano più generale, che include la questione di come opere simili possano restare sconosciute a intere e importanti comunità scientifiche, bisognerebbe forse riflettere sulla promozione nel nostro settore di una maggiore competenza linguistica che permetta diretto accesso almeno alle bibliografie in Inglese, Francese, Tedesco e Spagnolo. Il recente ‘appiattimento’ della ricerca bibliografica sull’Inglese mi pare, in particolare, una caratteristica saliente della produzione scientifica anglosassone, specialmente quando essa si misuri con contesti metodologici e storici di respiro continentale. In questo ambito si inquadra anche la ricostruzione del rapporto tra Archeologia e Romanico pan-europeo di Tadhg O’Keeffe (O’Keeffe 2007) in cui mancano completamente riferimenti, ad esempio, a studi italiani e compaiono raramente quelli alle produzioni spagnole e tedesche, occasionale è la citazione di testi francesi. A parte il disaccordo su alcuni dei punti chiave della costruzione dimostrativa dell’autore (che afferma ad esempio che architetture romane fossero presenti solo in limitate zone dell’Impero durante il Medioevo – p. 20; o ancora che l’Europa medievale non costituisse uno spazio di elaborazione comune e sovranazionale del pensiero – p. 68) mi pare che sia il modello stesso della ricerca bibliografica a poter esser messo in discussione. Il tipo edilizio in età carolingia e ottonianacapetingia L’uso di riferimenti carolingi e ottoniani nell’architettura toscana dei tempi di Ugo non è una novità assoluta. Sia la ricostruzione di Santa Reparata nel X secolo, con 19 Ciò poiché le forme architettoniche storicamente rilevanti, con cui ci si intendeva ricollegare attraverso la ‘copia’, potevano essere recepite nel nuovo edificio anche solo in modo frammentario e parziale, quasi come citazioni. Bandmann (Bandmann 1951, p. 53) spiega questa pratica proponendo che i bauherren del primo Medioevo non percepissero il distacco temporale e culturale con il passato classico e tardoantico, dato che tutti i potenti del Medioevo derivavano la propria legittimazione (direttamente o in modo mediato) dall’ideologia dello stato teocratico che si era andato sviluppando come corollario del “Piano della Salvezza” cristiano (contra O’Keeffe 2007, p. 68). Un concetto, quest’ultimo, intimamente legato al ruolo dell’Impero Romano come quarto e ultimo impero prima della seconda venuta di Cristo (Bandmann 1951, p. 51). 521 NOTE E DISCUSSIONI l’aggiunta di due piccole torri ai lati dell’abside (Toker 1975, pp. 181-18620) sul modello di Saint Riquier, Fulda, San Gallo e Colonia, sia la presenza di logge (“laubiae”) nel palazzo episcopale21 puntano in questa direzione. Anche nel rifacimento di X secolo del “Palatium Caruli” presso San Pietro a Roma compaiono, infatti, due logge, una maggiore, probabilmente al piano terra e una ‘minore’ o “solarium” al primo piano (D’Onofrio 2007, pp. 160-161) secondo un’articolazione degli spazi su due piani che rimanda al palazzo ravennate di Teodorico e che fa da modello a molti edifici pubblici dei secoli VIII-XI (Bougard 1996). Bandmann individua l’archetipo storico del palatium romano-germanico nell’aula regia del palazzo imperiale romano (1951, pp. 91-93) che viene ‘abbreviata’ architettonicamente sotto una varietà di forme: dal palatium propriamente detto, al transetto costantiniano, al westwerk/westbau, alla loggia. Entro questo contesto tipologico emergono, già a partire dall’VIII secolo, alcuni edifici, generalmente di modeste dimensioni, che sembrerebbero aver avuto una duratura influenza sulla formalizzazione dei tipi palatini rurali e a cui si ricollegano sia il tipo del palatium di Arcidosso, sia il tipo franco-normanno del donjon. Uno degli esempi più antichi è rappresentato dalla torhalle di Lorsch (sec. VIII – Bonelli et al. 1997, p. 21) in cui, pur permanendo i riferimenti architettonici al palatium teodoriciano, con la loggia inferiore a tre fornici come abbreviazione del pronao e con la sala superiore decorata esteriormente a simulare una loggia-solarium, si inverte la preminenza tra i due piani. La sala superiore sarà, infatti, di norma, l’ambiente più importante e più solenne del palazzo medievale. Tra la metà del secolo IX e l’inizio del X si collocano Santa Maria de Naranco (E) e la sala di Mayenne (F), due edifici in cui la separazione tra piano terreno e primo piano si fa più netta, con la fortificazione del livello inferiore e la concentrazione degli elementi propriamente palatini al piano elevato. Il primo edificio, nel nord della Spagna, è la sede regia extraurbana di Ramiro I, re delle Asturie (tra 842 e 850). Nonostante la sviluppata elaborazione formale di questa costruzione, i caratteri fondamentali del tipo edilizio sono gli stessi osservabili nel palatium di Arcidosso: un ambiente fortificato e difficilmente accessibile a piano terra e una sala con accesso monumentale al livello superiore (Early 2002, p. 253). Anche il castello di Mayenne, databile tra la fine del IX e l’inizio del X secolo e attribuito ai primi conti del Maine (Renoux 2002, p. 241) mostra una struttura simile, con un piano terreno fortificato e ‘illuminato’ da feritoie (come ad Arcidosso) e un piano nobile di accesso, caratterizzato da grandi finestre-porte terminate a tutto sesto (simili al portale elevato di Arcidosso). I richiami al significato storico dell’aula regia sono evidenti in entrambi gli edifici, sicuramente mediati dai modelli carolingi per Mayenne, di più incerta derivazione nel caso di Naranco, dove Ramiro I avrebbe potuto ispirarsi direttamente agli archetipi antichi e tardoantichi anche senza la mediazione ideologica carolingia. 20 Recentemente Guido Tigler, sulla base delle esigue dimensioni (base di circa 2×2 m) e della difformità planimetrica, ha proposto che non si trattasse di torri absidali ma di contrafforti statici (Tigler 2006, p. 132), sebbene in tal caso non si spiegherebbe a mio parere l’inserimento nel secolo XI, all’interno delle stesse, di due absidiole (Toker 1975, pp. 186-189) che ne avrebbero inutilmente compromesso la funzione di contenimento. 21 Scampoli 2010, pp. 153-155. 522 Dal punto di vista tipologico quindi, il palatium di Arcidosso fa diretto riferimento ai tipi edilizi in cui si svolgeva l’attività di governo dell’imperatore e degli ufficiali pubblici imperiali tra VIII e X secolo (o dei re e magnati che, soprattutto in Francia, aspiravano a collegare il proprio potere, con funzione legittimante, ai carolingi). Nonostante la varietà tipologica degli edifici derivati dall’aula regia romano-bizantina ognuno di essi aveva le caratteristiche essenziali per svolgerne la funzione, ne era una copia, nel senso medievale ‘bandmanniano’ del termine22. A conferma di ciò si consideri l’intercambiabilità della localizzazione dei placiti, dalle laubiae alle turres, nel X secolo, che denoterebbe, più che una identità fisica (contra Sexton 2009, p. 333), una percepita analogia ideologica e funzionale tra i due tipi edilizi23 (fig. 7). 22 Un eco degli stessi tipi edilizi in Toscana permane nell’XI secolo nella prima fase del Palazzo dei Vescovi di Pistoia (Rauty 1981, p. 95), icnograficamente ricollegabile alla sala di Mayenne e nelle chiese-loggia pisane (Redi 1991, pp. 372-377), ‘copie’ della torhalle di Lorsch. Mentre il tradizionale legame di Pisa con l’Impero rende conto in modo abbastanza agevole della selezione di forme imperiali nelle architetture pubbliche della città, per Pistoia la situazione appare più complessa. In ogni caso il palazzo vescovile pistoiese sorge su terre donate da Ottone III (Miller 2000, pp. 68-73), a dimostrazione di un collegamento tra la sede episcopale e l’Impero e viene realizzato nelle forme di un’aula regia con cui teoricamente il primate locale poteva legittimarsi come governatore nei confronti della comunità urbana alla vigilia della nascita del Comune. 23 Il caso di Arcidosso, insieme alla coeva menzione della turris Aldobrandesca di Lattaia, che diventa un luogo preminente di attività della consorteria aldobrandesca in età ottoniana (Collavini 1998, p. 168), potrebbe forse testimoniare una preferenza per il tipo turris nei presidi rurali di governo, in coerenza anche con quanto avviene a Mayenne e Naranco, entrambe strutture fortificate. Più in generale la ripresa di riferimenti carolingi nel X secolo, nell’architettura prodotta dai grandi aristocratici, sembra emergere come un fenomeno di portata continentale (es. i conti di Mayenne e Folco III d’Angiò in Francia). Nella Toscana meridionale ciò è attestato chiaramente dal palatium di Arcidosso e adombrato in quel che resta della turris aldobrandesca di Lattaia (Farinelli 2007, p. 122). Nel primo caso Ugo di Tuscia poteva fare aperto e legittimo uso di un tipo edilizio marcatamente connotato come imperiale, nel secondo invece il riferimento ideologico sembrerebbe doversi collegare nullo medio alla tradizione carolingia. Per gli Aldobrandeschi, infatti, politicamente emarginati in età ottoniana, la preoccupazione era semmai quella di dimostrare che la famiglia apparteneva ancora alle più alte gerarchie del funzionariato pubblico del Regno, limitando propagandisticamente il proprio declino a una congiuntura negativa contingente. Pur non potendo esibire apertamente simboli imperiali, lo status della famiglia le consentiva comunque di richiamarsi all’eredità carolingia. La documentazione scritta fornisce un certo supporto a questa ipotesi, sia in quanto attesta gli sforzi della consorteria per mantenere i patrimonii accumulati o consolidati sotto Berengario II, sia per il ricorso a un partner strategico che, dal punto di vista istituzionale, stava vivendo una stagione politica per certi versi analoga a quella degli stessi Aldobrandeschi: l’abbazia imperiale di San Salvatore al Monte Amiata. Le cessioni e retrocessioni di proprietà degli anni 973 e 989 (CDA: II, nn. 203, 206), configurano, infatti, una sorta di blind trust tra le due amministrazioni, che si offrono reciproca garanzia in un momento in cui, sotto il regno degli Ottoni, vedono sminuito il proprio ruolo politico e limitate le aspirazioni signorili. Agendo nell’ambito del milieu culturale e delle forme fisiche dell’élite imperiale, rappresentati rispettivamente dai reiterati riferimenti documentari coevi a Ildebrando III marchese e a Gherardo I comes sacri palatii, ascendenti della precedente generazione che avevano ricoperto incarichi di primo piano nel Regnum, e operando dalla turris di Lattaia, gli Aldobrandeschi giocavano le proprie carte per riguadagnare un ruolo di primo piano sulla scena politica e, nell’immediato, per distinguersi dai signori minori. In questo quadro la turris di Lattaia svolgeva sicuramente una parte rilevante, in quanto sede di atti importanti e luogo fisico di espressione della ideologia famigliare. Non stupisce quindi che le strutture attualmente visibili a Lattaia sembrino indicare un collegamento della turris con lo stesso tipo edilizio del palatium di Arcidosso e quindi, per estensione, con i luoghi di esercizio del potere carolingi e imperiali. NOTE E DISCUSSIONI fig. 7 – Santa Maria di Naranco (alto) e i rilievi ricostruttivi del palatium di Mayenne (basso). Il tipo edilizio in età normanna e il donjon in città; volontariamente lontane dai modelli palatini carolingi, in un momento in cui l’imperatore veniva forse percepito più come una controparte che come una fonte di legittimazione. In Francia, invece, dove i riferimenti carolingi vengono accolti, con funzione anti-imperiale e ‘nazionalistica’, dai Capetingi (Sot 1988, Le Goff 2008) si assiste, già nell’XI secolo alla diffusione del tipo edilizio in tutto l’ambiente dei grandi aristocratici. In questa prospettiva, alla fine del X secolo o ai primi anni dell’XI si datano le sale-torri di Langeais e Loches (quest’ultima un vero donjon) edificate da Folco III Nerra d’Angiò (Fernie 2002, p. 50). La selezione dei tipi edilizi, in quel Le vicende del tipo edilizio ‘palatium di Arcidosso’ (o di Broili) e quelle del donjon divergono in modo deciso nel secolo XI. In Italia, con la fine del funzionamento delle circoscrizioni pubbliche imperiali e l’emergere delle autonomie signorili e cittadine (in Toscana, progressivamente, tra l’XI e il XII secolo), il tipo di fatto scompare, quantomeno nelle aree rurali. La partita architettonica della classe dirigente italiana si giocherà da quel momento, soprattutto nel XII secolo, attorno all’edificazione di torri slanciate, sia in campagna, sia 523 NOTE E DISCUSSIONI caso, si giustificherebbe con la necessità di esprimere ‘in forme carolinge’ la legittimazione della parte politica di Ugo Capeto, che Folco appoggiava (it.wikipedia.org24). Lo sviluppo francese, accolto precocemente anche in ambiente normanno, modifica generalmente il tipo in altezza, con donjon di tre o più piani (4 nel caso di Loches e della White Tower di Londra, 5 nel caso di Rochester – Marshall 2002). Fatti salvi alcuni esempi precoci il donjon appare comunque nella sua completezza all’inizio del secolo XI in Francia ma, più in generale, si conferma come un tipo edilizio internazionale negli anni più avanzati del secolo. Il tipo passa in Italia meridionale con la conquista normanna con una cronologia simile a quella attestata in Gran Bretagna (per la Calabria Donato 2004, pp. 506-516) e giunge in Terra Santa in seguito al movimento crociato. Nel regno di Gerusalemme ne sono stati censiti e indagati archeologicamente alcuni esemplari (es. Shayun, Qal’at Yahmur, Al-Burj al-Ahmar – Pringle 1986) e forme a esso riconducibili sono presenti anche in Siria (es. la torre maestra del Crac de Chevaliers – Biller 2002) ma, finora, non nei castelli crociati transgiordani (Vannini 200725). Dagli stati 24 Voce: “Folco III d’Angiò”, it.wikipedia.org, del 22/06/2010. L’affidabilità di Wikipedia è una vexata quaestio piuttosto recente, specialmente in ambito accademico. La molteplicità degli autori delle voci e la quasi assoluta impossibilità da parte degli utenti di verificare l’effettiva competenza degli stessi sono un dato di fatto. La novità è costituita, invece, dalla inattesa precisione e completezza che questa enciclopedia collaborativa basata su tecnologia wiki ha dimostrato di possedere. Nel corso di studi analitici, il più importante dei quali è comparso sulla rivista Nature nel 2005 (Giles 2005), l’affidabilità di Wikipedia è risultata pari a quella delle omologhe opere a stampa. Per sanare la supposta idiosincrasia tra la mancata selezione degli autori, da un lato, e un livello di accuratezza paragonabile a quello della Encyclopedia Britannica, dall’altro, è stata recentemente proposta una spiegazione basata sulla cosiddetta “saggezza della folla”. I principi base della “Wisdom of the crowd” (abbreviato in “WoC”), che sono stati esposti da James Surowiecki (Surowiecki 2005) nello stesso periodo in cui Giles conduceva le sue indagini sull’affidabilità di Wikipedia, si basano sulla tesi per cui è statisticamente accertato che un gruppo di individui capaci di produrre decisioni indipendenti ha forti probabilità di prendere decisioni e di sviluppare previsioni pari o migliori a quelle fornite da un individuo esperto. I principi WoC sono stati testati nel 2006 da un gruppo di analisti della University of Alberta school of Business (CAN) sullo stesso gruppo di articoli di Wikipedia definiti qualitativamente affidabili da Nature nel 2005. Si tratta del primo studio sperimentale basato sul modello WoC e i risultati confermano la sua azione nel processo di scrittura di Wikipedia (Arazy, Morgan, Patterson 2006). In particolare è stato evidenziato come i clusters di costrutti latenti individuati statisticamente si riferiscano effettivamente a concetti (alta correlazione tra la quantità degli autori e la quantità delle revisioni; correlazione tra la lunghezza delle pagine di discussione sulle voci e il numero di “edit wars”). Inoltre è stato possibile stabilire una relazione causale tra i parametri Diversità e Qualità (la Diversità è stata stimata sulla base del numero di parole utilizzate nelle discussioni delle voci considerate, oltre che sulla quantità di “edit wars”, definite da Wikipedia come una serie di almeno tre revisioni operate da un autore, inframmezzate da revisioni operate da altri autori, in un tempo di 24 ore) e tra Dimensione e Diversità (la Dimensione è stimata a partire dal numero degli autori di una voce e dal numero totale delle revisioni della stessa). L’affidabilità di Wikipedia è stata da allora considerata un dato di fatto da una componente in crescita della comunità scientifica internazionale. Gli interventi più recenti sul tema si concentrano sulla necessità di sviluppare una pedagogia che favorisca un approccio critico a Wikipedia anche da parte di soggetti non esperti (Paccagnella 2007; Badke 2009). 25 Resta ancora da valutare, comunque, a quale tipo edilizio facesse riferimento la torre bizantino-crociata di Al-Habis, nella valle di Petra. fig. 8 – Il palatium di Langeais (alto) e il donjon di Loches (basso). crociati il donjon sembrerebbe aver influenzato l’architettura palatina islamica di alcuni importanti centri siriani. Bosra, Ajlun e Shayzar26 mostrano nel XIII secolo complessi palatini con sale di rappresentanza soprelevate, sul modello del donjon e contrariamente alla tradizione islamica precedente. Il XIII secolo marca, infine, l’ultima e tarda diffusione del tipo in Irlanda (Sweetman 1999, pp. 89-174) e la coeva diffusione di strutture palaziali castrensi (che recepiscono il tipo donjon?) anche nell’Italia centro-settentrionale, Arcidosso incluso (Nucciotti 2008, pp. 266 e ss.) (fig. 8). 26 Si veda Tonghini et al. 2003, per Shayzar, Tabbaa 1997, p. 91 per Bosra e Yovitchitch 2006 per Ajlun. 524 NOTE E DISCUSSIONI fig. 9 – La White Tower di Londra (sinistra), il donjon di Scalea in Calabria (centro) e la Red Tower in Israele (sinistra). po dei tipi edilizi francese e italiano, nell’XI secolo. Gli edifici appartenenti al tipo più antico (Lorsch, Mayenne, Naranco), a due soli piani, sono quelli più chiaramente attestati in Toscana (Arcidosso, Miranduolo, Pistoia) e nel nord Italia (Genova), come ‘abbreviazione architettonica’ del potere imperiale, con funzione probabilmente legittimante. In Francia il panorama appare complesso. Il donjon propriamente compiuto si formalizza qui e forse più precisamente nell’Anjou (la figura di Folco III Nerra d’Angiò ebbe un ruolo importante), nel primo XI secolo. Tuttavia l’internazionalizzazione del tipo è ulteriormente successiva, la White Tower di Londra è costruita a partire dal 1070, ma non sarà ultimata prima del 1100 (Fernie 2002, pp. 57-59). Cronologia simile mostrano anche i donjons in Italia meridionale e in particolare in Calabria. La Terra Santa ‘riceve’ il tipo nel XII secolo che da qui giunge forse a influenzare parzialmente l’architettura araba di inizio XIII secolo. In Toscana, infine, la grande aristocrazia sembra inizialmente orientata a un accoglimento del tipo palatium. Tra X e XI secolo così fanno i Gherardeschi a Miranduolo (Si) e il vescovo di Pistoia nella propria città (anticipati forse dagli Aldobrandeschi a Lattaia – Gr). Tuttavia, probabilmente a causa della profonda crisi dell’istituzione, dal XII secolo la Marca di Tuscia non riuscirà più a trasmettere tipi edilizi di riferimento alla grande aristocrazia signorile del territorio (a differenza di quanto faranno i Capetingi in Francia). Le torri che da allora movimentano i profili del paesaggio, urbano e rurale della Toscana, sembrano confermarlo. CONCLUSIONI Costruire un palazzo, costruire un paesaggio. L’indagine archeologica sull’edilizia medievale amiatina ha consentito di individuare la presenza di un ‘paesaggio sepolto’ inatteso e fino a ora non documentato, contemporaneo all’ultima grande stagione in cui l’ordinamento amministrativo dell’Impero medievale abbia de facto coinciso con l’ordinamento pubblico dello Stato, in Toscana. Accanto alla rete di abbazie pubbliche (marchionali e imperiali), già note per l’epoca di Ugo (Uetz 2003), è lecito, infatti, immaginare un gruppo di edifici pubblici ‘laici’ sul modello del palatium di Arcidosso, sede degli ufficiali della Marca nei distretti rurali. Il rapporto tra le due serie di edifici, monasteri e palazzi, resta tuttavia largamente oscuro, dato che spesso i primi furono anche usati nel resto d’Europa (e non sappiamo quanto occasionalmente) da funzionari imperiali e marchionali come sedi di governo (Bandmann 1951, p. 202). In ogni caso dalle ricerche condotte sembra plausibile affermare che la Marca di Tuscia, nel X secolo, promosse la costruzione di edifici pubblici sul territorio regionale, facendo uso di tipi edilizi di ascendenza carolingia e ottoniana. La capacità della Marca di esercitare un ruolo di riferimento per l’architettura ‘pubblica’ nella Toscana meridionale sembra inoltre parzialmente continuare ancora per i primi decenni del secolo XI27, che non sono però oggetto di questo contributo (fig. 9). Un tipo edilizio del Medioevo europeo Dallo studio e dalla contestualizzazione storica e tipologica del palatium di Arcidosso e dalle recenti ricerche sulla formazione del donjon, entrambi collegati a prototipi carolingi, pare emergere una divaricazione nello svilup- BIBLIOGRAFIA Andrews D., Pringle D., 1977, Lo scavo dell’area sud del convento di San Silvestro a Genova, «Archeologia Medievale», IV/1977, pp. 47-207. Arazy O., Morgan W., Patterson R., 2006, Wisdom of the Crowds: Decentralized Knowledge Construction in Wikipedia, 16th Annual Workshop on Information Technologies & Systems (WITS) Paper, Milwaukee (USA), available at SSRN: http://ssrn.com/abstract=1025624. Ascheri M., Kurze W. 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