Archeologia Medievale
XXXVII, 2010, pp. 513-527
Michele Nucciotti
Paesaggi dell’Impero nella Toscana del X secolo.
Il palatium di Arcidosso: senso storico di un tipo edilizio europeo
trattazione sarà per questo motivo centrale e tendenzialmente esaustiva in questa sede.
INTRODUZIONE
I paesaggi della Marca
Un punto di vista euro-mediterraneo
Questo articolo si propone di documentare archeologicamente le strategie di manifestazione del potere che
la Marca di Tuscia, tra la seconda metà del X secolo e i
primi decenni del successivo, promosse nelle campagne,
attraverso un uso consapevole e puntuale dell’architettura. L’Amiata, che per tutto il Medioevo rappresentò
uno dei territori rurali toscani maggiormente dotati di
forte fisionomia politica1 fu anche uno dei luoghi elettivi
della realizzazione di questo paesaggio marchionale. Le
vicissitudini del governo di Ottone I e la comparsa del
marchese Ugo di Toscana condussero, infatti, quest’ultimo ad assumere un controllo de facto dell’area Amiatina,
nel periodo di riferimento (Nucciotti 2006. pp. 165168). In seguito a ciò, lo stesso Ugo e il suo successore
Ranieri, sia agendo in prima persona, sia influenzando
con i riferimenti ideologici imperiali (Le Goff 2008)
enti strutturati nel sistema di governo della Marca,
realizzarono sulla montagna una sorta di programma
architettonico attorno a due edifici significativi: il palatium di Arcidosso e la ‘nuova’ chiesa abbaziale di San
Salvatore. Quest’ultima è da oltre un secolo nota alla
storia dell’architettura (Thummler 1988, Giubbolini
1988, Moretti 1990) e da qualche decennio anche alla
letteratura archeologica (Dallai 2003, Nucciotti 2008,
pp. 172-184, Gabbrielli 2008), mentre il palatium2 di
Arcidosso costituisce una recente acquisizione dovuta
allo studio stratigrafico degli edifici amiatini3. La sua
Evidenziando la formazione e i componenti di uno dei
prototipi del paesaggio marchionale di Toscana si è sentita la necessità di allargare il raggio dei possibili confronti
tipologici per il palatium al Continente e all’Oriente
latino, dati i punti di contatto tra l’edificio amiatino e il
donjon franco-normanno (Bandmann 1951, Pringle
1986, Marshall 2002, Fernie 2002). Prendendo in
considerazione gli edifici associabili morfologicamente
con il palatium di Arcidosso, la loro cronologia e i rispettivi ‘proprietari’ (bauherren) si è ipotizzato un archetipo
carolingio comune per entrambi i tipi (donjon e palatium
di Arcidosso) che, per il resto, mantengono vicende indipendenti in Francia-Normandia e nell’Impero, fino al XII
secolo. Donjon e palatium (di Arcidosso), secondo questa
ipotesi, replicherebbero, anche simbolicamente, le salae
o aulae soprelevate carolinge. I due tipi acquisiscono,
tuttavia, funzioni simboliche diverse che ne giustificano
modalità, tempi e luoghi di affermazione per larga parte
indipendenti (v. infra) (fig. 1).
IL PALATIUM DI ARCIDOSSO4
L’edificio
L’edificio più antico tra quelli che compongono il
complesso architettonico della rocca di Arcidosso è una
costruzione di forma grossomodo cubica (Cf 1), con
pianta quadrata e uno sviluppo maggiore in orizzontale
che in elevato. Esso non presenta attualmente alcun
prospetto esterno completamente visibile, per l’appoggio
in epoca successiva di altri corpi di fabbrica o strutture
fortificatorie. La costruzione misura alla base circa
1
Come sede dell’abbazia imperiale di San Salvatore al Monte
Amiata dall’VIII secolo (Kurze 2004) e poi, progressivamente dall’XI
secolo, come sede signorile e comitale degli Aldobrandeschi (Collavini
1998), con la maggiore concentrazione insediativa di tutta la contea
(Ginatempo 1988, pp. 165 e ss.).
2
L’uso del termine “palatium” per l’edificio di Arcidosso non si
basa sulla documentazione coeva, di cui non disponiamo, ma sulla
supposta funzione di luogo di esercizio della giurisdizione, associabile
con la struttura (v. infra per la discussione dei contatti tipologici tra il
palatium di Arcidosso e i palatia di epoca carolingia e ottoniana).
3
Il palatium di Arcidosso è stato individuato a studiato archeologicamente nell’ambito del progetto scientifico dell’ateneo fiorentino:
“Produzione edilizia e gestione del potere nell’Amiata medievale”, da
me diretto con la supervisione scientifica di Guido Vannini e congiuntamente promosso sulla base di un protocollo ratificato tra il Comune di
Arcidosso e l’Università di Firenze, con il contributo di Far Maremma
scrl. Al progetto sono state dedicate 10 campagne di indagine sul campo,
due tesi di dottorato (2005, 2008), una tesi di specializzazione (2010),
due tesi di laurea (2000, 2005) e tre tesi di nuovo ordinamento (2007,
2009). Il progetto amiatino fa parte del “Progetto strategico di Ateneo,
La società feudale mediterranea: profili archeologici” diretto da Guido
Vannini (si ringraziano per i confronti con i contesti comitali guidinghi:
per Modigliana Chiara Molducci, per il Casentino Riccardo Bargiacchi,
per Montaccianico e il Mugello Elisa Pruno e Chiara Marcotulli, per
Calenzano Laura Torsellini) e nel suo ambito è stato elaborato l’Atlante
dell’Edilizia Medievale (Nucciotti 2009) all’interno del quale sono stati
condotti confronti con contesti edilizi medievali della Toscana meridionale: per l’Amiata grossetano a cura di Marianna De Falco, per le Colline
del Fiora a cura di di Francesca Cheli. I confronti con l’area Montalbano/Pistoia, nel quadro dei progetti di ricerca promossi della Cattedra di
Archeologia Medievale fiorentina sono dovuti a Silvia Leporatti (Pistoia)
e a Lapo Somigli (Montalbano). I confronti con le architetture di area
mediterranea indagate dalla Missione Archeologica dell’Università di
Firenze “Petra ‘medievale’, archeologia degli insediamenti di epoca crociato-ayyubide in Transgiordania” sono dovuti a Guido Vannini.
4
La descrizione del palazzo proposta è una sintesi aggiornata
dell’analisi di dettaglio in Nucciotti 2008, pp. 97-156.
513
NOTE E DISCUSSIONI
fig. 1 – Carta dei siti citati nel testo.
12×12 m per una elevazione originaria, stimabile dal
prospetto sud-est, di poco superiore ai 9 m. Le mura
portanti presentano una sezione ampia, variabile tra 155
e 180 cm. L’interno risulta attualmente suddiviso rispettivamente in 2 ambienti al piano terreno e in 3 ambienti
al piano alzato, ma si tratta di un’organizzazione spaziale
successiva all’impianto. La superficie utile è di circa 77
m² per ogni livello, per un totale di 154 m² di superficie
abitabile sui due piani. Gli interventi di restauro e rifunzionalizzazione databili all’età moderna (Nanni 1999,
pp. 204 ss.) hanno condotto alla sostituzione del solaio
ligneo tra piano terra e primo piano con una copertura
a doppia volta a botte in muratura, che rende pressoché
impossibile comprendere le modalità dell’eventuale collegamento interno tra i due livelli all’epoca del primo
impianto. L’edificio non presenta sui prospetti a vista alcuna traccia di decorazione architettonica e la superficie
muraria appare scandita dalle sole aperture, tutte tranne
una osservabili solamente sui prospetti interni.
Al piano terreno si aprivano 3+1 monofore (usm 1120,
1229, 1336+1017), attualmente tamponate, una al centro
di ogni lato. Dalla strombatura si doveva trattare di tre
feritoie più, forse, un portalino, sul prospetto nord-ovest.
In corrispondenza dell’attuale accesso al locale sono visibili dall’interno i due conci d’arco e un concio di imposta
pertinenti alla quarta apertura in fase con la muratura
(usm 1017). L’ipotesi che si tratti di una piccola porta, invece che di una quarta feritoia, poggia sul posizionamento
della ghiera d’arco, stimato sulla base dei conci superstiti,
che si verrebbe a trovare circa 40 cm più in basso delle
ghiere delle due monofore ‘complete’ (usm 1120 e 1229).
La presenza di un portalino al piano terreno è comunque
conciliabile, quantomeno prima del XII secolo, con le
necessità di un edificio fortificato. Le dimensioni massime
ipotizzabili per tale apertura, ca. 50×195 cm, avrebbero,
infatti, consentito l’accesso, e con qualche difficoltà, a
una sola persona alla volta. Il portalino garantiva inoltre
una più efficiente articolazione della mobilità interno/esterno, svincolandola dalla sola entrata principale,
collocata al piano superiore. Va inoltre considerato che
anche il principale confronto italiano per il tipo edilizio
del palazzo di Arcidosso, ovvero il “palatium castri” di
Genova (Cagnana 1997, pp. 82-92), presenta aperture
al piano terreno, così come il palazzo asturiano di Santa
Maria di Naranco, un altro importante antecedente di IX
secolo del tipo edilizio (Early 2002, p. 253). Sullo stesso
prospetto, a sinistra del portalino dall’interno, si trova
una nicchia delimitata da un’archeggiatura irregolare ad
andamento triangolare (usm 1007) che, considerando il
primo livello d’uso coincidente con il limite superiore
delle fondazioni, si doveva trovare a livello del piano di
calpestio, nell’ipotetico assetto originario. La nicchia dà
accesso a una breve canalizzazione ‘inginocchiata’, con
un andamento longitudinale ‘a zeta schiacciata’, a sezione
rettangolare. Impossibile al momento dire se la sua funzione fosse l’evacuazione di reflui per mantenere asciutto
il piano terreno, oppure se si trattasse del terminale di un
sistema di captazione per un invaso, dato che la cisterna
bassomedievale del castello sarà realizzata quasi in linea
con il foro di uscita della canalizzazione.
Al piano superiore monofore-feritoie si aprivano al
centro del prospetto nord-est (usm 707, 731, 732) e probabilmente dei prospetti sud-ovest e nord-ovest, sebbene
in questo caso gli interventi successivi non permettano un
accertamento stratigrafico. Il prospetto sud-est, invece,
presenta al centro della parete una grande apertura ad
arco ribassato (usm 602, 609) con una luce interna di
142×256 cm (l’altezza originale è stata modificata nel
514
NOTE E DISCUSSIONI
fig. 2 – Arcidosso (Gr). Le murature del palatium sono visibili, all’esterno, al primo piano della Rocca aldobrandesca (a sinistra).
Si noti la discreta leggibilità del portale soprelevato, oggi la finestra centrale del primo piano, che originariamente era affiancato
da due monofore (al centro – rielaborazione da Nanni 1999). A destra la facciata a due torri dell’abbazia di San Salvatore al
Monte Amiata (Abbadia San Salvatore – Si).
XIX secolo per l’inserimento di una nuova finestra) e
una esterna di 111×235 cm (usm 458), priva di mazzette
interne nei montanti. A sinistra della grande apertura (osservandola dall’interno), a una distanza di circa 230 cm
si apriva una feritoia simile alle altre dello stesso piano
e del piano inferiore, di cui si conserva attualmente solo
l’attacco dell’archeggiatura e un lacerto dello stipite destro (usm 608 e 606), e sembra possibile, per la simmetria
osservabile nella disposizione delle aperture dell’edificio,
che una seconda feritoia potesse trovarsi anche sulla
destra della grande apertura centrale, dove la muratura è
stata asportata per l’inserimento o la sostituzione di una
finestra (usm 459). L’accesso principale all’edificio avveniva quindi dal piano alzato, probabilmente attraverso
un ballatoio ligneo servito da una scala che permetteva
di salire dall’esterno del piano terreno (fig. 2).
più consistente sono invece generalmente meglio orizzontate, sebbene anche in quel caso il paramento presenti
occasionali sovrapposizioni dei conci lungo direttrici non
orizzontali o talvolta arcuate. Nello spiccato in peperino
l’evidenza di azioni di livellamento è piuttosto limitata,
anche se significativa, con orizzontamenti meno curati
nei prospetti 8 e 9 e più regolari nel 7 e nel 10. Il primo
orizzontamento di qualche rilevanza è relativo alla messa
in opera delle due monofore sui prospetti pp8 e pp9. Anche in questo caso però, secondo un uso che sarà tipico
in tutto il processo di edificazione, non viene creato un
vero e proprio piano di livello (tranne v. infra Or35) a cui
si adeguano tutti i ‘blocchi costruttivi’6. La linea di livellamento coincide cioè solo occasionalmente con il limite
delle unità stratigrafiche, quasi a seguire un procedimento
di ‘minimo sforzo’ che organizza, volta per volta, il lavoro,
armonizzando secondo gli orizzontamenti soltanto i blocchi costruttivi immediatamente interessati dalle operazioni
non di routine, generalmente quelli più vicini ai punti di
inserimento delle aperture. Il prospetto 7 invece presenta
una scansione di orizzontamenti più regolari e autonomi,
alle quote inferiori. La serie di tre livellamenti (collettivamente Or2) relativa al prospetto è un ulteriore indizio a
favore della presenza del portalino. La tendenza a organizzare il cantiere in funzione degli elementi architettonici
da inserire nella muratura, già individuata in relazione alla
posa delle due monofore, potrebbe infatti essere la chiave
per comprendere la costruzione in questo punto. La totale
indipendenza della sequenza costruttiva del pp7 rispetto
Il cantiere
L’analisi stratigrafica adottata nello studio del palatium
è stata indirizzata all’individuazione di elementi microstratigrafici che potessero permettere una comprensione delle
principali dinamiche del cantiere edilizio, a questo scopo
sono stati raccolti dati indicativi del modus operandi dei
costruttori nelle varie fasi del lavoro. In particolare sono
emerse informazioni relative ai procedimenti di orizzontamento, alle modalità di avanzamento del cantiere e alle
infrastrutture di impalcatura della fabbrica medievale.
Per quanto riguarda il primo punto, ovvero i procedimenti di orizzontamento, gli esecutori non sembrano
aver tenuto costantemente sotto controllo tale aspetto.
La mancanza di orizzontamenti è un carattere comune
a tutte le murature in arenaria della fondazione e in misura minore anche di quelle del completamento, al limite
superiore dell’edificio. Le murature della fase costruttiva
5
Gli orizzontamenti individuati verranno indicati con il prefisso
“Or” seguito dal numero identificativo dell’orizzontamento discusso.
6
Sono state denominate “blocchi costruttivi” le unità stratigrafiche
di cantiere.
515
NOTE E DISCUSSIONI
fig. 3 – Analisi stratigrafica del palatium di Arcidosso. Sezioni interne e orizzontamenti principali (a destra).
alle altre pareti indica inoltre che le due angolate relative
(est e sud) fossero già state realizzate fino a una certa quota
prima dell’innalzamento del prospetto. Un procedimento
già osservato nell’edilizia della piena età ‘romanica’ (es.
il caso di Monsummano Alto in Nucciotti, Vannini
2003). Il terzo orizzontamento del piano terra, l’ultimo
visibile al di sotto delle volte di copertura, differisce dai
precedenti in quanto viene grossomodo rispettato su tutti
i prospetti. Ancora una volta la sua posizione coincide con
una delle tappe di realizzazione delle aperture, in questo
caso il piano di posa degli archi, dei prospetti 7, 8 e 9.
Or3 segna infatti il limite superiore di 9 usm distribuite nei
prospetti interni e di 3 nell’unico prospetto esterno visibile
a questo livello. È possibile che un limite così regolare
venisse raggiunto in una particolare fase di avanzamento
del cantiere, forse in vista di una interruzione temporanea
del lavoro. A questo livello, infatti, l’edificio era ormai
delineato nei suoi volumi e, per quanto riguarda il primo
piano, anche planimetricamente. Presentava un accesso e
quattro finestre praticamente realizzate e poteva verosimilmente essere coperto (e parzialmente utilizzato?) durante
la cattiva stagione, in cui il cantiere doveva sicuramente
interrompere il proprio lavoro7.
Tralasciando i dettagli di altri orizzontamenti, che
mostrano dinamiche simili a quelle osservate nel piano
terreno, l’ultimo orizzontamento rilevante è Or10, posto alla quota dell’estradosso della porta monumentale
superiore, e che viene generalmente rispettato su tutti i
prospetti interni ed esterni. A cavallo tra gli orizzontamenti 9 e 10 avviene la transizione dal tipo murario 1A
al tipo 1B (v. infra), in continuità delle operazioni di cantiere. La sostituzione di un tipo di apparecchiatura con
l’altro (in realtà entrambi varianti dello stesso tipo), che
a partire dall’orizzontamento 10 si generalizza su tutti
i prospetti visibili, si avvia già sul prospetto 2/13, dove
le nuove maestranze sembrano per un periodo lavorare
contemporaneamente alle precedenti. Un avvicendamento graduale, attraverso un periodo di affiancamento e
collaborazione delle due équipes. Tra gli orizzontamenti
9 e 10 compare, infatti, per la prima volta il nuovo modo
di costruire recentemente introdotto, sebbene in questa
fase l’organizzazione del cantiere resti quella impostata
precedentemente. In un secondo momento infine le nuove
maestranze affermano non più solamente un diverso tipo
murario ma anche una diversa organizzazione del lavoro,
con l’abbandono dell’esecuzione differenziata di angolate
e paramenti e la scomparsa dei “blocchi costruttivi”,
sostituiti da corsi continui che corrono lungo tutto il
perimetro visibile dell’edificio.
Per quanto riguarda le strutture temporanee del cantiere, lo studio ha fornito alcuni indizi sul ponteggio del
7
Le malte a base di calce non possono, infatti, essere utilizzate
a temperature inferiori ai 5°, una soglia inconciliabile con il clima
invernale di Arcidosso, posto a circa 650 m slm e prossimo alla vetta
dell’Amiata (1738 m slm).
516
NOTE E DISCUSSIONI
poligonali tendenti frequentemente al rettangolare/quadrato. Gli elementi sono disposti su corsi sub orizzontali
(raramente non paralleli) e di norma per orizzontale con
rari elementi in verticale. Le angolate sono gerarchizzate
con materiale dalla forma più regolare e sommariamente
squadrato (soprattutto al piano alzato esterno). Giunti
e letti sono cospicui e abbastanza regolari, mancano
come già illustrato corsi di orizzontamento in muratura
e il paramento presenta una complessa serie di piani di
livellamento. La presenza di giunti di attesa quasi esclusivamente verticali (da 3 a 6 corsi) potrebbe indicare che
nella messa in opera di alcuni blocchi costruttivi siano
state impiegate armature lignee laterali per contenere il
sacco nel periodo di indurimento iniziale. Estensivo appare infine l’uso di regolarizzare la superficie dei blocchi
con una punta piuttosto grossolana, usata in modalità
corrente, i cui segni sono variamente orientati ma tendono generalmente ad essere paralleli al lato verticale
del concio o comunque mai allineati con le diagonali
dello stesso. Le tracce dello strumento presentano un
diametro di 4-5 mm e una profondità di 7 mm. I tratti
sono lunghi tendenzialmente 10 cm e distanziati 2-3 cm
l’uno dall’altro10.
È molto probabile che i costruttori fossero direttamente (come gruppo o in prima persona) impegnati nei lavori
sia di cava sia di sbozzatura11, come sembra indicare la
modalità di avvicendamento tra le maestranze del tipo
1A e quelle del tipo 1B. A lavori non ultimati si assiste,
infatti, all’introduzione di innovazioni sia nella tecnica
muraria, sia nella morfologia degli elementi impiegati. Il
tipo 1B, sebbene analogo all’1A per l’impiego di pietrame
sbozzato e finito a punta, si distingue da esso sia per la
posa in opera, sia per la forma dei blocchi utilizzati. La
muratura di tipo 1B presenta, infatti, corsi ondulati,
senza sdoppiamenti, di elementi sbozzati di peperino
dalle forme e dimensioni molto variabili. A differenza
del tipo 1A abbondano in 1B i blocchi sub-quadrati e
quelli disposti in verticale (circa il 35%), entrambi con
dimensioni mediamente superiori in altezza a quelle di 1A
(fino a 44-50 cm); viene inoltre abbandonato il sistema
di muratura per blocchi costruttivi che aveva caratterizzato fino alla quota di Vor10 la fabbrica del palatium.
L’arrivo di altri magistri coincide cioè con l’affermarsi
di un nuovo modo di murare e lavorare il materiale da
costruzione, che cambia forma e dimensioni, suffragando
l’ipotesi di un intervento diretto di entrambi i gruppi di
costruttori del palatium nell’attività di cava, sbozzatura
e muratura.
Per concludere quindi sugli aspetti propriamente produttivi inerenti alla costruzione del palatium, l’opera fu
realizzata con l’intervento di maestranze specializzate, il
palatium. Sebbene si tratti, anche in questo caso, di tracce
piuttosto labili, la cui lettura è talvolta compromessa
dagli episodi costruttivi basso e post medievali e dal restauro di giunti e letti di posa, alcuni elementi emergono
con chiarezza, soprattutto sul sistema di collegamento
tra i vari livelli del ponteggio. Un percorso inclinato
correva lungo il perimetro interno dell’ambiente, in successione su tutti i prospetti, e seguendo più o meno una
inclinazione di 13° poteva raggiungere il piano alzato
in corrispondenza delle buche pontaie usm 752 e 785.
Oltre alla piattaforma inclinata restano tracce di ponteggi
mobili collegati forse da scale. Entrambe le soluzioni sono
documentate nell’iconografia basso e tardo medievale
(Baragli 1998) e forse indice di una gerarchizzazione
dei collegamenti con una piattaforma inclinata per i
carichi pesanti, blocchi e materiali del sacco, e le scale
per il sollevamento della calce (fig. 3).
Le tecniche murarie
Il palatium è stato costruito sulla sommità del colle
di arenaria giallo/marrone su cui si è sviluppato, tra XIXII e XIV secolo, il villaggio fortificato di Arcidosso. In
particolare il palazzo si situa al limite sud occidentale di
un microrilievo che si innalza per circa 4 m al di sopra
della quota della piazza di castello, e che dovette costituire il primo perimetro del castellum citato nel 1121
(CDA: II, n. 333), topograficamente coincidente con
l’area occupata dal cassero bassomedievale. Il primo approvvigionamento del materiale da costruzione avvenne
sicuramente sul posto, dato che l’arenaria della roccia di
base è la stessa utilizzata per la fondazione della struttura. La muratura (indicata come tipo 58) è composta
da blocchi di arenaria spaccati di medie dimensioni (h
14-20 cm; l 25-40 cm) organizzati su corsi sub-orizzontali piuttosto irregolari e normalmente non paralleli.
Assieme al materiale di medie dimensioni compaiono
inoltre elementi lamellari e occasionalmente poligonali
a regolarizzare porzioni dei corsi di posa. Già questo
tipo murario presenta una messa in opera per blocchi
costruttivi, con giunti di attesa tendenzialmente verticali
e solo raramente inclinati a circa 45°.
Al di sopra della fondazione l’edificio fu realizzato
in peperino locale, materiale trachitico disponibile a
qualche chilometro di distanza dal sito. Con l’edificazione del palatium si assiste al primo esempio di questo
trasferimento di materiale da costruzione dai banchi di
deposizione a un sito di cantiere ‘distante’ che costituirà
un fortunato precedente nella tradizione edilizia di molti
centri amiatini, incluso Arcidosso, per tutto il Medioevo
e anche oltre. Il peperino venne inizialmente lavorato
(tipo 1A; fino a Or10) in blocchi sbozzati di dimensioni
piuttosto variabili (h 20-30 cm; l 20-60 cm)9, con facce
10
Era stato inizialmente ipotizzato che si trattasse di segni di rilavorazione recenti. Pur non escludendo del tutto tale ipotesi, tuttavia
non sono stati osservati segni che continuano su blocchi contigui e
la presenza costante della finitura in tutta l’apparecchiatura muraria
(interna ed esterna) depone a favore di una regolarizzazione precedente
alla messa in opera.
11
Una specializzazione distinta dei due gruppi, causata probabilmente dal fortissimo sviluppo del settore edilizio medievale in area
Amiatina, è stato evidenziato nel Trecento dallo studio archeologico
murario del vicino centro comitale aldobrandesco di Santa Fiora
(Nucciotti 2000).
Data la diversità di materiale, lavorazione e messa in opera rispetto alla muratura dell’elevato (tipo 1A) si è preferito distinguerla da
quest’ultima. Si noti inoltre che le dimensioni della sezione del muro
non presentano, né all’interno, né all’esterno, alcun ingrossamento in
corrispondenza di questa muratura che, pur costituendo sicuramente
parte integrante della fondazione, presenta altresì caratteri compatibili
con un suo utilizzo anche in elevato.
9
Per una contestualizzazione delle murature di Arcidosso nel panorama toscano si veda la recente importante della sintesi pubblicata
da G. Bianchi (Bianchi 2008).
8
517
NOTE E DISCUSSIONI
del palatium amiatino sono tuttavia osservabili con i
contesti di IX secolo di Donoratico (Li), dove compaiono murature in bozze organizzate su corsi non sempre
regolari, piuttosto simili a quelle del manufatto di Arcidosso (Bianchi 2008). Similitudini tra la tecnologia di
preparazione degli elementi murari e forse anche a livello
planimetrico, ancora in area maremmana, possono essere inferite anche per la turris aldobrandesca di Lattaia
(Gr), documentata in uso nel X secolo e, purtroppo,
non ancora indagata archeologicamente (Farinelli
2007, p. 122 e scheda). Analogie relative alla geometria
e alla tecnologia edilizia delle aperture del palatium di
Arcidosso sono riscontrabili nelle archeggiature di X
secolo della base del campanile della Badia Fiorentina
(per l’apertura principale – Uetz 2003, pp. 24-40) e nelle
monofore originali del campanile di Santa Maria Maggiore, ancora a Firenze (in corso di studio dallo scrivente;
un inquadramento storico-archeologico in Forcucci et
al. 2004, Scampoli 2008, pp. 264-266). In relazione al
tipo edilizio, in Italia settentrionale si registra la recente
scoperta di un palatium analogo a quello amiatino in
provincia di Udine, a Broili presso Tolmezzo, datato al
X secolo (Cagnana et al. 2006, Cagnana 2007), di cui
si conserva il piano terreno connesso a un elevato di
oltre 3 m. Ancora nel nord Italia infine, un altro edificio
confrontabile con quello amiatino è il “palatium castri”
della sede vescovile di San Silvestro a Genova. Analogamente al palatium di Arcidosso anche l’edificio ligure
presenta una pianta quadrata e uno sviluppo a due piani,
con accesso principale al piano alzato (lì servito da una
scala in muratura) e accesso secondario al piano terreno,
differenziato per funzione. Durante i primi interventi
archeologici sul sito l’edificio venne datato tra la fine del
X e i primi anni dell’XI secolo, sia sulla base della stratigrafia (è anteriore rispetto a un interro di XII secolo), sia
su quella di una prima contestualizzazione cronologica
della muratura (Andrews, Pringle 1977). Le indagini
più recenti, condotte da Aurora Cagnana, hanno invece
considerato tale datazione troppo alta (ancora) sulla base
della cronotipologia aggiornata delle murature storiche
genovesi, e hanno proposto la seconda metà dell’XI secolo come probabile epoca di realizzazione del manufatto
(Cagnana 1997). Questa seconda datazione pone qualche problema nell’identificazione del riferimento tipologico dell’edificio genovese come palatium piuttosto che
come donjon franco-normanno, che alla fine del secolo
XI è già attestato positivamente nel sud Italia (Donato
2004). L’appartenenza di Genova alle terre dell’Impero
e la sua tradizione come centro amministrativo marchionale contestualizzerebbero comunque, a mio parere in
modo più congruo, il “palatium castri” nell’alveo culturale imperiale come palatium; considerando anche che il
donjon ancora per tutto il secolo XI resta un tipo edilizio
in formazione, per lo meno in ambiente normanno. Ad
esempio, la White Tower di Guglielmo il Conquistatore,
a Londra, non viene completata prima del XII secolo14.
lavoro durò probabilmente circa un anno12 e vide l’avvicendamento di due equipes, la seconda delle quali intervenne poco prima del completamento dell’opera. L’impianto del cantiere infine si valse di almeno due bacini
di cava per la preparazione dei materiali da costruzione,
arenaria e peperino, con la maggior parte del materiale
dei paramenti estratto a una certa distanza dal sito e ad
esso probabilmente collegato dalla rete viaria pubblica
(Pruno 2008). Resta da chiarire chi fosse il committente
di questa opera, ovvero chi potesse e volesse costruire
sull’Amiata un simile edificio e se e quanto ciò sia stato
effettivamente possibile nel X, quando un palatium come
quello di Arcidosso avrebbe costituito una realizzazione
di prestigio nel contesto dell’edilizia regionale e comunque notevole in quella dell’intero Regnum.
IL CONTESTO TIPOLOGICO ITALIANO
E IL CONTESTO GEOPOLITICO LOCALE:
UN PALATIUM MARCHIONALE DEL SECOLO X
I confronti tipologici. La datazione del manufatto
si basa rispettivamente sulla stratigrafia del complesso
architettonico della Rocca di Arcidosso e sui confronti,
in positivo e in negativo, della tecnica muraria e del tipo
edilizio. Dal punto di vista stratigrafico il palatium (cf
1) precede la torre maestra della rocca (cf 2), databile
al XII secolo, che presenta una muratura analoga ai
tipi T1 e T3 delle torri della roccaccia di Selvena – Gr
(Citter 2001, p. 204) – e al tipo 3Aa della coeva torre
maestra di Santa Fiora – Gr (Nucciotti 2000, p. 81).
Per quanto attiene alla tecnologia muraria non sono state
individuate al momento altre murature di X secolo con
cui istituire confronti diretti in area amiatina, dove sono
state, invece, ben documentate murature di XI secolo,
che presentano caratteristiche diverse dai tipi murari
del palatium13. Analogie tecnologiche con la muratura
12
L’innalzamento della muratura, seppure differenziale, appare
scandito da una serie ‘principale’ di cinque orizzontamenti (Or 1, 3, 5,
6, 8 – di cui 1, 3 e 8 ben visibili all’interno) distanziati di circa un metro
l’uno dall’altro. Ognuno di questi ‘stralci’ realizza complessivamente
una superficie di 80 m² di paramento (circa 32 m² all’interno e 48 m²
all’esterno) il cui volume, ipotizzando una media di 30 cm di profondità
per i conci, si aggira attorno ai 24 m³, per un peso complessivo di 48
tonnellate di pietra (calcolando 2g/cm³ di peso specifico del peperino).
Se consideriamo un trasporto di 800 kg di materiale per ogni carico
di pietre proveniente dalla cava il risultato è che per ogni stralcio di
avanzamento servirono circa 60 trasporti. Questo dato, assieme a
quello più sopra ricordato dell’uso di 10-15 blocchi costruttivi per
completare ogni ‘giro’ della costruzione, e della necessità di 2 di tali
‘giri’ per formare uno stralcio delimitato da un piano di livello della
serie principale consente di stimare un trasporto di due carichi di pietre
da 800 kg al giorno e un tempo di realizzazione di circa un mese (60
carichi) per ogni intervallo (1 m) tra due orizzontamenti successivi della
serie principale. Fino al livello dell’orizzontamento Or 10 l’attività
propriamente costruttiva dovrebbe quindi essersi protratta per circa 7
mesi (inclusa la fondazione) in cantiere. A questo periodo va aggiunto
il tempo necessario alla preparazione del materiale da murare.
13
Si veda ad esempio la muratura comunemente attestata nell’aula
di San Salvatore al Monte Amiata, la cui collocazione cronologica è sicuramente risalente all’abbaziato di Winizo e agli anni immediatamente
precedenti alla consacrazione del 1035 (Gibert Tarruell 1989). Il tipo
murario caratteristico di quella fase si segnala per la messa in opera
di materiale di grandi dimensioni, spianato ad ascia e sagomato con
facce quadrangolari frequentemente parallelogramme o trapezoidali. La
stessa muratura è caratterizzata dall’impiego di diàtoni o semidiàtoni
che configurano la ripresa volontaria di modelli antichi, con maestranze
di possibile tradizione laziale (Nucciotti 2008, pp. 172-183).
14
La struttura, eretta per volontà di Guglielmo il Conquistatore, viene
documentata come completa solo all’inizio del XII secolo (Keevill 2000,
pp. 92-99, 120-125). L’edificio si mostra come un palazzo dallo sviluppo
verticale, in cui le componenti pubbliche della sala e della cappella palatina
sono fuse in un solo complesso architettonico, sebbene planimetricamente
separate. La chiesa di San Giovanni, infatti, occupa un’intera porzione
518
NOTE E DISCUSSIONI
fig. 4 – Tipi murari del palatium di Arcidosso 1B (a), 1A (b), 5 (c); Campione di muratura della turris aldobrandesca di Lattaia (d);
Campione di muratura dal basamento del campanile della Badia Fiorentina (e); Campione di muratura dalla chiesa del Castello
di Donoratico (f). Tipi edilizi palatini: ricostruzione assonometrica della prima fase del palatium castri di San Silvestro a Genova
(g); Pianta (h) e dettaglio (i) del palatium di Broili (Tolmezzo). Immagini tratte da Uetz 2003 (e), Bianchi 2008 (f), Cagnana
2007 (g). Le immagini “h” e “i” sono pubblicate per gentile concessione di A. Cagnana.
‘politica dell’equilibrio’ (Pauler 1982). Su chi potesse avvantaggiarsi di questa situazione le opinioni degli storici
sono state discordanti. Da un lato Wilhelm Kurze proponeva che fossero stati gli Aldobrandeschi a beneficiare della
estromissione abbaziale a ovest della montagna (Kurze
1988), dall’altro Simone Collavini, qualche anno più tardi
(Collavini 1998, p. 79 e ss.) escludeva questa possibilità,
dato che i ‘principi’ maremmani furono piuttosto malvisti
negli ambienti di corte ottoniani. Si potrebbe aggiungere,
infine, che proprio tra il 964 e il 996 si sviluppa un solido
partenariato tra San Salvatore e gli Aldobrandeschi, come
dimostra una nota transazione simulata che, tra il 973 e il
989 (CDA: II, nn. 203, 206), trasferisce e successivamente
retrocede, dai conti all’abbazia, una vasta congerie di
diritti e beni immobili localizzati in Toscana e nel nord
Italia. I due poteri storici del territorio mostrano quindi,
in età ottoniana, due crisi parallele e indipendenti che
sono forse responsabili del deciso avvicinamento politico
documentato dalle fonti scritte. Infine, l’unico ente per cui
è concordemente accettato un progresso in area amiatina
nel X secolo sembrerebbe esser stato l’episcopato chiusino
che, nell’XI e XII secolo, controlla i castelli di Potentino
e Montegiovi (quest’ultimo in comproprietà con l’abate
di Sant’Antimo – Wickham 1989, p. 108 ss.), oltre a una
rete di pievi episcopali inserite in aree tradizionalmente
controllate da San Salvatore (Ronzani 1989, pp. 145 ss.).
Tuttavia, dal punto di vista politico, il vescovo di Chiusi
non fu mai così attivo da costituire una vera minaccia né
per l’abbazia né, tanto meno, per gli Aldobrandeschi. La
soluzione più probabile di questa equazione a molte incognite sembra essere un’altra: l’attività di Ugo di Tuscia nella
Toscana meridionale e l’assunzione diretta del governo
Per concludere sui confronti tipologici e tecnologici tutte
le evidenze archeologiche individuate sono databili entro
una forbice compresa tra il IX (Donoratico) e l’XI secolo
(“palatium castri” di Genova), con una concentrazione
attorno al secolo X che meglio si presta, anche sotto il
profilo storico, a motivare l’edificazione del palatium di
Arcidosso (fig. 4).
Il contesto geopolitico
Un ulteriore elemento a suffragio della datazione al X
secolo del palatium amiatino è provvisto dall’analisi del
contesto politico di quel periodo, la cui seconda metà fu,
per l’Amiata occidentale, un tempo di grandi cambiamenti.
Fino a quel momento, infatti, l’unico ente investito stabilmente del ruolo di rappresentante del potere pubblico
nell’area era stato San Salvatore al monte Amiata. Sorta
sullo scorcio dell’ultimo regno longobardo, l’abbazia era
stata ampiamente privilegiata dai sovrani carolingi che
avevano garantito all’ente il controllo della montagna,
dalle sue pendici occidentali, alla Francigena a est. Ottone
I, però, mutò de iure la geografia del patrimonio di San Salvatore nel 964 (CDA: II, n. 202), privando il monastero dei
beni nell’Amiata occidentale e assegnandogli, in cambio,
diritti e concessioni lungo la Francigena, nel tentativo di
promuovere anche nella Toscana meridionale la cosiddetta
dell’edificio, con l’aula accessibile dal primo piano e il cui doppio volume
si estende al piano superiore. La chiesa inoltre occupa anche le planimetrie
inferiori, quelle rispettivamente del piano di accesso e del piano terra, con
la doppia cripta. Nella White Tower quindi la cappella palatina viene inglobata strutturalmente nel palazzo ma mantiene una propria autonomia
spaziale nel contesto del complesso architettonico.
519
NOTE E DISCUSSIONI
fig. 5 – La viabilità
pubblica sul Monte
Amiata attorno al
X secolo.
dell’Amiata occidentale da parte della Marca. Gli studi più
recenti sul “gran barone” confermano infatti un crescente
interesse del marchese per la Toscana meridionale a partire
dagli anni ’80 del secolo (Puglia 1999, p. 18), quando a
Ugo venne affidato anche il ducato di Spoleto. Gli indizi a
supporto di questa tesi sono piuttosto rilevanti. Il Marchese
opera direttamente dal comitato di Sovana sullo scorcio
del X secolo15 e nello stesso territorio invia almeno un
comes, tale Uberto, che rende giustizia per due volte, nel
991, all’abbazia di San Salvatore (CDA: II, nn. 207, 208).
La Marca quindi opera direttamente, attraverso i suoi
funzionari, dal cuore di uno degli appannaggi tradizionali
aldobrandeschi che, per contro, emanano, negli stessi anni,
gli atti amministrativi di maggior rilievo dal comitatus di
Roselle (dove si trova anche la “turris” di Lattaia), su cui
sembrano momentaneamente ripiegare. Più in particolare,
per quanto riguarda l’Amiata, formalmente inserito nel
comitato di Chiusi, si segnala nella stessa epoca la mancata
attestazione di titolari del comitato chiusino (Spicciani
1996, 43 ss.) e la contemporanea attestazione di un «Venerandus vicecomes de Monte Amiato» come sottoscrit-
tore di una donazione di Ugo di Tuscia al monastero del
Santo Sepolcro di Acquapendente (Vt – sulla Francigena)
del 29 ottobre 993 che, dalla titolatura e dall’occasione
della citazione non può essere altri che un funzionario
marchionale (Puglia 1999, 19n16). Si consideri inoltre che
negli stessi anni, nella prima delle due notitiae placiti del
conte Uberto, del 991 (CDA: II, n. 207), compare un certo
«Betjo de Monte Amiato», una allocuzione topografica del
tutto inusuale nel resto della documentazione medievale
superstite che, proprio in quegli anni, avrebbe potuto fare
riferimento a un contesto amministrativo ben delineato,
con tutta probabilità un vicecomitatus amiatino, all’interno
del comitato di Chiusi. La coincidenza tra attestazioni documentarie e comparsa del palatium sembra francamente
troppo sospetta per essere casuale. Il palatium dovrebbe
quindi esser stato edificato per volontà di Ugo di Tuscia
nel quadro della ridefinizione delle forme di controllo
esercitate dalla Marca in area amiatina e sovanese ed esser
stato la sede di un ufficiale pubblico di rango vicecomitale oltre che, occasionalmente, di comites marchionali
16
Martene et Durant, I, col. 349. Anche in considerazione della
mancanza di una moderna edizione del documento, secondo Andrea
Puglia, Wilhelm Kurze avrebbe dubitato della sua autenticità. Sulla questione Andrea Puglia rimanda a Kurze 1969, p. 280. L’indicazione non
trova riscontro nella ripubblicazione dell’articolo tradotto in italiano
in Kurze 1989b. Non ho, infine, trovato la obiezione sull’autenticità
del documento in Puglia 2003, che costituisce un aggiornamento
rispetto a Puglia 1999. In attesa di ulteriori riscontri sono quindi
propenso a considerare affidabile la citazione del vicecomes amiatino,
anche in considerazione dell’occorrenza di un’analoga indicazione di
provenienza «de Monte Amiato» in un documento coevo ricollegabile
all’ambiente marchionale (CDA: II, n. 207, del 991 – cfr. testo).
Ugo intervenne nel 995 a sostegno dell’abbazia amiatina quando,
dalla località di Marta, in territorio sovanese, rilascia, il 25 dicembre,
un’ampia donazione concernente beni posti in comitato chiusino tra
cui la sua casa e corte di Bagno (San Casciano dei Bagni), con la chiesa
lì edificata e il “burgus” di “Rota Cardusa” (alias Burgorico in val di
Paglia), con le chiese ivi ubicate (CDA II, n. 211). Secondo l’uso invalso
nelle concessioni di beni fiscali la disposizione contiene la proibizione
di alienare i beni donati tramite vendite, livelli e permute. Ugo si riservò
inoltre, per tutta la durata della propria vita, la potestas sui beni oggetto
della donazione, i quali dopo la morte del marchese dovevano pervenire
iure proprietario al monastero (Puglia 1999, p. 17).
15
520
NOTE E DISCUSSIONI
e dello stesso marchese. La localizzazione ad Arcidosso
consentiva a Ugo di controllare uno snodo fondamentale
della viabilità regionale verso Roma, situato in posizione
baricentrica nella viabilità nord-sud tra Castiglion d’Orcia
(sulla Francigena) e i collegamenti con l’Aurelia (attraverso
la viabilità ‘longobarda’ tra Triana e Scansano) e con la
Clodia (in territorio sovanese). Lo stesso asse viario sarà
una delle infrastrutture nevralgiche della futura contea
aldobrandesca17 di XII-XIV secolo (fig. 5).
FORMAZIONE, STORIA ED ESITI DI UN TIPO
EDILIZIO: AULA, SALA E DONJON
TRA VIII E XII SECOLO
Il senso storico di una presenza
Nel 1951 Günter Bandmann sosteneva, nel volume
dedicato all’architettura dell’inizio del Medioevo «come
portatrice di significato»18 che, facendo ricorso all’evoluzione stilistico-formale, la comparsa dei tipi in architettura
veniva di fatto svincolata dal contesto storico. La necessità di reintrodurre il senso storico e l’agency individuale
dei bauherren (committenti/proprietari/costruttori) nel
processo di selezione dei modelli architettonici condusse
Bandmann a utilizzare il metodo storico per comprendere i contesti di formazione e le modalità di ricezione
dell’architettura, principalmente di quelle palatina ed
ecclesiastica, dall’età tardo antica ai secoli centrali del Medioevo. Attraverso una puntuale analisi delle fonti scritte,
iconografiche e architettoniche, Bandmann giunge a una
serie di conclusioni di cui due particolarmente rilevanti,
per quanto qui attiene. La prima: le fonti scritte attestano
che alcuni edifici erano percepiti come copie di altri, senza
che le strutture condividessero somiglianze formali con
i modelli di cui erano copia (Bandmann 1951, pp. 38,
fig. 6 – Il palazzo di Teodorico raffigurato nei mosaici di Sant’Apollinare nuovo a Ravenna (alto) e la Torhalle di Lorsch in
un rilievo ottocentesco (basso).
49-51)19. La seconda: i bauherren dimostrano di possedere
la capacità, o piuttosto la funzione, di selezionare le forme
architettoniche che esplicitamente potessero richiamare
gli exempla storici dei poteri da essi esercitati, in modo
evidentemente legittimante (Bandmann 1951, pp. 39,
47-48). Su tale base e in relazione al caso di studio si
propone che Ugo di Tuscia, promuovendo la costruzione
del palatium di Arcidosso, abbia volontariamente fatto
ricorso, come grande ufficiale pubblico, a un tipo edilizio
di ascendenza carolingia, per legittimare il proprio governo
in area amiatina, nel tardo X secolo (fig. 6).
17
Si veda Nucciotti 2008 pp. 50-95 per una presentazione dettagliata della viabilità medievale amiatina attorno al X secolo (una
sintesi in Nucciotti 2006, pp. 178-185).
18
Il volume di Bandmann è stato recentemente tradotto in Inglese
a cura della Columbia University Press (Bandmann 2005, New York,
USA). Si tratta della prima versione non in Tedesco di un’opera che ha
avuto enorme influenza sulla storia dell’architettura medievale in Germania (dove è stata costantemente ristampata dal 1951 fino a oggi), essendo
rimasta invece pressoché sconosciuta oltre i confini nazionali. L’opera di
Bandmann, per la qualità della ricerca e per la convincente dimostrazione
delle conclusioni resta ancora estremamente attuale, specie nel caso di
comunità scientifiche di settore che, com’è il caso per l’Italia, non si
siano misurate con i suoi parametri di analisi dell’architettura storica.
Su un piano più generale, che include la questione di come opere simili
possano restare sconosciute a intere e importanti comunità scientifiche,
bisognerebbe forse riflettere sulla promozione nel nostro settore di una
maggiore competenza linguistica che permetta diretto accesso almeno
alle bibliografie in Inglese, Francese, Tedesco e Spagnolo. Il recente ‘appiattimento’ della ricerca bibliografica sull’Inglese mi pare, in particolare,
una caratteristica saliente della produzione scientifica anglosassone,
specialmente quando essa si misuri con contesti metodologici e storici di
respiro continentale. In questo ambito si inquadra anche la ricostruzione
del rapporto tra Archeologia e Romanico pan-europeo di Tadhg O’Keeffe
(O’Keeffe 2007) in cui mancano completamente riferimenti, ad esempio,
a studi italiani e compaiono raramente quelli alle produzioni spagnole e
tedesche, occasionale è la citazione di testi francesi. A parte il disaccordo
su alcuni dei punti chiave della costruzione dimostrativa dell’autore
(che afferma ad esempio che architetture romane fossero presenti solo
in limitate zone dell’Impero durante il Medioevo – p. 20; o ancora che
l’Europa medievale non costituisse uno spazio di elaborazione comune
e sovranazionale del pensiero – p. 68) mi pare che sia il modello stesso
della ricerca bibliografica a poter esser messo in discussione.
Il tipo edilizio in età carolingia e ottonianacapetingia
L’uso di riferimenti carolingi e ottoniani nell’architettura toscana dei tempi di Ugo non è una novità assoluta.
Sia la ricostruzione di Santa Reparata nel X secolo, con
19
Ciò poiché le forme architettoniche storicamente rilevanti, con cui
ci si intendeva ricollegare attraverso la ‘copia’, potevano essere recepite
nel nuovo edificio anche solo in modo frammentario e parziale, quasi
come citazioni. Bandmann (Bandmann 1951, p. 53) spiega questa pratica
proponendo che i bauherren del primo Medioevo non percepissero il distacco temporale e culturale con il passato classico e tardoantico, dato che
tutti i potenti del Medioevo derivavano la propria legittimazione (direttamente o in modo mediato) dall’ideologia dello stato teocratico che si era
andato sviluppando come corollario del “Piano della Salvezza” cristiano
(contra O’Keeffe 2007, p. 68). Un concetto, quest’ultimo, intimamente
legato al ruolo dell’Impero Romano come quarto e ultimo impero prima
della seconda venuta di Cristo (Bandmann 1951, p. 51).
521
NOTE E DISCUSSIONI
l’aggiunta di due piccole torri ai lati dell’abside (Toker
1975, pp. 181-18620) sul modello di Saint Riquier, Fulda,
San Gallo e Colonia, sia la presenza di logge (“laubiae”) nel
palazzo episcopale21 puntano in questa direzione. Anche nel
rifacimento di X secolo del “Palatium Caruli” presso San
Pietro a Roma compaiono, infatti, due logge, una maggiore,
probabilmente al piano terra e una ‘minore’ o “solarium”
al primo piano (D’Onofrio 2007, pp. 160-161) secondo
un’articolazione degli spazi su due piani che rimanda al
palazzo ravennate di Teodorico e che fa da modello a
molti edifici pubblici dei secoli VIII-XI (Bougard 1996).
Bandmann individua l’archetipo storico del palatium romano-germanico nell’aula regia del palazzo imperiale romano
(1951, pp. 91-93) che viene ‘abbreviata’ architettonicamente
sotto una varietà di forme: dal palatium propriamente detto,
al transetto costantiniano, al westwerk/westbau, alla loggia.
Entro questo contesto tipologico emergono, già a partire
dall’VIII secolo, alcuni edifici, generalmente di modeste
dimensioni, che sembrerebbero aver avuto una duratura
influenza sulla formalizzazione dei tipi palatini rurali e a
cui si ricollegano sia il tipo del palatium di Arcidosso, sia
il tipo franco-normanno del donjon. Uno degli esempi più
antichi è rappresentato dalla torhalle di Lorsch (sec. VIII
– Bonelli et al. 1997, p. 21) in cui, pur permanendo i
riferimenti architettonici al palatium teodoriciano, con la
loggia inferiore a tre fornici come abbreviazione del pronao
e con la sala superiore decorata esteriormente a simulare
una loggia-solarium, si inverte la preminenza tra i due piani. La sala superiore sarà, infatti, di norma, l’ambiente più
importante e più solenne del palazzo medievale. Tra la metà
del secolo IX e l’inizio del X si collocano Santa Maria de
Naranco (E) e la sala di Mayenne (F), due edifici in cui la
separazione tra piano terreno e primo piano si fa più netta,
con la fortificazione del livello inferiore e la concentrazione degli elementi propriamente palatini al piano elevato.
Il primo edificio, nel nord della Spagna, è la sede regia
extraurbana di Ramiro I, re delle Asturie (tra 842 e 850).
Nonostante la sviluppata elaborazione formale di questa
costruzione, i caratteri fondamentali del tipo edilizio sono
gli stessi osservabili nel palatium di Arcidosso: un ambiente
fortificato e difficilmente accessibile a piano terra e una
sala con accesso monumentale al livello superiore (Early
2002, p. 253). Anche il castello di Mayenne, databile tra la
fine del IX e l’inizio del X secolo e attribuito ai primi conti
del Maine (Renoux 2002, p. 241) mostra una struttura
simile, con un piano terreno fortificato e ‘illuminato’ da
feritoie (come ad Arcidosso) e un piano nobile di accesso,
caratterizzato da grandi finestre-porte terminate a tutto
sesto (simili al portale elevato di Arcidosso). I richiami al
significato storico dell’aula regia sono evidenti in entrambi
gli edifici, sicuramente mediati dai modelli carolingi per
Mayenne, di più incerta derivazione nel caso di Naranco,
dove Ramiro I avrebbe potuto ispirarsi direttamente agli
archetipi antichi e tardoantichi anche senza la mediazione
ideologica carolingia.
20
Recentemente Guido Tigler, sulla base delle esigue dimensioni
(base di circa 2×2 m) e della difformità planimetrica, ha proposto
che non si trattasse di torri absidali ma di contrafforti statici (Tigler
2006, p. 132), sebbene in tal caso non si spiegherebbe a mio parere
l’inserimento nel secolo XI, all’interno delle stesse, di due absidiole
(Toker 1975, pp. 186-189) che ne avrebbero inutilmente compromesso
la funzione di contenimento.
21
Scampoli 2010, pp. 153-155.
522
Dal punto di vista tipologico quindi, il palatium di
Arcidosso fa diretto riferimento ai tipi edilizi in cui si
svolgeva l’attività di governo dell’imperatore e degli
ufficiali pubblici imperiali tra VIII e X secolo (o dei re e
magnati che, soprattutto in Francia, aspiravano a collegare
il proprio potere, con funzione legittimante, ai carolingi).
Nonostante la varietà tipologica degli edifici derivati
dall’aula regia romano-bizantina ognuno di essi aveva le
caratteristiche essenziali per svolgerne la funzione, ne era
una copia, nel senso medievale ‘bandmanniano’ del termine22. A conferma di ciò si consideri l’intercambiabilità della
localizzazione dei placiti, dalle laubiae alle turres, nel X
secolo, che denoterebbe, più che una identità fisica (contra
Sexton 2009, p. 333), una percepita analogia ideologica
e funzionale tra i due tipi edilizi23 (fig. 7).
22
Un eco degli stessi tipi edilizi in Toscana permane nell’XI secolo
nella prima fase del Palazzo dei Vescovi di Pistoia (Rauty 1981, p. 95),
icnograficamente ricollegabile alla sala di Mayenne e nelle chiese-loggia
pisane (Redi 1991, pp. 372-377), ‘copie’ della torhalle di Lorsch. Mentre il
tradizionale legame di Pisa con l’Impero rende conto in modo abbastanza
agevole della selezione di forme imperiali nelle architetture pubbliche della
città, per Pistoia la situazione appare più complessa. In ogni caso il palazzo
vescovile pistoiese sorge su terre donate da Ottone III (Miller 2000, pp.
68-73), a dimostrazione di un collegamento tra la sede episcopale e l’Impero e viene realizzato nelle forme di un’aula regia con cui teoricamente
il primate locale poteva legittimarsi come governatore nei confronti della
comunità urbana alla vigilia della nascita del Comune.
23
Il caso di Arcidosso, insieme alla coeva menzione della turris Aldobrandesca di Lattaia, che diventa un luogo preminente di attività della
consorteria aldobrandesca in età ottoniana (Collavini 1998, p. 168),
potrebbe forse testimoniare una preferenza per il tipo turris nei presidi
rurali di governo, in coerenza anche con quanto avviene a Mayenne e Naranco, entrambe strutture fortificate. Più in generale la ripresa di riferimenti
carolingi nel X secolo, nell’architettura prodotta dai grandi aristocratici,
sembra emergere come un fenomeno di portata continentale (es. i conti
di Mayenne e Folco III d’Angiò in Francia). Nella Toscana meridionale
ciò è attestato chiaramente dal palatium di Arcidosso e adombrato in
quel che resta della turris aldobrandesca di Lattaia (Farinelli 2007, p.
122). Nel primo caso Ugo di Tuscia poteva fare aperto e legittimo uso
di un tipo edilizio marcatamente connotato come imperiale, nel secondo
invece il riferimento ideologico sembrerebbe doversi collegare nullo medio
alla tradizione carolingia. Per gli Aldobrandeschi, infatti, politicamente
emarginati in età ottoniana, la preoccupazione era semmai quella di
dimostrare che la famiglia apparteneva ancora alle più alte gerarchie del
funzionariato pubblico del Regno, limitando propagandisticamente il
proprio declino a una congiuntura negativa contingente. Pur non potendo
esibire apertamente simboli imperiali, lo status della famiglia le consentiva
comunque di richiamarsi all’eredità carolingia. La documentazione scritta
fornisce un certo supporto a questa ipotesi, sia in quanto attesta gli sforzi
della consorteria per mantenere i patrimonii accumulati o consolidati
sotto Berengario II, sia per il ricorso a un partner strategico che, dal punto
di vista istituzionale, stava vivendo una stagione politica per certi versi
analoga a quella degli stessi Aldobrandeschi: l’abbazia imperiale di San
Salvatore al Monte Amiata. Le cessioni e retrocessioni di proprietà degli
anni 973 e 989 (CDA: II, nn. 203, 206), configurano, infatti, una sorta di
blind trust tra le due amministrazioni, che si offrono reciproca garanzia in
un momento in cui, sotto il regno degli Ottoni, vedono sminuito il proprio
ruolo politico e limitate le aspirazioni signorili. Agendo nell’ambito del
milieu culturale e delle forme fisiche dell’élite imperiale, rappresentati
rispettivamente dai reiterati riferimenti documentari coevi a Ildebrando III
marchese e a Gherardo I comes sacri palatii, ascendenti della precedente
generazione che avevano ricoperto incarichi di primo piano nel Regnum,
e operando dalla turris di Lattaia, gli Aldobrandeschi giocavano le proprie
carte per riguadagnare un ruolo di primo piano sulla scena politica e,
nell’immediato, per distinguersi dai signori minori. In questo quadro la
turris di Lattaia svolgeva sicuramente una parte rilevante, in quanto sede
di atti importanti e luogo fisico di espressione della ideologia famigliare.
Non stupisce quindi che le strutture attualmente visibili a Lattaia sembrino indicare un collegamento della turris con lo stesso tipo edilizio del
palatium di Arcidosso e quindi, per estensione, con i luoghi di esercizio
del potere carolingi e imperiali.
NOTE E DISCUSSIONI
fig. 7 – Santa Maria
di Naranco (alto) e
i rilievi ricostruttivi del palatium di
Mayenne (basso).
Il tipo edilizio in età normanna e il donjon
in città; volontariamente lontane dai modelli palatini
carolingi, in un momento in cui l’imperatore veniva forse
percepito più come una controparte che come una fonte
di legittimazione. In Francia, invece, dove i riferimenti
carolingi vengono accolti, con funzione anti-imperiale e
‘nazionalistica’, dai Capetingi (Sot 1988, Le Goff 2008)
si assiste, già nell’XI secolo alla diffusione del tipo edilizio in tutto l’ambiente dei grandi aristocratici. In questa
prospettiva, alla fine del X secolo o ai primi anni dell’XI
si datano le sale-torri di Langeais e Loches (quest’ultima
un vero donjon) edificate da Folco III Nerra d’Angiò
(Fernie 2002, p. 50). La selezione dei tipi edilizi, in quel
Le vicende del tipo edilizio ‘palatium di Arcidosso’ (o
di Broili) e quelle del donjon divergono in modo deciso
nel secolo XI. In Italia, con la fine del funzionamento
delle circoscrizioni pubbliche imperiali e l’emergere
delle autonomie signorili e cittadine (in Toscana, progressivamente, tra l’XI e il XII secolo), il tipo di fatto
scompare, quantomeno nelle aree rurali. La partita
architettonica della classe dirigente italiana si giocherà
da quel momento, soprattutto nel XII secolo, attorno
all’edificazione di torri slanciate, sia in campagna, sia
523
NOTE E DISCUSSIONI
caso, si giustificherebbe con la necessità di esprimere ‘in
forme carolinge’ la legittimazione della parte politica di
Ugo Capeto, che Folco appoggiava (it.wikipedia.org24).
Lo sviluppo francese, accolto precocemente anche in
ambiente normanno, modifica generalmente il tipo in
altezza, con donjon di tre o più piani (4 nel caso di Loches
e della White Tower di Londra, 5 nel caso di Rochester
– Marshall 2002). Fatti salvi alcuni esempi precoci il
donjon appare comunque nella sua completezza all’inizio
del secolo XI in Francia ma, più in generale, si conferma
come un tipo edilizio internazionale negli anni più avanzati del secolo. Il tipo passa in Italia meridionale con la
conquista normanna con una cronologia simile a quella
attestata in Gran Bretagna (per la Calabria Donato
2004, pp. 506-516) e giunge in Terra Santa in seguito
al movimento crociato. Nel regno di Gerusalemme ne
sono stati censiti e indagati archeologicamente alcuni
esemplari (es. Shayun, Qal’at Yahmur, Al-Burj al-Ahmar – Pringle 1986) e forme a esso riconducibili sono
presenti anche in Siria (es. la torre maestra del Crac de
Chevaliers – Biller 2002) ma, finora, non nei castelli
crociati transgiordani (Vannini 200725). Dagli stati
24
Voce: “Folco III d’Angiò”, it.wikipedia.org, del 22/06/2010.
L’affidabilità di Wikipedia è una vexata quaestio piuttosto recente,
specialmente in ambito accademico. La molteplicità degli autori delle
voci e la quasi assoluta impossibilità da parte degli utenti di verificare
l’effettiva competenza degli stessi sono un dato di fatto. La novità è
costituita, invece, dalla inattesa precisione e completezza che questa
enciclopedia collaborativa basata su tecnologia wiki ha dimostrato
di possedere. Nel corso di studi analitici, il più importante dei quali è
comparso sulla rivista Nature nel 2005 (Giles 2005), l’affidabilità di
Wikipedia è risultata pari a quella delle omologhe opere a stampa. Per
sanare la supposta idiosincrasia tra la mancata selezione degli autori,
da un lato, e un livello di accuratezza paragonabile a quello della Encyclopedia Britannica, dall’altro, è stata recentemente proposta una
spiegazione basata sulla cosiddetta “saggezza della folla”. I principi
base della “Wisdom of the crowd” (abbreviato in “WoC”), che sono
stati esposti da James Surowiecki (Surowiecki 2005) nello stesso periodo in cui Giles conduceva le sue indagini sull’affidabilità di Wikipedia,
si basano sulla tesi per cui è statisticamente accertato che un gruppo di
individui capaci di produrre decisioni indipendenti ha forti probabilità
di prendere decisioni e di sviluppare previsioni pari o migliori a quelle
fornite da un individuo esperto. I principi WoC sono stati testati nel
2006 da un gruppo di analisti della University of Alberta school of
Business (CAN) sullo stesso gruppo di articoli di Wikipedia definiti
qualitativamente affidabili da Nature nel 2005. Si tratta del primo
studio sperimentale basato sul modello WoC e i risultati confermano
la sua azione nel processo di scrittura di Wikipedia (Arazy, Morgan,
Patterson 2006). In particolare è stato evidenziato come i clusters di
costrutti latenti individuati statisticamente si riferiscano effettivamente
a concetti (alta correlazione tra la quantità degli autori e la quantità
delle revisioni; correlazione tra la lunghezza delle pagine di discussione
sulle voci e il numero di “edit wars”). Inoltre è stato possibile stabilire
una relazione causale tra i parametri Diversità e Qualità (la Diversità
è stata stimata sulla base del numero di parole utilizzate nelle discussioni delle voci considerate, oltre che sulla quantità di “edit wars”,
definite da Wikipedia come una serie di almeno tre revisioni operate
da un autore, inframmezzate da revisioni operate da altri autori, in
un tempo di 24 ore) e tra Dimensione e Diversità (la Dimensione è
stimata a partire dal numero degli autori di una voce e dal numero
totale delle revisioni della stessa). L’affidabilità di Wikipedia è stata
da allora considerata un dato di fatto da una componente in crescita
della comunità scientifica internazionale. Gli interventi più recenti sul
tema si concentrano sulla necessità di sviluppare una pedagogia che
favorisca un approccio critico a Wikipedia anche da parte di soggetti
non esperti (Paccagnella 2007; Badke 2009).
25
Resta ancora da valutare, comunque, a quale tipo edilizio facesse riferimento la torre bizantino-crociata di Al-Habis, nella valle
di Petra.
fig. 8 – Il palatium di Langeais (alto) e il donjon di Loches
(basso).
crociati il donjon sembrerebbe aver influenzato l’architettura palatina islamica di alcuni importanti centri
siriani. Bosra, Ajlun e Shayzar26 mostrano nel XIII secolo
complessi palatini con sale di rappresentanza soprelevate,
sul modello del donjon e contrariamente alla tradizione
islamica precedente. Il XIII secolo marca, infine, l’ultima
e tarda diffusione del tipo in Irlanda (Sweetman 1999,
pp. 89-174) e la coeva diffusione di strutture palaziali
castrensi (che recepiscono il tipo donjon?) anche nell’Italia centro-settentrionale, Arcidosso incluso (Nucciotti
2008, pp. 266 e ss.) (fig. 8).
26
Si veda Tonghini et al. 2003, per Shayzar, Tabbaa 1997, p. 91
per Bosra e Yovitchitch 2006 per Ajlun.
524
NOTE E DISCUSSIONI
fig. 9 – La White Tower di Londra (sinistra), il donjon di Scalea in Calabria (centro) e la Red Tower in Israele (sinistra).
po dei tipi edilizi francese e italiano, nell’XI secolo. Gli
edifici appartenenti al tipo più antico (Lorsch, Mayenne,
Naranco), a due soli piani, sono quelli più chiaramente
attestati in Toscana (Arcidosso, Miranduolo, Pistoia) e
nel nord Italia (Genova), come ‘abbreviazione architettonica’ del potere imperiale, con funzione probabilmente
legittimante. In Francia il panorama appare complesso. Il
donjon propriamente compiuto si formalizza qui e forse
più precisamente nell’Anjou (la figura di Folco III Nerra
d’Angiò ebbe un ruolo importante), nel primo XI secolo.
Tuttavia l’internazionalizzazione del tipo è ulteriormente
successiva, la White Tower di Londra è costruita a partire
dal 1070, ma non sarà ultimata prima del 1100 (Fernie
2002, pp. 57-59). Cronologia simile mostrano anche i
donjons in Italia meridionale e in particolare in Calabria.
La Terra Santa ‘riceve’ il tipo nel XII secolo che da qui
giunge forse a influenzare parzialmente l’architettura
araba di inizio XIII secolo. In Toscana, infine, la grande
aristocrazia sembra inizialmente orientata a un accoglimento del tipo palatium. Tra X e XI secolo così fanno i
Gherardeschi a Miranduolo (Si) e il vescovo di Pistoia
nella propria città (anticipati forse dagli Aldobrandeschi
a Lattaia – Gr). Tuttavia, probabilmente a causa della
profonda crisi dell’istituzione, dal XII secolo la Marca di
Tuscia non riuscirà più a trasmettere tipi edilizi di riferimento alla grande aristocrazia signorile del territorio (a
differenza di quanto faranno i Capetingi in Francia). Le
torri che da allora movimentano i profili del paesaggio,
urbano e rurale della Toscana, sembrano confermarlo.
CONCLUSIONI
Costruire un palazzo, costruire un paesaggio.
L’indagine archeologica sull’edilizia medievale amiatina ha
consentito di individuare la presenza di un ‘paesaggio sepolto’ inatteso e fino a ora non documentato, contemporaneo
all’ultima grande stagione in cui l’ordinamento amministrativo dell’Impero medievale abbia de facto coinciso con
l’ordinamento pubblico dello Stato, in Toscana. Accanto
alla rete di abbazie pubbliche (marchionali e imperiali),
già note per l’epoca di Ugo (Uetz 2003), è lecito, infatti,
immaginare un gruppo di edifici pubblici ‘laici’ sul modello
del palatium di Arcidosso, sede degli ufficiali della Marca
nei distretti rurali. Il rapporto tra le due serie di edifici,
monasteri e palazzi, resta tuttavia largamente oscuro, dato
che spesso i primi furono anche usati nel resto d’Europa
(e non sappiamo quanto occasionalmente) da funzionari
imperiali e marchionali come sedi di governo (Bandmann
1951, p. 202). In ogni caso dalle ricerche condotte sembra
plausibile affermare che la Marca di Tuscia, nel X secolo,
promosse la costruzione di edifici pubblici sul territorio
regionale, facendo uso di tipi edilizi di ascendenza carolingia e ottoniana. La capacità della Marca di esercitare
un ruolo di riferimento per l’architettura ‘pubblica’ nella
Toscana meridionale sembra inoltre parzialmente continuare ancora per i primi decenni del secolo XI27, che non
sono però oggetto di questo contributo (fig. 9).
Un tipo edilizio del Medioevo europeo
Dallo studio e dalla contestualizzazione storica e tipologica del palatium di Arcidosso e dalle recenti ricerche
sulla formazione del donjon, entrambi collegati a prototipi
carolingi, pare emergere una divaricazione nello svilup-
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Per quanto riguarda l’Amiata si data all’inizio del secolo XI
la costruzione della nuova chiesa abbaziale di San Salvatore in cui
compare un westbau a due torri con evidenti derivazioni dal westwerk
ottoniano (Thummler 1988, Giubbolini 1988). Negli stessi anni si ha
notizia dello stretto rapporto tra San Salvatore e il marchese Ranieri
di Toscana (Kurze 2004, p. 73). Il tipo edilizio del palatium, che si è
visto probabilmente riproposto già nel X secolo a Lattaia dagli Aldobrandeschi, potrebbe essere rintracciato anche nel palatium gherardesco
di Miranduolo nel secolo XI (Causarano 2006, p. 591).
525
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