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aARCHEOLOGA da DELLE ALPI 2014 2014 - PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO SOPRINTENDENZA PER I BENI CULTURALI Tutti i diritti riservati – nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore. Presidente della Provincia autonoma di Trento Ugo Rossi Assessore alla cultura, cooperazione, sport e protezione civile Tiziano Mellarini Dirigente Generale del Dipartimento cultura, turismo, promozione e sport Sergio Bettotti Dirigente della Soprintendenza per i beni culturali Sandro Flaim Direttore dell’Ufficio beni archeologici Franco Nicolis Volume a cura di Franco Nicolis Cura redazionale Roberta Oberosler Progetto grafico Pio Nainer design Group – Trento Impaginazione esecutiva e stampa Tipografia Editrice Temi s.a.s. - Trento Le traduzioni dei riassunti sono a cura del Servizio minoranze linguistiche locali e relazioni esterne della Provincia autonoma di Trento. Si ringrazia Mirella Baldo Referenze grafiche e fotografiche Archivio fotografico dell’Ufficio beni archeologici, Provincia autonoma di Trento Foto di copertina: Indagini archeologiche in alta quota, sito di Pejo, Punta Linke (foto N. Cappellozza). Cavaliere di Sanzeno, Museo Retico di Sanzeno, pag. 4 (foto G. Malfer). Pilastrino di fontana, da Vicolo dell’Adige, Trento, pag. 18 (foto O. Michelon). ISBN 978-88-7702-385-8 © Provincia autonoma di Trento aARCHEOLOGA da DELLE ALPI 2014 Archeologia delle Alpi a cura di Franco Nicolis cura redazionale di Roberta Oberosler PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO SOPRINTENDENZA BENI CULTURALI Ufficio beni archeologici aARCHEOLOGA da DELLE ALPI 2014 NOTIZIARIO 228 | ARCHEOLOGIA DELLE ALPI 2014 IL PROGETTO METALLURGIA: STATO DELL’ARTE Elena Silvestri, Paolo Bellintani È in corso dal 2004, ad opera dell’attuale Ufficio beni archeologici della Soprintendenza per i beni culturali, un progetto di archeometallurgia che ha come tema principale la metallurgia primaria del rame durante l’età del Bronzo, cioè l’estrazione del metallo dai minerali cupriferi, di cui è ricca la regione alpina ed il Trentino in particolare. La ricerca, che include una parte archeologica, una parte sperimentale e una parte analitica, mira a una migliore comprensione della tecnologia estrattiva e metallurgica preistorica, ancora non del tutto nota nei suoi aspetti più tecnici. Fig. 3. Loppio, S. Andrea. Foto zenitale del sondaggio 2013; sul fondo, i resti di un edificio in muratura. muro di delimitazione occidentale dell’area terrazzata, sembra infatti addossarsi a un muro più interno orientato S/SW-N/NW, verosimilmente legato al perimetrale nord. Tale evidenza stratigrafica suggerisce dunque per il tratto occidentale del terrazzamento caratteristiche strutturali e stratigrafiche diverse rispetto a quelle documentate dallo scavo, e sembra suggerire la presenza in questo settore di un terrapieno artificiale di epoca relativamente più recente. Solo una verifica tramite un ulteriore saggio stratigrafico potrà, in un futuro che si auspica prossimo, verificare la validità di questa ipotesi, che sembrerebbe avallata anche dalla presenza nel paramento occidentale di una serie di fori passanti circolari finora ritenuti di incerta natura (MAURINA 2013, pp. 111-116). BIBLIOGRAFIA MAURINA B. 2013, Scavi archeologici sull’ isola di S. Andrea a Loppio (TN). Relazione preliminare sulla campagna 2012, “Annali del Museo Civico di Rovereto”, 28 (2012), pp. 97-118. MAURINA B. c.s., Scavi archeologici sull’ isola di S. Andrea Loppio (TN). Relazione preliminare sulla campagna 2013, “Annali del Museo Civico di Rovereto”, 29 (2013). MAURINA B., POSTINGER C.A. 2013a, Castrum di S.Andrea di Loppio, in E. POSSENTI, G. GENTILINI, W. LANDI, M. CUNACCIA (a cura di), APSAT 5. Castra, castelli e domus murate. Corpus dei siti fortificati trentini tra tardo antico e basso medioevo. Schede 2, Progetti di archeologia, Mantova, pp. 104-112. MAURINA B., POSTINGER C.A. 2013b, Loppio, Sant’Andrea, in G. P BROGIOLO, E. CAVADA, M. IBSEN, N. PISU., M RAPANÀ (a cura di), APSAT 11. Chiese trentine dalle origini al 1250, Progetti di archeologia, Mantova, pp. 93-95. Obiettivo primario della sperimentazione non è tanto la ricostruzione di processi complessi ed estremamente ricchi di variabili, quanto l’acquisizione di consapevolezza ed esperienza sulle caratteristiche di una tecnologia scomparsa da molti secoli. Consapevolezza ed esperienza che si rivelano utili nella “lettura”di contesti archeologici, come quelli dei cosiddetti “siti fusori” del Trentino, tanto diffusi (circa 200 segnalazioni) quanto poco conosciuti. I dati archeologici Punto di partenza è il contesto archeologico, indispensabile base per qualunque ipotesi di ricostruzione del processo. Al momento dell’avvio del progetto esisteva già un consistente background archeologico, grazie alle ricerche di Renato Perini e Franco Marzatico in collaborazione con il Deutsches BergbauMuseum Bochum (Germania) durante gli anni ’80 e ’90. È stato in particolare portato avanti un esaustivo progetto di survey nel Trentino centro-orientale che, avendo come base le precedenti ricerche di Ernst Preuschen e Giuseppe Šebesta, ha documentato la presenza di quasi 200 siti fusori (CIERNY 2008). Le aree fusorie presentano particolari concentrazioni nella parte orientale del Trentino, in Val di Cembra, dei Mocheni, nella Valsugana e nella zona del Tesino. Un numero di siti fusori notevole è attestato nella zona di Lavarone-Luserna-Vezzena, con una densità di circa un sito per km quadrato. La documentazione più antica risale alla fine dell’Eneolitico-inizio Bronzo antico ed è costituita da una decina di aree di metallurgia primaria nei pressi di ripari posti nel fondovalle atesino, su conoide o in zone aperte. Si tratta di resti costituiti da livelli con scorie e strati carboniosi e, dove conservate, strutture per la fusione a forma di catino rivestito di argilla o a focolare quadrangolare con un lato aperto (PERINI 1989). Durante la seconda fase di forte sviluppo della metallurgia in Trentino, principalmente durante il Bronzo Recente-Finale, l’attività fusoria sembra ARCHEOLOGIA DELLE ALPI 2014 | 229 di Fierozzo) sono databili alla seconda fase. Da questi scavi emergono accumuli molto consistenti di scorie di vario tipo e di sabbia di scorie (fig. 1), strutture fusorie, anche se spesso danneggiate, alcuni esempi di strutture interpretabili come letti di arrostimento, utensili per la lavorazione e macinatura dei minerali e delle scorie. Contemporaneamente agli scavi è in corso anche lo studio degli indicatori archeologici pertinenti alle fasi di pretrattamento e riduzione dei solfuri di rame (strumenti litici, quali macine, macine a sella, macinelli, e ugelli in ceramica) rinvenuti nei siti metallurgici, con lo scopo di chiarire alcuni punti del processo non ancora sufficientemente noti. Il processo tecnologico I materiali prevalenti nei siti fusori sono senza dubbio le scorie, che si presentano di varie tipologie. Mentre nella fase più antica le scorie sono quasi esclusivamente del tipo grossolano/bolloso, in seguito appare una tipologia di scoria piatta e sottile caratteristica del processo fusorio della tarda età del Bronzo. Dal momento che si tratta della fase finale del processo di lavorazione, l’importanza delle scorie per la ricostruzione della tecnologia è fondamentale. Il dibattito sulla natura e origine tecnologica dei diversi tipi di scoria è tuttora molto acceso. Per chiarire questo punto è in corso, attraverso una tesi di dottorato di uno degli scriventi (E. S.) presso i laboratori del Deutsches Bergbau-Museum Bochum, una serie di analisi archeometriche dettagliate, che interessano un ampio campione di frammenti (circa un centinaio). Le scorie sono trattate per ricavarne sezioni sottili, che vengono osservate al microscopio ottico per osservarne la struttura e descrivere la presenza di inclusioni di solfuri di rame più o meno reagiti, mentre le analisi al SEM-EDS permettono di stabilire la composizione dei vari elementi. Fig. 1. Veduta generale dello scavo di Segonzano Peciapian (Trento). È ben visibile l’accumulo di sabbia di scorie, parzialmente coperto da strati di scorie frammentarie (sulla destra nella foto). Fig. 2. Esempio di esperimento in crogiolo in buca, con l’ausilio di un mantice a doppia sacca. Dalla natura delle scorie è stato possibile comprendere che i giacimenti sfruttati erano prevalentemente polimetallici, con minerali cupriferi a solfuri misti, per lo più calcopirite (CuFeS2). Tale minerale deve essere sottoposto a un processo di lavorazione molto complesso che vede, dopo le fasi di estrazione, lavaggio e arricchimento, una sequenza di passaggi di arrostimento e di riduzione in forno. invece spostarsi nel Trentino orientale in aree montane sopra i 1000 metri s.l.m., con la costruzione di veri e propri forni fusori lungo pendii ghiaiosi o sabbiosi vicino alle risorse idriche (Valle dei Mocheni, Tesino, Altopiano di Folgaria, Lavarone e Luserna, Vezzena). Negli ultimi anni la Soprintendenza, nell’ambito delle attività di tutela, ha avviato nuovi scavi in aree fusorie. Uno di questi siti, Riparo Marchi, appartiene alla prima fase ed è datato all’età del Rame (vedi infra notiziario) mentre altri 4 (Luserna Pletz von Motze, Segonzano Peciapian, Transacqua e Valcava Nonostante i progressi scientifici, l’aspetto tecnologico e le varie fasi della catena operativa dello smelting rimangono poco noti. Scarse sono inoltre le informazioni riguardo alla natura dei prodotti sottoposti a riduzione, poiché è molto raro trovare nei siti prodotti intermedi della catena operativa (matte, rame nero, rame). La sperimentazione A questo stadio della ricerca interviene l’approccio sperimentale, basato sui dati ricavati dal record archeologico. La riproduzione dei processi può, infatti, aiutare a chiarire aspetti tecnologici non ri- 230 | ARCHEOLOGIA DELLE ALPI 2014 costruibili in base ai dati di scavo, come il funzionamento dei forni, la loro altezza, il posizionamento dei mantici, i tempi e i modi della lavorazione. presupposto dal modello dell’austriaco Eibner, il più seguito nelle sperimentazioni sull’archeometallurgia primaria protostorica dell’area alpina. Da ormai dieci anni la Soprintendenza porta avanti a scadenza annuale delle campagne di sperimentazione archeometallurgica, collaborando con vari enti che sono venuti a Fiavè a svolgere le loro sessioni di esperimenti (Università di Padova, Università di Innsbruck in Austria e di Bergen in Norvegia, University College Londra, Deutsches Bergbau-Museum Bochum, Centre de Recherche et de Restauration des Musées de France di Parigi). Lo scavo di Riparo Marchi è diretto dalla dott. E. Mottes, quello di Luserna Platz von Mozze dal dott. F. Nicolis, mentre gli scavi di Segonzano Peciapian, Transacqua e Valcava, nonché il progetto di archeologia sperimentale, sono sotto la direzione del dott. P. Bellintani. Nei primi anni di attività la sperimentazione, condotta in collaborazione con vari gruppi di ricerca (Università di Padova, Centre de Recherche et de Restauration des Musées de France, Archeolab Modena) è stata condotta in fornaci ricostruite sulla base dei dati provenienti da Acqua Fredda, presso il Passo del Redebus (Bedollo, Trento), uno dei siti fusori meglio preservati di tutto l’arco alpino. Qui i forni presentano una forma quadrangolare, con lato interno di circa 50 cm, mentre l’altezza è conservata solo in parte. Il lato frontale è assente in tutte nove le strutture rinvenute, probabilmente smantellato in antico per recuperare il risultato della fusione. Negli anni successivi le fornaci sperimentali sono state ridotte di scala, in quanto le ricostruzioni a dimensioni originali necessitano di grandi quantità di minerale e risultano difficili da gestire per quanto riguarda la temperatura necessaria, che sulla base delle analisi delle scorie risulta essere superiore a 1200°C. BELLINTANI P., SILVESTRI E., BELGRADO E., MOSER L. in stampa, Archeometallurgia preistorica in Trentino: ricerca, sperimentazione, valorizzazione, in Atti del III Convegno internazionale Archeologia Sperimentale (Blera-Civitella Cesi, 8-10 aprile 2011). CIERNY J. 2008, Prähistorische Kupferproduktion in den südlichen Alpen,“Der Anschnitt”, 22. PERINI R. 1989, Testimonianze di attività metallurgica dall’Eneolitico alle fasi finali dell’età del Bronzo nel Trentino, in Per Giuseppe Sebesta. Scritti e nota biobibliografica per il settantesimo compleanno (a cura del Comune di Trento), Trento, pp. 377-404. Per controllare singoli parametri dei modelli teorici sottoposti a verifica sperimentale si è proceduto in parallelo su vari fronti: lavorando in buche più limitate, a volte usando crogioli (fig. 2), e contemporaneamente studiando la termodinamica di fornaci a ventilazione naturale. È stata inoltre avviata la sperimentazione basata sulla riduzione della malachite in crogiolo invece della calcopirite, anche a scopo didattico e divulgativo. Questo minerale è, infatti, un carbonato di rame e, non contenendo zolfo, risulta molto più semplice da trattare (BELLINTANI P. et alii in stampa). Il notevole impatto scenografico e il fascino che la pirotecnologia ispira nel pubblico rende questa attività molto attraente e facilita la comprensione del processo metallurgico, anche da parte di un uditorio non specializzato. Dal 2009 al 2012 è stato inoltre possibile collaborare ad un interessante progetto delle Università di Innsbruck in Austria e di Bergen in Norvegia, che coniuga archeometallurgia ed etnoarcheologia. Si tratta della ricostruzione sperimentale del processo di riduzione della calcopirite ancora oggi utilizzato in alcune zone del Nepal. Sebbene le fornaci nepalesi siano parzialmente differenti da quelle alpine, è tuttavia possibile ricavare dal loro funzionamento informazioni molto utili e, soprattutto, rimettere in discussione gli schemi delle fasi del processo. Il procedimento nepalese comincia infatti con una fase di smelting invece che con l’arrostimento, come BIBLIOGRAFIA AREA PALAFITTICOLA DI FIAVÉ-CARERA. STUDIO SUL DEGRADO DELLE STRUTTURE LIGNEE Paolo Bellintani, Cristina Dal Rì, Nicola Macchioni, Benedetto Pizzo, Chiara Capretti La torbiera di Fiavé - ex lago Carera (646 m s.l.m.) si trova nelle Giudicarie esteriori (Trentino sud-occidentale) 10 km a nord dell’estremità settentrionale del Lago di Garda. Scavi condotti tra il 1969 e il 1975 da Renato Perini (PERINI 1984), hanno portato alla luce diversi abitati palafitticoli databili tra il IV e II millennio a.C. Di particolare interesse sono i resti strutturali rinvenuti nella zona 2 dove furono messi in luce 829 pali lunghi fino a 10 metri (fig. 1) in un’area di 475 mq, e nella zona 1 caratterizzata da un più elaborato sistema di fondazione a “platea reticolata” e da una palizzata lungo il margine est del villaggio. Dopo gli scavi degli anni ’70 fu scelto di non asportare o interrare i pali, ma di lasciarli sommergere dall’acqua di falda, il cui livello medio giunge poco al di sotto della superficie della torbiera. Si pensò in questo modo di contemperare a due esigenze: da un lato la temporanea conservazione delle strutture, anche se in condizioni nettamente diverse rispetto a quelle ottimali dell’originaria giacitura, dall’altro realizzare un’area archeologica visitabile, dato che nella zona 2 le testate dei pali spuntano oltre il pelo dell’acqua.