Il paradosso del mentitore: Rudolf Höss
in letteratura e al cinema
Alessandro Costazza
1. Le bugie e le diffamazioni nell’autobiografia di Rudolph Höss Kommandant in
Auschwitz
Rudolf Höss è stato senz’ombra di dubbio uno dei maggiori assassini di massa della
storia dell’umanità. 1 Su ordine di Himmler egli creò dal nulla i campi di concentramento di Auschwitz e di Birkenau, progettando e organizzando concretamente fin
nei minimi dettagli tecnici la costruzione delle camere a gas e dei forni crematori.
Nei tre anni in cui fu comandante del campo di Auschwitz, dal maggio del 1940 fino
a novembre 1943, si rese responsabile della morte nelle camere a gas di almeno un
milione di persone – soprattutto ebrei –, 2 ma anche di centinaia di migliaia di altri
decessi avvenuti in seguito a denutrizione, malattie, torture e fucilazioni. Nonostante
ciò, egli venne considerato dagli psicologi che lo analizzarono a Norimberga e poi
anche dagli storici un uomo ‘normale’, che non aveva agito né per sadismo né per
fanatismo ideologico, ma solo per un eccessivo senso del dovere e dell’obbedienza. 3
Viene tuttavia da chiedersi, se anche nel suo caso, come in quello di Eichmann,
questa normalità o addirittura ‘banalità’ nel senso di Hannah Arendt non sia il risultato dell’immagine che lo stesso Höss ha voluto dare di sé nella propria autobiografia,
scritta durante la carcerazione in Polonia e pubblicata in Germania nel 1958 con il titolo Kommandant in Auschwitz (Comandante ad Auschwitz). 4 La questione è molto
1 Per una ricostruzione critica della biografia di Rudolf Höss si veda V. Koop, Der Kommandant von Auschwitz. Sulla sua attività di comandante del campo di Auschwitz si possono leggere le pagine contenute in H. Langbein, Uomini ad Auschwitz, pp. 314-328.
2 Inizialmente Höss parlò di 2,5 milioni di morti, ma poi, durante il processo di Norimberga,
si corresse, riducendo la cifra a un milione e mezzo: cfr. N. Sennerteg, Il generale di Auschwitz,
pp. 256 sg.
3 Così ad esempio Martin Broszat nell’“Introduzione” a R. Höss, Comandante ad Auschwitz, pp. XXXI; XXXIV sg., che anticipò la categoria arendtiana della ‘banalità del male’”.
Per un riassunto delle varie interpretazioni di Höss quale “uomo normale” si veda Sennrteg, Il
generale di Auschwitz, pp. 307-311. Per le analisi degli psicologi si vedano in particolare G.M.
Gilbert, Nelle tenebre di Norimberga, pp. 240-243; 248-250; 256-259; L. Goldensohn, I taccuini
di Norimberga, pp. 349-371.
4 Höss redasse la parte più importante di questo testo, intitolata “La mia psiche. Sviluppo,
vita, esperienze”, tra il gennaio e il febbraio 1947, mentre era detenuto a Cracovia, in attesa del
processo. Questo testo venne pubblicato dapprima in polacco, nel 1951 e poi nel 1956, quindi in
tedesco, nell’edizione curata da Martin Broszat, che è anche alla base della traduzione italiana
del 1960. Esistono inoltre diverse testimonianze di Höss, redatte dopo il suo arresto, durante gli
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delicata, perché ogni relativizzazione dell’attendibilità di questa testimonianza, che
contiene la più precisa e dettagliata descrizione fatta da un perpetratore del funzionamento delle camere a gas e della cremazione dei cadaveri, rischia di portare acqua
al mulino dei negazionisti, che non a caso si sono sforzati in tutti i modi possibili di
negare l’autenticità della biografia, sostenendo che essa era il prodotto di pressioni
esterne, di torture e di lavaggio del cervello da parte degli inglesi e dei polacchi,
quando non addirittura l’opera di abili falsari. 5 Ma il fatto che la veridicità di un’opera venga negata dai negazionisti, è sufficiente per ritenere che essa contenga tutta
la verità, nient’altro che la verità?
In realtà, un’analisi approfondita del resoconto autobiografico di Höss può non
solo dimostrare che il testo contiene, come già riconobbe Primo Levi, molte “bugie
piccole e grosse, sforzi di autogiustificazione, tentativi di abbellimento”, ma che queste bugie e falsità, ben lungi dallo spiccare “sul tessuto del racconto come mosche nel
latte” ed essere quindi facilmente riconoscibili “anche dal lettore più sprovveduto”, 6
sono in realtà parte integrante di una organica e pervasiva strategia retorica mirante
a sminuire, a coprire, rimuovere e dove possibile a cancellare le responsabilità di
Höss. 7
La macrostrategia difensiva presente nel testo è abbastanza scontata e banale,
perché Höss si richiama, in maniera simile a quanto fatto da tutti i nazisti, al Befehlsnotstand, ovvero all’‘obbligo di obbedienza agli ordini’ definendosi una semplice rotella in un meccanismo molto più grande e attribuendo tutta la colpa al destino.
Egli si serve tuttavia nella sua autobiografia anche di strategie comunicative meno
evidenti e più sofisticate.
In primo luogo egli mira ad accreditarsi come psicologo e in particolare come
specialista di psicologia carceraria, trasformando la sua detenzione di cinque anni nel
carcere di Brandeburgo, dovuta a una condanna per omicidio, in una sorta di esperienza formativa in cui egli ha potuto acquisire quelle conoscenze che gli sarebbero
servite poi nel prosieguo della carriera nei vari lager. In tal modo egli non solo volge
in positivo un’esperienza negativa, ma può rivendicare soprattutto una sovranità interpretativa assoluta per tutto quanto riguarda la sua psiche, il suo sviluppo, la sua
vita e le sue esperienze.
Una seconda strategia impiegata da Höss consiste nel prendere le distanze dai
suoi sottoposti, dai suoi pari e anche dai suoi superiori. Alla loro brutalità, rozzezza
e sadismo egli oppone la propria sensibilità d’animo, la propria empatia e vicinanza
ai detenuti, derivanti proprio dalla sua passata esperienza carceraria. La sua durezza
e freddezza sarebbero state solo una sorta di maschera che egli era stato costretto a
indossare, ma che gli avrebbero causato un insanabile conflitto interiore. Anche le
circostanziate e ripetute critiche mosse a Himmler rientrano in questa strategia.
Un’ulteriore strategia ancora più subdola e perversa consiste nel colpevolizzare
per le loro sofferenze le stesse vittime, ad esempio gli omosessuali, i testimoni di
interrogatori al processo di Norimberga e al processo a Cracovia, oltre ai protocolli dei colloqui
avuti con gli psicologi sia a Norimberga che in Polonia. Per uno sguardo d’insieme su questi scritti
e testimonianze si veda M. Broszat, “Introduzione”, pp. XXIX-XXXII.
5 Cfr. V. Pisanty, L’irritante questione delle camere a gas, pp. 190-229.
6 P. Levi, Introduzione a Rudolf Höss, p. 1609.
7 Ho già condotto una simile analisi approfondita in A. Costazza, Rudolf Höss, Kommandant in Auschwitz, di cui riassumo qui di seguito le tesi principali.
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Geova, le donne nel lager, i prigionieri polacchi e ancor di più i prigionieri russi. Il
gruppo di detenuti che viene maggiormente colpevolizzato e diffamato è però naturalmente quello degli ebrei, che vengono accusati praticamente di tutto. Tale diffamazione raggiunge il suo apice nella descrizione del modo d’agire dei componenti
del Sonderkommando, che si sarebbero comportati secondo Höss quasi come se facessero parte del gruppo dei carnefici.
La diffamazione degli ebrei è d’altra parte l’espressione immediata di un antisemitismo così profondo e radicato che trapela da tutta l’opera e di cui Höss spesso non
sembra nemmeno rendersi conto. È proprio tale antisemitismo a impedire a Höss di
provare anche solo un briciolo di rimorso per i crimini compiuti: invece di pentirsi,
egli compiange solo se stesso, la durezza del proprio compito, il proprio destino e il
fatto di aver trascurato la propria famiglia.
Il riconoscimento della fitta e complessa trama delle strategie autoassolutorie
impiegate da Höss nella sua autobiografia dimostra da una parte l’inaffidabilità del
suo racconto, dall’altra però anche l’indiscutibile autenticità dello stesso, perché è
assolutamente inverosimile che essa possa esser il risultato di coercizione esterna, di
un lavaggio del cervello o addirittura l’opera di un abile falsario, come vorrebbero
far credere i negazionisti.
Una volta accertato però che l’autobiografia di Höss contiene molte falsità e che
Höss è a tutti gli effetti un mentitore seriale, che distorce sistematicamente la realtà
con finalità ben precise, è necessario chiedersi come delle rappresentazioni letterarie
o filmiche del comandante di Auschwitz possano aspirare a fornire un’immagine almeno tendenzialmente veritiera della sua vita e della sua personalità a partire dai suoi
scritti autobiografici e da altre sue testimonianze. Come è possibile, in altre parole,
cercare di ricostruire la verità a partire dalle dichiarazioni di un mentitore?
2. L’impossibilità di spiegare la genesi di un assassino di massa nel romanzo di
Robert Merle La mort est mon métier (1952)
La prima opera di finzione su Rudolf Höss è rappresentata dal romanzo dello scrittore francese Robert Merle (1908-2004) La mort est mon métier, pubblicato già nel
1952 – sei anni prima della pubblicazione in Germania dell’autobiografia del criminale nazista –, che si baserebbe, secondo quanto affermato dallo stesso autore, sulle
testimonianze rese da Höss durante il Processo di Norimberga e sui riassunti dei
colloqui condotti con lui in quell’occasione dallo psicologo americano George M.
Gilbert. 8
Benché il romanzo sia scritto al tempo passato e in prima persona, non si tratta assolutamente di una “autobiografia romanzata”, come è stata definita. 9 L’esatta
definizione del genere letterario è importante per distinguere il romanzo dalle “annotazioni autobiografiche” di Höss. Come per ogni autobiografia, anche per l’opera
di Höss è fondamentale infatti la distanza tra ‘io narrato’ e ‘io narrante’, che gli permette di riflettere da un punto di vista posteriore su quanto racconta, di interpretare o
commentare le proprie azioni, di fare delle anticipazioni, organizzando in tal modo il
R. Merle, La mort est mon métier, p. 10.
Così viene definito il testo da Felice Laudadio in una recensione della terza edizione italiana del romanzo nel 2020: F. Laudadio, “La morte è il mio mestiere di Robert Merle”.
8
9
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racconto in funzione di una complessa e articolata autodifesa. Nel romanzo di Merle
non c’è invece mai una simile scissione o uno sfasamento temporale tra ‘io narrante’
e ‘io narrato’, non ci sono prolessi e nemmeno commenti o tentativi di giustificazione
a posteriori delle proprie azioni. Il tempo verbale passato non esprime mai una distanza temporale, ma funge solo e unicamente da indicatore della finzione narrativa. 10
Il romanzo restituisce gli avvenimenti nell’immediatezza del loro avvenire, molto
spesso nella forma del dialogo tra i personaggi, cosicché il lettore rivive direttamente
le esperienze dell’ io narrante e spesso persino i suoi sogni e i suoi incubi, le sue
angosce e i suoi ricorrenti attacchi di panico, senza la possibilità di trovare un punto
di vista esterno da cui giudicare quanto viene narrato. E proprio in questa assoluta
immediatezza consiste l’aspetto disturbante della narrazione, che obbliga il lettore a
immedesimarsi con uno sterminatore di massa.
Già il fatto che più del 60% del romanzo sia occupato dalle vicende che precedono la nomina di Höss a comandante di Auschwitz, rivela chiaramente le intenzioni
perseguite da Merle: egli vuole infatti soprattutto cercare di capire come un uomo
qualunque possa essersi trasformato in uno sterminatore di massa e cerca le cause di
una simile evoluzione da una parte nella psicologia individuale del personaggio, nelle esperienze della sua infanzia e nella sua famiglia, dall’altra nell’influsso esercitato
su di lui dalla realtà storica, vale a dire dalle drammatiche condizioni sociali della
repubblica di Weimar.
I primi capitoli del romanzo riportano episodi dalla vita familiare di Höss –
che nel romanzo porta però il nome di Rudolf Lang, derivante da una fusione del
nome del personaggio reale con il nome Franz Lang, assunto da Höss dopo la fine
della guerra per sfuggire all’arresto –, una sua esperienza scolastica determinante,
il fanatismo religioso del padre, quindi il precoce arruolamento in un battaglione
dell’esercito e le traumatiche esperienze di guerra sul fronte mediorientale. Nei due
capitoli seguenti viene descritto il periodo dopo la demobilitazione alla fine della
guerra, la partecipazione nei Freikorps in Lituania, nella Ruhr e nella Slesia superiore, seguita dall’esperienza della disoccupazione e dei durissimi lavori occasionali, per giungere infine all’iscrizione alle SA, alla partecipazione a un omicidio e
quindi agli anni di carcere. È interessante notare che proprio l’esperienza carceraria,
che occupa un posto così rilevante nelle memorie autobiografiche, 11 perché funzionale alla strategia autoassolutoria di Höss, non riveste invece un ruolo significativo
all’interno del romanzo. 12 L’esperienza di Dachau, a cui Höss dedica nell’autobiografia molte pagine dense di riflessioni, viene liquidata in una frase, 13 mentre
occupano significativamente molto spazio i dubbi di Höss/Lang e le discussioni
con la moglie sull’opportunità di accettare l’impiego a Dachau, che nelle memorie
vengono appena accennati. 14 Il campo di Sachsenhausen, dove Höss fu aiutante
del comandante dall’agosto 1938 fino al maggio 1940, non viene invece nemmeno
nominato. 15
10 Cfr. sulla scomparsa del significato preteritivo del preterito in letteratura: K. Hamburger,
La logica della letteratura; P. Ricoeur, Tempo e racconto, vol. 2, pp. 104 sgg.
11 R. Höss, Comandante, pp. 28-43.
12 R. Merle, La morte è il mio mestiere, pp. 216-231.
13 Ibidem, p. 287; R. Höss, Comandante, pp. 49-67.
14 R. Merle, La morte è il mio mestiere, pp. 281-287; R. Höss, Comandante, pp. 47 sg.
15 Cfr. ibidem, pp. 68-92.
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È evidente come a Merle non interessi una ricostruzione precisa degli avvenimenti esteriori della vita di Höss, quanto piuttosto una ricostruzione ipotetica delle
sue esperienze interiori e in particolare dei suoi dubbi e delle sue crisi. A differenza
di quanto avviene nelle “annotazioni autobiografiche”, dove l’io narrante è un soggetto stabile, che ponendosi fuori di sé e atteggiandosi a psicologo compie un bilancio della propria esistenza, la personalità dell’io narrante Höss/Lang nel romanzo di
Merle appare estremamente fragile, costantemente in pericolo di essere travolta dalla
realtà e di perdere la propria identità: egli vive ripetuti attacchi di panico, stati d’ansia e di depersonalizzazione, cercando rifugio in azioni rituali come pulire le scarpe
o contare i passi, rivelatori di una chiara nevrosi ossessivo-compulsiva. Da questa
debolezza psichica, derivante dalle esperienze familiari e resa più drammatica dalle
esperienze sociali, proviene dunque secondo l’interpretazione del romanzo l’estremo
e fanatico senso del dovere di Höss/Lang e la sua cieca obbedienza agli ordini. Solo
la vita militare e la presenza di un’autorità sembrano in grado di stabilizzare la sua
identità: la sua adesione al partito nazionalsocialista segue immediatamente un tentativo di suicidio, e solo per senso del dovere e dell’obbedienza egli accetta di sposare
sua moglie, di andare a lavorare nel campo di concentramento di Dachau e quindi di
eseguire l’ordine impartito da Himmler di trasformare il campo di concentramento
di Auschwitz in un campo di sterminio. Nel periodo in cui si limita ad obbedire agli
ordini, spariscono significativamente le sue crisi, che riprendono non a caso subito
dopo che Höss/Lang ha appreso della morte di Himmler.
La rappresentazione dell’attività di Höss/Lang come comandante del campo
di Auschwitz avviene nel romanzo da un punto di vista strettamente soggettivo: le
drammatiche condizioni di vita degli internati nel lager non vengono mai nemmeno
tematizzate, perché esse non interessano evidentemente l’io narrante, che considera
l’eliminazione di centinaia di migliaia di ebrei solo e unicamente come un problema
tecnico da risolvere. In un primo momento la sfida consiste solo nel prosciugare le
paludi e nel creare la “gigantesca città” di Birkenau, 16 ma dopo aver ricevuto l’ordine
da Himmler di mettere in atto la Soluzione finale e aver ascoltato le indicazioni di
Eichmann, chiamato Wulfslang, il compito “tecnicamente impossibile” diventa quello di gestire 500.000 arrivi nei primi sei mesi, vale a dire 84.000 unità al mese, di cui
“2.800 unità da sottoporre ogni 24 ore al trattamento speciale”. 17 Per mesi, e quindi
per almeno 100 pagine, questo diventa l’unico problema per Höss/Lang. Egli si reca
dapprima a Treblinka per vedere con i propri occhi come gli internati venivano uccisi con il monossido di carbonio prodotto da un grosso camion e pensa subito alle
migliorie da apportare ad Auschwitz, individuando tra l’altro l’utilizzo del Cyclon B.
per eliminare molto più velocemente e a basso costo un numero immensamente maggiore di “inabili”. 18 Poiché però riconosce che il vero problema non è quello delle
uccisioni, bensì quello dell’eliminazione dei cadaveri, si reca a Kulmhof (Chełmno),
dove assiste impassibile prima al funzionamento dei forni crematori e quindi a scene
infernali della distruzione dei cadaveri col fuoco in ampie fosse comuni. Invece di
provare orrore per quello che ha visto, Höss/Lang è addirittura “inebriato” dall’idea
di costruire un “gigantesco impianto industriale” 19 finalizzato allo sterminio e prova
16
17
18
19
R. Merle, La morte è il mio mestiere, pp. 293-295.
Ibidem, p. 309-311. Corsivo nell’originale.
Ibidem, pp. 335-337.
Ibidem, p. 339.
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“una certa soddisfazione intellettuale” pensando a come “l’intera operazione si sarebbe svolta senza ostacoli in uno stesso luogo […], come in un’azienda industriale”. 20
Solo verso la fine dell’opera Merle introduce alcuni elementi che permettono
al lettore di considerare dall’esterno in maniera critica la figura di Höss/Lang. Uno
di questi elementi è costituito dalla figura inventata dell’Obersturmführer Setzler,
strettissimo collaboratore di Höss/Lang in tutte le fasi di progettazione e realizzazione delle camere a gas e dei crematori, che dopo il rifiuto opposto alla sua richiesta
di essere inviato al fronte, il giorno di Natale si uccide proprio con il monossido di
carbonio dello scappamento della sua auto. Höss/Lang non ha mai capito la sua disperazione, non vuole capire e vuole nascondere le motivazioni del suo gesto. L’altro
momento in cui il lettore ottiene la possibilità di considerare criticamente dall’esterno la posizione di Höss/Lang è rappresentato dall’acceso diverbio tra Lang e la moglie, dopo che questa ha scoperto che nel lager venivano uccisi con il gas migliaia di
ebrei, uomini, donne e bambini. Di fronte al profondo disprezzo della moglie, Höss/
Lang mostra tutta la sua ‘banalità’, riuscendo solo a richiamarsi alla necessità assoluta dell’obbedienza agli ordini. Nemmeno durante gli interrogatori a Norimberga o
al processo a Varsavia Höss/Lang riesce a comprendere la propria colpa e a pentirsi:
di fronte a un tenente colonello americano che lo considera il simbolo di “quanto
un mezzo secolo di storia tedesca comportava di violenza e fanatismo”, 21 continua
a ribadire di aver solo obbedito agli ordini e che rifarebbe tutto, se gli venisse ordinato: “Pensavo agli ebrei […] in quanto unità aritmetiche, non mai in quanto esseri
umani. Concentravo la mia attenzione sui lati tecnici del mio compito”. 22 Con lo
sguardo pieno di “compassione ed orrore”, il colonello non può che rispondergli:
“Siete totalmente disumanizzato”. 23 In queste parole trova espressione la consapevolezza da parte dell’autore del fallimento del suo progetto di comprendere la genesi di un omicida di massa, perché né l’ambiente famigliare né le condizioni socioeconomiche di un’epoca possono spiegare ciò che va oltre l’umano. D’altra parte,
proprio l’ammissione di questo fallimento, lo sguardo attonito di fronte a qualcosa di
incomprensibile, rappresenta forse una delle possibilità di non cadere nella trappola
delle argomentazioni autogiustificative messe in atto da Höss nella sua autobiografia.
3. Höss come prodotto della storia tedesca nel film di Theodor Kotulla Aus einem
deutschen Leben (1977)
Come suggerisce già il titolo, anche il film del 1977 Aus einem deutschen Leben
(Da una vita tedesca), del regista tedesco di origine polacca Theodor Kotulla (19282001), 24 condivide la stessa interpretazione del romanzo di Merle, considerando
Ibidem, p. 369.
Ibidem, p. 449.
22 Ibidem, p. 451.
23 Ibidem, p. 452.
24 Il film è ora disponibile in forma digitalizzata come DVD e porta stranamente sulla copertina il nome dell’attore principale e non quello del regista: G. George, Aus einem deutschen Leben.
Per una considerazione del film nel contesto più ampio dei molti film sul nazionalsocialismo prodotti nella Germania Ovest e nella Germania Est tra il 1946 e il 1989, cfr. L. Bartholomei, Bilder
von Schuld und Unschuld.
20
21
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Höss un tipico rappresentante di un’epoca della storia tedesca. Il film segue molto
da vicino il romanzo dell’autore francese ed è suddiviso in 15 episodi, introdotti da
didascalie bianche su sfondo nero che talvolta anticipano il contenuto dell’episodio,
altre volte riassumono invece il periodo tra l’episodio precedente e quello che seguirà. Le didascalie, che indicano sempre il numero dell’anno a partire dal 1916 fino al
1946, con alcune pause più lunghe tra il 1928 e il 1934 e quindi tra il 1934 e il 1941,
hanno l’effetto di frammentare l’azione e servono a creare una sorta di ‘straniamento’ di tipo brechtiano. 25 Tutto il film ha d’altra parte la natura di un’opera teatrale,
essendo composto da molti dialoghi e da altrettanti lunghi monologhi. Anche lo sfondo delle scene in esterno – dei combattimenti al fronte, delle battaglie di strada nel
dopoguerra, l’officina, il cantiere, la tenuta agricola in Pomerania ma anche il campo
di concentramento di Auschwitz – è tendenzialmente statico e assomiglia più a un
fondale di scena. Il lager appare ad esempio sempre deserto o occupato tutt’al più da
un paio di detenuti che spazzano un viale o invariabilmente occupati a scavare delle
fosse. Solo quando Lang/Höss presenta a Himmler il funzionamento di una camera
a gas, una cinquantina di uomini di mezza età, vestiti in borghese e con al braccio la
fascia con la stella di David, marciano attraverso il lager guidati da un’unica guardia.
Questa “assenza di vittime”, 26 che è allo stesso tempo assenza di realtà, rispecchia
indubbiamente la psicologia del personaggio, che è concentrato solo su se stesso ed è
incapace di interagire con la realtà esterna. Mentre tuttavia nel racconto in prima persona del romanzo la realtà può quasi scomparire quando non viene percepita dall’io
narrante, nel film essa reclama per così dire di essere rappresentata nella sua interezza, tanto più se deve servire a rendere plausibile l’evoluzione della personalità del
protagonista. Proprio il protagonista Franz Lang appare però, grazie alla recitazione
volutamente inespressiva di Götz George (1938-2016), assolutamente passivo e non
partecipe, dando l’impressione di assistere agli avvenimenti della propria vita senza
capirli, più da spettatore che da soggetto agente.
Il film tralascia di mostrare l’influenza esercitata sul protagonista dal padre e
dalla scuola e si concentra piuttosto sulle esperienze fatte al fronte dal giovanissimo
Höss/Lang e poi soprattutto sui duri anni del dopoguerra. Benché per un senso esagerato del dovere e dell’obbedienza si renda responsabile della morte di un commilitone e di due omicidi, egli appare più come vittima delle circostanze che come assassino. Anche la sua adesione al partito nazionalsocialista, che segue immediatamente
un tentativo di suicidio, ha più un significato esistenziale che ideologico e politico.
E prima di accettare la proposta di Himmler di recarsi nel campo di Dachau, Höss/
Lang ne discute a lungo con la moglie, accettando solo per senso del dovere. Il film
tralascia completamente le esperienze di Höss/Lang a Dachau e Sachsenhausen e con
un salto di circa sette anni riprende la sua biografia nel 1941, quando ormai da un
anno egli è comandante del campo di Auschwitz e viene convocato da Himmler che
lo incarica di mettere in atto la Soluzione finale. Più che le azioni del protagonista,
sono soprattutto i discorsi di Himmler ad apparire brutali e disumani.
Così come viene rappresentato nel film, dove appare spesso in ufficio, con gli
occhiali che gli conferiscono un aspetto più mite e quasi intellettuale, mentre consulta statistiche degli ebrei uccisi col gas o revisiona i progetti delle camere a gas e
dei forni crematori, Höss/Lang incarna perfettamente l’‘assassino da scrivania’ (Sch-
25
26
Cfr. Ch. Haase, “Theodor Kotulla’s Excerpts from a German Life”, pp. 52; 57.
L. Bartholomei, Bilder von Schuld und Unschuld, p. 266.
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reibtischtäter). Persino dopo la drammatica discussione avuta con la moglie dopo
che questa ha scoperto in cosa consisteva la sua attività ad Auschwitz, Höss/Lang
riprende tranquillamente la sua attività genocidaria e in diverse occasioni successive
scambia anzi sguardi amorevoli con la moglie. Come mostra soprattutto l’interrogatorio condotto in carcere da un ufficiale americano, egli non si pente del suo crimine
e sarebbe disposto a rifare tutto, se solo ricevesse l’ordine, perché non è assolutamente in grado di comprendere né razionalmente né tanto meno a livello di empatia
la mostruosità del suo operato.
È difficile, se non impossibile, dire quale sia l’effetto complessivo del film. Non
credo ci possano essere dubbi sulle intenzioni del regista Kotulla, che ha inteso rappresentare l’uomo qualunque o ‘banale’ di cui aveva parlato Hannah Arendt, 27 per
indurre in tal modo lo spettatore a porsi degli interrogativi su quale sarebbe stato il
suo comportamento nel contesto di quelle determinate circostanze storiche e sociali.
La spiegazione e la comprensione delle circostanze che hanno condotto al formarsi
di una determinata personalità e di conseguenza all’attuazione di uno dei più grandi
crimini dell’umanità rischia tuttavia di apparire in parte come una giustificazione e
non c’è da stupirsi se il film è stato interpretato anche in questo modo e aspramente
criticato. 28 Aiutato anche dai colori smorti, dalla mancanza di colonna sonora, da una
recitazione anaffettiva e in generale da una rappresentazione distaccata della realtà,
che non ricerca particolari effetti emotivi, lo spettatore non è indotto, da una parte, a
prendere le distanze dal protagonista. D’altra parte, tuttavia, il fatto che nell’ultima
scena una voce fuori campo legga per quattro minuti quanto Höss/Lang sta scrivendo
nella prigione di Cracovia, vale a dire l’esatta procedura dello sterminio nelle camere
a gas, a partire dall’arrivo dei treni alla rampa fino alla distruzione dei cadavere nei
forni crematori, confronta in maniera così diretta lo spettatore con la brutalità del
crimine, da obbligarlo a ripensare criticamente anche il proprio atteggiamento di
‘comprensione’ durante il film.
4. La rinuncia alla finzione nel monologo di Jürg Amann Der Kommandant (2011)
Nel 2011 lo scrittore svizzero Jürg Amann (1947-2013) rielabora l’autobiografia
di Rudolf Höss, condensandola nel monologo teatrale Der Kommandant, tradotto
due anni più tardi anche in italiano con il titolo Il comandante. 29 Secondo le parole
dell’autore si tratterebbe di una risposta al romanzo Les bienveillantes (Le benevole)
di Jonathan Littell, 30 ma l’operazione potrebbe essere intesa anche come risposta implicita all’opera di finzione di Merle. Parafrasando in un certo senso il famoso detto
di Adorno, Amann ritiene che nel contesto della Shoah “qualunque invenzione risulta oscena”. 31 E poiché considera “la testimonianza diretta di Höss” una “ingenua e
Ibidem, pp. 268 sgg.
Ibidem, pp. 259 sg. Si vedano invece le recensioni positive: ibidem, pp. 270 sgg. Bartholomei non prende posizione e parla di un’“immagine ambigua” della responsabilità di Höss. Ibidem,
pp. 264 sgg.
29 J. Amann, Der Kommandant; trad. it.: Id., Il comandante.
30 Ibidem, p. 67.
31 Ibidem. La traduzione smorza in verità la forza del termine tedesco “obszön”, rendendolo
con “innappropriata”.
27
28
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sconvolgente autodenuncia”, 32 rinuncia a qualsiasi invenzione letteraria, limitandosi
a condensare la sua autobiografia in circa un quinto della lunghezza originale, intervenendo sul testo solo per tagliare delle frasi, degli interi paragrafi e alcune volte fino
a una ventina di pagine. Solo per la rappresentazione della liquidazione degli ebrei
nelle camere a gas, Amann integra nei capitoli X-XIV la testimonianza autobiografica di Höss con le descrizioni più crude e ‘oggettive’ dello scritto La “soluzione finale
della questione ebraica” nel campo di Auschwitz, da lui redatto durante la detenzione
a Cracovia nel 1946. 33
Amann rinuncia quindi alla letteratura con i mezzi della letteratura, prendendo
per realtà oggettiva le memorie di Höss e non rendendosi conto del carattere di costruzione narrativa e retorica di questo testo, finalizzato soprattutto all’autodifesa.
Nella sua condensazione teatrale egli persegue una sorta di estetica dello shock, che
mira a sconvolgere lo spettatore o il lettore attraverso il contrasto tra la ‘banalità’ del
carnefice e la mostruosità dei crimini da lui raccontati con assoluto distacco oggettivo. Così facendo, egli non permette tuttavia al lettore o allo spettatore di riconoscere
le strategie messe in atto da Höss e di smascherare quindi le molte bugie, le diffamazioni e le distorsioni della realtà presenti nelle sue memorie.
Ripercorrendo in maniera molto sintetica nei primi cinque capitoli il racconto
fatto da Höss sulla sua giovinezza, sulla sua partecipazione alle azioni militari in
Iraq e in Palestina, quindi sulla sua partecipazione ai Freikorps e sulla sua esperienza carceraria, Amann non riporta i continui tentativi di Höss di accreditarsi come psicologo e di rivendicare la sovranità interpretativa su se stesso e sulle proprie
azioni, ma finisce comunque per considerarlo un testimone affidabile e credibile,
sinceramente interessato a comprendere i meccanismi della propria interiorità e a
capire la provenienza di quel senso di ordine e di obbedienza assoluta all’autorità
che avrebbero caratterizzato tutta la sua vita. Nei capitoli sull’attività di Höss nei
campi di Dachau, Sachsenhausen e quindi Auschwitz, Amann sopprime poi quasi
completamente le reiterate lamentele di Höss sulla durezza del suo compito e ancor più le continue critiche mosse a Himmler, ai superiori e ai sottoposti. Ciò che
rimane di queste critiche 34 acquista tuttavia paradossalmente un più alto valore di
verità, poiché non è possibile riconoscerlo come parte di una strategia discorsiva
più ampia articolata. La stessa cosa vale anche per la ricorrente colpevolizzazione delle vittime portata avanti da Höss nelle sue memorie. Amann si concentra
naturalmente soprattutto sullo sterminio degli ebrei e quindi non fa parlare Höss
né delle lotte intestine dei prigionieri polacchi, né dei testimoni di Geova, né degli omosessuali, né tantomeno delle terribili condizioni del ‘campo femminile’
e delle sorveglianti. Nel monologo teatrale vengono ripresi invece alcuni passi
sugli zingari e soprattutto sui prigionieri russi. 35 I pochi capoversi riportati su questi prigionieri, che vengono accusati esplicitamente di cannibalismo e di essersi
trasformati in animali, non permettono tuttavia al lettore o spettatore di cogliere
l’insopportabile cinismo di simili diffamazioni. Già nella sua autobiografia Höss
Ibidem.
Cfr. ibidem, pp. 43 sgg.; R. Höss, Comandante, pp. 183 sgg.
34 Cfr. ad es. la critica ai capiblocco, definiti “individui falsi, rozzi, vilenti e spesso malvagi”
(J. Amann, Il comandante, p. 25), oppure quella ai metodi del comandante del campo di Dachau
Theodor Eicke (ibidem, p. 26).
35 Ibidem, pp. 36-38; R. Höss, Comandante, pp. 111-119.
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sembra infatti non rendersi conto che le condizioni terribili in cui questi prigionieri
versavano e che avevano fatto sì che a febbraio 1942 rimanessero in vita meno di
1500 dei 10.000 prigionieri arrivati ad Auschwitz all’inizio di ottobre 1941, erano opera sua. Accusando inoltre i prigionieri russi di “psicosi di massa”, perché
temendo di essere uccisi con il gas avevano tentato la fuga, 36 Höss sottace che i
primi prigionieri uccisi con il Cyclon B già all’inizio di settembre 1941 erano stati
appunto circa 600 prigionieri russi. 37
Molto più spazio è dedicato nell’opera di Amann allo sterminio degli ebrei,
che occupa quattro capitoli, nei quali vengono descritti le selezioni sulla rampa,
la costruzione e il funzionamento delle camere a gas e dei forni crematori. Benché
Amann non riporti numerosi passi in cui Höss dà libero sfogo al suo profondo antisemitismo, accusando apertamente gli ebrei di corruzione e di aver perseguitato
i propri “compagni di razza” fino a causare la loro morte o a spingerli al suicidio, 38
egli non indietreggia invece di fronte ad altre diffamazioni che riguardano presunte
rivelazioni da parte di ebrei immediatamente prima di entrare nella camera a gas degli “indirizzi di altri appartenenti alla loro razza ancora nascosti” ovvero il comportamento “alquanto strano” dei membri del Sonderkommando, che agivano “come se
appartenessero anche loro agli sterminatori”. 39
Amann salta quindi completamente il capitolo in cui Höss racconta del periodo
in cui fu Capo servizio all’Ispettorato dei campi di concentramento e soprattutto delle
terribili marce della morte dopo l’evacuazione dei campi, durante le quali egli si atteggia addirittura a difensore degli internati dei campi, 40 e non riprende nemmeno il
racconto della fine della guerra, per concentrarsi invece sulle giustificazioni addotte
da Höss per il proprio comportamento. Come già in molti altri passi delle memorie,
Höss si definisce un uomo sensibile, che solo per il dovere di obbedienza agli ordini
(Befehlsnotstand) ha dovuto indossare una maschera di freddezza e crudeltà. 41 A
questa autogiustificazione egli aggiunge l’autocommiserazione, pentendosi non per
i crimini commessi, ma per aver trascurato la famiglia e i figli e preoccupandosi del
loro futuro. 42 Nelle pagine finali egli si definisce “un ingranaggio nella grande macchina di sterminio del Terzo Reich” e attribuisce la responsabilità delle sue azioni
al destino. Anche quando sembra riconoscere l’errore dello sterminio degli ebrei,
in realtà si rammarica solo per il fatto che tale sterminio ha attirato sulla Germania
l’odio del mondo e avrebbe “addirittura giovato agli ebrei, li ha avvicinati di molto
al loro obiettivo finale”. 43
A conclusione dell’opera rimane dunque il dubbio se il lettore o lo spettatore,
non avendo avuto la possibilità di cogliere le strategie diffamatorie e autoassolutorie
che intessono tutta la ‘confessione’ di Höss e non avendo quindi potuto riconoscere
le sue molte menzogne, non rischi di credere anche alle sue ultime giustificazioni e
addirittura alla sincerità del suo pentimento.
36
37
38
39
40
41
42
43
Ibidem, p. 114.
Cfr. ibidem, pp. 138-140; 185 sg.; J. Amann, Il comandante, pp. 46 sg.
R. Höss, Comandante, pp. 119-125.
J. Amann, Il comandante, pp. 58 sg.
R. Höss, Comandante, pp. 151-168.
J. Amann, Il Comandante, p. 60.
Ibidem, pp. 60-62; R. Höss, Comandante, pp. 148-150.
J. Amann, Il comandante, pp. 63-66; R. Höss, Comandante, pp. 174-180.
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5. Il riconoscimento tardivo dell’inattendibilità delle memorie di Höss nel romanzo
di Thomas Harding Hanns and Rudolf
Solo due anni dopo il monologo di Jürg Amann, il giornalista e scrittore inglese
Thomas Harding (1968) pubblicò Hanns and Rudolf: The German Jew and the Hunt
for the Kommandant of Auschwitz (2013), immediatamente tradotto in italiano con
il titolo Il comandante di Auschwitz (2013), seguito dal sottotitolo esplicativo: Una
storia vera. Le vite parallele del più spietato criminale nazista e dell’ebreo che riuscì a catturarlo. 44 Come chiarisce il sottotitolo dell’edizione italiana, si tratta di una
doppia biografia composta da 17 capitoli, in cui vengono narrate alternativamente
la vita di Rudolf Höss e quella di Hanns Alexander, prozio dell’autore, che guidò la
squadra dell’esercito inglese che catturò il criminale nazista. 45 Benché ogni capitolo
sia seguito da note esplicative e l’opera contenga una bibliografia e un indice dei
nomi, non si tratta di un lavoro scientifico, bensì di un racconto che mira soprattutto
ad essere avvincente e a catturare il lettore. Il racconto è scritto al tempo passato in
terza persona, ma il narratore extradiegetico non è onnisciente, perché non conosce i
pensieri dei personaggi, ma assume piuttosto il ruolo di uno storico che basa il proprio sapere su documenti e si mantiene molto distaccato e discreto, facendo trapelare
solo con molta parsimonia e indirettamente i propri commenti o giudizi.
Le due biografie, che si incrociano solo negli ultimi tre capitoli, sono molto
distanti tra loro e proprio questa distanza è forse l’aspetto più interessante del libro.
Mentre infatti i capitoli dedicati alla biografia di Höss mostrano, anche se non con
la dovizia di particolari presente nel romanzo di Merle, le difficili condizioni sociali
della piccola borghesia durante la Repubblica di Weimar, l’ambiente in cui cresce
Hanns Alexander è quello di una ricchissima famiglia ebrea di Berlino, la cui casa è
frequentata da intellettuali e scienziati (ad esempio da Einstein) e in cui regnano gli
ideali umanistici e principi educativi molto progressisti e liberali. Le vicende di questa famiglia servono comunque a mostrar anche l’imbarbarimento progressivo della
realtà sociale tedesca soprattutto in seguito alla salita al potere di Hitler, al montante
antisemitismo e all’introduzione delle leggi razziali. Pur perdendo i propri beni, la
famiglia Alexander riuscirà comunque ad emigrare in Inghilterra già nel 1936, cosicché i capitoli seguenti si occupano in particolare delle vicissitudini di Alexander e
del fratello gemello Paul per farsi arruolare nell’esercito inglese, diventare ufficiali e
partecipare quindi alla guerra contro la Germania.
Tanto nel filone della vita di Höss che in quello di Alexander, le vicende personali sono sempre inquadrate nel contesto più ampio dei più importanti avvenimenti
storici. Anche molti elementi della biografia di Höss diventano in questo modo più
chiari e più comprensibili di quanto possano risultare, soprattutto per un lettore non
specialista, dalla prospettiva necessariamente limitata di un racconto in prima persona, sia esso l’autobiografia di Höss o il romanzo di Merle.
Nel suo racconto della vita del criminale nazista, Harding segue da vicino i racconti fatti nella sua autobiografia ma anche nei vari interrogatori e ciò vale soprattutto per i primi tre capitoli sull’infanzia di Höss, sulla sua attività sul fronte militare
in Iraq, in Siria e in Palestina, sul dopoguerra, sulla sua partecipazione all’omicidio
di un camerata e la conseguente detenzione. Se per le prime esperienze non ci sono
44
45
Th. Harding, Il comandante di Auschwitz.
Cfr. la “Prefazione” del volume: ibidem, pp. 11-14.
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praticamente altre fonti oltre ai racconti dello stesso Höss, 46 almeno nel caso dell’omicidio questi documenti esistono, 47 ma Harding non mette mai in discussione la
versione di Höss, senza rendersi conto che un imputato non può essere considerato
un testimone attendibile. Il narratore crede a Höss anche quando questi afferma di
non aver mai condiviso l’odio e la violenza presente nei discorsi del partito nazista
e soprattutto di non aver mai odiato gli ebrei, pur essendo stato un convinto antisemita. 48 E non si accorge nemmeno della sua strategia autodifensiva, quando vuole
distinguersi dalla malvagità, brutalità e viltà degli altri agenti del lager di Dachau,
che sfogavano sui prigionieri le proprie voglie perverse, citando alla lettera alcuni paragrafi delle sue memorie e prestando fede alle sue dichiarazioni, quando asserisce di
aver sempre provato empatia per i prigionieri e di essere stato obbligato ad indossare
una maschera di freddezza e durezza. 49
Da esperto narratore qual è, Harding è evidentemente interessato a mostrare soprattutto un’evoluzione nel carattere di Höss, il passaggio cioè da una prima fase di
resistenza interiore alla violenza a una fase di distaccata e fredda obbedienza. Già alla
fine del capitolo su Dachau e Sachsenhausen viene detto che Höss “si era trasformato
in un insensibile strumento di cieca lealtà”. 50 “Rudolf aveva ormai adottato il brutale
modo di fare a cui aveva in precedenza rinunciato a Dachau e Sachsenhausen” 51 e
per questo motivo accetta senza batter ciglio l’ordine impartitogli da Himmler nell’estate del 1941 52 di trasformare Auschwitz in campo di sterminio: “Non potevo permettermi di chiedermi se queste uccisioni di massa fossero necessarie o meno”. 53
Nonostante questo deciso cambiamento nell’atteggiamento di Höss, dopo aver
riportato la descrizione della gassazione degli ebrei nella primavera del 1942, Harding dà ancora credito alle autogiustificazioni del comandante, citando il passo della
sua autobiografia in cui egli si rifà al Befehlsnotstand e ripete in un solo paragrafo per
ben nove volte il verbo “dovevo”. 54 Solo dopo aver riproposto qualche pagina più
tardi un’altra parte di questa tipica autogiustificazione di molti criminali nazisti, 55 il
narratore dà voce per la prima e unica volta a un dubbio sull’affidabilità delle dichiarazioni del comandante di Auschwitz: “Impossibile sapere se Rudolf avesse davvero
dubbi del genere”. 56
Harding evita di riprodurre la diffamazione delle vittime presente nell’autobiografia: non parla mai delle lotte fratricide tra i prigionieri polacchi, dei prigionieri
46 Cfr. tuttavia lo smascheramento di alcune menzogne e imprecisioni riguardo a questo
periodo da parte V. Koop, Der Kommandant von Auschwitz, pp. 17-23.
47 Cfr ibidem, pp. 24-29.
48 Th. Harding, Il comandante, pp. 67; 68 sg.
49 Ibidem, pp. 80 sg.; 84 sg.
50 Ibidem, p. 85.
51 Ibidem, p. 129.
52 Harding sa che gli storici tendono nel frattempo a posticipare di un anno questo incontro,
ma si limita a relativizzare l’affermazione di Höss, scrivendo “secondo Rudolf”. Ibidem, pp. 129
sgg. Cfr. p. 135, nota 12. Cfr. su questa questione V. Pisanty, L’irritante questione, pp. 191 sg.;
212 sgg.
53 Th. Harding, Il comandante di Auschwitz, p. 131.
54 Ibidem, p. 152. Cfr. R. Höss, Comandante, pp. 146 sg.
55 Th. Harding, Il comandante di Auschwitz, p. 156.
56 Ibidem.
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russi che si sarebbero trasformati in “bestie”, delle terribili guardiane del lager femminile; evita anche di accusare gli ebrei di essere i principali autori delle loro sofferenze, non rinfaccia loro di essere l’origine della corruzione nel campo e descrive in
maniera molto oggettiva e con poche parole, senza esprimere giudizi morali, le azioni del Sonderkommando, ricordando piuttosto come i suoi membri, “una volta portato a termine il compito, sarebbero stati a loro volta uccisi”. 57 Egli aggiunge inoltre
soprattutto altri elementi, non presenti nell’autobiografia del comandante, tendenti
evidentemente a far sorgere nel lettore più di un dubbio sull’etica del lavoro e sulla
moralità che Höss si attribuisce nel suo scritto. Vengono dedicate così alcune pagine
alla vita agiata e serena della moglie Hedwig e dei tre figli di Höss nella villa costruita immediatamente fuori dal lager, sottolineando l’avidità e l’arroganza della moglie
e il contrasto tra quella ricchezza e la miseria nel campo. 58 Alcune pagine trattano
quindi della relazione extraconiugale avuta da Höss con la prigioniera austriaca Eleanor Hodys, imprigionata poi nelle celle sotterranee del blocco 11 di Auschwitz e
costretta ad abortire, 59 mentre il capitolo successivo prosegue con il racconto delle
indagini sulla corruzione presente nel campo di sterminio di Auschwitz ad opera del
giudice delle SS Konrad Morgen, che scrisse un rapporto molto negativo anche su
Höss. 60 Viene ricordato, infine, anche il ruolo svolto da Höss nello sterminio degli
ebrei ungheresi ad Auschwitz nel maggio 1944, in quella che fu chiamata non a caso
la Aktion Höss e a cui il comandante non fa naturalmente cenno nella sua autobiografia. 61
Narrando della fuga di Höss alla fine della guerra, dell’arresto e quindi della sua
testimonianza al processo di Norimberga, Harding si appoggia ovviamente sempre
meno alle memorie del comandante di Auschwitz e si limita a riassumere i giudizi
sulla sua personalità espressi dagli psicologi Gustave Gilbert e Leon Goldensohn,
per riprodurre poi le giustificazioni addotte da Höss durante il processo del proprio
comportamento, il suo richiamarsi al Befelsnotstand e la sua autocommiserazione.
In un primo momento, il narratore sembra credere alla sincerità delle intenzioni che
avevano spinto Höss a scrivere le sue memorie, 62 salvo poi riconoscere qualche pagina più tardi, trattando del processo di Varsavia, in cui Höss “rispose in modo arrogante alle domande”, “senza mostrare segni di pentimento”, che quelle memorie
avevano rappresentato la sua “difesa più veemente”. 63 Solo a questo punto dell’opera
Harding sembra dunque riconoscere la funzione di quello scritto, mettendo almeno
implicitamente in dubbio la veridicità delle affermazioni di Höss e ricordando come
l’accusa al processo di Varsavia ebbe gioco facile nello smontare tutte quelle affermazioni e tentativi di autodifesa. 64 Così facendo, tuttavia, l’autore inglese sembra
non rendersi conto di essere caduto nel ‘paradosso del mentitore’, avendo basato gran
parte del proprio racconto proprio su quelle stesse memorie che finisce per ritenere
inattendibili.
57
58
59
60
61
62
63
64
Ibidem, pp. 150 sgg.
Ibidem, pp. 118-122; 159-162.
Ibidem, pp. 162-166.
Ibidem, pp. 179-181.
Ibidem, pp. 185-188.
Ibidem, pp. 292 sgg.
Ibidem, p. 296.
Ibidem, pp. 296 sg.
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6. Conclusione
In conclusione, credo si possa affermare che solo il chiaro riconoscimento dell’intrinseca falsità delle memorie di Höss, che distorcono sistematicamente la realtà con
finalità autogiustificative, possa condurre a una rappresentazione ‘veritiera’ della
vita e della personalità del criminale nazista. Tale rappresentazione non potrà però
allora che mettere in scena Höss come testimone e narratore inattendibile, smascherando dove possibile le sue menzogne e argomentazioni. Nessuna delle opere prese
in considerazione segue tuttavia una simile strategia. Mentre il romanzo di Merle e
il film di Kotulla capitolano per così dire di fronte all’impossibilità di ‘spiegare’ la
genesi di un criminale ‘banale’, Amann punta invece tutto sull’effetto dello shock,
senza fornire però al lettore o allo spettatore i mezzi per riconoscere le menzogne di
Höss e finendo addirittura per credere alla sua sincerità. Proprio per le caratteristiche
della sua opera, a metà tra biografia romanzata e saggio storico, Harding avrebbe
avuto le possibilità maggiori di adempiere a un simile compito di smascheramento,
ma anche lui si lascia sfuggire questa opportunità, riconoscendo solo nelle ultime
pagine la falsità della testimonianza di Höss.
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