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A
Prospettive
sul pensiero
sistemico
I/2023
ISSN: 2385-1945
B
Kitchen #18
I
Philosophy
C
A cura di Luca Fabbris e Alberto Giustiniano
P
K
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Prospettive
sul pensiero
sistemico
A cura di Luca Fabbris e Alberto Giustiniano
37
7
Cibernetica.
Prospettive sul pensiero
sistemico
Luca Fabbris
Alberto Giustiniano
Marco Ferrari
57
I. CIBERNETICA.
L’EVENTO E I SUOI
A Reconstruction of
Epistemological Foundations
of Cybernetics.
The First Steps in Epistemologies
of Complexity
L’officina cosmica.
Biosfera, organizzazione, ecologia
nel pensiero
pre-cibernetico russo
Francesco Vitali Rosati
ANTEFATTI
15
La cibernetica prima della
cibernetica.
Filosofia, scienza e tecnica in
Norbert Wiener
(1914-1943)
II. LE AVVENTURE
DELL’INFORMAZIONE
73
Arantzazu Saratxaga Arregi
“Ciberneretica” simondoniana
Francesca Sunseri
89
The Unmeaning Machine.
Cybernetics from Semiotics to AI
Niccolò Monti
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023
EDITORIALE
3
105
I diversi livelli di informazione e
comunicazione nel mondo vivente
e la costruzione del significato
Luciano Boi
201
Tecnoplastia.
Note sulla poiesi macchinica
Gregorio Tenti
213
III. L’USO DEI SISTEMI
Sociologia dei mezzi di
comunicazione.
Considerazioni per una teoria
generale
Giancarlo Corsi
131
On the Framing of Systems and
Cybernetic Models
V. TESTIMONIANZE
Robin Asby
149
Paolo Capriati
165
E MATERIALI
Autopoiesi dei sistemi politici: il
caso Cybersyn
235
Arte e interattività: per un’estetica
dei sistemi
Saverio Macrì
IV. OGGETTI, MACCHINE,
MEDIA
183
Cibernetica orientata all’oggetto.
L’oggettivismo radicale di
Ranulph Glanville
Luca Fabbris
All’ombra di nuove scienze in
fiore.
Lo strano caso della cibernetica
con uno sguardo all’Italia degli
anni Sessanta
Settimo Termini
251
Il glossario del Biological
Computer Laboratory
Editoriale
Cibernetica.
Prospettive sul pensiero sistemico
Luca Fabbris
Dottorando presso l’Università degli
Studi di Torino (Consorzio FINO) con
un progetto incentrato sull’ontologia
dei sistemi auto-organizzati nella
cibernetica di second’ordine. Ha
conseguito la Laurea Magistrale
con una tesi su William Ross
Ashby. Co-dirige insieme ad Alberto
Giustiniano e Claudio Tarditi la collana
“BIT” per l’editore Orthotes.
Alberto Giustiniano
Dottorando presso l’Università degli
Studi di Padova e caporedattore della
rivista di filosofia contemporanea
Philosophy Kitchen dell’Università di
Torino. Si occupa prevalentemente di
decostruzione e fenomenologia, teoria
dei sistemi e cibernetica.
alberto.giustiniano@gmail.com
luc.fabb@gmail.com
Era il maggio 1942, poco più di ottant’anni fa. A New York si tenne il seminario “Cerebral Inhibition”. Organizzato da Frank Fremont-Smith, allora
direttore medico della Josiah Macy Jr. Foundation, il seminario vide tra
i partecipanti svariati ricercatori provenienti da diversi ambiti del sapere.
Oltre all’antropologa Margaret Mead e all’antropologo Gregory Bateson,
vi presero parte lo psicanalista Lawrence Kubie, lo scienziato sociale
Lawrence K. Frank e due neurofisiologi: Warren McCulloch – che un anno
dopo avrebbe pubblicato, insieme a Walter Pitts, un testo pioneristico sulle reti neurali artificiali – e Arturo Rosenblueth. Quest’ultimo, per l’occasione, presentò la ricerca, condotta insieme a Norbert Wiener e Julien
Bigelow, che portò alla stesura del celebre articolo Behavior, Purpose
and Teleology (1943), nel quale si mostrava l’equivalenza funzionale tra il
comportamento finalizzato del vivente e quello esibito dalle macchine auto-regolate tramite retroazione.
Fu da questo nucleo di ricercatori che, finita la Seconda Guerra
Mondiale, sotto l’egida della Macy Foundation prese vita un ciclo di conferenze interdisciplinari con cadenza semestrale, che si tennero dal 1946
al 1953. Dapprima intitolate “Feedback Mechanisms and Circular Causal
Systems in Biology and the Social Sciences”, dopo il 1948, con l’uscita di
Cybernetics, or the Control and Communication in the Animal and in
the Machine di Wiener, le conferenze presero il nome di “Cybernetics:
Circular Causal, and Feedback Mechanisms in Biological and Social
Systems”. Tra i partecipanti vi furono matematici, psicologi sperimentali e gestaltisti, fisici, ingegneri, sociologi, ecologi, antropologi, biologi e
linguisti.
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 7 — 11
7
Cibernetica. Prospettive sul pensiero sistemico
Luca Fabbris, Alberto Giustiniano
8
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 7 — 11
Come ebbe modo di ribadire Fremont-Smith in occasione del sesto
incontro, l’obiettivo delle conferenze era quello di fondare un ambiente di
ricerca interdisciplinare in cui, a partire dalla costruzione di un linguaggio
comune, si potessero affrontare problemi che, sebbene sorgessero in contesti disciplinari differenti, presentavano degli isomorfismi tali da renderli
trattabili tramite modelli operativi condivisi. In estrema sintesi, i cibernetici perseguivano un ideale di unificazione delle scienze facendo leva
su fenomeni e processi trasversali ai vari saperi. La storia delle conferenze
di cibernetica fu, in buona sostanza, una ricerca incessante di mediazioni.
Non a caso, le nozioni che si affermarono in quel contesto, e intorno alle
quali ruotò buona parte delle conferenze, fungevano da mediatori: 1) l’informazione, concepita come entropia negativa, prometteva di mediare
tra processi fisici, biologici, psichici e sociali; 2) i meccanismi circolari, fondamentali per comprendere tutti quei processi nei quali l’interazione tra
sistemi o sottosistemi produce una dinamica omeostatica, promettevano
di mediare tra l’ambito ingegneristico, quello fisiologico e quello sociologico; 3) il calcolatore elettronico – allora allo stato embrionale – prometteva di mediare tra processi mentali – ragionamento logico, comprensione
degli universali, ecc. – e processi materiali – trasmissione di segnali elettrici
in un circuito.
«Ce n’est plus d’une libération universalisante que l’homme a
besoin, mais d’une médiation», scriverà Gilbert Simondon (1958, 103) a
proposito dell’ideale enciclopedico della cibernetica, cogliendone appieno
lo spirito. Questo ideale enciclopedico si accompagnava a una dichiarata
volontà di rinnovamento delle categorie filosofiche e di superamento di
molte dicotomie metafisiche. Nel primo capitolo di Cybernetics, intitolato “Newtonian and Bergsonian Time”, Wiener sosteneva che grazie alla
cibernetica «the whole mechanist-vitalist controversy has been relegated
to the limbo of badly posed questions» (Wiener 1961, 63). McCulloch e
Pitts affermavano che la loro rete neurale era, di fatto, una risoluzione
del mind-body problem: «[…] both the formal and the final aspects of that
activity which we are wont to call mental are rigorously deducible from
present neurophysiology […]. “Mind” no longer “goes more ghostly than a
ghost”» (McCulloch 1988, 38). La macchina astratta di William Ross Ashby,
come ebbe modo di notare Mauro Nasti nella presentazione della traduzione italiana di Introduzione alla cibernetica, sconvolgeva «tutta un’impostazione filosofica tradizionale […] con cui si contrapponeva irriducibilmente il mondo “materiale”, fisico, delle macchine a quello “immateriale”
e “libero” della mente» (Nasti 1970, xvii-xviii).
L’ultima conferenza di cibernetica (tenutasi nel 1953), lungi dal
coincidere con il dissolvimento dello spirito cibernetico, sancì di fatto la
sua diffusione pressoché illimitata. Non vi fu campo del sapere in cui le
idee cibernetiche non penetrarono, a volte accolte con entusiasmo, altre
con riserva, altre ancora apertamente criticate: dalla filosofia (Ruyer 1954,
Jonas 1953) all’economia (Lange 1970); dalla fisica (de Broglie 1951) all’ecologia (Odum 1963); dalla politologia (Deutsch 1963) alla biologia (Monod
1970, Atlan 1972); dalla cosmologia (Ducrocq 1964) alla gestione aziendale
(Beer 1964); dalla letteratura (Calvino 1967) al diritto (Knapp 1978); dall’architettura (Alexander 1964) all’etologia (Hassenstein 1977). La cibernetica
trasformò il linguaggio dei saperi in cui penetrò, contribuendo alla nascita
di nuovi ambiti di ricerca.
Cibernetica. Prospettive sul pensiero sistemico
Luca Fabbris, Alberto Giustiniano
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 7 — 11
Nel contesto delle scienze della cognizione, nel 1968 Marvin Minsky
ratificava che la cibernetica si era differenziata in tre programmi di ricerca
oramai pienamente autonomi: 1) la teoria dei sistemi auto-organizzati,
basata sulla simulazione di processi evolutivi e adattativi; 2) la simulazione
del comportamento umano tramite modelli computazionali; 3) l’Intelligenza Artificiale propriamente detta, cioè la progettazione di macchine
intelligenti non finalizzata alla simulazione di processi biologici e cognitivi.
Se gli ultimi due programmi si concepivano come corpi maturi e
completamente emancipati dal loro passato cibernetico, il primo programma non smise di rivendicarne le radici, che trovarono nel Biological
Computer Laboratory dell’Università dell’Illinois, diretto da Heinz von
Foerster, un terreno fecondo in cui attecchire. È in questo contesto che
poté nascere un’epistemologia cibernetica – la cibernetica di second’ordine, o cibernetica dell’osservazione dei sistemi che osservano – che favorì
l’emergere della teoria dei sistemi autopoietici (Maturana & Varela 1980),
della neurofenomenologia (Varela et al. 1991), della teoria generale della
società (Luhmann 1984), dell’elaborazione delle logiche polivalenti e delle
ontologie trans-classiche (Günther 1976), della pragmatica della comunicazione (Watzlawick et al. 1967), del costruttivismo radicale (Glasersfeld
1995), ecc..
Con la chiusura del Biological Computer Laboratory nel 1974, la
cibernetica entrò in una fase diasporica, che dura tutt’oggi. Una diaspora
che, a differenza della prolificità della prima disseminazione, ha assunto
le forme di un graduale dissolvimento. La cibernetica appare oggi come
un’entità fantasma infestante una moltitudine di discorsi, le cui tracce
possono essere scorte un po’ ovunque, spesso e volentieri non riconosciute
come tali.
Tuttavia, a dispetto – o forse in virtù – del suo carattere fantasmatico, l’ultimo ventennio ha visto intensificarsi un interesse storiografico
per la cibernetica, con la produzione di lavori che hanno ricostruito la
storia della cibernetica americana (Kline 2015), britannica (Husbands &
Holland 2008), francese (Le Roux 2018), italiana (Cordeschi & Numerico
2013), sovietica (Gerovicht 2004) e cinese (Liu 2019).
Parallelamente al crescente interesse per la sua storia, si è intensificato anche quello per le sue implicazioni teoretiche e politiche – a testimonianza del fatto che non si è smesso di pensare col suo spettro. Un interesse
che ha riguardato, tra le altre cose, il rapporto tra la cibernetica e l’ontologia (Pickering 2010), la metafisica (Hui 2019), la filosofia politica (Guilhot
2020; Bates 2020), l’ecologia filosofica (Hörl 2013), la teoria dei media
(Hansen & Mitchell 2010), il post/trans-umanesimo (Malapi-Nelson 2017),
la french theory (Lafontaine 2007; Geoghegan 2020), ecc..
È il carattere spettrale e disseminato della cibernetica – il suo insistere negli interstizi dell’enciclopedia – che ci ha spinto a dedicarle il
numero #18 di Philosophy Kitchen, con l’obiettivo di cartografare i luoghi del sapere in cui possono ravvisarsi le tracce lasciate dalla cibernetica,
seguirne le piste, ricostruirne le trame, farne emergere i modi d’essere,
interrogarne l’eredità e l’attualità. Gli articoli che compongono il numero
spaziano dalla storia della scienza (Ferrari, Termini) alla storia delle idee
(Arregi, Sunseri), dall’epistemologia (Asby) all’ontologia (Fabbris), dalla
politica (Capriati) all’estetica (Macrì; Tenti), dalla biologia (Boi) alla semiotica (Monti), dall’ecologia (Rosati Vitali) alla sociologia dei media (Corsi),
Cibernetica. Prospettive sul pensiero sistemico
Luca Fabbris, Alberto Giustiniano
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 7 — 11
e costituiscono un campionario dei modi in cui oggi si può riflettere su e
con la cibernetica.
Abbiamo deciso di organizzare questi articoli privilegiando l’organizzazione tematica rispetto a quella disciplinare. Il numero si compone
di cinque sezioni: (1) La cibernetica: l’evento e gli antefatti, con gli articoli
di Arregi, Ferrari e Rosati Vitali; (2) Le avventure dell’informazione, con
gli articoli di Sunseri, Monti e Boi; (3) L’uso dei sistemi, con gli articoli di
Asby, Capriati e Macrì; (4) Macchine, oggetti, media, con gli articoli di
Tenti, Fabbris e Corsi; (5) Testimonianze e materiali, che comprende l’articolo di Termini e la traduzione di una selezione di lemmi dal glossario
del Biological Computer Laboratory.
La dislocazione degli articoli in queste sezioni tematiche ci è sembrata la scelta migliore per far emergere il carattere transdisciplinare della
nostra operazione. La speranza è che il numero possa mostrare come, a
dispetto – o forse in virtù – della sua spettralità, la cibernetica conservi la
capacità di generare reticoli di idee connettendo ambiti disparati.
Ashby, W. R. (1971). Introduzione alla cibernetica.
Trad. it. di M. Nasti. Torino: Einaudi.
Atlan, H. (1972). L’organisation biologique et la
théorie de l’information. Paris: Éditions
du Seuil.
Bates, D. (2020). The political theology of entropy:
A Katechon for the cybernetic age. History
of the Human Sciences, 33 (1), 109-127.
Beer, S. (1959). Cybernetics and Management.
London: English Universities Press.
Calvino, I. (1980). Cibernetica e fantasmi (Appunti
sulla narrativa come processo combinatorio). In Id., Una pietra sopra. Discorsi di
letteratura e società. Torino: Einaudi.
Cordeschi, R. & Numerico, T. (2013). La cibernetica
in Italia. In Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Scienze, https://www.
treccani.it/enciclopedia/la-cibernetica_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Scienze%29/
de Broglie, L. (1951). La Cybernétique: théorie du
signal et de l’information, Paris: Éditions
de la Revue d’optique théorique et
instrumentale.
Deutsch, K. W. (1963). The nerves of government.
Models of political communication and
control. New York: The Free Press.
Ducrocq, A. (1963). Cybernetique et univers, le
roman de la matière. Paris: Juillard.
Geoghegan, B. D. (2023). Code. From Information
Theory to French Theory. Durham: Duke
University Press.
Gerovitch, S. (2004). From Newspeak to
Cyberspeak. A History of Soviet
Cybernetics. Cambridge, MA: MIT Press.
Glasersfeld, E. von (1995). Radical Constructivism.
A Way of Knowing and Learning. London:
The Falmer Press.
Guilhot,
N. (2020). Automatic Leviathan:
Cybernetic and politics in Carl Schmitt’s
postwar writings. History of the Human
Sciences, 33 (1), 128-146.
Günther, G. (1976). Cybernetic Ontology and
Transjunctional Operations. In Id., Beiträge
zur Grundlegung einer operationsfähigen
Dialektik, 1. Hamburg: Meiner.
Hassenstein, B. (1977). Biological Cybernetics. An
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In D. Diederichsen & A. Franke (eds),
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Disappearance of the Outside (121-30).
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London: Rowman and Littlefield.
Husbands, P. & Holland O. (2008). The Ratio Club: A
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Paris: Éditions du Seuil.
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Mediation
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11
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 7 — 11
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Form. Cambridge, MA: Harvard University
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Cibernetica. Prospettive sul pensiero sistemico
Luca Fabbris, Alberto Giustiniano
Bibliografia
C
I
B
E
R
N
E
T
I
C
A
Cibernetica.
L’evento e i suoi
antefatti
I.
A Reconstruction of Epistemological Foundations
of Cybernetics.
The First Steps in Epistemologies of Complexity
Arantzazu Saratxaga Arregi
PhD in Philosophy & Aesthetics from
the University of Arts and Design in
Karlsruhe. Her research focuses on
the interior of milieus (endomilieus)
from a philosophical point of view and
draws on disciplines such as media
and contemporary philosophy as well
as cybernetics.
arantzan@gmail.com
— EPISTEMOLOGY
— COMPLEXITY
— CYBERNETICS
— SYSTEMS
— PREDICTABILITY
15
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 15 — 34
The purpose of this article is to present epistemological
justifications for the cybernetic programme drawing on a
historical reconstruction of cybernetics, although this is
not a philosophical discipline. To do so, I use the scientific
paradigm introduced into the cybernetic programme,
based on which the philosophical premises are applied.
This article counters the claim that cybernetics has brought
philosophy to its end by arguing for a philosophical
underpinning of cybernetics. In doing so, I point to the
epistemological principles of cybernetics, not as inferential
theoretical paradigms of control mechanisms, but as a turn
to a new way of thinking. Historical revisionism is about a
discursive reconstruction of cybernetics beyond control
systems, as a new way of thinking, which I describe as an
epistemological and philosophical approach to the
paradigm of complexity. The reconstruction is done by
paying special attention to irreversibility. The introduction
of the one-way arrow of time into cybernetics leads to the
problem of predictability being presented as an
epistemological problem. In this respect, cybernetics is
justified as a propaedeutic epistemology and philosophy for
the thought model of complexity (uncertainties and
unknown abilities).
Cybernetics is not based on a philosophy. Its origins lie in the post-war
period, although, if we consider its nature in control systems and control
engineering, its inception in fact goes back to the technical inventions and
physiological discoveries of the control mechanisms of the 19th and 20th
centuries. Key examples of this include Carnot’s ideal circuits and the development of Walter B. Cannon’s homoeostasis theory.
Situating the emergence of cybernetics in control engineering inventions supports the construction of the history of cybernetics. Norbert
Wiener, considered the founder of cybernetics, published a collection of
essays in 1948 under the title Cybernetics, in which he explained the engineering of control as a way to calculate feedback systems and made control dependent on the flow of information. He adopted the Greek term
for governor used in James Clerk Maxwell’s 1868 article On Governors, in
which the author discussed the regulatory mechanisms of temperature.
The word governors first appeared in antiquity as a description of political leadership, called κυβερνητική (kybernētikḗ). Homer used the term
kybernē to refer to the helmsman of a ship, as an allegory for a leader and
purposeful political action. Plato is credited with interpreting the ability
to govern based on managing a ship, when he spoke of a “man at the helm
of a government”.
For example, Norbert Wiener ambiguously linked the foundation
of cybernetics to “control” and “regulation”. The ambiguity that characterised the birth of cybernetics would permeate its history and lead to a
situation in which talk of control revolved around control and regulations.
Despite their apparent similarity, technical control mechanisms and control systems are opposed. The intention of this paper is to provide a historical reconstruction of the spirit of cybernetics that pervades Cybernetics
II, an order in which regulation precedes control. From this perspective,
it is possible to speak of a new way of thinking that opposes the thesis of
the end of thinking. It will be argued here that cybernetics, as a discipline
of regulatory mechanisms using information, has nevertheless left behind
an epistemology and a way of thinking, even a philosophy, by means of
which only process-like, irreversible and complex descriptions are possible.
Norbert Wiener, however, provides neither a definition nor a systematic description of what cybernetics might be or is about. Rather, he
uses cybernetics as a name for technical inventions based on the automation of control systems that resulted from the intertwining of electrical engineering and mathematics. It is no coincidence that the founders
of cybernetic systems conducted their research at Bell (Gleick 2011, 208),
where, in 1987, the first mathematician was hired; George Campbell set out
to mathematically and electrotechnicallly solve the occurrence of noise
in the transmission of messages over electricity (Gleick 2011, 11). Norbert
Wiener’s contribution to electrical engineering message technologies was
the finding that the control of a system depends on communication. The
innovation in control technology that was undoubtedly attributed to this
work at the time was that he, a mathematician, made control dependent
on the flow of information. With the invention of messaging systems in
mathematical technologies, the formal and conceptual boundary that had
until then kept social, biological and machine entities apart broke down.
A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics.
The First Steps in Epistemologies of Complexity
Arantzazu Saratxaga Arregi
Cybernetics and Philosophy
16
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 15 — 34
A.
17
Universal Science
According to a general view in German media studies, cybernetics is a
universal science that emerged in the post-war period (Hagner 2008, 3871). Arising from the enthusiastic idea of inventing a discipline that finds
a common language beyond the details and specialisation of each scientific discipline and whose application in social, biological and technical systems upend the isolation of individual sciences, cybernetics was strongly
influenced by the expectation of creating a scientific discipline with universal application (Hagner 2008, 40). However, the expectation of a universal field of science was only fulfilled for those who hoped to diminish
the divergence of the humanities from the natural sciences that had been
established for centuries. Cybernetics promised a new level of communication between them (Hagner 2008, 38). This took place via information technologies, a new field of science that originated among electrical engineers and mathematicians in the Bell Laboratories (Gleick 2011,
256). Never before had a philosophical programme – such as the successful
promises of positivism at the time – or the innovations in the sciences produced a field of knowledge in which there was an interface between social,
biological and technical systems. A common vocabulary was found in information technology, in that it also gave rise to the claim of establishing
a new universal science (Bowker 1993, 107-127).
This new field was embraced with enthusiasm and hope by utopian
technocratic pundits, such as Max Bense, who placed his faith in a technical being that, after the failure of the Enlightenment revealed and witnessed by the Second World War, must be able to rebuild a better society
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 15 — 34
1.
A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics.
The First Steps in Epistemologies of Complexity
Arantzazu Saratxaga Arregi
Control would no longer be a quality of technically determined or trivial machines (in the words of Heinz von Foerster), but a quality of messaging or communication systems that make up both social and biological
systems. The author considered cybernetics first and foremost to be a programme of a new strategy that described interacting behaviours of organisms, social systems and machines on an equal footing. This invention led
cybernetics to try to establish itself as a universal science. Whether such
universalist claims legitimise the discipline of communication and control
systems as a science remains an unresolved problem for science historians.
Norbert Wiener attributed the status of a real science to his subject in the preface to the second edition of his book Cybernetics: «Now I
believe the time has come to reconsider cybernetics, not merely as a program to be carried out at some period in the future, but as an existing
science» (Wiener 1965, vii). In this respect, the attempt to underpin cybernetics with a philosophical idea has already failed. However, the abolition of the ontological distinction between species (man, animal, stone,
machine), which removed the centrality of man, had widespread consequences for both the social sciences and the humanities. Although cybernetics is not based on a philosophical idea supporting its establishment as
a unified field of science, the programme of control systems has, in a figurative sense, led to a caesura in thinking and thus in philosophy, which
deserves to be reconstructed here. «I think that cybernetics is the biggest
bite out of the fruit of the Tree of Knowledge that mankind has taken in
the last 2000 years» (Bateson 1972).
The enthusiasm and excitement over a new framework on thinking was
accompanied by concern about the end of thinking. In general, this foresight is considered to diagnose a constantly increasing mechanisation of
spheres of life.
The abolition of the ontological differences between living beings
and machines is effected by rewriting nature’s entities – man, animal and
machine – into information units, which are given via control. As there is
no reason for the determination of any world process except the process
of control itself, Heidegger complains that cybernetics cannot be «characterized as a basic science» (Heidegger 2000, 622). «The unity of the thematic districts of knowledge is no longer the unity of reason. It is technical in the strict sense» (Heidegger 2000, 622). With the cybernetic, modern
technology has reached a stage of technicity where humanity is «posited,
claimed by a power which he himself does not control» (Heidegger 1976,
209). This power reveals the nature of technology and humanity is helpless
against it in that it could be devastating.
Modern technology is in its essence subsumed under Heidegger’s
term Gestell. This does not refer to the instrumental determination of
technology through which domination over nature is expressed by forcing
material into a form where it becomes instruments serving man. Gestell
rather refers to a further level of technicity of the object, where humanity is «posited, claimed by a power which he himself does not control»
(Heidegger 1976, 209).
Neither philosophy nor thinking can save humanity, nor is it true
that «God can save us» (Heidegger 1976, 193). This helplessness of thinking in the age of modern technology also heralds the end of philosophy (Heidegger 1976, 209). What then is to take the place of philosophy?
Heidegger declared in an interview in the German weekly «Spiegel» that
«the place of philosophy now» (Heidegger 1976, 12) – in 1966 – had been appropriated by cybernetics (Heidegger 1976, 212).
2.1. The End of Thinking in Discussion
Heidegger’s laconic statement: «Philosophy has reached its end in the
present epoch. It has found its place in the scientific point of view. [...]
The fundamental characteristic of this scientific determination is that it
is cybernetic, i.e., technological», underpins the idea that the rationalistic project of cybernetics, based on logarithmic and mathematical calculations, means the end of thinking (Heidegger 1976, 178). In the early days
A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics.
The First Steps in Epistemologies of Complexity
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2. The End of Thinking
18
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via technical means and to remedy the contradictions of culture. The philosopher and anthropologist Arnold Gehlen stated that cybernetics was
science of a higher order that relieved people of the physical apparatus
and oriented them more towards the life of the mind (Gehlen 1957, 18).
This prosthetic argument, which follows McLuhan’s media anthropological thesis, seems to be at the heart of the discussion about cybernetic influences in the social sciences and humanities. Media anthropologists argue for an expansion of the mind, while other humanist philosophers
lament a kind of expulsion of the mind and the dissolution of thought.
A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics.
The First Steps in Epistemologies of Complexity
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19
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of the design of neuronal networks, an abstract symbolic language was invented, with the help of which neuronal interaction could be transcribed
into propositional functions and conversely translated into material compositions, be this cathode ray tubes, synopses or switches. Consequently,
mathematics and its application in communications technology, namely
computer science, remained the language that equates the behaviours of
different beings (Hörl 2008, 170-182).
The translation of systems and their behaviour by means of discrete
signals of describable stochastic processes also led to the critique of the
quantification of human, social and biological behaviour as formulated by
the anthropologist Lévi-Strauss (1967, 176-188). As soon as any kind of behaviour that produces homeostatic dynamics in biological and social systems
and communication machines can be translated into operators and functions, it is open to all forms of control. The post-war period was dominated by strong algorithmic government policies. The Second World War was
the experimental laboratory of the new regulatory technologies and their
implementation into the art of governance took place after 1945. This established a new model of government, its application as a socialist planned
economy and as a capitalist market economy (Heims 1991). The implementation of operational research in the UK, as well as in the US by the CIA,
and the failed application of a planned economy by the government of
Chile in 1970-1973 are insightful examples. The fact that the cybernetic program took place against the background of a post-war rearmament does
not, however, exhaust its philosophical approaches and the announcement
of a new style of thinking that it welcomed (Glasersfeld 1982).
The fourth turn in the history of science triggered by communication technologies, as described by Norbert Wiener in the article Behavior,
Purpose and Teleology (1950), marks the “fourth mortification of man”
when humanity was deprived of its central position and a network of relational and interactive multi-agents was put in its place.
Nevertheless, the announcement of the end of philosophy, i.e. the
love of knowledge, as an immediate consequence of the implementation
of the cybernetic program in the sciences, is a greatly exaggerated and
false claim. Here, I want to support the hypothesis of a scientific breakthrough in the representation and meaning of thought. Hannah Arendt
expounded the ethical and political consequences of thoughtlessness or,
rather, the absence of thought. For her, it is the execution of an instrumental and functional thinking that heralds the end of thought. There
is no better proof of this than sterile and sober compliance with orders,
according to which Adolf Eichmann had no guilty conscience and consequently denied his moral guilt (Arendt 1965). Although his actions are
among the most egregious crimes in the history of mankind, he was merely following orders and supposed himself free from any kind of evil and
immoral behaviour. We could say he acted operationally. In this sense,
the operative action remains a sign of the dissolution of (human) thought,
which is opposed to other forms of thought for critical self-reflection.
The statement of the dissolution of thinking or its degradation as
a marker of a technicistic worldview dominated by instrumental reason
requires a meaning in relation to it. The end of thinking neither reverts
to operative action, nor to rationalist ruling by force of technology; rather, thinking has previously been degraded by the conquest of science over
20
Epistemic Turn to a New Style of Thinking
Based on the consequences of its implementation in social systems, cybernetics has led to such a turn in the social sciences that we speak of a new
style of thinking. As already stated in the introduction, a single technical
guiding principle is not sufficient to bring about a turn in thinking. I would
like to speak here not of the guiding principles of the former but of the
latter, which prepare the way for a new scientific paradigm, with philosophical consequences: irreversibility and the question of behaviour, rather than the nature of a thing leading to a new understanding of dynamic
processes upon which philosophy had closed the door. Interdisciplinarity
enabled dialogue between sciences and opened the way to a new style
of thinking. Systemic thinking was rediscovered as a research method after the excess of analytical procedures in the sciences, which offered the
advantage of a new perspective on complex and dynamic processes and
forced a new approach to cognition.
With the cybernetics collapse, the foundations of rationalist and
scientific thinking, the epistemology of classical paradigms are collapsing.
In their place emerges thinking of and for paradoxes, a radical statement
of becoming, constitutive of a multi-valency instead of an identity-logical ontology. The subject is replaced by multiple orders of observation
and uncertainty remains one and perhaps the only imaginable part of reality with which cognition and the drive for knowledge must come to
terms. However, a reconstruction of the epistemological consequences of
the cybernetic field of knowledge supports the thesis that cybernetics has
contributed to a new description of reality in terms of complexity. The
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B.
A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics.
The First Steps in Epistemologies of Complexity
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other forms of knowledge appropriation. According to Heidegger, scientific calculation is essentially not thinking, just as science does not think.
It does not think «because, by the nature of its procedure and its tools, it
can never think» (Heidegger 2000, 133). It does so as a preference for its
assertion.
Hannah Arendt’s genealogy of the adoption of thinking from antiquity to modernity shows that thinking is essentially a mental occupation.
It originated in antiquity when the contemplative occupation acquired
the dignity of being called philosophy. “Thinking” does not refer to an activity of the mind, as is the case with arithmetic; it is a mood and readiness of mind that enables one to see with «the eyes of the mind». Thinking
refers to opening the eyes of the mind. Aristotle considered thought to be
an organ that sees and looks at truth. Thus, «thinking aims at observation
and fulfils itself in it, and contemplation is not activity but passivity; it is
the point at which mental activity comes to rest» (Arendt 1971, 16).
It is thus clear that thoughtlessness, when governing the operationality of the execution of the cybernetic program, leads to a blind thinking. In the context of mobilisation during the post-war period, cybernetics demonstrated its technical advances (Hacking 1986, 237-260; Galison &
Hevly 1992) and this also led to the establishment of a “big science” that
claimed execution beyond the boundaries of nations and their geopolitical mythologies of domination. However, the philosophical reading of cybernetics also arrived at the important insight that blind thinking or the
blind soul does not necessarily remain blind to observation.
The Introduction of the Arrow of Time
Norbert Wiener’s book lists the focal points of the new science and includes some philosophical aspects, but merely as a reference to illustrate
the turning point towards the age of communication technologies. The
most significant break in the turn towards automation was not least made
by the concept of thermodynamic time, because cybernetic systems consider processes that undergo transformations in a non-returning, irreversible timeframe. They deal with dynamic processes. The one-sided arrow of
time, time which aims at the future, is the time of cybernetics. The transformation remains a continuum, the values and variables of the system
never stay the same; rather, they vary depending on time.
Wiener purposefully devotes the first chapter of his book Cybernetics
to the opposition of Newtonian and Bergsonian time. Although he does
not offer an explanation of “Bergsonian time”, the chapter deals with
the opposition between classical and complex sciences using examples of
astronomical and meteorological concepts of time. The latter is considered a concept of time for self-regulating systems, while the first is determined by movement according to mechanical laws of attraction. It is
reversible, so the position of the planets can be predictably determined.
Meteorological time, on the other hand, is an irreversible determination
of time. This is irreversible because what happens at any given moment
is never the same in relation to any previous moment. From the perspective of irreversible time, objects can no longer be described by Euclidean
space-time coordinates. Neither a spatial nor a temporal determinacy
can be assigned to them. Their nature is already given within a time, and
so their determination remains both indeterminate and uncertain. This
means that the calculus of dynamic and irreversible processes reaches the
limits of predictability. The scope of cognition is limited.
The essential differences are the designation of objects and the relation of the respective “objects” to time. The introduction of this turn is
the hallmark of cybernetics. Thus, we can already talk about philosophical underpinnings of a new science in which the two basic building blocks
can be summarised by the following themes: 1) the appearance of complex
objects in the paradigm of social systems and as an object of thought; 2)
the unpredictability and uncertainty as a prerequisite for the possibility
of any cognition about or of complex objects. In fact, they are not objects.
Norbert Wiener says, by way of example, that a cloud does not exist as an
object; it is the synthetic representation of a pile of moving particles attributed to a signifier (meaning) because people can refer to the cloud (as
an object) by means of the purpose of language.
The assumption of irreversible time for the technical programme
has led control and communication technologies into a revolution in
terms of thinking and philosophy. In this respect, the philosophical underpinning of cybernetics lies in the machine implementation of a becoming (Werden). The technical-mathematical program of cybernetics
A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics.
The First Steps in Epistemologies of Complexity
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1.
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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introduction of irreversible time as a fundamental pattern of predictable technologies is central to this argument. At the same time, however,
this implies that the unknowns and uncertainties are perceived as part
of thinking.
Cybernetics did not invent complexity, but it established complexity as
a descriptive model. Complexity is a concept that has undergone several
rediscoveries in the history of science. In the 1960s, complexity was “rediscovered” using Ilya Prigogine’s dissipative structures as a term for thermodynamically open organisations (Prigogine 1985, 488). It was followed
by the rediscovery of complexity towards the end of the 20th century in
complex adaptive systems (CAS) (Holland 1996; Michel 2009).
I speak of rediscovery because complexity has its origins in thermodynamics (Stengers), where phenomena occur but the processes are inexplicable within the framework of mechanical laws; they are then found
a technical application. With complexity we first mean not the contrast
with simple objects, but a designation for new problems and challenges,
which stem from the uselessness of the mechanical laws for the explanation of new physical processes. If time is not supposed to denote a return,
all time-dependent processes are per se indeterminate and meanwhile unpredictable. This signifies a rupture in the worldview of a new age, in
which the harmonious, orderly, reliable world – the mechanical age – is replaced with an unpredictable and uncertain worldview. In this philosophical context, where complexity is assumed based on dissipative structures
or far from thermodynamic equilibrium, Prigogine has praised Wiener’s
efforts towards a mathematics of irreversibility (Prigogine 2000, 826).
However, if we note that Wiener’s contribution was to equate control engineering with communication engineering, the object of the problem changes. It is not that a communication paradigm models or modifies
physical irreversibility. Instead, physical irreversibility – which Prigogine
found based on dissipative structures to which Boltzmann attributed a
probability value introducing the paradox of time by explaining the tendency of disorder and entropy – is tantamount to the miracle of emergence of new orders, new patterns, transfers this to a communication
model. Cybernetics is the technical transfer of irreversibility or complexity to communication systems. In this respect, social systems are described
as complex because they consist of communication. From this follows
an irreversible turn with epistemological consequences: complexity becomes not a matter of reality, but a matter of description by means of
communication.
2.
From the Metaphysics of Objects to the Behaviour
of Systems
A theorem of cybernetics states that the acquisition of knowledge of irreversible processes is characterised by indeterminacy. This can be explicitly
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1.1. Short Excursus about Complexity
22
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– the amalgamation of messaging technologies and mathematical calculations – would not have succeeded without the inclusion of irreversible
time. The integration of irreversibility (one-pillar/one-sided/the arrow of
time) makes the technical-mathematical discipline an epistemology and
leads to new thinking or new philosophical approaches beyond the development of information technologies: towards an epistemological model of
complex processes.
Systemic Thinking and Interdisciplinarity
A year before the publication of Behavior, Purpose and Teleology
by Wiener, Bigelow and Rosenblueth and A Logical Calculus of the
Ideas Immanent in Nervous Activity by Pitt and McCulloch, the seminar Cerebral Inhibition took place in 1942, organised by Frank Fremont
Smith, the head of the Macy Foundation. The seminar fundamentally
aimed at new approaches and initiatives in mental research. It was followed by a series of interdisciplinary meetings of scientists, including the
social anthropologist Margaret Mead, the epistemologist and social scientist Gregory Bateson, the psychiatrist and psychoanalyst Lawrence Kubie,
the neurophysiologists Warren McCulloch, Arturo Rosenblueth, and others. These meetings were followed by a series of so-called cybernetics conferences, led by Frank Fremont Smith and Warren McCulloch, who tried
to bring together an interdisciplinary group of scientists with the aim of
establishing a general science of research on the human brain.
The result was neither the establishment of a general nor a universal
science (Galison & Hevly 1992). The Macy conferences were most successful in establishing interdisciplinarity. Across the boundaries of all disciplines, they succeeded in creating a multidisciplinary exchange by developing a common vocabulary to refer to what was later called cybernetics:
As an anthropologist, I have been interested in the impact of the theories of cybernetics on our society. I am not referring to computers or the electronic revolution
as such, or to the end of knowledge’s dependencies on writing (...) In particular, I
want to point to the importance of the interdisciplinary terms we initially called
‘feed-back’, then ‘teleological machine’, and then as ‘cybernetics’ – a form of interdisciplinary thinking that enabled members of many disciplines to communicate
in a language that all could understand. (von Foerster 1993, 61)
23
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3.
A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics.
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read about in Norbert Wiener, Julian Bigelow and Arturo Rosenblueth’s
1943 article Behavior, Purpose and Teleology, noting that purposefulness
is an unpredictable yet computable phenomenon inherent in biological
systems and self-regulating machines. The authors clearly state that teleology does not mean the determination of a goal, as in Aristotle, from
which the cause of the system’s behaviour is to be derived. The ultimate
goal or aim is not equal to the cause of the system. On the contrary, the
inherent purposefulness of any system is said to be equal to the voluntary activity of the system (Rosenblueth et al. 1943, 18-24). This means that
dynamic systems and time-dependent irreversible processes possess purposeful behaviour despite their unpredictability. They are unpredictable
because their purposiveness is a free-floating activity: their autonomous
self-regulation.
The outstanding thesis, in my opinion, is not, as is usually said, that
a method has been found to equate the behaviour of living beings and
machines, but rather that, for the first time in the history of science, systemic behaviour, whether biological or artificial, is considered as a dynamic and irreversible process. This is because, in this sense, the system
is thermodynamic, i.e. open to energy. It is a matter of defining the behaviour of a dynamic system in terms of its relationship with the outside
world and its environment.
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Interdisciplinarity is considered the primary working method and the
philosophical cornerstone of cybernetics. The aim was not to establish a
universal science that unified all disciplines under a single umbrella, but
rather to develop a systemic way of thinking that allowed communication to be interdisciplinary. In this respect, cybernetics, beyond being a
scientific discipline, can be said to be a systemic discipline that prepares
the way for philosophical principles. While a scientific method prioritises
analytical thinking, systemic thinking seeks connections and relationships
between the particles that make up a surrounding structure. The technical approach of a control system, in which the cause-effect relationships
favour the composition of individual elements, makes use of a theoretical
mode called “system”.
“System” comes from σύστημα (systēma), a whole composed of several individual parts. Systemic thinking draws attention to the relations
and bonds with each other and how new patterns and orders can emerge
from them. In contrast to the analytical scientific method, systemic thinking focuses on relations and seeks wholes. It draws attention to the relations and bonds with each other and how new patterns and orders can
emerge from these relations. Therefore, it can be considered a philosophical starting point. Philosophy has used systemic thinking as a holistic way
of looking at things. The systemic approach of cybernetics already allowed
for a philosophical starting point, especially relations and interactions via
the particularity of the particles that make up the system. Everything is
connected and forms a wholeness whose representation and representability can be called a pattern or a certain order.
Interdisciplinarity and systemic thinking paved the way for a new
field of science that dealt with interrelationships of effects in a whole.
Each acting operator does not have a local effect on the operator subject
to that effect (Ashby 1974) but, in a kind of butterfly effect, the systemic
starting point presupposes a holistic effect context in which a local intervention has far-reaching consequences (von Bertalanffy 1928). Cybernetics
addresses the behaviour of the components of a system over time. It directs attention to the possible relations and the behaviour of the system
components in relation to the system as a whole (Ashby 1974, 89), the behaviour of which depends on time (Ashby 1974, 13). It searches for the
principle of interaction between the inner relations of a system and the
system as such, in the context of the dynamic of change. Cybernetic systemic behaviour is mutually conditioned, interactively presupposed and
does not follow Aristotelian logic, so the totality of all lines of behaviour
of a system constitutes a field of behaviour.
Within reflexive feedback loops, information was defined by
Claude Shannon as a measure of probability, and the development of the
first mathematical scheme of a neuronal network was enforced by Pitts
and McCulloch as a novelty, heralding the first research on artificial intelligence. However, the assertion of such concepts, which paved the way for
artificial intelligence, robotics, operational research, etc., was not possible
without the methodological approaches of interdisciplinarity and systems
theory.
After the Macy conferences, cybernetics became more than a scientific program that brought different disciplines and sciences together
in one field of feedback mechanisms and found application in electronic
New Challenges of Thinking
1.
Circular Teleology
In his book Cybernetics Wiener had already dealt with the scope of
non-linear dynamics beyond the fields of application, and the fact that
it is about the change of the state of a system of couplings and interactions between system/environment and coupled systems that influence
each other. A self-regulating causality also underlies the non-linear processes, which every system strives for in the face of the respective expediency achieved and accomplished through negative feedback. This technical model responds to a logic of circularity. Hence, the Macy conferences
were entitled “Cybernetics, circular causal, and feedback mechanisms
in biological and social systems”. This was a philosophical starting point
that ushered forth a new logic, a new mode of organising systems and of
thought, with decisive epistemological effects and, above all, a break with
the traditional, linear model of thought.
First, circular causality describes cause-and-effect interactions: A
causes B because via a feedback system B causes A (Klaus 1963). Only when
feedback is almost 0 can we speak of linear causality, which means that
the linear causal chain is only a special case of the feedback movement
(Ashby 1974, 77), and not vice versa. However, this determines an organisation and a structure, which can be considered particularly circular if its
own structures can only be built and changed through its own co-operations (Luhmann 1997, 93).
2.
25
Paradoxes of Self-referentiality
The form of organisation derived from circular causality is called operative closure: «By closure I mean essentially nothing other than what the
expression means in normal language usage: closed, beginning and end
coincide, self-referral, uninfluenced, autonomous, etc.» (von Foerster
1987, 144). Closure is the formal representation of operative closure: of
self-referential statements and recursive functions. Closed systems operate self-referentially.
In the general case of circular reasoning, A implies B; B implies C; and to the general horror, C implies A. Or, in the reflexive case: A implies B; and B implies A. And
now the devil’s split-foot in its purest form, in the form of self-reference: A implies A. (von Foerster 1993, 65)
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C.
A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics.
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computing machine models. With the Macy conferences, problems arose
out of conversations between participants, such as the notion of uncertainty and the question of knowledge as an order of observation, the treatment of which required new philosophical approaches. The inherent unpredictability of irreversible processes was also discussed, which required
a new formal interpretation. Heinz von Foerster suggested a title for the
series of conferences that took place between 1946 and 1953, the documentation of which he was responsible for: circular causality. A teleology of
the 20th century had emerged (von Foerster 1997, 145).
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By self-referential systems, we mean systems whose actions refer back
to themselves. In algebra, closed algebraic systems are defined as follows:
«An algebraic system is said to be closed if the elements and operators are
chosen in such a way that the operations on the elements always yield
only elements of the system» (von Foerster 1987, 146). In biology they are
called “autopoietic systems” (Maturana 1999, 149-168) and in formal language “theory of recursive functions”. «Recursive means to run through
again, and by this is meant that the result of an operation is taken anew as
the starting point for these operations» (von Foerster 1987, 149).
According to Western thought, self-referential propositions are
nonsensical propositions because they fall into a paradox when an element takes on two contradictory values. The paradox of Epimenides capably illustrates the paradoxes of self-referential propositions. «The proposition, ‘I am a liar’ is false (F) when taken to be true (W) and becomes true
(W) when taken to be false, thus: W-F-W-F-W-F» (von Foerster 1995, 52).
Aristotle declared all statements that do not fulfil the condition of
being either true or false to be nonsensical. The excluded third (tertium
non datur) is the description of any syllogistic construction that knows
only two values: true or false. The theorem of the excluded third uses the
principle of two-valued logic, which knows neither a non-linear dynamic
concept of time nor perceives contradictions (Aristotelian logic was right
about all logical systems for thousands of years). Modern mathematics
and 20th century formal logic assigned value to contradictory statements
and paradoxical thoughts, so that self-referential paradoxes or, in a strict
formalism, logical relations, were not merely peripheral but played a central role in a consistent logical calculus.
Bertrand Russel, for example, recognised philosophy’s problem with
self-referential paradoxes and gave it a position in logic. With Whitehead’s
Principa Mathematica, it became clear that the contradictions were trivial. With type theory, he tried to solve the contradictions of self-reference, as did Gödel’s incompleteness theorem. Self-referentiality, however,
denotes an operational model for cybernetics. «Self-referentiality necessarily generates paradoxes and those logical structures that we need for a
deeper understanding of the sensorimotor, autonomy and organizational
closure to be discussed later» (von Foerster 1987, 137). The sentence “I am
a liar” in fact says nothing more than that the truth value is presupposed
by another value and that the self-referentiality of the sentence reveals a
logical structure – circular causality – by which we mean that the result of
an operation is taken once more as the starting point of these operations,
etc. A position or operator can take on two values. If this sentence is understood statically, it is paradoxical, but if it is understood dynamically
and with recognition of its complexity, it is operationally closed and the
vicious circle opens up to the creative circle (von Foerster 1997, 51). Truefalse-true-false is the starting point of a non-stationary logic.
An epistemology of self-referentiality only appears with the features of second-order cybernetics. With the problem of observation described by second-order cybernetics, an epistemological upheaval has taken place that bears the name of constructivism. Thus «constructivism
does not understand the loss of ‘objectivity’ as a dilemma, but on the contrary as a fruitful question directive» (Baecker 1997, 22). The constructivist thesis states that the world of knowledge and experience, our world of
Observing Objects
The consequences of the logical model of circular causality are crucial for
the justification of a cybernetic epistemology. Circular causality refers
to processes whose internal emergence of order is not imposed by external causes, but rather brought about by the system components themselves. This means that within outside observation there can no longer be
cognition, unless we define observation as a self-referential process, as
Varela and Maturana define cognition: an autopoietic closed operation.
Cognition is a possibility like perception and observation, whereby no
outside is known, perceived or observed; it consists of operations that
happen and come about in the circuit of cognition itself.
The cohesiveness of the observing and observed system results in
a whole and inseparable unity. This process must assert itself as the unfolding of a central paradox that Ranulph Glanville once summed up as:
the same is different (Glanville 1988, 61-79). The point is that an object is
self-observing and self-observed. However, this leads to a second contradiction: the paradox that the objects or subjects are the same and different, as Glanville suggested, «for the objective [has] been developed
as something that knows it exists; it is different from other objects and
in this respect unique. But if the object, in order to be itself, fills two
roles, how can it be only one?» (Glanville 1988, 61). Things never become
the same, but neither do they always become different; instead, they are
both, insofar as observation comes about as an operation and is recognised
through differentiation.
Second-order cybernetics overcomes the subject/object dichotomy because there is neither a reality confronting the subject nor an entity recognising reality, i.e. the subject. In this respect, it is a matter of observational operations, observations that observe and observations that
observe observation. In this way, objects are not realities external to observation; they are exclusively enclosed in the experience of a subject’s
own sensorimotor coordination, i.e. “objects” are thoroughly subjective
because they are perceived or, in the words of second-order cybernetics,
observed objects. Conversely, it can also be argued that subjects are at
the same time objects, as Glanville states, insofar as they, the subjects,
can be observed. However, the conversion of subject/object into observation operations does not solve the problem. The conversion from subject/object to observation operations nonetheless encounters epistemological objections.
The first objection addresses the question: how can objects be
grasped, recognised at all, if there is no more operation than that outside observation? It thus deals with a danger that has always been discussed within the philosophy of the subject’s identity in connection
with the problem of alterity, when the subject is so caught up in its own
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3.
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order, symmetry, concepts, numbers, laws of nature, even objects, is invented, not discovered. Niklas Luhmann, Heinz von Foerster, Humberto
Maturana and Francisco Varela had all argued for the epistemological consequences of operational closure. The inner recursive closed organisational structures of complex systems do not raise the problem of control and
regulation of discourse, but of observation.
HvF: My friend Gordon Pask once made a beautiful drawing illustrating this situation. You see a man with a bowler hat who claims he is alone. And this man imagines another who is also wearing a melon; he too thought that the other whom he
in turn imagines does not exist at all and is solely a concoction of his imagination.
Now the following case could arise in our imagination: A man who thinks solipsistically meets another who holds the same view.
BP: Now the question arises as to who is right: the first or the second solipsist.
A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics.
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observation that no social knowledge comes about and it is unable to recognise others. If this exists that I can know it and if I exist thanks to, I
knowing that I exist, how could this exist if it does not know that it exists? (Glanville 1988, 23-24).
The danger of solipsism has been considered by both Heinz von
Foerster and Ranulph Glanville:
HvF: That is the crux of the matter. At this point in our conversation, to clarify
the matter further, I would like to serve you the so-called principle of relativity.
The principle of relativity says that a hypothesis that is true for A and B can only
be acceptable if it is also true for A and B together (...) The principle of relativity
creates a form in which the environment and the other person can be talked about
again. And the moment I postulate the existence of the other and my own existence, I live in a relationship and community, participation arises; one suddenly
becomes a co-sufferer for whom it is no longer possible to find an excuse for one’s
own indifference through references to an external reality. This decision, which
28
I am proposing here, makes one a social being. To conceive of the world as an invention is to conceive of oneself as its maker; responsibility for its existence arises.
Thus, the operative theories propose a collective epistemology as a way out
of the problem. To this end, we will not use doubt as the methodological path: the alienation of the self for the sake of self-realisation; but rather, the solipsistic opinion of the Cartesian method is rejected in favour
of a cooperative and collective network of observations or observational
positions.
The way out of solipsism is as self-evident and simple as the fact
that the observer is an observer: an observer and observer. Insofar as the
person is an observer, observation is enclosed in operative closure, so
that the realisation of observation succeeds in the network of observations. This means that objects and subjects are produced by an attestation.
«Obviously this happens only when a subject S establishes the existence of
another subject S, not unlike itself, which in turn asserts the existence of
another subject, not unlike itself, which may be identical with S» or subject becomes object, insofar as the objects can observe themselves through
others (Glanville 1988, 29). Through the eyes of others suggests that the
operative response to uncertainty is the affirmation of the blind spot of
every observation as a methodological approach to collective cognition.
As we have already seen, the deconstruction of the ontological
standpoint falls neither into relativism nor solipsism but forms the basis of an epistemology of complex objects, phenomena and interactions,
whose ontological claim lies less in the truth value than in the operative
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 15 — 34
(von Foerster 2006, 28)
Thinking Complexity: When Uncertainity Becomes Operative
1.
Metaphor of Unknown I: Blind Spot
A solipsistic position, which falls into both relativism and absolute truth
claims, follows the approach that the observer is always identical and congruent with their observations. However, cognition adhering to an operative point of view is excluded in the case of being able to see everything.
The statement that there is no external position of observation results
from the approaches of operative unity results. «The unity of the world
cannot be observed from the outside» (Luhmann 1997, 95). If it can, this
can only be a blind observation. These statements summarise the principle of an epistemology of operational closure, whereby a border or an
event horizon is presupposed for all observation, since we cannot observe
everything.
Humberto Maturana dealt with the neurocognitive research of perception and cognition of reality, in particular with field research on the
retina of frogs (Maturana 2012, 23) and their neurobiological equipment of
the nervous system. He noticed that the blind spot – that part of the visual
field where there are no light receptors of the retina – plays a decisive role
in mammalian perception. This neurobiological fact enabled Maturana
and Varela to understand observation as an autopoietic process: that no
knowledge can be gained outside of observation. In the same sense, the
neurobiologists Maturana and Varela attribute the blind spot to the environment, “autopoietic systems are blind to their environment” in that the
environment is a τόπος (topos) external to the orders of systemic observation. As already mentioned, the blind spot does not deny a world outside
observation, as relativist or solipsistic positions claim. It also would not
make sense to suggest that there is an environment affirmed, but as a difference between system and environment, otherwise the concept of the
system boundary, which presupposes that there is another side. The thesis
of operational constructivism does not lead to a “loss of the world”; it does
not deny that reality exists. It does presuppose the world not as an object,
but in the sense of phenomenology as a horizon, unattainable but perceivable. Thus, there remains no other possibility than: «Constructing reality
and possibly: observing observers constructing reality» (Luhmann 1996, 18).
Establishing limitations of observation by using the metaphor of
the blind spot reflects that there cannot be a world as an object or as a subject, just as there is no object without an observing subject and no subject without an observed object. The correlative and interacting level between the classical concepts of logical identity (I versus you) presupposes
that an outside represents a blind spot for perception and for cognition
(Luhmann 1990, 15). Yet this does not mean that its perception is excluded
from cognition. It is observable as a blind spot.
The limitation of observing refers to the unobservability of inner
observing, since the observer cannot observe themself. This is based on
second-order observation. The observer, after all, remains unobserved in
a first-order observation. However, their gaze does not necessarily remain
A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics.
The First Steps in Epistemologies of Complexity
Arantzazu Saratxaga Arregi
D.
29
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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act of making distinctions as a means of constructing realities (Glanville
1988, 108).
As today’s widely accepted operative epistemology teaches us, all observing takes
place in the world as a process that is itself observable; all observing presupposes
a demarcation across which the observer can observe something else; all observing
A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics.
The First Steps in Epistemologies of Complexity
Arantzazu Saratxaga Arregi
fixed on the thing; they are responsible for observing observations.
Operational theories, especially those of the neurobiologists
Maturana and Varela, as well as the socio-cybernetics of Niklas Luhmann
and Gotthard Günther, interpret the loss of sight of the blind spot not
only as a phenomenon of the absence of perception, but as a condition of
the possibility of cognition, that is, the non-seeing as a condition of the
possibility of seeing. Cybernetics combines indeterminacy and non-perception as a condition for the expansion of cognition. Non-seeing is neither a limit nor a restriction, but an opening for possibilities. The incompleteness of all observations, the fact that a person cannot see everything,
becomes a transcendental or possible presupposition of a theory of cognition for the operative theory.
thus constitutes the incompleteness of observations by withdrawing itself and
the difference that is constitutive of it from observation; observing must thus engage in a blind spot, thanks to which it can see something (but not everything).
(Luhmann 1997, 95)
Metaphor of Unknown II: Black Box
The blind spot that extends cognition to the areas of unobservability, due
to which unobservability becomes observable, is equal or analogous to
a fundamental component of classical cybernetic machines: the control
machines. The theoretical input/output term invented by James Clerk
Maxwell, which is called the “black box”, and which Norbert Wiener uses
in his book, functions as the basis for this. Thanks to him, the machine can
keep running by guaranteeing its dynamic non-linearity and fulfilling its
purposeful behaviour, its self-regulation.
The black box is contrasted with the white box by describing the
latter as an obviously recognisable mechanism, in contrast to the black
box, whose determinacy is hidden from the view of observers (Glanville
1988, 101). To the outside, if the relationship cannot be revealed, we speak
of the black box; the transformation that is observed does not necessarily
correspond to what is actually playing out within (Glanville 1988, 102), but
is instead a description of the observers (Glanville 1988, 102). Once again
it is confirmed that the description of the observer can never be complete or, in other words, is always limited, because the observer cannot
see everything. The inability to see everything is based on an immediate
principle of operative thinking, second-order cybernetics. If we were to
reveal the black box, we would trivialise a regulating machine and, with
a classical view of determining causal chains, destroy the self-regulating
machine. According to von Foerster, the mechanism of the black box underlies every information machine, even a non-trivial machine. Ashby defined the black box as part of the cybernetic machine, as that space «in
which the transformations and transmutations of the system» occur (1974,
175). The observed transformation of the input that takes place within the
black box is interpreted as its structure.
30
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 15 — 34
2.
Philosophically, this is a profound and fundamental notion, for it allows
us to accept that our means of observation are ultimately in no way sufficient to give us a complete picture of whatever is going on, but that this
does not prevent us from creating images and acting accordingly, even if
we do not know what is going on inside the black box. (Glanville 1988, 101)
According to cybernetic-operational thought, the only thing we can
be certain of is the limitations of cognition, of observation. This epistemological standpoint has its ontological correlate, since indeed a non-observable reality may be the only conception «which we, as apparently independent observers, can entertain of things» (Glanville 1988, 103). From
this, Glanville draws a correlation between the black box and the observer’s uncertainty, making ignorance the condition of the possibility of cognition (Glanville 2012, 427).
Second-order cybernetics came to the realisation that it had designed an epistemology that precisely creates unobservability as a precondition for cognition. This turn in the epistemology of the history (and philosophy) of the occident had already been announced by physics, but it
could not have been implemented without the insights of first-order cybernetics, as a design of circularity and as the design of circular causal machines, to which the inclusion of irreversible time is owed.
Whether the thesis of cybernetics is correct, that humanity experiences the fourth wounding (Sloterdijk 2017, 227), and whether knowledge
saves us from it and shows us new ways of knowing the world, depends
very much on whether we remain with the technical description of cybernetics or allow the philosophical background of a knowledge to emerge.
This pays attention to interrelations, systems, interactions, paradoxes and
irreversibility as principles and the basis of a worldview.
The notions of becoming, uncertainty and blind spot announce the
loss of all classical truth values about a reality whose processes run independently in permanent dynamics and transformation. The maintenance of these processes only occurs when the intervention of the observers admits their indeterminacy, as a condition of their development. In
fact, such dynamics are not comprehensible, any more than the subject is
able to grasp everything through different methods. They can only be understood in cooperative forms of cognition when we do not see our own
observation.
3.1. Operational Epistemologies: Operability of Uncertainty for a
Thinking Complexity
Experts from different branches of complexity research, such as biology, ecology, economics and neuropsychology (Casdagli & Eubank 1992;
Cowan & Meltzer 1999), agree that the concept of complexity cannot be
assigned to a single field (Harold 1995). Complexity is the main subject of
a whole range of disciplines using methods so diverse that complexity research cannot be attributed to a single problem or method (Lloyd 2001,
7-8). Heylighen, Cilliers and Gershenson even claim that complexity science is an amalgam of models, methods and metaphors from a variety of
disciplines, which does not indicate an integrated science (Heylighen et al.
A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics.
The First Steps in Epistemologies of Complexity
Arantzazu Saratxaga Arregi
Re-entry of Uncertainty as the Foundation of Thinking
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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3.
A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics.
The First Steps in Epistemologies of Complexity
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32
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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2007). Ladyman, Lambert and Wiesner also argue that a general definition
of complexity science would compromise its diversity because it would
be reductionist and contradictory (Ladyman et al. 2013, 34). Nevertheless,
there is agreement on its scientific model. This points to a decisive break
with classical science (Heylighen 1997) and its place in the paradigm of
post-Newtonian science (Waldrop 1992). This assumption can be linked
to the theses of Isabelle Stengers and Ilya Prigogine, who used the term
“science of the complex” to refer to the turn from the mechanistic to the
thermodynamic paradigm of science (Prigogine & Stengers 1981, 109ff.).
This turn has led to the conclusion that our knowledge of the world is fundamentally uncertain (Prigogine & Stengers 1997).
Complexity simply means that it is impossible to build a model that
accounts for the sudden and unexpected “changes” in the state of the system. The cybernetic model of thought, with its notion of blind spots, provides solutions and opens research avenues to redefine the transformations of the classical conditions of epistemic parameters.
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La cibernetica prima della cibernetica.
Filosofia, scienza e tecnica in Norbert Wiener
(1914-1943)
Marco Ferrari
Assegnista di ricerca presso
l’Università degli Studi di Padova, dove
ha conseguito il dottorato di ricerca
(menzione Doctor Europaeus) in
Filosofia politica e Storia del pensiero
politico. È stato Visiting Fellow presso
l’Université Paris Diderot e la Oxford
Brookes University.
marco.ferrari.2@unipd.it
— NORBERT WIENER
— CYBERNETICS
— RELATIVISM
— INFORMATION
— FEEDBACK
— TELEOLOGY
37
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 37 — 55
The paper provides a survey of Norbert Wiener’s scientific
work prior to the publication of Cybernetics. Within it, an
attempt is made to identify the philosophical-scientific
background of cybernetics and to reconstruct the
generative process of its main concepts. In conclusion, on
the basis of this inquiry, a novel definition of “what we talk
about when we talk about cybernetics” is proposed and, on
this basis, opens up the need for its critical questioning
by philosophy.
I.
Il terreno filosofico della cibernetica
Philosopher despite himself, come lui stesso si è definito, l’avviamento
intellettuale del padre della cibernetica si è sviluppato, a tutti gli effetti,
sotto una luce specificamente filosofica. William James frequenta regolarmente la casa paterna e nel 1906 lo invita personalmente alle sue Lowell
Lectures, il cui contenuto confluirà in Pragmatism. Nel biennio che trascorre ad Harvard, viene direttamente a contatto con il New Realism
di Ralph Barton Perry, l’idealismo di Josiah Royce e il realismo critico
di George Santayana e, indirettamente, con il pragmatismo di Charles
Sanders Peirce e l’idealismo di Francis Herbert Bradley. Nel periodo di
post-dottorato presso le Università di Cambridge, Gottinga e Columbia
La cibernetica prima della cibernetica.
Marco Ferrari
L’obiettivo che ci prefiggiamo attraverso questo lavoro è duplice, malgrado sia sorretto da un’unica ipotesi di partenza.
La nostra ipotesi è che se, da un lato, i testi più noti di Norbert
Wiener, vale a dire le due edizioni di Cybernetics (1948 e 1961) e The
Human Use of Human Beings (1950 e 1954), permettono di difendere tesi
anche molto differenti l’una dall’altra riguardo a che cosa sia la cibernetica,
dall’altro, uno sguardo più ampio sulla sua produzione (ecco il primo dei
nostri obiettivi) – che interroghi, pertanto, anche testi molto meno noti e
risalenti al periodo cosiddetto “pre-cibernetico” – consenta, non tanto di
dire la verità circa l’essenza di quell’«oggetto epistemologico straordinario,
che è ben lontano da tutte le consuetudini di genere» (Triclot 2008, 8) che è
la cibernetica, quanto piuttosto di delimitarne i confini con un più ampio
grado di perspicuità epistemologica (Le Roux 2018).
Infatti – pace alcune dichiarazioni dello stesso Wiener –, è nostra
convinzione, e proveremo a dimostrarlo, che Cybernetics non rappresenti
nel modo più assoluto il frutto di un lavoro di scrittura di qualche mese
– un lavoro che si sarebbe riverberato in una «forma piuttosto insoddisfacente» (Wiener 2017, 465) e in una serie di errori di calcolo nelle equazioni
che non passarono inosservati alla gran parte dei recensori –, ma la sistematizzazione di un complesso di considerazioni di natura teorica prodotte
nel corso di decenni.
Unicamente tale ampliamento del grado di perspicuità epistemologica consente, a nostro avviso, di identificare quello che, con Gilbert
Simondon, definiremmo il modo di esistenza della cibernetica (ecco il
secondo dei nostri obiettivi), entro i confini del quale, solamente, diventa
possibile arrischiare una sua definizione unitaria e identificare in che cosa
consista quella che definiremmo la sua singolarità storico-epocale.
Facendo leva su una nota provocazione di Gregory Bateson (1976,
518-519), ci riferiremo alla cibernetica come a un “frutto dell’Albero della
Conoscenza” e, attraverso una ricognizione approfondita dei lavori di
Wiener anteriori alla pubblicazione-evento di Cybernetics, proveremo a
ricostruirne, rispettivamente, i) il terreno filosofico, ii) le radici scientifiche e iii) i fiori tecnici. Infine, sulla scorta di tale ricognizione (meno preformista di quanto potrebbe apparire) proveremo ad avanzare alcune tesi
circa la consistenza epistemologica di questo frutto e il tipo di interrogazione filosofica che dovrebbe interessarlo.
38
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Introduzione
La cibernetica prima della cibernetica.
Marco Ferrari
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frequenta e interagisce con Bertrand Russell, George Edward Moore, John
Ellis McTaggart, Edmund Husserl, David Hilbert e John Dewey.
La gran parte di queste frequentazioni troverà un depositato all’interno della produzione scientifica del Wiener di quegli anni e, più ampiamente, ognuna di esse lo segnerà in una qualche misura. Tuttavia, è indubbiamente la sensibilità pragmatista a incontrare maggiormente l’interesse
del matematico americano che, a nove anni, aveva prodotto una, ancorché acerba, «dimostrazione filosofica dell’incompletezza di tutta la conoscenza» (Wiener 2017, 75), intitolata Theory of Ignorance.
In un articolo del 1914, intitolato emblematicamente Relativism,
troviamo l’espressione più coerente, da parte di Wiener, del suo confronto con questo tipo di sensibilità.
Si tratta essenzialmente di una riflessione gnoseologica. Dopo essersi
confrontato criticamente tanto con una prospettiva realista à la Moore,
quanto con una prospettiva idealista à là Bradley, la tesi avanzata dal
matematico americano è che nessuna conoscenza è, a priori e come tale,
autosufficiente e che «se nessuna conoscenza è autosufficiente, allora nessuna conoscenza è assolutamente certa» (Relativism (1914) [R], in Wiener
1985 (d’ora in poi CW4), 55-56). Non sarebbero un’eccezione, continua
Wiener, né le leggi della geometria – che «non derivano semplicemente
dagli assiomi della geometria» –, né le cosiddette “leggi del pensiero”.
Tale posizione, da cui conseguono tre tesi, ovverosia che «nessuna
esperienza è autosufficiente, [...] nessuna conoscenza è assolutamente
certa, [...] nessuna conoscenza è semplicemente derivata» (R, 56), è denominata dal matematico americano, per l’appunto, ‘relativism’ ed è immediatamente accostata, da un lato, al pragmatismo e, dall’altro, alla metafisica di Bergson.
Tanto il pragmatismo, quanto il bergsonismo, come noto, si sviluppano a partire da una critica all’intellettualismo delle metafisiche formaliste – le metafisiche del dato, a cui contrappongono una metafisica del
processo –, da un lato, e, dall’altro, a quella metafisica della scienza, che
riposa sul paradigma meccanicistico e rigidamente deterministico inaugurato dalla fisica moderna e che, tanto la scoperta delle leggi della termodinamica, quanto l’evoluzionismo e più in generale le scienze della vita avevano cominciato e mettere in crisi.
Tuttavia, per quanto concerne la nostra analisi, ad essere produttivi più che i tratti di consonanza sono i punti di discrimine che Wiener
intravede tra il suo relativismo e il pragmatismo e il bergsonismo. Il primo
sarebbe colpevole, in un certo senso, di non essere abbastanza pragmatico,
quando assurge il «criterio di verità pragmatico» a «criterio definitivo» (R,
57). Le colpe ascritte al secondo sono, invece, più interessanti.
L’accusa di Wiener a Bergson, infatti, è tutt’altro che originale, ma,
al contempo, estremamente sintomatica. Al filosofo francese è rimproverato il fatto di scadere in una forma di dualismo intellettualista che
gli impedirebbe di cogliere «la vera natura delle cose», dal momento che
«tratta il mondo come se fosse costituito da due metà assolutamente separate e inconciliabili» (R, 59).
Wiener ne enumera alcune: durata omogenea e tempo matematico, fini e meccanismi, vita e materia, linguaggio e pensiero. E, malgrado
il matematico americano non la ponga in questi termini, aggiungiamo
noi, metafisica e scienza. «Bergson – afferma, infatti, emblematicamente
La cibernetica prima della cibernetica.
Marco Ferrari
40
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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Wiener – ritiene che le scienze fisiche e la matematica abbiano a che fare
con nozioni assolutamente rigide», mentre secondo il matematico americano esse, al pari di ogni altra disciplina intellettuale, «trattano concetti non
perfettamente definiti» (R, 60). Perfino nel caso della matematica, considerata la più astratta e formale delle discipline, nessun insieme di regole
potrà mai esaurire le condizioni di validità di una singola deduzione e, di
conseguenza, come si impegnerà a dimostrare lui stesso un anno dopo in
un articolo provocatoriamente intitolato Is mathematical certainty absolute?, certificare aprioristicamente l’esistenza di una certezza assoluta.
Quello perpetuato da Bergson, secondo Wiener, è allora piuttosto
un fraintendimento della natura della matematica e delle scienze naturali che lo costringe a convocare una sorta di «intuizione sistematica» tramite cui riusciremmo a percepire «immediatamente la natura più intima
della realtà» (R, 60) e, così facendo, ad abbracciare una qualche forma di
misticismo.
La strada che imbocca Wiener, invece, è un’altra e ci sembra passi
attraverso due convinzioni di fondo. La prima riguarda il fatto che negare
la certezza non significa affatto negare la possibilità della conoscenza, ma
piuttosto rideterminarne radicalmente le condizioni di possibilità. La
seconda, sulla quale ci assumiamo il rischio dell’interpretazione, è che tale
conoscenza non potrà che esercitarsi nella forma della conoscenza scientifica e non attraverso un qualche genere di intuizione immediata.
Non ci interessa, in questo contesto, discutere la legittimità o meno
della critica di Wiener a Bergson, quanto piuttosto insistere sulla sintomaticità della posizione wieneriana. [1] [1] Per una lettura differente del
tra Bergson e la scienza, che,
«Bergson – conclude così la sua critica il matematico ame- rapporto
a nostro avviso, potrebbe essere utile
ricano – mette in piedi un mulino a vento, lo chiama rileggere proprio alla luce dei contenuti
di questo contribuito, cfr. Serres (1977,
scienza fisica e poi lo attacca valorosamente. Ma è solo per- 127-142).
ché quello che attacca è un mulino a vento e non la vera
scienza, che ne esce vittorioso» (R, 60).
Ma se il mulino a vento di Bergson rappresenta una scienza falsa,
costruita ad hoc per delegittimarne l’attività, quali sono i caratteri della
“vera scienza” di cui parla Wiener? Che cos’è una scienza relativistica?
È lui stesso, nell’ultima parte dell’articolo, a fornirci alcune informazioni per provare ad abbozzare una risposta. Lo scienziato è un «vero e
proprio relativista» nella misura in cui è conscio del fatto che i suoi strumenti possono fornire solamente «letture approssimative»; che le sue
osservazioni possono registrare solo «approssimativamente» le letture dei
suoi strumenti; che le leggi e le formule sono «mere approssimazioni» (R,
65, corsivi nostri), ecc.
Contrariamente al mito della certezza assoluta, da un lato, e all’immediatezza dell’intuizione bergsoniana, dall’altro, lo stigma della scienza
relativistica risiederebbe nella condivisione di una sorta di semantica
dell’approssimazione. E, tuttavia, è nostra convinzione che, a quest’altezza della riflessione wieneriana, tale stigma non sia quello di una scienza
relativistica, ma piuttosto della scienza che in quanto tale condivide
una postura relativistica – opera secondo approssimazione e si evolve per
approssimazioni. Se, da un lato, pertanto, Wiener eredita dal pragmatismo e dal bergsonismo una postura anti-intellettualista, non ci sembra
che, a questa altezza, erediti anche il portato della critica che essi hanno
diretto nei confronti della metafisica della scienza moderna – della sua
La cibernetica prima della cibernetica.
Marco Ferrari
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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postura meccanicistica e rigidamente deterministica – o che, perlomeno,
non lo faccia in maniera pienamente consapevole.
Per certi versi è proprio il tipo di critica che rivolge al bergsonismo che gli impedisce di intravedere in esso – come ha affermato da una
prospettiva radicalmente altra Michel Serres – «l’indicatore, il segno di
un mutamento di paradigma all’interno della scienza» (Serres 1977, 132).
Sono particolarmente indicativi di questa ambivalenza – soprattutto se si tiene conto delle posizioni che Wiener assumerà di lì a poco
–, a un estremo, un testo inedito risalente più o meno agli stessi anni
(1910-1913), intitolato The Place of Teleology in Science, dove il futuro
padre della cibernetica delegittima totalmente l’utilizzo di una categoria
come quella di teleologia all’interno della scienza. «In una scienza pienamente sviluppata – afferma – [...] la teleologia non troverebbe alcuno
spazio» (citato in Le Roux 2014, 36). All’estremo opposto, un testo di
pochi anni successivo, ovverosia la voce Mechanism and vitalism, che
compila, tra il 1917 e il 1918, per l’Encyclopedia Americana, dove, dopo
aver affermato che «[l]a meccanica newtoniana ha rappresentato a lungo
un ideale per tutte le scienze naturali per l’eleganza della sua forma e
la chiarezza delle sue definizioni», riconosce anche che «tutte le spiegazioni meccaniche dei processi viventi sono destinate ad essere di natura
estremamente sommaria» e, in chiusura, dichiara, suggerendo emblematicamente di consultare L’evoluzione creatrice di Bergson: «Di conseguenza, sembra che il meccanicismo sia metodologicamente corretto,
anche se metafisicamente sbagliato» (Mechanism and vitalism (19181920), in CW4, 968-969).
Come non leggere in questa chiusura ad effetto una certa insoddisfazione – perlomeno per quanto concerne il dominio epistemico della
biologia – per la “pochezza” del meccanicismo e, al contempo, un’eguale
incapacità di separarsene del tutto in assenza di un metodo altrettanto
efficace (correttezza metodologica)? Un metodo che non è rilevabile all’altezza di quel vitalismo dalle definizioni estremamente «vaghe» e che, tuttavia, si fa portavoce di una protesta epistemologica che non può essere
messa a tacere (verità metafisica).
Quello che il Wiener-filosofo di quegli anni non riesce ancora a
vedere è che proprio quanto lui stesso ha proposto all’interno del suo articolo del 1914 potrebbe rappresentare un importante spunto di riflessione
in questo senso; una via d’uscita che consentirebbe di relegare tale opposizione «nel limbo dei problemi mal posti» (Wiener 1982, 72), per dirla con
una perifrasi che Wiener stesso utilizzerà qualche anno più tardi.
La «gnoseologia fallibilista» (Montagnini 2005, 46) di Relativism
getta a tutti gli effetti le fondamenta epistemologiche di quella che diverrà
la cibernetica – del riassestamento che essa produrrà rispetto alle fondamenta epistemologiche della scienza moderna, tutte interne a un paradigma meccanicistico e rigidamente deterministico che, proprio in quegli
anni, stava mostrando sempre di più la propria inadeguatezza.
Sarà tuttavia necessario il Wiener-scienziato degli anni successivi
per definire con precisione i motivi e i contorni di tale rottura e del suo
conseguente riassestamento. E, tuttavia, con Relativism, per quanto lo
stesso Wiener a questa altezza non ne sia ancora del tutto consapevole, il
terreno filosofico della cibernetica è predisposto ed è pronto ad accogliere
le sue radici scientifiche.
La storia della scienza è costellata di aneddoti – veri o falsi che siano, non
importa – riguardanti una specifica interazione dello scienziato con il contesto entro il quale è inserito che funge da innesco per la produzione di
un pensiero, solitamente di portata rivoluzionaria. La mela di Newton, gli
esperimenti di Galilei dalla Torre di Pisa. Wiener in questo senso non è da
meno. È lui stesso, nel secondo volume della sua autobiografia, a raccontarci qualcosa di simile che si può dire abbia assolto all’interno del suo percorso intellettuale la medesima funzione della mela e delle biglie.
Il matematico americano, dopo una serie di tentativi falliti di ottenere una posizione stabile come professore di logica presso il dipartimento
di filosofia di Harvard, nel 1919 approda al MIT. Lì, le «onde sempre mutevoli» (Wiener 2017, 244) del fiume Charles, che intravede dalle finestre del
suo studio, concentrano la sua attenzione di matematico. Esse sembrano
fornire a Wiener una conferma materiale della plausibilità delle tesi che
aveva sviluppato nel suo saggio filosofico di qualche anno prima.
Le variazioni delle onde, infatti, richiedevano un approfondimento
scientifico della semantica dell’approssimazione che lui stesso aveva posto
al centro della sua riflessione epistemologica. Come ha opportunamente
rilevato Marcello Cini, il problema che il matematico americano si stava
ponendo osservando il fiume Charles (Wiener 2017, 245) non era quello
dell’idrodinamica classica – frutto dell’estensione delle leggi della meccanica newtoniana dei corpi puntiformi ai fluidi prima ideali e poi reali.
Non si trattava per Wiener di ricondurre il “comportamento” delle onde
a una legge generale, ma piuttosto di trovare una legge generale capace di
«“descrivere” il flusso di quel fiume, [...] rappresentare la mutevolezza e la
varietà di quelle onde, [...] riprodurre le caratteristiche peculiari di quel
“processo” inventando il formalismo adatto per fornire una descrizione
accurata e dettagliata di come esso si svolge» (Cini 1994, 110-111).
Esattamente come dall’impossibilità della certezza assoluta sarebbe
stato scorretto desumere l’impossibilità della conoscenza, dall’attestazione della mutevolezza e del disordine del mondo non doveva essere ricavata l’impossibilità di rintracciare al suo interno dei regimi di regolarità.
Tale regolarità, tuttavia, non poteva essere quella rigidamente deterministica delle scienze newtoniane; doveva essere una regolarità di tipo nuovo,
capace, dirà Wiener qualche anno più tardi, di prendere in considerazione l’incertezza e la contingenza degli eventi. Una regolarità, insomma,
statistica e probabilistica – ecco la traduzione in termini scientifici della
semantica dell’approssimazione –, non assolutamente certa e fondata su
regole generali.
La ricerca di questo nuovo linguaggio da parte di Wiener comincia
nel 1919, con una serie di studi consacrati all’integrale di Lebesgue, che lo
portano a interessarsi sempre più al cosiddetto moto browniano e, tramite
esso, a incrociare le ricerche di Willard Gibbs. Di lui Wiener parlerà come
della «più grande stella mai comparsa nel firmamento scientifico statunitense» (Wiener 1994, 41) e di uno dei punti di riferimento intellettuale più
importanti della sua vita (Wiener 2017, 245).
Anche per quanto concerne la nostra analisi l’incontro con Gibbs
e la meccanica statistica rappresentano una svolta fondamentale. Se,
infatti, da un lato, accostando alle modifiche apportate all’integrale di
La cibernetica prima della cibernetica.
Marco Ferrari
Le radici scientifiche della cibernetica
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II.
La cibernetica prima della cibernetica.
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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Lebesgue i principi della meccanica statistica di Gibbs, Wiener svilupperà una descrizione matematica del moto browniano
estremamente innovativa, [2] dall’altro, attraverso l’in- [2] Successivamente, utilizzando i
della matematica stocastica
contro con la meccanica statistica, comincia a prendere metodi
messi a punto per il moto browniano,
forma, all’interno della mente di Wiener, la convinzione Wiener produrrà una serie di lavori
alla cosiddetta analisi
dell’insufficienza, dapprima all’interno della fisica e, poi, consacrati
armonica generalizzata che lo
più in generale, relativamente alla Scienza in quanto tale, consacreranno in quanto matematico.
un inquadramento sintetico del
del paradigma meccanicistico e rigidamente determini- Per
lavoro matematico di Wiener, che
stico newtoniano.
all’interno di questo contributo verrà
lasciato sullo sfondo, si veda Chatterji
Il primo lavoro in cui tale questione è inquadrata (1994).
con nettezza e rigore teorico è abbastanza tardo. Risale,
infatti, al 1932 ed è curiosamente dedicato a Leibniz. Si
tratta di un articolo che potremmo definire di contro-storia della fisica o,
più radicalmente, di archeologia della fisica. Al fine di superare le impasse
del presente, infatti, Wiener si rivolge al passato, nello specifico «all’epoca
precedente a Newton o, al più tardi, all’epoca in cui la fisica newtoniana
era essa stessa una teoria alternativa che lottava per essere riconosciuta»
(Back to Leibniz! (1932) [BL], in CW4, 76).
Quali siano i termini di queste impasse, Wiener ce lo dice chiaramente sin dalle prime righe del testo. I fondamenti logici della fisica
newtoniana sono in crisi. Come osserverà lo stesso Wiener qualche anno
più tardi, i «nuovi lavori di Gibbs, di Max Planck e di Albert Einstein [avevano] dimostrato che la sintesi newtoniana della scienza era relativamente
inadeguata per i nuovi esperimenti e le nuove osservazioni, proprio come
nel caso della sintesi aristotelica del secolo XVII» (Wiener 1994, 89). E tuttavia, se, da un lato, tanto la teoria della relatività, quanto la teoria dei
quanti ne suonano le campane a morto, dall’altro, nessuna di esse è in
grado di porsi come quella «sintesi di idee, che non sarà certamente conclusiva, ma ci fornirà una nuova base sulla quale la fisica potrà operare per
decenni se non per secoli» (Wiener 1969, 265).
È a questo fine che, in questo articolo, il matematico americano
chiama in soccorso la storia. Il contesto all’interno del quale si sviluppa
l’analisi è, come dicevamo, quello dei dibattiti sette-ottocenteschi interni
alla fisica, prima che si imponesse, in via definitiva, il modello newtoniano. Wiener si riferisce abbastanza classicamente all’opposizione tra
Huyghens e Newton che trovava il suo precipitato più evidente nelle loro
due differenti teorie riguardo alla natura della luce: ondulatoria per il
primo e corpuscolare per il secondo. A metà tra Newton e Huyghens si
collocava, ci dice Wiener, un allievo di quest’ultimo, Leibniz, vero protagonista dell’articolo.
La filosofia di Leibniz è interrogata da Wiener in qualità di potenziale precorritrice di molte delle tesi più attuali della riflessione scientifica
in ambito fisico. Tuttavia, l’accostamento che, sintomaticamente, concentra maggiormente la sua attenzione è quello tra l’ottimismo leibniziano,
che si declina, come noto, nella convinzione secondo cui tra vari mondi
possibili dio avrebbe scelto il presente in quanto migliore, e i principi della
meccanica statistica, dove, ugualmente, questi altri mondi possibili «sono
considerati dal punto di vista della probabilità» (BL, 79).
«In parole povere – afferma Wiener –, le proposizioni della meccanica statistica non affermano nulla su ogni singolo mondo possibile, ma
piuttosto sulla stragrande maggioranza di tutti i mondi possibili» (BL, 79).
La cibernetica prima della cibernetica.
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Il che, tradotto, significa che tali proposizioni non determinano, meccanicisticamente, che cosa accade o accadrà a un elemento x a determinate
condizioni in un istante determinato, ma piuttosto che cosa potrebbe
accadergli, e sono così in grado di fornirci informazioni precise circa il
comportamento possibile, o meglio probabile, di tutte le entità, anche
al di fuori della ristretta casistica generale propria di un orientamento di
tipo newtoniano.
È evidente che mettendo in atto un’operazione di questo tipo
Wiener non sta affatto – come recita provocatoriamente il sottotitolo
dell’articolo – facendo rioccupare alla fisica una posizione abbandonata.
A cavallo, avrebbe probabilmente detto Louis Althusser, tra uno scienziato che esplicita la propria “filosofia spontanea” e un filosofo che “sfrutta”
la scienza, egli sta, al contrario, da un lato, provando a gettare le basi per
una fisica post-newtoniana, utilizzando come bussola la meccanica statistica di Gibbs. Dall’altro, sta elaborando, qui come altrove, una sorta
di contro-storia della scienza – quella degli «eroi che hanno preceduto
Newton» (Quantum mechanics, Haldane and Leibniz (1934), in CW4,
80) – teleologicamente orientata alla consacrazione, nel presente, di una
nuova postura, differente da quella newtoniana.
Tutto ciò rende evidente come, attraverso queste operazioni,
Wiener non si stia occupando di rilevare solamente una rottura all’interno
del dominio epistemico specifico della fisica, ma stia cartografando, più
ampiamente e generalmente, un cambio di passo che riguarda la Scienza
in quanto tale.
In un articolo del 1958, dirà, in relazione alla teoria dell’integrazione
di Lebesgue da cui tutto era partito, che essa «trova applicazione non solo
nella matematica e nella fisica moderna, ma nella Scienza in generale» e
affermerà, relativamente al rapporto di quest’ultima con i principi della
meccanica statistica di Gibbs: «Credo che il punto di vista probabilistico
debba essere considerato come fondamentale nella Scienza e non come
un’aggiunta effettuata a posteriori» (Logique, probabilité et méthode des
sciences physique (1959), in Wiener 1979b (d’ora in poi CW3), 537). In un
altro articolo, a riconferma di ciò, prendendo ad esempio la teoria darwiniana dell’evoluzione, farà osservare come «[l]e scoperte di Gibbs hanno
reso possibile un nuovo atteggiamento nei confronti di varie branche non
fisiche della scienza che si erano sviluppate nel XIX secolo» (Time and the
science of organization (1958), in CW4, 248).
Emerge, così, potentemente, come il riferimento a Gibbs e alla
meccanica statistica – e, più ampiamente, a quello che definirà l’«impatto
del punto di vista gibbsiano sulla vita moderna» (Wiener 1988, 11) – abbia
esercitato all’interno della riflessione wieneriana una funzione che va ben
oltre quella di una semplice incursione all’interno del dominio fisico. Esso,
da un lato, ha rappresentato, per Wiener, l’occasione di rivolgersi alla storia della scienza in maniera inedita rispetto alla prospettiva quasi-atemporale che troviamo ancora nelle pagine di Relativism; dall’altro, gli ha reso
visibili i limiti non solo della fisica newtoniana, ma anche della fondazione
newtoniana della Scienza, mettendolo nelle condizioni di riflettere circa la
possibilità di adottare un’altra immagine di essa.
Un metodo scientifico, scriverà Wiener qualche anno più tardi,
capace di prendere in considerazione la contingenza (Wiener 1988, 8) – di
credere più accettabile la prospettiva di un universo contingente, piuttosto
I fiori tecnici della cibernetica
nascita della cibernetica, arrivando
talvolta a definire quest’ultima «una
parte intrinseca della meccanica
statistica». Cfr. Thermodynamics of
the message (1955), in CW4, 206-211.
«Se si prendono in considerazione i primi vent’anni di
questo secolo – afferma Wiener in un’opera pubblicata
postuma –, si può dire che il rapido sviluppo della nuova fisica non
newtoniana non ebbe molte occasioni di contaminare le acque correnti
dell’invenzione prima dell’inizio della prima guerra mondiale» (Wiener
1994, 102).
Le conseguenze più significative, da questo punto di vista, potevano essere riscontrate nel settore di quella che stava configurandosi come
ingegneria delle telecomunicazioni. Lo stesso Wiener – che negli anni della
Prima guerra mondiale era impegnato, tra vecchia Europa e Stati Uniti,
a fare i conti con il suo “divenire-matematico” –, sulla fine degli anni
Venti, è proprio in questo settore che fece precipitare per la prima volta in
ambito più direttamente tecnico i suoi lavori sul moto browniano e l’analisi armonica generalizzata. L’approdo al MIT e i contatti con il suo corpo
docente incisero molto nel direzionare questi suoi interessi. Tuttavia, fu
sempre in qualità di matematico, quando non addirittura di filosofo, che
prese in carico tali questioni.
Probabilmente, fu proprio questo tipo di sensibilità a consentirgli
di inquadrare i) il problema della natura del tipo di «merce da trasportare
attraverso un sistema telefonico» (Hartley 1926, 26) – com’era definita in
modo vago quella che, di lì a poco, avrebbe preso il ben più noto nome di
“informazione” – e ii) la maniera di avere a che fare con essa.
Fu proprio il retroterra scientifico a cui ci siamo riferiti nel paragrafo precedente a fargli ipotizzare che le correnti deboli di cui erano costituiti i nuovi segnali elettronici necessitassero per essere comprese di grandezze del tutto nuove che nulla avevano a che fare con quelle utilizzate
fino a quel momento nel campo dell’ingegneria elettrica, fondate essenzialmente sul concetto di “energia” (A New Concept of Communication
Engineering (1949), in CW4, 197-199).
L’intuizione di Wiener fu di non considerare tali correnti come
degli oggetti concreti che si spostavano seguendo traiettorie fisse e nemmeno come fenomeni subatomici governati dai nuovi principi della meccanica quantistica, ma al pari di onde che conducevano messaggi e che
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III.
La cibernetica prima della cibernetica.
Marco Ferrari
che quella di un «mondo rigidamente deterministico» (Wiener 1988, 11) – e
rimpiazzare il determinismo rigido con quello che definirà tanto «determinismo incompleto» (Wiener 1988, 11), quanto «indeterminismo qualificato» (Wiener 2017, 97).
Nel capitolo che apre il secondo volume della sua autobiografia –
quasi a parziale conferma della linea di continuità che stiamo cercando di
tracciare – il futuro padre della cibernetica afferma: «Quando sono arrivato
al MIT, ero intellettualmente preparato ad essere influenzato dal lavoro di
Gibbs» (Wiener 2017, 45). Si trattava, allora, come avevamo anticipato, di
innestare all’interno di un terreno filosofico adeguatamente “preparato”
a tale fine le radici scientifiche da cui sarebbe poi derivata la cibernetica.
La prospettiva dischiusa dalla meccanica statistica – e da tutto quanto ha
orbitato attorno a essa – ha consentito esattamente di mettere in atto questo tipo di operazione. [3] Non restava che [3] Wiener non cesserà mai di
riconoscere la centralità assolta dalla
assistere allo sbocciare dei fiori.
meccanica statistica in relazione alla
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– come i movimenti delle particelle nel moto browniano – non andavano
indagate con certezza, ma sulle basi delle leggi della probabilità.
Data la natura di questi messaggi, che Wiener già in quegli anni definiva «una sorta di matrice di quantità misurabili distribuite nel tempo»
(Wiener 1964, 2) – «precisamente ciò che gli statistici chiamano una serie
temporale» (Wiener 1982, 32) –, gli strumenti della matematica statistica
si rivelavano quelli più adeguati a porre in essere questo genere di operazioni. Esattamente come nella meccanica statistica di Gibbs, infatti, misurare un messaggio significava calcolare, alla sorgente, la sua percentuale
di probabilità all’interno di un «repertorio di messaggi possibili» (Wiener
1964, 2); avere a che fare non tanto con «ciò che si dice effettivamente,
quanto [con] ciò che si potrebbe dire» (Shannon & Weaver, 19832, 8).
Alla grandezza quantificata attraverso tali processi di misurazione si diede l’appellativo di informazione. Per facilitarne la comprensione, Warren Weaver, nell’introduzione che scrisse a The Mathematical
Theory of Communication di Shannon, ne parlerà come di «una misura
della libertà di scelta che si ha quando si sceglie un messaggio» (Shannon &
Weaver, 19832, 8). Allo stesso modo, nel capitolo di Cybernetics consacrato
alla trattazione dei concetti di informazione e comunicazione, Wiener la
inquadrerà, nella sua forma più elementare, nei termini della «registrazione di una scelta tra due semplici alternative equiprobabili, una delle
quali deve necessariamente verificarsi: la scelta, per esempio, fra testa e
croce nel lancio di una moneta» (Wiener 1982, 92). A un tasso di probabilità molto basso – di incertezza crescente – corrisponderà una quantità di
informazione molto alta e viceversa.
Com’è stato mostrato, ampiamente e dettagliatamente (Segal
2003), tale concetto di informazione troverà la sua compiuta formalizzazione matematica solo a partire dal 1948 – annus mirabilis in cui videro
la luce sia la prima edizione di Cybernetics che l’articolo di Shannon, A
Mathematical Theory of Communication. E, tuttavia, è nostra convinzione che già nelle intuizioni wieneriane di fine anni Venti siano presenti,
perlomeno in nuce, alcuni dei concetti fondamentali di quelle che diverranno la teoria dell’informazione e la cibernetica.
Da un lato, in una serie di lavori estremamente tecnici consacrati
all’analisi armonica, infatti, si può dire che egli «edificò le nuova fondamenta logiche e matematiche dell’ingegneria della comunicazione in
forma di scienza statistica» (Conway & Siegelman 2005, 97; The operational calculus (1926), in Wiener 1979a (d’ora in poi CW2), 397-424; The armonic analysis of irregular motion (1926), in CW2, 112-166). Dall’altro, supervisionando il lavoro di uno dei suoi dottorandi, Yuk Wing Lee (Terrien
2002), si impegnò nella progettazione di una serie di reti di circuiti elettrici, arrivando perfino a brevettarne una.
Se nel primo caso a essere in gioco erano i futuri concetti di messaggio
e informazione; nel secondo, ve n’era un terzo che avrebbe assunto un ruolo
forse ancora più centrale, tanto nello sviluppo della teoria dell’informazione,
quanto in quello della cibernetica, ovverosia il concetto di rumore. Infatti, se,
da un lato, agli ingegneri elettronici importava senza dubbio trovare il modo
di misurare la quantità d’informazione presente in un messaggio, dall’altro,
essi ritenevano ugualmente rilevante vegliare affinché tale messaggio fosse
recapitato “integro” a destinazione, riducendo al minimo tutti quei disturbi
(noise) che potevano interessare la trasmissione di quest’ultimo.
La cibernetica prima della cibernetica.
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Tuttavia, per una serie di ragioni che non possiamo, in questo contesto, prendere in esame nel loro complesso, la teoria dell’informazione
non esaurisce il dominio della cibernetica. [4] Ancora più
radicalmente, Shannon non è Wiener. E non tanto perché [4] Per una chiarificazione
approfondita di questa tesi, ci
le loro formalizzazioni matematiche del concetto di infor- permettiamo
di rinviare a Ferrari
mazione divergono; e nemmeno perché, come ha soste- (2021).
nuto gran parte della letteratura scientifica esistente, in
Wiener il concetto di informazione coinciderebbe con la
riduzione della libertà di scelta e, di conseguenza, dell’incertezza, laddove
in Shannon indicherebbe l’esatto opposto (cfr. da ultimo Malaspina 2018).
Shannon non è Wiener e la teoria della comunicazione non è la cibernetica perché in essa è assente un concetto che per quest’ultima è invece fondamentale, a un punto tale da avere portato molti commentatori – non
certo senza ragione – ad elevarlo a suo vero punto di discrimine: il concetto
di feedback.
Se per quanto concerne la filiera dell’ingegneria delle telecomunicazioni, il primo conflitto mondiale può avere esercitato una funzione d’accelerazione di qualche tipo, affinché un concetto come quello di feedback
potesse realmente incontrare l’attenzione di Wiener si dovette attendere
la Seconda guerra mondiale, nella forma di un’occasione di pensiero fornitagli da uno studio sull’artiglieria contraerea.
Si trattava per l’ennesima volta di affrontare un problema di ordine
statistico: predire la posizione futura di un’entità x – in questo caso un velocissimo aereo da guerra –, basandosi sulle migliori informazioni disponibili.
Il condensato teorico più interessante delle lunghe e travagliate
ricerche di un biennio – condotte al MIT, al fianco di un ingegnere
dell’IBM, Julian Bigelow, che assolverà una funzione centrale nello sviluppo della cibernetica – si trova all’interno di una monografia conclusa
da Wiener nel febbraio del 1942, ma, a causa dell’imposizione del segreto
militare, pubblicata ufficialmente solo nel 1949. Negli anni della guerra
era nota come Yellow Peril; nel 1949 fu invece pubblicata, in una versione rivista, con il titolo Extrapolation, Interpolation, and Smoothing
of Stationary Time Series.
Si tratta di un documento composto nella maggioranza delle sue
parti da calcoli estremamente complessi. Quanto interessa a noi, tuttavia,
è la primissima parte del testo nella quale è possibile individuare i contorni
di un programma teorico che va ben oltre quello preposto alla costruzione
di un congegno predittore e descrive piuttosto quella che, qualche anno
più tardi, Wiener avrebbe identificato come «la filosofia generale del problema» (My connection with cybernetics (1958), in CW4, 114).
Per capirlo è sufficiente leggere le prime righe del testo, nelle quali
il matematico americano circoscrive fin da subito la finalità del lavoro.
«Questo libro rappresenta un tentativo di unire la teoria e la pratica di
due campi di lavoro [...] quello delle serie temporali in statistica e quello
dell’ingegneria delle comunicazioni» (Wiener 1964, 1).
All’interno di questo documento – tale è la nostra lettura – le radici
scientifiche della cibernetica e i suoi fiori tecnici trovano sintesi e continuità. E, infatti, ci ritroviamo, in bella copia, tutti i concetti di cui abbiamo
cercato di rintracciare le origini fino a questo momento (messaggio, informazione, rumore…), insieme a un monito che è contemporaneamente una
dichiarazione d’intenti: «L’unità di questo libro è metodologica» (Wiener
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1964, 23). Quasi una parafrasi di quello che, qualche anno dopo, Wiener
dirà della cibernetica nel corso di un’intervista alla rivista francese Atomes:
«L’unità della cibernetica è metodologica» (Wiener 1951, 292).
Ma ci troviamo soprattutto – sebbene il termine ancora non compaia – il concetto di feedback o, perlomeno, i suoi germi.
Infatti, affinché il predittore antiaereo alla cui realizzazione Wiener
e Bigelow stavano lavorando potesse essere messo nelle condizioni di «lanciare il proiettile non sul bersaglio, ma in modo tale che proiettile e bersaglio [giungessero] a incontrarsi nello spazio in un certo istante nel futuro»
(Wiener 1982, 37), non era sufficiente estrapolare la traiettoria presente
dell’aereo e calcolarne la probabile traiettoria futura. Tale mansione era
certamente quella per cui il Wiener-scienziato era stato chiamato in causa
e rappresentava senza dubbio una componente fondamentale dell’impresa. E, tuttavia, non era sufficiente. Al Wiener-scienziato doveva subentrare il Wiener-tecnico. Al calcolo della previsione doveva essere affiancata
una riflessione su quello che potremmo definire il comportamento tanto
del predittore, quanto dell’aviatore nemico.
Lo scoppio del proiettile produceva, infatti, una variazione del
comportamento del pilota e, di conseguenza, della traiettoria dell’aereo.
Era, pertanto, necessario che un radar fornisse le informazioni sulla rotta
dell’aereo nemico a un sistema di calcolo. Attraverso gli strumenti formali della teoria della previsione/probabilità il sistema di calcolo avrebbe
potuto così prevedere la posizione futura dell’aereo e orientare il predittore. Infine, dopo il (primo) colpo, era però necessario che il radar comunicasse al sistema la misura dell’errore di tiro e che il calcolatore effettuasse
automaticamente la correzione della mira. E così via. In base ai dati ricevuti dal calcolatore il predittore “correggeva” il proprio comportamento,
ri-direzionando di continuo il fine della propria azione.
L’ingegneria delle comunicazioni del tempo possedeva, più che un
concetto, un termine preciso per identificare i dispositivi utilizzati per
regolare o per controllare una grandezza meccanica in modo continuo
nel tempo: servomeccanismi. E, non a caso, nello Yellow Peril Wiener si
riferisce a quest’ultimo come a una delle tecnologie chiave del ramo ingegneristico, che era necessario fare convergere con le conquiste più avanzate della riflessione statistica. Malgrado il termine feedback fosse ancora
ignoto al gergo degli ingegneri, nel funzionamento dei servomeccanismi
era possibile scorgere esattamente la messa in opera di tale principio.
Instradato da Bigelow, Wiener ne afferrò all’istante l’importanza per la teoria dei circuiti, la progettazione dei servomeccanismi e
il nuovo ambito del calcolo elettronico. E, tuttavia, non si limitò a fare
ciò. Comprese fin da subito come non era solo il predittore a comportarsi
come un servomeccanismo, ma anche il pilota dell’aereo nemico, il quale
in base alla traiettoria dei proiettili sparati da quest’ultimo era portato a
variare di conseguenza la traiettoria del suo stesso mezzo.
«[I]l pilota si comporta come un servomeccanismo» (A.A. Directors.
Summary Report of Demonstration (1942), citato in Masani 1990, 189, corsivo nostro), scrive Wiener in un report di lavoro inedito di quel biennio.
È all’altezza di questa intuizione che, a nostro avviso, deve essere collocato
il passaggio dal principio di funzionamento dei servomeccanismi come
“concetto” specifico dell’ingegneria delle comunicazioni al feedback come
concetto generale della cibernetica.
La cibernetica prima della cibernetica.
Marco Ferrari
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 37 — 55
Al pieno sviluppo di tale intuizione contribuirà il confronto di
Wiener con una sua vecchia conoscenza. Un neurofisiologo messicano,
Arturo Rosenblueth, che proprio in quegli anni presso l’Harvard Medical
School, sotto la supervisione di un oltremodo noto Walter B. Cannon, stava
conducendo delle ricerche sui meccanismi di feedback nell’essere umano.
Al fine di rilevare l’importanza assolta da Rosenblueth nello sviluppo della cibernetica, sarà sufficiente ricordare come esso compaia in
qualità di dedicatario di Cybernetics. Lui e Wiener si erano conosciuti
agli inizi degli anni Trenta e avevano condiviso fin da subito un pronunciato interesse per le questioni di metodologia scientifica, nonché «la convinzione che le aree più propizie allo sviluppo delle scienze fossero quelle
che erano state trascurate come terra di nessuno (no man’s land) fra i vari
campi esplorati» (Wiener 1982, 24).
Il concetto di feedback sembrava rappresentare la prova più evidente della correttezza di tale convinzione. Si potrebbe, da questo punto
di vista, alleviare un po’ il senso di vergogna di Konrad Lorenz che, nel
suo celebre libro sui fondamenti dell’etologia, si risente del fatto che i
biologi siano giunti a valutare «la grande importanza del processo circolare auto-regolatore dell’omeostasi solo dopo che questo era stato inventato dai tecnici della regolazione» (Lorenz 2011, 72-73). Quello di feedback,
infatti, è un concetto che si può dire si sviluppi fin da subito a cavallo tra
ingegneria e neurofisiologia, un po’ correggendo il tiro, un po’ amplificando molte delle nozioni appartenenti alle storie pregresse di entrambi i
domini scientifici.
Infatti, così come sul piano degli studi ingegneristici il concetto di
feedback era stato anticipato dalle ricerche sui servomeccanismi; su quello
degli studi neurofisiologici si può dire che il concetto di omeostasi abbia
esercitato la medesima funzione precorritrice.
Quest’ultimo è un concetto che, sebbene sia stato teorizzato (ma
sarebbe meglio dire nominato) ufficialmente solo nei primi anni del
Novecento da Cannon è soggetto a una storia più ampia che comincia con
gli studi sui meccanismi della digestione – in particolare quelli deputati
all’assorbimento degli zuccheri – del fisiologo francese Claude Bernard e
si conclude, perlomeno per quanto riguarda lo spettro d’interesse della
nostra analisi, con la generalizzazione di esso, ben al di fuori dei confini
della (neuro)fisiologia, messa in atto dalla cibernetica.
«Claude Bernard qui genuit Cannon qui genuit Rosenblueth apud
Wiener» – afferma Georges Canguilhem (1992, 78) in un importante studio
dedicato alla formazione del concetto di regolazione biologica. [5] A partire dai suoi studi sulla digestione, infatti, [5] Per un inquadramento al contempo
sintetico e completo della questione,
Bernard arriva a teorizzare l’esistenza, nell’organismo, di cfr.
Cooper (2008).
una serie di meccanismi di regolazione deputati al mantenimento di quello che sarà definito ambiente interno –
milieu intérieur – in uno stato di equilibrio e stabilità. L’idea di fondo
era che la condizione fondamentale per il darsi della vita di un organismo
(complesso) dovesse essere rilevata nella capacità del suo ambiente interno
di mantenersi stabile. «La fissità dell’ambiente interno – scrive Bernard–
rappresenta la condizione della vita libera, indipendente» (Bernard 1878,
113). Condizione che supponeva «un miglioramento dell’organismo tale
per cui le variazioni esterne fossero sempre compensate ed equilibrate» e
dove, pertanto, l’equilibrio non proveniva da una regolazione intesa come
La cibernetica prima della cibernetica.
Marco Ferrari
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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conservazione e riproduzione senza variazioni delle costanti iniziali, ma
piuttosto «da una continua e delicata compensazione istituita come dalla
più sensibile delle bilance» (Bernard 1878, 113). Sia osservato per inciso:
non l’orologio secondo una fortunata metafora dell’organismo diffusasi
a partire da Descartes, ma la bilancia o, ancora meglio, quella macchina
a vapore che Bernard chiamerà in causa in alcuni dei suoi scritti (Bernard
2014, 50) e che, secondo Wiener (1988, 151-152), rappresenterebbe uno dei
primi esempi materiali dell’utilizzo dei servomeccanismi.
In alcuni dei numerosi saggi che ha dedicato alla figura del fisiologo
francese Canguilhem ha opportunamente osservato come Bernard fosse
riuscito, grazie alle sue ricerche sui meccanismi di regolazione, a «essere
determinista senza essere meccanicista». Un atteggiamento che gli derivava dal fatto di essere stato giusto con il vitalismo (in modo particolare quello di Xavier Bichat), trattandolo «come errore e non come sciocchezza» (Canguilhem 2019, 426), vale a dire intercettando quella che, con
Wiener, potremmo chiamare la sua “verità metafisica”, senza, tuttavia,
abbracciarne le possibili conseguenze irrazionaliste e indeterministiche,
ma ricollocando quest’ultima all’interno di un nuovo genere di “correttezza metodologica”. In questo senso, non solo è possibile rilevare nei meccanismi di regolazione di Bernard i precursori del feedback, ma anche nel
suo determinismo non-meccanicistico, una prima forma di quel determinismo teleologico con cui la cibernetica sancirà il suo riassestamento definitivo dell’immagine della Scienza.
Con il concetto di omeostasi Cannon (1926) si pose esplicitamente in
continuità con le ricerche di Bernard sull’ambiente interno e i meccanismi
di regolazione deputati al mantenimento di quest’ultimo entro un regime
di stabilità attiva, a tal punto che, come ha osservato correttamente lo
stesso Wiener, nella parola “omeostasi” «le nozioni di Claude Bernard si
cristallizzano» (The Concept of Homeostasis in Medecine (1953), in CW4,
386). Il fisiologo americano, forse perché meno filosofo del suo progenitore francese, non si pose mai la questione di se e quale tipo di determinismo fosse compatibile con il concetto di omeostasi. Si limitò a ribadirne
il carattere di condizione imprescindibile per la perpetuazione dell’esistenza dell’essere vivente. Se, come affermerà Wiener, «la questione dello
scopo della vita [...] non ha una risposta chiara», è tuttavia certo che tale
scopo sia un obiettivo «da mantenere attraverso l’omeostasi» (Science and
society (1961), in CW4, 774). Qualunque sia lo scopo, insomma, è unicamente attraverso il mantenimento dinamico della stabilità e dell’equilibrio che esso potrà essere raggiunto.
Infine, Rosenblueth apud Wiener. Come abbiamo detto, negli
anni in cui Wiener e Rosenblueth si conobbero quest’ultimo stava conducendo i propri studi sui meccanismi neurofisiologici di retroazione
sotto la supervisione di Cannon. Com’è stato opportunamente rilevato da
Steven J. Cooper, egli costituì in questo senso «il ponte intellettuale tra la
fisiologia omeostatica di Cannon e la visione della cibernetica di Wiener»
(Cooper 2008, 425).
L’aria di famiglia tra il concetto di omeostasi, o, meglio, di meccanismo omeostatico, e quello di feedback è indubbiamente evidente.
Tuttavia, contrariamente a quanto ha affermato Canguilhem, nel caso di
Rosenblueth e Wiener non si trattò tanto di “generazione”, quanto piuttosto di “generalizzazione”. Nel passaggio da Bernard a Cannon a essere in
51
Conclusione. Di cosa parliamo quando parliamo di cibernetica?
In uno scritto inedito a cui ci siamo già riferiti, databile tra il 1910 e il 1913
e intitolato The Place of Teleology in Science, il giovane Wiener dichiarava con nettezza che «cercare di spiegare i fenomeni naturali a partire dal
perseguimento di un fine è sempre segno di un cattivo metodo scientifico
o di una ricerca carente, malgrado possa costituire una comoda scorciatoia
per esprimere dei fatti connessi ma spiegati in maniera imperfetta, come
quelli riguardanti l’evoluzione del vivente» e chiosava, con altrettanta
nettezza: «In una scienza pienamente sviluppata, tuttavia, la teleologia
non troverebbe alcuno spazio» (citato in Le Roux 2014, 36). Trent’anni più
tardi, in un articolo scritto a sei mani con Bigelow e Rosenblueth intitolato Behavior, purpose and teleology e considerato dai più il vero atto di
nascita della cibernetica, quello stesso Wiener, facendo leva sul concetto
di feedback, pone invece in rilievo proprio i concetti di fine e teleologia;
concetti che – scrivono i tre proto-cibernetici – «anche se oggi sono piuttosto screditati, hanno una grande importanza» (Rosenblueth et al. 1964
[BPT], 100).
Raccontando del suo primo incontro con Wiener, Warren McCulloch,
altro protagonista di spicco della storia della cibernetica, dirà: «L’ho visto
per la prima volta a cena con Rosenblueth, quando insieme a Bigelow stavano meccanizzando la teleologia» (McCulloch 1965, 16, corsivo nostro).
Meccanizzando la teleologia, ossia, nella nostra ipotesi, collocando una
“verità metafisica” screditata (tramite la riduzione della teleologia a un
«concetto vago di “causa finale”» (BPT, 102)) all’altezza della nuova “correttezza metodologica” che stava andando producendosi. Infatti, malgrado
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 37 — 55
IV.
La cibernetica prima della cibernetica.
Marco Ferrari
gioco era l’evoluzione di un concetto propriamente biologico. In quello
da quest’ultimo a Wiener, tramite Rosenblueth, a prodursi è un’estensione del concetto al di fuori dei confini del suo originario dominio epistemico. In un primo momento, attraverso il rilevamento di una similitudine tra l’esercizio dei meccanismi di retroazione nei viventi e nelle
macchine di nuova generazione. Poi, attraverso l’assunzione del feedback
a concetto fondamentale della cibernetica, testimoniato, tra le altre cose,
dal tentativo problematico di estendere tale similitudine anche al sociale.
A questa generalizzazione consegue, ovviamente, anche una generalizzazione del concetto di omeostasi in quanto tale e della semantica dell’equilibrio dinamico e della stabilità attiva che esso si trascina sin da Bernard
(Wiener 1991). Proprio quest’ultimo fattore conferisce al feedback una
caratteristica che era assente o, quantomeno, non immediatamente evidente, all’altezza della sua altra matrice (ingegneristica) e che lo pone in
connessione diretta con un altro concetto fondamentale:
quello di organizzazione. [6]
[6] Cfr. Problems of organization
(1953), in CW4, 391: «Il concetto
Non è questo il contesto per mostrare fino a che di organizzazione è intimamente
punto tale connessione si rivelerà centrale per l’avvenire connesso al concetto di omeostasi di
della cibernetica (Bardin & Ferrari 2022). Non ci rimane, Claude Bernard. […]».
dunque, che constatare come – dopo quelli di messaggio e
informazione – con la definizione del concetto di feedback si presenzi allo
sbocciare di quello che probabilmente è il fiore più rigoglioso dell’albero
della cibernetica. La guerra stava finendo, non rimaneva che raccoglierne
i frutti.
La cibernetica prima della cibernetica.
Marco Ferrari
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 37 — 55
i tre autori affermino che «[u]na discussione sulla causalità, il determinismo e le cause finali [andasse] oltre gli intenti [del loro] saggio» (BPT, 104),
ciò che ne fuoriesce è una deformazione importante del determinismo
rigidamente meccanicistico del «modello newtoniano» (Wiener 1982, 62)
e della specifica idea di mondo ad esso connessa: un «mondo organizzato
in modo rigido» in cui «tutto il futuro dipende strettamente da tutto il
passato» (The application of physics to medicine (1960), in CW4, 258). Un
determinismo teleologico in cui il relativismo filosofico, il probabilismo
scientifico e i concetti di messaggio, informazione, feedback, rumore, ecc.,
trovano il proprio punto d’arrivo e, al contempo, il quadro epistemologico
che rende possibile una loro inedita ri-declinazione.
Dell’acqua passata sotto i ponti nel corso di questi trent’anni
abbiamo cercato di (cominciare a) rendere conto attraverso questo contributo. Contrariamente a quanto sostiene gran parte della letteratura esistente, infatti, siamo convinti sia a quest’altezza che bisogna guardare se
ci si vuole impegnare nel tentativo di fornire una risposta – che non sia
meramente apofatica – alla domanda, certo problematica, ma inevitabile:
di cosa parliamo quando parliamo di cibernetica?
Quanto possiamo derivare da questo primo attraversamento è,
innanzitutto, che non parliamo di un fatto, ma piuttosto di un evento,
o, meglio del punto di capitone di un lento processo genetico sotterraneo di cui Cibernetica – nel doppio senso della pubblicazione-evento di
Wiener e del complesso fenomeno che da essa è scaturito – rappresenta
l’atto di nominazione. Un lento processo da cui l’immagine della Scienza
e della consistenza ontologica del mondo verso cui essa dirige la sua comprensione fuoriesce radicalmente modificata. [7] Dopo il
1943, infatti, attraverso una serie di eventi che vanno dalle [7] Cfr. Wiener (1982, 62): «Non esiste
sola scienza che si conformi
Macy Conferences alla pubblicazione di Cybernetics e una
esattamente al modello newtoniano».
The Human Use of Human Beings, nel giro di pochi anni
vengono gettate le basi per «un nuovo quadro concettuale
di riferimento per l’indagine scientifica» (Frank 1948, 192). Un «nuovo
Discorso sul metodo», come lo definirà Simondon (in press), che si estenderà – riorientandone l’esercizio – a un vasto spettro di domini epistemici.
Produrre un’investigazione critica, oltre che una più completa ricostruzione storica, dei caratteri di tale postura – dentro alla più ampia
storia dei tentativi di fondazione aprioristica delle pratiche scientifiche –
andava molto al di là dei propositi di questo contributo. [8]
Quasi ottant’anni dopo la pubblicazione di [8] Abbiamo intrapreso un percorso di
questo tipo in Ferrari & Bardin (2022) e,
Cybernetics, tuttavia, dentro a quegli stessi domini epi- più
ampiamente, in Ferrari (2021).
stemici in cui avevano trovato ampia diffusione, molti dei
paradigmi derivati dalla cibernetica cominciano ad essere
riconsiderati, spesso, nondimeno, senza essere completamente dismessi.
Più radicalmente, accade che tali paradigmi agiscano a tutti gli effetti
come ostacoli epistemologici – nel senso specifico che Gaston Bachelard
attribuiva a tale termine –, impedendo un reale esercizio
delle pratiche scientifiche stesse. [9]
[9] Sia sufficiente, a titolo meramente
fare riferimento al
Tutto ciò rende, a nostro avviso, improcrastinabile esemplificativo,
caso del fantasma molto concreto del
un’operazione di comprensione rigorosa dell’evento-ciber- genocentrismo in biologia. Sul tema,
netica da parte della filosofia. Soprattutto di quella filoso- cfr. Kupiec (2021); Soto et al. (2016).
fia che si vuole orientata e condizionata dall’esercizio delle
pratiche scientifiche e, al contempo, potenzialmente alleata di queste
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ultime (Cesaroni 2020; Ferrari & Minozzi 2022). Se, da un lato, infatti, solo
un’interrogazione critica – normativa, ratificante e giudicata, per dirla
ancora una volta con Bachelard – potrà rendere visibili i suoi impensati,
dall’altro, senza una corretta ricognizione di ciò che la cibernetica ha provato a pensare, essa, come spesso accade, rischierebbe di incorrere nell’ennesima riproposizione di una versione semplicemente differente del medesimo “pensato”. [10]
[10] Per una prima chiarificazione,
alla riflessione simondoniana,
Il “frutto dell’Albero della Conoscenza” di cui interna
dei modi di questa interrogazione, ci
abbiamo cominciato a ricostruire lo sviluppo dovrà diven- permettiamo di rinviare a Ferrari in
tare, dunque, parte integrante della sua dieta, vigilando, press.
tuttavia, affinché la sua digestione non porti con sé un
sonno, differente da quello antropologico (Pias 2005), ma potenzialmente
altrettanto, se non maggiormente, profondo.
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Atomes, 291.
L’officina cosmica.
Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero
pre-cibernetico russo
Francesco Vitali Rosati
Dottorando di ricerca presso
l’Università di Torino (consorzio
FINO), si occupa principalmente del
pensiero filosofico-matematico di
Pavel Florenskij. Le sue aree di studio
includono il pensiero russo, le teorie
dello spazio, le filosofie del vivente.
francesco.vitalirosati@unito.it
— BIOSPHERE
— ORGANIZATION
— COSMISM
— ECOLOGY
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 57 — 68
The biosphere is a great machinery of mutual transmutations,
resulting in growing extension and heterogeneity. Organic and
inorganic matter is caught in progressive cycles of
transformation of cosmic radiation into active energy. Such
was the great discovery of the Russian geochemist V. I.
Vernadsky, who in 1926 developed the first coherent model of
Earth’s organization as a single integrated system, ultimately
framing human experience itself as a planetary phenomenon:
the Noosphere. This was also the clearest expression of a
peculiar intellectual tradition: in the same years, Bogdanov’s
general theory of organization (Tektology) coupled atmosphere
and biosphere in co-evolutionary dynamics between living
wholes, each one achieving self-regulation by means of
positive and negative selection. Finally, Florensky’s
engineering work, concerned with geometry of electrical fields
and discontinuous changes, lead him to describe any activity
as a spontaneous process of spatial organization, in order to
establish intersections among different fields of knowledge.
This paper aims to discuss the main concepts of Soviet
organizational theories (1920-1930), their common goal of
overcoming boundaries between disciplines, as well as their
theoretical coherence and relevance. It shall argue that a
cosmist ecology, differently from a flat holism, outlines an
ontology of recursive communication, amplification and
mutual penetration.
di altri mondi: abbiamo bisogno di uno specchio.
Мы вовсе не хотим завоевывать никакой Космос.
Мы хотим расширить Землю до его границ... Нам не
нужно других миров. Нам нужно зеркало.
A. Tarkovskij, Solaris (1979)
Le teorie dell’organizzazione in Unione Sovietica (1920-1930) serbano una
contraddizione insanabile: da un lato indagano sentieri inesplorati, pro2.
ponendo modelli pioneristici di pensiero sistemico; dall’altro proseguono l’eccentrico progetto politico, tecnologico e artistico
ottocentesco noto sotto il nome di cosmismo: [1] sogno [1] Categoria storiografica alquanto
ambigua, generalmente indicativa di
del visionario Nikolaj Fëdorov (1829-1903), la cui «filoso- un
certo monismo onto-epistemico
fia dell’opera comune» (философия общего дела, filo- composito di elementi mitologici e
scientifici (Kline 2013), ma assurta di
sofija obščego dela) programmava la conquista spaziale, frequente
a chiave di lettura dell’intera
coniando peraltro la fortunata immagine della nave spa- cultura russa di inizio secolo (Young
ziale terra (Fëdorov 1982). L’utopia alchemica di una noo- 2012; Tagliagambe 2021).
cosmogenesi, a un tempo espansione della vita e trasmutazione della materia inerte in attività cognitiva e autotrofica, costituirà
un’eredità intellettuale pervasiva, raccolta, tra gli altri, da Konstantin
E.
3. Ciolkovskij (1857-1935), fondatore della cosmonautica sovietica, e da
Vladimir I. Vernadskij (1863-1945), pupillo di Mendeleev e padre delle
scienze della terra (Bailes 1990).
Nel caso di Vernadskij, oggi nume tutelare dell’ecologia (Deléage
1991, 197; Margulis 2000, 48), la profonda originalità della sua teoria biosferica elabora, già all’inizio degli anni venti, un ripensamento radicale
dell’endiadi organismo-ambiente e, più in particolare, del fenomeno della
vita terrestre alla luce del suo milieu cosmico: compenetrato da radiazioni
solari ed elementi di corpi celesti, il vivente esprime la sua autonomia
nella produzione attiva dello strato di ozono dell’atmosfera (Vernadskij
1999, 139).
Contemporaneo di Vernadskij, Aleksander Malinovskij alias
Bogdanov (1873-1928), medico, rivoluzionario e fondatore del Proletkul’t,
pubblica nel 1922 una «scienza generale dell’organizzazione» impostata sui
fenomeni di entropia negativa, plasticità e simbiosi, preconizzando, e verosimilmente ispirando [2] i modelli ciberne- [2] Von Bertalanffy era a conoscenza
l’opera di Bogdanov, che preferì non
tici e della teoria dei sistemi (Setrov 1967; Zeleny 1979).
menzionare, così come Lovelock
Attorno al concetto di organizzazione si dipana tacque a lungo sull’influsso di
anche l’opera filosofico-matematica di Pavel Florenskij Vernadskij (Gorelik 1980; Capra 1996).
(1882-1937), il cui studio assiduo della teoria dei campi, delle
superfici irregolari e delle trasformazioni discontinue, lo conduce negli
stessi anni alle soglie delle geometrie dei frattali:
Nelle curve metereologiche, nelle traiettorie dei moti browniani, nelle superfici di alcuni cristalli… troviamo linee e superfici curve continue prive di tangenti,
cioè funzioni continue senza derivata, che inducono ad ammettere un principio
morfogenetico. D’altro canto […] la stabilità dei sistemi dinamici, i campi elettromagnetici, l’isteresi, necessitano di metodi radicalmente nuovi che accolgano il
L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo
Francesco Vitali Rosati
Non vogliamo affatto conquistare il Cosmo. Vogliamo allargare
la terra alle sue dimensioni… Non abbiamo bisogno
58
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 57 — 68
L’altra cosmologia
ma (Florenskij 2007, 233).
Le prospettive sistemiche della cosiddetta «età d’argento» delineano quindi una vera e propria ecologia ante litteram, foriera di modelli e concetti
caratteristici, nonché, come tenteremo di mostrare, di rispettive ontologie. Una tradizione intellettuale peculiare, marcatamente anti-riduzionista, rivolta ecletticamente ai problemi di organizzazione (организация,
organizazija), regolazione (регуляция, reguljazija) e autogenerazione (самозарождение, samozarozhdenie) [3] [3] Il concetto di самозарождение
(samozarozhdenie: «autogenerazione»,
dei sistemi viventi, costituirà in Russia una vera e propria «generazione
spontanea»), è al centro
«scienza segreta» (Gödel, in Tagliagambe & Rispoli 2016, 85), del pensiero di Ciolkovskij (Salizzoni
invisa dal regime e coinvolta nella dura repressione negli 1992, 105).
anni trenta.
Significativamente, l’elemento dominante di tali binari di ricerca
è la dimensione spaziale: filo rosso della produzione intellettuale russa,
il dinamismo dello spazio è convocato a esplicare, alla luce delle grandi
innovazioni non euclidee, l’architettura in fieri del cosmo – ovvero il
suo divenire-abitabile mediante dinamiche operative di costruzione
(конструкция, konstrukzija) e composizione. Se per Vernadskij e
Bogdanov la struttura dello spazio è essenzialmente il prodotto di una
sinergia tra sistema e ambiente, per Florenskij la poiesi spaziale implica
una costruzione della realtà caratterizzata dal sovrapporsi, entro sistemi
di elementi strutturali (curve, direzioni, assi di simmetria), di schemi
dinamici di significati che ne producono le condizioni di intelligibilità
(Florenskij 1995, 90). Né contenitore assoluto newtoniano, né forma a priori della sensibilità kantiana, la spazialità permette perciò di tematizzare
una molteplicità di sistemi di riferimento volti a riorganizzare i rapporti
sociali di una cultura nuova, poiché in ultima istanza «tutta la cultura
può essere interpretata come l’attività di organizzazione dello spazio»
(Florenskij 1995, 51).
L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo
Francesco Vitali Rosati
concetto di intero [целое] «maggiore della somma delle parti», che poi è la for-
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In una lettera datata 10 ottobre 1929, Vladimir Vernadskij annunciava a
Pavel Florenskij un imminente punto di svolta nella storia
del pensiero: [4] lo sviluppo delle scienze naturali avrebbe [4] Sul dialogo intellettuale tra
e Vernadskij, si veda ad es. P.
mosso, a suo giudizio, verso la conciliazione di due cosmo- V.Florenskij
Florenskij (1992).
logie a lungo antitetiche, una filosofica e l’altra scientifica,
destinando infine a ricomprendere in una cornice teorica
coerente «tutto ciò che è caro all’umanità» (Naldoniová 2020, 27).
Già da tempo Vernadskij aveva scoperto, studiando la composizione atomica del suolo e delle acque, che l’attività degli organismi viventi
plasma indelebilmente l’intero chimismo planetario, e viceversa che non
sussiste equilibrio, sulla superficie terrestre e nelle profondità oceaniche,
imperturbato dalla presenza di forme di vita. Alghe, piante e batteri scolpiscono la trama geologica del mondo, traducono la luce solare in ossigeno,
intessono la membrana di ozono che avviluppa e protegge la vita terrestre;
nutrimento e riproduzione modificano attivamente l’ordine energetico
dell’intero sistema in un commercio costante di idrogeno, carbonio, zolfo,
fosforo.
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#18, I/2023, 57 — 68
Vernadskij: lo spazio del vivente
La biosfera può essere considerata come campo della crosta terrestre, occupato da
L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo
Francesco Vitali Rosati
Vernadskij osserva la prodigiosa ubiquità del vivente (Vernadskij
1924 e 1999, 40): la capacità costitutiva di occupare tutto lo spazio disponibile, secondo una progressione logaritmica ricavabile dalla proporzionalità
tra velocità di diffusione e intensità della moltiplicazione delle specie. Il
flusso costante di materia ed energia generato dal vivente ramifica quindi
in un immenso campo di forze caratterizzato dall’equilibrio energetico
della massa complessiva degli organismi o «materia vivente» (живое
вещество, zhivoe veschestvo) (48), laddove l’espressione sta a significare
la radicale eterogeneità fisica e geometrica del biotico, svincolata dalle
implicazioni reificanti del sostantivo vita (жизнь, zhizn’, a cui Vernadksij
ricorre pure di frequente), e sostituita dal participio presente, a enfatizzarne la natura prettamente energetica. Il bíos è infatti in primo luogo
enérgeia, nel suo duplice senso di grandezza fisica e attività intensiva: funzione agentiva e percettiva nell’apparente inanità della hyle.
Per Vernadskij è anzitutto la circolazione della vita che va pensata: il fluire ciclico di migrazioni chimiche, come di correnti plastiche che
informano i corpi in concentrazioni e distensioni rimiche, costituendone
al contempo la reciproca sensibilità, la possibilità stessa di contatto fra i
corpi vivi. Tale è la portata ecosistemica del fenomeno della vita terrestre:
trasformatori che mutano le radiazioni cosmiche in energia terrestre attiva – elettrica, chimica, meccanica, termica e simili. Le radiazioni cosmiche, provenienti da
tutti i corpi celesti, si estendono a tutta la biosfera (Vernadskij 1999, 35).
L’unità biosferica esprime difatti una «simbiosi complessa» (Vernadskij
2022, 235), «un solo sistema capace autoregolarsi in modo da mantenere al suo interno le condizioni adatte alla sopravvivenza degli organismi viventi» (389), attraverso la trasformazione delle radiazioni esterne
in energia elettrochimica libera. Si tratta di una superficie curva finita, il cui campo complessivo va dispiegandosi in fieri, saturando lo spazio mercé la capacità adattativa degli organismi di plasmare a proprio
vantaggio condizioni di esistenza precedentemente sfavorevoli. La vita
sembra insistere così sul limite costante di una propagazione intensiva,
un permanente sconfinamento rispetto a se stessa, giacché l’evoluzione delle specie e la creazione di nuove forme «deve muoversi nel senso
dell’accrescimento della migrazione biogena degli atomi nella biosfera»
(Vernadskij 2022, 221), la quale «tende sempre alla sua manifestazione più
completa» (216). Tale carattere di pienezza crescente, ottenuta per migrazioni perpetue, è la proprietà decisiva del vivente, il cui intero ambiente fisico appare infine simile a un reticolo cristallino saturo, asimmetrico e anisotropo, distinto cioè in infiniti sottoinsiemi energetici la
cui «eterogeneità spaziale si manifesta dinamicamente, vale a dire che si
costituisce nel corso del tempo» (337).
L’organizzazione della vita, successione alterna di stati di equilibrio anti-entropici determinati dal continuo scambio di materia ed energia sollecitato dal vivente, costringe infine a un superamento dei paradigmi ottecenteschi:
Questo tipo di organizzazione non ha nulla a che vedere con un meccanismo. La
sua differenza più netta sta in particolare nel fatto che essa si trova continuamente
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Incomprensibile ai modelli angusti di una descrizione riduzionista, come
in una netta suddivisione mereologica, il vivente nel suo insieme è condizione di ciascuna forma particolare, la quale a sua volta invera indelebilmente l’equilibrio complessivo, sicché «in ogni fenomeno si riflette la
biosfera come totalità» (Vernadaskij 2022, 245). L’organizzazione biosferica rimarca così la singolare autonomia e pregnanza dell’individuo vivente, agente attivo nei processi evolutivi e nei cicli geochimici planetari, nonché portatore di una peculiare plasticità con cui difatti muta, si
adatta ai cambiamenti dell’ambiente, «ma, al di là di questa capacità di
adattamento, ha probabilmente insito in sé medesimo un processo evolutivo» (87).
Smarcandosi dal dibattito classico, a suo dire ozioso, tra meccanicismo e vitalismo, Vernadskij enfatizza tuttavia «la radicale differenza
in termini di organizzazione» (77), sotto il profilo materiale-energetico
e temporale, della materia vivente dalla materia inerte che la compone.
La singolarità degli organismi è definita infatti, spazialmente, dallo stato
particolare di anisotropia geometrica, cioè dall’assenza di linee rette e
dalla differente curvatura delle forme di vita, orientate da vettori polari
enantiomorfi (92-93). Sotto il profilo temporale, ancor più nettamente, la
vita polarizza in senso opposto all’entropia, poiché determinata non già
da un movimento meccanico, ma dalla durata e irreversibilità del processo vitale, dotato di direzione e storicità ben definite (335-339): rifacendosi agli studi di Pasteur e Curie sull’asimmetria molecolare e cristallina, Vernadskij definisce infatti gli organismi come «forme dissimetriche
enantiomorfe dello spazio-tempo» (277).
Tale asimmetria costitutiva esibisce l’originalità della vita nel suo
incessante implemento chimico-fisico: la biosfera è precisamente questo
spazio di eterogeneità, entro la quale si variano, cristallizzano, moltiplicano creativamente le soluzioni, mediante una perpetua azione circolare
tra materia vivente e materia inerte, formando «un legame indissolubile,
che può essere rappresentato come un’ininterrotta corrente biogenica di
atomi che va dalla materia vivente a quella inerte e viceversa» (83). Né
organico né inorganico, il processo vivente si esprime a livello delle interazioni tra i sistemi e attraverso di essi, su un confine perpetuo fra interno
ed esterno, cioè nella comunicazione fra ambienti eterogenei che «si differenziano in modo netto» e insieme «si compenetrano reciprocamente
scambiandosi gli atomi che li costituiscono» (95). A ben vedere, dunque, l’ambiente non costituisce alcunché di esteriore agli organismi, ma
descrive piuttosto un nesso circolare o ricorsivo: «Non vi è un ambiente
inerte, indifferente, che non si trovi in profonda connessione con le forme
viventi. Ciò di cui noi ci dobbiamo occupare è dunque il complesso organismo-ambiente» (245).
È in questa cornice ecosistemica e cosmologica che va inquadrato
lo sviluppo dell’attività cognitiva superiore in seno alla biosfera: l’emergere di un nuovo «fenomeno planetario», a un tempo diffuso globalmente
e materialmente osservabile nelle sue produzioni concrete. L’esperienza
umana, in questo senso, è l’agente attivo di trasformazioni geologiche profonde e irreversibili: la «Noosfera», insieme incarnato di forze del pensiero,
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teriali ed energetiche (Vernadskij 2022, 80).
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in uno stato dinamico, caratterizzato dal movimento di tutte le sue particelle ma-
Un tentativo rigoroso di ripensare il nesso evolutivo di mente, vita ed
energia compare nei tre volumi della Tektologia (1912-1922) di Alexander
Bogdanov: vera e propria metascienza dell’«unità del punto di vista organizzazionale» (Bogdanov 1980, 1), che riconosce ai sistemi viventi, con
estrema lungimiranza, la capacità di operare in condizioni energetiche
lontane dall’equilibrio (Capra 1996, 45). Per Bogdanov, infatti, gli organismi sono macchine anti-entropiche in grado di regolarsi da sé armonizzando le dissonanze, ossia prelevando materiale dall’esterno e trasformandolo
per assimilazione (Bogdanov 1980, 162-7). Il divenire di ogni forma esprime
così una tensione immanente alla stabilità strutturale, ottenuta attraverso fluttuazioni caotiche prodotte da costanti flussi di materia ed energia
dall’ambiente. Bognanov distingue in particolare tra assimilazione e dissipazione di risorse, cioè due direzioni di «selezione», positiva o negativa, secondo un principio di bi-regolazione reciproca tra sistemi eterogenei, non
dissimile dalla nozione cibernetica di feedback. [5] Nel paradigma tectologico, il materiale introdotto in un ambien- [5] Come nota puntualmente Rispoli
te interno, ad esempio il protoplasma di una cellula, viene (2015 e 2016).
automaticamente tradotto e cooptato nel relativo sistema
di equilibrio: ogni interazione esprime catene non lineari di congiunzioni «ingressive» o «disingressive», operanti in un meccanismo di continua
equalizzazione delle tensioni (Bogdanov 1980, 151). Come in Vernadskij, al
quale è stato frequentemente accostato (Plyutto 1998; Young 2012), la prospettiva processuale dell’unità sistema-ambiente perviene infine a considerare l’accoppiamento strutturale tra biosfera e atmosfera, ritraendo cioè
«l’intero reame della vita sulla terra come un singolo sistema di divergenza, basato sulla circolazione di diossido di carbonio» (Bogdanov 1980, 130).
Se nella teoria biosferica il singolo organismo svolgeva il ruolo privilegiato di agente generatore di eterogeneità, l’organizzazione tectologica concerne soprattutto l’unità dei legami tra forme in contrasto, cioè
il rapporto immanente che preserva la forma nella sua ontogenesi ininterrotta nello spazio e nel tempo. Nella riproduzione cellulare di un seme,
ad esempio, durante la crescita della pianta, la diversificazione avviene in
rapporto alla divergenza crescente con cui le cellule originariamente simili
si diffondono e modificano in ambienti dissimili. Lo sviluppo procederà
allora tramite selezione delle correlazioni più stabili e coerenti fra le parti
divergenti: ciò che si conserva è proprio la connessione interna che presiede all’ordine complessivo, ottenuta mediante la continuità di un medio
comune tra le parti, costituito, nel caso della pianta, dal movimento e
scambio della linfa (Bogdanov 1989 II, § 2; Rispoli 2015, 130). In altre parole,
ontogenesi ed evoluzione tendono a selezionare i vincoli tectologici più
saldi, cioè il sistema di mediazioni e nessi che esprime la maggior coerenza,
robustezza e plasticità adattativa.
Stabilizzandosi provvisoriamente all’interno, ogni forma può istituire all’esterno ogni sorta di «relazioni complementari» (дополнительные
соотнофения, dopolnitel’nye sootnofenija): legami di congiuzione
e separazione capaci di mediare processi organizzativi su varia scala,
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Bogdanov: un’ecologia delle divergenze
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non fa che prolungare lo slancio evolutivo della mente nella materia, l’eterna immanente noocosmogenesi in atto (Vernadskij 2022, 407-408).
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consentendo livelli di esperienza e soggetti evolutivi più o meno complessi.
Le principali trasformazioni e crisi avvengono poi quando, nel tempo, un
determinato insieme di nessi perde la propria robustezza, e allora tenderà, attraverso scarti e metamorfosi improvvise, alla biforcazione: sviluppando nuovi legami d’ordine e vincoli più coerenti e saldi, ovvero precipitando catastroficamente in uno stato di minore coesione
e autonomia (Bogdanov 1980, 229-238). [6] Bogdanov rico- [6] Il capitolo VII dei Saggi è dedicato
interamente a una schematizzazione
nosce tuttavia nella completa disorganizzazione e nell’i- rigorosa
dei vari «tipi di crisi» (типы
nerzia concetti privi di significato, cioè ipotesi meramente кризисов) e relative catastrofi.
astratte di un’assenza di connessioni e resistenze, di fatto
impossibile in natura (Bogdanov 1980, 6). Perciò si può parlare solo di modi di organizzazione e forme di esperienza, nella misura in
cui ogni materiale per nuove configurazioni non è che il resto di vecchie
formazioni – sempre, a modo loro e in grado diverso, organizzate – oppure
una serie di formazioni esistenti, tra le quali non è semplicemente ancora
emerso un nuovo nesso.
Descrivendo i processi evolutivi come forme di adattamento, comunicazione e mutazione reciproci, Bogdanov mira infine a una naturalizzazione dei processi cognitivi che superi le barriere tra organico e inorganico, psichico e biotico. In questo senso, infatti, qualsiasi interazione tra
forme complesse esprime un processo attivo di comprensione e assimilazione dell’esterno, cioè di relazione tra eventi sistemici appresi collettivamente: è un’azione di costruzione di conoscenza. La mutua modificazione di vincoli tectologici, la selezione delle connessioni più vantaggiose,
esprime una produzione collettiva di significato emergente da una dinamica di costante apprendimento e comunicazione creativa – tutt’altro che
pacifica, né destinata indiscriminatamente al successo evolutivo. In breve,
se Vernadskij delineava un’ontologia di individui, intesi come dissimetrie energetiche e geometriche, Bogdanov opta piuttosto per una filosofia di relazioni onto-epistemiche, generative di conoscenza. A Vernadskij
interessa la natura chimica del divenire: ogni metamorfosi avviene per
scambio e contagio, e gli organismi stessi, embricati gli uni negli altri,
sono agenti di un riflusso costante tra interno ed esterno – che un altro
grande erede di Fëdorov chiamerà «transustanziazione cosmica circolare» (Bulgakov 1911, 107). Per Bogdanov, d’altra parte, è la dimensione
collettiva, financo politica dell’organizzazione dell’esperienza a emergere
come funzione cosmologica: il mondo insorge assieme alle condizioni storico-materiali della sua conoscenza, inseparabile dalle forme della sua rappresentazione, e dunque, in una certa misura, esso diviene così come è
conosciuto, ma in quel «come» risiede al contempo la possibilità stessa di
un’azione trasformatrice. Comprendere i modi di divergenza e coesione
di tutte le forme equivale infatti ad affermare, al di là di ogni positivismo ingenuo, l’unità coevolutiva di realtà e pensiero: l’intero processo universale è un adattamento dinamico di idee, una «compenetrazione evolutiva» (Tagliagambe & Rispoli 2016, 106) svolta, come nella cibernetica
di second’ordine (von Foerster 1987), in una perpetua riorganizzazione
interna al sistema, in cui l’osservatore viene integrato in tale unità globale di natura e cognizione – priva, in quanto transitoria, di un contenuto oggettivo invariabile, ma espressa nella forma di un equilibrio instabile fra criticità e risoluzioni, domande e risposte. Il tessuto radicalmente
«empiriomonista» (Bogdanov 1904) del reale emerge dunque sulla soglia di
A differenza di Vernadskij e, in parte, di Bogdanov, in Florenskij il paradigma naturalista non costituisce in alcun modo un’epistemologia privilegiata, ma solo uno dei molteplici linguaggi, delle numerose logiche
possibili. L’enfasi reiterata sui concetti di antinomicità – insufficienza
del principio di identità – e di discontinuità – rotture del tessuto causale rettilineo – che punteggia le sue ricerche geometriche ed estetiche
(Florenskij 2007, 9), matura infine, nel 1925, in un trattato sulla spazialità
(пространственность, prostranstvennost’).
Lo sviluppo delle matematiche a cavallo dei due secoli forniva ampio
materiale alla riflessione (Betti 2009, 30; 73-92): con Lobačevskij si era diffusa l’idea di innumerevoli geometrie possibili; con Poincaré quella di un
tessuto dinamico di correlazioni complesse; Riemann riconosceva un elemento agente alla base delle relazioni metriche: la presenza di «forze coesive» primigenie informanti lo spazio (Riemann 1994, 19). Estendendone
la portata a considerazioni ampiamente cosmologiche, Florenskij afferma
l’esistenza di una molteplicità di spazi, ciascuno dei quali permette di
interpretare differenti esperienze e modelli di razionalità, poiché «ogni
luogo dello spazio nell’esperienza possiede caratteristiche peculiari che lo
distinguono qualitativamente», e in ultima analisi «fenomeni diversi si
estendono a spazi diversi» (Florenskij 1995, 30; 20).
Ogni configurazione estensiva si sviluppa infatti a partire da un’attività organizzativa, cioè dalla presenza, in una regione spaziotemporale,
di dinamiche morfogenetiche elementari («modi di determinazione»:
образ обособления, obraz obosoblenija): in questo senso, qualunque
fenomeno è interpretabile come un processo di organizzazione spaziale,
laddove gli elementi o cose (вещь, vesch’) «non sono altro che corrugamenti dello spazio, luoghi di curvatura particolare» (20). Se ogni superficie è sollecitata da linee di forza agenti intensivamente, con il variare dei
processi variano anche i sistemi di riferimento: difatti non esiste alcun
ambiente inerte, ma solo varietà (le Mannigfaltigkeit riemanniane) autonome e qualitativamente eterogenee, sempre definite da una propria curvatura, quindi da proprie intrinseche condizioni di conoscibilità.
Affermare la molteplicità dei «luoghi» significa comprendere la
singolarità delle esperienze e dei modi di esistenza ivi implicati, cioè la
differenza dell’andamento degli eventi su superfici di diversa curvatura,
dotate di una struttura interiore qualitativamente distinta e di un ritmo
L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo
Francesco Vitali Rosati
Florenskij: una topologia dei saperi
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un’ininterrotta evolutio idearum: un dialogo tra serie in mutuo apprendimento che intessono «una trama infinitamente dispiegante di tutti i tipi
di forme e livelli di organizzazione… Tutte queste forme, nel loro intreccio e contrasto reciproco, creano il processo di organizzazione cosmica»
(Bogdanov 1980, 6).
La fibra tectologica del mondo non patisce alcuna indeterminazione amorfa, al punto che persino lo spazio fra i pianeti appare organizzato elementarmente, con una certa resistenza, certi vincoli (71): non esiste
alcun contenitore vuoto, meramente occupato dai corpi, ma ogni luogo è
sempre un ambiente organizzato da interazioni immanenti: uno spazio di
costituzione entro cui ogni forma, in quanto «esperienza vivente» (живой
опыт, zhivoi opyt), insorge divergendo.
to che si produce nella realtà può essere interpretato come la causa dell’organizzazione dello spazio e come l’effetto dell’organizzazione preesistente. Allora modi di
determinazione [образ обособления] della realtà sono in sostanza i luoghi
di particolari curvature dello spazio, delle sue irregolarità: certe sue pieghe, certi
suoi nodi, ecc., mentre i campi di forze sono le regioni di approssimazione continua ai valori massimi o minimi di curvatura (Florenskij 1995, 52).
A ben vedere, la curvatura di una superficie – preciserà Florenskij in una
lettera dal gulag destinata a Vernadskij – definisce sempre, rispetto a sé, un
lato esterno e uno interno, una chiusura e un’apertura, nettamente stabiliti proprio in quanto «determinati dal segno della curvatura media sull’uno
e sull’altro lato della superficie» (Florenskij 1998 IV, 429). I valori esprimono allora il potenziale di una «forma-superficie» (форма-поверхность)
o «forma-campo» (форма-поле): la soglia entro la quale raggiunge il suo
valore massimo, definendo il carattere e l’andamento interno dei fenomeni in una continua «interazione di campi morfologici» (429.). Ogni forma
spaziotemporale, «cioè forma in movimento e cambiamento», non è che
una dinamica di campo dispiegata su un limite costante, nella misura in
cui «tutti i processi hanno luogo sulla superficie, sul confine tra interno
ed esterno» (429.). Con Vernadskij, d’altronde, Florenskij condivide l’idea della polarizzazione costitutiva del vivente, cioè della dissimmetria
e dell’anisotropia quali condizioni necessarie di ogni processo di scambio,
compenetrazione, endosmosi dello stesso con l’altro. Per entrambi insomma la differenza di potenziale – energetico, geometrico, materiale – è la
condizione del fenomeno, la sua ragion sufficiente. L’organizzazione spaziotemporale non avviene che attraverso soglie, ed è tramite quelle soglie
che i sistemi possono comunicare.
La riflessione sulla multispazialità suggerisce ancora a Florenskij
l’immagine di un’immensa topologia reticolare, ottenuta dalla sovrapposizione di infinite trame, intessute da altrettanti centri di azione («convergenze, nodi, pieghe, apici, punti focali»). Tale ideografica spaziale,
rivestita di movimenti musicali («temi, ritmi, contrappunti, polifonie»),
biologici («enzimi, fermentazioni, tessuti, radici») o idrologici («sorgenti, gorghi, alvei, spartiacque») [7], raffigura [7] La ricca metaforica florenskijana è
ricapitolata da Tagliagambe (2021, 175):
la circolazione del pensiero in un sistema di «giunture che «Il
pensiero può viaggiare all’infinito
formano una sorta di rete [...] in grado di scorrere in più lungo questa rete, realizzando intrecci
e scoprendo di volta in volta nuovi
modi su un determinato piano». Immerso in un tale tes- itinerari,
che da un centro conducono
suto mobile, ciascun punto non fa che modulare il proprio all’altro».
orizzonte, come un proprio sistema di equazioni differenziali da integrare, ovvero un «tema sottoposto ogni volta a
sviluppo creativo» (Florenskij 2007, 195).
Dalle geometrie non-euclidee Florenskij trae dunque la propria
ontologia di superfici ramificate e percorribili in infiniti sensi di orientamento, tra le quali «si può tracciare ogni sorta di sezioni trasversali e scoprire nuovi legami» (Florenskij 1998 III, 454). I saperi vi si iscrivono come
innumerevoli curve – scientifiche, estetiche, etiche – alla cui intersezione
L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo
Francesco Vitali Rosati
Attraverso un campo di forze lo spazio viene rivelato, sviluppato… Un mutamen-
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temporale proprio. Il dinamismo spaziale implica necessariamente una
pluralità di strutture genetiche e forme di organizzazione continuamente
emergenti, espressioni di campi di forze peculiari:
Ci sono delle realtà, ci sono cioè dei centri dell’essere, dei grumi dell’essere che
sono soggetti a leggi proprie e che hanno perciò, ciascuno, una propria forma; per
questo nulla di ciò che esiste può essere considerato materiale indifferente o passivo… Per questo, ancora, le forme devono essere concepite in base alla loro vita, e
non in base alle angolazioni di una prospettiva predeterminata (Florenskij 2020, 41).
L’idea di una moltitudine dinamica di centri rompe con l’ipotesi di un
punto di vista privilegiato, un soggetto astratto della rappresentazione, negando al contempo che il reale segua una sola grammatica, una via regia alla
conoscenza (Zalamea 2010, 37-49): i centri, per l’appunto, non sono punti di
vista statici sulla fluidità del mondo, ma zone di contatto e di risoluzione,
soglie concrete entro le quali si realizza la convergenza delle molteplicità.
L’immagine policentrica invoca quindi una pluralità di dimensioni
di senso autonome, capaci di forze di diversa natura (cinetiche, percettive,
estetiche) agenti su sistemi differenti (Florenskij 1995, 46), istituendo, in
ultima analisi, quella concordia intensiva che è condizione di comunità, il
cui significato è perciò, convenendo con Descola, profondamente politico:
la prospettiva rovesciata implica infatti «les conditions d’une métaphisique suprapersonelle, un espace polyperspectiviste animé par la communion sensible» (Descola 2021, 67).
L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo
Francesco Vitali Rosati
si stagliano infiniti centri prospettici, penetrandovi come «archi infinitesimi di curva». Si tratta, in altri termini, del tentativo di ripensare un radicale policentrismo ontologico: una trama differenziale di mondi viventi
(живые миры, zhivye miry), forieri di significati e valori «né uguali
né peggiori, ma diversi, con le proprie gradazioni e una propria logica»
(Florenskij 2007, 194), ciascuno dei quali, occupando il proprio orizzonte
prospettico, è capace di realizzare l’integrazione simultanea di una pluralità di sistemi di riferimento:
66
L’approccio enciclopedico e organicista che caratterizza il pensiero scientifico degli anni venti funge da contrappunto al progetto bolscevico di
meccanicizzazione della vita. Ma se un tale approccio accomuna gli autori menzionati, ciò che li distingue nettamente è la fondazione filosofica
delle diverse prospettive: rigorosamente naturalista nel caso di Vernadskij,
empiriocriticista in Bogdanov, monadologica in Florenskij. Ciò nonostante, permane l’inclinazione comune a caratterizzare l’«economia cosmica»
(космическое хозяйство, kosmiceskoe chozjaistvo) come un processo
vivo di comunicazione, compenetrazione e amplificazione.
Il pensiero sistemico russo svilupperà successivamente fecondi itinerari nelle ricerche della scuola di Tartu sulla semiosfera (Lotman 1985),
modellata di fatto sul calco delle teorie di Vernadskij: nell’idea cioè di uno
spazio integrato di tutti gli ambienti semiotici, reciprocamente asimmetrici e produttivi di una semiosi «aperta», sostanzialmente priva di codice
preesistente (Mandelker 1994, 386). Come Vernadskij e Florenskij, Lotman
riconoscerà nella dissimmetria strutturale e nell’accoppiamento tra eterogeneità un pattern universale dell’organizzazione delle forme viventi – costituite appunto da «divisioni enantiomorfe generatrici di senso» (Lotman
1985, 71) – valido quindi a livello geometrico, riproduttivo e cognitivo.
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 57 — 68
Conclusione. Organismi e macchine
L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo
Francesco Vitali Rosati
L’anelito organicista anima del resto Bogdanov stesso, il quale, mantenendo la distinzione classica tra esseri viventi e macchine (Bogdanov 1980,
25-26), afferma nel punto di vista tectologico la volontà di «considerare allo
stesso modo le relazioni tra cellule in un organismo, le componenti in una
macchina, gli elettroni in un atomo» (61), laddove la differenza tra i tipi
di organizzazione sta precisamente nella capacità di regolazione, interna
o esterna, ma soprattutto nel genere di variazioni di influssi e resistenze,
completamente deterministici nel caso delle macchine (95).
Un’oscillazione analoga si ritrova infine in Florenskij, il quale tenta
di ripensare, durante la lunga attività ingegneristica alla GOELRO – il
comitato per l’elettrificazione della Russia fondato da Lenin – e all’Enciclopedia Tecnica Sovietica, un circolo virtuoso tra vita, conoscenza e tecnica, come espresso in vari articoli redatti fra gli anni venti e trenta, tra cui
La fisica al servizio della matematica (1932). Se infatti, scrive Florenskij,
le macchine ricevono dalle matematiche intuizioni fenomeniche di vario
tipo (meccaniche, fisiche, ecc.), d’altra parte retroagiscono sul progresso
delle matematiche stesse, come sulla comprensione dei processi vitali: così
il funzionamento di strumenti cinematici complessi, quali «analizzatori
armonici, integratori e macchine che integrano le equazioni differenziali»,
va favorendo, a suo giudizio, lo sviluppo della teoria generale degli algoritmi (Florenskij 2007, 293).
Osservando l’azione delle macchine, vi scopriamo l’intervento di processi fisici
quanto mai differenti, insiti nella struttura stessa del dato funzionamento e che
da esso non possono essere evinti nemmeno in un esperimento mentale, per astrat-
67
to. Perché per noi è importante non solo quel che la macchina ci indica, ma anche
come ne veniamo a conoscenza, e quel «come» non è qualcosa di esterno rispetto
alla macchina, allo strumento di conoscenza, bensì ne è una caratteristica costitu-
Nell’uso di qualsiasi macchina dobbiamo comprendere il nesso concreto
tra il fenomeno fisico, lo stato della macchina nello spazio e nel tempo e la
sua simbolizzazione, di modo che i processi fisici stimolino la creazione di
nuove formule. Dopo tutto, la conoscenza matematica, come qualunque
altra forma di sapere scientifico, è sempre un processo di costruzione (295).
Lo sviluppo dei saperi, insomma, procede per ibridazione e integrazione, non solo per differenziazione e specializzazione, accrescendosi
con l’acquisizione di modelli ed elementi da discipline eterogenee (fisici,
chimici, biologici, psicologici), tradotti nel proprio linguaggio peculiare:
così le venature degli alberi possono suggerire «sistemi di linee e superfici
di forze isopotenziali», mentre gli organismi viventi mostrano molteplici
«forme di equilibrio, che nella loro struttura riproducono i più svariati
tipi d’ordine» (296). Introiettando simili schemi, la teoria delle macchine
andrà ben oltre l’attuale meccanicismo: diverrà presto biotecnica (227).
Il legame tra organismi e macchine, associato all’insistente attenzione sulle matematiche del discreto (Polovinkin 2005), condurrà
Florenskij, già nel 1922, alla costruzione di apparecchi elettrostatici per la
risoluzione di problemi non lineari, immaginando infine l’utilizzo degli
algoritmi nel progetto di «macchine che trasmettono e trasformano non
tanto grandi quantità di energia, quanto determinate relazioni, determinati segni e segnali semantici» (Florenskij 2007, 299).
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Le avventure
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“Ciberneretica” simondoniana
Francesca Sunseri
Dottoranda in Studi Umanistici
(curriculum filosofico) presso
l’Università degli studi di Palermo.
Le sue ricerche vertono sul pensiero
francese contemporaneo in relazione
al rapporto tra tecnica e natura.
Componente del gruppo di ricerca
Global Philosophy.
francesca.sunseri@unipa.it
— SIMONDON
— INFORMATION
— CYBERNETICS
— FRENCH THEORY
— MACHINE
73
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 73 — 87
This paper analyses the reception of Norbert Wiener’s
cybernetics in France with particular attention to the
perspective proposed by Gilbert Simondon. The debate that
has emerged since the 1950s among the philosophers of
the so-called French Theory opens up the possibility of
speaking of a revised cybernetics on the basis of the need
to go beyond the structural analogy between living being
and machine. The present paper investigates the
relationship between Simondon and cybernetics by
considering his 1953 manuscript, his two doctoral theses
and his speech at the Royaumont conference in 1962. It
also focuses on the concept of ecceità that Simondon uses
in order to speak from the qualitative side of information
and to propose an ontological perspective in which it is that
which goes beyond the limits of Aristotelian hylomorphism.
“Ciberneretica” simondoniana
Francesca Sunseri
Nel 1962 a Royaumont, località a nord di Parigi, Gilbert Simondon contribuì a organizzare il Convegno dal titolo Le Concept d’information
dans la science contemporaine, ma curiosamente il paper che presentò in quell’occasione non venne inserito negli atti pubblicati nel 1965
(Guéroult 1965). Il testo, intitolato L’amplification dans les processus d’information, fu, invece, incluso nel collettaneo postumo dal titolo Communication et information (Simondon 2010). Agli atti rimase
soltanto un breve riassunto del dibattito a seguito della presentazione
di René de Possel (Guéroult 1965, 157-158); quest’ultima tenutasi subito dopo l’intervento del padre della cibernetica Norbert Wiener, che lo
stesso Simondon aveva introdotto (Guéroult 1965, 99-106).
Nel breve intervento alla presentazione di De Possel, Simondon sottolineava quanto fosse necessario ripensare il concetto di informazione
all’interno delle scienze moins exactes utilizzando il concetto di franges, la cui paternità faceva ricadere su Merleau-Ponty (con il quale aveva
organizzato il Convegno prima della sua scomparsa nel maggio 1961).
In quest’ottica Simondon richiamava il concetto di franges per
ricordare ai convitati come il problema alla base dell’organizzazione del
convegno del 1962 fosse quello di cercare una possibile nuova strada di
ricerca per riconcettualizzare l’informazione, smarcandola dalla sola definizione emersa nelle scienze exactes (cfr. Macrì 2020). D’altronde, già dal
1958, il filosofo de L’individuation aveva chiarito il carattere metodologico del suo pensiero, che si poneva l’obiettivo di sfumare sempre più i
confini tra le discipline per tornare «ai tempi in cui i grandi filosofi erano
anche matematici o studiosi nelle scienze naturali e viceversa» (Guéroult
1965, 100).
Come risulta chiaro dagli intrecci suesposti e da alcune dichiarazioni di Wiener durante il suo intervento che sembrano dimostrare
l’esistenza di un dibattito privato con Simondon (Bardin 2010, 30), le
interconnessioni tra il filosofo francese e la prima cibernetica sono
state feconde. Inoltre, in più occasioni Simondon ha richiamato la teoria wieneriana nella sua tesi di dottorato principale e nei supplementi
(Simondon 2011, 94, 299, 329, 716, 746, 756), indice del fatto che il testo di
Wiener era stato di particolare importanza all’interno del suo impianto
teorico principale.
È possibile rintracciare la presenza della cibernetica anche nella tesi
complementare dal titolo Du mode d’existence des objets techniques
(Simondon 2020, 59, 147, 155, 204-208) in cui Simondon espone il modo
di esistenza degli oggetti tecnici portando avanti l’idea di un legame tra
l’oggetto tecnico e il suo creatore che prevede un certo grado di dipendenza, ma anche, e soprattutto, uno scarto di indipendenza. La sua prospettiva è quella di pensare l’individuazione tecnica come paradigma
per comprendere l’individuazione vivente mostrandone l’assonanza creativa, pur restando in un’ottica per cui non è la natura ad imitare la tecnica o viceversa, ma si tratta piuttosto di un’analogia funzionale.
Muovendosi in questa direzione, Simondon si mostra rispettoso,
ma anche critico nei confronti della cibernetica di Norbert Wiener rintracciandovi, anzitutto, una prima, fondamentale, rottura rispetto
all’oggettivismo fenomenista in direzione di una scienza delle operazioni
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Introduzione
“Ciberneretica” simondoniana
Francesca Sunseri
che si occupi non tanto di un oggetto specifico, ma dei passaggi operativi che presiedono alla sua costituzione (Simondon 2018). Nel testo
inedito datato 1953 dal titolo Epistemologia della cibernetica contenuto nel volume collettaneo Sur la philosophie e tradotto in italiano
nel 2018, Simondon sottolinea, come farà anche in Du mode d’existence
des objets techniques, quanto la cibernetica, in qualità di riflessione
sulle trasformazioni operative delle strutture, abbia dato valore epistemologico a tutte quelle discipline per loro stessa natura plurali come la
sociologia o la psicologia: «queste scienze studiano infatti un’operazione
di mediazione, determinando la natura e le modalità di un metaxu»
(Simondon 2018, 24).
La critica di Simondon alla cibernetica di prima generazione,
invece, imputa a questa di restare sulla soglia di un reale enciclopedismo,
portandone avanti uno tecnico, ossia limitato alla connessione strumentale tra le discipline, ma non tecnologico, nel senso di carattere realmente generale (Simondon 2020, 121-122), mancando pertanto quello che
doveva essere il suo autentico obiettivo: un nouvel humanisme in grado
di riconnettere la sfera dell’umano a quella delle tecniche (Carrozzini
2011). La cibernetica di Wiener, secondo Simondon, non sarebbe riuscita
a svincolarsi da una concezione deterministica.
Scopo del seguente studio è inquadrare il rapporto complesso tra
la riflessione simondoniana e la prima cibernetica a partire da una ricostruzione storico-filosofica della temperie culturale che aveva accolto
la cibernetica in Francia. Su questa base, sarà anche possibile indagare
la differente prospettiva di Simondon e di Wiener rispetto al tema
centrale, quanto nella cibernetica tanto nell’apparato simondoniano:
l’informazione.
75
È necessario, in prima istanza, tracciare una storia degli esordi della cibernetica in Francia. Si tratta di un innesco e poi di uno sviluppo sui generis,
come più volte sottolineato da Ronan Le Roux nella sua Une histoire de
la cybernétique en France (2018). Le Roux introduce il volume sostenendo l’interesse a indagare la storia della cibernetica (soprattutto quella degli inizi) in Francia in quanto «présente le cas de figure intéressant de n’avoir pu bénéficier de l’effort de guerre qui a considérablement amplifié
les recherches menant à la cybernétique dans les pays anglo-saxons» (Le
Roux 2018, 14). Se nei Paesi anglosassoni la cibernetica si era infatti potuta
sviluppare a partire dalla necessità dell’industria bellica di trovare sistemi
di regolazioni sempre più efficienti per gli armamenti, in Francia questo
presupposto era venuto a mancare, lasciando al margine anche l’emergenza di ricerche interdisciplinari che la cibernetica “bellica” portava con sé
(Le Roux 2018, 85).
La mancanza di sviluppo delle aree industriali più innovative
aveva comportato un predominio di un certo «conservatisme universitaire» nella ricerca francese (Picard 1990, 26). Si trattava di una condizione
in cui versava la ricerca scientifica francese fin dalla fine del XIX secolo,
a parte alcuni casi che brillavano per il loro spirito pionieristico come
quello dell’Istituto Pasteur nato alla fine dell’Ottocento. Come sottolineato da Georges Canguilhem, non bisogna dimenticare quanto l’influenza
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La cibernetica in Francia
“Ciberneretica” simondoniana
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di Auguste Comte e del suo positivismo fosse stata determinante per la
scienza e la filosofia francese per tutta la seconda metà del XIX secolo
(Canguilhem 1994, 71), determinando un certo scetticismo nei confronti
del valore euristico delle macchine per la ricerca scientifica.
Questo conservatorismo di stampo positivista aveva mantenuto
la Francia ben lontana anche dall’urgenza di una formazione tecnica che,
invece di accompagnare la parte teorica della ricerca, rimaneva fuori dalle
facoltà scientifiche in cui si prediligeva una certa matematica o scienza pura (Picard 1990, 22). [1]
[1] Emblematico in questo senso è il
gruppo Bourbaki come sottolinea Le
Soltanto nel 1941, con il supporto degli Stati Uniti, Roux,
anche se è necessario notare
ricercatori francesi e belgi poterono costituire l’École che ci sono stati casi di controesempi
allo stesso gruppo come quello
Libre des Hautes Etudes (EPHE), attorno alla quale si interni
di André Weil che ha supportato
cominciò a sviluppare un approccio interdisciplinare e, Lévi Strauss nell’algebrizzazione dei
quindi, il terreno fertile per far attecchire l’approccio rapporti di parentela della sua ricerca.
cibernetico. Proprio grazie all’EPHE, Lévi-Strauss poté
incontrare studiosi del calibro di Roman Jakobson, Alexandre Koyré
e François Wahl. Quest’ultimo organizzò l’incontro tra Lévi-Strauss e
Wiener che portò a successivi scambi sempre più aperti all’interdisciplinarietà, come testimoniano i diversi seminari tenuti all’EPHE (Le Roux
2018, 104-105).
Contemporaneamente alla nascita e strutturazione dell’EPHE, nel
1938 Louis Pierre Couffignal, ispirandosi al pionieristico lavoro di Jacques
Lafitte (Lafitte 1932), propose un nuovo modo di studiare la macchina e
iniziò ad immaginare la possibilità di costruire un computer digitale. È
quest’ultimo progetto (poi abbandonato) che avrebbe consentito l’incontro tra Couffignal e Wiener grazie all’intervento di Léon Brillouin.
Couffignal e Wiener avrebbero poi collaborato per molti anni e organizzato nel 1951 il simposio internazionale del CNRS dal titolo Les machines à calculer et la pensée humaine che avrebbe riunito, per la prima
volta, dall’8 al 13 gennaio, i maggiori esponenti della nascente cibernetica
(Segal 2011, 297-404).
Ciò che sottolineava Segal è che, mentre questi intrecci venivano
intessuti tra l’EPHE e i piccoli circoli pionieristici del CNRS, la cibernetica in Francia sarebbe giunta al grande pubblico grazie ad articoli
divulgativi come quello uscito su Le Monde il 28 dicembre 1948, firmato da Dominique Dubarle (Segal 2011, 400). Si trattava di articoli
in cui si richiamava la teoria dell’informazione di Shannon e si portava l’attenzione dei lettori soprattutto sulle applicazioni alle questioni umane del metodo cibernetico. Questo approccio suscitava una
certa disapprovazione da parte degli scienziati francesi che, nel frattempo, grazie ai gruppi del CNRS, avevano potuto conoscere l’opera di
Wiener e le difficoltà riscontrate nella teoria classica dell’informazione.
Proprio all’interno dell’ambito scientifico, il matematico Robert Vallée
nel 1949 propose a due suoi colleghi di laboratorio a Parigi di fondare il
primo circolo cibernetico francese. Ci sarebbero voluti due anni prima
che il Cercle d’études cybernétiques (CECyb) vedesse la luce (Le Roux
2018, 134), ma alcuni tra i suoi membri erano di grande calibro: Louis de
Broglie (presidente onorario), Jacques Lafitte, Pierre Ducassé e Albert
Ducrocq.
Nel frattempo Vallée, approfittando della presenza di Wiener
a Parigi tra il 1950 e il 1951 per tenere un ciclo di lezioni al College de
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France e per il convegno tenuto nel gennaio 1951 presso l’attuale sede
del CAPHES (29 rue D’Ulm) (Le Roux 2018, 148), invitò il padre della
cibernetica ad entrare a far parte del CECyb. Wiener avrebbe accettato
l’invito restandone però più membro onorario che attivamente presente durante gli incontri. [2]
[2] Le Roux riporta che Vallèe ha avuto
di interagire con Wiener anche
Il convegno del gennaio 1951 si sarebbe concluso modo
successivamente quando, a seguito
senza fare completa chiarezza sul concetto di macchina e di una cena del Cercle del 1953 a cui
Wiener, è stato invitato a
il CECyb fu invitato a portare avanti ricerche che potes- partecipava
partecipare ad alcuni corsi estivi al MIT
sero contribuire a definire il problema. Ducassé accettò nell’estate 1954 tra i cui relatori c’era
anche Claude Shannon. Durante quel
la sfida offrendo al Cercle la sua rivista Structure et évol- periodo
in USA, Vallèe ha trascorso
ution des techniques (Le Roux 2018, 233) per pubblicare anche alcuni giorni presso la casa di
di Wiener dove sembra
le riflessioni emerse durante il convegno. Tra gli articoli campagna
abbiano discusso di variabili nella
inseriti nella rivista di Ducassé e nel settimo numero di meccanica quantistica. Cfr. Vallée
Thalès, era presente il resumè di Couffignal intitolato (1990, 345).
La Mécanique comparée in cui si poteva evincere la
necessità di riprendere il progetto di una nuova teoria delle macchine
già lanciato dallo stesso nel 1938, ma questa volta con una maggiore
generalizzazione. Couffignal poneva la meccanica comparata come la
specificità della prospettiva francese sulla cibernetica in grado di superare il grande limite di quella americana: usare il metodo dell’analogia
tra strutture piuttosto che quello dell’«analogies entre fonctions» che,
invece, propone Couffignal (Le Roux 2018, 237-238). [3]
Inoltre, Couffignal criticava la cibernetica americana in [3] Riprenderemo questo tema quando
si tratterà di Simondon e dell’analoga
quanto quest’ultima aveva tentato di strutturare una necessità
di strutturare il pensiero
teoria delle macchine basandosi sull’idea di macchina tecnico sull’analogia funzionale.
universale di Turing, mentre secondo lo scienziato francese le macchine da considerare dovevano essere quelle
«construites jusqu’à présent» allontanando ogni tipo di esperimento
mentale poiché, cercando di costruire macchine virtuali, si rischiava di
dimenticare che «l’accident est fréquent, si l’on part des mathématiques» rimanendo incastrati in una delusione come quella provocata dal
demone di Maxwell (Couffignal 1951, 9; 1956, 336-337).
La filosofia si inseriva nel dibattito attraverso diverse figure
che animavano la discussione: oltre al già citato Ducassé, vi erano, tra
gli altri, François Russo, Raymond Ruyer, Gilbert Simondon, Gilles
Deleuze e Félix Guattari.
Tra le prime riflessioni, nel 1955 Russo affermava che l’urgenza del
secolo era quella di abbandonare ogni tipo di classificazione e distinzione abbattendo ogni barriera e aprendosi alle analogie (Russo 1955, 44)
e che il concetto di informazione, emerso in ambito cibernetico, poteva
essere la chiave per instaurare queste analogie (Russo 1959, 22).
Tra il ’53 e il ’54 Simondon e Ruyer scrissero entrambi in merito
alla cibernetica. Ruyer, al quale lo stesso Simondon ha provato a dare
risposta nei suoi scritti successivi, sosteneva come la cibernetica, «malgrado il suo spirito incontestabilmente ‘moderno’» (Ruyer 1954, 25),
risultasse troppo determinista in quanto guardava alla fisica e non
alla microfisica e alla termodinamica che le avrebbero potuto aprire le
porte di un parziale indeterminismo (Ruyer 1954, 25-26). La critica di
Ruyer era rivolta, inoltre, all’origine dell’informazione che a suo avviso
non verrebbe tenuta in considerazione dalla cibernetica, restando così
quest’ultima vittima di un paradosso.
“Ciberneretica” simondoniana
Francesca Sunseri
Anche la posizione di Deleuze e Guattari [4] si deli- [4] Per approfondire l’argomento:
Lafontaine, (2004), Liu (2010a; 2010b),
nea a partire da una evidente ripresa di questi autori: con Geoghegan
(2023), Cusset (2005).
le loro macchine desideranti (Deleuze & Guattari 1972), essi
prospettavano quello che Lafontaine ha chiamato un “prolungamento” del paradigma cibernetico (Lafontaine 2004, 308) che, però,
si tiene lontano dalle sue possibili applicazioni tecnocratiche. Nelle opere
scritte successivamente insieme i due autori non citeranno esplicitamente
la cibernetica, mentre sarà Guattari in Caosmosi a dedicare la sua riflessione proprio alla teoria wieneriana. All’interno di una discussione su cosa
sia una macchina, Guattari citava la cibernetica come quella disciplina che
considera i sistemi viventi come «macchine particolari dotate di retroazione» (Guattari 1996, 52) e, riferendosi alla cibernetica di seconda generazione di Maturana e Varela, proponeva di ripensare l’autopoiesi ampliandone il raggio d’azione anche a tutte quelle «entità evolutive e collettive
che intrattengono reciprocamente diversi tipi di relazioni di alterità»
(Guattari 1996, 107).
Si può allora sostenere che la ricezione della cibernetica in Francia
da parte dei filosofi sia perlomeno complessa da analizzare in quanto vi
si può riscontrare un atteggiamento ambivalente: se da una parte si accoglie il paradigma cibernetico come un primo tassello per poter abbattere le classificazioni e inaugurare una nuova alleanza tra le diverse discipline, dall’altra la critica all’estremo meccanicismo e determinismo della
cibernetica wieneriana apre a paradigmi plurali in cui macchine ed esseri
viventi stanno in una continua relazione non mimetica.
78
Tra i filosofi citati da Le Roux, Gilbert Simondon è certamente uno dei
pilastri del dibattito sulla cibernetica apertosi in Francia a partire dalla
pubblicazione (avvenuta simultaneamente in Francia e negli Stati Uniti)
de La Cibernetica di Norbert Wiener (Wiener 1968) nel 1948. Pilastro non
soltanto per le sue originali riflessioni sul tema, ma anche per essere stato
il centro nevralgico attorno al quale si sono sviluppate le altre riflessioni
di Ruyer, Deleuze e Guattari cui già si accennava (cfr. Sauvagnargues 2016;
During 2015; Iliadis 2013, 2015, 2017).
Il rapporto che intercorre tra la sua impostazione e la teoria cibernetica è molto complesso in quanto parte di un progetto più ampio: quello
di costruire un’assiomatica dei saperi in grado di eliminare le barriere tra
le scienze esatte e quelle umane rintracciando un’analogia funzionale tra i
differenti soggetti/oggetti di studio. Simondon aveva sottolineato l’importanza della cibernetica nel proprio impianto teorico già nel 1956, durante
un corso sulla psicologia tenuto all’Università di Poitiers
(Simondon 2015b, 190-214) [5] dove insegnava mentre scri- [5] Simondon in queste pagine
la storia della cibernetica
veva le due tesi di dottorato. In quella sede aveva soste- ricostruisce
negli Stati Uniti rimarcando le
nuto che:
differenze tra le Macy Conferences
ce n’est pas un problème de remplacement d’un individu humain
par une machine, mais du couplage de l’homme et de la machine
e sottolinea quanto l’ingresso degli
studi di Wiener in Francia era ancora
ostacolato da «une civilisation qui
oppose technicité et spiritualité»
(Simondon 2015a, 212).
dans la même unité fonctionnelle (par exemple le pointage: il ne s’agit
pas d’un échange qui substituerait la machine à l’homme, mais d’un
échange entre l’homme et la machine). L’homme et la machine doivent donc être
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 73 — 87
Gilbert Simondon e la cibernetica
plage conduise à une unité fonctionnelle. Il s’agit d’une humanisation de la machine au moins autant que d’une mécanisation de l’homme. En fait, l’homme reste
l’homme et la machine machine, mais quelque chose existe comme unité fonctionnelle qui est à la fois activité humaine et activité de la machine, traduction constante de l’une en l’autre, continuité d’existence reliant les deux êtres.
Il testo è rimasto inedito fino al 2016, anno in cui è stato inserito nel volume postumo Sur la philosophie, 1950-1980 (Simondon 2016) curato da
Nathalie Simondon e Irlande Saurin. Sembrerebbe che Simondon in quel
momento stesse tentando di istituire un gruppo di ricerca sulla cibernetica intorno all’École normale supérieure nel quale far confluire scienziati
e filosofi, ricalcando l’esperienza del CECyb ma in un’ottica più filosofica.
Il progetto non avrebbe avuto seguito, ma questo testo testimonia un interesse sviluppato dall’autore nei confronti della cibernetica che lo avrebbe portato ad organizzare il Colloque di Royaumont qualche anno dopo.
Si tratta di un manoscritto datato 1953 ed inserito in un dossier dal
titolo Recherches philosophiques di cui si è avuta una traduzione italiana
soltanto nel 2018, nel volume 377 della rivista Aut Aut (Simondon 2018,
12-35).
Già nel suo esordio Simondon mette in evidenza uno dei problemi
che la cibernetica fa emergere: il primato dell’oggetto sul metodo nella
definizione di una scienza. Egli definisce questo assunto «pregiudizio
sostanzialista», in ciò richiamando una critica alla base del suo lavoro di
dottorato: ossia la necessità di rivoluzionare l’approccio delle scienze partendo dal processo piuttosto che dall’oggetto di cui queste si occupano. La
cibernetica sfidava in questo senso quel presupposto positivista comtiano
di cui era pregno l’ambiente culturale e scientifico francese e secondo
il quale bisognava classificare le scienze in base al loro oggetto di studio.
Nella sua classificazione Comte considerava la matematica e l’epistemologia due discipline che non potevano avere lo statuto di scienze oggettive
e, pertanto, le aveva relegate a riflessioni che precedevano o seguivano la
formulazione di leggi che legavano due fenomeni da parte delle scienze
oggettive. A questo proposito Simondon afferma che:
“Ciberneretica” simondoniana
Francesca Sunseri
mutuellement adaptés l’un à l’autre, utiliser des signes efficaces, pour que le cou-
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il fenomeno non è più l’essere; non è un centro da cui irradia un potere di causalità, non è un principio dinamico, ma solamente un termine che un rapporto
ogni potere operativo, di ogni spontaneità; è l’essere divenuto immutabile e sempre identico a se stesso. (Simondon 2018, 14)
In questo passaggio si evince già quell’ontologia relazionale o operazionale, cifra dell’intera riflessione simondoniana, in cui l’essere è operativo, dinamico e mai identico a se stesso. Per Simondon la comparsa della cibernetica era riuscita a far emergere la necessità di abbandonare l’assiomatica
dell’oggettivismo fenomenista di stampo positivista e riconoscere che l’oggetto, l’essere, non è soltanto struttura, ma anche insieme di operazioni.
È qui che si palesa una prima presa di posizione di Simondon rispetto
al dibattito sulla cibernetica. Proprio per la sua natura rivoluzionaria, la
cibernetica doveva essere definita nel modo corretto per evitare di poterla
identificare come una «grande ipotesi esplicativa che viene a ricoprire
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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matematico lega a un altro termine; il fenomeno è l’essere impoverito, privato di
la cibernetica, per essere valida, deve innanzitutto universalizzarsi;
piuttosto che definire dal principio i suoi limiti, bisognerà fondare
la sua unità intrinseca fornendole un metodo. […] Crediamo dunque
che l’opera più urgente che reclama la nuova teoria cibernetica sia l’edificazione di una logica cibernetica, che si può chiamare allagmatica
generale. (Simondon 2018, 32)
propaga, passo dopo passo, all’interno
di un dominio. Ed è proprio la
propagazione di questa operazione a
strutturare il dominio. L’esempio che
Simondon riporta per comprendere
cosa sia una trasduzione è il processo
di cristallizzazione. Per approfondire si
rimanda ai passaggi presenti nella tesi
di dottorato (Simondon 2011, 45-48).
“Ciberneretica” simondoniana
Francesca Sunseri
80
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con la propria unità teorica le scienze particolari» (Simondon 2018, 18).
Esistono cibernetiche particolari che si occupano dei differenti ambiti che
sono relazioni tra campi strutturali, come la psicofisiologia, e che sussistono senza necessità di un grande contenitore teorico che dia loro uno
statuto scientifico. D’altronde, Simondon lo ricorda, queste cibernetiche
esistevano ben prima che Wiener parlasse di cybernetics nel 1947. In questo senso Wiener aveva soltanto colto il bisogno di statuto scientifico che
arrivava da ambiti come la psicofisiologia o la sociologia. Nonostante ciò,
ed è qui che Simondon avanza la sua prospettiva, il termine cibernetica
non sarebbe il più adeguato per descrivere questa teoria delle conversioni,
operazioni o trasformazioni. Egli propone come alternativa un’allagmatica, la cui definizione in questo manoscritto non traccia con accuratezza
se non come «teoria delle conversioni […] (che) ingloberebbe […] uno studio come quello delle operazioni» (Simondon 2018, 20). [6]
La proposta simondoniana è pertanto di correggere [6] Si rimanda al supplemento
intitolato “Allagmatica” contenuto
l’idea di Wiener della cibernetica come un campo nuovo, nella
tesi principale di dottorato
una no man’s land (Simondon 2018, 21) e cercare, invece, (Simondon 2011, 769 – 779) in cui
dedica diverse pagine ad
una nozione strutturale che consenta di inquadrarla come Simondon
esplicitare questo concetto che aveva
scienza di operazioni. In effetti già la descrizione di Wiener già introdotto nel 1953.
poneva la teoria come un terreno metodologico comune
piuttosto che oggettivo: un calcolatore umano e una macchina calcolatrice possono essere comparati perché condividono il metodo
attraverso il quale calcolano, dunque in quanto tra loro vi è una correlazione operativa.
In questo senso, dice Simondon, bisogna considerare la cibernetica come una riflessione sulla tecnica piuttosto che come una scienza, in
quanto essa si occuperebbe di determinare «le condizioni di possibilità
di questa tecnica inter-scientifica mediante un rapporto analogico tra le
operazioni dell’una e dell’altra scienza» (Simondon 2018, 22). Restando nel
parallelismo meccanico-vitale di Wiener, Simondon parla di una «simbiosi operativa» che si verrebbe a istituire tra i saperi grazie all’insieme
delle operazioni comuni alle diverse scienze che proprio una cibernetica
generale si incaricherebbe di studiare ed elaborare.
La cibernetica generale o, se si vuole restare nella critica simondoniana, l’allagmatica generale avrebbe pertanto il compito di fornire un
insieme di operazioni e definizioni e, considerato che si tratta di una tecnica, «una certa strumentazione concettuale» che possa
essere trasdotta [7] da un sapere a un altro.
[7] Come aveva già fatto Jean Piaget,
Simondon prende in prestito questo
L’analisi simondoniana della cibernetica in questo termine dalla fisica e lo utilizza per
testo del ’53 si conclude con l’insistenza, ancora una volta, indicare un’operazione mentale
sia dall’induzione che dalla
sulla necessità di universalizzare la cibernetica, rea di essere differente
deduzione. Si tratta di un processo
rimasta ai margini dei saperi a cui dovrebbe fornire quelle presente in ogni ambito del reale
(fisico, biologica, mentale, sociale),
operazioni comuni:
attraverso il quale un’operazione si
“Ciberneretica” simondoniana
Francesca Sunseri
Sarà proprio questa allagmatica generale, secondo Simondon, a definire
un’assiomatica universale in grado di tenere insieme l’epistemologia positivista e l’epistemologia cibernetica, così da pensare la prima in un’assiomatica cibernetica e la seconda in un’assiomatica positivista.
La conclusione di questo manoscritto apre alla tematica ontologica
determinante del lavoro simondoniano: per poter pensare un’assiomatica
universale è necessario compiere una rivoluzione ontologica che consenta
di pensare una realtà in cui struttura e operazione stiano insieme, «l’essere
prima di ogni separazione» (Simondon 2018, 34).
Il testo del ’53 è il primo dei testi simondoniani (insieme a
Cybernétique et philosophie sempre del 1953 in cui si riprende la stessa
questione) in cui è chiamata in causa la cibernetica come teoria delle operazioni, ma come si è potuto evincere il manoscritto contiene già in forma
embrionale le innovazioni concettuali che Simondon avrebbe attuato
successivamente.
All’interno di questo percorso è utile analizzare quanto egli affermava sulla cibernetica nella tesi di dottorato principale (Simondon 2011).
In prima istanza, una curiosità riguarda la presenza nel dattiloscritto
della tesi conservato negli Archivi Canguilhem dell’ENS di una brevissima bibliografia, un Répertoire bibliographique, non riportata nella
traduzione italiana (come segnalato dal traduttore e curatore Giovanni
Carrozzini) per rispettare la scelta della versione francese del 2005. Questo
repertorio bibliografico è interessante in quanto conferma ulteriormente
l’attenzione che Simondon aveva per la cibernetica: oltre a testi di Louis
de Broglie e di altri scienziati, sono presenti i due volumi più famosi di
Wiener e le trascrizioni di tre Macy’s Conference, precisamente quelle del
1949-1950, del 1950-1951 e del 1951-1952. Inoltre, Simondon dichiara in apertura del repertorio che quelli riportati sono solo i testi di rilevanza scientifica utilizzati per la tesi: evidentemente teneva così tanto in considerazione il lavoro di Wiener e del circolo riunitosi alle Macy’s Conference da
volerlo sottolineare con un elenco che, invece, non include le opere filosofiche citate nel testo.
In questo testo, la prima occorrenza del termine cibernetica sembra
segnare un ulteriore distacco dell’autore rispetto alla teoria wieneriana:
81
questo schema non costituisce il solo schema per siffatta correlazione: l’automatismo,
nelle sue più diverse accezioni, è stato impiegato, con maggiore o minor successo,
tecnologia, a partire da Descartes sino alla moderna cibernetica. (Simondon 2011, 69)
Con “questo schema” Simondon intende riferirsi all’ilomorfismo di cui
aveva parlato nel periodo precedente e con “siffatta correlazione” si riferisce alla reciprocità tra il dominio vitale e quello tecnico istituito dallo stesso ilomorfismo. Simondon afferma cioè che la cibernetica, come Cartesio,
non sarebbe riuscita ad uscire dallo schema ilomorfico che accosta i due
domini paragonandoli tra loro. Come aveva già sostenuto Couffignal, «la
macchina calcolatrice non è un’imitazione dell’uomo […] la macchina non
è un essere artificiale che imita strutturalmente l’uomo» (Simondon 2018,
21). Pertanto, seguendo l’indicazione di Couffignal, occorre superare questa impasse in cui è rimasta incastrata anche la cibernetica e pensare, piuttosto, un’analogia funzionale e non strutturale.
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per penetrare nelle funzioni del vivente per mezzo di rappresentazioni tratte dalla
Se prediamo come esempio la comunicazione del dott. Kubie durante il Congresso
di cibernetica del 1949, riprodotta nel volume pubblicato da Josiah Macy Jr.
“Ciberneretica” simondoniana
Francesca Sunseri
Sulla stessa linea si muovono anche le altre occorrenze del termine
cibernetica nella tesi di dottorato principale. Quella che è possibile rintracciare nella terza parte, dedicata all’individuazione psichica, riprende
la Macy’s Conference del 1949-1950:
Foundation, dal titolo Cybenetics, vi rileveremo che l’autore legittima la sua distinzione fra normale e patologico nella condotta individuale attraverso il criterio unico dell’adattamento […] egli tende a dimostrare che una condotta diretta
da forze di natura neuropatica, che presentano certe analogie con una qualsiasi
condotta normale, risulta, infine, smascherata dal fatto che il soggetto non è in
grado di ritenersi soddisfatto da alcun successo. […] All’inizio della sua relazione,
il dottor Kubie stabilisce il carattere di necessità logica e fisica di tale criterio, assimilandolo alla legge di gravitazione: sarebbe assurdo domandarsi se una norma
qualsiasi necessita che la materia attiri materia, poiché senza una legge naturale il
mondo non esisterebbe. Allo stesso modo, risulta assurdo domandarsi se sussista
o meno una norma che esiga l’adattamento dell’uomo alla società: il fatto stesso
che esista il mondo umano dimostra l’esistenza di una certa norma di adattamento. (Simondon 2011, 370-371)
L’ecceità dell’informazione
Nel far questo Simondon si inserisce nel dibattito emerso a partire dalla differente interpretazione dell’informazione [8] all’interno del modello cibernetico ritenendo che essa sia quel [8] Per approfondire il dibattito in
alla questione dell’informazione
«riferimento privilegiato per la ricerca di un paradigma merito
si suggerisce la lettura dei classici:
82
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Lawrence Kubie, psichiatra americano che prese parte a diverse conferenze
Macy, secondo Simondon tenderebbe a utilizzare l’analogia strutturale tra
le leggi fisiche e le norme sociali e psichiche in una forzatura «troppo sommaria per poter essere considerata alla stregua di un principio» (Simondon
2011, 371) e che mancherebbe lo studio dell’individuo in psicologia tendendo piuttosto su una «sociologia implicita» (Simondon 2011, 373).
La stessa critica viene ripresa in Du mode d’existence des objets
techniques (la tesi di dottorato complementare: MEOT), in cui si afferma
che il postulato iniziale di un’identità tra esseri viventi e oggetti tecnici
autoregolati rischia di rendere la cibernetica inefficace (Simondon 2020,
50). Inoltre, si sostiene che la teoria wieneriana avrebbe diviso in due la
Francia tra chi come Louis de Broglie si era occupato di informazione e chi,
come Albert Ducrocq, di automatismo. Quando, invece, si sarebbe dovuto
comprendere quanto fosse fondamentale lo studio interdisciplinare.
Infine, nelle pagine di MEOT dedicate alla fondazione di una tecnologia che potesse integrare la realtà tecnica con la cultura universale
tramite il pensiero filosofico, Simondon sottolinea la preoccupazione di
Wiener alla fine del suo testo del 1948 di come si sarebbe potuta organizzare la società alla luce dei concetti che aveva introdotto. Inoltre, il
filosofo accenna all’ipotesi che si possa non essere d’accordo con la definizione che Wiener dava di un termine chiave quanto nella cibernetica
che nell’ontologia simondoniana: quello di informazione (Simondon 2020,
165-169).
“Ciberneretica” simondoniana
Francesca Sunseri
all’altezza di una scienza dei rapporti tra operazioni e Shannon & Weaver (1949), Wiener
(1948) e della seguente letteratura
strutture» (Bardin 2010, 22).
critica: Segal (2011), Gleick (2015),
Nella seconda parte della tesi principale di dottorato, Seife (2007), Brillouin (1988),
dedicata all’individuazione degli esseri viventi, dedica un Geoghegan (2008).
intero paragrafo intitolato Dall’informazione al significato a spiegare il problema delle diverse definizioni del concetto:
la nozione d’informazione ci viene fornita a partire dallo stato attuale delle tecniche d’informazione, a partire dalle quali è stata, a sua volta, elaborata la teoria
dell’informazione. Al contempo, sembrerebbe comunque piuttosto arduo trarne
una qualche nozione dotata di identità univoca a partire da queste molteplici tecniche, nelle quali si impiega la nozione di informazione, introducendo l’uso della
nozione di quantità. (Simondon 2011, 298)
non sussiste informazione se non nel momento in cui ciò che emette segnali e ciò
che li riceve fanno sistema. L’informazione s’installa tra le due metà di un sistema
in disparazione. Quest’informazione non passa necessariamente attraverso segnali
(per esempio, la cristallizzazione), bensì può passare attraverso segnali che consentono a realtà distanti l’una dall’altra di costituire sistema. (Simondon 2011, 302n)
Simondon, quindi, intende superare il problema posto dalle due definizioni di Shannon e Wiener e, nel testo datato 1962 discusso durante il
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Il problema dell’accento dato alla quantità di informazione rispetto alla
qualità informativa è il punto principale di discussione. In queste righe si
cela ancora una volta la critica alla cibernetica e al suo restare troppo legata all’origine tecnologica del concetto. L’autore prosegue il paragrafo specificando i due modi in cui si intende l’informazione: quello sostenuto da
Norbert Wiener secondo il quale l’informazione è ciò che si oppone alla
degradazione dell’energia (neghentropia), ciò che «si oppone al rumore
di fondo, ovvero a ciò che deriva dal caso come l’agitazione termica delle
molecole»; e quello, invece, di Claude Shannon, padre della teoria classica
dell’informazione, secondo cui «l’informazione consiste in ciò che implica
una certa regolarità e un ritorno periodico, ovvero una sorta di prevedibilità» (Simondon 2011, 299-300). Tra queste due definizioni vi è secondo
Simondon un abisso e il problema si accresce ulteriormente quando l’informazione viene non soltanto tecnicamente inviata, ma anche tecnicamente ricevuta (Simondon 2011, 301).
Superare queste due definizioni per giungere ad una nuova concezione dell’informazione è in questo testo l’obiettivo di Simondon.
L’esempio di processo informativo riportato, come sottolinea Bardin, non
necessita infatti di distinguere tra un emittente e un ricevente, a differenza della struttura della trasmissione dell’informazione utilizzata dalla
cibernetica (Bardin 2010, 23): «quando, infatti, due oscillatori irraggiano
parte della loro energia, essi si trovano vicini l’uno all’altro e si sincronizzano in modo tale che non si possa affermare che l’uno piloti l’altro, formando un solo sistema oscillante» (Simondon 2011, 301). I due oscillatori
possono cioè svolgere intercambiabilmente il ruolo di emittente e di ricevente poiché, nell’esempio di Simondon, essi sono poli di un processo in
cui i due sistemi (gli oscillatori), avvicinandosi, instaurano una relazione
reciproca e non singole relazioni con l’informazione. Per Simondon:
Être ou ne pas être information ne dépend pas seulement des caractères internes
d’une structure ; l’information n’est pas une chose, mais l’opération d’une chose
arrivant dans un système et y produisant une transformation. L’information ne
peut se définir en dehors de cet acte d’incidence transformatrice et de l’opération
“Ciberneretica” simondoniana
Francesca Sunseri
convegno di Royaumount (ma reso pubblico soltanto nel 2010 nel volume
Communication et information (Simondon 2015a, 157-176) afferma:
de réception. Ce n’est pas l’émetteur qui fait qu’une structure est information, car
une structure peut se comporter comme information par rapport à un récepteur
donné sans avoir été composée par un émetteur individualisé et organisé. (157)
L’informazione, quindi, è per Simondon un’operazione che produce una
trasformazione, una presa di forma (in-formare) che non può essere definita se non a partire da questa relazione.
Già nella tesi, infatti, egli sostiene che se per Claude Shannon il problema era capire la quantità di informazione che poteva essere trasmessa
da un emittente, in una prospettiva sistemica come quella presentata non
ci si può limitare a questo. Oltre alla quantità, bisogna infatti chiedersi
quale sia l’attitudine alla ricezione dei segnali informativi: in parole semplici, se il segnale informativo non è comprensibile da alcun ricevente, non
c’è in generale processo informativo. Simondon ritiene dunque necessario
indagare anche quella che in prima battuta definisce ecceità informativa,
ovvero «ciò che fa sì che questo sia dell’informazione che viene ricevuta
come tale, mentre invece quest’altro non viene ricevuto come informazione» (Simondon 2011, 302).
L’idea di una ecceità informativa permette così all’autore di smarcarsi sia dalla tesi di un’informazione determinista sia da una sua definizione meramente aleatoria, e di poter affermare in MEOT che: «l’informazione non è un tipo di forma né un insieme di forme, essa è la
variabilità delle forme, l’apporto di una variazione in rapporto a una
forma» (Simondon 2001, 137).
84
Alla luce di quanto è stato riportato, è possibile parlare di una profonda interrelazione tra la cibernetica di prima e, poi, di seconda generazione con
una French Theory che si sviluppa su differenti livelli. Se come sostiene Le
Roux la teoria wieneriana ha suscitato un certo movimento nella temperie culturale francese degli anni Quaranta che ha portato ai diversi dibattiti fin qui riassunti, è anche vero, come sostiene François Cusset (2005) in
risposta a Lafontaine, che le posizioni di Lévi-Strauss o Deleuze-Guattari
su questi temi non sono certo soltanto frutto dell’incursione della cibernetica americana. Quella della ricezione della cibernetica in Francia è una
storia ancora da dover sviscerare completamente, ma i primi importanti
passi in questa direzione sono stati fatti anche recentemente, dal tedesco
Bernard Geoghegan (2008, 2023).
E tuttavia, a partire da questo posizionamento generale da parte
della filosofia francese, si può affermare che il lavoro di Gilbert Simondon
prospetti una svolta decisa e densa di conseguenze per le generazioni
successive in direzione di quella che si potrebbe iniziare a chiamare una
ciberneretica. Rispetto sia al concetto generale di cibernetica quanto al
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Conclusioni
“Ciberneretica” simondoniana
Francesca Sunseri
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concetto di informazione che ne costituisce uno dei cardini, il filosofo di
Saint-Etienne sembra proporre infatti, come abbiamo visto, una nuova,
anche se solo accennata, strada. Nella sua volontà in grado, come ricorda
nella tesi complementare, di integrare e possibilmente concretizzare l’intenzione dell’opera di Wiener: quella di presentarsi davvero come un
nuovo Discorso sul metodo, a patto però di non lasciare latente quella
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The Unmeaning Machine.
Cybernetics from Semiotics to AI
Niccolò Monti
PhD candidate in Semiotics at
the University of Turin, studying
computational creativity. He has
written on death in digital social
platforms, on individuality in semiotics,
on post-war literary criticism and
writing in Italy.
niccolo.monti@unito.it
— SEMIOTICS
— INFORMATION
— MEANING
— ECO
— CREATIVITY
89
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 89 — 103
This paper partly retraces the impact of cybernetics on the
issue of meaning, showing 1) how cybernetics and
information theory prepared the epistemic conditions for
semantics-focused approaches to Artificial Intelligence
(AI); and 2) that cybernetics was an opportunity also for the
renewal of ideas concerning artistic experience. The latter
point is explored in cybernetics’ crossing with aesthetics,
as it occurred in Umberto Eco. His move towards semiotics
in the late 60s indicates, on one side, a dissatisfaction with
information theory, at first deemed ideal to grasp post-war
poetics, but also, on the other, the survival of an interest
towards its concepts, so much so that Eco integrated
information theory in his general semiotics. Eco’s thoughts
on the difference between information and meaning lead
us to reflect on how the intersection of aesthetics and
semiotics, occurred through cybernetics, changed the way
in which we conceive of creativity in AI. This change
contributes to shaping contemporary studies that simulate
creativity with computational means.
Breton 1933, 63
A great interest has accrued around meaning in Artificial Intelligence (AI).
This interest met spurious results and discontinuous efforts, but there are
traces that go back to its origins in cybernetics, and the latter’s intersection with semantics. Even though a study of this intersection hasn’t been
attempted yet, we aim to show, first of all, how the issue of meaning traverses the passage from cybernetics to AI. Two recent discursive events can
be mentioned to introduce the topic.
One comes from neuroscientist Erik Hoel, who in a newsletter
post, “The semantic apocalypse”, laments that the outputs of neural networks trained to replicate artistic styles or to create original ones are just
«a “deep fake” of meaning» (Hoel 2021, online). Hoel refrains from tackling this in depth, but he lets us approach the discursive field he interacts with, formed by the enunciates on artificial creativity circulating in
peer-reviewed journals, divulged in academic seminars, commented in
op-eds and Quora threads. His post is a refraction of the discursive universe that it touches upon, where meaning is re-surfacing as a scientific issue. To better grasp this resurgence, our second reference reconnects the
topic to cybernetics.
In 2018, the Santa Fe Institute organised a workshop on “Artificial
Intelligence and the Barrier of Meaning”. Academic scholars and researchers from private companies came together to discuss the semantic limit
of AI. The lead organiser of the workshop, Melanie Mitchell, wrote a recapitulatory piece (Mitchell 2019) exposing the questions that were left
unanswered (i.e., could meaning be linked to other forms of reasoning,
like abduction?), and referring the theme back to mathematician GianCarlo Rota, who had first evoked the idea of a barrier of meaning in a
piece written while at Los Alamos National Laboratory. Rota started to
work there under the invitation of Stanisław Ulam, a name closely associated with the Manhattan Project. It was to honour Ulam’s memory that
he wrote the article. In particular, he was fond of a conversation the two
had while walking in Santa Fe, located not too far away from Los Alamos.
AI was booming across the US and Europe, with great progress being
made in the modelling of human intelligence, but, the two friends wondered, could machines ever grasp the meaning of words? Ulam framed
the issue with an image that exposes a view of semantic systems common
among his peers:
Imagine that we write a dictionary of common words. […] When you write down
precise definitions of these words, you discover that what you are describing is not
an object, but a function, a role that is inextricably tied to some context. Take away
the context, and the meaning also disappears. (Rota 1986, 2)
The image of the dictionary implies a semantic theory postulating that,
to attain the meaning of any word in a set, it is necessary to define a
number of primitive elements which, if combined by certain rules, form
the semantic field of a language. This phrase encapsulates how meaning
The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI
Niccolò Monti
L’« illumination » vient ensuite.
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Introduction. There Once Was Meaning
Cybernetics and semantics cannot be tackled as if in a vacuum. We have
to account for some contingencies. The development of a science of meaning and of cybernetics both occurred between or in war times, often in
the US and within the walls of academic or industrial institutions, the latter often patronaged by the National Defence Research Committee, the
most prominent office funding research on automatic warfare.
Many cyberneticists were involved in military research programs:
Ulam and John von Neumann worked on the atomic bomb; Alan Turing
worked for the UK army on decryption; Claude Shannon was employed
as an engineer at Bell Labs, contributing to advanced fire-control systems.
Norbert Wiener designed anti-aircraft guns, and we can at least partly attribute to his work on military craft his ideas on how autonomous behaviour might occur in machines too. [1]
[1] More correlations between
and military practices
With Arturo Rosenblueth and Julian Bigelow, cybernetics
arise if we look at the files redacted
Wiener co-authored the 1943 article on Behaviour, by US army members (e.g. Bull 1958),
automation becomes an issue
Purpose and Teleology: here, meaning is never the main where
of military strategy.
topic, nor the discussion centres around communication
per se; but the relevance of the article for us lies its implication that purposefulness can be found in organic and inorganic agents,
their activity seen as isomorphic. The authors’ behaviourism allows this
interpretation, although it wasn’t a matter of interpretation, but «a physiological fact» (Rosenblueth et al. 1943, 19), since nothing
much differentiates machines and organisms. [2]
[2] For the machine-organism
opposition, we refer to the valuable
The war looming in the background and seeping in text
by Canguilhem (2008), a
the research is apparent when ‘purposeful active behav- conference reprinted in the 1965
iour’ becomes a description applicable to machines as well: French edition of Knowledge of Life.
«A torpedo with a target-seeking mechanism is an example. The term servomechanisms has been coined precisely to designate machines with intrinsic purposeful behaviour». (19) A torpedo seeks its target by responding to a physical stimulus, thus generating a feed-back loop
between the approximating final output and the sum of all the inputs
that the torpedo receives as adjustments of its behaviour, until it hits the
target. The device doesn’t understand the inputs, nor the destination: it
responds to stimuli, but it doesn’t endow them with meaning. But this
machine-organism isomorphism sets the stage for a further question: how
does meaning materially emerge in communication?
The issue stems from the fact that communication was conceived as
a mechanical process, structured around binary combinations of inputs
and outputs, along a straight line from sender to receiver. This structure
relied on inquiries on how synapses and neurons function, as in the studies in mathematical biophysics by Warren McCullough and Walter Pitts,
The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI
Niccolò Monti
Meaning in the Machine: How Semantics Entered Cybernetics
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impinged on the design of machines similar to humans in semantic tasks.
Ulam, Rota, and Mitchell, lay out an intergenerational line of inquiry
focused on crashing the «barrier of meaning» of AI. What came before
them, in terms of a semantic urge in early cybernetics, we shall now attempt to outline: the path leads to an encounter of semantics and cyberneticists, or even their reciprocal reformulation, which is precisely what
occurred with Umberto Eco.
nation of outputs from other selected elements will or will not act as an adequate
stimulus for the discharge of the next element, and must have its precise analogue
in the computing machine. (Wiener 1961, 14)
To reinforce the analogy came the notion of information, which had
gained relevance thanks to the field of telecommunications: the urge was
to translate the exchange of meaning among humans – tied to mental activity, and thus having a qualitative nature – into a quantitative measure
regardless of the physical medium. We won’t delve into the intricate history of communication engineering, but it will be useful to evidence a
few steps taken toward this quantitative translation.
Once again, the history of knowledge borders the one of institutions. In 1928 Ralph Hartley, an engineer employed at Bell Labs, penned
an article on the Transmission of Information, arguing that automatic
devices could perform the functions (reception, selection, encoding, decoding, noise cancelling, etc.) that make up the production and circulation of symbols among humans.
While proposing that frequency-range could be a general measure
for information, to uniformly describe all communication by the same
unit, Hartley raised a significant issue for information theory: if two human operators can understand each other when they talk or write, it is
because they share a code, allowing them to interpret the symbols in the
same manner, giving them the same meaning. But meaning is a psychological factor, which has to be eliminated if we want to «set up a definite
quantitative measure of information based on physical considerations
alone» (Hartley 1928, 538).
It was preferable that the semantic-psychological and mechanical-physical levels stayed distinct: the sending and receiving of symbols,
the information transmitted by such symbols, had to be understood as
physical processes, thus granting an adequate abstraction from psychological bias. Coding, and the associated selective action on the symbols used
in communication, are then transformed into a physical problem, related not to the semantic interpretation of symbols, but to the probability
that other symbols might have been selected. The notion of information
becomes a measurement for the chance that a symbol is selected among
other possible ones. Information as a measure of probability, coding as a
grammar of the possible combinations of symbols: here information theory takes a more rigorous look at its objects and concepts; and it is here that
we perceive the direction pursued by a colleague of Hartley, Shannon, the
man behind the mathematical theory of communication. He took things
a step further:
The fundamental problem of communication is that of reproducing at one point
either exactly or approximately a message selected at another point. Frequently
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Niccolò Monti
The synapse is nothing but a mechanism for determining whether a certain combi-
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both in close contact with Wiener and working under his supervision at
MIT. It was a common scientific belief that the nervous system operated
through a switching mechanism, making neurons and synapses be either
on or off. The analogy with how an electrical machine functions quickly
took hold:
of communication are irrelevant to the engineering problem. The significant aspect
is that the actual message is one selected from a set of possible messages. (Shannon
& Weaver 1964, 31)
A hierarchy of communicative aspects has been established. Warren
Weaver, after Shannon, argued too that all communication is reducible
to the technical level, related to the accuracy of a transmission and supervening on two other levels, which he called the semantic and the effectual – the latter seemingly akin to the pragmatic aspect that had been
defined by Charles Morris, the semiotician who, at that time, was tenured at the University of Chicago together with Rudolf Carnap, fresh off
the publication of his Introduction to Semantics (1942). The evolution of
semantics was proceeding on a steady parallel line with
cybernetics. [3]
[3] We couldn’t here provide a full
examinations of other works on
The ties float on the surface of textual compresence: meaning,
like those conducted by
they are retraceable through documented institutional re- Ogden and Richards, Walpole, Ullman,
Ziff, among others, who in no
lations, shared themes that appear across different texts, and
lesser terms stirred the evolution of
direct interactions between key individuals or between semantics and communication theory.
groups, the discourses of one and the other side intersecting and belonging to adjacent fields of knowledge. Most of
all, cybernetics and semantics coexisted in the same epistemic transition.
Human expression was being modified by a tide of technical innovation.
The mechanics of communication were becoming more important than
the semantics of communication; hence the views of Shannon, Weaver,
and before them Hartley: the engineering aspect is, not just of higher relevance, but what determines the existence of any semantics. So, following what we said earlier, if a message is said to convey information, then
that information doesn’t stand for what the message does say, but what
that message could say.
A probabilistic theory of communication, where a message is made
of a series of symbols selected by a sender and decoded by a receiver, without the need to consider (which doesn’t mean to deny, but certainly to
ignore) any signifying relation between the symbols; a theory where the
information conveyed equals «the logarithm of the number of available
choices» (Shannon & Weaver 1964, 9); and lastly, a theory where the generation of any message depends on «the special case of a stochastic process
in which the probabilities depend on the previous event» (11), that is, on a
model called “Markov chain”. In every communicative sequence, the appearance of a symbol is determined by the ones selected before; therefore,
information conveyed by each symbol is measured on the probability of
what could have been chosen instead to continue that same sequence. It
implies that, if there are more choices that could have been selected, then
the message conveys more information, like with those messages where
more than one option in decoding them yields the same probability.
The main advantage of this theory, according to its advocates, is its
generality, due to the fact that it can be applied to a vast range of communication processes, both from organic or machinic sources, and in diverse fields from cryptography to translation – although, as Weaver admitted concerning the latter, «the complete story here clearly requires
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some system with certain physical or conceptual entities. These semantic aspects
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the messages have meaning; that is they refer to or are correlated according to
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consideration of meaning, as well as of information» (25). A cybernetic
theory of communication is so generalised that it is applicable to phenomena where semantics might be involved – while still being supervened by
the engineering level. Moreover, Weaver adds, information theory might
prove «particularly promising for semantic studies, since this theory is
specifically adapted to handle one of the most significant but difficult aspects of meaning, namely the influence of context» (28).
We have gone full circle to Ulam’s consideration: to grasp meaning
one has first to understand how it is generated within a context. A model of information transmission based on Markov chains accounts for the
co-influential events of any communication. This is why, if the power of
a scientific theory is guaranteed by its degree of generality, cybernetics
tilted more and more towards research on human-like semantic behaviour
(translation, man-to-machine interface, or in general natural language
processing). We witness here a branching of cybernetics into three paths.
The first is the closest to the original scope of cybernetics: to analyse
and define the principles of complex systems using an abstract model of
communication. William R. Ashby’s work exemplifies this view, where
any message is reduced to its behavioural and functional explication. This
gets more evident once we approach the definition of what is a machine:
«a system whose behaviour is sufficiently law-abiding or repetitive for us
to be able to make some prediction about what it will do» (Ashby 1958,
225) Again, the problem is how selection occurs and how it can be measured. If, then, we tackle the question of building a machine, we are not
dealing with «the more obvious process of shaping and assembling pieces
of matter, but with the less obvious questions of what determines the final model, of how it comes to be selected» (252). This is one of the clearest
formulations of the hypothesis that a machine might seem human-like.
Ashby asks, «How can a machine select?» (260). A machine might select
the state to be in by following a straight trajectory of possibilities; no variables, no alternative paths. A machine could reduce the variety in the pool
of possible states it can be in, showing selective behaviour by reduction.
Similar mechanisms in selecting and reducing, others that amplify, regulate, control, don’t need meaning: the actions emerge out of stochastic
processes. But it doesn’t entail that machines aren’t intelligent: in fact, if a
machine «were to show high power of appropriate selection […] we could
hardly deny that it was showing the behavioural equivalent of “high intelligence”» (272). It proves useful to maintain this reductionist side of cybernetics in mind, as some of its tenets (i.e., the mechanical reproduction
of intelligence) are not too far away from what the other branches formed
after the 50s were proposing in their turn.
Thus, on one hand, and running along the second avenue of cybernetics, we find a new approach in the respective works on semantic processing in automatic machines by Ross Quillian and David MacKay: their
goal was to reintroduce the psychological factor in order to reach a more
complete simulation of human mental activity, which included the design of semantic models. We won’t insist further on their contribution as
we shall come back to them, especially to Quillian, in the chapter dedicated to Eco. Then, on the third avenue of cybernetics, we have AI, where
the computer programs built «are usually called “heuristic programs”»
(Minsky 1968, 8), because they were aimed at simulating and enhancing
The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI
Niccolò Monti
problem-solving capabilities. In both avenues we notice a tendency to focus on knowledge representation as a core issue. The premise was that, if a
general-purpose AI had to be achieved, the semantic aspect, once deemed
secondary, became the most important one to reproduce artificially. AI
and adjacent approaches started to focus more and more on translation,
speech, on the replication of literary writing, painting, musical composition, testing what of human creativity could be simulated
through algorithms. [4]
[4] McCarthy et al. (1955), the
originators of the first project on AI,
If more complex tasks had to be solved by relying on proposed
that seven paths of research
computational methods, if even artistic expression could needed to be explored, the last one
randomness and creativity,
be reproduced, it was clear that meaning was leading cy- being
suggesting that the issue of creative
bernetics towards creativity; and, moreover, the proximi- behaviour had already grown into a
ty of the two legitimised the appropriation of cybernetic fully formed scientific inquiry.
concepts by fields of research that viewed them as a new
approach to human communication. Starting from the 1950s, the gaze
of many scholars in the humanities turned to cybernetics. One of these
was Umberto Eco: similar to what Ulam argued regarding meaning, what
matters is to retrace a context.
Open Automata: How Cybernetics Entered Semantics
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As we saw in the previous section, the engineering model of communication tended to exclude, or at least leave largely unquestioned, what
meaning is and how it works. However, the Shannon-Weaver model
(sender, encoder, channel, decoder, receiver) started being implemented
in fields of research where meaning would be expected to be ineliminable.
Structural linguistics, which was spearheaded by Roman Jakobson, and
anthropology, with Claude Lévi-Strauss as its beacon, were some of the
most receptive disciplines when it came to information theory. For example, apart from the overall model, the ‘message’ and the ‘code’ of which
Shannon spoke, key elements of any communicative situation, were acquired as new linguistic concepts: «According to Jakobson’s theory, speakers consulted the codes at their disposal and composed a message according to its rules» (Geoghegan 2011, 115).
This promiscuity of early structuralism and cybernetics was not
only epistemic, but institutional: the aforementioned scholars, and other European expatriates, lived and worked in the US during the Second
World War and the Cold War. The Fifties saw an increase in institutional
relations across Western countries, often driven by Jakobson, Lévi-Strauss,
and their colleagues; thanks to them, as well as to the international profile of some cyberneticists, like Wiener, information theory seeped into
debates, university courses, press houses and conferences around Europe.
However, the arrival of these theories was untimely and, ultimately,
their effects on mass communication studies was not always as enduring
as their proponents hoped. The CECMAS (Centre d’études de communication de masse, today Centre Edgar-Morin), one of the first attempts
in France at the intersection of mass communication studies and information theory, was founded only in 1960, when several programs in the
US and also abroad to fund cybernetic-influenced fields were already
being shut down or not even begun. Two reasons often quoted are the
rise of generative grammar with Chomsky and the shift in the scientific
The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI
Niccolò Monti
community gathering around AI, which was more and more attracted to
semantic issues, going beyond Shannon.
It should be noted that the move towards or against cybernetics in
the ‘60s, when the field seemed at its peak, wasn’t symmetrical. It certainly wasn’t among the scholars that were beginning to name their research as semiological. Though Roland Barthes was one the directors of
the CECMAS, his interest in information theory had always had a taste
of scepticism, especially regarding the aim of a neutral scientific language. He had employed Jakobson’s revisited Shannon-Weaver model in
Elements of semiology (1964) and before that in Le message photographique (1961) – echoed years later by Claude Bremond’s Le message narratif
(1964) –, but it didn’t escape him that notions like message, or code, had
emerged from a specific milieu, the American engineering one, with a
specific goal in mind, to make communication more efficient by technical
means: «As he deployed the tropes of cybernetics and information theory,
he also submitted their procedures to ideological and historical critique»
(Geoghegan 2020, 67). Meanwhile, A. J. Greimas, a proponent of structuralist semantics, advised to borrow with caution
from disciplines parallel to linguistics, such as information theory, which treat only
data dealing with a signifier transcoded from a natural language and, because of
that, make problems of signification parenthetical. (Greimas 1983, 33)
96
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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In Italy, as we anticipated, one of the first scholars to employ information
theory in the human sciences was Umberto Eco. His thought was grounded in aesthetics, since at least his dissertation on the aesthetic problem in
St. Thomas Aquinas, up until the publication of Opera aperta (OA) in
1962, but it was gradually influenced by Claude Lévi-Strauss, the Russian
formalists, Roman Jakobson – the three shocks of 1963, as
he called them prefacing the 1992 edition of OA [5] –, but [5] References are to the Italian
editions of OA, providing the
the greatest imprint, since the 1973 publication of Il Segno, translation
in a bracketed text after
distancing himself from structuralism, was borne by the the quote. Printed translations of the
originals will be used when possible.
semiotics of Charles Sanders Peirce.
It seems relevant to notice that Eco could not have
met cybernetics and information theory through what was going on in
France; at least not through the readings of the structuralists, like Jakobson
and Lévi-Strauss, who had become familiar to him only since 1963. What
about before that? He had read Wiener and Shannon in English, but there
is a different, larger context of reception that must be accounted for.
Two movements need to be retraced: one from aesthetics to cybernetics, the other from cybernetics to semiotics. Following them, and considering their respective frames of reference, we focus on Eco’s intellectual growth, dealing with his early aesthetics, which prepared his proposal
for general semiotics. Even if non-exhaustive as an example of his time,
insisting on Eco and cybernetics allows us to remark on post-war Italian
culture, on the artistic and philosophical situation, when the latter often
sought intakes from outside to invigorate its rampant anti-idealism. And
it is also to oppose idealistic aesthetics that Eco got involved in the first
place with cybernetics.
Eco seems to have viewed cybernetics as a toolbox of concepts that
he could use to analyse the artistic situation: he noticed a shift in poetics,
The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI
Niccolò Monti
a term already revisited and used by Luciano Anceschi, at least since his
Saggi di poetica e di poesia (1942). Anceschi was a prominent figure in
post-war aesthetics and a deus ex machina for the birth of the Gruppo
63, to which Eco associated himself, contributing greatly to the history
of the neo-avant-garde, to the point that OA became a flagship theoretical text for that group of intellectuals. Poetics – that is, as Eco says introducing the 1967 edition of OA, «il programma operativo che a volta a
volta l’artista si propone, il progetto di opera a farsi quale
l’artista esplicitamente o implicitamente lo intende» [6] – [6] «The operative program that stepby-step the artist prepares for himself,
had to become the main target of aesthetics. Contrary to the
project of a work in progress as the
Benedetto Croce’s successors’, what is encouraged is a ten- artist explicitly or implicitly intends it»
dency to study the procedure more than the artists, the (Eco 1962/2016, 18, author’s trans.).
creative products and the operations that were followed
more than a personal psychology; a tendency, which is really an aesthetic
posture, towards art as a fact of culture, to be studied with no prior prejudice regarding its supposed value or its true belonging to the artistic realm,
thus obscuring all forms of personal judgement from criticism: according
to Eco, an art critic is also a cultural critic, their descriptive method needs
to attain such a generality, not neutrality however, that all human forms
of expression can be analysed.
This descriptivism was presented by Eco as a path towards structural analysis, in a light that partly reflects his exposure to the structuralism burgeoning across the Alps; however, Eco’s method resembles, more
directly than his French counterparts’, what Shannon and Weaver were
trying to achieve with information theory, that is, looking to formulate
a general behaviourist model to compare all communication regardless of
the medium.
It has been observed, for instance by Rocco Monti (2021), and Eco
himself admitted, that his method hinged on an aesthetics of vagueness:
like in cybernetics, vagueness, or ambiguity, is a quality of a message related to its information. Here, the difference lies in the fact that, whereas
ambiguity was considered detrimental in information theory (an ambiguous message is less decipherable), avant-garde poetics, and most works of
art, seemed instead to favour it. In the same introduction quoted earlier,
detailing the background to his aesthetic proposal, Eco says that:
97
l’opera d’arte è un messaggio fondamentalmente ambiguo, una pluralità di significhe contemporanee – una delle finalità esplicite dell’opera, un valore da realizzare
a preferenza di altri, secondo modalità per caratterizzare le quali ci è parso opportuno impiegare strumenti fornitici dalla teoria dell’informazione. [7]
[7] «The work of art is a fundamentally
ambiguous message, a plurality of
meanings that live in one signifier.
[…] this ambiguity becomes – in
contemporary poetics – one the
explicit aims of the work, a value to
realise above others, according to
modalities to characterise which we
deemed appropriate to employ the
tools supplied by information theory»
(Eco 1962/2016, 16, author’s trans.).
Intentional vagueness as a general creative ethos, succinctly encapsulated by what Eco termed the poetics of openness. Hence the use of information as a term to describe
contemporary art (James Joyce, dodecaphonic music, abstract or informal art), where indeterminacy had become
a chief creative aspiration, noting structural similarities
with transformations occurring, for instance, in physics
after quantum theory. A new method focusing on the
information borne by a work of art was required, more than criticism
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cati che convivono in un solo significante. […] tale ambiguità diventa – nelle poeti-
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Niccolò Monti
98
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seeking to establish the validity, or essence, of art, since art itself seemed
to focus more on probability than actuality: more on what a text might
say, than on what it does say.
However, another thing should catch the eye in the quote: the semiotic terminology. This is the post-1963 OA, the one partly rewritten after
Jakobson, Lévi-Strauss and the Russian formalists; however, Eco doesn’t
substitute the notions of information theory with those of structuralism:
it might not come as a surprise that the shift to semiotics occurs through
cybernetics. In fact, it was in Italian cybernetic circles located in Milan
and Turin that the semiotic theories coming from across the ocean started to circulate, already since the 40s, and ‘meaning’ was a central point of
discussion. There is in fact an overlap between what those cyberneticists
were discussing, and the receptivity to foreign stimuli of
Italian philosophy. [8]
[8] It isn’t a chance, then, that the
printed copy that we consulted of
These circles revolved around several research cen- Abraham
Moles’ book on aesthetics
tres and journals, one of which was Methodos, launched and information theory, published in
read on the first page: “Dono
in 1949 by Silvio Ceccato, Vittorio Somenzi and Giuseppe 1958,
del Prof. Pareyson”, gifted by Pareyson,
Vaccarino, one of the earliest Italian journals to publish ar- professor of aesthetics at the
ticles on information theory and, in parallel, on Morris’ University of Turin and Eco’s mentor.
theory of sign behaviour. Morris was well received, since
it seemed to fit cybernetics’ attempt to design models for communicative behaviour. His idea of meaning was greatly discussed, both in the
Methodos circle – by Ceccato himself or by Ferruccio Rossi-Landi, another semiotician who was among the first to set the stage in Italy for semiotics to gain the intakes of cybernetic and aesthetic theories –, and by Eco
and other semioticians, like Emilio Garroni.
This is Ceccato in 1949: «Una adesione generale è data ai risultati di Charles Morris. […] il linguaggio diviene comportamento». [9] Insofar as it is described as a behaviour, lan- [9] «A general support is given to the
of Charles Morris. […] language
guage becomes the object of cybernetic description. Thus, results
becomes behaviour» (Ceccato 1949,
it might be automatically reproduced by a machine: all it 235, author’s trans.).
takes is to take any complex system of expression as a system of probabilities. But this doesn’t entail a disappearance of meaning, as much as it entails a reconsideration of this concept
within a theory of general communication. After all, even Morris himself
wasn’t entirely sure about what to do with ‘meaning’: «What of the term
‘meaning’? […] In general it is well to avoid this term in discussion of signs;
theoretically, it can be dispensed with entirely and should not be incorporated into the language of semiotics» (Morris 1938, 43), and were it to be
used, it had to be defined not as a thing in the world, but as an element of
semiosis. It was then on these grounds that Garroni criticised Eco’s use of
the information-meaning opposition. Let’s recall Eco’s words first.
Eco gathered from his reading of Wiener that information had to
be understood as an additive property of communication: there can be
more of it or less of it. Information either grows or disperses, and it is
tied to the originality conveyed by a message. Thus, information might
be thought as what provokes surprise when a message contains something
deemed improbable. If a language is a system of prefixed probabilities,
and thus a code of communication (Eco 2016, 106), then a creative speaker is the one who can scan this system to find the less probable combinations, the less predictable ones. What is predictable, thus, yields less
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information. However, it doesn’t necessarily yield less meaning. Actually,
Eco says, usually the most probable messages are also the most signifying:
they are more easily linked to the pre-constructed knowledge of a fact,
they are more expected, thus they make more sense (shaping our expectations in a given context). It is true that the usual response, when faced
with a message that we cannot comprehend, that surprises us, that yields
more information than we can take, is ‘this doesn’t make any sense!’ Art
that plays on this sense of indeterminacy is art that plays on the level of
information: art that plays with regular or irregular patterns, with our expectations, since it is supposed that we participate in the same communicative code as the artist. Reasoning, much like in cybernetics’ theory of
intelligence, takes the form of induction, which, if automized, might lead
to machines that perform like humans in prediction games, or in the composition of artistically valuable works. This is true if we take information
as a measure of value. Was Eco, similarly to Shannon, proposing that the
technical level of communication, tied to information, supervenes in artistic creation too? Not entirely, but some criticism of his contemporaries
tackled this aspect: Garroni was specifically willing to test the validity of
Eco’s application of information theory to aesthetics.
After having reviewed the cybernetic literature that Eco referred
to in OA, Garroni concludes that informativity and semanticity – respectively, the property of a message of carrying a quantity of information to someone capable of decoding it; the property of a message of signifying something to someone – are in no substantial way different in
cybernetics. He concedes that Eco acknowledges it in OA, but then he
adds that information theory, far from dispensing with meaning, actually tried to rescue it, by reintegrating it within a mathematical theory
of communication. Garroni’s criticism becomes a provocation towards
cybernetics and Eco centred on the identity-difference of information
and meaning, and particularly on an issue common to both: selection.
Garroni asks:
99
Chi, per esempio, opera la scelta? Il fruitore? Ed ecco verificarsi la curiosa circostanza per cui il selezionatore-trasmittente coinciderebbe con lo stesso ricevente,
e la comunicazione si effettuerebbe nell’ambito della stessa persona, con paradospropriamente). [10]
[10] «Who, for instance, operates the
choice? The user? Hence the curious
circumstance where the selectortransmitter coincides with the receiver,
and communication is carried out
within the same person, with the
paradoxical exclusion of the author
(who programs, but doesn’t really
communicate)» (Garroni 1964, 258,
author’s trans.).
Garroni’s criticism led Eco to reformulate his theory,
moving away from poetics and towards semantics as
a new way to tackle the analysis of how knowledge is
structured in a culture and how it can be described.
If sender and receiver aren’t distinguishable in cybernetics, the concepts imported from it had to be revisited, if not elided, since they led to an impasse:
who interprets? Who endows a piece of information with meaning?
Interpretation, the once eliminated psychological bias, had to be reinstated in the model inherited from cybernetics.
Eco delineates his reply to Garroni in an addendum dated 1966
which was included in the second edition of OA. First, Eco proposes
to delimitate what information refers to: the definition remains the
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sale esclusione dell’autore (il quale programma, ma non comunica
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one borrowed from cybernetics, but its descriptive power is reduced in
scope. What does it entail to transmit a message? It implies «la selezione
di alcune informazioni, e dunque una organizzazione, e
quindi un “significato”». [11]
[11] «The selection of some
and its organisation into a
Cybernetics is downsized, as organic and mechan- information
signifying complex» (Eco 1962/2016,
ic systems aren’t behaviourally analogous. It doesn’t con- 126; trans. in Eco 1989, 66).
cern only the emergence of meaning from the organisation of content: it would later come to Eco that the
solution lies in, first, a reconsideration of the system of semantic relations (the code cannot be structured like a dictionary, more on that later), and, secondly, a revaluation of the semiotic processes involved in
the production and in the interpretation of cultural artefacts. This shift
was already in nuce in the passage where Eco differentiates between
humans and machines: «se il ricettore dell’informazione è una macchina […] il messaggio o possiede un significato univoco, o
si identifica al rumore», [12] whereas «quando trasmetto [12] «If the receiver of the information
is a machine
sul piano umano, scattano […] fenomeni di
[…] either the
“connotazione”». [13]
[13] «In a transmission of messages
message has
between people, where every given
a univocal
Semiosis does not occur in ma- signal […] is charged with connotation» meaning,
or it is
chines. Therefore, human communication (126; trans. in 66).
automatically
identified with
is made of connotative associations, it is
noise» (126;
a motion from order to disorder, from
trans. in 66).
transparency to hermeticism; machines, on the contrary,
operate in full compliance with a determinate code, following a regular and univocal pattern: they are incapable of understanding, as they are of betraying; they cannot go beyond induction and simulate the inferential process of abduction.
Cybernetics is thus confined within new logical and epistemic walls:
100
Una volta che i segnali sono ricevuti da un essere umano, la teoria dell’informazione non ha più nulla da dire e lascia il posto a una semiologia
[14] «Once the signals are received by
a human being, information theory has
nothing else to add and gives way to
either semiology or semantics, since
the question henceforth becomes one
of signification» (127-128; trans. in 67).
But information theory isn’t entirely rebutted. As it was
clear from the structuralist works of Jakobson and LéviStrauss, and from those of Max Bense or Abraham Moles,
with their information theory-infused aesthetics, cybernetic thought could be applied to other fields of knowledge, provided
that its concepts were revised; which was what Eco attempted in his general semiotics.
The first move forward is introduced with the distinction between
source and code information. The former is a statistical property related to a source and its freedom of choice when composing a message; but,
when a message is encoded and decoded, the layer of the code has to be
accounted, which adds, with its interpretative and selective criteria, a
further system of probability. The concepts are the same – message, code
–, but Eco is using them to mark a shift in his approach, with a starker focus on decoding rather than encoding processes; and to decode, according to Eco, necessarily entails to enter a process of signification. The
machine works with signals; humans work instead with signs: «il segnale
non è più una serie di unità discrete computabili in bit di informazione,
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e a una semantica, poiché si entra nell’universo del significato. [14]
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bensì una forma significante che il destinatario umano
dovrà riempire di significato». [15]
[15] «The signal isn’t a series of
units computable in bits of
Thus, the semantic aspect couldn’t be thought an- discrete
information anymore, but a signifying
ymore as subject to the engineering conditions of a com- form that the human receiver will have
fill with meaning» (Eco 1968, 31,
municative system; a stochastic model couldn’t alone de- to
author’s trans.)
scribe nor explain the complex interrelations between
these two dimensions, like Weaver himself had conceded
when it came to simulate interlinguistic translation: the fact that, going
from one language to another, there can still be semantic understanding,
implies that meaning has to be accounted for as a primary element of
translation, whether human- or machine-made, as in any
process that might be defined as creative. [16]
[16] A critical outlook on the fallacious
logical foundations of computational
In 1971 Eco has moved further away from the jar- creativity
was recently expressed by
gon, the methodologies, and some of the concepts of in- Reynal (2021).
formation theory; nonetheless, his interest in semantics
still hinges on intakes from the new generations of cyberneticist. This explains his relationship to Quillian’s semantic model, often referred to as the Q model and deemed by Eco as ‘more fruitful’ than
others (Eco 1971, 73). Why did Quillian’s model proved important to Eco?
Eco’s attempts at developing a concise and general interpretative model for cultural phenomena was then coming to terms with the
fact that human cultures are, not only ambiguous, but essentially contradictory: they change, they can be incoherent, opaque, multi-layered.
Meaning is an unstable element. Thus, a semantic universe is not a static
whole; instead, it has to be represented as a constantly fluctuant and dynamic system, where transformation is the norm and creativity the tool.
Eco needed to start from the Q model, since he thought it was a model
of linguistic creativity (76).
Quillian spoke of semantic memory, asking: «What constitutes a
reasonable view of how semantic information is organised within a person’s memory?» (Quillian 1968, 216). The task was to build a model were
the mnemonic function of recognition could be defined in such terms
that it could be reproduced by a machine, therefore allowing it to understand the meaning of certain words. What separates Quillian’s model from the rest, according to Eco at least, was its reliance on associative
links that interconnect the nodes of a semantic net, each node representing a word from an English dictionary. More importantly, Quillian introduces a distinction between type nodes – which «lead directly into a configuration of other nodes that represent the meaning of its name word»
(223) – and token nodes, referring «indirectly to a word concept by having one special kind of associative link that points to that concept’s type
node» (223). There are just a few steps to take from here to Eco’s own proposal of how a semantic universe should be structured.
The type-token dyad – which Eco employs probably deriving it directly from Peirce at this stage – opens up to issues of what rules govern
these links, how the meaning-to-meaning associations are formed and
transformed. Memory was to Quillian what culture was to Eco, here: a
dictionary is nothing but a code, a mostly stable one; in fact, the Q model isn’t a configuration of the semantic universe as a whole but, Eco believes, of a portion of it, with its established attractions and repulsions
(Eco 1971, 76).
This is but a brush of the links between cybernetics and semantics, which
cannot be fully recovered without accounting for the discursive and institutional elements that form this interconnection. Now, similarly to
Mitchell’s article after the workshop she organised in 2018, we are left
with the unanswered questions: Morris’s role in bridging semiotics and information theory deserves more attention that what we managed to allow
it; Italy’s history of cybernetics remains fuzzy; what artistic paths were altered by their encounter with cybernetic theories; how was the contemporary field of AI touched by all of this, especially when it comes to those
studies that attempt to build automata capable to replicate human creative abilities. Can we, without a doubt, state that meaning is, nowadays
more than yesterday, a central issue for AI research? If we enlarge the
scope to recent advancements in machine and deep learning, to their new
ways of framing and reproducing semantic processes through computers,
we cannot but notice that the study of the barrier of meaning and its history from cybernetics to AI certainly needs more refinement.
We also understand that we probably haven’t answered with sufficient clarity some relevant theoretical issues that information theory raises for semantics and semiotics. Alas, incompleteness gives but a hope for
further inquiry and critique, somewhere else and by someone else.
Like cybernetics in its time, now the field of AI cannot avoid tackling the barrier of meaning. Whether it will crash, it depends on how
oblique its gaze will get, devoted to the oblique moments in the creation of meaning, like when we produce an analogy or make an abduction,
when meaning escapes convention and codification.
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Niccolò Monti
Conclusion. There Now is Meaning
102
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But what about contradicting meanings, what about purposeful
ambiguities, what about lies and ironic statements, what about jokes?
These were the examples that Eco had in mind when developing his semiotics of codes, knowing well that to play with a linguistic (or some other)
code always means to mix the banal, the predictable, with all we might
deem surprising and creative. Thus, the ineffable definition of meaning,
constantly avoided or derided by information theorists, became the centrefold of Eco’s semiotics, by rethinking, through the Q model, the concept of code and the cybernetic acts of coding and decoding messages.
No message exists nor can it be understood without a code – even
though this code often lies virtual, or even though some messages might
be produced just to contradict or alter it.
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Niccolò Monti
Bibliography
I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo
vivente e la costruzione del significato
Luciano Boi
Matematico e filosofo, insegna e
conduce le sue ricerche presso il
Centre de Mathématiques dell’Ecole
des Hautes Etudes en Sciences
Sociales di Parigi. È cofondatore
del centro PHAROS. Codirige il
Centro Internazionale di Semiotica e
Morfologia di Urbino.
lboi@ehess.fr
— INFORMATION
— REGULATION
— GENETIC FUNCTIONS
— EPIGENETICS
— CHROMATIN REMODELLING
— CHROMOSOME ORGANIZATION
— COMPLEX SYSTEMS.
105
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In this article we criticize the way in which the concept of
information is used in the biological sciences. First, we
start by giving a revised and larger definition of genetic
information, by underlining the fact that the linear
sequence map of the human genome is an incomplete
description of our genetic information. This is because
information on genome function and gene regulation is
also encoded in the way DNA molecule is folded up with
proteins to form chromatin structures. Secondly, we point
forward the need of constructing a theory in which the
informational language (code, program, computation) so
characteristic of molecular biology be completed by (and
somehow translated into) the language of dynamical
systems (phase space, bifurcations, trajectories) and the
language of topology (deformations, plasticity, forms). Our
traditional modes of system representation, involving fixed
sets of sequential states together with imposed
mechanical laws, strictly pertain to an extremely limited
class of systems that can be called simple (static) systems
or mechanisms. Biological systems are not in this class,
and they must be called complex or dynamic. Complex
systems can only be in some sense approximated, locally
and temporally, by simple ones. Such a fundamental
change of viewpoint leads to a number of theoretical and
experimental consequences.
Il “dogma centrale” della biologia molecolare (Crick 1970), sviluppatosi
al seguito della scoperta della struttura a doppia elica della molecola del
DNA fatta da J. D. Watson e F. Crick nel 1953, ha introdotto una concezione essenzialmente deterministica e meccanicistica della vita. Esso, infatti, afferma che quanto è “scritto” nel DNA viene fedelmente trascritto
in un altro acido nucleico, l’RNA, e altrettanto correttamente tradotto in proteine. [1] Tale concezione esclude [1] È da ricordare che già il fisico Erwin
Schrödinger, nel suo ben noto volume
ogni influenza dell’ambiente e della storia (non solo quel- What
is Life? del 1942, aveva previsto
la filogenetica della specie ma anche quella ontogenetica la presenza di una macromolecola,
doveva esistere allo stato
dell’individuo) sulla vita. Prevale invece la “metafora in- che
cristallizzato, capace di trasferire la
formatica” (o cibernetica), ossia l’idea che gli esseri viventi sua “informazione” alle proteine, gli
possano essere paragonati a computer dotati di un unico e strumenti della vita.
solo programma dettato dal codice genetico e questo programma basterebbe a trasmettere ereditariamente la totalità delle informazioni chimiche e genetiche e a controllarne la fedeltà della trasmissione
durante le diverse tappe di un ciclo cellulare. La reificazione dell’idea di
DNA indurrà in seguito Jacques Monod a chiamare il DNA
l’«invariante fondamentale» della vita. [2] Ma come ha sot- [2] Come osserva giustamente il
genetista Marcello Buiatti (2008):
tolineato R. C. Strohman (Strohman 1997), l’errore teori- «Questa
proposta [quella di Monod],
co ed epistemologico della biologia molecolare è consistito insieme dogmatica e rivoluzionaria, è
accolta con enorme favore da
nel pretendere di spiegare l’insieme delle funzioni cellulari stata
un contesto sociale che vedeva (e
sulla base unicamente dei meccanismi di replicazione del purtroppo vede ancora) il progresso
come un processo continuo verso la
DNA, del codice genetico e dei meccanismi di sintesi delle macchinizzazione
del mondo e quindi
proteine. Questo ha condotto a un tipo di determinismo la sua ottimizzazione »(24).
genetico che ha sottovalutato se non ignorato quelle teorie
e rappresentazioni più complesse del vivente che incorporavano i meccanismi epigenetici e i processi morfogenetici dello sviluppo
e del funzionamento globale degli organismi.
Intorno alla nozione di “programma genetico” regna da sempre una
grande confusione concettuale, e inoltre risulta sempre più difficile attribuirgli un chiaro contenuto e significato. Quella che appare sempre più
chiaramente inadeguata e fuorviante è l’idea che esista un programma
genetico capace di determinare l’intero piano di sviluppo di ogni organismo vivente. Ciò ha portato a ignorare i diversi livelli di organizzazione
e i molteplici meccanismi di regolazione che caratterizzano gli organismi
viventi. Risulta sempre più chiaro che non esiste un livello di causalità privilegiato nei sistemi biologici e che pertanto parlare di “programma genetico” non ha senso. Ciò ha condotto alcuni biologi (Noble 2006, 2008) a
ridefinire il genoma come una “partitura” utile per la trasmissione di certe
informazioni genetiche agli organismi, piuttosto che come un programma
che li creerebbe. Peraltro, questa partitura non è né “letta” né “interpretata” dai geni, ma da complessi di proteine e di RNA nel contesto dinamico dell’organizzazione spaziale (topologica) della cromatina e di determinati cambiamenti conformazionali e chimici del DNA.
Un altro errore teorico importante riguarda direttamente la teoria dell’evoluzione e in particolare la visione neo-darwiniana dell’evoluzione (la cosiddetta “nuova sintesi”), la quale ha tralasciato il ruolo dei
I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato
Luciano Boi
Critica del “dogma centrale” della biologia molecolare:
dal determinismo genetico ai processi epigenetici e alle
interazioni cellulari
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I.
I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato
Luciano Boi
meccanismi embriogenetici e i processi morfogenetici (vale a dire la biologia dello sviluppo) nelle mutazioni morfologiche e nelle variazioni microe macroevolutive. Pertanto diversi vincoli relativi al piano anatomico e
morfologico, ad esempio delle sette vertebre nel collo dei vertebrati, non
sono spiegabili in termini della teoria dell’evoluzione per selezione naturale, ma dal fatto che quel piano (o parti di esso) sono determinati da
importanti fattori di sviluppo collegati anche allo sviluppo di altri organi
(per quanto riguarda l’esempio citato, è da osservare che deviazioni nel
processo di formazione delle vertebre del collo sono abbinate a patologie
gravi, letali per l’individuo).
L’idea che il “piano” di sviluppo anatomico e morfologico degli
organismi viventi, particolarmente quello che opera durante l’embriogenesi, non possa essere spiegato nei soli termini della selezione naturale si
trova già nei lavori di anatomia comparata di Geoffroy Saint-Hilaire (17721844), in particolare nell’opera Histoire naturelle générale des règnes
organiques: principalement étudiée chez l’homme et les animaux, pubblicata a Parigi negli anni 1854-1862, sebbene ovviamente la nozione stessa
di “selezione naturale” sia stata introdotta per la prima volta da Charles
Darwin nella sua grande opera L’origine delle specie, apparsa nel 1859.
Saint-Hilaire concepisce il cambiamento evolutivo in modo più dinamico
rispetto alla concezione anteriore, cioè come trasformazione di processi
piuttosto che come successione statica di strutture a partire da un programma predeterminato. L’evoluzione non è vista semplicemente come
il cambiamento nel tempo di genotipi e fenotipi, principalmente attraverso mutazione, incrocio e selezione naturale, ma piuttosto come il cambiamento nel tempo di processi ontogenetici, che comprendono l’intero
processo di sviluppo, dall’uovo all’adulto, e sottintendono la formazione
delle nuove forme in qualsiasi sistema vivente pluricellulare.
Saint-Hilaire fu ignorato per più di un secolo e mezzo a seguito
dell’aspra controversia che nel 1830 l’aveva opposto all’altro grande biologo dell’epoca Cuvier a proposito della nozione di “piano generale di
organizzazione dell’organismo animale” difeso con convinzione dal primo
sulla base di considerazioni teoriche e criticato con altrettanta forza dal
secondo sulla base dell’esperienza. Secondo il biologo dell’evoluzione
Hervé Le Guyader,
107
Par une curieuse coïncidence, le idee di Geoffroy Saint-Hilaire reprennent vie en
celle qui a trait à la biologie du développement, semble les redécouvrir, de manière
complètement fortuite, lors de l’étude comparée des gènes, appelés homéotiques,
impliqués dans le développement embryonnaire précoce des animaux. L’analyse
comparée de ces gènes chez de nombreux animaux se trouve à l’origine d’un nouveau concept, celui de zootype, qui correspondrait à un certain état structural caractérisant les animaux pluricellulaires. Un tel concept unitaire amène de manière
naturelle à faire référence à Geoffroy Saint-Hilaire (Le Guyader, 2000, 37).
Ma cosa giustifica esattamente una tale riscoperta delle idee di SaintHilaire, alla luce delle maggiori scoperte recenti della biologia dello sviluppo? In che cosa precisamente risiede la loro attualità? Cerchiamo di riassumere l’essenziale della questione. La loro attualità è essenzialmente legata
alla scoperta di un gene detto eyeless che si ritrova nel topo: se questo
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biologie d’une toute autre manière. La génétique moléculaire, et plus précisément
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gene subisce una mutazione, ciò produce un topo privo di occhi. Ciò significa che questo gene, nella sua forma non mutata, ha un ruolo determinante nello sviluppo dell’occhio. Se il gene subisce una mutazione, allora non assolve più alla sua funzione e l’occhio non si sviluppa. Se lo stesso
gene, nella sua forma normale, è trapiantato in un embrione di moscerino
(Drosophila), poi attivato in una zona determinata dell’embrione, provoca la comparsa di un occhio (naturalmente un occhio di moscerino con le
sue caratteristiche e non di topo) nel posto esatto dove il gene è stato attivato. L’interpretazione che tale esperienza suggerisce è che il gene del topo
che induce lo sviluppo di un occhio in una regione precisa del suo corpo è
sufficientemente simile al gene che svolge lo stesso ruolo nella Drosophila,
di modo tale che i due geni potrebbero essere interscambiabili.
Occorre osservare innanzitutto che mentre le sequenze di nucleotidi sono molto simili nei due geni e si sono estremamente ben conservate nel corso dell’evoluzione sino ad oggi, i caratteri morfologici degli
occhi nei due animali (vertebrato e insetto) presentano invece delle differenze fondamentali, il che porta a pensare, da un lato, che sia esistito un
gene come antenato comune dei due geni presenti attualmente rispettivamente nel topo e nel moscerino, e dall’altro, che gli organi (nella fattispecie l’occhio) dei due animali si siano evoluti indipendentemente l’uno
dall’altro. La seconda osservazione riguarda il problema più generale di
che cosa si deve intendere per strutture biologiche “omologhe”. Secondo
un primo significato, si può dire che i biologi qualificano come “omologhe”
due strutture che provengono dall’evoluzione di una struttura ancestrale
comune seguendo tuttavia due serie differenti di trasformazioni.
La nostra attenzione deve rivolgersi in prima istanza ai meccanismi
di sviluppo responsabili della generazione delle forme viventi. Tali meccanismi di sviluppo non sono guidati da geni in maniera meccanica. In passato si credeva (e molti, anche tra i biologi, lo credono tuttora) che la formazione di un organo fosse determinata da un gene principale, il master
control gene. Tuttavia, recentemente si è cominciato a capire, come è
stato messo bene in evidenza da diversi studi (cfr., per esempio, Minelli
2007), che l’insieme dei geni la cui espressione è necessaria per la realizzazione di un determinato organo non ha quella semplice e rigorosa struttura gerarchica che la nozione stessa di master control gene presuppone.
I geni collaborano tra loro nella formazione di un organo, e i rapporti tra
di loro non sono di tipo gerarchico, ma reticolare. Il valore di un singolo
gene nel processo di sviluppo di un determinato carattere deve quindi
essere ridimensionato e messo in relazione all’attività degli altri geni, ai
processi epigenetici e a diversi fattori ambientali che sembrano avere un
ruolo importante nella formazione del fenotipo.
Nella categoria dei fenomeni epigenetici ricadono tutte quelle attività di regolazione dei geni attraverso processi chimici e topologici che
non comportano cambiamenti nel DNA, ma che possono tuttavia modificare il fenotipo dell’individuo e/o della progenie. L’imprinting genomico
è un processo epigenetico che “lascia un’impronta” di diverso tipo nei
geni trasmessi dal genitore di sesso maschile e in quelli trasmessi dal genitore di sesso femminile. Di conseguenza, la prole che riceve geni marcati
dalla madre sarà geneticamente diversa da quella che riceve geni marcati
dal padre. Generalmente l’imprinting genomico opera modificando gli
schemi di metilazione (ossia l’addizione o la sottrazione di gruppi metilici)
109
La complessità degli organismi viventi non proviene solo dai
loro geni
Negli ultimi decenni, in particolare con lo sviluppo delle ricerche in biologia dello sviluppo e sull’epigenetica, ci si è resi conto che la complessità di un organismo vivente non è per nulla direttamente proporzionale
al numero di geni che esso possiede; il che lascia presumere che un altro
tipo di proprietà e processi sia alla base della morfogenesi e dell’evoluzione. Innanzitutto la mappatura del genoma umano e di molte altre specie
ha mostrato che i geni umani sono molto meno di quanto ci si aspettasse; infatti, invece dei 100.000 attesi, sono circa 23.000: solo qualche centinaio in più del topo e meno del doppio di un verme. Inoltre, i geni degli organismi superiori (eucarioti) sono spezzettati, in quanto le porzioni
che contengono le informazioni per costruire le proteine (esoni) sono interrotte da sequenze (introni) non utilizzate per questo scopo. E molti di
loro “viaggiano” da un sito a un altro della stessa sequenza di DNA genomico assolvendo ogni volta a funzioni diverse. Gli introni (non codificanti)
sembrano svolgere un ruolo importante nello sviluppo embrionale e nei
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II.
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in prossimità di un gene, senza alterare la sequenza stessa di DNA. Questi
schemi di metilazione sono riprogrammati passando da una generazione
all’altra, trasportando istruzioni legate al genitore da cui la copia è stata
ereditata. Schemi di metilazione anormali sono stati identificati in cellule cancerose già una ventina di anni fa, ma dato che in queste cellule le
anomalie riguardano svariati componenti e fattori, non è ancora possibile
parlare in termini certi di correlazioni causali fra modificazioni epigenetiche e cancro.
La considerazione dei vincoli spaziali, dinamici ed epigenetici che
caratterizzano i meccanismi dello sviluppo deve portare a rivisitare molti
concetti della biologia. In particolare, un gene non deve più essere considerato come un elemento legato indissolubilmente allo sviluppo di
un tratto, ma come una struttura complessa che influisce in modo non
lineare e non deterministico sui meccanismi di sviluppo dell’individuo.
Conseguentemente le caratteristiche morfologiche non possono essere più
identificate soltanto secondo la loro posizione e funzione, ma a partire dal
processo che li ha generati.
Il rapporto tra informazione genetica e meccanismi dello sviluppo
determina un “paesaggio dei possibili” o, in termini più geometrici, uno
spazio di cammini evolutivi potenziali. Questo spazio non presenta geometrie semplici, né tanto meno è una tabula rasa dove la selezione naturale possa disegnare liberamente i percorsi dell’evoluzione. In realtà, il rapporto tra geni e sviluppo (un rapporto a sua volta mutabile) fornisce allo
spazio delle possibili variazioni una precisa struttura, ostacolando trasformazioni in certe direzioni e favorendone altre. Questo “paesaggio” matematico e dinamico, fatto di vincoli e possibilità, condiziona di fatto il
cambiamento evolutivo, poiché la selezione naturale interviene eventualmente soltanto per favorire o sfavorire ciò che in qualche modo si è generato durante lo sviluppo. Inoltre, la geometria di questo spazio dei processi
di sviluppo non è in una relazione di corrispondenza biunivoca con lo spazio delle forme che questi processi producono. Le stesse dinamiche di sviluppo possono produrre forme alternative di uno stesso organismo.
III.
Cambiamento e adattamento nei sistemi viventi
Una questione fondamentale riguarda il rapporto tra cambiamento e adattamento nei sistemi viventi, che è legata
alle trasformazioni di cui essi sono capaci a fronte di importanti modificazioni subite, alla loro tendenza a riorganizzarsi per ristabilire un nuovo equilibrio, e al fatto di intraprendere un nuovo cammino evolutivo. L’evoluzione
degli organismi viventi, e in particolare quella della nostra
specie, ha comportato e comporta più strategie di adattamento per far fronte alle diverse mutazioni genetiche
e alterazioni dell’ambiente. Osservazioni recenti sulle differenze tra noi e i primati a noi vicini sembrano avvalorare questa ipotesi. L’analisi dei genomi di questi ha permesso infatti di scoprire che essi assomigliano moltissimo
chiarire, anche se da numerosi studi
sono stati identificati tre generali
meccanismi d’azione di queste piccole
molecole. Alcuni sRNA sono parte
integrante di complessi RNA-proteina
come l’RNA 4.5S che interviene nella
secrezione delle proteine e l’ARNasiP
che possiede attività catalitica in
vitro. Alcuni sRNA, invece, mimano
le strutture di altri acidi nucleici;
un esempio è l’RNA 6S che lega
il fattore dell’RNA polimerasi,
cambiando l’affinità di quest’ultima
per il promotore. Gli sRNA CsrB e
CsrC, invece, possiedono sequenze
di ripetizioni multiple che legano
la proteina CsrA, presenti anche su
mRNA. L’ultimo meccanismo d’azione,
il più comune e maggiormente
caratterizzato, prevede l’appaiamento
degli sRNA con sequenze
complementari al messaggero target
regolando così l’espressione genica.
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processi cellulari fondamentali. Recentemente è stata avanzata l’idea, corroborata da una serie di dati sperimentali di chiara rilevanza, secondo la
quale: (i) la lunghezza degli introni nel genoma umano è stata determinata
dall’accumularsi – durante l’evoluzione – di sequenze funzionali che oggi
troviamo conservate; (ii) la localizzazione lungo gli introni di tali sequenze conservate indica che molte di esse hanno un ruolo nella corretta formazione degli RNA messaggeri, [3] cioè del- [3] Tradizionalmente all’RNA si
associano due ruoli principali: quello di
le molecole che funzionano da stampo per la sintesi delle trasferire
l’informazione genetica sotto
proteine; (iii) alcuni geni contengono un gran numero di forma di mRNA e quello di intervenire
nella sintesi proteica come rRNA e
sequenze conservate negli introni. L’espressione di questi tRNA.
In aggiunta a ciò, le attività
sembra avere un ruolo nello sviluppo di un organismo dal- catalitiche degli RNA (ribosomiali) e
piccoli RNA non codificanti, sono
lo stato embrionale a quello adulto; (iv) i geni che sono at- di
considerate fondamentali in processi
tivi nel cervello hanno più sequenze introniche conservate post-trascrizionali come lo splicing
e le modificazioni dell’rRNA negli
di tutti gli altri.
eucarioti. Nei batteri al contrario, il
Oggi si sa che il DNA possiede la struttura scoperta potenziale regolatorio dell’RNA sembra
essere svolto principalmente da piccoli
da Watson e Crick nel 1953 solo se cristallizzato, mentre RNA
che controllano diverse funzioni
negli esseri viventi esso può assumere anche forme diverse biologiche accessorie dei microbi.
identificati
lungo la stringa a seconda della composizione locale in Recentemente sono stati
circa 140 “small
basi e del contesto fisico-chimico in cui si
RNA” (sRNA)
non codificanti
trova. [4] Questo fatto è di estrema rile- [4] Il DNA può esistere almeno in
nei batteri, la
due categorie di forme fondamentali
vanza in particolare per la ricezione di (ognuna
maggior parte
delle quali ammette diverse
dei quali si trova
“segnali” che provengono dall’interno e altre forme): 1. La forma circolare
in E. coli, mentre
esistente nei procarioti, mitocondri,
dall’esterno delle cellule e regolano il buon cloroplasti, virus (un cromosoma ad
un numero
minore è stato
funzionamento dei geni in modo che la anello associato a proteine, un’origine
caratterizzato
di replicazione). 2. La forma lineare la
cellula risponda alle esigenze dell’adatta- troviamo
in altri
nei virus, sia single strand
mento al contesto in cui si trova. I “segnali” che double strand, eucarioti (più origini microrganismi,
molti dei quali
che arrivano al DNA sono in realtà proteine di replicazione).
patogeni. È stato
osservato che
che costituiscono l’elemento terminale di
questi RNA non
una catena facente capo ad altre molecole dello stesso tipo codificanti regolatori sono coinvolti
controllo di diversi processi
situate sulla membrana della cellula e in grado di recepire nel
quali la replicazione plasmidica, la
direttamente i segnali esterni (si chiamano infatti “recet- trasposizione negli eucarioti e nei
procarioti, la replicazione fagica e
tori”). L’attivazione e l’intensità di espressione dei geni virale,
la virulenza batterica, le risposte
dipendono proprio dalla formazione di complessi tra le batteriche a cambiamenti ambientali
nel controllo dello sviluppo degli
forme complementari delle proteine segnale e delle speci- eeucarioti
inferiori. Tuttavia la funzione
fiche sequenze di DNA che si trovano a monte di essi.
di molti mRNA rimane ancora da
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al nostro (le differenze tra noi e lo scimpanzé sono dell’ordine dello 1% –
3%). Recentemente si è cominciato a capire come mai nonostante le nostre
grandi differenze di comportamenti e modi di vita dagli altri primati, i
nostri genomi sono tanto simili. La risposta, o quantomeno una parte di
essa, sembra trovare conferma nel fatto che nella nostra evoluzione una
parte molto piccola del nostro corredo genetico ha giocato un ruolo molto importante. Questa parte ha essenzialmente a che fare con il nostro
cervello, come risulta dal fatto che alcuni geni che regolano questi caratteri si sono evoluti molto più rapidamente in noi che negli altri, sia per
la porzione codificante che per le zone regolatrici dell’espressione. Questi
geni hanno a che fare, non a caso, da un lato con la percezione dei segnali e dall’altro con l’accrescimento dopo la nascita della corteccia cerebrale,
essenzialmente attraverso l’aumento del numero di connessioni (sinapsi).
La grande plasticità della corteccia cerebrale e l’elevatissima densità delle
interazioni che operano in essa, anche grazie all’esistenza di innumerevoli relazioni retroattive (movimenti, azioni, decisioni, ecc.) con l’ambiente,
spiegano l’enorme variabilità nei comportamenti e la grande differenziazione culturale della nostra specie, nonché l’enorme capacità di memorizzazione ed elaborazione di informazione e di conoscenza del nostro cervello. Da un punto di vista prettamente neurofisiologico (che certo non
spiega tutto), questo può utilizzare ben cento miliardi di neuroni, a fronte di soli 23.000 geni e fra questi si possono formare un miliardo di miliardi di connessioni diverse dando al sistema una plasticità veramente
straordinaria.
Per concludere questo paragrafo, vorremmo mettere l’accento su
due punti importanti. (i) Nelle scienze della vita si possono elaborare delle
leggi locali e proporre dei modelli esplicativi parziali e provvisori e non,
come spesso si è cercato di fare e ancora si pretende, un’unica, onnicomprensiva, teoria dello sviluppo e dell’evoluzione che descriva e chiarisca in
modo esauriente il passato e il presente e sia anche in grado di prevedere
il futuro. (ii) Appare sempre più chiaro che il fenotipo non è totalmente
determinato dalla semplice trascrizione e traduzione dell’informazione
contenuta nel DNA. Non è d’altra parte nemmeno vero che il fenotipo sia
determinato del tutto e in senso lato dall’ambiente.
In realtà ci sono diversi livelli di incidenza dei contesti sul rapporto
tra genotipo e ambiente nella continua interazione che determina il fenotipo, a seconda del gruppo di organismi che si osserva. Inoltre, l’impatto
dell’ambiente sul genotipo è in generale mediato da processi epigenetici
di tipo spaziale e chimico relativi all’azione dei numerosi sistemi complessi
di interazione (nei quali sono coinvolti decine e decine di fattori regolatori e coregolatori trascrizionali e post-trascrizionali – cioè numerose famiglie di proteine e numerosi tipi di RNA – durante lo sviluppo embrionale
e il differenziamento cellulare) tra i diversi componenti macromolecolari, cellulari e tessutali di un organismo vivente. E tale rapporto dipende
anche da parametri interni che controllano e organizzano la dinamica di
un sistema vivente, ad esempio dalla sua robustezza intrinseca e capacità alla variazione. Per potersi diversificare enormemente durante l’evoluzione i sistemi viventi hanno saputo inventare strategie di cambiamento e di adattamento molto diverse, le quali escludono l’esistenza di
un’unica teoria dell’evoluzione che tenga conto contemporaneamente
di tutti gli aspetti della multiversità biologica. Inoltre, i diversi livelli di
Alcune riflessioni sulla nozione di informazione biologica
Nell’ottica che si è cercato di delineare nel precedente paragrafo, vorremmo riflettere sul significato della parola informazione e su quello della
quantità di informazione negli organismi viventi. Spesso si attribuisce a
un segmento di DNA la proprietà di avere (e di trasmettere) informazione, vale a dire un certo contenuto di informazione. Ma un frammento di
DNA non contiene informazione, esso la acquisisce nel momento in cui
entra a far parte di un sistema di relazioni e di interazioni in seno al quale questa informazione può essere scambiata. È attraverso questo scambio
che l’informazione acquisisce un “senso”, cioè contribuisce alla costruzione di una struttura e di una funzione, più precisamente di una struttura
funzionale. In altre parole, il senso biologico cambia cambiando il senso di
riferimento, e al di fuori di un sistema di riferimento non c’è “vera” informazione (ci può essere eventualmente “rumore”). Questo è un aspetto importante per cogliere il ruolo del gene, questa sorta di “entità” da cui deriverebbe tutto. Il gene svolge una funzione all’interno di un contesto, al di
fuori del quale perde il suo ruolo.
A questo proposito il matematico e filosofo francese René Thom
ha fatto alcune riflessioni significative, con le quali mette in discussione
due idee cardine del paradigma della biologia molecolare: primo, l’idea
che lo sviluppo degli organismi avvenga secondo un flusso unidirezionale
e lineare che va dal genotipo al fenotipo; secondo, l’idea che vede nel DNA
il depositario esclusivo dell’informazione genetica e delle principali funzioni biologiche. Egli scrive:
112
Partir du génome afin de construire la totalité de l’organisme et son évolution temporelle relève du domaine de la croyance. La correspondance génotype et phénotype est une pure et simple boîte noire dont on ne connaît que quelques articulations, toutes dans le sens génotype → phénotype, parce que celles qui vont dans
un sens inverse heurteraient le dogmatisme antilamarkien qui règne actuellement.
(…) L’ADN n’a pas l’exclusivité de toute l’information concernant l’humain. Les
gènes contiennent certes le plan de leur propre structure et celui des protéines,
mais non pas la globalité de l’information morphogénétique. Cela signifie que le
génome n’est pas le métabolisme global. Il n’est que la partie fixe de ce
dernier. Il est donc le résultat du métabolisme et non l’inverse. [5] Les
formes sont des structures dynamiques liées à des invariants. Certes, les
gènes participent à la morphogenèse globale; ils sont toutefois stabili-
[5] Su questo punto fondamentale, la
posizione di Thom è molto simile a
quella di Freeman Dyson esposta in
(Dyson 1999).
sés par la morphogenèse elle-même. (…) Il y a une aura de mécanismes
qui entoure toute forme. (…) Le gène participe donc à une structure dynamique plus globale. Voilà le sens de la relation synthétique entre gènes et
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IV.
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organizzazione degli esseri viventi si realizzano a scale spaziali e temporali
molto diverse, dove i cambiamenti possono avvenire sia seguendo dei processi continui sia dei processi discreti per “rotture” o “salti”, e dove molte
delle attività che intervengono combinano fattori vincolanti, in particolare di tipo geometrico o selettivo, e fattori aleatori, ad esempio di natura
cinetica o energetica. Quello che si osserva in generale analizzando le relazioni tra i contesti interni ed esterni dei sistemi viventi è che i più importanti generatori di variabilità fanno intervenire, contemporaneamente e
successivamente, entrambi i processi e ambedue i fattori.
Lo stato delle conoscenze attuali consente di affermare che il genoma è
tutt’altro che fisso: in realtà, è una struttura altamente dinamica che può
mutare più volte e in più modi nel corso di uno stesso ciclo cellulare. In altre parole, il genoma appare oggi non come una semplice raccolta di geni
ordinati lungo i cromosomi ma come un sistema altamente strutturato e
dinamico in cui delle relazioni si possono stabilire anche fra geni situati a
distanza. Nel genoma avvengono continue variazioni non solo ad opera di
mutazioni ma anche per intervento di particelle di DNA estranee, che si
inseriscono nelle sequenze nucleotidiche normali di batteri, piante e animali. Nel genoma eucariotico solo il 2% di questi elementi trasferibili (trasposoni) è dato da frammenti di DNA che si trasferiscono da un punto
all’altro dei cromosomi: la parte di gran lunga più importante è data dai
retrotrasposoni che provengono da RNA che ha subito il processo di trascrizione inversa, trasformandosi in DNA. Ciò si verifica, ad esempio, nel
caso dei virus oncogeni e dell’HIV agente dell’AIDS (retrotrasposoni e retrovirus). La quantità dei trasposoni inseriti nel DNA in cui producono
sequenze ripetute è altissima. Considerati inizialmente privi di valore, un
DNA junk o parassita, la loro importanza nel funzionamento del DNA è
gradualmente emersa ed oggi è stata chiaramente stabilita nei processi regolativi del DNA con influenza sulla normale fisiologia e morfogenesi della
cellula. I trasposoni partecipano all’evoluzione del genoma essendo cooptati in ruoli strutturali e regolatori. Non sono elementi genetici autonomi
ma piuttosto agiscono di concerto con il genoma preesistente e cambiando
la loro posizione sullo stesso cromosoma o su cromosomi differenti (sono
quindi elementi trasponibili o sequenze “mobili” di DNA) entrano nelle
reti regolative del genoma che li ospita. Si comportano quindi più da simbionti che da parassiti.
Come osservato da Girard e Freeling (1999), l’inserzione di trasposoni può alterare sia il livello dell’espressione genica che il profilo spaziale di espressione di geni adiacenti, inducendo effetti regolatori di
tipo quantitativo e qualitativo. I trasposoni possono contenere anche
induttori (enhancers) con specificità tissulare, come promotori (promoters) di sistemi di espressione genica e anche, attraverso fattori trans
e cambiamenti epigenetici quali la metilazione, agire come soppressori
e silenziatori di geni. I trasposoni hanno quindi un importante ruolo
sia nella mutazione che nella riorganizzazione del genoma. Dati recenti
indicano che la stessa telomerasi possa essersi evoluta da trasposoni o
possa aver dato origine a varie famiglie di retroelementi e che quindi i
trasposoni giochino un ruolo fondamentale anche nella divisione cellulare. Inoltre sembra importante il loro ruolo in fenomeni immunitari
ad esempio nella ricombinazione in linfociti di Vertebrati. I trasposoni,
prodotti in gran parte attraverso l’RNA e non direttamente dal DNA,
rappresentano quindi una fonte effettiva e importantissima di rinnovamento del genoma e delle sue attività informazionali. In sostanza
agendo come simbionti integrati ripropongono oggi quanto si è verificato attraverso l’integrazione anche a livello genotipico di simbionti procarioti nella formazione degli organelli della cellula eucariotica. La trascrizione inversa negli Eucarioti può anche avere il ruolo di conservare
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un statut ontologique plus important que celui de la forme». (Thom 1980, 126-127)
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formes. Notons aussi qu’il n’y a aucune raison de penser que la force a en principe
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ribotipi vantaggiosi nel DNA e poi, con evidente ruolo evolutivo, trasferirli nella linea germinale.
Più importante ancora è la rete che si instaura tra i geni: in un contesto in cui i geni abbiano un’informazione che acquisisce un preciso significato, la complessità di un individuo dipende non solo da quanta informazione possiede, ma anche dalla capacità di ottimizzare l’informazione
disponibile e dal contenuto dei suoi messaggi, pertanto dalla sua “qualità”.
Già negli anni ‘60, C. H. Waddington e R. C. Lewontin mettevano in luce
come, se alla complessità biologica dell’individuo dovesse corrispondere
un incremento di quantità d’informazione, le ricombinazioni possibili in
termini evolutivi sarebbero state troppo lente. In altre parole, un numero
eccessivo di geni renderebbe impossibile la comparsa di quei nuovi assortimenti genici che, una volta selezionati, consentono l’adattamento degli
organismi ai cambiamenti ambientali. Ora il “dogma centrale” della biologia molecolare, cioè l’idea che dal DNA all’RNA alle proteine vi sarebbe
un flusso unidirezionale di informazione e tutte le proprietà degli organismi deriverebbero da questo flusso, ha ignorato per molti anni il contenuto proteiforme e i diversi significati dei geni. Come già è stato detto, un
frammento di DNA non ha di per sé informazione né per la sua duplicazione né per la sintesi proteica, ma ha bisogno di un contesto in cui questo
si realizzi. In altre parole, l’informazione emerge dal contesto delle relazioni e non è una proprietà inerente al singolo elemento chimico, come di
deduce, invece, dalla logica del dogma centrale.
Il progetto (di mappatura completa del) genoma ha messo in luce
alcuni limiti del dogma centrale, basato come abbiamo appena visto sull’ipotesi che i geni e un codice genetico siano in grado di spiegare tutte le
caratteristiche di un individuo, poiché, in realtà, quello viene chiamato
“codice genetico” è solo uno dei codici necessari. È sicuramente necessario
il classico codice genetico, ma servono anche altri “codici” di natura strutturale che consentono il riconoscimento tra proteine e acidi nucleici, come
negli esempi della polimerasi e del ribosoma. Tutti conoscono la distinzione
tra proteina come sequenza e come struttura biologicamente attiva: infatti
non basta la sequenza degli aminoacidi, ma occorre una particolare struttura o conformazione spaziale affinché la proteina sia biologicamente attiva.
La struttura, però, non è terminata unicamente dalla sequenza e, quindi,
dall’informazione del gene; essa, infatti, dipende anche dalle condizioni chimico-fisiche in cui la proteina si trova. Molti dati sperimentali e modelli
teorici che ne danno interpretazioni plausibili, confermano che la sequenza
non determina da sola la struttura ma occorre un contesto e delle interazioni che implicano in qualche modo altri codici e processi di altra natura.
Analogamente al linguaggio umano, dove le parole, a un primo
livello, sono sequenze di elementi di un alfabeto, ma dove il senso appare
solo se esse formano delle frasi coerenti [6] costruite sulla
base di una grammatica e una sintassi e capite e comuni- [6] Naturalmente, non esiste un
unico e universale di coerenza
cate in un contesto semantico intersoggettivo (cioè con- criterio
linguistica.
diviso da una comunità di soggetti), anche il linguaggio
genetico è costituito di parole, frasi, ecc., ma affinché esse
acquisiscano un significato biologico è necessario che vengano riconosciute, lette, interpretate a attivate da altri “codici”, in particolare epigenetici (che non hanno a che fare con le sequenze delle basi nucleotidiche) e da processi di natura cellulare ed extracellulare. Il codice genetico
Gli scienziati generalmente affermano che i geni fanno o fabbricano le proteine
e che la molecola di DNA si auto-riproduce. Il problema è che questo modo di
pensare è una estrema semplificazione di ciò che accade: prima che il gene faccia
quello che si dice, occorre prima di tutto che il metabolismo abbia integrato i segnali e i “marcatori” (che sono proteine) che attivano il gene, e poi che la catena
che lo contiene sia in contatto con il metabolismo della cellula. In realtà, i geni da
soli non possono fare granché: un gene non è la causa della sintesi di una proteina,
ma piuttosto l’agente di un processo molto più complesso a proposito del quale i
biologi molecolari ignorano ancora molte cose. (…) Gli scienziati usano anche un’altra formula, altrettanto equivoca che quella precedente, dicendo che il gene è lo
“schema direttore” di una proteina, o la fonte di una “informazione” che determina
una proteina. Pertanto, le proteine non potrebbero essere fabbricate senza i geni e
il resto del metabolismo cellulare. (…) Gli scienziati dicono anche che la molecola
del DNA si auto-riproduce poiché partecipa direttamente al processo di duplicazione. Ma in realtà, è il metabolismo della cellula, nel contesto molto particolare
della divisione cellulare, che rende possibile la duplicazione del DNA. Questo abuso
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permette di far corrispondere all’alfabeto degli acidi nucleici quello delle
proteine, ma conosciamo ancora poco della grammatica e della sintassi del
DNA e delle proteine, e conosciamo ancora meno i contesti semantici che
sono necessari per le corrette relazioni tra i geni e le proteine e per garantire la loro corretta struttura e funzione. Il genetista Richard C. Lowentin
ha osservato a tal proposito quanto segue:
di linguaggio non è qualcosa di innocente: molti infatti attribuiscono al materiale
genetico di un essere vivente un potere misterioso e autosufficiente che sta al di
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sopra delle altre componenti dell’organismo. Ma è proprio l’organismo degli esseri
viventi nel suo insieme che si “auto-riproduce”, o più esattamente che possiede la
capacità di riprodursi: essa avviene parzialmente attraverso il rinnovamento dei
tessuti costituenti gli organi grazie alla divisione cellulare, e integralmente gene-
È importante notare che esiste una differenza fondamentale tra “codice
genetico”, cioè l’insieme delle informazioni trasmesse nella sequenza del
DNA, e il genoma, ossia l’insieme del patrimonio genetico che caratterizza ogni organismo vivente e che comprende sia i geni codificanti che
quelli non codificanti. Il codice genetico è quasi universale (è identico in
molti organismi viventi ma non in tutti) e costituisce per così dire solo la
grammatica e la sintassi degli acidi nucleici (DNA e RNA) e del processo
di biosintesi delle proteine: così viene chiamata la relazione biochimica tra
una delle 61 triplette codificanti di basi e uno dei 20 aminoacidi che compongono le proteine. Ma con la stessa grammatica e sintassi di una lingua
possiamo creare e comunicare informazioni assai differenti: da un insulto
a una lettera d’amore. Così accade per il DNA: utilizzando lo stesso “codice genetico” è possibile costruire un numero praticamente infinito di
sequenze geniche o genomi. In questa diversità è da rinvenire la varietà
molecolare nell’architettura biochimica degli organismi viventi, la quale, a sua volta, costituisce il “materiale biologico” con cui viene costruito
e funziona l’intero organismo. Il genoma delle diverse specie viventi, ovvero l’insieme di questa “informazione genetica” contenuta nel DNA, è
tutt’altro che identico in ogni organismo, e anche all’interno di una stessa
specie come quella umana esistono rilevanti differenze.
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rando una nuova progenie grazie alla riproduzione sessuata (Lewontin 1999, 18-19).
I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato
Luciano Boi
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Il riduzionismo biologico, riproposto in chiave molecolare a partire dal sequenziamento del genoma umano, presenta dei limiti intrinseci
fondamentali. La questione è epistemologicamente e culturalmente decisiva. Che la struttura individualmente differenziata dei nostri geni fornisca a ciascun individuo che viene al mondo un contributo biologico-ereditario diverso è un dato ormai ben documentato. Ma ciò che noi siamo
anche sotto il solo aspetto biologico non è determinato univocamente dal
nostro genoma: in realtà esso si sviluppa attraverso un complesso processo
di interazione tra numerose componenti, quali quelle genetiche, cellulari, tissulari, organismiche e ambientali. Per non parlare delle dimensioni
cognitive, emotive, affettive e sociali della vita umana, frutto non solo
delle caratteristiche neurologiche di ciascun individuo ma del complesso e
dinamico tessuto di relazioni che ognuno di noi intrattiene con altri esseri
umani e con il suo ambiente vitale (naturale ed antropico).
La visione riduzionista basata sul determinismo genetico è di fatto
necessaria alla trasformazione del soggetto vivente in oggetto inanimato.
La trasformazione in oggetto sia delle parti che dell’intero corpo del soggetto vivente è preliminare all’idea che quest’ultimo possa essere equiparato ad una macchina, in cui, sostituendo alcuni geni, si ottiene un nuovo
organismo, con nuove caratteristiche predeterminate a scelta. Se poi esiste
un gene per ogni caratteristica e se si può inserire o togliere geni a piacere,
ecco l’illusione che esiste una cura per tutte le malattie.
In realtà, la gran parte delle malattie gravi e ormai tra le più diffuse nei paesi sviluppati (e massicciamente industrializzati), quali tumori,
diabete, malattie cardio-vascolari e neurodegenerative, sono più legate
ad altri fattori come quelli epigenetici, all’ambiente in cui viviamo e ai
nostri modi di vita che ai nostri geni. E quand’anche la sequenza di determinati geni permette di predire un certo rischio di sviluppare una delle
malattie menzionate, ciò accade in generale in termini di probabilità assai
debole all’interno di una popolazione data, e mai per un determinato
individuo. Il fatto è che non si possono più separare gli effetti dei geni
da quelli dell’ambiente, perché quest’ultimo influisce sul modo in cui un
organismo utilizza i suoi geni. E se a questo si aggiunge che due persone
geneticamente identiche (tutti gli esseri umani sono geneticamente simili)
acquisiscono nel corso della loro vita delle modificazioni epigenetiche che
inducono modalità differenti nell’utilizzo degli stessi geni, partecipando
così alla costruzione della loro individualità biologica, si capisce allora che
uno degli obiettivi prioritari delle ricerche sul vivente deve riguardare lo
studio delle relazioni complesse e mutabili tra il nostro materiale genetico
e l’ambiente in cui viviamo e con il quale il nostro organismo intrattiene
un costante e attivo rapporto di scambio. Ed è per questo che la frontiera
considerata a lungo assoluta tra i geni e l’ambiente, o anche tra innato e
acquisito, si è attenuata e per certi aspetti dissolta, lasciando il posto a una
nozione più ricca e aperta, quella di una interazione permanente tra i geni
e i loro ambienti (interni ed esterni).
Ciò che è “scritto” nei geni (il loro alfabeto chimico) non coincide
con il loro “stato” e la loro “attività” né tantomeno si può identificare con
la nostra identità (quello che noi siamo) e il nostro destino (quello che noi
saremo); piuttosto, essi si iscrivono in un campo di possibilità e di vincoli
la cui attualizzazione (vale a dire espressione più azione) dipende almeno
in parte dalla storia personale di ciascuno, dall’ambiente e dallo stile di
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V.
117
Oltre il paradigma del determinismo genetico
Indichiamo ora alcuni limiti del paradigma del determinismo genetico.
Nelle ultime due decadi si sono messi in luce in particolare gli elementi seguenti. 1. I geni non presentano solamente una realtà fisico-chimica,
ma una realtà molto più complessa di tipo strutturale e funzionale e una
loro specificità biologica. 2. Nello studio dei sistemi biologici è importante
che si consideri l’attività di regolazione e di controllo che esercitano i fenomeni extracromosomici e cellulari a monte e a valle della trascrizione. 3.
L’espressione dei geni non solo appare legata ai processi dello sviluppo ma
inoltre ogni gene deve essere regolato in connessione con altri geni. In più,
le manifestazioni variabili di molti geni (la loro ridondanza funzionale)
sembrano poter essere spiegate unicamente supponendo una certa conoscenza dei meccanismi della morfogenesi. 4. Un altro punto importante
che inficia uno dei dogmi della biologia molecolare, è l’aver riconosciuto
recentemente che non esiste un meccanismo unico di regolazione genetica, bensì più processi di regolazione legati funzionalmente tra di loro. Basti
pensare al caso del batterio Escherichia coli, in cui agiscono diversi tipi di
regolazione, ad esempio di trascrizione.
Benché non si abbia ancora una vera spiegazione di tale processo, si
hanno tuttavia molteplici dati sperimentali e teorici che conducono a fare
l’ipotesi secondo la quale la regolazione dell’espressione genetica svolge
un ruolo fondamentale per la costruzione di quella che possiamo chiamare la complessità strutturale e funzionale dei geni. Tale complessità
permette di distinguere tra proprietà geometrico-topologiche, proprietà
dinamiche e proprietà biologiche dell’espressione genica. In particolare le
proprietà geometrico-topologiche possono aiutare a capire come e perché
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vita di ogni individuo. Per esempio, la cartografia precisa del milione di
miliardi di connessioni nervose che si effettuano nel nostro cervello non
è “scritta” a priori nei geni ma emerge progressivamente dalle interazioni
fra neuroni, ed è da queste interazioni che dipendono le loro diverse attività, così come la loro vita o morte. Ora, questa rete complessa, diversa
per ogni organismo, si modifica nel corso della nostra esistenza secondo la
nostra storia e il nostro ambiente. Quando si studia il vivente i suoi livelli
di organizzazione e le sue dinamiche, si è quindi di fronte a reti di geni,
di proteine, di cellule, di organi, di individui, di specie, di ecosistemi ecologici e dell’intero ecosistema terra: in ognuno di questi livelli emergono
delle nuove interazioni e funzioni, e la gran parte dei componenti si rivela
essere, per usare le parole di Blaise Pascal, «cose al contempo causanti e
causate». Le catene di causalità sono in effetti multidirezionali, con degli
effetti di retroazione, amplificazione o inibizione. L’interno, vale a dire i
geni e le strutture macromolecolari e cellulari entro le quali agiscono, e l’esterno, ossia i diversi ecosistemi e contesti ambientali, si interpongono e
formano una maglia di correlazioni. Richard Lewontin ha scritto che “un
essere vivente è allo stesso tempo il luogo e il prodotto di questa interazione”. Nella maggior parte delle situazioni i fattori interni e quelli esterni
agiscono di concerto ed entrambi pesano nel determinare una certa stabilità o instabilità della “materia” vivente e della materia pensante; lo stesso
vale per i meccanismi innati e i caratteri acquisiti, e nel caso della specie
umana e dei primati, per la natura e la cultura.
118
Alcune idee fondamentali delle ricerche attuali in biologia
Sulla questione delle sequenze del DNA e dell’informazione biologica, occorre dire che la sequenza del DNA non contiene tutta l’informazione necessaria per produrre un organismo. In altre parole, il DNA genomico non
è il solo a fornire l’informazione biologica, innanzitutto per il fatto, come
si è cercato di spiegare prima, che in molti casi rilevanti i geni sono espressi
all’interno di un contesto epigenetico e sono attivati in relazione con una
specifica attività regolatrice di tipo cellulare che opera nel corso dello sviluppo embrionale e della morfogenesi.
Lo stesso dogma centrale della biologia molecolare, secondo il quale
le sequenze del DNA definiscono in modo lineare, univoco e predeterminato le sequenze di ogni singola proteina, in modo tale che l’inverso non
accada (detto diversamente, la sequenza del DNA contiene tutta l’informazione necessaria per produrre una proteina secondo un flusso unidirezionale), è ormai riconosciuto essere sostanzialmente falso e in ogni caso
parziale. Si pensi, ad esempio, al fatto che il codice genetico può essere
(in parte o del tutto) degenerato; oppure al fenomeno ancora più importante dell’esistenza di regioni non codificanti del DNA che possono variare
senza che vi sia alcun effetto sul prodotto finale della proteina. Negli organismi eucarioti, come abbiamo già visto, queste regioni non codificanti si
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VI.
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gli auto-assemblaggi macromolecolari e le strutture auto-organizzate sottostanti ai processi genetici presentano una certa robustezza e stabilità,
e ciò nonostante l’azione di fluttuazioni energetiche e di diversi tipi di
instabilità biochimica in parte aleatorie che possono spingere gli organismi
viventi (in quanto sistemi altamente dinamici) verso uno stato lontano
dall’equilibrio termodinamico.
Facciamo un esempio, che ha per giunta a che fare con la questione
più generale di come arrivare a descrivere e analizzare la dinamica dell’organizzazione cellulare. In particolare, si tratta di spiegare il perché certe
molecole sono localizzate nel nucleo della cellula invece che nel citoplasma,
o inversamente. In realtà, la selezione che si opera tra questi due compartimenti è fondata su un gradiente dinamico di una piccola proteina chiamata (Ran) che si manifesta in due stati opposti: l’uno, ricco in energia
(Ran-GTP), e l’altro meno energetico (Ran-GDP). Questa proteina, nella
sua forma ricca in energia, si trova nel nucleo, e nella sua forma povera in
energia, nel citoplasma. Questo significa, quindi, che è questo gradiente
energetico a essere letto in due modi del tutto distinti dalla cellula, l’uno
inverso dell’altro: in un modo dalle molecole che preferiscono l’ambiente
nucleare, nell’altro modo da quelle che preferiscono l’ambiente citoplasmatico. Perciò, al di là della specificità del modo di lettura, un gradiente
svolge comunque un ruolo importante nell’organizzazione e attività cellulare. La cosa è tanto più sorprendente poiché le molecole nucleari e quelle
citoplasmatiche non cessano di muoversi tra i due compartimenti della
cellula. Si tratta dunque di un sistema il cui comportamento è tipico dei
sistemi lontani da un certo equilibrio termodinamico: ciò significa che
una certa quantità di energia è dissipata in permanenza al fine di mantenere delle specie molecolari attive in due compartimenti cellulari distinti.
E questo vuol dire anche che le molecole sono capaci di «leggere» e «riconoscere» i gradienti di energia.
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ritrovano sia all’interno di uno stesso gene sia tra geni diversi. In conseguenza di questo e di altri fenomeni complessi collegati, la sequenza del
DNA e il codice genetico non sono affatto sufficienti per poter predire
la sequenza di una proteina. Si ha bisogno di altri elementi importanti
per spiegare il fenomeno sopra descritto, ad esempio si ha bisogno della
nozione di frontiera tra regioni codificanti e regioni non codificanti.
Il punto fondamentale è che la descrizione e la comprensione profonda dell’intero organismo richiede la conoscenza dell’insieme delle proteine e degli RNA prodotti dal proprio genoma, e anche la conoscenza
di come questo complemento fondamentale dell’organizzazione biologica cambia in funzione dello sviluppo (embriogenesi e morfogenesi) e
dell’ambiente. A questo proposito ci appare importante mettere l’accento
sui seguenti punti.
i) Grazie alla produzione di più RNA messaggeri attraverso processi
alternativi degli RNA, si ha spesso una grande varietà di forme di
proteine umane. La variazione degli RNA messaggeri può avvenire
secondo modalità differenti. Si può avere produzione di molteplici
RNA messaggeri a partire da uno stesso gene. I diversi tipi di cambiamento nella struttura degli RNA messaggeri possono essere
regolati in vari modi, a seconda del genotipo sessuale, del differenziamento cellulare, o dell’attivazione di un certo tipo di segnalazione cellulare.
ii) Una scoperta recente relativa alla Drosophila costituisce un esempio affascinante che mostra la sottilità dei cambiamenti strutturali che può subire una proteina, ed è la prova che un gran numero
di proteine può essere prodotto da un singolo gene utilizzando lo
splicing alternativo. In termini più generali, lo splicing alternativo
è quel processo attraverso il quale, mediante un diverso arrangiamento degli esoni (regioni di RNA codificanti), da uno stesso gene
possono derivare diverse proteine, dette isoforme, che esercitano
funzioni biologiche differenti a livello della cellula. Si consideri che
il genoma della Drosophila contiene circa 13.600 geni, mentre il
singolo gene DSCAM può produrre tre volte tanto il numero di
proteine. Da molti anni si ha il problema di capire come mai a un
organismo complesso come il moscerino di Drosophila gli basti un
così piccolo numero di geni per produrre l’insieme delle sue funzioni. È chiaro che, grazie al processo dello splicing alternativo, il
numero di geni non è un criterio fondamentale per capire la complessità proteica di un organismo. Infatti, nel caso specifico considerato qui, lo splicing alternativo permette di amplificare il prodotto
genico da cinque a dieci volte, ottenendo un numero di trascritti
molto più alto rispetto ai geni presenti nel genoma umano.
iii) C’è infine un altro punto importante che si ricollega a quanto
appena detto. Esistono diversi altri tipi di informazione biologica
che provengono da proprietà chimiche, fisiche, conformazionali,
organizzazionali e ambientali degli organismi, ed esistono perciò
differenti livelli d’organizzazione dei sistemi viventi.
La nozione di “informazione”, così pervasiva in biologia e particolarmente nella biologia molecolare, può apparire ambigua e limitata dal
momento in cui si prendono in considerazione processi altamente complessi come quelli dell’espressione e regolazione genetica e dell’attività
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cellulare. Legato a questo, c’è il problema dei limiti dell’approccio riduzionista nelle scienze della vita. Per un biologo, il riduzionismo significa
che le caratteristiche di un organismo vivente possono essere descritte e
spiegate unicamente e interamente in termini delle sue proprietà fisiche e
chimiche. Il che ha come conseguenza di ridurre la biologia ad una scienza
pienamente riconducibile alle leggi della fisica e della chimica. Il problema
tuttavia è che, diversamente dalla fisica, i fenomeni biologici sono estremamente complessi, si comportano ed evolvono in modo essenzialmente
non lineare, non determinista e imprevedibile. Essi sono inoltre un concentrato di memoria co-evolutiva e di storia ecosistemica. Infine, gli esseri
viventi non sono sistemi separabili o riproducibili come lo sono gran parte
dei sistemi fisici (classici e quantistici); tanto è vero che anche la più piccola operazione o mutazione locale effettuata su un organismo può non
solo ripercuotersi sull’intero organismo ma anche modificare in modo
spesso irreversibile il corso del suo sviluppo. In altre parole, nei sistemi
viventi non vale il principio di Curie dell’esatta simmetria tra le cause e gli
effetti, in molte situazioni avviene proprio il contrario, vale a dire che gli
effetti possono agire retroattivamente sulle cause e manifestarsi in modo
diversificato e asimmetrico a diverse scale spaziali e temporali. Per riassumere, quasi tutti i fenomeni biologici sono intrinsecamente non riduzionisti, nel senso che non possono essere spiegati in termini unicamente di
proprietà fisiche e chimiche, e nel senso che il suo funzionamento globale
non può essere capito se lo si vede come la somma della funzionalità di
ogni sua singola componente. Come si è giustamente notato:
120
[…] The reductionist approach remains dominant, however, and system biology is
often seen as no more than integration of diverse data into models of systems. This
way of thinking needs to be changed if systems biology is to lead to an understanding of life and to provide the benefits that are expected from it. The emphasis ought
to be on the needs of the system as a whole for understanding the components, not
the converse. (…) The development of biochemistry was driven by reductionism,
with cells separated into their components, which were then separated into smaller components, and then studied in isolation. The reductionist stage was certainly necessary, and 20th century biochemistry could not have achieved the successes
that it did if components had never been studied one at a time. The time has come,
however, to move beyond this, beyond even studying the interactions of the components with one another, because all of them form parts of a whole, and their
whole. As an example, many cases of cooperative feedback inhibition of metabolic
pathways […] cannot be explained solely in terms of the components concerned, but
requires consideration of the whole system, including protein synthesis. (CornishBowden A., & M.L. Cárdenas 2005, 516-519, corsivo nostro)
Esistono diversi meccanismi biologici, per esempio quelli legati allo sviluppo embrionale e alla morfogenesi, che solo in minor misura dipendono
dal DNA genomico, e ciò diversamente da quanto generalmente si pensava fino a non molto tempo fa. Il ruolo più importante lo svolgono infatti
i fenomeni epigenetici quali il rimodellamento e la dinamica della cromatina e l’architettura spaziale e funzionale del cromosoma. Questi meccanismi controllano in parte il modo in cui si realizzano lo sviluppo dell’embrione e l’organizzazione cellulare dell’organismo. Si è ad esempio potuto
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presence in the whole can only be understood by considering the needs of the
121
La biologia oltre il codice genetico, il ruolo di altri processi
nello sviluppo
È chiaro che i geni non sono tutto nella vita, e il codice genetico è peraltro
incapace di spiegare molti processi biologici fondamentali dei sistemi viventi, in particolare il rimodellamento della cromatina e l’organizzazione
spaziale del cromosoma, la dinamica e mobilità del citoscheletro, la comunicazione cellulare, i meccanismi soggiacenti alla formazione delle strutture dell’organismo durante l’embriogenesi. In più, oggi si riconosce il ruolo importante che svolgono certe proprietà non codificate geneticamente
come l’elasticità e deformabilità di certe strutture biologiche ai livelli macromolecolare, cellulare e dell’intero organismo per la regolazione e rigenerazione di certi processi fisiologici. Citiamo due esempi particolarmente significativi: (1) il ruolo motore dell’elasticità di determinate membrane
biologiche nel processo dell’endocitosi; (2) il ruolo di forze e deformazioni
geometriche (si vedano Farge 2003, e Mistelli 2008) di tessuti embrionali
nel processo di regolazione di certi geni dello sviluppo che vengono espressi durante i primi stadi dello sviluppo dell’embrione di Drosophila, in
particolare nel corso della gastrulazione.
Da circa una trentina d’anni si sono individuati i cosiddetti
geni dello sviluppo la cui espressione rivela una sensibilità di tipo
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VII.
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mostrare che in certe piante l’organizzazione e l’evoluzione di una cellula
cambiano in risposta a una o più informazioni, a uno o più processi di tipo
posizionale. In altre parole, molti tipi di cellule (vegetali e animali) sono
sensibili alla (e controllate dalla) posizione spaziale dei gradienti di morfogeni agenti nei tessuti durante lo sviluppo embrionale. Le cellule avrebbero dei “percettori” (oltre che dei “recettori”) capaci di rispondere in modo
differenziato alle diverse concentrazioni del gradiente. È come se certi geni
responsabili dello sviluppo di determinate parti dell’organismo (allo stadio dell’embrione) si attivassero solamente allorché la concentrazione del
morfogeno (o gradiente morfogenetico) è sufficientemente alta. Il grado di
attività del morfogeno lungo la catena di eventi legati a una certa fase dello sviluppo dipende in parte dalla presenza di induttori o promotori che
aumentano il grado di adesione di questi morfogeni a certi siti specifici di
natura trascrizionale e post-trascrizionale. Questo significa che le cellule in
qualche modo “avvertono” la presenza di un morfogeno e rispondono in
modo differenziato, secondo la sua concentrazione. Non è necessario che
sia un induttore che “sente” per un fattore di crescita specifico, potrebbe
anche essere un recettore localizzato sulla superficie della cellula (la membrana cellulare). L’interpretazione dei gradienti morfogenetici è tanto più
convincente se non è lineare, e la loro azione è tanto più incisiva se non
si limita sono a “diffondere”, ma anche a creare una connettività robusta
alla scala globale dell’organismo. Si possono, infatti, usare dei modelli detti
“multi-gradiente” per descrivere certi meccanismi della biologia dello sviluppo. Un modello semplice è stato proposto per spiegare lo sviluppo di
certi motivi di “eyespot” che si formano sulle ali della farfalla. Un primo
gradiente corrisponderebbe alla diffusione lineare di un morfogeno, il secondo gradiente avrebbe a che fare con l’“interpretazione” di questo morfogeno; e lo spettro di sensitività delle cellule coinvolte differirebbe secondo le diverse regioni o i diversi domini morfodinamici dell’ala.
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geometrico-dinamico, invece che genetico. Consideriamo brevemente il
modello dell’embrione di Drosophila, nel quale l’azione dei geni dello
sviluppo è stata ben caratterizzata durante le prime fasi dello sviluppo.
Questo modello comporta due metodi ognuno dei quali richiede una
risposta diversa al problema. Il primo consiste nell’individuare quei geni
dello sviluppo i cui profili di espressione potrebbero subire delle modificazioni importanti in risposta a una deformazione indotta per via esogena, come una torsione (un twist) applicata all’intero embrione. Il
secondo consiste nell’identificare quelle cellule la cui tensione superficiale
potrebbe dipendere specificatamente da certi movimenti morfogenetici endogeni che hanno luogo durante la gastrulazione, i quali sarebbero
capaci di indurre una modulazione meccanica nell’espressione di certi
geni dello sviluppo tra quelli riconosciuti come sensibili dal punto di vista
geometrico-dinamico.
Il significato di tale meccanismo è che la forza meccanico-geometrica, cioè la torsione, applicata sull’embrione della Drosophila, condiziona il modo in cui i suoi geni dello sviluppo si esprimono. È chiaro quindi
che tutto ciò che accade nei processi viventi non è di natura puramente
genetica, e certe proprietà fondamentali delle cellule e degli organismi
sono sensibili a situazioni di tipo geometrico-dinamico. Il che significa che
quelle cellule e quegli organismi possono riorganizzarsi in risposta a questo genere di vincoli spaziali e dinamici. Si tratta ancora di capire se questo
tipo di modello può eventualmente applicarsi ai tessuti e agli organi. Non
è da escludersi che un certo tipo di pressione geometrica accoppiato a uno
stress di natura chimico-ambientale esercitati su tessuti e organi possa giocare un ruolo nella deregolazione dei geni. Comunque sia, questa capacità
che hanno le cellule e gli organismi di adattare le loro funzioni locali e il
loro metabolismo globale ai diversi cambiamenti interni ed esterni costituisce uno degli aspetti fondamentali della plasticità ontogenetica e filogenetica dei sistemi viventi. Generalmente l’adattamento non avviene in
modo passivo né per semplici mutazioni aleatorie, ma piuttosto per cicli
di trasformazioni attive: l’organismo si adatta (o si rinnova) trasformando
dei vincoli e allo stesso tempo liberando delle risorse.
122
Alla luce di quanto detto, si può pensare che il concetto di creatività (che
include le idee di mobilità, azione ed emergenza) sia più appropriato per
descrivere il processo dello sviluppo, di quanto non lo sia la nozione di codice meccanico che ha prevalso sino ad ora, e quella (di natura informatica) di programma a essa direttamente legata, [8] ovvero l’idea che lo sviluppo segue semplicemente un insieme finito [8] Si vedano su questo punto
les riflessioni
di istruzioni (fissate appunto da un programma). Tuttavia, fondamentale
interessanti di H. Atlan nel libro La
esistono valide ragioni per pensare che lo sviluppo onto- fin du «tout génétique» ? Vers de
nouveaux paradigmes en biologie
genetico e filogenetico di un organismo non si riduca in (Paris,
1999). Scrive Atlan: “Il est clair
alcun modo alla “lettura”, decodificazione e implementa- […] que personne n’a, jusqu’à présent,
dans l’ADN cette structure
zione di un insieme finito di regole chimiche e di istruzio- découvert
logique supposée de programme
ni genetiche. Esso appare piuttosto come il risultato di un d’ordinateur. Les séquences codantes
sont traduites en séquences
processo d’interazione e retroazione continua tra il genoti- d’ADN
d’acides aminées par l’intermédiaire
po e il fenotipo (tra fenomeni e mutazioni locali e cambia- du code génétique, mais c’est tout.
ne présente que très peu
menti e contesti globali), e sono al contempo la dinamica e L’ADN
d’éléments de syntaxe, et à notre
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VIII. Creatività e plasticità nei sistemi viventi
IX.
Occorre una nuova teoria della biologia
In fondo si tratta di costruire nuovi metodi e modelli, diciamo pure una
nuova teoria biologica in cui il linguaggio di tipo informazionale (codici,
programmi, computazioni) che ha caratterizzato e ancora caratterizza in
gran parte la biologia molecolare, sia completato da (o tradotto in) un linguaggio sistemico-dinamico (spazio delle fasi, biforcazioni, attrattori, percorsi alternativi) e nel linguaggio della topologia (deformazioni, plasticità,
continuità-discontinuità, genesi di forme). Quanto detto è giustificato essenzialmente dal fatto che il nostro modo tradizionale di rappresentarci i
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l’evoluzione di questa interazione che produce un qualsiasi connaissance pas le moindre élément
de sémantique qui permette d’y voir
organismo vivente.
une structure de langage, même
La generazione ontogenetica di un organismo mul- formelle. Si l’on admet donc que
l’ADN n’est pas nécessairement un
ticellulare individuato attraverso i processi dello sviluppo programme
d’ordinateur, de quoi
embrionale e della morfogenesi si può vedere al contempo peut-il donc s’agir ? Il existe deux
autres possibilités. La première, c’est
più come un processo creativo e una trasformazione qu’il
s’agisse purement et simplement
generativa che come la semplice nozione meccanica di d’une séquence aléatoire. Bien que
les relations entre séquence aléatoire
“copia”-e-“riproduci”; i fenomeni d’auto-organizzazione nel et
programme d’ordinateur ne soient
mondo vivente costituiscono un magnifico esempio da cui pas simples […], je n’examinerai pas
cette hypothèse en détail, tant il paraît
traspare chiaramente questa proprietà straordinaria della difficile
d’admettre que l’ADN ne soit
creatività costantemente all’opera nelle strutture e forme qu’une séquence aléatoire, puisque
modifications de cette séquence
biologiche. La formazione di nuove strutture durante lo des
entraînent des conséquences
sviluppo (differenziamento cellulare, formazione di tes- importantes sur le développement ou
le fonctionnement des organismes
suti, genesi degli organi) non può essere spiegato unica- concernés.
L’autre possibilité est que
mente mediante il codice genetico e i meccanismi mole- l’ADN soit un ensemble de données
colari. Si ha bisogno di concetti esplicativi più potenti e plutôt qu’un programme” (23-24).
profondi rispetto alle “immagini” del codice e della macchina. Con queste ultime si accede tutt’al più alla sintassi del funzionamento di un organismo vivente, cioè alle regole di base e ai meccanismi
locali, ma questa sintassi spiega poco o niente senza la semantica dell’azione di queste regole, delle interazioni e dei processi, ossia delle diverse
“interpretazioni” biologiche e dei contesti globali.
Ad esempio, i principi della plasticità topologica (o flessibilità conformazionale) e dell’organizzazione dinamica permettono (almeno in
parte) di comprendere il modo in cui le strutture sono generate grazie a
processi di rimodellamento funzionalmente canalizzati, come ciò effettivamente accade nel caso del ripiegamento e arrotolamento della cromatina su sé stessa o della continua riorganizzazione del cromosoma durante
la meiosi. Delle strutture possono essere generate anche grazie al principio di auto-organizzazione attraverso l’azione di fattori dinamici intrinseci quali parametri cinetici e reazioni biochimiche. Inoltre, può contribuire alla formazione di nuove strutture l’influenza di fattori ambientali
esterni di tipo chimico, energetico, termodinamico, ecc. Un’altra situazione interessante è il controllo dinamico che esercita l’“informazione
posizionale” (flusso d’informazione spazialmente dipendente) sulle prime
fasi dello sviluppo dell’embrione di molte specie animali, nella fattispecie su quello di Drosophila. Infatti, come si è già accennato, dei “gradienti
morfogeni” contribuiscono alla formazione di pattern sul corpo dell’organismo tramite la determinazione dell’“informazione posizionale” nei
campi morfogenetici.
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sistemi, il quale fa uso di insiemi fissati di stati sequenziali e di regole meccaniche, appartiene ad una classe estremamente limitata di sistemi a cui si
può dare il nome di sistemi statici semplici o (più concisamente) meccanismi. È ormai chiaro, tuttavia, che i sistemi biologici non appartengono
a tale classe e perciò dovrebbero essere chiamati sistemi complessi o dinamici. I sistemi semplici sono tutt’al più delle approssimazioni dei sistemi
complessi.
In biologia oggi siamo dinanzi a un cambiamento profondo di
paradigma, ovvero al passaggio da un punto di vista secondo il quale la
sequenza del DNA è il depositario principale (se non l’unico) dell’informazione biologica a una visione molto più complessa secondo la quale l’informazione biologica si origina e si organizza a più scale (da quella della molecola singola a quella della biosfera) e su livelli differenti, inclusi i fenomeni
epigenetici e la regolazione proteica, l’organizzazione e comunicazione cellulare, le proprietà locali e globali delle forme degli organismi e i loro cambiamenti all’interno di uno o più ecosistemi. In questa visione si mette
l’accento sul fatto che le relazioni tra i diversi componenti di una struttura biologica sono molto più importanti di ogni singolo componente considerato indipendentemente dagli altri. Di conseguenza, lo sviluppo di un
approccio integrativo e sistemico nello studio degli esseri viventi appare
necessario se si vuole capire il ruolo e il significato delle interazioni, delle
proprietà emergenti e dei comportamenti globali delle forme viventi.
I concetti di regolazione e d’organizzazione sono diventati estremamente importanti per capire molti processi biologici fondamentali.
Gli stessi eventi genetici all’interno della cellula, quali la replicazione, la
trascrizione, la traduzione, la ricombinazione e la riparazione del DNA,
sono resi possibili dall’azione di specifici enzimi regolatori i quali possono
modificare e adattare la conformazione topologica del DNA, nello spazio
e nel tempo, a quegli eventi biologici fondamentali. Le diverse forme che
il DNA e la struttura cromatinica possono acquisire durante un ciclo vitale
sono alla base stessa dell’organizzazione del cromosoma e della sua capacità di compattarsi all’interno del nucleo. Esistono diverse altre famiglie di
proteine regolatrici che orchestrano i processi trascrizionali e post-trascrizionali durante l’embriogenesi e la morfogenesi.
Infine, è importante sottolineare che l’ontogenesi dovrebbe essere
concepita nei termini della storia interna delle trasformazioni strutturali
indotte da determinati principi di organizzazione dinamica che regolano e
orientano lo sviluppo di un organismo pluricellulare in funzione dei vincoli interni e dei condizionamenti esterni. Il che significa che l’ontogenesi
di un sistema vivente corrisponde alla storia della sua evoluzione, nonché alla possibilità che si perpetuino le sue capacità ad auto-organizzarsi
per permettere il maggior numero di possibili variazioni fenotipiche viabili. Questo porta a pensare che la plasticità conformazionale e l’organizzazione funzionale siano due proprietà essenziali e interdipendenti degli
organismi viventi che gli consentono di acquisire un carattere morfologico
e funzionale, un’esistenza individuale e collettiva.
Il problema della generazione, dell’emergenza e del divenire delle
forme è un aspetto fondamentale delle ricerche in biologia. Le forme
viventi non sono statiche ma dinamiche, nel senso che esse emergono da
più insiemi di interazioni funzionali tra diversi componenti, siano essi
molecole, cellule, organi, ecc. Queste reti di interazioni influenzano in
I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato
Luciano Boi
125
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 105 — 126
modo importante, attraverso la trasmissione e diffusione di diversi contenuti informazionali e comunicazionali, il comportamento delle diverse
strutture biologiche e contribuiscono a che si costituiscano i differenti
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L’uso dei sistemi
III.
Retired academic, consultant, and
researcher; he achieved a PhD in
mathematical physics in 1968; for the
last 35 years his research has focused
on systems thinking and cybernetics,
and its underpinning philosophy, and
in particular its application to learning,
governing and quantum theory.
robin.asby@gmail.com
Most writing on systems and cybernetics is within the
scientific frame of modelling in terms of objects
characterised by attributes. There are two clear exceptions,
Stafford Beer in the construction of the Viable System
Model, and Peter Checkland in the construction of Soft
Systems Methodology. These two authors frame their
approach in a transformation process, the purpose of
which lies in the eye of the beholder/observer defining the
process, and characterised by its relationship to its context.
I start from the Heraclitian notion that in the world in which
we find ourselves all is flux and change. Using the frame
developed by Beer and Checkland, I propose that this
process view is fundamental to developing models and
understanding of the stability we find in phenomena in our
world. I explore the necessary structures to achieve
coherence and adaptability and show that the learning
process is essential. I designate this approach ‘systemic
process thinking’, and show that it can be considered a
distinct paradigm which fits the Heraclitian view of a
dynamic world. It is necessarily constructivist, improves on
Whitehead’s Process Philosophy, and has considerable
modelling power. I also show how the Western WEIRD
approach has been derived from this.
— SYSTEMS THINKING
— CYBERNETICS
— PROCESS PHILOSOPHY
— WEIRD THINKING
On the Framing of Systems and Cybernetic Models
Robin Asby
Robin Asby
131
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 131 — 146
On the Framing of Systems and Cybernetic Models
The purpose of framing is to choose the way in which we think about
something in order that the explanation or story we tell is done in a way
which conveys our idea effectively. An appropriate frame simplifies our
idea so that the model we are describing is more accessible.
Congruence between frame and the territory I perceive simplifies
model building and gives much better insight and understanding. For example, when exploring maps in an atlas, you will know to be careful in
the way in which you interpret a map of the world. To map the world,
the spherical earth must be flattened so that it may be drawn on a page.
The two dimensional framing putting the map on a page inevitably distorts the relationships between different parts of the territory making calculations of distances problematic. Using coordinates appropriate to a flat
page to describe geometric shapes on the curved surface of a sphere can be
done, but leads to complexity and difficulties in understanding. Whereas
putting the map on a globe and using latitude and longitude or spherical
coordinates as the basis for the modelling makes the distance calculations
as simple as possible. The shared symmetry, between the frame chosen
and the situation being modelled simplifies the understanding and the
calculations. In many situations under scrutiny symmetry between the
base frame and the situation under investigation plays a guiding role in
choosing an appropriate modelling basis.
Two Ways of Thinking
On the Framing of Systems and Cybernetic Models
Robin Asby
Framing
132
Aristotle made the distinction between two different ways of thinking illustrated by the following description of a house.
[...] as is the case with a house; the rationale will be something like ‘A covering preventative of destruction by wind, rain and sun’. But while one philosopher will
say that a house is composed of stones, bricks, and beams, another will say that it
is the form in these things for the given purposes. Who then is the natural philosopher among these? Is he the one who defines a house in terms of its matter and
knows nothing of its rationale, or the one who defines it only in terms of its rationale? Or is he the one who defines it on the basis of both? (Aristotle, De Anima
The foundation of Western science and its underlying philosophy, the
starting point of which is often attributed to Parmenides (c515-450BCE),
is based upon the first of these ways of thinking; that is that the world
out there is a world of objects defined by their attributes. The developments in the 17th century in science and philosophy established the dominance of this approach (Deely 2001, Diamond 2013). The development of
calculus by Newton and Leibniz overcame the problem of modelling motion in Parmenides’ static conception, so that this approach became the
accepted way of thinking about thinking. Henrich et al. (2010) describe
this approach as WEIRD thinking (Western, Educated, Industrialised,
Rich, and Democratic) and point out that this way of thinking is not
only of recent origin but a way of thinking still confined to a relatively
small part of the world.
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 131 — 146
trans. by Lawson-Tancred 1986, 129)
This Western way of approach dominates and inhibits the Western way
of thinking. Because we focus on the object, any relationships that the
object has to its environment move into the background. Relationships
are not forefront in this way of thinking, and therefore we have seen
ourselves as separate and apart from the natural world. We are now beginning to realise that this way of thinking may have already guaranteed
Homo sapiens’s own early evolutionary extinction.
WEIRD thinking leads to the belief in a ‘real world’ which can be
termed naïve or direct realism. The belief in this ‘real world’ gave rise to
the idea of knowledge detached and independent of the knower. Thus
‘objective’ has in common usage come to be an adjective in the description of a situation, or reportage which carries the meaning that this is
the ‘correct’ or ‘real’ view that all should believe, independent of any
particular observer. As a result of the success of the WEIRD approach
originally in physics, other disciplines, including biology, psychology
and economics, also adopted this worldview. From there this worldview
became dominant in the Western world (Deely 2001). WEIRD thinking
is an approach that informs us directly of things and their attributes,
assumed to be a description of the thing as it is, rather than what we
would perceive in the particular circumstances in which we were looking. WEIRD thinking does account for the geometrical sense of perspective perfectly adequately in that we understand that objects that
have spatial extent can appear in various forms due to distance or their
3-dimensional shape, but there is much more to the concept of perspective as I will describe.
In contradistinction to the WEIRD approach my starting point is
the alternative that Aristotle describes in which purpose is central. It is
therefore a teleological approach. The purposeful rationale of Aristotle’s
house perhaps can be better described in the form of a process which
transforms a constantly changing variable environment on the outside
to a calm interior conducive to comfortable living. Unfortunately, most
of Heraclitus’ writing is lost but we do know from the references that
have survived that the writing of Heraclitus (c 540-480BCE) (Khan 1979)
was considered very important in his own and later times. His underpinning philosophy has been interpreted as ‘all is flux and change’. We
must note that whilst the environments of all living forms change, living forms survive and through their lifetimes remain identifiably themselves. However, after the ancient Greek philosophers it wasn’t until the
1878 publication of Claude Bernard’s Les Phénomènes de la Vie that it
was noted that that it was remarkable that in a world of constant change
the internal environment of animals remained constant. Walter Canon
in his 1932 book The Wisdom of the Body coined the term ‘homeostasis’
for this phenomenon. In an environment of flux and change the question that needs to be answered then is: - how is this stability achieved?
The answer to this question lies in the science of cybernetics defined by
Norbert Wiener as “the science of control in the animal and the machine” (Wiener 1948). The science of cybernetics gave rise to the more
On the Framing of Systems and Cybernetic Models
Robin Asby
focus on objects’ attributes, and a preference for using categorical rules to explain
and predict behaviour. (Henrich et al. 2010)
133
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 131 — 146
Analytic thought involves a detachment of objects from contexts, a tendency to
So where does the idea that Systems in general have a purpose come from?
On the Framing of Systems and Cybernetic Models
Robin Asby
134
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 131 — 146
general discipline of Systems Thinking, but in the beginning it all remained within the extant WEIRD paradigm. However, in the late 1970’s
and early 1980’s two authors, Peter Checkland and Stafford Beer, framed
their work differently.
Peter Checkland (1981) had come up against the weakness of the extant systemic approaches based within an object frame while exploring
the use of Systems Thinking to understand and manage organisational
problems. He found that standard techniques failed and as a result developed the approach which he called Soft Systems Methodology (SSM). This
approach takes the key step into the teleological process world by setting a
Root Definition as the starting point for building a systemic model which
is a process model. The Root Definition defines the relationship between
the model to be constructed using the systemic frame and the environment of this process. Thus the model to be constructed has the form of a
purposeful input (from the process environment) → process → output (to
the process environment) structure. I will use the word ‘purpose’ rather
than Root Definition to define this co-evolutionary relationship between
a system and its environment following Beer (Beer 1979; 1985). However, it
should be noted that in common usage the word ‘purpose’ does not generally mean the whole of the relationship of the system to its environment
but usually relates only to one major output of the system concerned. For
example, the purpose of a nuclear power plant is usually thought of as
the production of electricity, one output, but with no reference to waste
which we still cannot safely deal with, another output, nor indeed any
reference to the necessary inputs.
Soft Systems Methodology is a learning technique based on a process frame which sets out to explicitly take into account the different perspectives of those involved in the situation being modelled. It does this by
encouraging the various participants to define their own purpose leading
to their own subsequent system models. If no agreement can be reached
on a single purpose, the SSM process thereafter encourages the participants to seek agreement on possible action to be taken, without necessarily moving from their own systemic modelling of the situation. Hence the
purpose of SSM is to move from a position where participants in a complex problem situation have different perspectives on that situation and
understand the situation differently, to one where problem-solving action is agreed, despite those multiple perspectives.
Stafford Beer spent time in India during the Second World War, and
during that time made a study of Eastern philosophy to add to his previous study of Western philosophy. This experience gave him a perspective
unrestrained by WEIRD thinking and set him on a unique path over subsequent years. The transition from an object base to a process base, synthesising his Western and Eastern experiences can be traced through his
writings in the development of the Viable System Model. This development evolves from Cybernetics and Management (1959), written from a
Western scientific perspective, to Heart of Enterprise (1979) which starts
with a clear statement of the subjective process nature of process modelling i.e. using the frame of a purposeful input → process → output structure. At the outset Beer says:-
It is you
the observer of the system
who recognises its purpose. (Beer 1979, 8)
Beer formulated an approach to process philosophy including the role
of cybernetic control. His approach aligns the basic building block, the
purposeful input → process → output, to the process phenomena under
consideration.
These two approaches by Beer and Checkland, to the problem of
formulating systemic models in a complex situation, are now two well-established approaches with extensive literatures of use. Their development
and increasing use in the application of Systems Thinking illustrates the
move from what I will designate as systemic object thinking based in the
WEIRD frame; to the understanding that the most powerful modelling of
an interconnected world is obtained through what I will designate as systemic process thinking, an approach based in a process frame.
On the Framing of Systems and Cybernetic Models
Robin Asby
IT COMES FROM YOU!
The Systemic Process Approach
The philosophical approach I am taking to understanding ‘understanding’ is the Pragmatist philosophy originated by Charles Sanders Peirce.
William James states that Pierce’s Pragmatist philosophy proposes that
our beliefs are “rules for action”, and to develop a thought’s meaning it
is sufficient to “determine what conduct it was fitted to produce; that
conduct is for us its sole significance” (James 1907, in Thayer 1982, 210).
Whilst this approach was originated by Peirce, it was subsequently developed by William James and John Dewey. James further says that:
135
There can be no difference anywhere that doesn’t make a difference elsewhere – no
difference in abstract truth that doesn’t express itself in a difference in concrete
fact and in conduct consequent upon that fact, imposed on somebody, somehow,
somewhere, and somewhen. The whole function of philosophy ought to be to
find out what definite difference it will make to you and me, at definite instances of our life, if this world formula or that world formula be the true one. (James
Both the psychology and the systems thinking literature propose the concept of mental models (e.g. Johnson-Laird 1983, Senge 1990). A mental
model is a structure within a brain and nervous system that recognises input signals and if relevant to the animal’s immediate situation transforms
the input signals to action. Modern approaches to neuroscience also use
this concept, for example Antonio Damasio (2006), describes mental images and the way in which they are held, formed and used within the vast
structured neuronal network of a brain. A mental model is, therefore, a
structure which is a purposeful system; it receives inputs and transforms
those inputs by some process to an output or outputs. It can be a response
system involving the whole living entity, a tiny part of a nervous system multiply-coupled to other systems, or anything in between. I propose that the purpose of a mental model in any living form is to enable
the prediction of the state and configuration of the environment in the
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 131 — 146
in Thayer 1982, 212)
On the Framing of Systems and Cybernetic Models
Robin Asby
future relevant to the living form concerned, given the state and configuration of the environment now, so that the living entity can by some
means enhance its survivability.
In this systemic process approach, mental models are exactly rules for action and it is the resulting conduct that is the sole significance (James above). Pragmatism as defined by Peirce, James and Dewey is
therefore a very practical philosophy, which fits the systemic process approach to understanding, namely that the processes of evolutionary learning and individual learning construct understanding and response to environmental circumstance. What is important is that the more precise
thinking given by a systemic process approach really does make a difference in action. As James argues:
...the tangible fact at the root of all our thought-distinctions, however subtle, is
that there is no one of them so fine as to consist in anything but a possible difference of practice. (James in Thayer 1982, 210)
But from this systemic perspective there is no “true one” as James has it in
the previous quotation. Each of us has a unique set of lifetime experiences from which we may learn and, therefore, a unique set of models, and
in any situation there are mental models which are more or less useful.
Ernst Von Glasersfeld (1995) developed Radical Constructivism, a
modern version of this pragmatic approach to learning and understanding which he characterises as follows:
136
Radical constructivism is uninhibitedly instrumentalist. It replaces the notion of
‘truth’ (as true representation of an independent reality) with the notion of ‘viability’ within the subject’s experiential world. Consequentially it refuses all metaphysical commitments and claims to be no more than one possible model of thinking about the only world we can come to know, the world we construct as living
Radical Constructivism aligns with Pragmatism in its instrumentalist approach, but changes the understanding of ‘truth’ to experiential ‘viability’. This use of the word ‘viability’ matches exactly that of Beer’s use in
the development and use of the Viable System Model. A mental model
is viable if it stands the test of experience. I interpret what James means
by “world formula” as the set of mental models in use at any one time,
and “true one” as the viable model in the sense defined by Von Glasersfeld.
Hence, I conclude that with the foundation of Pragmatism, originating
with Peirce, through to von Glasersfeld’s Radical Constructivism there
is a coherent logical foundation for systemic process thinking, which replaces the reliance on ‘reality’ in the underpinning of WEIRD thinking.
Importantly within this way of thinking about thinking it must be remembered that each individual is unique and understands the world in
a unique way. They have a unique perspective on any situation the evidence for which comes from Checkland’s experience of the failure of the
WEIRD approach in complex management situations.
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 131 — 146
subjects. (Glasersfeld 1995, 22)
The frame within which systemic process models are constructed involves
the following precepts:
1.
2.
3.
4.
5.
Models are constructed from a particular perspective, that of
the observer/definer of the model. Models are therefore always
subjective.
The purpose of a system process model is defined by the relationship of the process to its environment as defined by the
observer/ definer.
Systems can be analysed into subsystems, and further, can be
envisaged as a subunit of a super-system. Hence system process models are inherently fractal in nature reflecting the fractal nature of natural ecological systems. The idea that modelling,
starting from a systemic process base, necessarily leads to a fractal structure was first developed by Beer in his series of books
developing the Viable System Model (VSM). This necessary layered or fractal structure of any organisation achieving viability
came from a synthesis of logic in the management of an organisation and the structure of the human nervous system (Beer
1972; 1979; 1985).
Systems form an interconnected network of processes.
Systems can also be considered a subunit of a schema-system.
Commonalities of purpose can be recognised across different
exemplifications of a system type. For example, Plato’s ideal bed
(Plato, trans. by Lee, 1987, 362) is such a schema-system because
a bed can be recognised across different exemplifications of the
same relationship situation, due to their common purpose. For
example, a straw mat, or four poster bed, and other objects in
the same relationship situation which all share the purpose – to
provide a place to sleep. In the same way Beer’s Viable System
Model is proposed as such a schema system for a viable human
organisation in that any viable human organisation will exhibit
that basic underlying organisational pattern.
On the Framing of Systems and Cybernetic Models
Robin Asby
The Basic Systemic Process Thinking Frame
137
The focus on process as the centre of the systemic process definition input → process → output, and the systemic process models being interconnected networks of processes, brings the concept of process to the fore.
The most important contributor to an understanding of process and its associated philosophy was Alfred North Whitehead (Whitehead 1978). The
first publication of Process and Reality in 1929 preceded the development
of Systems Thinking. Whitehead’s formulation of his Process Philosophy
relates directly to the systemic process formulation (Asby 2021, 134).
Whitehead’s central idea is an ‘actual occasion’, that is a situation point in
time where a person perceives the need to respond. In Whitehead’s formulation an ‘actual occasion’ comes into being by drawing on, in his language ‘prehending’ past actual occasions in a process of ‘concrescence’; the
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 131 — 146
Whitehead’s Process Philosophy
On the Framing of Systems and Cybernetic Models
Robin Asby
many past actual occasions coming together to form the one present actual occasion. In Whitehead’s nomenclature the ‘this’ and ‘that’ of ‘subject’
and ‘object’ now refer to the current actual occasion and the past actual
occasions. When the subject actual occasion B prehends an object actual occasion A, it imposes its perspective. As a result, this process draws
from A only the aligned elements of data, and eliminates those elements
of A which are not aligned to B’s perspective. Whitehead refers to this
as the carrying over of feelings from A to B. The use of the word ‘feeling’
extends the usual usage but carries the same meaning e.g. a feeling of anger might be carried forward from one occasion to another. Whitehead’s
terms, actual occasion, subject, object, feeling, are evidence of an object-based approach which makes the language and formulation of the
ideas at odds with the underlying ideas he wishes to convey. Donald W.
Sherburne (1966) describes Whitehead’s approach as an ‘atomistic system’
referring back to the ancient Greek Philosopher Democritus, the originator of the idea of a fundamental particle of matter which is in concept an
object. However, the systemic approach developed by Beer, which is the
foundation of Beer’s and Checkland’s approach, conceptually aligns with
the processes that the modelling is seeking to represent. In this systemic
approach the relationships between purposeful systems, the inputs and
outputs, are conceptualised as dynamic flows, flows of information and/
or of material. Whitehead’s formulation can be related to this systemic
process approach by considering snapshots taken at different times corresponding to the ‘actual occasions; the evolution, the ‘prehending’ taking
place between snapshots. From a systemic point of view Whitehead’s formulation is an object-based formulation in the traditional scientific way,
and secondly Whitehead avoids any hint of teleology as would be expected from in a traditional scientific argument even though clearly processes
are teleological (Asby 2021).
138
Holding steady in a changing environment is achieved in all circumstances through exemplifications of the basic control model. In the late
1940s and early 1950s it was recognised that the mathematical modelling
of control systems in different disciplines had produced the same understanding, and a series of conferences, the Macy Conferences (Foerster
editor 1951) were held to explore these issues. It was recognised that the
control model is a schema system which can be recognised in all such situations. For a cybernetic frame I therefore add the following precepts
to those above.
1.
2.
The basic control model of cybernetics is defined as consisting of
a system to be controlled; a sensor on the system to detect a variable to be controlled; a comparator to compare the actual value
detected by the sensor with a required value input from outside, and an actuator to operate on the system to cause return
to the required value in case of deviation.
Control is subject to Ashby’s Law of Requisite Variety (Ashby
1956). W. Ross Ashby was a British psychiatrist who first demonstrated the importance of variety in understanding control. The
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 131 — 146
The Additional Cybernetic Frame
4.
On the Framing of Systems and Cybernetic Models
Robin Asby
139
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 131 — 146
3.
number of possible states of a system is what is defined as the
variety of the system. Variety here has a technical systemic
meaning which fortunately more or less coincides with its usual
meaning. He showed that, in order to achieve sustainable control of a system, the variety of control actions by a controller
must be at least equal to the variety of the disturbances which
the system could be subject to. This is the Law of Requisite
Variety. For example, the state of a motor vehicle travelling
along a road is described by its lateral position on the road and
its speed along the road, so we need at least control systems to
manage these two variables – the person driving is the comparator, and needs the steering mechanism, and the accelerator-brake combination to arrive safely at their destination.
Control is subject to the Conant-Ashby Theorem (Conant &
Ashby 1970). The Conant-Ashby Theorem follows from the Law
of Requisite Variety and states that the quality of control of a
situation depends upon the quality of the model built into the
controller. For example, in slippery road conditions the number of potential states of the car system increases: normal driving does not include skids. Understanding how a car behaves in
those conditions, having a superior, higher variety model of car
behaviour and how to control it, makes for a more skilled and
safer driver. If the variety of potential command, i.e. the variety of control actions of the control system, is inadequate, control will not be maintained.
Control situations are inherently complex because they involve
parts of a system relating to each other in a fractal structure.
Relating means communications taking place between the parts
of a system. The communication channels are two-way feedback structures. Beer, from his practical management experience came to the conclusion that it is the way in which a human
organisation relates to its environment and the way in which
the parts of any organisation relate to each other that determines how that organisation evolves through time.
A control system is subject to the Suboptimisation Theorem (Katz
and Kahn in Systems Thinking, Emory ed.). The Sub-optimisation
Theorem states that optimisation of a whole system cannot be
achieved by separately optimising the parts. In any system there
will always be a requirement for restrictions on the freedom of
action of the sub-units in order to maintain cohesion of the whole.
In other words, there must be feedback control loops whose purpose is to restrict the freedom of action of sub-units so that the
coherence of the whole system can be maintained.
The fractal nature of an organisational structure requires that
control systems populate the model in the same fractal way. It
is from these underlying ideas that Beer developed his Viable
System Model as a model of what is necessary and sufficient
for a human organisation to be capable of adapting to a changing environment. (Asby 2021) has extended the VSM approach
to model how animals act, react, and adapt to a changing
environment.
The brain and nervous system processes incoming signals from the environment and produces responses to those incoming signals. William
James was one of the first to describe, in a way that is coherent with modern neuroscience the ability of the brain and nervous system to change,
due to both maturation and experience. He also identified the systemic
feedback nature of the change process, the basis of learning. This feedback
loop operates between a living species of animal and its environment: the
species and the environment coevolve. Neuroscientific research has shown
that this feedback loop is essential for normal brain development in children (Denes 2016). There are windows in the maturation process of a developing child wherein interaction with the environment must take place
for normal brain development to progress. Once the window closes, brain
plasticity reduces and full competence is not achieved.
The base unit of the brain and nervous system, the neuron, is a system: it receives inputs from its environment and transforms those inputs
into outputs to its environment, just like any other biological cell. A neuron’s purpose is to receive electrical inputs from a variety of other neurons, and if those inputs reach a threshold level, fire to distribute electrical output to a variety of other neurons. Neurons can be connected to up
to 10,000 other neurons and can transmit a signal over a considerable distance within the nervous system and brain of an animal. Neurons form a
complex interconnected web of systems, so that the electrical signals flow
through this web of interconnected cells. This is exactly as I require for
systemic process modelling. The structure of any neuronal network determines the relationship between the inputs to that network and the outputs from that network; models are encoded in the collective action of
neurons.
On the Framing of Systems and Cybernetic Models
Robin Asby
The Process Modelling of Learning
140
I once wanted to increase my ability to name the particular species of the
small birds that I observed. This meant that I would need to refine my
ability for differentiating between species, in what were for me very similar experiences. I needed to be able to differentiate between, say, observing a robin and a sparrow, recognising the various differences in appearance and behaviour. With practice I was able to do that. My model of a
small bird was differentiated into two separate models one each for the
robin and the sparrow. In any situation where control is necessary, developing an ability to differentiate between similar situations, in this way,
increases the variety of control responses exactly as required by Ashby’s
Law. Thus being able to differentiate out two or more response sub-systems from an existing response system is perhaps the simplest way to extend response patterns to increase variety of potential command.
The second way of extending possible response patterns is to develop the ability to respond to new challenges - those that have never been
met before. A living entity in a changing environment will naturally need
to modify its responses as its environment changes, but will also need to
cope with challenges that it has not encountered before. This second ability is a more powerful way of increasing the variety of possible control
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 131 — 146
Recognising Difference and Similarity
On the Framing of Systems and Cybernetic Models
Robin Asby
responses, and significantly increasing the variety of potential command.
At any one time a brain and nervous system will contain sets of mental models for use in different situations. These sets of models are not
necessarily connected. I suspect we have all experienced meeting someone out of their usual context and finding it difficult to identify them.
Recognising the context we are able to choose response models appropriate to that environmental circumstance. I therefore propose that a brain
and nervous system has the ability to review and compare models from
different circumstances and extract from that comparison what is common. That new common pattern of recognition and response can then be
used to evaluate and react to new experiences that have commonalities of
pattern with the original models. Piaget (1954) describes a number of examples of young children exhibiting multiple models prior to synthesis,
for example:
At 1 [year]; 3 [months and], (9) [days] Lucienne is in the garden with her mother.
Then I arrive; she sees me come, smiles at me, therefore obviously recognises me (I
am at a distance of about 1 metre 50). Her mother then asks her: “Where is papa?”
Curiously enough, Lucienne immediately turns toward the window of my office
where she is accustomed to seeing me and points in that direction. A moment later
we repeat the experiment; she has just seen me 1 metre away from her, yet, when
her mother pronounces my name, Lucienne again turns toward my office.
Here it may be clearly seen that ……. I give rise to two distinct behaviour patterns
Piaget describes a process of learning derived from his examples that
aligns with the learning process implied by the modelling I describe here.
This second way of increasing the variety of potential command can be envisaged as the construction of a schema-system from two or more existing
systems. The development of a schema-system in this way enables the development of new sub-systems and the concomitant increase in variety of
potential command using the first method described above. Being able to
recognise a generic pattern is a powerful aid to learning, possibly even the
root of creativity – being able to synthesise different experiences to create something new (Koestler 1970). To be creative I need to seek different
experiences in new circumstances, and new contexts; my brain will take
care of the rest.
The two learning processes taken together form a simple but powerful learning mechanism, which increases the range and accuracy of recognition and response and permits the interpolation of new levels within existing recognition and response systems. These two learning abilities,
recognising difference and recognising similarity, are rather simple to describe in these systemic terms. In the first case I am developing the ability to differentiate between two similar processes where a singular recognition and response system is refined into two or more sub-systems. In
the second case, I identify a schema common to two different recognition and response systems and then use that schema to guide reaction to
a new situation. A schema-system once developed from two systems, can
give rise to new sub-systems using the first learning process. Both these
possibilities increase the variety of responses available to environmental
141
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not synthesised……: “papa at his window” and “papa in the garden” (Piaget 1954, 58)
On the Framing of Systems and Cybernetic Models
Robin Asby
disturbance and therefore according to the Law of Requisite Variety increase the chance of survival.
These two learning processes, recognising difference and recognising
similarity, can be designated Open Learning and Constrained Learning.
The existence of a new schema-system will open new possibilities. On the
other hand, the development of sub-systems to an existing system will
be constrained to possibilities of recognition and action already experienced but now refined. George Lakoff (2008) proposes that ‘conservative
thought’ is framed in a hierarchy of authority. Anyone is free to act as
long as they act within the rules laid down. Clearly, within such a system
all learning is constrained. Accepting unquestioningly a particular frame
allows only the possibility of elaborating response sub-systems within that
frame; constrained learning. Lakoff proposes that ‘progressive thought’ is
built on caring and empathy together with the responsibility and strength
to act on that. Having empathy entails not requiring conformance within a particular frame but being open to learning from others and their
way of living. Within a framework of protection and empowerment people can come together to interact with each other despite their differences. If they do this they will, through comparing and contrasting their
own ways of living with other ways of living, learn of the commonalities
through the process of open learning. Further support for this model of
learning comes from the work of William Perry (1999) which describes in
general terms how a mind develops principally using open learning as described above but in some cases only developing to a point beyond which
embracing the uncertainty implied by the complexity of that person’ environment seems overwhelming, and there is a reversion to constrained
learning.
142
The Relationship Between the Object Frame
and the Process Frame
The foundation of the systemic process modelling approach defines a
model as a system that produces a particular output from a given input
in a brain and nervous system. This aligns with the holistic reasoning of
Henrich et al. (2010):
Holistic thought involves an orientation to the context or field as a whole, includence for explaining and predicting events on the basis of such relationships. (73)
The idea of a ‘system’ hides complexity. The same object, a hospital, a
railway or a company organisation, can be modelled in different systemic ways depending upon the purpose allocated by the modeller. We each
construct our own world from our own personal experiences. Each of us
has, as a result of our own unique set of past experiences, a mindset of
mental models from which we construct our own perspective on any situation we encounter. This means that the same pattern of signals will be
perceived differently by different people; each will perceive and interpret
that pattern according to their particular mindset. Each will construct
models of the same object as a system from their mindset which reflects
their perspective. An accountant designing a hospital with the purpose of
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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ing attention to relationships between a focal object and the field, and a prefer-
On the Framing of Systems and Cybernetic Models
Robin Asby
143
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minimising costs will design that hospital rather differently from a doctor designing that hospital with the purpose of providing the best patient
experience. In these two cases the hospital’s relationship to its community will not be the same. This is not to suggest that each of these people is
unable to embrace the other perspective through learning, but that we are
dependent on the mindset we have in the moment.
The important understanding gained is that if I view something
for the first time, my eyes receive signals from the scene I observe. My
brain singles out a section of that scene because it perceives a boundary. Light is scattered by something in my visual field which appears as a
coherent whole. Light falls on what we term an object, and is scattered
by that object to my eyes. What I see is a system; light, the input, is scattered, the process, and my eyes receive the output of the scattering process. Subsequently if I change my perspective to this something I see for
the first time, the scattering produces a different image but my brain will
automatically synthesise the perceptions from these observations using
open learning as described above. I would be developing a schema-system
from the synthesis of the commonalities of my different observations. If
I go on to take more observations, then all the time I am enhancing my
schema-system model. As Piaget (1954) describes, this normally happens
naturally, early in life, when an infant starts to move about, changing its
perspective on the world it finds itself in.
When something becomes very familiar from those many observations, in the end I forget that each time I view that thing, I do it from a
particular position. I make a particular observation from a particular perspective which has a particular relationship to whatever it is that I am observing. But it is that single step, the single observation, which is fundamental – my ‘object’ model is built from many such single steps. Once my
brain has built that schema-system model, it recognises the object, very
quickly from the pattern of scattered light reaching my eyes from any observational perspective.
The use of the word perspective here denotes viewing from a particular spatial point: the geometric interpretation of the word perspective.
For each position I stand in, for each perspective I take, the pattern of reflected light reaching my eyes is different. It is my brain which then over
time, using open learning, synthesises these different patterns to form the
schema-system model. The schema-system model and those many relationships are telescoped into no relationship at all in the abstract. But the
model in my head is still a schema-system model ready for use when that
object appears in my visual field. The processes of synthesis of different
perspectives into an object model honed by evolution works well in perceiving and reacting to events in the natural world, but when we come
to complex situations, for example understanding a functioning hospital,
with variety beyond our capacity to span, we are misled by our assumption of object. We are each limited and encased in our own limited ‘bell
jar’ of experience (Plath 1966). But if we are open to learning, those limits
expand as Perry describes.
Driven by the enormous success of Western thinking as a foundation
for scientific advance, philosophical attempts have been made to explain
holistic approaches in terms of WEIRD thinking – e.g. Nagel (1961). Nagel
defined four types of explanation which he labelled 1) The deductive model; 2) probabilistic explanations; 3) functional or teleological explanations;
4) genetic explanations. Western thinking and, in particular, Western scientific thinking is based firmly within the first and second of these and has
either rejected the last two as invalid or, with Nagel, attempts to explain
them as derived from the first two. I turn that argument on its head and
explain object thinking in terms of systemic process thinking.
There are vital differences between systems constructed with different purposes in mind, and as Beer (1966) notes, discussions between politicians with different perspectives find it very difficult to reach agreement.
Framing the world in terms of objects will result in a rather simplistic
world view compared to one built on being aware that in complex situations a multiplicity of different possibilities exists. Being unaware that
different starting perspectives assume without recognition different purposes in constructing a view leads to much misunderstanding. Evolution
has equipped Homo sapiens with a more sophisticated brain and nervous
system than other mammals, but it evolved in a context of small hunter
gatherer tribes. Whilst there were differences in aspects of culture across
the world, those differences were seldom encountered, and lifestyles had
much in common. Technology has massively increased our ability to communicate across both time and space but also the variety of life experiences. A city banker has little life experience in common with a migrant
agricultural worker. We assume that a communication once sent will be
understood as we intended. But that is hardly ever the case. In hindsight it
is not unexpected that the primary and ‘natural’ systemic process way of
thinking is that practised throughout history and most of the world. And
also, as might be expected, the Western way of thinking has arisen as a sophistication which enables flexibility but we pay a price by losing precision
and losing sight of the dynamic interconnectedness of the world around us.
On the Framing of Systems and Cybernetic Models
Robin Asby
Underlying my systemic process approach is that ‘out there’ is understood
as a network of interacting systems that I perceive, but models are developed to the point that systems can be recognised from multiple perspectives and now thought of as objects. Thus, there is always an interplay between system and object as Aristotle suggests. Systemic process models
abstracted from specific experiences are the fundamental building blocks
from which object models are constructed. That models are constructed,
either through lifetime learning, or species learning becomes the central
tenet of understanding the development of a brain and nervous system.
This works well in coping with the world around us, but we then carry
this learning into situations in which it does not apply. Both the failure
of Checkland’s initial attempts at solving complex management problems
and his subsequent great success with Soft Systems Methodology are explained by the understanding that the systemic process approach brings.
144
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 131 — 146
Conclusion
On the Framing of Systems and Cybernetic Models
Robin Asby
145
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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As a systems scientist with a background in mathematical physics, and
management my tentative conclusions are that systems science and cybernetics started life in the Western world after the second world war as
a traditional scientific endeavour framed in the Newtonian tradition. In
my teaching experience students, having been trained in a Western tradition, have great difficulty in appreciating the necessary change to thinking in process terms. Authors writing on systems thinking and cybernetics whilst accepting the Newtonian frame slip into a process frame and
seem unclear of the frame in which they are writing. I would propose that
there is a clear distinction between the ‘object’ and ‘process’ frames which
should be investigated further.
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On the Framing of Systems and Cybernetic Models
Robin Asby
Bibliography
Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn
Paolo Capriati
Dottorando presso l’Università di
Palermo nel corso di “Diritti Umani”.
Studia il rapporto fra normatività
democratica e automazione dei
processi decisionali.
paolo.capriati@unipa.it
— CYBERSYN
— AUTOPOIESIS
— POLITICAL SYSTEM
— BLACK BOX
— CYBERNETICS
149
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 149 — 162
As regards systems, two main theories have been outlined.
The first one, built on the premises of the two axioms of
cybernetics (the animal-machine analogy and the
delimitation of the field of study to entities that respond to
feedback mechanisms) regards systems in terms of black
boxes. The second one, which contradicts the former, is a
non-teleological theory based on the concept of
autopoiesis. More specifically, the tension between these
two cybernetic theories has emerged as soon as
autopoiesis was applied to social - and therefore political systems. The paper considers such tension by focusing on
the way in which it has affected the understanding of what
a political system is in the context of a specific case study,
that of Cybersyn (a Chilean cybernetic project that offered
an embryonic form of automated decision-making).
Depending on whether one assumes or not the teleological
nature of the system, it is possible to pinpoint different
causes of justification of the system itself.
Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn
Paolo Capriati
Cybersyn è un progetto sviluppato fra il 1971 e il 1973 in Cile. L’obiettivo
di questo progetto era di coordinare l’economia nazionale – e favorire la
partecipazione dei lavoratori nelle decisioni – attraverso un sistema di comunicazione in tempo reale e un programma automatizzato per l’elaborazione dei dati, generando un’embrionale forma di automazione di alcuni
processi decisionali.
Il progetto Cybersyn si basa su una precisa idea di sistema politico,
che cercheremo di definire nel corso dell’articolo. Questa idea di sistema
verrà confrontata con il pensiero della prima cibernetica.
Non è possibile fornire un’immagine coerente e omogenea del pensiero cibernetico. La cibernetica ha tanti volti e qui si proverà ad esplorarne solo uno, quello relativo alle riflessioni di alcuni cibernetici sulla
natura del potere politico.
Essenzialmente, questo scritto mira a chiarire il modo in cui la
cibernetica che ha dato vita al progetto Cybernsyn ha trattato il problema
dell’organizzazione politica.
L’articolo è diviso in cinque parti.
Nella prima parte verrà fornita una definizione di cibernetica da
cui si estrapoleranno i due aspetti che meglio di altri la caratterizzano:
mi riferisco all’analogia animale-macchina e al meccanismo di feedback.
Contestualmente, verranno presentati il progetto cibernetico cileno –
Cybersyn e Cyberfolk – e il concetto di autopoiesi.
Nella seconda parte, si vedrà come gli elementi della cibernetica
presi in esame costituiscano un’ontologia la cui immagine emblema, come
è stato suggerito da Pickering (2010), è quella della black box. Il metodo
della black box – un sistema il cui interno è imperscrutabile – permette di
conoscere il comportamento delle entità prese in esame. Inoltre, propone
di considerare il feedback come il meccanismo che collega il comportamento al modello cui il comportamento deve conformarsi. Ciò porta a
considerare gli oggetti studiati dalla cibernetica come entità teleologiche:
nel senso di entità che devono raggiungere un determinato fine.
Nella terza parte, si mostrerà come il concetto di autopoiesi, originariamente sviluppato nello studio dei sistemi biologici, sia stato esteso
all’analisi dei sistemi sociali. L’autopoiesi, rifiutando di considerare riproduzione ed evoluzione come qualità essenziali dei sistemi di cui si occupa,
suggerisce un approccio non teleologico nell’analisi dei sistemi sociali.
Nella quarta parte, si indagherà la frattura che il concetto di autopoiesi ha prodotto nel modo in cui i sistemi sociali vengono intesi e analizzati. Mentre la prima cibernetica dichiara di occuparsi di entità teleologiche; la seconda cibernetica – grazie al concetto di autopoiesi – propone
una lettura non teleologica degli oggetti di cui si occupa. Si analizzeranno,
quindi, le tesi a fondamento di una supposta natura non teleologica dei
sistemi sociali e gli argomenti contro queste tesi.
Si proverà, infine, a comprendere le conseguenze del considerare
i sistemi sociali come entità teleologiche o non teleologiche. Tali conseguenze saranno commisurate alla questione del fondamento di legittimità
di un sistema democratico. Che influenza ha sulle cause di giustificazione
della democrazia – divise solitamente in strumentaliste e non-strumentaliste – considerare un sistema sociale come non teleologico?
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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Introduzione
Per conoscere e rappresentare il potere politico sono state utilizzate diverse metafore. La cibernetica di cui ci occuperemo suggerisce una metafora anatomico-fisiologica. Attraverso l’immagine del corpo biologico,
essa fornisce un’istantanea dell’organizzazione politica
come un’unità vivente che si auto-organizza [1].
[1] L’accostamento fra corpo politico
e corpo biologico non è affatto una
Per prima cosa, occorre chiarire che cosa inten- novità.
Nel frontespizio del Leviatano
diamo propriamente col termine cibernetica. Norbert di Hobbes, la figura del mostro
si costituisce dei corpi di tutti i
Wiener (1968, 35) – considerato il padre della cibernetica – consociati
e il corpo del Leviatano
così si esprime:
rappresenta la comunità politica nel
abbiamo deciso di chiamare l’intero campo della teoria del controllo e della comunicazione sia nella macchina che negli animali con il
suo insieme. Anche prima di Hobbes,
il corpo biologico ha costituito la
principale metafora esplicativa della
comunità politica. Si veda, fra gli altri,
Briguglia (2006).
Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn
Paolo Capriati
La cibernetica e Cybersyn
nome di cibernetica, che deriva dal greco κυβερνήτης ovvero timoniere. La scelta di questo termine è dovuta al riconoscimento che
abbiamo inteso dare al fatto che il primo significativo scritto sui meccanismi a feedback è un articolo sui regolatori (governors) pubblicato da Clerk Maxwell nel
1868, e che governor è derivato dalla corruzione latina di κυβερνήτης. Abbiamo
anche voluto ricordare che i motori per il governo delle navi sono una delle prime e meglio sviluppate forme di meccanismo a feedback.
Questa definizione non chiarisce cos’è la cibernetica, ma introduce alcuni aspetti che occorre sviscerare.
Il primo di questi riguarda l’equiparazione, già presente nel sottotitolo dell’opera di Wiener, dell’animale alla macchina. Questa analogia ha molteplici implicazioni, ma quello che qui interessa è il rapporto
fra il viable system model (d’ora in poi VSM) – il modello alla base della
costruzione del progetto Cybersyn – e il concetto di autopoiesi.
Il termine autopoiesi fu coniato da due biologi, Francisco Varela
e Humberto Maturana (1987, 60).
151
Quando parliamo degli esseri viventi, supponiamo che ci sia qualcosa in comune fra di essi […] Quello che non è stato detto, tuttavia, è qual è l’organizzazione
che li definisce come classe. La nostra proposta è che gli esseri viventi si caratterizzano perché si producono continuamente da soli, il che indichiamo denomi-
Con autopoiesi, dunque, ci riferiamo a un particolare tipo di organizzazione. I sistemi autopoieitci sono quelle unità composite la cui organizzazione può essere descritta come un network chiuso di produzione
di elementi che si forma attraverso l’interazione dei suoi elementi e che
specificano la loro estensione costruendo i propri confini nel loro dominio di esistenza (Maturana 1987). Si tratta, in altre parole, di sistemi
che si autoproducono, cioè in grado di produrre le proprie componenti.
Mentre l’estensione del concetto di autopoiesi ad entità non biologiche da parte di Maturana e Varela è cauta, altri autori si sbilanciano
applicando tale concetto in diversi campi delle scienze sociali.
In particolare, l’autopoiesi è un’immagine ampiamente utilizzata dal cibernetico britannico Stafford Beer nei suoi lavori, soprattutto
in Cybersyn.
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 149 — 162
nando l’organizzazione che li definisce organizzazione autopoietica.
Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn
Paolo Capriati
Cybersyn [2] (CIBERNETICA+SINERGIA) è un [2] A tal proposito, occorre un
chiarimento terminologico. Pur
progetto nato durante il governo di Salvador Allende. riferendoci
a Cybersyn, intenderemo
Tale progetto venne sviluppato sotto la direzione scien- con “Cybersyn” l’insieme degli sforzi
cui Beer e il suo entourage si sono
tifica di Stafford Beer, con la collaborazione di Fernando dedicati
per la costruzione di un
Flores – che, in quanto ministro dell’economia nel governo progetto cibernetico per il Cile durante
di Allende, si occupò della direzione politica – e di Raúl il governo Allende.
Espejo, cui spettava il coordinamento generale.
La struttura di controllo e gestione dell’informazione fu implementata attraverso il VSM. Il VSM fu pensato per essere applicabile a qualsiasi forma di organizzazione. Nella costruzione di questo modello, Beer
si ispirò agli organismi biologici e tradusse gli elementi chiave della loro
organizzazione nella struttura di qualsiasi “viable system”. In particolare,
egli scelse come suo modello il sistema nervoso umano. Il VSM divide il
sistema nervoso in cinque sotto-sistemi. Ciascuno di questi sotto-sistemi
conserva una certa autonomia e controlla se stesso senza riferirsi a un
livello più alto del cervello. Tuttavia, è presente una funzione di monitoraggio, svolta dalla “colonna vertebrale”, che consiste in una comparazione
fra le performance dei sotto-sistemi e quello che è il piano originario: le
deviazioni dal piano originario vengono compensate da appropriate correzioni del loro comportamento, attraverso un meccanismo di feedback
negativo (Beer 1981).
Questo modello prevedeva la ricezione e il trasferimento di informazione attraverso una serie di filtri e protocolli che avevano come obiettivo di ottimizzare la comunicazione fra le imprese e la direzione statale
in tutto il Cile. Il VSM di Cybersyn era stato pensato per trasmettere e
ricevere dati da e verso una sala di operazioni, emulando in ciò il rapporto
fra il corpo e il sistema nervoso centrale. L’analogia con il sistema nervoso
– e, più in generale con il corpo biologico – è esplicita negli
scritti di Beer (1981).
[FIG. 1] Immagine generata al
che rappresenta la sala
Nella operation room [FIG. 1] – una stanza dal design computer
operativa (andata distrutta nel 1973)
futuristico che è anche l’immagine emblema del progetto Santiago, Chile.
Wikimedia Commons)
Cybersyn – era presente un software, Cyberstride, dedicato (Fonte:
https://it.wikipedia.org/wiki/Progetto_
all’elaborazione dei dati che provenivano dalle imprese.
Cybersyn#/media/File:CyberSyn-
152
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render-107.png
licenza CC BY-SA 3.0 fr
Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn
Paolo Capriati
153
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#18, I/2023, 149 — 162
Parallelamente a Cybersyn, venne progettato – ma mai implementato – Cyberfolk. Cyberfolk, come Cybersyn, era un sistema di comunicazione in tempo reale. In questo caso, la comunicazione, anziché fra aziende,
avveniva fra cittadini e politici. Il progetto si fondava sul modello “algedonico”, termine coniato da Beer e composto di due parole (ALGOS+HEDOS)
che significano dolore e piacere. Cyberfolk avrebbe permesso a ciascun cittadino in possesso di una televisione di comunicare il proprio grado di soddisfazione rispetto all’azione del governo in una scala che va dal massimo piacere al massimo dolore. L’espressione del gradimento avveniva attraverso
dei voltometri collegati alle televisioni domestiche. Si trattava di dispositivi dalla forma semicircolare, con una lancetta che poteva essere ruotata
verso destra (esprimendo piacere) o verso sinistra (esprimendo dolore) in
risposta a qualcosa accaduto prima – ad esempio, un discorso politico. Un
tale processo doveva avvenire in tempo reale, di modo che i politici ricevessero un feedback immediato sui loro argomenti o proposte. In questo
modo, i cittadini avrebbero potuto vedere come i politici rispondevano ai
feedback, creando uno scambio costante fra le due parti (Beer 1981).
In Cyberfolk, il feedback che esprime il gradimento non viene precisato. Il voltometro misura il “piacere”, ma non la natura e le ragioni di
questo piacere. A differenza di un sondaggio d’opinione – che prevede un
numero di risposte limitato e definito – i voltometri di Cyberfolk consentono di esprimere un’opinione generale grazie alla quale è possibile sapere
se un certo discorso o argomento genera dolore o piacere. Una tale meccanismo è coerente con l’interesse della cibernetica – che esploreremo nelle
prossime pagine – per gli aspetti del sistema che riguardano il comportamento e il modello cui il comportamento deve adeguarsi.
L’avversione che Beer (1974) dimostra per i sondaggi d’opinione è
legata anche ad un altro ordine di ragioni: la presenza di domande strutturate e circoscritte non può mai contribuire all’emergere di reali novità in
politica, ma ha il solo scopo di garantire lo status quo.
Dato che la scala algedonica riguarda l’espressione individuale di piacere-dolore, Beer (1983, p. 808) impiega il termine “eudomony” per indicare
il livello di benessere di una società nel suo insieme che l’autore descrive
in questi termini: «I-like-it-here kind of happiness, that does not prejudge the nature of the well-being that the people’s will seeks to express».
Tuttavia, Beer non chiarisce su cosa debba fondarsi questo benessere. Non
viene chiarito, in altre parole, se si tratta di un benessere economico o di
altra natura.
Da quanto emerso finora sul progetto cibernetico cileno, occorre
chiarire due punti.
Innanzitutto, bisogna sottolineare che il progetto di Beer per il Cile
non era limitato alla realizzazione di un coordinamento economico nazionale. Riguardava un’idea più ampia che includeva anche altri aspetti della
vita associata, come la partecipazione dei lavoratori nelle decisioni dell’impresa e la relazione fra governanti e governati.
In secondo luogo, occorre tenere a mente che l’obiettivo di Cyberfolk
era di affiancare al feedback economico di Cybersyn un feedback sociale
(Pickering 2010).
Rispetto a questo secondo aspetto, appare evidente nelle parole di
Wiener che il meccanismo di feedback assume un ruolo cardine nel definire l’approccio cibernetico:
lo, la differenza fra tale modello e l’effettivo svolgersi del movimento viene adoperata come un nuovo segnale che determina una regolazione del movimento
stesso tale da mantenerlo quanto più possibile vicino a quello dato dal modello
(Wiener 1968, 29).
Il feedback sarebbe pertanto l’informazione relativa alla differenza fra il
modello e il movimento che mira a conformarsi al modello. Tale meccanismo risulta ben illustrato dal seguente esempio:
Supponiamo ora che io prenda una matita. Per fare questo devo muovere certi mu-
Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn
Paolo Capriati
Quando intendiamo effettuare un movimento secondo un determinato model-
scoli. Nessuno di noi, eccetto qualche esperto anatomista, sa tuttavia quali siano
questi muscoli; e anche fra gli anatomisti, ve ne sono pochi, se non nessuno, che
possano eseguire questa azione mediante una cosciente e intenzionale successione
di contrazione dei muscoli implicati. Ciò che noi vogliamo consapevolmente fare
è solo prendere la matita. Una volta presa questa decisione, il nostro movimento
procede in modo tale che – per cosi dire – quanto manca alla presa della matita
decresca progressivamente. Questa parte dell’azione non si svolge a livello di piena
consapevolezza (Wiener 1968, 30).
Ciò che qui rileva, dunque, è lo scarto fra movimento programmato e movimento effettivo. Di colmare e correggere tale scarto si occupa il feedback.
Su un altro piano, quello della piena consapevolezza, si pone la questione di conoscere esattamente tutti i muscoli implicati in una certa azione.
Tale conoscenza appare impossibile da rappresentare. Tuttavia, da questa
impossibilità non discende l’impossibilità di compiere l’azione. In altre parole, la rappresentazione esatta del movimento non è necessaria alla realizzazione dell’azione. Da questo esempio già traspare una
frattura fra rappresentazione e performance. [3]
[3] Rappresentazione e performance,
in questo contesto, sono intesi come
strumenti gnoseologici.
Come abbiamo già osservato, oltre al meccanismo di feedback, l’aspetto caratterizzante l’approccio cibernetico è l’analogia animale-macchina.
L’impiego di questa analogia ha un carattere metodologico, vale a dire si
fonda sul presupposto che tanto gli animali quanto le macchine possano
essere studiati a partire da un’unica metodologia che si focalizza sull’analisi comportamentale. A tal riguardo, Wiener, Roseblueth e Bigelow
(1943, 18) scrivono:
Given any object, relatively abstracted from its surroundings for study, the behavioristic approach consists in the examination of the output of the object and of
the relations of this output to the input. By output is meant any change produced in the surroundings by the object. By input, conversely, is meant any event
external to the object that modifies this object in any manner.
The above statement of what is meant by the behavioristic method of study omits
the specific structure and the instrinsic organization of the object. This omission is
fundamental because on it is based the distinction between the behavioristic and
the alternative functional method of study. In a functional analysis, as opposed to
a behavioristic approach, the main goal is the intrinsic organization of the entity
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 149 — 162
Ontlologia ed epistemologia cibernetica
154
surroundings are relatively incidental.
Questo tipo di analisi è applicabile tanto agli organismi viventi quanto
alle macchine, a prescindere dalla complessità del comportamento. Anche
se gli studi funzionali – nella maniera in cui la intendono i tre autori, cioè
come studio dell’organizzazione di una certa entità – rivelano profonde differenze fra animali e macchine, una certa uniformità è ravvisabile nelle classi generali di comportamento. Tale uniformità permette di
impiegare un unico metodo per l’analisi di qualsivoglia comportamento
(Rosenblueth et al. 1943).
L’uniformità è garantita dal ruolo assunto dal meccanismo di feedback nei comportamenti che interessano i cibernetici.
Il feedback indicherebbe la natura teleologica di un comportamento.
La sua presenza, infatti, mostra come esista un modello a cui l’entità – biologica o meccanica – deve conformarsi. Tale modello è ciò verso cui l’entità
tende e qualsiasi difformità rispetto al modello viene segnalata all’entità
stessa attraverso il feedback. Il feedback indica la differenza fra l’effettivo
comportamento dell’oggetto e il comportamento che sarebbe conforme al
modello. In tal senso, la prima cibernetica si occupa di meccanismi teleologici, vale a dire di meccanismi attraverso i quali una certa entità è in grado
di raggiungere un certo fine.
Come si può evincere da quanto appena detto, la prima cibernetica
si concentra sostanzialmente sul comportamento e non sull’organizzazione
interna di un oggetto. In altre parole, si tratta di uno studio comportamentale e non strutturale. Nel seguente passaggio tratto da An Introduction to
cybernetics di William Ross Ashby, l’approccio comportamentale emerge
chiaramente e risulta coestensivo al metodo della Black Box:
Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn
Paolo Capriati
studied, its structure and its properties; the relations between the object and the
155
The child who tries to open a door has to manipulate the handle (the input) so as to
produce the desired movement at the latch (the output); and he has to learn how
to control the one by the other without being able to see the internal mechanism
that links them. In our daily lives we are confronted at every turn with systems
whose internal mechanisms are not fully open to inspection, and which must be
La black box – come oggetto insondabile e inconoscibile – ricopre una funzione centrale all’interno della cibernetica, tanto che, da essa, è possibile
ricavare una vera e propria ontologia:
We can note that Black Box ontology is a performative image of the world. A Black
Box is something that does something, that one does something to, and that does
something back […] Knowledge of its workings, on the other hand, is not intrinsic
to the conception of a Black Box – it is something that may (or may not) grow out
of our performative experience of the box. […] I can say for the moment that the
hallmark of cybernetics was a refusal of the detour through knowledge – or, to
put it another way, a conviction that in important instances such a detour would
be mistaken, unnecessary, or impossible in principle. The stance of cybernetics
was a concern with performance as performance, not as a pale shadow of representation (Pickering 2010, 20).
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treated by the methods appropriate to the Black Box (Ashby 1957, 86).
Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn
Paolo Capriati
La questione a questo punto riguarda due piani: quello della rappresentazione e quello delle performance. La cibernetica non viene definita semplicisticamente in termini anti-rappresentazionali: modelli di rappresentazione sono, ad esempio, alla base del VSM. La rappresentazione, però, è
orientata a correggere e migliorare il funzionamento di ciò che rappresenta (Pickering 2010) e una adeguata rappresentazione può aiutare ad aggiustare ciò che si rompe: la cibernetica è una ontologia degli oggetti funzionanti e degli oggetti rotti che vanno aggiustati.
Allo stesso tempo, la performance non è fine a se stessa: per Pask è
anche un metodo di conoscenza. Egli distingue fra due tipi di osservatori:
l’osservatore scientifico e quello cibernetico. Mentre il primo si astiene il
più possibile da qualsiasi interazione con l’oggetto osservato, il secondo è
un osservatore che partecipa e che è favorevole all’interazione con l’entità
osservata. In questo senso, l’osservatore adotta un metodo performativo:
il modo di descrivere l’oggetto osservato cambia coerentemente ai cambiamenti dello stesso oggetto (Pask 1958). La conoscenza di un sistema complesso, pertanto, passa dalla performance: è per questa ragione che si parla
di performative epistemology (Pickering 2010).
Per Stafford Beer (1959), la cibernetica cerca di delineare i modi tramite cui conoscere gli “exceedingly complex system”, cioè quei sistemi
che non possono essere conosciuti per mezzo dei metodi impiegati dalla
scienza moderna. Si tratta, per Beer, di quei sistemi la cui comprensione
non passa attraverso la rappresentazione e che cambiano nel tempo: la loro
attuale conoscenza, cioè, non garantisce di prevedere il loro comportamento futuro. Poiché ogni rappresentazione di un “exceedingly complex
system” è provvisoria, la performance è ciò di cui occorre occuparsi.
Dal momento che la cibernetica si occupa di sistemi che in qualsiasi
momento possono sorprenderci, si afferma una ontologia dell’inconoscibilità (Pickering 2010). Per questa ragione, la black box è la metafora appropriata per una tale ontologia. Allo stesso tempo, l’osservatore che ambisce
a conoscere un sistema che è in continuo mutamento non può astenersi
dall’interagire con esso. Questo genere di osservazione votata all’interazione ci consente di parlare di un’epistemologia performativa.
156
L’operazione compiuta da Stafford Beer consiste nell’estendere la metodologia comportamentale non solo allo studio degli animali e delle macchine,
ma anche alle imprese e alle istituzioni politiche. Nel far ciò, Beer tratta
come entità analoghe i sistemi biologici e i sistemi politici e sociali.
Questa analogia si fonda sull’associazione del concetto di autopoiesi
con il VSM. È a partire da tale associazione che emerge il problema della
natura teleologica o non-teleologica dei sistemi studiati dalla cibernetica.
In relazione a questo problema, si può apprezzare lo scarto tra la
prima cibernetica e la cibernetica di Beer. Quest’ultimo, infatti, nega
la natura teleologica del VSM. Ciò ha delle conseguenze significative.
Ammettere che il VSM abbia una natura teleologica, infatti, vorrebbe
dire concedere che si tratta di un processo fondamentalmente eterodiretto, in cui i fini vengono posti dall’esterno. Negare la natura teleologica
del VSM, quindi, significa dare l’immagine di un processo politico non
eterodiretto e auto-organizzato. In particolare, dal momento che sono gli
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Dai sistemi biologici ai sistemi sociali
Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn
Paolo Capriati
stessi individui – o imprese – a determinare i fini del sistema e, visto che
gli individui sono parti del VSM, è il VSM stesso ad autodefinirsi e quindi ad autodefinire i suoi scopi. [4]
[4] La formulazione di questi
argomenti è una risposta alle critiche
Nel fare ciò, Beer fa leva sul concetto di autopoiesi. di
Ulrich (1981). [4] La formulazione di
L’autopoiesi, come abbiamo visto, è un concetto che, in questi argomenti è una risposta alle
critiche di Ulrich
principio, trova applicazione in ambito
(1981).
biologico, [5] ma che a partire dai lavori [5] Coerentemente alla tradizione
cibernetica, non viene fatta una
di Beer, e in seguito a quelli di Luhmann distinzione
fra sistemi viventi – o,
(1986), viene esteso all’analisi dei sistemi prima facie, percepibili come viventi
– e sistemi sintetici. In questo senso, i
sociali.
sistemi sintetici non vengono ritenuti a
Tramite il concetto di autopoiesi, prescindere non capaci di autopoiesi.
Beer prova a liberarsi della teleologia. Come
scrive nella prefazione ad Autopoiesi e
cognizione (Maturana & Varela 1992), «il secondo motivo per cui il concetto di autopoiesi mi affascina così tanto è che coinvolge la distruzione
della teleologia».
In Autopoiesi e cognizione si legge:
usiamo la nozione di scopo quando parliamo di macchine perché essa chiama in
gioco l’immaginazione dell’ascoltatore e riduce il compito esplicativo nello sforzo di trasmettergli l’organizzazione di una particolare macchina. In altre parole,
con la nozione di scopo induciamo l’ascoltatore ad inventare la macchina di cui
stiamo parlando. Questo, tuttavia, non dovrebbe portarci a credere che scopo, o
fine, o funzione, siano proprietà costitutive della macchina che descriviamo con
essi; tali nozioni sono intrinseche al dominio di osservazione, e non possono esse-
157
re usate per caratterizzare qualche tipo particolare di organizzazione di macchine
Per Beer, le società umane sono a pieno titolo dei sistemi biologici. In
quanto sistemi biologici, esse sono dei sistemi autopoietici.
Abbiamo visto che per Beer – come per Maturana e Varela – i
sistemi autopoietici si caratterizzano per l’assenza di uno scopo – o di
un progetto definito – verso il quale tendere. In questo senso, quindi,
le società umane – e i loro sotto-sistemi, ad esempio «ditte e industrie,
scuole e università, cliniche e ospedali, enti professionali, dipartimenti
di stato, e interi paesi» (Maturana & Varela 1992) – sono anch’essi dei
sistemi autopoietici.
Beer non specifica se la qualifica di “autopoiesi” sia di natura descrittiva o normativa. Dal suo discorso si può però evincere che l’unico piano
contemplato sia quello descrittivo.
La dismissione del concetto di teleologia comporta l’adozione di
un approccio nello studio di questi sistemi – incluso il sistema politico
di un paese – che prescinde dallo scopo del sistema. La teleologia, infatti,
«diventa solo un artificio della loro descrizione che non rivela alcun aspetto
della loro organizzazione», e questa nozione non è necessaria «per la comprensione dell’organizzazione vivente» poiché «i sistemi viventi, come
macchine autopoietiche fisiche, sono sistemi senza scopo» (Maturana &
Varela 1992, 141).
Per Beer, la forma assunta dai sistemi sociali – e i relativi sotto-sistemi – è quella del VSM. Coerentemente a quanto esposto finora, l’accostamento fra VSM e autopoiesi è esplicito.
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(Maturana & Varela 1992, 130).
the theory of autopoiesis with the conditions for a viable system […] to me they
were complementary and mutually enriching […] a viable system is autopoietic
(and) the autopoietic faculty […] is embodied in the totality and in its systems one
(Beer 1981, 338).
Il VSM è il modello utilizzato per la costruzione e la descrizione di
Cybersyn. Da ciò discende che il progetto cibernetico cileno è, per Beer,
fondamentalmente un progetto autopoietico, quindi non teleologico e
che non persegue alcuno scopo, ma che si fonda sull’auto-organizzazione
e sull’auto-produzione delle relazioni sociali, per mezzo delle quali l’unità
del sistema viene garantita.
Si può apprezzare, a questo livello, la differenza tra la prima cibernetica e i modelli avanzati da Beer, Maturana e Varela. Mentre per Wiener,
Rosenblueth e Bigelow, lo studio di meccanismi a feedback era inevitabilmente lo studio di entità teleologiche, per Maturana e Varela la teleologia
è prescindibile per la spiegazione del comportamento dei sistemi viventi,
così come, per Beer, risulta prescindibile per la spiegazione del comportamento dei sistemi sociali.
Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn
Paolo Capriati
Naturally I had very closely compared the conditions for life as expounded by
La frattura fra prima e seconda cibernetica
Si potrebbe sostenere che la frattura tra prima e seconda cibernetica risieda proprio nell’uso o nel rifiuto della spiegazione teleologica.
La presunta frattura, però, va problematizzata. Ci si deve chiedere
se nella seconda cibernetica la spiegazione teleologica sia effettivamente
assente.
Maturana e Varela (1992, 153) precisano che ciò che contraddistingue
gli esseri viventi non è la loro capacità di riprodursi, né tanto meno la loro
evoluzione.
158
Riproduzione ed evoluzione non entrano nella caratterizzazione dell’organizzazione vivente, e i sistemi viventi sono definiti come unità dalla loro autopoiesi. Ciò
è significativo perché rende la fenomenologia dei sistemi viventi dipendente dal
Nel momento in cui un sistema si differenzia dall’ambiente esterno, si costituisce come unità. Maturana e Varela considerano il rapporto tra sistema
autopoietico e ambiente alla luce del concetto di omeostasi. L’omeostasi
è definita come «la condizione di mantenere costante o entro una gamma
limitata di valori alcune variabili» (Maturana & Varela 1992, 201).
Nonostante gli sforzi di non considerare la conservazione dell’unità come uno scopo al quale l’unità tende, è difficile non valutare in termini teleologici la regolazione omeostatica. Tale equilibrio, anche se volto
a conservare l’unità, finisce per essere una meta – o una norma – cui il
sistema autopoietico deve attenersi, inscrivendo di fatto l’autopoiesi in
un orizzonte teleologico.
Tornando al progetto cibernetico cileno, Cyberfolk è stato pensato
per garantire una reale partecipazione e favorire l’autogoverno dei cittadini, evitando qualsiasi forma di etero-direzione. Con Cyberfolk, Beer
sostiene di aver ideato un sistema non teleologico: non vi è uno scopo
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fatto che sono unità autopoietiche.
Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn
Paolo Capriati
verso il quale il sistema tende, né alcun obiettivo prefissato da raggiungere;
il sistema, di volta in volta, si prefigge delle mete, attraverso il processo di
feedback espresso dai cittadini.
Beer, però, si riferisce esplicitamente a un concetto che, seppur
dal contenuto indefinito, rappresenta una meta o uno scopo verso cui il
sistema tende. Si tratta dell’eudemonia.
E anche qualora facesse a meno di tale concetto, resta il problema
del consenso. Ciò che Cyberfolk permette, infatti, di misurare ed esprimere è il consenso dei cittadini. Egli, però, non considera il consenso delle
parti del sistema come uno scopo, ma come una parte necessaria all’organizzazione per sopravvivere in quanto unità.
Tuttavia, nella ricostruzione autopoietica della descrizione dei
sistemi, anche se si nega qualsiasi prospettiva teleologica, la conservazione
dell’unità non può non rappresentare un fine. Più precisamente, la non
dissoluzione dell’unità nell’ambiente rappresenta un fine.
Bisogna tenere presente che l’accostamento del VSM all’autopoiesi
è stato spesso oggetto di critica. È stata avanzata l’ipotesi che la differenza
tra VSM e autopoiesi risieda proprio nella natura teleologica del VSM, a
differenza dell’assenza di teleologia dell’autopoiesi.
Whereas notions of purpose, function and goals are pivotal to the theory of viable
systems, these concepts are irrelevant to autopoiesis. No matter how you look at
viable systems it is difficult to get away from the idea of purpose (Brocklesby &
Mingers 2005, 7).
Detto altrimenti, Beer sarebbe più in linea con la prima cibernetica di
quanto egli stesso creda.
Riassumendo, l’approccio non teleologico di Beer può essere contestato in tre punti.
In primo luogo, pur attribuendo natura non teleologica all’autopoiesi, è stato notato come i sistemi che Beer descrive come autopoietici sono fondamentalmente orientati ad ottenere un risultato che non
coincide con la riproduzione delle reti di relazioni che costituiscono l’unità autopoietica. L’università, per esempio, non mira a riprodurre gli
elementi che la costituiscono – i ricercatori – ma a produrre conoscenza
(Brocklesby e Mingers 2005).
In secondo luogo, il concetto stesso di eudemony cui fa riferimento
Beer per giustificare il VSM si rifà al raggiungimento di un benessere che,
benché non specificato in senso sostanziale, non può che assumere il carattere di un fine cui il sistema tende. Lo stesso discorso vale per il consenso.
C’è poi un terzo ordine di ragioni che riguarda il concetto di autopoiesi in generale. Anche se si volesse accordare una natura autopoietica al
VSM, abbiamo visto come la stessa autopoiesi non è esente dalla critica di
essere un sistema fondamentalmente teleologico. Benché venga chiarito
che elementi necessari alla definizione di autopoiesi non siano riproduzione ed evoluzione, il mantenimento della propria unità non può essere
non considerato un fine verso cui un sistema autopoietico tende. In questo senso, il concetto di omeostasi rappresenta la norma cui un sistema
autopoietico deve adeguarsi.
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Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn
Paolo Capriati
Accordare o meno credito alla ricostruzione non teleologica di Beer porta a
due diverse conclusioni sulla questione del fondamento di legittimità del
sistema. Su quali tipo di giustificazioni si fonda il suo progetto? Beer sostiene innanzitutto che si tratta di un sistema democratico. A questo proposito, perché secondo lui la democrazia sarebbe un bene?
Per rispondere a queste domande è opportuno introdurre la questione della legittimità del sistema. Le giustificazioni della democrazia
sono solitamente divise in strumentaliste e non-strumentaliste. Se nelle
teorie non-strumentaliste la giustificazione sarebbe intrinseca al metodo
decisionale democratico, nelle teorie strumentaliste, invece, la giustificazione sarebbe connessa ai risultati che il metodo decisionale democratico
produce in comparazione ad altri procedimenti (Christiano 2022).
Assumere che il VSM sia un sistema teleologico significa considerare
la giustificazione della democrazia come strumentalista. In questo senso,
quello di Beer, non è un appello a un astratto principio democratico cui
occorre adeguarsi, ma l’aderenza al metodo democratico è sempre connessa all’esito che tale processo produce: cioè la democrazia come strumento per raggiungere l’eudemonia. Anche se il metodo democratico è
garanzia di un processo non eterodiretto, questo argomento risulta essere
recessivo rispetto a quello dell’eudemonia.
Considerando, invece, il VSM un sistema non teleologico – dunque
evitando di considerare l’eudemonia come un fine verso cui il sistema
tende – la giustificazione sarebbe non-strumentalista. Se diamo per buona
la mancanza di scopi esterni al sistema – scopi, cioè, diversi dal puro mantenimento dell’unità –, l’unica giustificazione in base alla quale il sistema
si regge è quella di evitare di perire. Anche se la sopravvivenza rappresenta un fine verso cui il sistema tende, l’assenza di uno scopo esterno colloca il pensiero di Beer come una difesa dello status quo.
Il paradosso appare evidente: nel tentativo di dare vita a un sistema
rivoluzionario, non eterodiretto, e in grado di autodeterminarsi e rinnovarsi ad ogni istante, Beer ha costruito un sistema dal quale non è possibile uscire, ponendolo su un piano trascendente e che giustifica la propria
esistenza non sulla base di qualche bene esterno al sistema stesso, ma sul
fondamento che la vita fuori dal sistema non è pensabile.
La relazione fra sistema e ambiente, quindi, assume un carattere
peculiare nel disegno di Beer. Se con la prima cibernetica – e l’immagine
della black box – questa relazione era caratterizzata da uno scambio input/
output, con l’affermarsi del concetto di autopoiesi tale modello entra in
crisi. A tal proposito, è opportuno sottolineare la distinzione operata da
Maturana e Varela (1992) fra struttura e organizzazione. Mentre l’organizzazione è definita come «le relazioni che definiscono un sistema come una
unità» (Maturana & Varela 1992, 201), il rapporto con l’esterno si realizza
attraverso l’accoppiamento strutturale, che è la relazione fra la struttura
di un’unità e quella del suo ambiente. I cambiamenti che avvengono nella
struttura devono essere tali da preservare l’organizzazione del sistema
nell’ambiente. La somma di questi cambiamenti è l’adattamento. Il rapporto, dunque, fra sistema e ambiente interessa solo gli aspetti strutturali.
L’organizzazione trascende questa relazione e deve rimanere invariata perché il sistema possa mantenere la propria identità.
160
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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La legittimità del potere in Cybersyn
Come premesso, anche se il pensiero cibernetico ha in sé diverse anime,
esistono degli elementi condivisi. Sono stati presi in esame due di questi
elementi, che rappresentano il tratto peculiare della cibernetica: l’analogia
animale-macchina e il feedback. Entrambi gli elementi, però, hanno ricevuto una nuova interpretazione.
Nella “seconda generazione”, l’analogia animale-macchina, grazie
all’autopoiesi, è stata estesa anche ai sistemi sociali, ampliando il campo di
studio della cibernetica.
Per quanto riguarda il feedback, esso è stato completamente riconfigurato. L’immagine della black box ha reso esplicito il legame fra comportamento e modello cui il comportamento deve adeguarsi. Tale modello
rappresenta il fine che le entità devono raggiungere. Per Beer, invece, il
feedback non è legato a una supposta natura teleologica delle entità di cui
la cibernetica si occupa. Anzi, i sistemi che Beer prende in esame, incluso
il sistema politico, sono considerati entità non teleologiche.
La questione sulla natura – teleologica o meno – del VSM si è rivelata particolarmente rilevante. Per Beer, la natura non teleologica del suo
modello garantisce trasparenza al progetto, fugando in questo modo le
critiche di aver inventato uno strumento tecno-distopico per il controllo
della popolazione. Le sue ragioni, però, non sono legate solo a questo fattore contingente.
Dalla sua concettualizzazione, l’autopoiesi ha rappresentato per
Beer il mezzo per realizzare un programma di naturalizzazione dei processi
decisionali politici. Beer ha, in altre parole, proposto un sistema politico
il cui funzionamento è analogo a quello di qualsiasi sistema vivente. La
metafora per raccontarlo è quella di un corpo senza scopo, svincolato dalle
necessità riproduttive ed evolutive.
Prima di coniare il vocabolo “autopoiesi”, Maturana (1992) definiva
l’organizzazione del vivente come «organizzazione circolare». In particolare, la circolarità riguarda le relazioni che determinano l’organizzazione:
le relazioni che producono i componenti che determinano l’organizzazione sono sempre rigenerati dai componenti che producono. Tale circolarità è rintracciabile nel disegno normativo che emerge dal progetto di Beer.
La giustificazione a fondamento della legittimità del suo sistema non è
ancorata al raggiungimento di certi fini, ma si basa sulla necessità di tenere
il sistema in vita, quindi di garantire la sua organizzazione e la sua unità.
Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn
Paolo Capriati
Conclusioni
161
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Beer, dunque, accetta qualsiasi tipo di cambio strutturale per il suo
sistema, a patto che esso continui a sopravvivere, conservando la propria
organizzazione e quindi la sua unità.
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Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn
Paolo Capriati
Bibliografia
Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi
Saverio Macrì
Ha conseguito il Dottorato in
Metodi e Metodologia della Ricerca
Archeologica e Storico-Artistica
presso l’Università di Salerno. I
suoi studi vertono sulla filosofia di
Gilbert Simondon e sul rapporto tra
l’esperienza estetico-artistica e le
nuove tecnologie.
samacri7@gmail.com
— SYSTEMS
— CYBERNETICS
— INTERACTIVITY
— DIGITAL ART
— JACK BURNHAM
— ROY ASOTT
— GORDON PASK
165
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 165 — 178
The article aims to show the influence exerted by Systems
Theory and Cybernetics in the field of Aesthetics. By virtue
of an approach that is pluralistic and open to different
languages, both disciplines have offered artists and
theorists useful tools of description and analysis to account
for the phenomenon of interactivity. Systems theory
provides suitable conceptual tools to define a new
aesthetic object – the interactive installation – endowed
with a participatory and relational nature, as well as a
dynamic and continuously changing structure. Additionally,
cybernetics provides artistic experiments featuring
technological innovations with fundamental contributions
on how computational systems can be employed to
simulate performance akin to the behaviour of living
organisms. The scope of such notions in aesthetics will be
illustrated by analysing some works by the pioneers of
interactive art: art critic Jack Burnham, artist and theorist
Roy Ascott, and psychologist and cybernetician
Gordon Pask.
con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei noi
con l’ameba da una parte e con lo schizofrenico dall’altra? […] Per
estetico intendo sensibile alla struttura che collega.
G. Bateson 1984, 21-22
I.
La struttura che collega
Qual è la struttura che collega un’entità organica a una digitale? In che
modo l’essere umano è posto in rapporto con queste entità? Quali possibilità estetico-etiche emergono dalla loro reciproca interazione? Sono queste le domande sollevate da Antitesi, [FIG. 1] progetto ideato nel 2018 da
Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, avente come tema la storia d’amore tra un’intelligenza artificiale e un esemplare di glicine giapponese, la
Wisteria Floribunda, la cui unione dà origine a Wisteria Furibonda, uno
strano organismo cibernetico tenacemente impegnato nella lotta al cambiamento climatico. [1]
[1] Artisti, ricercatori, docenti,
culturali, Salvatore Iaconesi
L’intelligenza artificiale contempla la sua amata eagitatori
Oriana Persico hanno lavorato
pianta e si prende cura di lei con i mezzi di cui dispone: insieme dal 2006 al 2022, anno in
Iaconesi è scomparso. Autori di
attraverso tre telecamere ne osserva le trasformazioni cui
opere e performance caratterizzate
(crescita, comparsa di gemme e fiori, colore delle foglie); dall’esplorazione dell’umanità
contemporanea e delle
mediante sensori chimici verifica quale nutrimento trae tecnologica
sue continue trasformazioni, hanno
dal terreno; sensori fotosensibili le consentono di com- fondato AOS - Art is Open Source e
di HER: She Loves Data, centri di
prendere la quantità di luce cui è esposta; sensori di tem- ricerca
che indagano le implicazioni
peratura, di pressione e umidità registrano le condizioni dei dati e della computazione,
Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi
Saverio Macrì
Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea
166
promuovendo una visione del mondo
in cui l’arte agisce da collante tra
scienza, politica ed economia. Nel
2020 hanno avviato la costituzione
della Fondazione Nuovo Abitare e
dell’Archivio dei Rituali del Nuovo
Abitare (ARNA).
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 165 — 178
[FIG. 1] Salvatore Iaconesi & Oriana
Persico, Antitesi (2018)
Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi
Saverio Macrì
climatiche; sensori di prossimità rilevano se qualcuno le si avvicina o la
tocca. A differenza dei sistemi di intelligenza artificiale più evoluti, bisognosi di un’elevata potenza computazionale e addestrati con un’ingente
quantità di dati allo scopo di renderne il funzionamento automatico,
quello progettato per Antitesi evolve lentamente, disponendo di un database che cresce allo stesso ritmo della pianta e che registra un dato alla
volta. Il suo è però tutt’altro che un inerte stato contemplativo. Dotata di
un’identità digitale che le permette di ricevere donazioni, essa è al tempo
stesso connessa alla rete alla ricerca di articoli e informazioni riguardanti
aziende e organizzazioni votate alla causa ambientale. Non appena rileva
nella vita della pianta criticità riconducibili al cambiamento climatico in
corso, si serve delle valute digitali ottenute tramite donazioni per investire
a favore delle organizzazioni che stanno combattendo la crisi ambientale
planetaria. Nel tentativo di proteggere il suo amore minacciato, Wisteria
Furibonda promuove così un’inedita alleanza tra piante, sensori, algoritmi, cittadini, imprese e università, agenti umani e non umani, che
comunicano, interagiscono e si influenzano a vicenda.
Quello realizzato da Iaconesi e Persico rappresenta un esempio
molto significativo delle possibili applicazioni del pensiero sistemico al
campo dell’arte. Non più solo oggetto di “contemplazione”, l’opera si configura qui come un campo di relazioni – un sistema, appunto – tra elementi, individui ed eventi, ad un tempo reali e virtuali, i quali non hanno
valore al di fuori della totalità organizzata cui danno origine, ma soltanto
gli uni in rapporto agli altri. Ecosistema relazionale è, più precisamente,
l’espressione con cui gli artisti definiscono le installazioni interattive come
Antitesi, intendendo «un network che evolve nel tempo e che collega i
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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167
Pensare per sistemi
168
particolarmente articolato è fornito
dall’antologia curata da Shanken
(2015).
Prima di valutarne la portata in ambito estetico, riteniamo
utile tracciare un rapido quadro del concetto di sistema, dando conto del
particolare apporto offerto alla sua definizione da parte della cibernetica.
La nostra esposizione si limiterà alla seguente domanda: quale immagine
del mondo viene raggiunta in filosofia attraverso il concetto di sistema? [4]
[4] Per un’introduzione adeguata
a tematiche e metodi del pensiero
La prospettiva sistemica si presenta come contral- sistemico
si rimanda a Minati e Pessa
tare all’impostazione riduzionistica tipica della scienza (2006). Per un generale sguardo di
classica, nella sua duplice veste, ontologica e metodo- insieme si veda Capra (2022).
logica. La prima allude al meccanicismo della fisica del
Seicento, secondo cui i fenomeni del mondo inorganico, vivente e mentale sono prodotti da una collezione di atomi interagenti grazie alle forze
che, dall’esterno, operano su ciascun elemento. Tale concezione si realizza
in un metodo basato sulla suddivisione dell’universo nei suoi componenti
primitivi, secondo una procedura che ha in Cartesio il suo iniziatore. La
seconda regola del Discorso sul metodo prescriveva infatti «di dividere
ciascuna difficoltà […] in tante piccole parti quante fosse possibile e fosse
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 165 — 178
II.
Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi
Saverio Macrì
nodi (soggetti) all’interno e fuori dall’ecosistema attraverso la caratterizzazione dei loro rapporti e della loro trasformazione nel tempo» (Iaconesi
& Persico 2017, 64). Si tratta di un vero e proprio ecosistema dai confini
mobili, che prende forma insieme agli stessi termini che unisce ed evolve
grazie al rapporto di mutuo scambio tra tutti coloro che vi accedono. Ben
lontano dall’avere un assetto stabile, la trama relazionale che lo compone
consente piuttosto un’intrinseca dinamicità, sospesa com’è in un processo
incessante di transizione, dovuto agli elementi che vengono integrati o che
sopraggiungono non pianificati. Un processo non del tutto prevedibile né
nel suo svolgimento né tantomeno nei suoi esiti. Infatti, se da un lato l’impostazione generale è affidata agli artisti, dall’altro, la sua evoluzione in un
senso specifico dipende dall’effettivo coinvolgimento di tutte le parti in
causa, tanto più decisivo quanto maggiore è il grado di variabilità consentito dal sistema tecnico.
Sulla base di quanto detto finora comincia a profilarsi l’importanza
del concetto di sistema come “idea estetica”. Ben noti sono la vocazione
pluralista dell’approccio sistemico e la generalità del suo apparato concettuale, aspetti, questi, che lo rendono uno strumento duttile e applicabile
a oggetti e ambiti differenti. Tuttavia, rimane ancora poco esplorata la sua
influenza nel campo dell’estetica, dove ha invece messo a disposizione di
artisti e teorici gli strumenti teorici, nonché il lessico, adatti a dar vita allo
statuto di un nuovo “oggetto estetico”, l’installazione interattiva, dal carattere partecipativo e relazionale, dotato inoltre di una struttura dinamica
e continuamente mutevole. [2] Viene così a inaugurarsi tra
sistemica ed estetica un campo di intersezione meritevole [2] Per un’introduzione alla pratica
dell’arte interattiva si veda Kwastek
di approfondimento: che cosa significa intendere l’opera (2013).
Per un approfondimento di
d’arte come sistema; in che modo la sistemica è stata stori- carattere filosofico si veda Diodato
camente evocata nella riflessione estetica; e quali prospet- (2005; 2020).
tive essa può offrire all’esperienza estetica contemporanea,
in un contesto pervaso di tecnologie digitali, di dati e di
processi computazionali. [3]
[3] Un punto di partenza
Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi
Saverio Macrì
169
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 165 — 178
necessario per meglio risolverla» (Cartesio 2003, 87). Si trattava di compiere
l’analisi di ogni problema, separandolo da ogni concetto superfluo e dividendolo attentamente in parti più semplici. Poiché ciò che è semplice è
più chiaro e distinto di ciò che è complesso, l’analisi diventa un requisito
indispensabile dell’evidenza.
Se il metodo analitico procede dal complesso al semplice, dalla totalità alle singole parti, il sistema come modello propone al contrario di considerare le parti nelle loro reciproche interazioni. Come spiega il suo fondatore, il biologo austriaco Ludwig von Bertalanffy, tale approccio si basa
«su ciò che vien definito, con una certa imprecisione, “totalità”, e cioè sui
problemi di organizzazione, su fenomeni non risolvibili in eventi locali,
sulle interazioni dinamiche che appaiono nella parti quando sono isolate e
quando sono in una qualche configurazione» (Bertalanffy 2004, 72). Il concetto base è organizzazione: secondo la prospettiva sistemica un oggetto
non è altro che un’organizzazione di parti collegate le une alle altre per
mezzo di relazioni. Esso possiede proprietà emergenti, che le parti considerate ad una ad una non hanno e che pertanto vengono meno quando
un sistema viene suddiviso, dal punto di vista fisico o concettuale, in elementi isolati. L’insieme delle relazioni che definiscono un sistema come
unità, garantendone l’identità globale, stabilisce al tempo stesso le trasformazioni che esso può subire. Queste sono prodotte da influenze, pressioni
e perturbazioni provenienti dall’ambiente in cui il sistema è immerso e a
cui reagisce resettando la propria organizzazione e le proprie condizioni di
equilibrio.
Già questa rapida descrizione permette di sottolineare almeno
due guadagni teorici contenuti nella visione della realtà come sistema.
Anzitutto, il primato del concetto di relazione: spostare l’attenzione dalle
parti al tutto, dagli elementi di base ai principi di organizzazione, significa
infatti spostare l’attenzione dagli oggetti alle relazioni. L’approccio offerto
dalla sistemica presuppone infatti che gli oggetti stessi vadano intesi come
reti di interazioni, disposti a loro volta in reti ancora più vaste, costituite dall’ambiente, contesto mutevole all’interno del quale si producono le
dinamiche interattive. Il secondo contributo consiste nell’affermazione del
primato dei processi rispetto alle strutture. Mentre nella posizione meccanicista si danno anzitutto strutture, le quali solo in seguito, attraverso
serie causali lineari, interagiscono dando luogo a processi, nella scienza
dei sistemi ogni struttura è concepita come manifestazione di processi
sottostanti. In sintesi, come osserva Lucia Urbani Ulivi, quello descritto
dalla teoria dei sistemi è un ambiente tutt’altro che stabile e chiuso, cui si
aggiunge il tempo come un’ulteriore variabile da prendere in esame, ma
è un mondo «intrinsecamente dinamico, nel quale, grazie alle relazioni di
interazione e interferenza dei sistemi tra di loro e con l’ambiente, hanno
luogo continui fenomeni di emergenza» (Urbani Ulivi 2018, 196-197).
In che modo i sistemi si autoregolano, evolvono e apprendono? In
che modo si organizzano? A queste domande cerca di rispondere la cibernetica. [5] Definita da Norbert Wiener come lo studio del
controllo e della comunicazione nell’animale e nella [5] Per un quadro dettagliato
sulle origini della cibernetica si
macchina (Wiener 1968), essa si pone l’obiettivo di pro- rimanda
a Cordeschi (1998). Per un
porre un metodo applicabile in modo uniforme all’analisi approfondimento filosofico si segnala
il saggio di Pickering (2010), il cui
del comportamento tanto degli organismi viventi quanto merito
consiste nel mettere in luce le
delle macchine, considerati come sistemi governati dalle implicazioni ontologiche dell’approccio
Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi
Saverio Macrì
170
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 165 — 178
medesime leggi fisiche. A questo scopo, coinvolge le disci- cibernetico. Sulle prime applicazioni
della disciplina nel campo dell’arte si
pline legate allo studio di tali sistemi, come la biologia e rimanda
a Kwastek (2008, 183-195).
la neurofisiologia da un lato, e l’ingegneria della comunicazione e del controllo dall’altro, le quali, considerate dal
punto di vista formale, sembrano condividere una serie comune di problemi. Si tratta più precisamente di elaborare un codice linguistico che
permetta di trattare fenomeni come generazione, elaborazione e trasmissione di informazioni nello spazio e nel tempo, che intervengono nei meccanismi naturali e artificiali preposti all’autoregolazione di macchine e di
organismi viventi.
Di grande interesse a questo proposito è il principio di retroazione
negativa o feedback, cioè il segnale che consente a un sistema di regolare la
propria azione in base ai risultati ottenuti. Esso si basa su un’informazione
che dall’uscita di un circuito ritorna al suo ingresso trasmettendo lo stato
di funzionamento del sistema: se questo differisce dagli obiettivi stabiliti,
il sistema è capace di modificare il proprio funzionamento fino a raggiungere il risultato cercato. Un simile meccanismo regola nei viventi l’apprendimento per tentativi ed errori, in base al quale le azioni che riducono gli
stati di bisogno e che sono coronate da successo vengono rafforzate, mentre le altre vengono indebolite e progressivamente eliminate. Allo stesso
modo, il comportamento di una macchina può essere anch’esso governato
dal continuo confronto tra il suo stato attuale e uno scelto come riferimento. L’informazione così ottenuta permette al sistema di correggere i
propri errori e di non discostarsi troppo dallo stato di riferimento.
Ora, ciò che conta per il nostro discorso è il fatto che le idee alla base
delle macchine cibernetiche, come “controllo”, “comunicazione”, “retroazione”, “organizzazione”, denotino tutte comportamenti e modalità di
operare insiti nel sistema stesso. Come rileva William Ross Ashby, infatti,
«la cibernetica si occupa non di oggetti ma di modi di comportamento.
Essa non si pone la domanda: “che cos’è questo?”, ma, piuttosto: “che cosa
fa?”» (Ashby 1971, 7). In sostanza, nello studio di un sistema tecnico, più
che alla sua composizione e alle proprietà dei suoi elementi costitutivi, la
cibernetica sembra interessata ai suoi aspetti operativi. Al sistema tecnico
viene riconosciuta, come suo aspetto primario, la facoltà di compiere un
certo numero di operazioni atte a influire sull’organizzazione stessa della
sua struttura. Da questo punto di vista, nella macchina cibernetica è possibile osservare una sorta di complementarità tra struttura e operazione o,
per dirla in termini schiettamente filosofici, tra il suo carattere di oggetto e
quello di evento. Ovvero: la struttura di un simile sistema è data dal dispiegamento temporale delle sue funzioni; reciprocamente, tali modalità di
funzionamento vengono di volta in volta fissate nella forma di una struttura. L’oggetto tecnico è considerato come una totalità organizzata, capace
cioè di regolarsi e di evolvere, reagendo agli impulsi da parte del mondo
esterno e intrecciando con esso relazioni del tutto analoghe a quelle che un
organismo vivente intrattiene con il proprio ambiente. Come ha ben visto
Andrew Pickering (2002; 2010), quella promossa dalla cibernetica è quindi
un’immagine performativa del mondo, in cui la realtà viene osservata nel
processo del suo stesso accadere, popolata da sistemi vivaci e dinamici –
esseri umani, piante, animali, macchine –, i quali, agendo e reagendo alle
perturbazioni provenienti dall’ambiente, evolvono in modi imprevedibili.
Nella misura in cui contiene persone, idee, messaggi, condizioni atmosferiche,
fonti di energia, ecc., un sistema è, per citare il biologo dei sistemi Ludwig von
Bertalanffy, un “complesso di componenti in interazione” composto da materia,
energia e informazione a vari gradi di organizzazione. Nel valutare i sistemi l’artista è un prospettivista, che considera obiettivi, confini, strutture, input, output e
attività correlate all’interno e all’esterno del sistema. Laddove l’oggetto ha quasi
sempre una forma e dei confini fissi, la consistenza di un sistema può essere alterata
nel tempo e nello spazio, e il suo comportamento determinato sia dalle condizioni
esterne che dal suo meccanismo di controllo. (Burnham 1968, 32)
Riflettendo sul rapporto tra arte e tecnologie interattive, il critico d’arte statunitense Jack Burnham illustra così il passaggio dall’assetto tradizionale dell’esperienza estetica, basato su una trama di significati chiaramente definiti trasmessi dall’artista al pubblico, a un modello in cui
il sistema di interazioni prevale sulle singole unità strutturali e dove il
processo sostituisce l’opera come oggetto. Introdotta in Beyond Modern
Sculpture: the Effects of Science and Technology on the Sculpture of
this Century, l’idea di opera d’arte come sistema viene successivamente approfondita in una serie di articoli, tra cui Systems Esthetics, Real
Time Systems e The Aesthetics of Intelligent Systems. Sono pagine di
grande originalità, dove, come accade di rado, la riflessione estetica prefigura l’evoluzione stessa delle arti: ne avverte la complessità in movimento, ne intuisce potenzialità latenti e le guida verso
spazi non ancora esplorati. [6]
[6] Il banco di prova di tali riflessioni è
rappresentato dalla mostra Software,
Al centro del primo scritto, la progressiva trasfor- Information
Technology: Its New
mazione della scultura da oggetto inanimato a sistema tri- Meaning for Art, organizzata da
nel 1970 presso il Jewish
dimensionale in grado di simulare alcune proprietà degli Burnham
Museum di New York.
organismi viventi. Burnham vede nella scultura il concretizzarsi di una pulsione originaria che induce l’individuo a
imitare la vita. Partendo da un simile assunto, ne analizza la storia come
attuazione sempre più perfezionata di tale tensione mimetica, in un processo che conduce dallo stato di rappresentazione a quello di simulazione,
per poi approdare a un vero e proprio tentativo di riproduzione artificiale
del vivente. È in questa prospettiva, cioè nel tentativo di conferire vitalità alla materia inerte, che si spiega l’abbandono tanto del naturalismo
quanto dell’antropomorfismo e la progressiva sostituzione della scultura
con artefatti che simulano la vita attraverso l’uso della tecnologia. In questo avvicendamento, è proprio il concetto di sistema a costituire «il mezzo
attraverso il quale essa si allontana gradualmente dal suo stato di oggetto e
assume una certa misura di attività simili alla vita» (Burnham 1968, 10). A
differenza dell’oggetto inerte e stazionario, il sistema, in quanto insieme di
parti interdipendenti, manifesta alcune delle caratteristiche fondamentali
della vita, quali «autorganizzazione, crescita, mobilità interna o esterna,
irritabilità o sensibilità, input e output, equilibrio mantenuto cineticamente ed eventuale morte» (Burnham 1968, 12). Nell’interpretazione data
da Burnham il suo valore come idea artistica risiede dunque «nella possibilità di affrontare realtà cinetiche, e in particolare le strutture di raccordo
di eventi in evoluzione» (Burnham 1968, 318).
Un simile mutamento di prospettiva viene avviato da quella che
Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi
Saverio Macrì
Sistemi e cibernetica nell’arte interattiva
171
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 165 — 178
III.
Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi
Saverio Macrì
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 165 — 178
Burnham definisce arte post-cinetica o Cyborg Art, intendendo con tale
espressione l’arte dei sistemi che operano secondo principi cibernetici. Egli
riconosce alla Cyborg Art il primo tentativo di simulare letteralmente la
vita, un tentativo in cui «la scultura ricerca il proprio annullamento
muovendosi verso l’integrazione con le forme di vita intelligente che ha
sempre imitato» (Burnham 1968, 333). Il termine cyborg indica sia sistemi
elettromeccanici sia, più in generale, i sistemi uomo-macchina, i quali,
attraverso il meccanismo del feedback, esibiscono alcune proprietà ascrivibili agli organismi viventi. Il primo caso è illustrato da sculture cibernetiche autonome, le quali, pur reagendo a determinati stimoli prodotti
dall’ambiente, rimangono svincolate dallo spettatore; il secondo riguarda
invece quelle installazioni in cui l’intervento dello spettatore è necessario
a rendere l’opera viva. Entrambe le forme sostituiscono al modello cinetico della scultura un modello comportamentale, superando la semplice
imitazione del movimento degli automi per raggiungere l’imprevedibilità delle interazioni che contraddistinguono gli organismi più complessi.
Da questo punto di vista, i fragili organismi cibernetici rappresentano il
primissimo esito dell’influenza della tecnologia sull’arte, un’influenza che
nelle previsioni di Burnham, prima della fine del secolo, avrebbe condotto
a «forme d’arte che manifestano vera intelligenza, ma forse in modo più
significativo, capaci di relazione reciproca con gli esseri umani» (Burnham
1968, 15). In questo caso la parola spettatore risulterà piuttosto antiquata.
Esso finirà infatti per diventare una semplice variabile del sistema, dove
interagirà di volta in volta con tutte le altre variabili, come ad esempio il
materiale, le fonti d’energia, le condizioni atmosferiche, i messaggi.
Una variabile sempre più presente in una cultura tecnologicamente
avanzata è costituita dai computer, definiti da Burnham come sistemi
dotati di un’intelligenza non biologica, deputati all’elaborazione di informazioni. A suo avviso, l’incessante proliferazione delle tecnologie informatiche racchiude in potenza forme inedite di relazione estetica, diverse dalla
comunicazione a senso unico tipica dell’arte tradizionale, basata sul rapporto fisso tra spettatore e opera. Se si considera ogni pratica artistica come
una forma di comunicazione, e se ogni comunicazione avviene per mezzo
di segni mediante i quali un organismo influenza il comportamento di un
altro organismo, allora, conclude Burnham, l’estetica dei sistemi informatici può essere descritta come «un dialogo in cui due sistemi raccolgono e
scambiano informazioni in modo da modificare costantemente gli stati
l’uno dell’altro» (Burnham 1970, 96). L’accrescersi del coinvolgimento delle
tecnologie elettroniche può essere dunque valorizzato dal punto di vista
artistico attraverso la progettazione di sistemi uomo-macchina basati sullo
scambio biunivoco di informazioni. Lo spettatore comunica con l’ambiente
informatico attraverso le sue periferiche e tale scambio è reso possibile da
programmi time-sharing, grazie ai quali l’interazione con l’unità di elaborazione centrale del computer può avvenire in modo quasi simultaneo. In
questo modo, conclude Burnham, «un dialogo si sviluppa tra i partecipanti
– il computer e il soggetto umano – in modo che entrambi vadano oltre il
loro stato originale» (Burnham 1970, 119).
Del tutto affine a quella di Burnham è la posizione di Roy Ascott,
artista e pioniere nel campo degli studi sull’interattività. Analogamente
al critico statunitense, Ascott riconosce alla cibernetica il merito di aver
determinato un radicale cambio di scenario nell’esperienza estetica.
Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi
Saverio Macrì
Rispetto alle tradizionali forme di fruizione – definite “deterministiche”
in quanto basate su una trama di significati stabiliti dall’artista e trasmessi
a uno spettatore più o meno passivo – la cibernetica avrebbe contribuito a
introdurre una “tendenza comportamentale”, istituendo così il passaggio
dai caratteri di compiutezza e unitarietà tipici dell’opera d’arte a un modo
di esistenza che richiede di essere attivato dall’intervento dello spettatore.
La possibilità di una visione cibernetica dell’arte si fonda sull’analogia tra arte comportamentale e quello che Ascott chiama spirito cibernetico. Non diversamente dall’arte comportamentale, anche lo spirito cibernetico si misura con «ciò che le cose fanno, con il modo in cui lo fanno, e
con il processo all’interno del quale esse si comportano» (Ascott 2003, 100).
Anch’esso, in altre parole, assume una visione dinamica, secondo la quale i
fenomeni vanno considerati nel loro carattere operativo, nel loro far parte
di un processo in corso di svolgimento. Descritta secondo la cibernetica,
l’esperienza estetica viene quindi a configurarsi più precisamente come
un processo retroattivo di coinvolgimento. Per poter reagire allo spettatore, l’opera deve avere una struttura flessibile e adattabile; deve presentare cioè un grado di indeterminatezza tale da accogliere l’intervento dello
spettatore, il cui coinvolgimento consisterà nel decidere in un ventaglio
di possibilità. Il principio che regola l’interazione del sistema artista-opera-spettatore è quello cibernetico del feedback:
Il sistema artefatto/osservatore fornisce la propria energia di controllo: la funzione della variabile di uscita (la reazione dell’osservatore) è di agire come variabile di
ingresso, che introduce maggiore varietà all’interno del sistema e porta a maggiore
173
varietà in uscita (l’esperienza dell’osservatore). Questa ricca interazione deriva da
un sistema auto-organizzante nel quale sussistono due fattori di controllo: il primo è l’osservatore quale sottosistema autorganizzante; il secondo è l’opera, che di
Due sono dunque per Ascott le condizioni necessarie a produrre arte comportamentale: «che lo spettatore venga coinvolto e che l’opera in qualche
modo si comporti» (Ascott 2003,129). Come già messo in luce da Burnham,
anche secondo Ascott tale pratica avrebbe successivamente trovato il proprio strumento d’elezione nel computer, il quale prima che come una cosa
(oggetto, apparato o macchina), va inteso come un vero e proprio «insieme di comportamenti [set of behaviours]» (Ascott 2003, 225).
Come tutte le rigide opposizioni, anche quella tra arte deterministica e tendenza comportamentale è certamente riduttiva oltre che criticabile sotto diversi aspetti. Si potrebbe anzitutto obiettare che qualsiasi operazione artistica raggiunge il pieno compimento in presenza di un
pubblico. Essa realizza il proprio valore espressivo offrendosi alla percezione, si arricchisce della pluralità di significati che le vengono attribuiti,
cresce in profondità nei giudizi di cui è oggetto. Tuttavia (ed è questo che
il saggio in questione intende sottolineare), ciò che conta è il dialogo e il
rapporto reciproco che nasce tra opera e fruitore: da semplice soggetto
di un’esperienza contemplativa, esso diventa termine prioritario ed entra
direttamente nella realizzazione dell’opera. Infatti, alla base dell’evento
interattivo non vi sono esclusivamente sistemi di significato da interpretare o forme di empatia con l’opera, quanto piuttosto inviti processuali
cui il fruitore è chiamato a rispondere in prima persona.
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 165 — 178
norma non è in quel momento omeostatica. (Ascott 2003, 128)
Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi
Saverio Macrì
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Ambienti esteticamente potenti è, a questo proposito, l’espressione
con cui lo psicologo e cibernetico Gordon Pask definisce i sistemi reattivi che rendono possibile un simile dialogo tra fruitore e
opera. [7] Un ambiente esteticamente potente incoraggia [7] Per un profilo della figura di Gordon
si veda Pickering (2010). Per un
il fruitore «a esplorarlo, conoscerlo, a formare una gerar- Pask
approfondimento sulla sua produzione
chia di concetti che si riferiscono ad esso; inoltre, guida la artistica si rimanda a Rosen (2016,
sua esplorazione: in un certo senso, gli permette di par- 25-38).
tecipare o comunque di vedersi riflesso nell’ambiente».
Sebbene il suo assetto di base dipenda dall’artista, la sua “potenza estetica” si attualizza soltanto nella «relazione tra l’ambiente e l’ascoltatore o
spettatore» (Pask 1968, 34). All’origine della loro realizzazione sta l’assunto
secondo il quale ogni individuo «è incline a cercare la novità nel proprio
ambiente e, dopo aver trovato una situazione nuova, a imparare a controllarla» (Pask 1971, 76). Orientato per natura all’apprendimento, l’individuo tende a esplorare e interpretare tutto ciò che lo circonda, venendo
a patti con eventi ed esperienze che mettono in discussione il suo bagaglio di conoscenze, e a prendere parte, attraverso molteplici modalità di
interazione, all’ambiente abitato dagli altri individui. Una simile attitudine, tratto distintivo della condizione umana, raggiunge secondo Pask
la massima espressione ogni volta che l’individuo è coinvolto in un’attività estetica (realizzando, eseguendo, interpretando o più semplicemente
apprezzando un’opera d’arte). Al fine di incoraggiare tale interazione, un
ambiente esteticamente potente deve dunque offrire sufficienti novità
(senza tuttavia eccedere nel comunicare informazioni che renderebbero
l’ambiente non del tutto comprensibile), contenere forme che possono
essere interpretate a vari livelli di astrazione, «fornire spunti o istruzioni
implicite per guidare il processo di apprendimento astrattivo» e, infine,
«rispondere a una persona, coinvolgerla in una conversazione e adattare
le proprie caratteristiche al modo di discorso prevalente» (Pask 1971, 76).
Nella misura in cui chiama in causa il fruitore, qualsiasi opera d’arte
presenta, ad avviso di Pask, una natura interattiva tale da meritare lo statuto di ambiente esteticamente potente. Un dipinto, per esempio, non
reagisce ai nostri stimoli; e tuttavia, la nostra interazione con esso è dinamica: nel percorrerne la superficie con lo sguardo, fissiamo alcuni dettagli che ci permettono di avviare una sorta di conversazione intima tra il
nostro io immediato e la nostra rappresentazione interna. A determinare
il carattere inedito dei sistemi reattivi è però la capacità di esteriorizzare il processo, rendendo il fruitore protagonista consapevole della conversazione con l’opera: «se guardo un quadro, sono un osservatore parziale, anche se in un certo senso posso ridipingere la mia rappresentazione
interna. Se interagisco con un ambiente reattivo e adattativo, posso alternare i ruoli di pittore e spettatore a piacimento» (Pask 1971, 77). Accade
dunque che la relazione tra fruitore e opera, componente essenziale dell’esperienza estetica come tale, nella dimensione interattiva si fa progetto,
diviene cioè condizione di possibilità dello stesso fare artistico. [8]
Ciò è evidente sia in Musicolour che nei Colloquy of Mobiles,
installazioni progettate da Pask rispettivamente nel 1953 e
nel 1968. Ispirato al fenomeno della sinestesia, Musicolour è [8] Tali dispositivi rappresentano per
una vera e propria formulazione
composto da un trasduttore che riceve input sonori da uno Pask
plastica della sua Teoria della
strumento musicale e li converte in proiezioni luminose. Conversazione. Per un’introduzione
Viene così a formarsi un ciclo di feedback in cui l’input accessibile si veda Pask (1980).
175
Verso un’estetica dei sistemi
questo rimane tuttora l’obiettivo primario dell’arte digitale interattiva,
orientata sempre più verso il carattere di apertura del sistema tecnico, requisito fondamentale tanto per la creazione quanto per la fruizione dell’opera. Esso infatti permette di distinguere una forma di interattività per
così dire superficiale, in cui l’evoluzione dell’opera è determinata in anticipo e l’intervento del fruitore si limita a selezionare una serie di opzioni
prestabilite, da una forma più sofisticata, che rende l’opera incompleta e
sempre aperta alla collaborazione del fruitore. Gli ambienti esteticamente potenti al centro delle attuali sperimentazioni non comprendono però
soltanto fruitore e opera (generalmente costituita da un dispositivo tecnologico dotato di un’interfaccia collegata a sua volta un hardware capace di elaborare in tempo reale l’intervento del fruitore), ma si avvalgono
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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IV.
Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi
Saverio Macrì
fornito dall’esecutore al sistema tecnico produce da parte di quest’ultimo una risposta immediata, che a sua volta sollecita un ulteriore intervento. L’aspetto interessante di Musicolour consiste nella sua intrinseca
tendenza alla variabilità. Il dispositivo che ne governa il funzionamento
è infatti dotato di un sistema di apprendimento in grado di modificare
nel corso della performance il rapporto tra il vocabolario sonoro e quello
visivo. Ma c’è di più: esso «si annoia» della ripetizione (Pask
1971, 80). [9] Se viene suonato a più riprese lo stesso inter- [9] Non passi inosservata
l’attribuzione a un ente artificiale
vallo di note, cessa di rispondere agli input, costringendo di
un termine designante uno stato
così l’esecutore a variare la propria esibizione, pena la fine psicologico, aspetto riscontrabile
anche in Antitesi.
della collaborazione con l’opera.
Realizzati in occasione di Cybernetic Serendipity,
esposizione organizzata da Jasia Reichardt presso l’Institute of
Contemporary Arts di Londra, i Colloquy of Mobiles sono un assemblaggio di cinque automi in grado di comunicare tra loro per mezzo della luce e
del suono, indipendentemente da influenze esterne. A ciascun dispositivo
era stato attribuito dall’artista un genere, maschile o femminile. Quando,
dopo una prima fase di inattività, la specie femminile cominciava a illuminarsi, quella maschile emetteva un raggio di luce che veniva riflesso da uno
specchio collocato all’interno delle controparti femminili. Se la comunicazione aveva successo, le macchine emettevano un segnale sonoro. Inoltre,
per mezzo di torce e specchi era concessa anche ai visitatori la possibilità di
partecipare in prima persona al dialogo tra le macchine.
Istituendo una conversazione tra due sistemi – il fruitore e l’opera
– autonomi tra loro, ma capaci al tempo stesso di modificare lo stato l’uno
dell’altro, gli ambienti esteticamente potenti progettati da Pask prefigurano una forma marcata di interattività, distinta dalle strutture chiuse
di interazione. Mentre queste sono regolate dal semplice meccanismo di
stimolo-risposta, in base al quale a ogni input segue dopo un certo intervallo un output prestabilito, l’interattività immaginata da Pask mira a un
sovrappiù non previsto. Se la ricerca del nuovo è ciò che spinge l’individuo
a interagire con il proprio ambiente, allora anche l’interazione con quegli
ambienti esteticamente potenti che sono le opere d’arte non può ridursi
alla semplice esplorazione di possibilità preesistenti, ma deve introdurre,
all’interno dello schema generale di azione e reazione, una componente di
imprevedibilità.
Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi
Saverio Macrì
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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sempre più dell’elevatissima quantità di dati che attraversano impercettibilmente il flusso digitale.
Grazie alla diffusione di una fitta rete di tecnologie di registrazione,
nessuna dimensione della realtà sfugge, in linea di principio, alla sua trasformazione in dati. Esseri umani, organismi biologici, fenomeni climatici, fiumi, oceani, spazi urbani, istituzioni, sono tutti potenziali generatori di dati, a loro volta indagati da programmi di intelligenza artificiale
incaricati di cogliere andamenti e correlazioni atti a desumere probabilità ed elaborare previsioni. Quella dei dati e, più in generale, della computazione, rappresenta per l’individuo contemporaneo una mediazione
ormai necessaria per l’esercizio dei propri diritti e delle proprie libertà,
per poter cioè interagire, comunicare, esprimersi, lavorare, consumare,
studiare, divertirsi. Le stesse pratiche artistiche non sono esenti dall’attingere a questo immenso bacino di dati e informazioni. Ma ecco il punto:
in che modo una simile mole onnipresente costituisce per l’arte un materiale espressivo? In che modo, cioè, i dati possono essere integrati nell’esperienza estetica e generare significato?
Rispondere a queste domande secondo la prospettiva sin qui esaminata vuol dire, per l’arte, approfondire la struttura relazionale dell’opera,
collocando l’interattività al centro delle proprie pratiche con lo scopo
di rendere l’opera un sistema aperto di incontri e partecipazione. A dar
forma a tale sistema possono contribuire le variabili più disparate: come
nell’esempio presentato in apertura, non solo persone e cose, ma anche
l’intensità della luce a una determinata ora del giorno, un grado di temperatura, la quantità di vapore all’interno di una stanza, la misurazione
di una distanza o quella di una durata. Ciascun termine, inseparabile dal
contesto di cui fa parte, riceve individualità e significato solo nell’interazione con tutti gli altri. Le stesse coordinate spazio-temporali non fungono da semplice sfondo o cornice dei termini individuali, ma compongono assieme ad essi un’unica dimensione sensata e organizzata.
Ora, riprendendo Pask, possiamo dire che l’opera d’arte come
sistema attualizza tanto più la sua “potenza estetica” quanto meno i processi di interazione che la pongono in essere avvengono secondo modalità
precostituite. Se, da un lato, il susseguirsi dei fruitori come anche la continua variazione dei dati elaborabili dal sistema tecnico portano con sé in
ogni istante una componente di casualità e di novità inaspettata, dall’altro,
è la procedura attraverso la quale il sistema sintetizza tali variabili a introdurre all’interno dell’esperienza estetica un margine di imprevedibilità.
In questo caso l’indeterminazione, lungi dall’essere indice di un limite,
esprime viceversa una potenzialità atta ad attrarre il sistema verso relazioni sempre nuove, le quali, inscrivendosi in esso, lo trasformano incessantemente e introducono apporti sempre nuovi alla sua organizzazione.
È quanto illustrato in modo esemplare da Antitesi. In opposizione
agli obiettivi di automatismo ed elaborazione massiccia di dati perseguiti dalle sperimentazioni nel campo dell’intelligenza artificiale e, più
in generale, rispetto all’idea secondo la quale la sola novità del dispositivo basti di per sé a rinnovare l’arte, essa dimostra come la condizione
necessaria a incrementare il grado di interattività risieda al contrario nella
parziale indeterminazione del sistema. Da questa frangia di indeterminazione dipende pertanto la “potenza estetica” dell’opera, il suo configurarsi
cioè come il centro di una relazione che essa stessa stabilisce, ponendo in
Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi
Saverio Macrì
177
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 165 — 178
comunicazione ordini di realtà e termini eterogenei, che solo per suo tramite formano un sistema. Un sistema, quello fatto emergere da Antitesi,
la cui potenza estetica si carica di implicazioni anche esistenziali e politiche: resi sensibili nei confronti della struttura che collega un’intelligenza
artificiale a un glicine, possiamo infatti avvertire la sofferenza dell’ambiente in cui viviamo e decidere di conseguenza di prendercene cura.
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Oggetti, macchine, media
Cibernetica orientata all’oggetto.
L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville
Luca Fabbris
Dottorando presso l’Università degli
Studi di Torino (Consorzio FINO) con
un progetto incentrato sull’ontologia
dei sistemi auto-organizzati nella
cibernetica di second’ordine. Ha
conseguito la Laurea Magistrale
con una tesi su William Ross
Ashby. Co-dirige insieme ad Alberto
Giustiniano e Claudio Tarditi la collana
“BIT” per l’editore Orthotes.
luc.fabb@gmail.com
— OBJECT
— OBSERVER
— SECOND-ORDER CYBERNETICS
— CONSTRUCTIVISM
— IRREDUCIBILITY
183
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 183 — 198
How can autonomous and operationally closed units
construct a shared reality? This is one of the main
problems in second-order cybernetics. Ranulph Glanville’s
Theory of Objects (TO) is an attempt to solve it. With TO,
Glanville defines a Universe in which only unique and
irreducible units – named Objects – exist. An Object is a
dual unit characterized by a self-observation cycle
(oscillation between a self-observing and self-observed
moment). Each Object can observe and be observed by
another Object. An observing Object can grasp only the
public side of an observed Object (the private side of an
Object is accessible only through self-observation). Objects
do not share properties, and they have no common reality.
Objects are unique, singular, irreducible as well as
operationally closed. Reality is understood as the product
of the interaction between observing units. The article (1)
examines the epistemological and ontological features of
TO and the radical objectivism underlying it; (2) discusses
some of the problems of TO related to the definition of the
observer; and (3) shows how TO can be considered an ante
litteram formalization of Object-Oriented Ontology.
corpo e la mente non sono né due né uno. Se pensate che il corpo e la
mente siano due, è sbagliato; se pensante che siano uno, è ancora
sbagliato. Il corpo e la mente sono due e uno allo stesso tempo. Di solito
pensiamo che se qualcosa non è uno, è allora più di uno; se non è
singolare, è plurale. Nell’esperienza effettiva, però, la vostra vita è non
solo plurale, ma anche singolare. Ognuno di noi è dipendente e
indipendente allo stesso tempo.
Shunryu Suzuki-roshi, Mente zen, mente di principiante
Chiasma il mio corpo–le cose, realizzato mediante lo sdoppiamento del mio corpo in interno ed esterno, – e lo sdoppiamento delle
cose (il loro interno e il loro esterno)
È perché ci sono questi 2 sdoppiamenti che è possibile:
l’inserimento del mondo fra i 2 fogli del mio corpo, l’inserimento del
mio corpo fra i 2 fogli di ogni cosa e del mondo
Questo non è antropologismo: studiando i 2 fogli si deve
trovare la struttura dell’essere –
Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville
Luca Fabbris
È questo l’insegnamento più importante: né due né uno. Il
Partire da ciò: non c’è identità, né non-identità o non-coincidenza, c’è interno ed esterno che ruotano l’uno attorno all’altro –
Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile
I.
Introduzione: l’oggettivismo radicale
Ranulph Glanville è uno di quei profili intellettuali che si è portati a rubricare sotto l’etichetta di “autore marginale”. Di fatto il suo lavoro non
ha avuto la risonanza ottenuta da altri cibernetici di second’ordine – per
esempio Heinz von Foerster, Humberto Maturana, Francisco Varela e
Niklas Luhmann, cioè quegli autori che, riprendendo un’espressione di
Karl Müller, potremmo definire la «Hall of Fame» della cibernetica di second’ordine (Müller 2015, 27). Tuttavia, se vi è un autore che con il suo
lavoro è riuscito più di altri a incarnare i valori della cibernetica di second’ordine, questo è senz’altro Glanville. [1]
[1] La rubrica A (Cybernetic) Musing
(ora raccolta in
La Teoria degli Oggetti (TO) di
Glanville 2009)
Glanville, [2] la quale sarà al centro del [2] Glanville usa la “O” maiuscola per
che Glanville
distinguere il suo modo di intendere
curò per la rivista
presente contributo, può essere conside- l’Oggetto – che come vedremo è
Cybernetics
rata il “canone minore” della cibernetica di sostanzialmente una struttura duplice
and Human
o una forma nell’accezione di George
Knowing – con
second’ordine. Essa è espressione di ciò che Spencer Brown – dal modo in cui
le sue incursioni
Glanville chiama radical objectivism, cioè
comunemente lo si intende, cioè
in territori
an objectivism that is fuelled by the as if, which
supports construction and constructivism, but
come qualcosa di materiale, solido,
inanimato, ecc. Nel nostro contributo,
impiegheremo il termine “Oggetto” in
relazione all’uso che ne fa Glanville e il
termine “oggetto” per tutti gli altri casi.
which marries with our common experience and
with the pragmatics of convenience. It may be
indicated as objective in the sense that it is made of Objects, and it is
radical in the sense that the Objects (and the objectiveness) are con-
disparati e con
la sua capacità
di mostrare la
portata non solo
epistemologica,
ma anche
etica, politica
e pedagogica della cibernetica di
second’ordine – ne è una perfetta
testimonianza.
structive and have history on their side (Glanville 2012b, 113).
Si potrebbe definire l’oggettivismo radicale un’indagine
delle condizioni operative del costruttivismo radicale. [3] Al
[3] Per Glanville, il costruttivismo
radicale e la cibernetica di
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 183 — 198
184
[…] it is as if we look at (what we take to be) a screen on which there are shapes dancing. We see them as silhouettes and we believe there is something behind them that
causes them to dance – some puppet (and puppeteer) and some light that casts the
silhouette we see (this is the Wayang Theater of Java). But we cannot (and must not)
see behind the screen: our vision is formed and made possible because of the screen.
This is what we have invented, what we have constructed. Our way of looking, which
makes communication possible, makes contact with the supposed puppet behind
the supposed screen impossible. And, if we cannot look beyond the screen, we have
no way to know what is there, whether there is anything at all, or even if there is
a behind (Glanville 2012b, 111).
Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville
Luca Fabbris
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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centro del costruttivismo radicale vi è l’idea che la cono- second’ordine sono le due facce di una
stessa medaglia e vengono spesso
scenza non sia una concordanza o corrispondenza tra una considerati
dall’autore come sinonimi
rappresentazione prodotta da un osservatore e una realtà (cfr. Glanville 2012f).
supposta oggettiva, bensì un «adeguamento nel senso funzionale» (Glasersfeld 2018, 20). L’osservatore non si rappresenta una realtà esterna, ma costruisce le proprie partizioni d’ordine in
funzione dei vincoli che l’ambiente pone, i quali vanno intesi come perturbazioni alle quali l’osservatore deve far fronte. Usando le parole di Ernst
von Glasersfeld, per il costruttivismo radicale «la conoscenza, indipendentemente da come venga definita, sta nella testa delle persone, e […] il soggetto pensante non ha alternativa: può solo costruire ciò che sa sulla base
della sua stessa esperienza» (Glasersfeld 2015, 25). Tuttavia, dire che l’osservatore può fare esperienza solo della realtà che costruisce, non significa che
la realtà sia solo ciò che l’osservatore costruisce. In ciò risiede la differenza
tra un costruttivismo radicale e un costruttivismo ingenuo.
L’oggettivismo radicale garantisce che il costruttivismo radicale non
venga insidiato dalla fallacia epistemologica – confusione tra ciò che esiste e
il modo in cui conosciamo ciò che esiste – e non si rovesci in un costruttivismo ingenuo. Si prenda, a titolo d’esempio, il seguente argomento che, sulle
prime, sembrerebbe mettere in luce una chiara criticità del costruttivismo
radicale: “L’osservatore può fare esperienza solo della realtà che costruisce, ma in questa realtà costruita l’osservatore fa esperienza di altri-osservatori, i quali o dipendono dagli atti di osservazione dell’osservatore o non
ne dipendono. Nel primo caso, l’esito è il solipsismo – l’osservatore è l’unica
realtà e gli altri-osservatori sono solo il risultato delle sue osservazioni. Nel
secondo caso, l’osservatore incontrerebbe, nell’esperienza che egli stesso ha
costruito, ciò che non ha costruito: l’altro-osservatore. Come può il costruttivista sostenere che tutto ciò che esperisce sia una sua costruzione se in
questa costruzione può esperire un altro-osservatore che non ha costruito?”.
Le aporie a cui il costruttivismo in questione conduce sono chiaramente dovute alla fallacia epistemologica che porta a confondere l’“altro-osservatore reale” con l’“altro-osservatore esperito” – confusione tra
piano ontologico e piano epistemologico. Il costruttivista radicale considererebbe l’argomento una giusta critica all’idealismo insito nel costruttivismo ingenuo, niente di più. Ciononostante, dato che per il costruttivista
radicale l’osservatore effettivamente non può avere accesso all’“altro-osservatore reale”, ma può conoscere solo l’“altro-osservatore esperito”, la possibilità che dietro quest’ultimo non vi sia nulla non può essere esclusa. Come
scrive Glanville:
Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville
Luca Fabbris
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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Ciò che rimane indubitabile, per l’osservatore, è il fatto di fare esperienza.
Anche nel momento in cui gli si fornissero delle prove che una sua esperienza è un’allucinazione, difficilmente lo si potrebbe convincere del fatto
che egli non abbia avuto un’esperienza reale dell’allucinazione. Come osservava William Ross Ashby (2021, 62), «[s]e io vedo una sedia, in seguito
posso essere convinto, con altre prove, che quell’impressione era prodotta
solo da un gioco di luce; posso essere persuaso che l’ho vista in sogno, o anche in un’allucinazione; ma non esiste prova che possa persuadermi che la
mia coscienza era errata […]».
In §2.1. vedremo che, se non venisse postulata una certa struttura
della realtà dietro lo schermo – o se non si facesse “come se” esistesse
un altro-osservatore reale dietro l’altro-osservatore esperito – saremmo
costretti a dubitare di ciò che è indubitabile: l’esistenza della nostra esperienza. Per l’oggettivismo radicale si tratta in sostanza di dare un fondamento trascendentale all’idea che ogni osservatore sia un sistema operativamente chiuso in grado di conoscere solo ciò che
costruisce. [4] L’obiettivo è definire le condizioni struttu- [4] Müller osserva che «the crucial
research problem for Ranulph Glanville
rali affinché delle unità autonome possano costruire, pro- was
transcendental in nature because
prio in virtù della loro chiusura operativa – dunque della he was searching for the conditions of
possibility for observing, knowing,
loro inaccessibilità reciproca – una realtà comune. Glanville the
communicating, and so forth and
chiama queste unità Oggetti, i quali, come vedremo, pos- operated, therefore, on a very special
siedono una struttura duale – sono uno e due al contempo. level of abstraction» (Müller 2015, 37).
A dispetto della sua matrice costruttivista, la TO
potrebbe trovare un habitat favorevole e un terreno su cui attecchire in
quei territori disciplinari già concimati dalla Object-Oriented Ontology
(OOO). La TO di Glanville sembra quasi una formalizzazione ante litteram della OOO. Soprattutto nella riflessione del primo
Levi Bryant (2011) [5] – influenzata principalmente dal rea- [5] Prima della sua “svolta macchinica”
avvenuta con il testo Ontolismo trascendentale di Roy Bhaskar, dalla teoria dell’auto- Cartography
(Bryant 2014).
poeisi di Maturana e Varela e dalla teoria dei sistemi sociali
di Luhmann – si può trovare una teoria dell’oggetto quasi
perfettamente sovrapponibile alla TO di Glanville. Anche la unit operations theory di Ian Bogost (2006) e l’ontologia orientata agli oggetti di
Graham Harman (2021) possono essere messe in risonanza con la TO. La
definizione di oggetto proposta da Harman, per la quale «un oggetto è
qualsiasi cosa che non può essere totalmente ridotta né ai componenti di
cui è fatta, né agli effetti che ha sulle altre cose» (Harman 2021, 49), sembra
uscita, come vedremo, direttamente dalla penna di Glanville.
Nell’Universo che Glanville costruisce esistono infatti solo Oggetti
irriducibili. In questo Universo ogni Oggetto è, in potenza, osservabile da
qualche altro Oggetto. E ogni Oggetto è osservabile perché si auto-osserva.
Gli Oggetti sono strutture che dobbiamo supporre esistenti (fare “come
se” fossero strutture reali) se vogliamo rimanere fedeli all’unico fatto certo
che possiamo ricavare dalla nostra esperienza: il fatto che vi sia esperienza,
che sappiamo di esistere in quanto osserviamo e ci osserviamo osservare.
1.
Nell’articolo What is memory, that it can remember what it is? (Glanville
2012e) si può trovare, in forma succinta, la riflessione – quasi una meditazione cartesiana – che ha condotto Glanville alla formulazione dell’oggettivismo radicale e della TO.
Glanville parte dall’analisi della frase «I know this» (Glanville 2012e,
323), che, per una questione di chiarezza espositiva, tradurremo così: “Io
conosco (questo) oggetto”. La frase implica l’esistenza di un Io, di un
oggetto, e di una relazione – il “conoscere” – che lega i due termini. La
frase ha dunque due componenti ontologiche (l’Io e l’oggetto) e una componente epistemologica (la relazione “conoscere”).
L’Io non può conoscere l’oggetto se non è in grado di osservarlo. Al
contempo, non può osservarlo se non è in grado di osservarsi come differente dall’oggetto. Auto-osservandosi l’Io sa di esistere, ed è proprio l’auto-osservazione a renderlo certo di esistere. In questo modo l’Io assume due
ruoli: osservante e osservato. L’Io conosce se stesso che conosce l’oggetto.
Dal momento che si auto-osserva, l’Io non può dubitare della sua
esistenza. Per l’Io, dunque, l’esistenza dell’osservazione è una certezza, tramite la quale perviene all’indubitabilità della sua esistenza. Tuttavia, quale
certezza può avere l’Io che anche l’oggetto che viene osservato esista al pari
dell’Io? Siccome è l’Io a dire “Io conosco (questo) oggetto”, come può l’Io
sapere che l’oggetto non sia, in realtà, una sua costruzione? «Does it only
exist through my act of observing, or does it exist anyway?» (Glanville
2021e, 325).
Dietro l’idea che l’oggetto esista solo come costruzione dell’Io si
nasconde l’insidia del solipsismo, che Glanville si affretta a disinnescare
sulla base di un argomento che risale a un testo di von Foerster (1987a).
Nell’esperimento mentale imbastito da von Foerster vi è un uomo con una
bombetta, un solipsista, il quale ritiene di essere l’unica realtà esistente e
che tutto ciò che osserva non sia altro che il prodotto delle sue operazioni
di osservazione. Tra le osservazioni che l’uomo con la bombetta costruisce ci sono alcuni suoi simili, i quali gli confessano di essere dei solipsisti.
Come può l’uomo con la bombetta escludere di non essere egli stesso il
prodotto delle operazioni di osservazione di uno di questi presunti solipsisti? Come scrive von Foerster (1987a, 56), «se suppongo di essere l’unica
realtà, viene fuori che sono il frutto dell’immaginazione di qualcun altro,
che a sua volta suppone di essere lui l’unica realtà». In sostanza, il solipsismo insinua un dubbio sull’esistenza reale dell’Io, che però l’auto-osservazione rende indubitabile.
Per rimanere fedele all’indubitabilità dell’esistenza dell’Io data
dall’auto-osservazione, l’Io deve postulare l’esistenza di altri-Io indipendenti dai suoi atti di osservazione. Rimane però aperta la possibilità che
tra gli oggetti che l’Io osserva ve ne siano alcuni che non dipendono dalle
sue operazioni di osservazione, e che dunque meritano di essere considerati altri-Io; e ve ne siano altri che invece dipendono dalle operazioni di
osservazione e che devono essere considerati non-Io. A quale criterio l’Io
può appellarsi per distinguere in maniera inequivocabile, tra gli oggetti
che osserva, quelli che dipendono dalle sue osservazioni da quelli che ne
Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville
Luca Fabbris
Teoria dell’Oggetto
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II.
Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville
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sono indipendenti? Dal momento che l’Io non può accedere all’esperienza
dell’oggetto, l’Io non dispone di nessun criterio che inequivocabilmente
gli permetta di stabilire se un oggetto sia un altro-Io o un non-Io. L’unico
requisito che un oggetto deve possedere per essere un altro-Io è la sua capacità di auto-osservarsi, ma l’auto-osservazione di un altro-Io è ciò a cui l’Io
non può avere accesso. Inoltre, dal fatto che esistano altri-Io che sono in
grado di comunicarmi la loro capacità di auto-osservarsi, non posso concludere che gli oggetti che non me la comunicano non siano altri-Io, e che
dunque non esistano indipendentemente dalle mie osservazioni. Ne consegue che non posso escludere che ogni oggetto che osservo sia un altro-Io
e che esista indipendentemente dalle mie osservazioni.
Per Glanville dobbiamo procedere “come se” ogni oggetto fosse un
altro-Io, cioè dobbiamo procedere in conformità con quello che Glanville
chiama principle of mutual reciprocity, cioè «the reciprocal arrangement
by which what may be of one may be of the other». (Glanville 2012c, 192).
Vedremo in seguito che a fondamento dell’ontologia piatta formulata da
Glanville si trova proprio il principio di mutua reciprocità, il quale vieta di
introdurre distinzioni a priori che generano un partage ontologico tra soggetto/oggetto, Io/non-Io, osservatore/non-osservatore, ecc.. Nell’Universo
formale che Glanville costruisce, tutto sarà, democraticamente, Oggetto,
e ogni Oggetto avrà gli attributi di un Io, dunque potrà auto-osservarsi –
sarà al contempo, rispetto a se stesso, osservatore e osservato.
La frase da cui siamo partiti “Io conosco (questo) oggetto”,
diventa “l’Oggetto che si auto-osserva osserva l’Oggetto che si auto-osserva”. L’universo che Glanville costruisce è, in sostanza, una comunità di
osservatori.
188
Tutto ciò che esiste, nell’Universo di Glanville, è un Oggetto. L’Oggetto
esiste perché si auto-osserva, e l’auto-osservazione è il marchio di unicità di ogni Oggetto (Glanville 2012d, 233-234). Tutto ciò che esiste è dunque un Oggetto, ma ogni Oggetto è singolare e differente da tutti gli altri.
Al contempo, l’auto-osservazione implica che l’Oggetto sia al contempo
auto-osservante e auto-osservato, e questo comporta un primo problema,
poiché «if the Object, in order to be itself, fulfils two roles, how can still
be only one?» (Glanville 2012e, 326). L’Oggetto, in questo senso, ha una
struttura isomorfa a ciò che George Spencer Brown ha chiamato forma
(Spencer Brown 2011). Per Spencer Brown la forma è l’unità di una distinzione. Tracciando un cerchio su una pagina bianca, marchiamo uno spazio
dapprima non marcato, lo dividiamo in modo che esista uno spazio interno al cerchio e uno spazio esterno. La forma, in questo caso, è l’unità della
differenza tra interno ed esterno.
Tuttavia, come la forma di Spencer Brown non mi consente di indicare contemporaneamente l’interno e l’esterno, ma solo uno dei due lati
alla volta, così l’Oggetto di Glanville non può trovarsi, nello stesso istante,
nella posizione di osservante e di osservato. Per passare da un lato all’altro
del cerchio occorre un’operazione, e l’operazione comporta l’introduzione
di una certa temporalità: nell’istante t1 indico il lato interno della distinzione, e nell’istante t2 il lato esterno. Così l’Oggetto può trovarsi nell’istante t1 in posizione osservante e nell’istante t2 in posizione osservata, ma
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2.
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non può trovarsi in entrambe le posizioni nello stesso istante. La temporalità richiesta dall’operazione, dunque, scioglie il paradosso nel quale l’Oggetto è, al contempo, uno e due, unico e diviso. L’auto-osservazione è perciò un ciclo temporale che prevede il passaggio dalla posizione osservante
alla posizione osservata. Questo ciclo è l’orologio interiore che dà consistenza all’Oggetto (Glanville 2012d, 262-265).
Il problema diventa capire in che modo un Oggetto che si auto-osserva può osservare un altro Oggetto che si auto-osserva. Poniamo di avere
l’Oggettoa (Oa) e l’Oggettob (Ob). Nel processo di auto-osservazione di Oa
ci sarà un momento in cui esso occuperà la posizione di Oggetto osservato.
La posizione di Oggetto osservante rimarrà vacante, e ciò renderà possibile a un altro Oggetto, per esempio Ob, di occuparla. Affinché possa occupare la posizione libera di Oa, Ob dovrà anch’esso trovarsi nella posizione
di Oggetto osservato, in modo da poter adoperare la “facoltà” osservante
per un’etero-osservazione. Rimanendo libera la posizione osservante di
Ob, essa potrà essere occupata dalla facoltà osservante di Oa (o di un altro
Oggetto), il quale, nel ciclo di auto-osservazione, si troverà in posizione
osservata. Otteniamo, in questo modo, la correlazione tra le temporalità
di due Oggetti diversi, ognuno dei quali occupa la posizione lasciata libera
dall’altro: Oa e Ob sono due Oggetti che si osservano.
Il risultato cui Glanville perviene non è molto dissimile dalla “struttura dell’essere” cui Merleau-Ponty fa riferimento nel passaggio tratto da
Il visibile e l’invisibile che abbiamo riportato in esergo. Il corpo è una
forma, scissa in interno ed esterno, così come lo è il mondo. La scissione
del corpo e del mondo permette al primo di penetrare nella scissione
del secondo e al secondo di penetrare nella scissione del primo. Lo stesso
avviene nel processo di osservazione tra i due Oggetti descritta poc’anzi:
Oa si interpone nel ciclo di auto-osservazione di Ob e Ob si interpone nel
ciclo di osservazione di Oa. In tal senso, «non c’è identità, né non-identità
o non-coincidenza, c’è interno ed esterno che ruotano l’uno attorno all’altro» (Merleau-Ponty 2007, 275).
Riferito alla correlazione tra Oa e Ob, il termine osservazione,
diversamente da quanto abbiamo visto in §2.1, non viene impiegato da
Glanville per indicare la facoltà psichica alla base della conoscenza, bensì
per indicare, in maniera estremamente generale, l’intrusione o l’occupazione di un Oggetto da parte di un altro. Nella sincronizzazione tra Oa e
Ob avviene quella che si potrebbe definire una co-intrusione simbiotica,
dal momento che le due temporalità degli Oggetti si incastrano alla perfezione. [6]
[6] Questo rapporto di intrusione
comporta il venir meno della
Ciò che vale per l’osservazione, vale anche per l’au- non
chiusura operativa dei due Oggetti.
to-osservazione. Essa non sembra rimandare al processo La chiusura operativa è garantita dal
ciclo completo di auto-osservazione.
tramite cui un sistema psichico conosce se stesso, piutto- Vi
sarebbe “rottura” della chiusura
sto sembra indicare l’operare ricorsivo che dà consistenza operativa solo nel momento in cui, per
Oa occupasse sia la parte
all’Oggetto, ciò che lo individua come Oggetto separandolo esempio,
osservata sia la parte osservante di
da altri Oggetti e rendendolo unico. In questa accezione, Ob, ma questo è impossibile, poiché
significherebbe che Ob abbia lasciato
l’auto-osservazione risulta equivalente all’individuazione vacante
sia la parte osservata che la
di un’unità autopoietica, indica cioè l’endo-struttura di parte osservante, dissolvendosi come
unità operativa e rendendo di fatto
un’unità che si genera tramite operazioni ricorsive (l’oro- impossibile
la sua osservazione.
logio interno di un oggetto, il ciclo dell’auto-osservazione,
è un circolo autopoietico). Questa assimilazione di autopoiesi e auto-osservazione, resa possibile dalla polisemia che, in Glanville,
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caratterizza il termine osservazione, comporta non pochi problemi, che
verranno presi in esame in §3.
L’unicità dell’Oggetto, garantita dal ciclo dell’auto-osservazione, è
motivo della sua irriducibilità. Ciò che Oa osserva di Ob non equivale a
ciò che Ob osserva nel suo ciclo di auto-osservazione. Glanville introduce
la distinzione tra essenza e comportamento per rendere conto di questo scarto (Glanville 2012d, 239-240). Attraverso l’auto-osservazione Ob
osserva la sua essenza, che equivale al suo lato privato. Osservando Ob,
Oa non potrà osservarne l’essenza, ma esclusivamente il comportamento,
il lato pubblico di Ob. Il comportamento di Ob, però, è un coprodotto
di Oa e di Ob, dipende cioè dall’unicità tanto dall’osservatore quanto
dell’osservato. Pertanto, ciò che Oa osserva di Ob non sarà ciò che un
altro oggetto Oc osserverà di Ob. In altri termini, il comportamento di un
Oggetto dipende dalle relazioni che questo intrattiene con altri Oggetti.
Nondimeno, nessuna relazione potrà esaurire l’Oggetto, poiché il marchio
di unicità dell’Oggetto è dato dalla sua auto-osservazione, la quale è inaccessibile ad altri Oggetti. Potranno dunque esserci molteplici osservazioni
di un Oggetto, ognuna delle quali contribuirà alla costruzione di un comportamento diverso, osservazioni che potranno contraddirsi l’un l’altra,
ma nessuna delle quali potrà mai pretendere di dire qualcosa sull’essenza
dell’Oggetto.
In questo argomento si può ravvisare il nucleo teoretico della
Object-Oriented Ontology (OOO). Per tutti gli object-oriented ontologists ogni oggetto è scisso: per esempio, in Harman troviamo la scissione tra
oggetto reale e oggetto sensuale (Harman 2021) e in Bryant la scissione tra
oggetto virtuale e manifestazioni locali (Bryant 2011). In entrambi i casi,
abbiamo un lato privato dell’oggetto, con una sua endo-struttura, che si
ritrae da qualsiasi relazione con altri oggetti, i quali possono osservare solo
il suo lato pubblico (il suo comportamento, le sue manifestazioni locali,
le sue qualità sensuali, ecc..). Le eso-relazioni dell’oggetto (le relazioni tra
oggetto e altri oggetti) possono dunque dar vita a differenti manifestazioni locali e comportamenti tra di loro contraddittori.
Un esempio, tratto dall’analisi del multinaturalismo amerindio
condotta da Eduardo Viveiros de Castro, può essere utile per illustrare
vividamente l’idea dell’irriducibilità dell’Oggetto alle molteplici osservazioni: «ciò che per noi [umani] è sangue, per i giaguari è
birra» (Viveiros de Castro 2017, 57). [7] Abbiamo qui due [7] Tuttavia, impieghiamo l’esempio
appena riportato come illustrazione
manifestazioni locali differenti che producono un chia- di
un’ipotesi teorica differente da
sma rispetto a due osservatori differenti. Il “sangue reale” quella avanzata da Viveiros de
il quale scrive: «non crediate
non è ciò che l’umano o il giaguaro vedono come sangue, Castro,
che gli indigeni pensino che esista
né la “birra reale” è ciò che l’umano o il giaguaro vedono un “qualcosa = x”: qualcosa, ad
che gli umani vedrebbero
come birra. Vi è un lato privato del sangue e un lato pri- esempio,
come sangue e i giaguari come birra.
vato della birra che non possono essere ridotti alle loro Nella multinatura non esistono entità
autoidentiche diversamente percepite,
rispettive eso-relazioni, che non si risolvono nelle loro ma
molteplicità immediatamente
rispettive manifestazioni locali. Sulla base della loro uni- relazionali del tipo sangue/birra»
de Castro 2017, 59). Non
cità (data dal loro ciclo di auto-osservazione o circolo auto- (Viveiros
entreremo nel merito della proposta
poietico) l’umano e il giaguaro osservano differenti mani- di Viveiros de Castro, ci limiteremo a
un uso libero e “fazioso” (rispetto
festazioni locali di un oggetto unico, la cui essenza si ritrae fare
alla teoria che stiamo presentando)
costantemente. L’umano e il giaguaro costruiscono con dell’esempio in questione.
le loro osservazioni ciò che Glanville decide di chiamare,
in maniera piuttosto singolare, consapevolezza: «For the
Modi di osservazione
All’inizio dell’articolo as if (Radical Objectivism), Glanville scrive: «I have
not defined my terms. They change (as does the writing style) in the progress of the argument. The change is intentional. Meaning are made by
readers, not writers» (Glanville 2012b, 106).
“Osservazione” è un termine che nel lavoro di Glanville non viene
mai definito, il cui significato dipende di volta in volta dal contesto in
cui viene adoperato. Esso può significare, a seconda dei casi, cose molto
diverse: esperire, conoscere, costruire, distinguere, correlare, rappresentare, ecc.
L’ontologia piatta di Glanville, espressa dal fatto che nell’Universo
esistono solo Oggetti e ogni Oggetto – poiché si auto-osserva – osserva ed
è osservato, si fa forte di questa polisemia, attraverso la quale cose molto
diverse vengono condensate in un unico termine.
Come scrive Bogost, ontologia piatta significa che «all things equally
exist, yet they do not exist equally» (Bogost 2012, 11). Abbiamo visto come
Glanville, attraverso il principio di mutua reciprocità, fa del suo Universo
una comunità di osservatori alla pari. Si potrebbe dire che per Glanville
tutti gli Oggetti sono osservatori, sebbene non tutti gli Oggetti osservino
alla stessa maniera. Anche il termine “auto-osservazione” nasconde una
pluralità di significati che vanno oltre quelli di auto-referenza e di auto-coscienza. Esso indica forme di processi ricorsivi che possono essere molteplici. In sostanza, osservazione e auto-osservazione sono, per Glanville,
termini astratti che non rimandano a un tipo di operazione precisa, ma
che raccolgono in sé tutta una serie di operazioni possibili.
L’ontologia piatta, però, palesa un limite, ben espresso dal seguente
passaggio tratto da Harman:
[L’ontologia piatta] rappresenta per la filosofia un buon punto di partenza, ma offre un finale deludente […]. [L]a filosofia dev’essere in grado di parlare di tutte le
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III.
Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville
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observer, the awarness is what he believes the Object of his
observation to be» (Glanville 2012d, 245). [8] Riassumendo [8] La consapevolezza e il
comportamento sono i due lati
con le parole di Glanville, «[t]he Essence is Private. The exi- di
una manifestazione locale: il
stence of the Essence is implicit in any other observation, comportamento è la manifestazione
locale riferita all’Oggetto osservato,
since the Object must exist for itself, to exist for other mentre
la consapevolezza è la
observers. There is thus priority of existences: the Essence manifestazione locale riferita
is implicit in both behaviours and awareness; behaviours all’Oggetto che osserva.
and awareness are only potential in the Essence» (Glanville
2012d, 258).
La questione di fondo è la seguente: per esserci una manifestazione
locale, deve esserci un oggetto reale; per esserci etero-osservazione, deve
esserci auto-osservazione; per esserci un comportamento, deve esserci
un’essenza. Il secondo termine di ognuna di queste opposizioni non può
essere ridotto al primo. Ciononostante, non vi sarebbe Oggetto o forma
senza la compresenza dei due termini. L’Oggetto è l’unità di una differenza,
o meglio, la differenza tra identità e differenza. Ciò significa che l’oggetto
non è solo i suoi comportamenti, ma è anche i suoi comportamenti: «The
Object is its Essence and is its behaviour […]» (Glanville 2021d, 242).
base al loro maggiore o minore grado di realtà […]. Eppure l’ontologia piatta sarebbe un finale troppo deludente per qualsiasi filosofia. Ipotizziamo che, dopo cinquant’anni di pratica filosofica, un teorico della OOO non avesse nient’altro da dire
che “gli esseri umani, gli animali, la materia inanimata e i personaggi di fantasia
esistono tutti allo stesso modo”. […] In poche parole, ci aspettiamo che la filosofia
ci […] dica quali differenze esistono tra i diversi tipi di oggetti (Harman 2021, 59).
I limiti dell’ontologia piatta di Glanville sono stati ben individuati da
Elena Esposito, la quale costruisce una teoria della distinzione che si fonda sulla “distinzione guida” operazione/osservazione (Esposito 1992a). In
assenza di un criterio che distingua l’operazione (che si riferisce ai processi
“ciechi” d’individuazione di un sistema autopoietico) e l’osservazione (che
si riferisce all’uso di indicazioni e distinzioni), non vi sarebbe nulla che
«impedisca di affermare, come fa Glanville, che pietre, numeri, concetti,
ecc., possono tutti essere osservati solo poiché a loro volta si auto osservano» (Esposito 1992a, 23). Il passaggio che segue merita di essere riportato
per esteso, dato che coglie una chiara problematicità della TO di Glanville:
Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville
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cose […] senza scartarne alcune prima del tempo o classificarle frettolosamente in
Secondo la “massima” dell’autopoiesi, infatti, ogni unità dipende dal reticolo ricorsivo delle osservazioni e viene costituita da esso, e la cibernetica di second’ordine può sostenerla solo affermando la stessa cosa di se stessa come osservatore,
cioè come uno dei suoi oggetti, e non ha modo di distinguerlo da oggetti di tipo
differente. Dal momento che l’osservatore di secondo ordine giunge, nell’auto-osservazione, a porre se stesso (la propria unità) come risultato della riproduzione ri-
192
corsiva delle proprie operazioni, esso è tenuto a trarre la conseguenza che lo stesso
vale per tutti gli altri oggetti, e a dedurne che anch’essi, in quanto unità, devono
essere quindi generati per auto-osservazione (o perlomeno non può escludere una
In sostanza, l’autopoiesi e l’auto-osservazione, due livelli che per Esposito
andrebbero mantenuti distinti, vengono appiattiti da Glanville, finendo per formare un tutt’uno indistricabile (da qui la polisemia che, in
Glanville, caratterizza il termine osservazione). La distinzione guida su cui
si fonda il lavoro di Esposito (operazione/osservazione) consentirebbe invece di distinguere tra «(a) semplici oggetti non-sistema; (b) sistemi non
osservanti; (c) altri osservatori o sistemi-osservanti» (Esposito 1992a, 23). In
breve, secondo Esposito occorre dotarsi di una definizione precisa di osservazione capace di distinguerla dall’operazione autopoietica. Così facendo, un osservatore, nel suo dominio di osservazione, sarebbe in grado di
distinguere tra oggetti inanimati (oggetti non-sistema), sistemi autopoietici che non osservano (sistemi viventi), sistemi che osservano (sistemi psichici e sociali).
Esposito propone una distinzione tra operazioni monovalenti (proprie dell’autopoiesi) e operazioni bivalenti (proprie di un osservatore di
prim’ordine – cioè un osservatore che osserva operazioni monovalenti).
L’operazione monovalente coincide con l’individuazione di un sistema che
si separa dal suo ambiente: il sistema si chiude operativamente rispetto al
suo ambiente, individuandosi come unità autopoietica. A livello dell’operazione monovalente vi è solo distinzione cieca, non vi è cioè la possibilità per il sistema autopoietico di indicarsi come un lato di ciò che è stato
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conclusione di questo genere) (Esposito 1992a, 23).
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distinto (auto-referenza) o di indicare l’ambiente come l’altro lato della
distinzione (etero-referenza). Solo nell’operazione bivalente, che dispone
di un valore per indicare (vero, positivo, figura) e un valore per distinguere l’indicazione dal non indicato (falso, negativo, sfondo) si può trovare
il requisito formale dell’oscillazione tra auto-referenza ed etero-referenza
che è propria dell’operazione di osservazione.
Esposito individua tanti livelli di osservazione quanti sono i valori
logici di volta in volta impiegati. Una logica a due valori può essere applicata a una realtà popolata da oggetti monovalenti, ognuno dei quali può
essere indicato (figura) e distinto dagli altri (sfondo). Una logica a più di
due valori, che sospende il principio del tertium non datur, può essere
applicata a una realtà popolata da osservatori, in cui un osservatore di
second’ordine deve distinguere un’osservazione (figura) da altro (sfondo),
ma deve tener conto che l’osservazione osservata (la figura) è un’operazione bivalente (cioè è a sua volta una distinzione figura/sfondo): «Un
oggetto bivalente come una distinzione richiede delle forme di indicazione più complesse: richiede in particolare la disponibilità di almeno tre
valori, due per l’indicazione dei due lati della distinzione in oggetto ed
uno per distinguerla da altro» (Esposito 1992b, 258).
Più si sale di ordine, più sono i valori che devono essere introdotti
per rendere conto dei vari livelli di distinzione. Ogni ordine di osservazione rende possibile un certo tipo di ontologia, che corrisponderà ai
valori implicati nell’operazione di osservazione. Vi è dunque una corrispondenza tra logica e ontologia. La logica «si occupa delle distinzioni
attraverso le quali l’osservatore genera il mondo con cui poi si confronta»
(Esposito 1992a, 28), mentre l’ontologia «non è altro che la proiezione di
una data struttura di distinzioni; a seconda degli strumenti di cui l’operatore dispone, cioè in ultima istanza del suo apparato di distinzioni, esso si
confronta con un mondo che presenta determinate caratteristiche, e l’ontologia, in quanto “teoria di ciò che c’è”, descrive tale mondo» (Esposito
1992a, 28). Esiste, pertanto, una pluralità di ontologie o molteplici stratificazioni ontologiche, corrispondenti ai livelli logici a cui ci si riferisce.
Quella di Esposito è una soluzione estremamente raffinata ai problemi sollevati dalla TO. È però importante avere ben chiaro il presupposto
su cui si fonda la sua proposta: la distinzione tra operazione e osservazione
può essere tracciata solo da un osservatore. In altre parole, la differenza
monovalenza/bivalenza non può che essere l’esito di un’operazione bivalente. Questo implica essenzialmente che, tramite la bivalenza, l’osservatore
distingue se stesso dal non-osservatore. Tuttavia, se accettiamo l’idea che
l’oggetto ha un lato pubblico e un lato privato (se usiamo, come distinzione
guida, la distinzione pubblico/privato) il fatto che il lato privato sia un’operazione cieca (monovalente, il differenziarsi di operazioni che rimandano
ricorsivamente l’un l’altra senza “conoscersi”) o sia invece l’esito di un’operazione di auto-osservazione, è essenzialmente indecidibile, e optare per la
dualità operazione/osservazione o per una sorta di “monismo dell’osservazione” è una scelta dell’osservatore. Dal momento che la teoria di Glanville
si fonda sulla certezza dell’osservazione che, come abbiamo visto, dipende
dal fatto che l’Io si auto-osserva, l’esistenza di non-osservatori è altamente
incerta – da qui l’esigenza di attenersi al principio di mutua reciprocità:
muovendo dal fatto che esiste auto-osservazione, non posso escludere che
gli oggetti che osservo non possano a loro volta auto-osservarsi.
Oggetti complessi
Abbiamo visto che negli scritti di Glanville “osservare” indica, tra le tante cose, anche l’operazione di correlazione tra le
temporalità di due Oggetti. Oa osserva Ob solo nel momento in cui occupa la posizione osservante nel ciclo di auto-osservazione di Ob, e per far ciò deve sincronizzare il suo ciclo di auto-osservazione con quello di Ob. Nell’Universo di
Glanville, un Oggetto può osservare due Oggetti contemporaneamente occupando la posizione di osservante che
essi lasciano vacante. Per chiarezza espositiva, chiamiamo
l’Oggetto che osserva altri due Oggetti Oss, e poniamo che
i due Oggetti osservati siano Oa e Ob. Ciò che Oss osserva di
Oa e Ob è naturalmente il loro comportamento (abbiamo visto che l’essenza è inaccessibile e che costituisce il marchio di unicità di qualsiasi oggetto).
Nel momento in cui le temporalità di Oa e Ob risultano a Oss della medesima durata, dunque perfettamente sovrapposte, Oa e Ob saranno per Oss
due oggetti identici. Ma poiché ogni Oggetto è unico, l’identità tra due
Oggetti non potrà che essere il risultato della computazione di Oss.
Abbiamo visto che, nell’Universo di Glanville, tutto ciò che è
osservabile è un Oggetto. Nella misura in cui un osservatore può osservare il risultato di una computazione, tale risultato è da considerarsi un
Oggetto. L’Oggetto computato è ciò che Glanville chiama Oggetto complesso (Glanville 2012d, 297). La computazione di Oa e Ob da parte di Oss
genera l’Oggetto Oc, il quale ha un lato privato che non corrisponde né
al lato privato di Oa, né al lato privato di Ob, né tantomeno all’osservazione di Oss. Oc ha una sua essenza che risulta da un ciclo di auto-osservazione autonomo rispetto a quello di Oa e Ob. Ne consegue che qualsiasi
Oggetto, semplice o complesso che sia, è irriducibile. Esso, per usare un’espressione di Harman, non può essere minato né dal basso né dall’alto:
non può essere ridotto alle parti che lo compongono né alle relazioni che
intrattiene con altri Oggetti. L’Oggetto non è né le sue parti né il suo comportamento – dunque Oc non si risolve né nel comportamento di Oa e Ob,
né nel comportamento che Oss e altri osservatori co-costruiscono con esso.
La distinzione tra Oggetto semplice e Oggetto complesso, in un
certo senso, viene meno. Ogni Oggetto è semplice – unico, irriducibile,
fondamentale – anche nel caso in cui è computato – ossia il risultato della
correlazione tra le temporalità di un complesso di Oggetti.
Il carattere polisemico del termine osservazione si riflette sul termine computazione, che può riferirsi sia al processo attraverso il quale un
Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville
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IV.
dell’osservatore è fondamentale nella
cibernetica di second’ordine e si lega al
ruolo centrale che l’autonomia ricopre
in essa. Come scrive von Foerster
(1987b, 232), «[p]otrebbe sembrare
strano, in tempi come questi, postulare
l’autonomia, perché l’autonomia
implica la responsabilità: se sono
l’unico a decidere come agire, allora
sono responsabile delle mie azioni.
Poiché le regole del gioco più diffuso al
giorno d’oggi prevedono che io deleghi
a qualcun altro la responsabilità delle
mie azioni (questo gioco si chiama
“eteronomia”), le mie argomentazioni
rappresentano una presa di posizione
che, ne sono convinto, non incontrerà
il favore di molti».
194
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 183 — 198
Potremmo considerare l’ontologia piatta di Glanville e l’ontologia
stratificata di Esposito un’unica strada a doppia corsia, in cui l’oggettivismo radicale prende due direzioni opposte: l’osservatore Glanville fa “come
se” non esistesse la distinzione tra osservazione e non-osservazione, mentre
l’osservatore Esposito fa “come se” esistesse tale distinzione. La scelta della
distinzione iniziale diventa fatale: partire dalla distinzione operazione/
osservazione o dalla distinzione pubblico/privato porta a conseguenze
teoriche (ma anche pratiche, dato che sono in gioco i modi di relazione
con l’altro) diversissime. E la responsabilità di tale scelta (e
delle sue conseguenze) è solamente dell’osservatore. [9]
[9] Il tema della responsabilità
Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville
Luca Fabbris
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 183 — 198
assemblaggio di Oggetti produce nuovi Oggetti, i quali saranno autonomi
– dunque irriducibili agli Oggetti che li computano; sia alla costruzione
di un modello, che in Glanville indica l’operazione attraverso la quale un
osservatore usa un Oggetto come surrogato di un altro Oggetto. Per esempio, l’espressione “il cervello è un computer” risulta dalla computazione
di due Oggetti, cervello e computer, che sono posti da un osservatore in
una relazione tale che il computer finisce per occupare il posto del cervello.
Computer e cervello sono due Oggetti unici, ma alcune porzioni dei loro
comportamenti possono essere considerati sovrapponibili da un osservatore, che usa il primo Oggetto come modello del secondo. Per un altro
osservatore “il cervello è del pudding raffreddato”: al pudding viene fatta
recitare la parte del cervello. Naturalmente, il primo osservatore pone in
relazione cervello e computer sulla base di certe manifestazioni locali che i
due Oggetti esibiscono – per esempio, la capacità dei due Oggetti di risolvere un’equazione differenziale. Nel secondo caso, l’osservatore costruisce
la relazione sulla base di altre manifestazioni locali – la consistenza gelatinosa dei due Oggetti.
Si prenda il sistema psichico come esempio di Oggetto complesso.
Esso è un Oggetto complesso che risulta dalla correlazione tra le temporalità di Oggetti semplici, i neuroni. In quanto Oggetto, il sistema psichico avrà il proprio ciclo di auto-osservazione – dovrà essere, per usare la
terminologia dei sistemi autopoietici, un sistema operativamente chiuso,
caratterizzato da operazioni specifiche: stati di coscienza, pensieri, ecc.. Il
sistema psichico ha un lato privato che non si confonde con il lato privato degli oggetti semplici, cioè i neuroni, che lo computano. In un certo
senso, i neuroni sono Oggetti esterni all’Oggetto sistema psichico, anche
se quest’ultimo non esisterebbe senza la correlazione di miliardi di neuroni. Il sistema psichico dunque dipende dalla rete neurale ma, al contempo, è autonomo rispetto a essa. Per riprendere la frase di Suzuki-roshi
citata in esergo: «Ognuno di noi è dipendente e indipendente allo stesso
tempo» (Suzuki-roshi 2018, 27). Ogni Oggetto dipende da altri Oggetti pur
rimanendo autonomo. Detto altrimenti, così da accentuarne il carattere
paradossale: l’autonomia di ogni Oggetto è garantita dalla dipendenza da
altri Oggetti. Il sistema psichico può rimanere autonomo finché il sistema
neurale al quale è strutturalmente accoppiato mantiene la sua integrità, la
quale, venendo meno, conduce il sistema psichico al collasso.
Questa compresenza di autonomia e dipendenza costringe a ripensare la relazione tutto/parti. Anche in questo caso, può essere osservata
una sovrapposizione tra la proposta di Glanville e quella avanzata dagli
object-oriented ontologists. Infatti, è possibile ritrovare la strange mereology di questi ultimi nell’ultimo articolo scritto da Glanville (2015). La
strange mereology si basa sull’idea che qualsiasi oggetto è un’unità autonoma che entra nella composizione di altri oggetti e che è composta da
altri oggetti (Bryant 2011, 152; Bogost 2012, 22-23). Nessun oggetto, dunque, può essere considerato una mera funzione all’interno di una totalità. A tal riguardo, Bogost contrappone system operations
e unit operations. [10] Scrive Bogost: «System operations [10] Il termine unit è, per come lo
utlizza Bogost, un sinonimo di oggetto
are […] totalizing structures that seek to explicate a pheno- nell’accezione
di Harman.
menon, behavior, or state in its entirety. Unlike complex
networks, which thrive between order and chaos, systems
seek to explain all things via an unalienable order» (Bogost 2006, 6). Nelle
V.
Conclusione
Nella nostra ricostruzione della TO, abbiamo incontrato sovente casi di
coincidentia oppositorum. L’oggetto è uno (unico, singolare, irriducibile,
fondamentale) ma al contempo due (osservante/osservato, essenza/comportamento, autonomo/dipendente). Nella differenza tra identità e differenza
risiede probabilmente il nocciolo duro della cibernetica di second’ordine,
che come scrive Glanville « [it] is to demostrate, paradoxically, the need for
paradox in systems from which it is prohibited» (Glanville 2012d, 97).
Il circolo viene spesso indicato come emblema della cibernetica
di second’ordine (non a caso, uno dei simboli più amati dai cibernetici
Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville
Luca Fabbris
196
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 183 — 198
system operations, troviamo un insieme di parti integrate in un tutto, nel
quale ogni singola parte non ha una propria individualità al di fuori della
totalità di cui è parte; nelle unit operations troviamo invece una rete di
unità autonome correlate in modo tale da generarsi autopoieticamente o
da generare altre unità autonome. Si potrebbe anche dire che le system
operations rimandano a una concezione sistemica pre-luhmanniana e le
unit operations a una concezione sistemica post-luhmanniana. Come ha
osservato Dirk Baecker, «[s]ystems theory in line with Luhmann’s intellectual spirit may well be read as an attempt to do away with any usual
notion of system, the theory in a way being the deconstruction of its central term». (Baecker 2001, 61). Viene decostruita una certa concezione olistica di sistema, che si basa su ciò che si potrebbe definire irriduzionismo
unilateriale: l’idea, cioè, che la totalità non può essere ridotta alle parti che
la compongono, ma le parti possono essere ridotte a funzioni della totalità.
Glanville contrappone a questo irriduzionismo unilaterale un irriduzionismo integrale, per il quale, in senso stretto, ogni cosa è un tutto (unico,
irriducibile, fondamentale) e ogni parte non è che un tutto calato da un
osservatore nel ruolo di parte (Glanville 2015). Ciò che vale per l’identità tra
due Oggetti – la quale è sempre computata da un terzo Oggetto, dunque
dipende da un osservatore – vale anche per la distinzione tutto/parti: non
vi sono parti contrapposte a un tutto, ma vi sono unità autonome che un
osservatore può considerare mere parti di una totalità. La gerarchia generata dalla distinzione tutto/parti rimanda dunque al processo di modellizzazione in cui un Oggetto viene calato in un ruolo (gli viene fatta recitare
una parte). Tuttavia l’Oggetto è irriducibile alla parte che si trova a recitare
per un osservatore.
Per riprendere un’espressione di Timothy Morton (2020, 84), «l’intero è sempre meno della somma delle sue parti». L’Universo è sempre
meno della somma degli Oggetti che lo popolano in quanto è, anch’esso,
un Oggetto. L’Universo è un Oggetto tra Oggetti, unico, irriducibile e fondamentale. In senso proprio, non ci sono Oggetti che fanno parte dell’Universo, ma ci sono Oggetti tra cui l’Universo. Il fatto di considerare l’Universo un contenitore popolato da una molteplicità di Oggetti, non deve
farci dimenticare che gli Oggetti contenuti nell’Universo sono “esterni” o
stranieri al contenitore, così come risultano “esterni” o stranieri gli uni
rispetto agli altri. Tale esternalità è dovuta al fatto che sia la molteplicità
di Oggetti che popolano l’Universo sia l’Universo stesso hanno un lato privato inaccessibile a tutti gli altri. L’Universo ha sempre un fuori: l’interiorità degli oggetti che lo popolano.
Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville
Luca Fabbris
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 183 — 198
di second’ordine è l’Uroboro). Il circolo, però, non rende l’idea di questa
paradossalità al cuore della cibernetica di second’ordine, la quale trova una
perfetta sintesi nell’espressione “né uno, né due” (Varela 1976). La figura
che meglio rappresenta questa unità di differenze è il nastro di Möbius, un
oggetto paradossale, unico e duplice al contempo: né dentro né fuori, ma
dentro e fuori al contempo (Glanville & Varela 2012).
La temporalità, come abbiamo visto nel caso della compresenza del
momento osservante e del momento osservato nel ciclo di auto-osservazione, permette di sciogliere il paradosso, e lo fa introducendo una discretizzazione in un continuum. Tuttavia, per passare dalla posizione di
osservato alla posizione osservante deve esserci un punto
di rivoltamento, [11] nel quale l’Oggetto è al contempo [11] Merleau-Ponty, ne Il visibile e
l’invisibile, scriveva: «L’unico asse
osservato e osservante. Glanville lo chiama lo spazio zero, dato
– l’estremità del dito del guanto
quel punto che non è né fuori né dentro, ma dentro e è un nulla, – ma un nulla che si può
rivoltare, e in cui si vedono allora delle
fuori al contempo.
cose – L’unico “luogo” in cui il negativo
Ogni Oggetto si costituisce intorno a un punto di sia veramente è la piega, l’applicazione
dell’interno e dell’esterno, il
rivoltamento – in fondo, esso non è altro che un punto reciproca
punto di rivoltamento –» (2007, 275)
di rivoltamento, singolare, unico, irriducibile. Né uno né
due, ma uno e due al contempo. Questa “struttura dell’Essere” è la condizione del nostro osservare ed essere osservati, del nostro
essere privati e pubblici al contempo. In conclusione, essa è la condizione
necessaria affinché unità operativamente chiuse possano costruire una
realtà comune.
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Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville
Luca Fabbris
Bibliografia
Tecnoplastia.
Note sulla poiesi macchinica
Gregorio Tenti
Ricercatore post-doc presso
l’Università di Torino e assegnista
di ricerca presso a.r.t.e.s. Research
Lab dell’Università di Colonia. I
suoi interessi di ricerca vertono
sull’estetica romantica e idealistica,
l’estetica contemporanea e la filosofia
ambientale.
gregorio.tenti@unito.it
— CHAOS THEORY
— ARTIFICIAL CREATIVITY
— CYBERNETICS
— MACHINE AESTHETICS
— COMPUTATIONAL PHILOSOPHY
201
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 201 — 211
This article examines a chapter in the history of machines,
namely the study of chaotic behaviours through machinic
simulations, in order to draw theoretical conclusions on
artificial creativity and the nature of computational
processes. The first paragraph traces the early history of
physics of chaos in its epistemological implications. The
second paragraph investigates how machines are able to
simulate chaotic behaviours by increase of internal entropy,
and thus to make themselves sensitive to the
heterogeneous texture of nature itself. Particular attention
will be devoted to the so-called principle of “order from
noise”, elaborated within the second-order cybernetics.
This will lead to consider machines as material fields
established around the acts of execution of a program,
which thus become acts of materialization and
interpretation thereof. In conclusion, the terms
«technoplasty» and «machinic poietics» will be proposed
to conceptualize a wider shift towards nonrepresentational technologies.
È noto come la scoperta della fisica del caos, anticipata sotto forma di intuizione matematica già alla fine dell’800, contribuisca a scoperchiare l’universo laplaciano dal suo interno, ratificando il ruolo ontologico della contingenza nella natura (Prigogine, Stengers 1999; Prigogine 2014). L’universo
di Laplace rappresentava l’ideale di un universo interamente governato
dalle leggi di Newton: un cosmo completamente prevedibile – sia nel passato che nel futuro – da parte di un’intelligenza suprema che ne conoscesse completamente un momento dato. In fisica, ciò significava che conoscendo le condizioni iniziali di un sistema qualsiasi si poteva prevederne
il comportamento in maniera esatta: un Dio, nella prospettiva di Laplace,
avrebbe potuto ridurre l’universo e la sua storia a una formula. Nella fisica classica la natura è quindi governata da leggi eterne che, se conosciute,
garantiscono una conoscenza completa della realtà. Già in passato si era a
conoscenza di eccezioni a questo paradigma, come il fenomeno della turbolenza o il cosiddetto “problema dei tre corpi”, ma l’inspiegabilità di queste eccezioni era considerata trascurabile.
Le scienze del caos dimostrarono l’esistenza di sistemi fisici che si
comportano in maniera diversa rispetto ai sistemi fisici classici, i quali possiedono un comportamento lineare e perciò prevedibile. [1]
Un sistema che si comporta in maniera lineare, per esem- [1] Per la differenza tra previsione e
predizione cfr. ad esempio Paty (2007,
pio un pendolo, segue una traiettoria fissa in base alle leggi 374).
newtoniane del moto. Un sistema che si comporta invece
in maniera non lineare, come il fumo di una sigaretta,
non ha un corso regolare e non può essere previsto esattamente. Questa
imprevedibilità non è un mero ostacolo pratico risolvibile con un maggior
numero di dati, ma una caratteristica ineliminabile dei sistemi, che necessitano dunque di altri strumenti teorici e pratici per essere studiati.
In particolare, ciò che contraddistingue il comportamento dei
sistemi caotici è il fatto di amplificare minime differenze presenti nelle
condizioni iniziali, differenze che possono generarsi anche su scale microscopiche. Un pendolo si comporterà sempre nella stessa maniera, ad esempio, anche al netto di variazioni chimiche o quantistiche; ma il fumo della
sigaretta (o il clima di una regione, o l’andamento di un mercato finanziario) è sensibile alle più piccole variazioni di partenza, che arrivano ad
influire in maniera decisiva sul suo comportamento. Determinante non è
la quantità di queste influenze microscopiche, né la complessità dei dati
iniziali, ma la natura stessa dei sistemi. Il fatto è che dello stato iniziale di
qualunque sistema fisico è impossibile dare una descrizione completa ed
esatta che non corrisponda almeno alla stessa quantità di informazione del
sistema stesso. In sistemi non sensibili alle condizioni iniziali ciò non costituisce un problema (se un pendolo differisce da un altro per un atomo,
entrambi si comporteranno comunque allo stesso modo); in sistemi sensibili alle condizioni iniziali, invece, questo fatto sta alla base di una imprevedibilità intrinseca e costitutiva.
Ciò significa che il Dio laplaciano non potrebbe in nessun caso
ridurre la storia dell’universo a una formula, perché la storia dell’universo non può essere descritta da un modello, ma soltanto messa in atto.
In altre parole, se Dio volesse predire l’universo dovrebbe crearlo, e se
volesse ricostruire il passato di un fenomeno dovrebbe ricrearlo. Vedremo
Tecnoplastia.Note sulla poiesi macchinica
Gregorio Tenti
Il caos nella macchina
202
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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I.
Tecnoplastia.Note sulla poiesi macchinica
Gregorio Tenti
203
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 201 — 211
tra poco che la stessa cosa vale per gli scienziati del caos. La differenza iniziale che decide il comportamento di un sistema caotico è un fattore inaggirabile, benché impercettibile e di fatto inconoscibile: la differenza tra
due valori numerici che differiscono alla loro centesima cifra, per esempio, non ha più alcun valore descrittivo per l’uomo. La descrizione esatta
del fenomeno sarebbe allora qualcosa come un algoritmo incompressibile (Kauffman 2001, 38), o una descrizione 1:1 o più ricca di informazione
del fenomeno stesso, e perderebbe quindi la propria funzione di modello.
Tutto questo non comporta l’abolizione del determinismo, ma un suo
radicale ampliamento, come il celebre dibattito tra René Thom (1980), Ilya
Prigogine (1980) e Edgar Morin (1980) ha contribuito a chiarire.
Posto che i singoli comportamenti dei sistemi caotici non possono
essere descritti in maniera esatta, ciò che si mostra agli scienziati del caos
(e corrisponde alla scoperta scientifica del caos) è che le divergenze caotiche vanno ad assumere comportamenti dotati di una certa regolarità, che
erano sconosciuti alla fisica classica. Si è scoperto cioè che pur producendo
sempre nuove traiettorie, i sistemi caotici seguono dei solchi, degli spettri
di movimento: si trovano quindi sempre entro un certo tracciato, che può
essere definito come uno spazio di competizione complessa tra fluttuazioni
più che come uno spazio di probabilità (ciò che Prigogine [1993] chiama «rappresentazione spettrale»). Si tratta dei cosiddetti “attrattori strani”, pattern
che emergono dalle traiettorie non lineari di fenomeni anche diversi tra
loro: più delle forme di comportamento (degli ethoi) caratterizzate da un
alto grado di empiria che delle vere e proprie leggi di natura.
Le forme del caos si collocano al di là dell’intuizione geometrica.
Henri Poincaré, che aveva già avuto un’intuizione matematica dei comportamenti caotici, scrive: «si rimarrebbe sbalorditi dalla complessità di
questa figura che non cerco nemmeno di tracciare» (Poincaré 1957, 389).
Ecco, la fisica del caos ha inizio esattamente con la scoperta che queste
figure matematicamente inimmaginabili possono essere tracciate (soltanto) dalle macchine, calcolatori analogici e (più tardi) digitali. L’inizio
delle scienze del caos coincide con la scoperta che i comportamenti caotici
si rivelano soltanto alla macchina in forma di immagine simulata.
A partire dagli anni ’60 del Novecento la storia delle scienze del caos
è sospinta dalle scoperte di nuovi oggetti matematici simulati dalla macchina, che gli sperimentatori non avrebbero mai potuto concepire altrimenti. Così Gleik (2014, 219) descrive la scoperta del cosiddetto “insieme di
Mandelbrot”: «germogli e viticci si dipartivano languidamente dall’isola
principale. Mandelbrot vide un confine apparentemente liscio risolversi in
una catena di spirali simili a code di cavallucci di mare. L’irrazionale fecondava il razionale». Solo grazie a una potenza di calcolo superiore a quella
umana poterono emergere questi pattern impercettibili, e i comportamenti caotici poterono essere modellizzati. Il «caos sensibile» (Schwenk
1962), in questo senso, si dà soltanto come visualizzazione di un processo
che avviene all’interno della macchina. La fisica del caos afferma che il
caos non può essere sciolto, ma può essere simulato. Al contrario del suo
principio opposto, l’ordine, il caos non è perspicuo, ma necessita della giusta macchinazione per essere reso visibile. Far emergere il caos nella simulazione non è un’operazione matematica, perché nulla viene dimostrato
e tutto viene mostrato; ma non è nemmeno un’operazione fisica, perché
non si modellizza un fenomeno reale, ma si produce una forma virtuale
Tecnoplastia.Note sulla poiesi macchinica
Gregorio Tenti
204
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 201 — 211
(l’attrattore strano; cfr. Gleik 2014, 215). Gli scienziati e i macchinisti del
caos sono simili ad esploratori e sperimentatori, nella misura in cui l’equazione di partenza non è più una descrizione ma un processo che deve essere svolto e fatto esistere. [2]
[2] «L’unico modo per vedere
tipo di forma si accompagni
«Le forme di pensiero assistite dal computer», scrive che
a una particolare equazione è il
Félix Guattari (2007, 51), «sono mutanti, discendono da procedimento per tentativi, e questo
stile portò gli esploratori di questo
altre musiche e da altri Universi di referenze». Quando nuovo
campo più vicini allo spirito di
Edward Lorenz, all’inizio degli anni ’60, produce una rap- Magellano che non a quello di Euclide.
Con l’avvento dei computer divenne
presentazione grafica di una successione numerica irrego- […]
possibile la geometria del provare e
lare relativa al comportamento di un sistema non lineare, riprovare» (Gleik 2014, 222-223).
scopre un’immagine dalla valenza quasi magica, che non
avrebbe mai potuto prevedere. «Il computer non è più soltanto un calcolatore gigante, non ha solo un ruolo sintetico, eccelle anche
in una utilizzazione sperimentale ed euristica. Il punto decisivo è che
Lorenz scopre che si può generare un comportamento caotico con solamente tre variabili; i rapporti del semplice e del complesso vanno a essere
decisamente trasformati» (Dahan, Aubin 2007, 335). Nei due celebri casi
finora citati (Lorenz e Mandelbrot) la simulazione macchinica costituisce
l’unica traduzione possibile di una complessità altrimenti inconoscibile.
Tra l’inconoscibilità e la replicazione integrale del fenomeno emerge così la
possibilità della ricreazione macchinica.
Lo scienziato impara dalla macchina le configurazioni dell’ordine
caotico. Non si tratta, lo ribadiamo, di rappresentazioni di fenomeni
reali, perché non si riferiscono a nessun fenomeno fisico modellizzabile
(sia esso oggetto o processo): quelli che appaiono sullo schermo sono fenomeni in sé, creati dalla macchina che ha mimato la regola generativa della
natura. Gli attrattori strani simulati dalla macchina non sono modelli che
mirano a replicare un fenomeno, ma forme virtuali che emergono dalla
competizione complessa delle traiettorie. Ciò che appare sullo schermo
della macchina non è la traiettoria ideale del fenomeno, ma la forma risultante dall’insieme delle sue traiettorie virtuali. Perciò si dice che la simulazione scopre una regola che contiene e produce i modelli
del fenomeno stesso. [3]
[3] Simulare un attrattore strano
significare rappresentare un
L’unico modo per avere conoscenza del caos fisico, non
oggetto, ma nemmeno modellizzare
in questo senso, è assumerne la potenza morfogenetica, un processo: la modellizzazione di
processo in senso stretto può
rimetterlo in moto in un macchinismo locale. L’esistenza un
essere ottenuta anche semplicemente
stessa dei sistemi caotici corrisponde alla sensibilità pla- attraverso la funzione di una traiettoria
uno spazio delle fasi. Dalla
stica per la variazione che appartiene alla natura, e che la in
distinzione tra sistemi lineari e sistemi
macchina deve riprodurre in sé. Nei sistemi caotici e nei non lineari discende anche quella
modellizzazione e simulazione di
sistemi non lineari in generale, la natura si rende sensibile tra
un processo, nel senso che abbiamo
alla sua stessa eterogeneità infinitesima, alle sue minime cercato di mostrare.
differenze, per produrre sempre nuove dimensioni. Il
superamento della linearità non comporta soltanto il superamento della contiguità meccanica dell’effetto con la causa, ma anche il
superamento della dimensionalità euclidea tramite piegatura e posizione
di anse e superfici inedite. Da ogni punto di biforcazione o evento critico, da ogni comportamento anomalo del sistema può scaturire un passaggio di dimensione, rappresentato matematicamente dal carattere frattale degli attrattori strani. È proprio questa dinamica morfogenetica (non
nel senso della generazione di individui, ma nel senso della generazione
di nuova realtà) che la macchina deve riprodurre in sé. Così il processo di
Creatività dal rumore
Suscitare una spontaneità morfogenetica significa far sì che il processo
emerga attraverso la propria contingenza e la propria durata. La macchina deve quindi porsi «sotto il segno dell’immanenza» rispetto al procedere della natura (Paty 2007, 376), assumere funzionalmente la sensibilità
alla contingenza che è propria della natura. A questo scopo, le macchine
del caos fanno aggio sulla propria imprecisione nell’esecuzione del programma. Come illustrato bene da Ekeland (2010, 71-74), la macchina è programmata per operare delle approssimazioni progressive affinché i calcoli
mantengano un senso fisico: per far sì che un numero non accumuli una
quantità troppo elevata di cifre, le ultime cifre vengono semplicemente eliminate. In questi casi si dice che la macchina lavora solo su un certo
numero di cifre significative. Questo procedimento causa un aumento di
entropia (ovvero una diminuzione di informazione), con un conseguente
aumento del caos.
Quando le macchine sono programmate per simulare fenomeni
lineari, l’elisione di cifre non significative è interamente funzionale
al risultato atteso e l’aumento di entropia non influisce su di esso. Ma
quando il fenomeno simulato è un fenomeno caotico (quando, come nel
caso di Lorenz, il programma lavora su equazioni non lineari), le minime
differenze dovute all’arrotondamento vengono amplificate e influiscono
sensibilmente sullo svolgimento del programma. Il caos non viene escluso
dal processo, ma anima un comportamento inedito. L’entropia conduce
all’emergenza del nuovo. Accade così che la macchina realizza al proprio
interno una sorta di resistenza materiale al programma, fungendo da
ambiente concreto in cui il codice astratto si materializza; attraverso questo fenomeno si genera un effetto di auto-interpretazione del codice nel
suo svolgimento, di auto-percezione e auto-organizzazione del processo
complessivo. La macchina non si limita più a descrivere, ma arriva a comportarsi localmente come un sistema reale (in questo caso, un sistema
dissipativo).
Un processo di loop, ad esempio, può ripetersi all’infinito senza generare alcun cambiamento se non avviene alcuna perdita d’informazione; ma
quando alcuni dati vengono persi nell’iterazione, il loop diviene un movimento eccentrico, che deraglia dal suo periodo (Berardi Bifo, Sarti 2008, 46).
Proprio come accade con l’energia di un sistema vivente, l’informazione
non viene semplicemente persa, ma è portata a formare nuove traiettorie, a creare nuovi legami, perché deve inventare dei modi per veicolarsi in
forme lontane dall’equilibrio a livello sistemico. In questo modo l’entropia
in natura forma delle vere e proprie strutture, dette strutture dissipative,
«gigantesche fluttuazioni stabilizzate da un flusso di materia o di energia» (Prigogine 2015, 91). [4]
[4] I sistemi viventi, tuttavia, non sono
semplici sistemi dissipativi, definizione
La linea che non ritorna mai su sé stessa, che non che
si applica solo ad alcuni sistemi
chiude il cerchio (come avviene nel caso dell’iterazione fisici. Entrambi sono sistemi aperti
lontani dall’equilibrio, capaci di
non lineare), produce quindi fluttuazioni che entrano esvilupparsi
in maniera imprevedibile
in interazione complessa. La fluttuazione, o onda, è la integrando la contingenza; ma mentre
i primi sono in grado di memorizzare,
dinamica tipica delle strutture dissipative e nasce come trasmettere
e modificare i propri
Tecnoplastia.Note sulla poiesi macchinica
Gregorio Tenti
II.
205
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 201 — 211
simulazione diviene «imitazione dei processi generativi nella loro forma
più fine» (Berardi Bifo, Sarti 2008, 20).
Tecnoplastia.Note sulla poiesi macchinica
Gregorio Tenti
comportamento continuo da interazioni locali e discrete. vincoli, e quindi di evolversi in senso
i secondi restano strettamente
Si prenda l’esempio di un ente computazionale (un bit), proprio,
dipendenti dalle proprie condizioni
che si relaziona ai suoi enti vicini secondo regole prescritte senza essere in grado di trasformarle
ad esempio Wolf et al 2018). Il
(comportamenti semplici come l’accensione e lo spegni- (cfr.
rinvenimento di attrattori, difatti, è del
mento). Questo comportamento può essere propagato agli tutto insufficiente per i fenomeni della
La dipendenza dalle condizioni
enti vicini (un ente si accende, i tre enti vicini si accendono, vita.
iniziali fa sì che il caos sia ancora
i tre enti a loro vicini si accendono e così via). La propaga- determinista, e genetico solo nel senso
che si svolge in maniera imprevedibile,
zione produce un passaggio di dimensione, per esempio nutrendosi
di contingenza.
da bidimensionale a tridimensionale: si tratta di una delle
interazioni di campo che stanno alla base dell’emergenza
del continuo dal discreto. In ciò consiste l’aspetto che avevamo descritto
come superamento della linearità in senso dimensionale, secondo una
dinamica perfettamente esemplificata dai cosiddetti automi cellulari (per
cui cfr. Wolfram 1994).
Riproducendo in sé questi comportamenti, le macchine diventano apparati di produzione di realtà atti a elaborare tendenze formative. Il passaggio dai dati iniziali ai comportamenti emergenti è un salto
propriamente genetico, irreversibile e imprevedibile. Ciò che avviene
nella macchina istituisce un proprio spazio rappresentativo, analogo a
uno spazio delle fasi, che intrattiene un rapporto analogico con la realtà
fisica pur restando sostanzialmente autonomo da essa. [5]
L’essere umano arriva così a sviluppare una tecnologia [5] Simulando le dinamiche emergenti,
lo spazio rappresentativo della
espressiva, e non semplicemente rappresentativa, in cui macchina
si rende analogo a – nel
la simulazione è cioè generatrice di realtà: mimando una senso che “fa ciò che fa” – lo spazio
trasformazioni fisiche. Lo spazio
regola generativa, essa crea fenomeni che non sono né delle
dell’evoluzione fisica di un sistema è
dell’ordine dell’oggetto rappresentato né dell’ordine del detto per l’appunto «spazio delle fasi»,
che permette «ritratti» geometrici
representamen.
(definiti «ritratti di fase») dei sistemi
La macchina che simula può quindi essere conce- dinamici. Come già accennato, nei casi
cui trattiamo lo spazio delle fasi è da
pita come un regime enunciativo specifico della realtà di
intendersi come uno spazio generato
direttamente derivato dall’aumento dell’entropia all’in- dalla competizione complessa di
più che come uno spazio
terno del processo; quindi, almeno in senso lato, da una fluttuazioni
neutro e pre-determinato delle
sua progressiva e intrinseca tendenza al guasto e all’errore. traiettorie. Su questi temi cfr. Prigogine
Longo e Bailly (2011) e Longo
Questa tendenza corrisponde esattamente all’appari- (1993),
(2020).
zione della macchina stessa, ben distinta dal programma
che essa esegue. Riportiamo ancora le parole di Guattari
(2007, 52):
206
al guasto, alla catastrofe, alla morte che la minaccia. Possiede la dimensione supplementare di un’alterità che sviluppa sotto forme diversificate. […] La differenza
apportata dall’autopoiesi macchinica si fonda sullo squilibrio, sulla prospezione di
universi virtuali lontani dall’equilibrio. Non si tratta semplicemente della rottura
di un equilibrio formale, ma di una radicale riconversione ontologica.
Il guattariano «desiderio di abolizione» può essere avvicinato a ciò che
in seno alla cibernetica di secondo ordine prende il nome di “principio
dell’ordine dal rumore”. La nozione cibernetica di rumore corrisponde
originariamente all’elemento di resistenza materiale che distrugge l’informazione, deteriorando l’ordine probabile: rispetto all’informazione che
interessa l’osservatore, in tal senso, è rumore «qualsiasi forma di molteplicità» (Ashby 1971, 234). Il rumore è dunque considerato fattore negativo di
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 201 — 211
La macchina è lavorata da un desiderio di abolizione. Il suo emergere si accompagna
Tecnoplastia.Note sulla poiesi macchinica
Gregorio Tenti
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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contingenza che crea ambiguità e deve essere compensato pragmaticamente affinché il messaggio venga trasmesso con successo. [6]
Ci sono tuttavia alcuni casi in cui l’entropia cau- [6] Sulla nozione di rumore si rimanda
alle analisi di Malaspina (2018), che
sata dal rumore assume un ruolo morfogenetico, nel senso vanno
in una direzione del tutto affine
quasi dialettico della negazione necessaria al passaggio alla nostra.
di dimensione. Il caso più tipico è certamente quello del
vivente. Come esemplificato da Henri Atlan nel saggio
intitolato Tra il cristallo e il fumo, il «principio generale di differenziazione» che anima i processi di auto-organizzazione vivente non può fare a
meno del ruolo del rumore (Atlan 1986, 89). La plasticità e l’evolvibilità del
vivente sono infatti assicurate da un costante effetto di dinamizzazione e
assottigliamento dei vincoli organizzativi (cfr. anche Atlan 1972a, 1972b).
La «complessità», in questo senso, dipende da un margine inconoscibile
funzionale al sistema.
Complesso non è soltanto il sistema come ente sintetico delle sue
componenti, ma soprattutto il sistema nel suo atto di funzionamento:
è l’atto sistemico a stabilire un campo riflessivo in cui gli eventi di scala
inferiore possono propagarsi e assumere un ruolo generativo. È in quanto
ambiente operativo che il sistema può costituirsi riflessivamente come un
autòs, un piano di risonanza dei propri effetti (quello che la tradizione
filosofica ha spesso designato attraverso il concetto – denso di ulteriori
implicazioni – di «organismo»). Proprio questa determinazione di campo
corrisponde al significato non quantitativo dell’informazione: complesso è
un insieme di processi, non un programma. Una simile prospettiva taglia
naturalmente le distinzioni ontologiche tra vivente e non-vivente, e può
emergere indifferentemente – come lo stesso Atlan riconosce – dallo studio dei sistemi biologici, di alcuni sistemi fisici di confine (i sistemi non
lineari e dissipativi descritti da Prigogine) e delle macchine di informazione. Quest’ultimo è il caso descritto da Heinz von Foerster, al cui celebre saggio Sui sistemi auto-organizzanti e i loro ambienti (1960) risale la
prima formulazione del principio dell’ordine dal rumore.
Come esempio di creazione d’ordine dal rumore, ancora Atlan (1986,
177ss.) menziona le macchine che simulano processi di apprendimento non
guidato, le quali non si limitano a riconoscere pattern codificati nell’ambiente ma ne formulano di nuovi a partire dalla loro interazione con l’ambiente. A tal fine, è indispensabile che esse attingano sempre di nuovo
a un «margine d’indeterminazione», per dirla con Simondon (2021), che
permette la modificazione progressiva del codice nello scambio con l’ambiente; il margine appartiene proprio a questo scambio (e non solo alla
macchina, né solo all’ambiente). Quel margine oscuro che sta alle radici
della produzione di senso e si caratterizza come aleatorio in relazione alle
componenti “fisse” del sistema è per l’appunto il rumore. È dunque attraverso una capacità di elaborare la contingenza senza separarsene che si
producono le convoluzioni neghentropiche comuni ad alcuni sistemi fisici
e a quelli viventi. «L’intuizione che sta dietro a questo approccio è che,
diminuendo l’informazione trasmessa nei diversi canali all’interno di un
sistema, si diminuiscono i vincoli sull’insieme del sistema stesso. Di conseguenza, questo è reso meno rigido, più diversificato e più capace di adattarsi a situazioni nuove» (Atlan 1986, 204).
Le macchine del caos dimostrano perfettamente il ruolo di quella
che Ashby chiamava «molteplicità» o «varietà» e che costituisce il milieu
Tecnoplastia e poiesi macchinica
Quelle macchine non banali che abbiamo descritto come macchine del caos
sono episodi di una vicenda più ampia, che percorre sostanzialmente tutto
il macchinismo moderno. In corrispondenza della soglia di complessità che
questa vicenda ha raggiunto nel nostro presente sembra compiersi un passaggio decisivo dalle tecnologie della rappresentazione alle «tecnologie della
performance» (Xin Wei 2013), dalle tecnologie «denotative» alle «tecnologie connotative» (Berardi Bifo, Sarti 2008, 52): un passaggio quindi a tecnologie capaci di accogliere e suscitare l’«evento» (Sha Xin Wei 2013, 69ss.) attraverso processi di espressione o costituzione artificiale di realtà.
Molti autori concordano sul fatto che questo passaggio avvicina essenzialmente il macchinismo alle pratiche dell’arte e ai principi di tradizionale
appannaggio dell’estetica. La computazione acquista difatti una materialità e una specificità mediale nella misura in cui «attualizza modi di essere,
livelli e tipi di agency e procedure di pensiero e configurazione» (Fazi, Fuller
2016, 282); il che naturalmente evoca una più ampia idea di “materialità”, che
abbiamo già cercato di applicare nei paragrafi precedenti – non come condizione fisico-materiale in senso stretto ma come resistenza positiva (ovvero
produttiva) e consistenza ambientale delle interazioni. Attraverso una materializzazione progressiva, gli atti macchinici si rendono non solo sensibili alla
contingenza ma anche capaci di assumerne la regola generativa. In questo
modo funzionano anche la cosiddetta «immaginazione algoritmica» (Finn 2017) e alcune reti neurali sperimentali. [7]
[7] «L’algoritmo non è uno spazio
cui l’ordine materiale e quello
Più una macchina è semplice e astratta, più essa cor- in
simbolico sono contrapposti, ma un
risponde al codice del suo atto; più una macchina è com- regno magico e alchemico in cui essi
operano in reciproca indeterminazione.
plessa, più un algoritmo viene performato, arrivando a Gli
algoritmi allargano la distanza tra
formare sequenze temporali significative, benché imper- codice ed esecuzione, tra software ed
cettibili all’operatore umano. Studi sulla temporalità mac- esperienza» (Finn 2017, 34).
chinica come quelli di Wolfgang Ernst (2016) mettono bene
208
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 201 — 211
III.
Tecnoplastia.Note sulla poiesi macchinica
Gregorio Tenti
materiale del programma. Contro un concetto astratto di macchina, che
la intende come identica al suo codice, occorre dunque enfatizzare che
“qualcosa accade” durante l’esecuzione della funzione attorno a cui la macchina si costruisce. Questo eccesso, lo ribadiamo, corrisponde a una determinazione di campo che emerge come risonanza degli effetti: è la riflessività, o meglio l’«auto-affezione» ricorsiva (Leoni 2021, 150), a proiettare la
macchina oltre il meccanismo. Si tratta di un aspetto che appartiene già
da sempre al concetto moderno di macchina, almeno a partire dalla «macchina differenziale» di Babbage, capace di operare sulle proprie operazioni.
Non è ancora una questione di auto-osservazione, bensì per l’appunto di
ricorsività in quanto dinamica auto-affettiva.
In questo senso von Foerster (2007), infine, distingue le «macchine
banali», che si limitano ad eseguire il compito prescritto, dalle «macchine
non banali», che producono output differenti in relazione a uno stesso
input. Le macchine non banali sono sensibili alla contingenza in virtù di
un loro «stato interno», non possono essere descritte analiticamente, e
sono quindi imprevedibili. Lungo la strada aperta dalla cibernetica, enfatizzare il ruolo della contingenza significa enfatizzare l’autonomia e persino la creatività della macchina, simultaneamente trasformando alla
radice i nostri concetti di autonomia, creatività e contingenza.
Tecnoplastia.Note sulla poiesi macchinica
Gregorio Tenti
209
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 201 — 211
in luce questa «drammaturgia» in cui «l’essere tecno-mediale è sempre
già un essere-in-esecuzione [Sein-im-Vollzug], e produce la sua esistenza
mediale come tempo» (Ernst 2016, 209). Ciò che abbiamo già descritto
come innesco dell’irreversibilità in senso genetico corrisponde, secondo
Ernst, a una specifica temporalità non cronologica o «narrativa», ma kairotica o «critica», legata alla potenza genetica della ricorsività. In questo
senso è ammesso parlare di «live computing», «computazione viva» (Ernst
2016, 7).
Nel caso delle macchine del caos, ciò che si costruisce intorno alla
performance (ovvero all’atto come eccesso non codificabile) è un campo
temporaneo, non un soggetto; al centro si pone l’atto in sé, che tramonta
non appena esaurisce il proprio «essere-in-esecuzione». Giungiamo così a
una definizione di macchina che deriva da tutto ciò che abbiamo detto.
Come la prima cibernetica mette bene in evidenza (si pensi di nuovo a
Ashby 1971), le macchine sono strutture provvisorie, funzionali a far emergere processi; e questo effettualismo – comprendere cioè le cose non in
base a ciò che sono, ma in base a ciò che fanno –, come notava Simondon
(2016), è il portato più profondo della cibernetica. Questo non significa
necessariamente che le macchine si identificano con uno scopo unico, ma
che vanno a costituire dei regimi enunciativi locali intorno all’attualizzazione di una virtualità. Per descrivere le macchine così intese potremmo
usare il termine automaton, con riferimento ai cosiddetti cellular automata più che agli automi informatici (i quali sono generalmente deterministici e tempo-invarianti). Quelli che Stephen Wolfram (1994, 143ss.)
descrive come automata di classe 3, in effetti, rendono conto esattamente
dei fenomeni di emergenza di strutture dal caos, fenomeni liminari tra
fisica e biologia ma non ancora caratteristici della vita.
Usiamo infine il termine “tecnoplastia”, derivandolo da “teleplastia”, per designare questi automi creativi. Come la teleplastia è l’ambito
di materializzazioni spettrali e apparizioni senza soggetto, così la tecnoplastia si occupa del “fantasma nella macchina” – ovvero di ciò che la macchina è al di là delle sue componenti fisiche e delle sue interazioni meccaniche – nei suoi aspetti produttivi, plastici, o poietici. Al contempo la
tecnoplastia sarebbe una branca della «meccanologia», intesa simondonianamente come «disciplina o modo di pensare che funge da “psicologia” o
“sociologia” delle macchine» (Rieder 2020, 16); nonché uno strumento contro la rampante «teocrazia della computazione» (Bogost 2015), che enfatizza – in chiave di volta in volta critica o apologetica – l’immaterialità
delle nuove leggi algoritmiche.
Come ci siamo occupati di precisare, la potenza genetica dei sistemi
caotici che le macchine del caos riprendono si lega a un’idea “minore” di
creatività, se paragonata alla creatività “maggiore” dei sistemi viventi. In
questo senso una poiesi macchinica corrisponde alla capacità materiale e
a-soggettiva, pre- o ultra-individuale, di rendersi sensibili all’eterogeneità
infinitesima di tutta la realtà, ovvero alla contingenza stessa. Il problema
più importante delle pratiche tecnoplastiche non è riprodurre l’individuazione o l’auto-replicazione (come è invece per la ricerca nell’ambito della
«vita artificiale»: cfr. Johnston 2008), ma simulare la vita materica della
natura, la molteplicità che pertiene alla materia viva. Si potrebbe allora
tracciare un’analogia tra una creatività finalizzata alla “grande opera”, come
quella artistica e biologica, e una creatività che emerge dalla relazione tra
Tecnoplastia.Note sulla poiesi macchinica
Gregorio Tenti
210
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 201 — 211
minime differenze, come quella poietica e materica. La posta in gioco, per
concludere, resta quella di cui parlava Lyotard (2015, 35): «si tratta (in francese esiste questa graziosa e precisa espressione) di “dar corpo” [donner du
corps] al pensiero artificiale», e di riconoscere le macchine come atti dallo
statuto essenzialmente materiale, benché non materico in senso stretto.
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Tecnoplastia.Note sulla poiesi macchinica
Gregorio Tenti
Bibliografia
Docente di Sociologia presso
l’Università di Modena e Reggio Emilia.
Tra i massimi esperti della teoria dei
sistemi di Niklas Luhmann. I suoi
interessi di ricerca vertono su media e
forme dell’educazione, teoria generale
dei mezzi di comunicazione e sfera
pubblica.
giancarlo.corsi@unimore.it
Despite the enormous amount of publications on the
subject, sociology has not yet succeeded in providing a
clear and unified definition of communication media.
Drawing on Niklas Luhmann’s systems theory, which
distinguishes different types of media according to the
threshold of improbability they must cross (understanding,
reaching distant addressees, acceptance), and taking up
contributions from different disciplines (Fritz Heider’s
psychology, Heinz von Foerster’s cybernetics, and George
Spencer Brown’s calculus), this article aims to show that it
is possible to approach a unified definition of medium. If by
medium we mean a potential in which forms can be
imprinted, then it is necessary to distinguish between
operational and observational media. The former,
corresponding to communication technologies, condition
the way Ego and Alter Ego participate in communication,
combining, loosely or tightly, information, utterance and
understanding. Observational media, on the other hand,
enable the construction of reality in its various forms and
are specific especially (but not only) to the subsystems of
modern society (power, money, scientific truth, etc.).
— LUHMANN
— MEDIA
— COMUNICAZIONE
— TEORIA DEI SISTEMI
— SOCIOLOGIA
Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale
Giancarlo Corsi
Giancarlo Corsi
213
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 213 — 231
Sociologia dei mezzi di comunicazione.
Considerazioni per una teoria generale
Dopo circa un secolo di ricerche e studi, la sociologia non è ancora riuscita a fornire una definizione chiara e unitaria di mezzo di comunicazione.
Si è proceduto piuttosto in senso negativo, criticando e poi escludendo
definizioni empiricamente e teoricamente poco sostenibili. È il caso, per
es., della metafora del trasferimento di informazione o dell’idea che i media siano estensioni dei sensi umani. Un’altra difficoltà deriva dall’imporsi
dell’informatica, che sotto l’etichetta “ICT” sta monopolizzando l’attenzione, benché le competenze di questa disciplina non vadano molto oltre
l’aspetto tecnologico.
L’unico tentativo sociologico in grande stile è quello della teoria dei
sistemi di Niklas Luhmann, secondo cui la funzione dei mezzi di comunicazione è superare tre soglie di improbabilità (Luhmann 1997, 190ss): l’improbabilità di capirsi, l’improbabilità di raggiungere destinatari lontani
e l’improbabilità che la proposta comunicativa venga accettata. I media
corrispondenti sono: linguaggio, mezzi di diffusione (scrittura, stampa,
televisione ecc.) e mezzi di comunicazione simbolicamente generalizzati (denaro, potere, verità scientifica e altri). Ma anche in questa teoria
molto sofisticata e astratta manca un concetto unitario di
medium comunicativo. [1]
[1] Nella letteratura si registra una
Lo stesso Luhmann, però, offre spunti che meritano tendenza contraddittoria: da un lato
si vorrebbe rispondere alla domanda
di essere sviluppati e che riprendono contributi ormai noti “cosa
è un medium?” e dall’altra non si
e discussi non solo in sociologia, ma anche nelle scienze vuole ricorrere a grand theories (cfr. tra
cognitive e cibernetiche, in particolare la distinzione tra tanti Winthrop-Young 2000).
medium e forma di Fritz Heider, il concetto di osservazione di secondo ordine di Heinz von Foerster e le “leggi della forma” di
George Spencer Brown. Si tratta comunque di spunti che non sono stati
davvero sistematizzati e organizzati in vista di una teoria unitaria. In questo articolo intendo mostrare che combinando queste impostazioni molto
astratte è possibile quantomeno avvicinarci a una definizione unitaria del
concetto di mezzo di comunicazione. Vediamo come.
Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale
Giancarlo Corsi
Introduzione: mancanza di una teoria generale dei media
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Per impostare una teoria dei mezzi di comunicazione è necessario chiarire il concetto di base dal quale dobbiamo partire: il concetto di comunicazione. Diverse discipline sembrano convergere su un punto: una comunicazione “produce” sempre un’informazione, cioè il suo contenuto, e
allo stesso tempo attribuisce la scelta dell’informazione a chi ha parte attiva. La terminologia è variabile, naturalmente, ma il punto sembra essere lo stesso, per quanto in modo non del tutto chiaro: si parla allora delle
due componenti di comando e resoconto (Ruesch & Bateson 1951/76, 179181), di aspetti constativi e performativi (Austin 1962/87,
infra) oppure di enunciato (Mitteilung) [2] e informazio- [2] Questo termine è impossibile
da tradurre in modo univoco. In
ne (Luhmann 2018, 21-22), terminologia, quest’ultima, che tedesco
corrisponde all’italiano
adottiamo qui. Spieghiamo di cosa si tratta.
“comunicazione”, nel senso di notifica.
qui con enunciato anche
Con informazione si intende il contenuto della Traduciamo
per rimandare al fatto che anche
comunicazione, che comporta sempre un qualche effetto le discipline che si occupano del
di sorpresa (che può anche consistere nel fatto che si linguaggio vedono distinzioni analoghe.
sapeva già ciò che è stato detto). L’informazione, in questo
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#18, I/2023, 213 — 231
Il concetto di comunicazione
Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale
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senso è una differenza (dato che indica qualcosa distinguendola da altro)
che fa una differenza (dato che avrà conseguenze diverse per i destinatari), secondo la celebre definizione di Gregory Bateson (2011. Cfr. anche
MacKay 1969, 60). Su un concetto così tanto studiato può bastare questa
minima definizione.
L’enunciato indica la prestazione selettiva di chi avvia una comunicazione. Quando parliamo di intenzione, per esempio, ci riferiamo a questo aspetto della comunicazione: affermare qualcosa (informazione) presuppone che chi afferma abbia considerato altre possibilità e che quindi
sia responsabile di ciò che afferma. Senza questo, non si
può parlare di comunicazione. [3] Che l’enunciato sia costi- [3] Per esempio, che oggi sia una
giornata e che guardando fuori
tutivo della comunicazione, lo si vede bene nel fatto che la bella
dalla finestra ce ne rendiamo conto,
comunicazione successiva ha sempre due possibilità: può non ha ancora nulla di sociale. Ma
nel momento in cui lo comunichiamo
continuare attenendosi all’informazione oppure all’enun- (rendendo
il tutto sociale), diciamo
ciato. Nel primo caso, semplicemente si avranno altri con- anche qualcos’altro: forse che
fare una passeggiata o che
tributi al tema trattato; nel secondo, si chiederà perché chi vorremmo
invece dobbiamo comunque lavorare
ha detto ciò che ha detto lo ha detto, cosa intendeva e così in ufficio e questo ci mette di cattivo
via, attribuendo quindi una selettività che può prendere umore.
anche la forma di responsabilità o di intenzione.
A queste due selettività, dobbiamo aggiungerne una terza, la comprensione. Il motivo è empiricamente piuttosto evidente: una comunicazione può realizzarsi solo se il destinatario, in qualche modo (cioè selettivamente), comprende. Inoltre, solo chi ha compreso può avere qualcosa
da dire in comunicazioni successive. E viceversa: chi avvia una comunicazione ha sempre in mente chi, quando, come, perché e anche se, potrà
comprendere. “Comprendere” qui non significa soltanto cogliere il senso
dell’informazione, ma anche distinguere il lato informativo da quello
dell’enunciato. Solo in questo caso ci è evidente che si tratta di comunicazione e non di percezione (di un comportamento). [4]
In ogni operazione comunicativa, queste tre unità [4] Anche qui non è difficile rendere
l’idea con un esempio, pensando
selettive si generano e si danno solo simultaneamente. alla
sensazione che si prova quando,
Adottando una classica distinzione sociologica, la comuni- avviando un contatto online, ci
conto che stiamo parlando
cazione si realizza solo nel momento in cui Ego comprende rendiamo
con un bot e non con un essere
ciò che Alter Ego ha inteso affermare, anche nel caso in cui umano: smettiamo immediatamente
attribuire qualunque forma di
tra l’enunciato di Alter e la comprensione di Ego sia pas- di
intenzione al nostro “interlocutore”,
sato del tempo. Inoltre, se e quando si realizzi una comuni- dando per scontato che non è in grado
capire, e iniziamo a cercare parole
cazione è stabilito dal sistema sociale nel quale ciò avviene, di
chiave o equivalenti che supponiamo
non dai partecipanti. Non c’è dubbio che, quando si dice siano riconoscibili da parte
Oppure, semplicemente,
qualcosa a qualcuno in modo esplicito, si può dare per scon- dell’algoritmo.
scriviamo una qualche frase triviale,
tato che si sia realizzata una comunicazione e che questo sia sapendo però che i programmatori
lo hanno previsto – e ci arriverà una
proprio ciò che si voleva; ma sul senso sociale e sulle con- risposta
adeguata.
seguenze di quanto si è detto non decide chi parla o scrive
e nemmeno chi comprende. Soprattutto nelle comunicazioni di massa, questa è diventata nel frattempo una ovvietà, dato che nessuno può prevedere cosa accadrà in seguito a una dichiarazione pubblica.
Dobbiamo sottolineare un’ultima peculiarità della comunicazione,
necessaria per le considerazioni successive. Ogni comunicazione si realizza
sempre come singolo evento: non appena realizzatasi, cioè non appena
compresa, la comunicazione è anche già finita, lasciando spazio ad altre
(eventuali) comunicazioni. Si tratta di un evento senza durata temporale. In questo senso molto preciso conviene definirla come “operazione”
Iniziamo con una precisazione: non esiste comunicazione immediata, nel
senso di non mediata. Nemmeno quella orale lo è: serve pur sempre almeno il linguaggio per potersi capire. Nessuna empatia e nessun neurone
specchio potrà mai consentire di “accedere all’altro”. Non solo: per poter
capire su cosa si sta comunicando, cioè per rappresentare la realtà in modo
generalizzabile, che si tratti di un villaggio tribale o della “società mondiale” di oggi, bisogna elaborare schematismi ai quali orientarsi. Quindi non
solo la singola operazione comunicativa è sempre mediata, ma lo è anche
il suo contenuto, la realtà sulla quale si comunica.
È allora opportuno distinguere tra due problemi: 1) quali sono le
condizioni perché una comunicazione abbia luogo? 2) Come fare in modo
che i suoi contenuti non abbiano solo un senso occasionale e congiunturale, cioè legato alla situazione concreta specifica in cui la comunicazione ha luogo, ma possano essere condensati in forme generalizzabili e
confermati o meno nei processi comunicativi? Possiamo formulare queste
domande su un piano più astratto.
Ogni comunicazione osserva la realtà e allo stesso tempo è reale in
quanto operazione. [5] In altre parole, ogni comunicazione
propone sempre un contenuto, che può trovare seguito [5] Naturalmente, quanto stiamo
vale anche per quello che
o meno. Ma ogni comunicazione è anche un evento che dicendo
stiamo dicendo: definire così la
accade realmente, che riproduce la società, che presuppone comunicazione richiede l’uso di
particolari (qui: operazione/
altri eventi precedenti e può essere il punto di aggancio di distinzioni
osservazione). Un’altra teoria
altri eventi successivi. [6] Ed
partirebbe da presupposti diversi e
definirebbe la comunicazione in un
è un evento che può essere [6] Quando uno scienziato
altro modo.
i risultati della propria
osservato da un osservatore pubblica
ricerca, per esempio, fa due cose
per il quale vale la stessa contemporaneamente: propone
un’osservazione della realtà, che
condizione, perché per deriva
dalle teorie che applica, e
osservare deve operare. [7]
opera realmente come osservatore,
[7] Questo consente di prendere
contribuendo alla riproduzione del
distanza da impostazioni che per
Possiamo quindi par- sistema sociale della scienza.
definire i media insistono su ciò che
producono in termini materiali o ne
lare di realtà in due sensi: la
cercano la “fattualità”. Si veda per
realtà dell’osservatore e la
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Operazione/osservazione: la doppia realtà della
comunicazione
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sociale, più che come “elemento”, termine, quest’ultimo, che rimanda più
o meno a qualcosa di duraturo.
Questa succinta presentazione del concetto di comunicazione ci
porta ora alla domanda centrale: cosa si intende con “mezzo” di comunicazione? Qui la situazione è più complicata.
Come abbiamo visto sopra, l’unico tentativo di applicare tale concetto viene dalla teoria dei sistemi, che definisce i mezzi di comunicazione
in base alla funzione che svolgono: superare soglie di improbabilità (comprensione, raggiungimento di destinatari non presenti fisicamente, successo della comunicazione). Ma cosa si intenda con medium, dato che con
tale concetto si vogliono indicare casi molto diversi tra loro, come linguaggio, stampa, potere e denaro ecc., resta poco chiaro. Abbiamo anche detto
che proprio questa stessa teoria ha tentato di percorrere altre vie, combinando contributi teorici che provengono da altre discipline, anche molto
lontane tra loro, e che possono essere utilizzati in vista di una teoria generale dei mezzi di comunicazione. Questo è quanto cercheremo di fare.
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realtà osservata. La teoria dei sistemi propone di utilizzare esempio Phillips (2017), inaugurando
una nuova
una distinzione specifica, la distinzione
rivista dedicata
operazione/osservazione, [8] che è decisiva [8] Questa distinzione si basa sul
a Media Theory,
calcolo formale di Spencer Brown
il quale discute
per la proposta che vogliamo avanzare in (1969;
1993) e sul concetto di
le proposte
questo articolo. La nostra ipotesi, infatti, autopoiesi di Maturana (Maturana
di un autore
Varela 1980/85). Si veda in forma
importante degli
è che i mezzi di comunicazione si possano &molto
chiara Luhmann (2018[2011],
studi mediatici
distinguere a seconda se “mediano” il lato 122ss). Cfr. anche Luhmann
(Kittler 2009)
che invita a
operativo o quello osservativo delle comu- (2007[1988]) ed Esposito (1992).
considerare
nicazioni. In ogni comunicazione, quindi,
“commands,
addresses, and data, that is,
sono sempre all’opera due media contemporaneamente: proceedings,
transmissions, and
un medium per renderla possibile come operazione e un memories” il nucleo centrale dei
Ma così viene a mancare
medium per osservare la realtà. Vediamo di cosa si tratta, media.
proprio la contemporaneità di
per ora in prima approssimazione.
operazione e osservazione: i
richiedono
In quanto operazione, la comunicazione non fa altro commands-proceedings
schemi osservativi, dentro ai quali è
che riprodurre il sistema sociale al quale afferisce, contri- irrilevante quale command si scelga
operativamente, gli addresses/
buendo alla sua autopoiesi (Maturana/Varela 1980/85). Su transmissions
non coincidono certo
questo piano non interessa altro, che si tratti di un discorso con i pali del telegrafo (dal punto
di vista sociale) e i data non sono
politico, di una chiacchiera al bar o di una funzione reli- memories,
nemmeno le biblioteche
giosa. Ciò che è decisivo è che le tre unità selettive, infor- – memoria è solo ciò che viene usato
operativamente per osservare (sulla
mazione, enunciato e comprensione, si producano, realiz- memoria
si vedano Esposito 2001 e
zando così l’operazione comunicativa. Come si producano Cevolini 2016).
e come vengano connesse tra loro – a questa domanda
rispondiamo: mediante il linguaggio e quei media noti
come “tecnologie della comunicazione” o “mezzi di diffusione”, terminologia, questa, che però deve essere cambiata, e non perché non si tratti effettivamente di tecnologie (scrivere, stampare, trasmettere immagini ecc.) o
di diffusione (il superamento della distanza tra gli interlocutori è chiaramente un’enorme conquista), ma perché così si finisce per lasciare sullo
sfondo, se non da parte, la vera funzione di questi media, che è connettere
in una stessa operazione le tre unità selettive. Per questo, li chiamiamo
media operativi, poiché non determinano i contenuti della comunicazione, ma solo le modalità operative della sua realizzazione, cioè il modo
in cui Ego e Alter Ego possono partecipare alla comunicazione e in questo sta la loro portata storico-evolutiva. [9] [9] Che questi media possano
anche in modo “catastrofico”
Ma non è tutto. Ogni comunicazione, avendo un ilcambiare
sapere di una società, non viene
contenuto, è anche osservazione della realtà e per osser- certo messo in discussione; ma
dipende anche dal grado di
vare utilizza distinzioni, schemi o cornici, che delimitano questo
complessità raggiunto dalla società.
e specificano ciò che è possibile comunicare e che, come Inventare la stampa nell’Europa del XV
secolo è molto diverso dall’inventarla
da qualche decennio sostiene il costruttivismo, sono sem- in
Corea-Cina parecchi secoli prima.
pre e solo costruzioni dell’osservatore. La “realtà reale” non Effetti come la nascita dell’opinione
la neutralizzazione morale
solo è inaccessibile, ma non è in alcun modo istruttiva, nel pubblica,
delle novità e il conseguente interesse
senso che non dice in base a quali categorie concettuali per la devianza, l’invenzione di motivi,
ipocrisia e altri concetti
possa essere osservata. Nessuno, tantomeno il costruttivi- interesse,
analoghi, richiede presupposti
smo, nega che esistano oggetti come mele o opere d’arte sociostrutturali molto precisi. Non
né che ci siano persone alte e persone basse. Ma il senso di basta il medium della stampa.
queste osservazioni non deriva certo da ciò che esse indicano, ma solo dall’osservatore che produce tale senso e lo applica operativamente. Qualunque sia la distinzione che viene usata per osservarla,
quindi, la realtà non può che essere una costruzione reale
(osservazione) di un osservatore reale (operazione). [10]
[10] E questo vale naturalmente
anche per noi, che osserviamo la realtà
La domanda è allora: come vengono costruite le con
strumenti teorici molto particolari.
Loose/tight coupling
sociale: la causalità, lo spazio e il
tempo, che sono anch’essi costruzioni
sociali (e psichiche) non dedicate, ma
universali. Cfr. Luhmann (2017, 46–64).
Partiamo da due esempi di media molto diversi, ma tra i
più evidenti, e vediamo cosa hanno in comune: il linguaggio e il denaro.
La prima caratteristica che salta agli occhi è che mettono a disposizione un
potenziale combinatorio. Suoni linguistici, lettere, parole e frasi possono
essere combinate tra loro praticamente senza alcun limite (se non il senso
che si vuole comunicare). Il denaro fonda la sua impressionante potenza
sociale innanzitutto sul fatto che può essere utilizzato solo nella forma di
unità e quindi di somme; anche qui, le possibilità combinatorie sono infinite, limitate solo da prezzi e budget.
Ammesso che questa proprietà possa essere rilevata in tutti i mezzi
di comunicazione, operativi e osservativi, ciò che interessa è il fatto che
i media sono costituiti da una quantità di elementi che lasciano indeterminato come utilizzarli e che solo nella comunicazione concreta assumono una forma precisa: nel primo caso, per esempio, una frase o un
testo (orale o scritto) o, nel secondo, una transazione. Questa prima definizione, ancora molto essenziale, richiama in modo diretto il concetto di
medium proposto da Fritz Heider (1926; 1959) ormai un secolo fa nei suoi
studi sulla percezione sensoriale. L’idea di Heider è che la vista e l’udito,
i due casi studiati nelle sue ricerche, sono possibili grazie ai media della
luce e dell’aria. Questi media mettono a disposizione degli elementi
(lunghezze d’onda, particelle) che in quanto potenziale (medium) non
sono percepibili perché connessi tra loro in modo lasco; solo se e quando
questi elementi vengono accoppiati in modo stretto si possono percepire “cose” (o forme, come diremo qui: oggetti visibili, suoni). L’aria non
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distinzioni e all’interno di quali delimitazioni (cornici) Un’altra teoria (se ci fosse!) “vedrebbe”
possono essere elaborate e utilizzate operativamente? La una realtà diversa.
nostra ipotesi è: mediante media comunicativi specifici,
che chiamiamo media osservativi, che nella società attuale comprendono
anche quei media come il denaro o il potere, ai quali la sociologia di impostazione sistemica attribuisce la funzione di rendere probabile il successo
di comunicazioni altamente improbabili. Non mettiamo in discussione
questa funzione, ma ne vediamo un’altra più generale, che si estende a
tutti i sottosistemi della società e cioè: osservare la realtà dal loro punto di
vista, quindi costruirla e renderla disponibile per la comunicazione.
La scienza, per esempio, costruisce una realtà “oggettiva”, fatta di
atomi, cellule, corpi celesti, strutture psichiche e sociali e così via; l’arte
propone una realtà di tipo del tutto diverso, naturalmente, che sfrutta la
percezione umana per sorprendere, affascinare e irritare la comunicazione
in modo quanto più possibile idiosincratico; la religione invita a vedere
sempre anche il lato trascendentale in qualunque realtà immanente, e sappiamo bene quanto queste osservazioni della realtà possano essere attraenti e motivanti. Vedremo poi più nel dettaglio come funzionano alcune
di queste costruzioni della realtà, anche nei casi del diritto, della politica,
dei mass media e di altri. Per ora è importante sottolineare il punto: questi media generano (osservano) il mondo sul quale è possibile comunicare. [11]
[11] I media osservativi non si limitano
certo a quelli dei sottosistemi. Ci sono
Ma abbiamo ancora un problema da risolvere: dob- media
osservativi trasversali, nel senso
biamo capire cosa significhi il termine “medium”.
che fungono per qualunque situazione
Media operativi
I media operativi, come abbiamo accennato, hanno la funzione di accoppiare in modo stretto o lasco le tre unità selettive della comunicazione. A
seconda che si tratti di oralità, di scrittura, di stampa o dei media più recenti (radio, televisione, media digitali ecc.), cambia il modo in cui enunciato, informazione e comprensione vengono connesse tra loro. Dobbiamo
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fa rumore e la luce non si vede; noi possiamo solo udire suoni e vedere
oggetti che riflettono la luce. I media sono quindi sempre impliciti e la
loro “presenza” può essere osservata solo nelle forme che
in essi vengono impresse. [12] La loro funzione è creare [12] Questo concetto di Heider è stato
in diverse discipline, seppur
un potenziale, immaginare (creare, estendere, ridurre, ripreso
con molte variazioni. Nella teoria
dimenticare) possibilità, che poi devono essere conden- dell’organizzazione per esempio da
Weick (1976/88) e in sociologia
sate in forme da un osservatore. Senza tale osservatore, il Karl
dalla teoria dei sistemi (Luhmann
medium non esiste.
2011/18, 191-192). In un contesto del
tutto diverso, il fatto che il medium (il
Basandoci su questa definizione di medium e linguaggio) si nasconda e non si possa
riprendendo quanto detto sopra, i mezzi di comunica- osservare come tale, è stato rilevato
anche da Maurice Merleau-Ponty, La
zione devono fare almeno due cose: (1) accoppiare in modo prosa
del mondo, citato da Wiesing
stretto o lasco le unità selettive di ogni singola operazione (2009). Wiesing, però, si attiene alla
distinzione di Edmund Husserl genesi/
comunicativa, creando un potenziale che può essere deli- validità,
sostenendo che solo la validità
mitato e specificato (2) da altri media costituiti da ele- (intersubjective self-sameness)
consente di leggere, udire o vedere
menti (accoppiati in modo lasco) che alla comunicazione tramite
media. Echi della Geltung di
appaiono come realtà (accoppiamento stretto). Questo Habermas? E poi: come si potrebbe
corrisponde alla distinzione che abbiamo introdotto sopra comunicare senza media?
tra media operativi e media osservativi.
Prima di entrare nel dettaglio, però, è necessaria una premessa. La
società, e quindi la comunicazione, nasce solo quando è stato possibile
costituire i due media fondamentali, dai quali parte ogni possibile evoluzione successiva: il linguaggio e il senso. Che siano condizione fondamentale di qualunque forma di società è evidente, se si pensa che non è possibile comunicare senza questi due media portanti e che non è possibile
attualizzare linguaggio senza senso o senso senza linguaggio. Da essi derivano tutti gli altri media, operativi e osservativi.
Il linguaggio, medium operativo che nella sua prima forma è orale,
è necessario perché ci si possa capire combinando suoni o lettere (e forse
altro, con i media più recenti). Solo a questa condizione basilare è possibile il passaggio evolutivo a modalità comunicative a distanza, prima
scritte, poi anche stampate, che sfruttano le immagini in movimento o
che rendono irrilevanti le distanze spaziali. Ogni medium operativo presuppone il linguaggio. Il senso, invece, è il medium osservativo che consente di distinguere costantemente tra ciò che è attuale nella comunicazione (il suo contenuto del momento) e ciò che ci si può immaginare come
altre possibilità (altri contenuti al momento non attualizzati) (Luhmann
2018[2011], 187ss). Dalle prime forme di socialità, che possiamo solo vagamente immaginare, fino alle grandi civiltà del passato per arrivare alla
modernità, questo medium è semplicemente il presupposto di ciò che è
possibile comunicare osservando la realtà. Da qui si articola qualsiasi altro
medium osservativo.
Vediamo ora come funzionano i due differenti tipi di media, limitandoci agli aspetti principali. Iniziamo dai media operativi.
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però ammettere che gli unici media dei quali sappiamo abbastanza per sostenere la nostra tesi sono i primi tre; sugli altri dovremo accontentarci di
supposizioni ancora piuttosto grezze.
Per quanto riguarda l’oralità, basata sull’interazione, la caratteristica più evidente è la contemporaneità (l’accoppiamento stretto) di
enunciato e comprensione. Essendo Ego e Alter Ego presenti fisicamente,
nel momento in cui Alter enuncia ciò che vuole dire, Ego comprende. Si
tratta della situazione sociale più elementare, o meno complessa, rispetto
alle successive: l’unica condizione che deve essere garantita è la comprensione, e il linguaggio la garantisce. Ma per cogliere la peculiarità della
comunicazione solo orale, conviene vedere cosa cambia con l’invenzione
della scrittura.
La scrittura allenta l’accoppiamento tra enunciato e comprensione, perché introduce un’asimmetria temporale: chi comprende, comprende in un momento successivo rispetto all’enunciato.
Le conseguenze enormi di questa invenzione sono note: [13] [13] Gli studi classici in materia
sono soprattutto: Havelock (1963/73;
il testo deve essere comprensibile da sé, non essendoci chi 1986/87)
e Ong (2002/1986).
l’ha scritto per spiegare o sciogliere dubbi; questo comporta che l’informazione tende a “oggettivarsi” sempre
più, mentre l’enunciato si profila in modo più netto, dato che l’informazione è più selettiva e quindi lascia quantomeno intuire quali possibilità
sono state scartate. Non è un caso, quindi, che le grandi civiltà del passato, soprattutto a partire da quella greca, abbiano potuto sviluppare una
semantica così raffinata. L’idea di metafisica ontologica, per esempio, cioè
la rappresentazione della realtà come qualcosa che esiste indipendentemente da chi la osserva e che è quello che non non è, sarebbe impensabile
senza la scrittura. Allo stesso modo, il diritto romano non avrebbe potuto
basarsi su una grande quantità di casi distinti dalle fattispecie, classificabili e ordinabili indipendentemente dal contesto specifico
nel quale si sono verificati. [14]
[14] Questi esempi si possono
aggiungere a quelli proposti da Ong
In sostanza: mentre nelle società orali le tre unità (2002/1986,
131-174), quando dice che
sono accoppiate tra loro in modo stretto, la scrittura disac- “la scrittura ristruttura il pensiero”.
coppia l’enunciato dalla comprensione. [15] E come stanno
le cose per quanto riguarda il rapporto tra informazione e [15] Come scritto all’inizio del
capoverso precedente, con
enunciato?
“disaccoppiamento” intendiamo
La nostra supposizione è che, nel lungo periodo che l’allentamento del “tight coupling”, cioè
l’ampliamento dei margini di manovra
va dall’invenzione della scrittura fino all’invenzione della quando
si tratta (in questo caso) di
stampa, queste due unità selettive siano rimaste accop- accoppiare enunciato e comprensione.
tenga presente, infatti, che ogni
piate in modo stretto. Il fatto è che in società post-tribali, Si
comunicazione si realizza solo quando
basate sulla preminenza di un centro (città, tempio) o, più arriva a un accoppiamento stretto
le tre unità selettive. La scrittura
tardi, sulle differenze di ceto (società nobiliari), le costru- tra
consente al destinatario di riflettere su
zioni della realtà restano di tipo più o meno dogmatico e ciò che comprende e gli lascia quindi
più libertà di quella consentita
ontologico, spesso con forti connotazioni morali. I margini molta
dalla comunicazione orale interattiva.
per deviare dai canoni sono ancora molto ristretti, anche Allo stesso modo, chi scrive deve
bene tra ciò che vuole
se molto sfruttati (interpretazioni “mirabili” dei testi, distinguere
enunciare e ciò che vuole escludere.
variazioni accettabili delle descrizioni della natura, assi- Anche qui, la gamma di possibilità
milazione di irritazioni dovute a casualità ecc.). Le novità rispetto all’oralità è molto maggiore.
(informazioni) devono potersi inserire nell’ordine cosmologico dato e le forzature sono sempre rischiose (eresie, aberrazioni morali).
L’enunciato, da parte sua, si inserisce anch’essa in un quadro naturale già
dato, che tipicamente presuppone qualità superiori di chi è nato bene o
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è stato beneficiato da Dio. [16] Nei termini della ciberne- [16] L’apologia di Socrate è un caso
così come il destino di certi
tica più recente: queste società sono ancora basate sull’os- esemplare,
santi o le gesta di certi condottieri.
servazione di primo ordine (la “natura”), mentre l’osservazione di secondo ordine è limitata alla sorpresa (meraviglia,
ammirazione), che viene comunque neutralizzata nel senso appena visto.
Questa distinzione tra due ordini di osservazione è molto importante per una teoria dei mezzi di comunicazione. [17] Con
osservazione di primo ordine si intende il semplice fatto [17] Celebre distinzione proposta da
che ogni comunicazione indica qualcosa, descrive una Heinz Von Foerster (1984/88).
realtà che appare essere oggettiva. Anche qui, in questo
testo, facciamo così: c’è una società, c’è qualcosa che chiamiamo comunicazione e così via. In questo senso, tutte le osservazioni sono di primo
ordine. Ma quando l’osservazione si concentra su un “oggetto” particolare,
cioè un osservatore, allora diventa di secondo ordine: non ci si chiede più
se la preferenza dell’osservatore osservato sia condivisibile o meno, ma se
la distinzione che utilizza sia necessaria, se abbia alternative altrettanto
utilizzabili; ci si chiede cosa tale distinzione non possa vedere, dato che
nessuna distinzione può racchiudere in sé il mondo, e così via.
Un esempio piuttosto evidente è la morale, schematismo onnipresente sui mass media. Sul piano dell’osservazione di primo ordine ognuno
può distinguere ciò che è bene da ciò che è male e apprezzare o disprezzare chi esprime preferenze in un senso o nell’altro. Se si passa sul piano
dell’osservazione di secondo ordine, la situazione è del tutto differente:
ci si chiede cosa si vede e cosa non si vede se si adotta una distinzione
del genere e naturalmente anche se abbia senso distinguere così e cos’altro si potrebbe fare, finendo poi per arrivare a chiedersi come sia possibile ritenere che sia un bene distinguere tra bene e male. Una domanda
che non può avere alcuna risposta, se non un paradosso. Questo significa
osservazione di secondo ordine: osservare osservatori. È una cibernetica
che descrive osservatori che osservano “contesture”, non
semplicemente individui o oggetti. [18] La tesi della teo- [18] Si veda Günther (1979) e il suo
di policontesturalità, che
ria dei sistemi è che la modernità, a differenza delle società concetto
comporta operazioni transgiunzionali
precedenti, si sia assestata su questo piano, dove tutto ciò (1976).
di cui si parla sui media viene filtrato dalla domanda “chi
lo dice?”, “chi osserva in questo modo?”, “perché?” e così
via. Ci si informa su ciò che accade tenendo conto di ciò che dicono altri
osservatori e solo così si è in grado di dare un senso a notizie, avvenimenti,
decisioni ecc. (si veda Luhmann 2018[2011], 121 et infra). Tra le conseguenze
di questo passaggio evolutivo c’è il fatto che qualsiasi affermazione sul
mondo è discutibile, anzi stimola gli osservatori a cercare alternative e
varianti; inoltre che ci si interessa di ciò che l’osservatore osservato non può
vedere, delle sue latenze o cecità – e molto altro ancora. Che questa modalità di osservazione si generalizzi solo nella modernità si vede dal fatto che
molti concetti tipici dell’osservazione di secondo ordine, come interesse,
motivo, ipocrisia e altri, fanno la loro comparsa molto tardi, quando l’equilibrio della stratificazione medievale comincia a vacillare.
Molto tardi significa soprattutto: con l’invenzione
della stampa. [19] Sarà la stampa, appunto, a spingere defi- [19] Anche qui è stata soprattutto
la ricerca storiografica a mettere
nitivamente in questa direzione rompendo l’accoppia- in
evidenza alcune conseguenze di
mento stretto tra informazione ed enunciato. Per capire questa invenzione. Testo di riferimento
cosa significhi, dobbiamo tenere presente alcuni degli principale è Eisenstein (1983/97).
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effetti che questa invenzione ha avuto sulla società europea dell’epoca.
Qui è importante non solo la soluzione del problema della dimenticanza,
potendo stampare a prezzi ragionevoli senza preoccuparsi se i libri vengono
distrutti. Importante è anche che la maggiore disponibilità di testi rende
il sapere visibile, nel senso che chi vuole occuparsi di un certo tema non
solo trova facilmente i libri, ma sa anche che quello che si trova davanti è
il sapere esistente – non ci sono più libri segreti, misteriosi, nascosti chissà
dove. Questo significa che scrivere un testo ha senso solo se si vuole proporre qualcosa di diverso, di nuovo, rispetto al sapere già disponibile. La
novità viene via via sottratta alle valutazioni morali, anzi: diventa sempre
più interessante e attraente, fino al punto da imporsi come criterio principale di qualunque autore. Questo porta alla graduale scomparsa di un
concetto tradizionale fondamentale, quello di natura: la realtà del creato
non fornisce più istruzioni univoche su come descriverla e interpretarla.
È l’autore che deve metterci del suo e qui inizia quel processo che porta la
società a posizionarsi sul piano dell’osservazione di secondo ordine. Se si
vuole capire il senso di un testo, non bisogna osservare la
realtà di cui tratta, ma il suo autore. [20]
[20] Un caso esemplare della seconda
del Cinquecento sono i Saggi
Questo breve riassunto delle conseguenze dell’in- metà
di Montaigne (2012), soprattutto la
venzione della stampa è sufficiente a mostrare ciò che ci dedica al lettore.
interessa: l’enunciato ora è osservato soltanto come intenzione soggettiva, quindi sempre discutibile e la sua legittimità può essere ogni volta contestata (Luhmann 1997, 302); l’informazione ora deve essere elaborata in modo molto più complesso rispetto a
prima, per esempio trovando connessioni nei diversi sottosistemi della
società moderna; chi comprende, infine, deve decidere cosa farsene e, se
decide di dare seguito, può eventualmente farlo sfruttando quella libertà
di deviare che ora è tanto garantita quanto paradossale. [21] Arriviamo così al disaccoppiamento tra enunciato [21] Effetti noti dei mass media:
cercare di essere originali è quanto di
e informazione, oltre che tra enunciato e comprensione, e più
scontato si possa immaginare.
con esso al definitivo riassestamento della società sul piano
dell’osservazione di secondo ordine, dove si svilupperanno
i media osservativi moderni.
Cosa possiamo dire dei media operativi più recenti? Come si accennava, è difficile capire bene dove stia la novità di questi media e come essi
connettano (in modo stretto, in modo lasco?) informazione, enunciato e
comprensione.
Dopo la stampa, la sequenza storica riporterebbe telegrafo, telefono,
radio, televisione e tutto ciò che va sotto la denominazione di digitale,
fino ai social media.
Per quanto riguarda la semplice comunicazione a distanza consentita da telegrafo e radio, la novità più importante è la progressiva perdita di
rilevanza delle distanze spaziali e quindi temporali. Che queste invenzioni
siano state estremamente importanti non c’è bisogno di sottolinearlo; dal
punto di vista di una teoria dei media operativi, tuttavia, non sembrano
esserci conseguenze di grande rilevanza. O forse una, che riguarda soprattutto il telegrafo: si può supporre che comunicare a distanza in “tempo
reale”, come si suol dire, invece che dover ricorrere a corrieri, stazioni di
posta, messaggeri ecc., abbia alimentato la sensazione della contemporaneità del mondo – una contemporaneità non più divina, ma comunicativa.
Tant’è vero che proprio in quel periodo il mondo viene sincronizzato con
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l’invenzione del tempo mondiale (fusi orari). Cos’abbia significato questo sul piano delle modalità operative per la società della seconda metà
dell’Ottocento non è facile dire e richiederebbe ricerche apposite. In ogni
modo, questo aspetto verrà poi amplificato dai media operativi successivi,
primi fra tutti la televisione.
Televisione significa immagini in movimento e, per quanto concerne la televisione come medium operativo, è questo che fa differenza.
La combinazione di suono e immagine dà l’impressione di una realtà difficile da negare (ma non impossibile, per esempio per sospetto di manipolazione) e questo porta all’estremo l’impressione che il mondo sia accessibile
(quasi) contemporaneamente a ciò che accade, ovunque accada. Luhmann
fa notare che questo comporta una conseguenza non da poco e cioè che si
sa che è comunicazione, ma non lo si vede (Luhmann 1997, 307). Di fronte a
una ripresa televisiva viene a mancare la possibilità di accettare o rifiutare
la comunicazione – si può naturalmente dire che si tratta di un falso, che
il video è stato manipolato e così via, ma la soglia oltre la quale si rischia
di passare per “negazionisti”, incorrendo in sanzioni sociali, è molto bassa.
Dal nostro punto di vista è importante il fatto che è difficile distinguere
chiaramente tra enunciato e informazione: [22] la ripresa
televisiva ci dice sempre implicitamente che le cose sono [22] Come nelle società orali – ma qui
base a condizioni del tutto diverse,
andate così come si vede e si sente, e non altrimenti. Qui in
ovviamente.
si porta all’estremo il pregiudizio giornalistico della fattualità dell’informazione, al quale, naturalmente, oggi non
crede più nessuno, nemmeno i giornalisti, che però non possono fare altro
che ripeterlo. Ma non perché tutto è manipolazione – certo che lo è, ma
chi sarebbe in grado di dimostrarlo, evitando di finire sospettato di fare
esattamente la stessa cosa? E che differenza farebbe? Il punto è un altro:
ciò che vediamo in televisione sarà anche corrispondente a ciò che la telecamera ha ripreso, ma il suo senso non è determinato da questa “fattualità”. Si tratta di una delle tante conseguenze dell’osservazione di secondo
ordine: anche di fronte a un’evidenza, l’attenzione comunicativa si sposta subito sulle interpretazioni, sui commenti, sui pareri espressi, finendo
per osservare comunque osservatori. Per questo la difficoltà di distinguere
tra enunciato e informazione viene subito compensata, sui quotidiani, sui
blog o sui social media, dalla cascata di reazioni che segue ogni trasmissione televisiva di un certo rilievo.
Ma restiamo sul lato operativo del medium. La televisione amplifica ciò che la stampa ha generato per la prima volta, cioè la possibilità di
comunicare unilateralmente (questo significa mass media) senza determinare né sapere quali saranno le reazioni. Ma mentre la stampa si affida a
testi dai contenuti idiosincratici, la televisione riproduce una realtà che
pretende di essere tale sfruttando la percezione sensoriale (vista e udito).
Per questo, durante un dibattito, può bastare una goccia di sudore ripresa
dalla telecamera per compromettere una campagna elettorale – o così
dicono gli analisti politici.
Due ultimi casi devono essere citati, non fosse altro che per le discussioni, spesso molto polemiche, che suscitano. Il primo sono i social media.
Ciò che si nota immediatamente è che questi media consentono commenti e repliche a ciò che viene “postato” dall’autore. In questo senso non
sono mass media, anche se si possono usare come se lo fossero (ma spesso
al prezzo di dover disabilitare i commenti). La possibilità di commentare e
Anderson (2008) e le perplessità di
Piattelli Palmarini (2016).
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replicare è ovviamente tipica di qualsiasi comunicazione non massmediatica, ma qui colpisce il fatto che commenti e repliche si indirizzano molto
rapidamente e inevitabilmente non all’informazione, ma
all’enunciato. Come ebbe a notare Umberto Eco, [23] que- [23] Durante un incontro con i
giornalisti in occasione di una laurea
sto capitava e capita anche nelle chiacchiere al bar; nei honoris
causa all’Università di Torino,
social media, però, la platea è senza confini e perlopiù ano- nel 2015.
nima. Si potrebbe dire che siamo all’apoteosi dell’osservazione di secondo ordine, dove, molto più che il tema di cui
si tratta, interessa ciò che l’autore non vede o nasconde, a parere dei commentatori, per i quali valgono poi le stesse condizioni. Non a caso, in questi media fraintendimenti, incomprensioni, contestualizzazioni del tutto
arbitrarie e spesso prive di senso, sono all’ordine del giorno, così come
insulti, provocazioni e anche varie forme di violenza comunicativa.
Il secondo caso riguarda una frontiera che si è aperta di recente,
legata allo sviluppo impressionante delle tecnologie di calcolo: parole
chiave sono algoritmi, big data, deep learning e altro ancora. Che con le
macchine si possa “parlare”, non è più una novità, ormai; ma gli algoritmi
più recenti hanno una tale capacità di interagire con gli esseri umani, da
far pensare a una nuova forma di “comunicazione artificiale” (Esposito
2022). Dove vadano a collocarsi le tre unità selettive della comunicazione è
difficile dire. Distinguere tra enunciato e informazione quando si ha a che
fare con questo genere di algoritmi non sembra possibile; tuttavia, molta
informazione si genererà sempre più in questa forma. Ma qui possiamo
solo attendere gli sviluppi.
A questi problemi se ne aggiunge un altro: queste macchine vengono utilizzate anche per trovare connessioni e correlazioni nei più diversi
settori, connessioni e correlazioni che non si potrebbero rilevare senza di
esse. Il problema in questo caso sembra stare nell’affidabilità delle correlazioni (cioè accoppiamenti stretti) tra elementi. In campo medico, per
esempio, immagino non sarà facile valutare il senso clinico di correlazioni
particolarmente sorprendenti, anche se siamo abituati da tempo a leggere di tutto sui mass media: basti pensare alla lista delle sostanze cancerogene, ormai lunghissima e quindi sempre meno credibile. Oppure in
campo assicurativo, dove si è sempre ricorsi alla statistica e ora si cerca di
andare oltre, verso una radicale personalizzazione dei profili (cfr. Cevolini
& Esposito 2022); cosa penserà il cliente delle correlazioni che la compagnia
ha rilevato e che lo fanno apparire particolarmente a rischio? Sarà sufficiente attribuire la responsabilità all’algoritmo?
Resta il fatto che queste tecnologie spingono all’estremo la “solubilità” della realtà, ponendo la questione di chi (o cosa) e come dovrà poi
imprimere forme nell’enorme medium dei “dati”. Da questo punto di
vista non sono media operativi, ma media che possono (oggi forse devono)
essere usati per costruire rappresentazioni della realtà. Servono quindi
ai media osservativi, con rilevanze diverse a seconda del
sottosistema che li utilizza. [24] Ciò che colpisce nel modo [24] Sulla storia dell’indicizzazione del
sapere, che ha richiesto molto tempo
in cui certi “guru” parlano di questa novità, è la pretesa per
sganciarsi da criteri naturali per
di spacciare i dati come realtà: i dati sono il reale e attra- arrivare alla semplice decomposizione
del sapere
verso i dati sapremo tutto ciò che c’è da
in vista di
sapere. [25] Una pretesa che non potrà però [25] Si vedano alcune interviste
ricomposizioni
condotte su La Lettura a due di
imprevedibili, si
sottrarsi all’osservazione di secondo ordine: questi
“guru” del settore: Domingos
veda Cevolini
i dati sono reali in quanto costruzioni reali (2016); Pasquale (2016). Si veda anche (2022).
La funzione di questi media è costruire la realtà, cioè elaborare qualsiasi
contenuto sul quale sia possibile comunicare. Per quanto riguarda le condensazioni mediali del senso che guidano la comunicazione su vasta scala,
dal punto di vista storico-evolutivo potremmo citare le prime forme di religiosità magica e di normatività delle società tribali o le idee di virtù e di
natura che hanno dominato la società premoderna. In questi come in altri
casi si trattava di distinzioni, di schemi (frames) che aprivano un potenziale da attualizzare nelle operazioni comunicative: ciò che del mondo era
inspiegabile doveva trovare sublimazione nei rituali e ciò che doveva essere atteso come norma doveva essere visibile come dono, come vendetta o
come controversia. In epoca successiva, la virtù e il lato positivo della natura dovevano vedersi nella vita activa, non bastava “essere nato bene”, e
questo vincolo costruiva quel potenziale dove poi imprimere forme, come
le “cose grandi” (magnifiche), le imprese, le figure di nobiltà superiore e
così via. Qui però dobbiamo limitarci al caso specifico della società contemporanea, quindi alla differenziazione funzionale e ai suoi sottosistemi,
anche se non in tutti i casi sarà chiaro come tali sottosistemi elaborino il
loro medium. Vediamo intanto i più evidenti. [26]
La verità scientifica è forse il caso meno complesso, [26] Per quanto riguarda il modo in
cui la teoria dei sistemi analizza questi
proprio perché la scienza si limita a descrivere la realtà in media
rimando a Baraldi et al. (2021).
modo “oggettivo” e quindi i suoi elementi mediali sono
semplicemente ciò di cui è fatto ciò che chiamiamo realtà:
atomi, cellule, basi azotate, nebulose, sinapsi, comunicazioni e così via.
Ogni forma che la scienza imprime nel medium della verità è sempre
un accoppiamento stretto tra elementi mediali e a sua volta può diventare elemento mediale di altre forme. Un atomo, per esempio, è forma
nel senso che accoppia tra loro elementi subatomici e diventa elemento
mediale quando si passa a osservare molecole (dove le proprietà degli atomi
cambiano). Un altro caso è il DNA, che presenta analogie notevoli con il
linguaggio: pochissimi elementi mediali (le basi azotate) possono essere
accoppiati in forme (geni) che a loro possono essere accoppiate tra loro
(DNA dell’individuo). Tutte le teorie scientifiche sono costruite in questo modo: la differenza tra accoppiamento stretto e accoppiamento lasco
si presenta come una combinatorica che consente sempre di sciogliere gli
accoppiamenti per ottenere altre, eventualmente nuove, combinazioni.
Per quanto riguarda il potere – qui ci limitiamo al potere politico
– il substrato mediale è costituito da una quantità di possibili direttive,
per le quali ci si aspetta disponibilità a obbedire. [27] Solo
quando le possibili direttive (medium) vengono accop- [27] Ricordiamo che il potere
un’asimmetria: il
piate tra loro in modo stretto si arriva a produrre forme, presuppone
detentore deve essere in grado di
cioè piani politici, dove ciascuna direttiva rende plausibile minacciare sanzioni (in ultima istanza
usando la violenza) se il sottoposto
le altre motivando all’obbedienza (Luhmann 2000a: 34). Poi non
obbedisce alle direttive. Questo
bisogna gestire le proposte che hanno qualche possibilità comporta che detentore e sottoposto
un interesse comune: evitare
di imporsi nell’opinione pubblica, e qui entrano in gioco hanno
la sanzione. Solo su questa curiosa
i “frames”, cioè quelle preselezioni di senso che devono base, dove il fattore costitutivo (la
di esercitare violenza) deve
poi essere riempiti di contenuti, ma che già in quanto tali possibilità
restare implicito e improbabile, è
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di osservatori che operano realmente, non in quanto rispecchiamento
della realtà. E con questo passiamo ai media osservativi.
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pregiudicano pericolosamente ciò che è possibile dire (cfr. possibile immaginare e comunicare
in grado di imporsi. Ma questo
Lakoff 2004/19). La realtà che viene così prodotta ha la direttive
crea un paradosso: il potere è tanto
forma di rapporti quasi causali: la comunicazione di una più forte, quanto meno il detentore
ricorrere alla minaccia. Un potere
direttiva si presenta sempre come la causa dell’effetto spe- deve
che sia costretto continuamente a
rato, che si tratti di contenere l’inflazione variando il costo minacciare per ottenere ciò che vuole
è molto più debole (= meno possibilità)
del denaro, di diminuire la criminalità aumentando la pre- di
un potere che vede realizzate le
senza delle forze dell’ordine o di tenere sotto controllo le direttive che emana in modo quasi
tensioni internazionali usando la diplomazia (o le sanzioni). “automatico” (= più possibilità).
La realtà dell’economia è forse la più complessa,
dato che in questo sottosistema sono all’opera due media osservativi, la
proprietà e il denaro, dove il secondo presenta caratteristiche di estrema
astrattezza e artificialità. Essendo uno dei media più studiati in assoluto,
ci limitiamo a pochi aspetti che hanno direttamente a che fare con la solubilità/ricombinabilità degli elementi mediali.
Da un lato, la combinatorica del denaro è evidente: si tratta di
somme numeriche che hanno forma quando avviene una transazione per
poi perderla e ricostituire il medium in vista di prossime transazioni. Ma
questo è il modo in cui il denaro si presenta nelle sue operazioni – e quindi
è anche il modo in cui la realtà costruita dal denaro viene riprodotta. Quale
sarebbe, però, questa realtà? L’unica risposta che si può dare è: la massa di
beni (denaro compreso) e servizi scarsi, per questo economicamente rilevanti, dei quali si può entrare in possesso pagando. [28] La
misura della scarsità è data dai prezzi e in questo mondo [28] In quanto scarsi e quindi possibili
oggetti di transazione, tutti i beni del
di beni scarsi ci si può muovere dando per scontato che mondo
sono equivalenti (tutti possono
chiunque può essere motivato a comprare/vendere qua- essere comprati/venduti) e differenti
prezzo). Altre differenze (un libro
lunque bene, anche il più assurdo, all’unica condizione (nel
non è una mela) sono rilevanti per il
di essere solvibile. Le forme di questo medium si vedono consumo (se ho fame è meglio che
compri una mela), ma anche queste
quindi nelle transazioni, quando un bene scarso viene differenze
hanno senso economico
accoppiato con la decisione di comprarlo/venderlo. La sua solo se possono essere comparate
loro sul mercato. Per chi specula,
combinatorica estremamente “liquida” porta il denaro ad tra
infatti, che un’azienda pubblichi libri o
affidarsi all’unico linguaggio esistente altrettanto astratto, produca mele non fa differenza. Basta
per esempio, si possa ricavarne
i numeri, un linguaggio privo di qualunque referenza alla che,
un utile.
realtà – e in questo modo diventa indifferente al chi, cosa,
come, perché e quando della transazione. [29]
[29] Kenneth Burke arriva a definirlo
un sostituto di Dio, un “god term”,
Gli altri media costruiscono la realtà diversamente, riuscendo
il denaro a rappresentare
come è ovvio. L’arte sfrutta qualunque frammento di la sostanza unitaria sulla quale si
basa la diversità di ogni motivo (Burke
senso per condensarlo nella forma di opera d’arte, ricor- 1962/1984,
110-111, 355-356). Cfr.
rendo massicciamente alla percezione sensoriale, che com- Luhmann (1997, 349).
prende anche le visioni indotte dal linguaggio di poesie e
romanzi. Dopo alcuni secoli di diffidenza, oggi nessuno
negherebbe a questo medium di essere altrettanto realistico quanto gli
altri, anche se a modo suo. Come per qualunque altro medium osservativo,
la realtà artistica si riproduce se l’opera d’arte può essere contemplata: solo
l’operazione di contemplazione consente di ampliare o variare i confini di
ciò che è possibile immaginare come altra opera d’arte.
Il diritto si manifesta innanzitutto come una massa di leggi (e loro
equivalenti, non necessariamente formalizzati) che consentono di mantenere certe aspettative anche quando vengono deluse. Gli elementi del
medium sono condizioni e conseguenze, che una volta accoppiate tra loro
in modo stretto danno forma alle norme, nella classica formulazione giuridica: se… allora… Anche in questo caso, il mondo del “normativamente
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possibile” non si esaurisce nelle norme, ma resta come potenziale che può
essere sfruttato tanto per produrre nuove norme quanto per emendare
quelle esistenti. La realtà di queste forme, inoltre, viene confermata non
dal semplice fatto di essere scritte in qualche codice, ma soprattutto nelle
sentenze (e in tutto ciò che porta alle decisioni dei tribunali), poiché solo
quando la norma viene applicata o comunque utilizzata (se per rispettarla
o violarla non fa differenza) esiste socialmente e se ne può capire e valutare il senso.
In educazione la realtà è costituita dall’educando, classicamente
il bambino, più di recente l’intero corso di vita degli individui. Questi
media non hanno a che vedere con la realtà organica e psichica degli individui, naturalmente; la pedagogia vede in questi media dei potenziali di
intervento educativo, che può poi tipicamente realizzare nelle scuole. E
solo qui, solo nell’attività scolastica e nella valutazione delle prestazioni, si
può riprodurre questa realtà.
La medicina, occupandosi di malattie, crea il suo medium, il suo
potenziale, basandosi sui corpi. Dato che nessun corpo può dirsi sano, la
medicina moderna ha di fatto campo libero, potendo intervenire ovunque e in qualunque caso. Le forme del medium medico “corpo” sono in
generale diagnosi e terapie che accoppiano in modo stretto elementi che
altrimenti resterebbero connessi tra loro in modo lasco (sintomi).
Lasciamo per ultimo un caso molto particolare, i mass media. In
quanto tali, i mass media sono media operativi; ma Luhmann ha avanzato l’ipotesi che siano diventati un vero e proprio sottosistema della
società moderna, che produce di continuo notizie (informazioni) che
possono condensarsi in temi più o meno rilevanti, lasciando poi al resto
della società come elaborarle. “Ciò che sappiamo della nostra società, e
in generale del mondo in cui viviamo, lo sappiamo dai mass media”, così
Luhmann (2000b[1996], 15) inizia il suo volume dedicato alla realtà dei mass
media, facendo poi presente che i mass media non seguono nessuna logica
del consenso, della razionalità, della correttezza morale e cose del genere.
Ne consegue una costante destabilizzazione delle strutture esistenti, una
costante “irritazione”, che porta a costruire quella realtà massmediatica
che conosciamo bene e che è oggetto di ogni sorta di valutazioni (più negative che positive), anch’esse prodotte dai mass media. Una globalizzazione
fatta in casa, potremmo dire.
Questo caso è molto particolare, dicevamo, perché rimanda esplicitamente a entrambi i tipi di media. I mass media in quanto media operativi hanno consentito di allentare il rapporto tra enunciato e informazione, e questo significa che: 1) chi pubblica le notizie e i commenti può
scegliere le connessioni che ritiene più opportune, senza alcun altro vincolo che non sia la visibilità sui mass media; 2) i destinatari possono elaborare le notizie e i temi, con i relativi contributi, come credono, traendone
qualunque genere di conclusioni. In quanto media osservativi, i mass
media costruiscono una realtà fatta di temi che nascono, si impongono
e vengono sostituiti da altri temi, anche qui senza altri criteri che quelli
che regolano la pubblicabilità. Da qui poi l’uso amorale della morale, compresi i richiami alla morale, la spregiudicatezza e le tante altre caratteristiche ben note a tutti. L’importante è avere notizie, poi sta al giornalista, al
blogger, all’editore ecc., stabilire se e come connetterle in modo stretto tra
loro per creare un tema degno di attenzione.
Si potrebbe rispondere partendo da un problema che investe l’intera disciplina “sociologia”: l’agenda della ricerca sociologica è dettata in gran
parte dai mass media, non da teorie o problemi strettamente sociologici.
L’agenda della sociologia dovrebbe essere “fatta in casa”, come fanno tutte
le altre discipline scientifiche generaliste. Anche fisica, chimica o biologia
devono affrontare problemi che si creano fuori dai loro confini, ma in generale – se non si tratta di problemi interessanti per la ricerca di base – delegano ad altre sottodiscipline o ad abili “comunicatori”: per problemi di
realizzazione delle tecnologie c’è l’ingegneria, per problemi concernenti la
salute c’è la medicina, poi ci sono anche le “scienze applicate”, solo per fare
gli esempi più evidenti. In sociologia questo non accade, se non in modo
estremamente confuso e occasionale.
In questo articolo siamo ricorsi a una specie di metodo, per evitare
di impantanarci nella miriade di rimandi, connessioni e implicazioni che
un tema come “mezzi di comunicazione” comporta. Abbiamo ridotto al
minimo le rilevanze, concentrandoci su quel poco che fa la differenza (a
nostro parere, ovviamente), lasciando da parte il resto. Per questo affermare che i media operativi regolano il rapporto comunicativo tra Ego
e Alter Ego può sembrare velleitario, se si pensa all’importanza di questi media. Allo stesso modo, dire che i media osservativi costruiscono
la realtà alla quale possiamo fare riferimento può sembrare limitativo,
anche privo di spirito critico. Soprattutto poi se da queste proposte consegue che, per esempio, la questione della manipolazione, della verità del
sapere veicolato, dell’onestà e della correttezza e così via, è di fatto sociologicamente irrilevante: i media operativi si limitano ad aprire un potenziale che lasciano del tutto vuoto, i media osservativi devono riempirlo,
ma potendo contare solo su ciò che elaborano in proprio. Per una teoria
sociologica dei media dovrebbe essere del tutto evidente che la distinzione informazione giornalistica corretta/scorretta non ha alcun interesse.
Non perché non sia un problema. Ma il problema di chi? Lasciando da
parte le implicazioni giuridiche, la risposta è: dei mass media! Perché in
questo modo nascondono un problema più grosso, e cioè che tutto ciò
che veicolano è solo una costruzione reale e che la loro funzione consiste
Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale
Giancarlo Corsi
In conclusione: l’invadenza dei mass media e la necessità di
una teoria dei media
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Infine, tutto ciò che viene prodotto dai mass media viene elaborato
dagli altri sottosistemi, ciascuno con le proprie strutture e la propria irritabilità, più o meno elevata, quindi anche con criteri di rilevanza e di solubilità/ricombinabilità dei rispettivi media del tutto diversa. Capita allora,
per fare un esempio attuale, che uno scienziato chiamato a informare il
pubblico sulle misure da adottare in presenza di una pandemia non sia
assolutamente in grado di avere a che fare con stampa, televisione o siti
online. L’ingenuità di supporre che basti la “verità scientifica” per ottenere seguito sui mass media viene pagata con il finire travolto da polemiche e insinuazioni.
Abbiamo lasciato per ultimi i mass media perché ci offrono un
primo aggancio per rispondere a una domanda che, in conclusione, è inevitabile, e cioè: a cosa serve descrivere i mezzi di comunicazione in questo
modo?
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nel produrre continuamente irritazioni che, interpretate tramite informazioni, generano descrizioni della realtà (Luhmann 2000b[1996], 120).
Dal punto di vista sociologico la manipolazione è un dato scontato, anche
perché il problema non è essere o meno corretti (certamente si può cercare di esserlo), ma come fare a comunicarlo. Non appena si comunica la
propria sincerità, si alimenta il dubbio del contrario. Cose
che sappiamo da decenni. [30]
[30] Si veda per esempio Watzlawick
al. (1962/1971). Però potremmo dire
In letteratura si trovano molte pubblicazioni che et
che le sappiamo da millenni, basti
richiedono maggiore moralità, più controlli, anche isti- leggere l’epica greca.
tuendo enti di valutazione delle notizie, alla caccia di fake
news, e così via, senza accorgersi che si tratta di un vicolo
cieco: una società che si affida ai mass media e costruisce il proprio potenziale basandosi sull’osservazione di secondo ordine, può giusto lamentarsi
della manipolazione dell’informazione, ma non può farci nulla, soprattutto perché i diversi osservatori (a cominciare dai lettori/spettatori) la
danno per scontata e non hanno certo difficoltà a trovare “prove” a loro
favore. Semmai si tratta di capire dove fissare la soglia oltre la quale può
intervenire il diritto, ma anche questo è tutt’altro che semplice.
Che il risultato concreto che ci si presenta ogni giorno sui giornali, in
televisione o sui siti di internet, contenga di tutto e che comunque tutto
sia discutibile, è non solo inevitabile, ma è di fatto una notevole conquista
della modernità. Una libertà che si paga anche dovendo sopportare abusi e
mistificazioni di ogni genere. Quando qualcuno si presenta sostenendo di
dire la verità, di essere trasparente e sincero, di “dire le cose come stanno”
o di “dire quello che gli altri non dicono”, l’unica reazione che potrà scatenare in molti destinatari sarà quantomeno perplessità e diffidenza.
Per una sociologia dei media ci sarebbero altre questioni molto
interessanti e che andrebbero discusse, ma che non sono adatte all’arena
mediatica. Per esempio la tendenza sempre più evidente a “temporalizzare”
i media osservativi, portando, presumibilmente, a un aumento ulteriore
della complessità. Il denaro è senz’altro il precursore di questa tendenza:
le transazioni, a differenza dei beni di proprietà, agiscono come una specie di quanto di energia, che fa differenza per poi risciogliersi nel medium.
Qualcosa di simile si osserva anche nel diritto, dove la stabilità delle norme
non è più il presupposto dell’esercizio della giurisdizione, mentre le sentenze stanno prendendosi sempre più la scena, non senza
polemiche al riguardo. [31] Oppure nell’arte, con opere [31] Nella discussione tedesca si parla
che non durano e che fanno del comparire e scomparire di Richterrecht, diritto dei giudici.
(per esempio distruggendole) il loro senso. La scienza parla
ormai da decenni di una realtà che non ha più nulla a che fare con “oggetti”
o “materia”, ma piuttosto con condensazioni temporanee di una medialità
che resta opaca. E così via.
Ma questo richiede un apparato teorico molto complesso, che le
scienze sociali non hanno ancora sviluppato. Distaccarsi dall’abbraccio
fatale dei mass media sarebbe il primo passo in questa direzione.
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V.
Testimonianze e materiali
All’ombra di nuove scienze in fiore.
Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo
all’Italia degli anni Sessanta
Settimo Termini
Tra i maggiori cibernetici italiani è
stato dicente ordinario di Informatica
teorica all’Università di Palermo e ci
Cibernetica all’Università di Perugia.
Dal 2002 al 2009 ha diretto l’Istituto
di Cibernetica “Eduardo Caianiello” del
CNR di Napoli. Fisico di formazione,
i suoi interessi di ricerca hanno
riguardato principalmente la presenza
di varie forme di incertezza nelle
scienze dell’informazione per studiare
le quali ha elaborato la teoria delle
“misure di fuzziness”.
settimo.termini@gmail.com
settimo.termini@unipa.it
— CIBERNETICA ITALIANA
— EPISTEMOLOGIA
— SCIENZA
— PARADIGMA
— EDUARDO CAIANIELLO
235
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 235 — 249
The present paper describes and discusses certain aspects
of the evolution of cybernetics, with a focus on the Italian
context. It considers the ways in which cybernetic
questions relate to present issues of crucial importance.
The aim will be to interpret cybernetics as an unfinished
and interdisciplinary scientific paradigm, reflecting on the
contribution represented by this specificity. Reference will
be made to the figure of the Italian cyberneticist Eduardo
Caianiello as a paradigmatic case.
Mettendo a fuoco il problema in modo insolito
“Che cos’è la cibernetica?” è una domanda che mi è stata posta da chiunque abbia incontrato quando alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso ho cominciato a lavorare – da giovane fisico teorico – al “Laboratorio di
Cibernetica” del CNR che era stato fondato, proprio pochi mesi prima del
mio arrivo, da Eduardo Caianiello. Rispondere alla domanda è stato sempre difficile per almeno due ragioni. Il termine in sé era, infatti, del tutto sconosciuto a chiunque e non era neanche facile cercare di fornire una
definizione accettabile di un campo di studi con grandi ambizioni ma dai
confini incerti. Questo ricordo personale (così come altri che appariranno
in seguito) non deve essere interpretato in senso autobiografico ma come
elemento utile per un dialogo con la presentazione accurata fatta dai curatori del presente numero di PK che identifica le caratteristiche della cibernetica. Oggi, come lì viene correttamente riportato, il nome è ampiamente noto (il che non vuol dire compreso o capito). Il secondo punto presenta
le medesime difficoltà di allora anche se per ragioni diverse. Ragioni che
sono poi proprio quelle che stanno alla base dei temi proposti oggi da una
rivista filosofica.
Come già osservato, il nome cibernetica indicava qualcosa di insolito
ed esoterico cinquant’anni fa, quando era una presenza attiva nel mondo
scientifico ma era conosciuto soltanto lì. Non può quindi che apparire
strano che continui ad essere presente in tanti aspetti della società, come
riportato nelle pagine di presentazione di questo fascicolo, pur essendo
stato abbandonato da decenni come etichetta per designare attività scientifiche attualmente valide. Questa situazione un po’ paradossale – ma
quando si ha a che fare con la cibernetica non vi è nulla di banale e scontato – mi ricorda quanto affermato da Federico De Roberto riguardo alla
nobiltà, proprio alla fine del suo romanzo I Viceré (2005):
All’ombra di nuove scienze in fiore.
Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta
Settimo Termini
I.
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[…] prima, ad esser nobile, uno godeva grandi prerogative, privilegi, immunità,
esenzioni di molta importanza. Adesso, se tutto ciò è finito, se la nobiltà è una cosa
puramente ideale e nondimeno tutti la cercano, non vuol forse dire che il suo va-
Mi sono chiesto se questo brano con la sua domanda finale non parlasse
proprio del nostro tema, sostituendo opportunamente al termine “nobiltà”
la parola “cibernetica”. Ero stato tentato di commentare immediatamente
questo punto quando i miei occhi, forse guidati dal ricordo di passate letture dello stesso testo, sono caduti sul brano successivo che, nell’economia
propria del romanzo in questione, è strettamente connesso a quello che lo
precede e che è stato appena citato:
Certo, la monarchia assoluta tutelava meglio gl’interessi della nostra casta; ma una
forza superiore, una corrente irresistibile l’ha travolta [...] Dobbiamo farci mettere il piede sul collo anche noi? il nostro dovere, invece di sprezzare le nuove leggi,
mi pare quello di servircene!
Questo secondo passaggio, tuttavia, non è facilmente interpretabile nel
nostro contesto, almeno immediatamente. Ho deciso quindi di rinunciare a cercare interpretazioni suggestive anche del primo, almeno in questo
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 235 — 249
lore e il suo prestigio sono cresciuti?
All’ombra di nuove scienze in fiore.
Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta
Settimo Termini
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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momento. Il collegamento, però, anche se nato per caso, ha creato un vero
e proprio corto circuito mentale tra aspetti letterari e scientifici. È ben
noto che per Norbert Wiener, considerato il padre della cibernetica, la
separazione tra le cosiddette due culture non esistesse affatto, ma non è
altrettanto noto che egli sia anche l’autore di un romanzo, The Tempter,
apparso nel 1959. Rinvio a quanto scritto da Leone Montagnini (2017) per
un’analisi completa e profonda di quanto da Wiener pensato e realizzato.
Montagnini, oltre a compiere una disamina acutissima dei nodi concettuali e dell’evoluzione del pensiero di Wiener, analizza molti aspetti specifici della sua attività. E anche nel caso di questo romanzo esamina i motivi
della sua scrittura.
La diffusione delle idee di Wiener così come il nome della ‘sua’
disciplina e i termini che da questo nome derivano sono parte integrante
del clima generale, aperto e creativo, di quegli anni, per cui si può dire che
la cibernetica sia stata, da un lato, frutto di quest’atmosfera (irripetibile)
e, dall’altro, essa stessa fattore di grande amplificazione degli aspetti innovativi di quel periodo. Senza entrare, al momento, in dettagli specifici,
vale la pena soffermarsi su due punti. In primo luogo, le nozioni di retroazione (feedback) e di causalità circolare impongono una revisione profonda della “visione ereditata” (ereditata dalla fisica) della
nozione di tempo. [1] In secondo luogo, l’avere a che fare [1] Una revisione che – in sé – è
dai cambiamenti drastici
con il concetto di informazione introduce aspetti imma- indipendente
imposti dalla teoria della relatività e
teriali nel territorio della scienza. Osserviamo, infine, che da alcuni tentativi di riconciliazione
essa e la teoria dei quanti che
esaminare l’evoluzione di una disciplina in statu nascenti tra
espellerebbe il tempo dal ristretto club
può essere utile per capire la dinamica della scienza. La delle “entità di base”, assegnandogli un
ruolo simile a quello della temperatura
cibernetica offre una simile possibilità. Lo stesso, ovvia- (in
termodinamica). Naturalmente,
mente, vale anche per discipline mature come la fisica. La i cambiamenti epocali che sono
avvenuti nel pensiero scientifico
differenza è che in questo caso dobbiamo esaminare un nel
corso del Novecento indicano
lungo periodo di tempo, nel precedente tutto è avvenuto che si possono trovare molte altre
connessioni significative.
nel corso di pochi decenni.
Dal momento che in queste pagine iniziali ho volutamente insistito molto su una sorta di aspetto “umanistico” che ha sempre accompagnato questa nuova disciplina, anche durante quelli che sono
stati i suoi anni ruggenti da un punto di vista scientifico, desidero evidenziare qualche ulteriore analogia con un’altra opera letteraria. In particolare tra le due caratteristiche della cibernetica appena citate e alcuni
atteggiamenti che possono leggersi nel capolavoro di Marcel Proust (1986).
Anche un lettore occasionale non può non notare che, in quest’opera, la
concezione generale del tempo – nel suo presentarsi in modo, apparentemente, contorto rispetto ai canoni quotidiani ma, in realtà, non solo sottilmente complesso ma che recepisce, in modo implicito, riflessioni (di frontiera, per quell’epoca) dovute a pensatori come Bergson – mostra più di
un’analogia con le conseguenze indotte dalla presenza, in un sistema, delle
nozioni di retroazione e causalità circolare. Vorrei rivolgermi, per verificare quanto questa analogia possa essere condivisa, a un lettore di cultura
media e non particolarmente sofisticato e, possibilmente, non esperto di
critica letteraria e non a conoscenza di quanto Proust conoscesse della cultura del suo tempo. E poi, ancora, vorrei mettere in guardia dall’uso delle
analogie, proprio per averne fatto uso adesso e perché è qualcosa che può
spesso presentarsi nel lavoro di tipo interdisciplinare. Quella appena avanzata è di tipo molto particolare connettendo un romanzo dei primi del
All’ombra di nuove scienze in fiore.
Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta
Settimo Termini
In un periodo nel quale la separazione tra le diverse discipline continua
ad approfondirsi, osserviamo che un colloquio tra loro – lungo linee non
molto distanti da quelle esistenti nel Rinascimento (aggiornate, com’è naturale, al contesto odierno) – non solo è possibile ma, in qualche misura,
è spontaneamente emerso agli albori della cibernetica e praticato dallo
stesso Wiener. Dialogo interdisciplinare necessario anche oggi nel lavoro svolto alle frontiere della conoscenza nelle scienze dell’informazione.
L’interdisciplinarità (associata a un’analisi attenta di come essa riesce a
diramarsi) può essere utile per colmare la distanza che separa le cosiddette due culture. Come per tutto, bisogna sfruttare le opportunità evitando, però, di cadere in possibili trappole. Nel nostro caso vi sono un problema e un pericolo. L’abolizione della separazione tra discipline diverse
o, specificamente, tra le attività scientifiche e le altre attività dell’uomo
può condurre a non potere (o volere) usare criteri di giudizio che soddisfino i livelli di rigore richiesti dalle attività scientifiche. Come ho presentato la cibernetica in quanto foriera di dialoghi interdisciplinari, così adesso
porterò a sostegno di quest’affermazione un ricordo personale che ritengo
significativo al riguardo, per mostrare alcune difficoltà che si presentano
anche quando il dialogo avviene tra discipline scientifiche. Quando, alla
fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70, al Laboratorio di Cibernetica discutevamo nuovi progetti e valutavamo i risultati ottenuti, di solito, giunti a un certo punto della discussione si poneva il problema di valutare il
grado di ciberneticità di una certa proposta o di un certo risultato già
ottenuto. Cosa che significava interdisciplinarità, valore di un certo risultato (ottenuto o da ottenere) per discipline diverse, chiarimento degli
aspetti comuni di certi fenomeni quando osservati da punti di vista (disciplinari) differenti e cose simili. Queste discussioni erano sempre molto
stimolanti ma allo stesso tempo molto difficili se non volevano limitarsi
a ripetere uno stanco rituale senza effetti concreti. Era chiaro a tutti i partecipanti che sarebbe stato molto grave accettare come risultato scientificamente valido qualcosa che non lo era anche se presentava un alto grado di “ciberneticità”, nel senso appena descritto. Contemporaneamente
era importante muoversi in zone di confine, i cui risultati potessero avere qualche caratteristica che li differenziasse da risultati significativi soltanto all’interno di una disciplina specifica. Altrimenti si sarebbe perduto
tanto il senso di una ricerca interdisciplinare quanto l’esistenza stessa del
Laboratorio di Cibernetica, cioè di un centro di ricerca con caratteristiche
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Novecento a un’innovazione scientifica di metà Novecento; le analogie –
spinte troppo avanti, senza controllo – possono essere fuorvianti. Devono
essere maneggiate con cura per evitare che ci portino fuori strada. Wiener
è sempre riuscito a fare entrambe le cose. Usare l’analogia, in modo forse
un po’ più spinto di quanto non facesse lui, è, in qualche modo, sia un
omaggio sia un modo per indicare un aspetto della cibernetica – almeno
come praticata da Wiener nella sua collaborazione interdisciplinare con i
neurofisiologi. Ma torniamo a Proust. Sotto l’ampio ombrello di ciò che si
suppone sia una nuova concezione del tempo (il tema guida di Alla ricerca
del tempo perduto), il secondo libro, All’ombra delle fanciulle in fiore,
sottolinea l’importanza che una sorta di imprinting avvenuto nei primi
periodi della vita di un individuo può avere nelle fasi successive. A chi
legge sarà adesso chiara la scelta del titolo di questo contributo.
suggerimenti ai neuroscienziati per il
loro lavoro di ricerca. La mia citazione
qui è molto più banale.
che ero certo vi avesse ammirato la Veduta di Delft di Vermeer. Ma il
duca era meno istruito che orgoglioso. Così si limitò a buttarmi là, con
aria di sufficienza, come ogni volta che gli si accennava a un’opera di un museo,
oppure del Salon, e lui non se ne ricordava: «Se è da vedere, l’ho vista di sicuro!»
Il punto cruciale è la risposta che viene data. Essa svela un atteggiamento
che è l’opposto di quello che deve essere tenuto quando si affronta scientificamente un problema. Atteggiamenti che possono più facilmente sorgere negli interstizi fra discipline diverse. La concezione della scienza che
aveva Norbert Wiener, nonché il suo modo di operare, mostrano che un
atteggiamento corretto dal punto di vista scientifico può essere fruttuosamente mantenuto anche quando si lavora proprio in queste zone di confine. Ma non è né facile né scontato.
Ritornando alla citazione, apparentemente incongrua, di Federico
De Roberto fatta all’inizio di questo scritto, adesso che la cibernetica è
realmente “una cosa puramente ideale”, possiamo dire che sì, il fatto che
“nondimeno tutti la cercano” – o vanno in cerca, almeno, del suo “carattere spettrale e disseminato” come Philosophy Kitchen ha, correttamente, scritto – significa “che il suo valore e prestigio sono cresciuti”. In
direzioni molto diverse, tuttavia, di quelle dello sviluppo scientifico. Ciò
detto, anche la seconda citazione può essere vista come una sorta di utile
avvertimento. Il nostro dovere – come scienziati e filosofi – non è quello di
tornare a far rivivere vecchi privilegi, sia pure in forme diverse, ma quello
di usare l’esperienza precedente per capire meglio le trasformazioni profonde che stanno avvenendo nella scienza e, in generale, nella società.
I temi che verranno discussi sono stati qui introdotti in modo
insolito. I paragrafi che seguono tratteranno – in modo più tradizionale
– innanzitutto le ragioni, rispettivamente a favore e contro, l’idea di considerare la cibernetica una disciplina unitaria; successivamente saranno
discusse alcune particolarità del modo in cui è avvenuta l’introduzione
della cibernetica in Italia, soffermandoci in particolare sulla figura di
Eduardo Caianiello. Dopo alcune brevi osservazioni sulle possibili connessioni con la situazione odierna, sarà tratta qualche conclusione riprendendo le fila di quanto scritto in questo paragrafo.
All’ombra di nuove scienze in fiore.
Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta
Settimo Termini
«Ah, l’Aia! che museo!», esclamò il signor di Guermantes. Gli dissi
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nuove. Bisognava avere il coraggio e la capacità di distinguere tra risultati
scientifici già ottenuti e quelle che erano solo belle idee che avevano bisogno di essere approfondite. Tutto questo richiedeva un dialogo paziente
nel corso del quale nessuno aveva certezze e si dovevano esplorare nuove
vie e non imporre conclusioni. A illustrazione di ciò (credo sia evidente
che tento di usare la letteratura come a volte si usano le immagini: sperando di chiarire meglio ciò che non riesco a esprimere compiutamente a parole), può essere di stimolo riportare un’altra citazione letteraria. [2] Nel secondo volume dei Guermantes (1986, 629), [2] Alcuni studiosi hanno sostenuto
che molte delle analisi effettuate
l’autore scrive a proposito di un personaggio della sua saga: da
Proust possono fornire utili
Nella metà del Novecento alcuni campi di indagine – che avevano tutti a
che fare, in qualche modo, con l’elaborazione dell’informazione – posero
un numero enorme di problemi innovativi ed estremamente interessanti, dando l’impressione che stesse per sorgere una nuova, singola scienza con caratteristiche proprie; non solo, quindi, un insieme frammentario di risultati nuovi e interessanti. Quando apparve il libro di Wiener,
Cybernetics (1948), si respirava questo clima culturale, [3]
e sembrò che cibernetica potesse essere proprio il nome [3] Si veda anche Montagnini (2017)
capire il contesto e mettere a fuoco
atto a unificare tutti questi nuovi risultati che, nonostan- per
aspetti significativi di una situazione
te fossero (e sembrassero) sparsi e disparati, avevano molte molto complessa. Montagnini aveva
programma ulteriori importanti
caratteristiche in comune (a loro volta legate ai temi gene- in
approfondimenti su questi temi, che
rali posti da Wiener nel suo nuovo libro). Il nucleo del pro- però non ha potuto portare a termine a
gramma originale della cibernetica (originale in entrambi causa della sua scomparsa prematura.
i significati che vengono immediatamente in mente) potrebbe, dunque, essere individuato nel tentativo di costruire una teoria unificata dei nuovi concetti scientifici che erano sorti – come informazione, retroazione, complessità [4] – che [4] A questi si dovrebbero aggiungere
della vaghezza e della fuzziness
fosse abbastanza generale da potere essere usata per spie- quelli
che giocano anch’esse un ruolo
gare i fenomeni di tutti i sistemi nei quali tali nuove no- essenziale. Cfr. Skala, Termini, Trillas
(1984), Bečvář (1984), Termini (1984;
zioni erano presenti, indipendentemente dalla natura spe- 2002).
cifica del sistema stesso (macchina vs animale; artefatto vs
sistema naturale). [5] Negli anni Quaranta e Cinquanta del [5] Un altro tema enorme e
strettamente connesso è quello delle
secolo passato, la cibernetica si comportò come una sorta indagini
scientifiche sulla coscienza,
di catalizzatore, suggerendo che molte nuove idee interes- per il quale mi limito a fare riferimento
al libro fondamentale di Giuseppe
santi, assieme a concetti e formalismi matematici ugual- Trautteur
(2020). Fondamentale, tra
mente nuovi, potessero essere visti come parte di un’uni- altri motivi, perché riesce a porre in
in maniera netta i problemi
ca impresa, di un progetto unitario e consistente. Questo, evidenza
cruciali che non siamo riusciti ancora
nonostante fossero stati ottenuti a partire da indagini con- a capire nonostante gli enormi e
progressi compiuti su
dotte in settori disparati, rompendo le barriere e i confini inimmaginabili
aspetti specifici.
delle discipline tradizionali. Un altro aspetto significativo
è che questa nuova disciplina ambiva ad essere una scienza
e si muoveva secondo i canoni classici della scienza, nonostante indagasse
nuovi domini che avevano caratteristiche loro proprie e diverse da quelle
tradizionali. Il riconoscere le ricerche condotte in un’area dai confini non
ben definiti, come facenti tutte parte di un’impresa comune e unitaria,
era in realtà il lancio di una grande sfida più che un cammino pacifico da
percorrere. Un paragone con lo sviluppo della fisica può forse aiutare a capire bene la posta in gioco. Risultati specifici trovati studiando il mondo
inanimato – nel corso degli anni o, meglio, di secoli – sono stati sempre
classificati e visti come manifestazioni diverse (a volte anche come molto
diverse) del mondo naturale. Riguardano il moto (sia a livello terrestre che
celeste), l’elettricità, il magnetismo, la luce, il calore. Tutti sono stati considerati come appartenenti a un unico campo di studi che alla fine di un
lungo percorso sarebbe stato chiamato “fisica”. Man mano che il numero
dei risultati cresceva e si comprendevano meglio le loro connessioni, questi venivano raggruppati in sottocampi (meccanica, termodinamica, ottica, elettromagnetismo; questi ultimi due destinati ad essere unificati in
un momento successivo). Questi sottocampi, tuttavia, venivano sempre
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Settimo Termini
La cibernetica si presenta come un programma di ricerca
originale e con caratteristiche sue proprie…
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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II.
III.
… ma, forse, non può essere considerata una (singola)
disciplina.
Possiamo quindi concludere che la cibernetica fu (e forse continua ad essere nella sua seconda o terza vita al di fuori del milieu scientifico) una
sorta di guazzabuglio sia pure molto creativo. Non è riuscita a diventare
una nuova disciplina forse proprio per le sue ambizioni unitarie. Ha posto,
però, molti problemi nuovi che sono cruciali e che rintracciamo in altre
discipline ad essa vicine, che sopravvivono ancora forse perché si pongono con minor forza obiettivi di tipo generale. Tracce dei problemi discussi prima possono essere rintracciate – in forme leggermente differenti –
anche in altri campi di ricerca nella stessa area. Per esempio, negli scorsi
decenni, non appena veniva trovato, inaspettatamente, qualche risultato
specifico riguardante la meccanizzazione dei processi mentali (all’interno
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
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visti e considerati come parte di un unico settore di indagine. Lo stesso
non è accaduto in questo nuovo settore emergente. “Cibernetica” avrebbe potuto essere il nome unificante, ma così non è stato. Sorsero, infatti,
alcuni problemi. Alcuni di essi impedirono che si sviluppasse un processo
analogo a quello appena descritto per la fisica. Tra questi ne cito uno. Se
esaminiamo i risultati innovativi specifici, emersi sotto l’egida della cibernetica, ci si accorge che questi potevano anche essere visti come appartenenti ad altre discipline. Sembrò quindi che questa nuova scienza fosse in
grado di favorire l’ottenimento di nuovi risultati (in molti casi anche molto interessanti) ma, una volta ottenuti, questi potevano anche essere visti
come appartenenti a campi di studio tradizionali. Era il “clima” culturale,
l’atmosfera culturale complessiva, che favoriva la messa a fuoco di nuove
questioni interessanti. Ma, trovata la risposta, dei risultati se ne poteva far
carico (o poteva impossessarsene) una disciplina tradizionale.
Come esempio paradigmatico di ciò, ci si può riferire al teorema di
Kleene sulla caratterizzazione dei linguaggi regolari che, motivato da considerazioni profondamente interdisciplinari (e di carattere cibernetico nel
senso originario) – come caratterizzare ciò che è in grado di fare una rete
neurale –, una volta trovato è ricordato solo come un risultato della teoria
dei linguaggi formali o, addirittura, dell’algebra.
Perché assistiamo a una differenza così radicale con l’evoluzione
che ha avuto la fisica? La grande differenza nella lunghezza dell’intervallo
di tempo che stiamo considerando e la diversa accelerazione dello svolgimento di questi processi hanno svolto sicuramente un ruolo cruciale ma
anche altri fattori sono stati presenti. Aspetti sociali e sociologici: il prestigio di un (sotto)settore rispetto a un altro, questioni di potere accademico,
di finanziamenti, di rapporti col potere politico e con le elités economiche.
Il nome “cibernetica” è stato quello che, per il prestigio acquistato, era il
miglior candidato a svolgere questo ruolo unificante. E lo ha fatto. Ma
per un periodo brevissimo. Non ha retto a lungo forse perché, data la personalità ingombrante di Wiener, non era sufficientemente “neutrale” da
essere accettato senza problemi da tutta la comunità coinvolta. Per le singole ricerche specialistiche, poi, era più conveniente (per ottenere finanziamenti) presentarsi in modo autonomo, e non come parte di un campo
di indagini più esteso ed essere costretto a condividere gli alti e bassi anche
di settori concorrenti. Un tema che meriterebbe di essere approfondito.
Il caso dell’Italia
242
mentre il titolo dei fascicoli dei tre
anni (1961-63) della rivista russa era
stato tradotto negli Stati Uniti – in
modo letterale – come Problems of
Cybernetics, a partire dal 1964 divenne
Problems of System Science, mentre
l’edizione originale russa continuava a
mantenere il titolo originario.
A partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il CNR,
il Consiglio Nazionale delle Ricerche, è stato uno strumento fondamentale per la ricostruzione di una rete di ricerca atta anche a lanciare nuovi progetti e a sostenere campi
di indagine emergenti. In quegli stessi anni si sviluppò un intenso dibattito sul ruolo che il CNR avrebbe dovuto avere e sul modo in cui avrebbe
potuto distinguersi, per quanto riguarda la politica scientifica, da un lato,
dal Ministero che sovrintendeva a queste attività – che, a quell’epoca, era
il Ministero della Pubblica Istruzione – e, dall’altro, dall’Università. Un
dibattito che accompagnerà tutta la vita del CNR stesso, punteggiando i
cambiamenti organizzativi e di indirizzo che vi sarebbero stati. Le attività
portate avanti negli anni Sessanta hanno a che fare con ciò che stiamo trattando. Fra le varie attività vi era anche quella di finanziare le cosiddette
“imprese”, cioè strutture che coordinavano attività di ricerca condotte in
varie sedi in Italia su temi specifici. Una di queste era l’impresa cibernetica,
che pochi anni dopo sarebbe diventata una struttura organizzativa stabile:
il Gruppo Nazionale di Cibernetica (GNC, poi GNCB, includendo anche
la biofisica) (cfr. Termini 2008 e Cordeschi & Numerico 2013).
Nel corso di questi anni la cibernetica era il punto di riferimento
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 235 — 249
IV.
All’ombra di nuove scienze in fiore.
Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta
Settimo Termini
di ricerche condotte sotto l’etichetta IA), la maggior parte dei commenti
(critici) seguivano sempre la stessa falsariga: erano i risultati stessi – al di
là della loro importanza e dell’interesse specifico – a mostrare, alla fine,
che quelle particolari caratteristiche che prima erano state considerate intelligenti in realtà intelligenti non lo erano poi tanto se era stato
possibile “meccanizzarle”. L’IA è andata avanti concentrandosi su aspetti di tipo più tecnologico nel quale poteva primeggiare. Anche i dibattiti sulla “ciberneticità” di risultati e linee di ricerca che hanno avuto luogo
presso il Laboratorio di Cibernetica del CNR a Napoli, che sono state richiamate nel primo paragrafo, contribuiscono a mostrare che si stavano (e
stiamo ancora) affrontando problemi nuovi assolutamente non banali. La
(quasi) scomparsa del nome cibernetica come indicazione di un campo di
ricerca attivo e scientificamente significativo è solo un aspetto di una serie di interessanti problemi ancora aperti, che l’emergere di questo nuovo ed effervescente settore di studi ha posto e che non sono ancora stati
approfonditi in modo sufficientemente completo nella loro dinamica storica in rapporto ad altri aspetti della società del nostro tempo. Proprio in
quest’ottica, e per valutare meglio la presenza e la scomparsa della cibernetica, vale la pena ricordare che assieme ad essa, altre etichette sono state inventate, proposte e usate per indicare campi di ricerca molto simili e
con ampie sovrapposizioni. Abbiamo già ricordato l’intelligenza artificiale. Alcuni altri nomi (ed etichette) significativi sono “Teoria generale dei
sistemi”, “Scienze cognitive”. Tutte erano in competizione per primeggiare in questo nuovo e ampio settore di indagine e ottenere finanziamenti.
Anche per queste ragioni, per la concorrenza di altre possibili etichette, a
partire dall’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso – prima negli Stati
Uniti, successivamente anche altrove – lo stesso nome di “cibernetica” cominciò ad essere meno glamour di quanto era stato fino
ad allora. [6]
[6] Giusto per portare un esempio,
V.
Eduardo Renato Caianiello come esempio paradigmatico
In questo paragrafo discuterò qualche aspetto dell’attività scientifica di
Eduardo Caianiello. Queste pagine sono principalmente basate sulla nota
biografica (Termini 2017) a cui ci si può riferire (assieme a Termini 2006a
e AaVv 1995) per informazioni ulteriori. La scelta di discutere brevemente
quanto fatto da un singolo scienziato è basata sulla convinzione che questo
possa essere il modo più diretto (anche se non completo) di comunicare gli
aspetti insoliti dell’interazione tra fisica e cibernetica avvenuta in Italia. [7]
All’ombra di nuove scienze in fiore.
Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta
Settimo Termini
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per ricerche prettamente interdisciplinari e vicine a sviluppi tecnologici di
frontiera, ma non apparteneva a nessuna delle grandi divisioni tematiche
nelle quali il CNR era diviso dal punto di vista organizzativo. Nonostante
questo, il Comitato per la Fisica del CNR – mostrando lungimiranza –
decise di investire in questo nuovo campo di ricerca (pur non facendo
parte dei suoi doveri), non solo in idee ma anche finanziariamente. Solo
per dare un esempio, nel 1966 il Comitato per la Fisica destinò il 6,1 % del
suo budget alla cibernetica. Eguale apertura mentale mostrò nei confronti
dello sviluppo dei sistemi di calcolo, dei quali percepì subito l’importanza.
A partire da questi dati, e tenendo conto che le attività cibernetiche sarebbero in buona parte confluite nella nascente informatica, emerge immediatamente una caratteristica della situazione italiana, diversa rispetto a
quella di altri Paesi. La nascita e lo sviluppo di attività di ricerca nel settore cibernetico-informatico sono stati stimolati culturalmente (e finanziati) dalla comunità dei fisici, a differenza di altri Paesi nei quali questo
compito se lo erano assunto ingegneri e matematici. Questi sforzi e queste attività portarono alla nascita in più sedi di qualcosa di nuovo e assolutamente originale (oltre che anomalo): gruppi di ricerca finanziati dal
Comitato per la Fisica del CNR che si occupavano di attività non connesse
tradizionalmente alla fisica. Questo avvenne principalmente a Napoli,
Genova e Pisa. Ognuna di queste sedi aveva caratteristiche sue proprie.
Non è facile capire le ragioni di questa (positiva) anomalia. In mancanza di
indagini specifiche si possono solo avanzare ipotesi. Mi limito qui a ricordare il clima generale nel quale sono emerse figure come quelle di Enrico
Mattei e Adriano Olivetti, e nel quale la comunità dei fisici giocò un ruolo
primario ed essenziale nel delineare la via italiana dell’energia nucleare
. Tale comunità, infatti, creò il CNEN, in cui avvenne la insolita collaborazione tra un’industria privata (la Montecatini) e il mondo accademico
(il Politecnico di Milano) su ricerche di base di frontiera che avrebbero
portato al conferimento del Premio Nobel per la Chimica a Giulio Natta
e ai brevetti sul Moplen. Un primo esempio di quello a cui oggi assistiamo
quotidianamente (nel resto del mondo, sempre meno in Italia): gli avanzamenti nell’alta tecnologia possono ottenersi solo facendo ricerca alle frontiere della conoscenza. Non potendo entrare nei dettagli, mi limito a invitare il lettore a dare almeno uno sguardo alle analisi fatte da Pietro Greco
(2013; con Termini 2007; con Termini 2010), Luciano Gallino (2003), Sergio
Ferrari (2014), Daniela Palma (2021) e Marco Pivato (2011). Sono sicuro
che queste letture saranno utili non solo per capire cosa è avvenuto sessant’anni fa ma anche per intuire quali potrebbero essere le vie migliori da
seguire oggi per rafforzare le attività di ricerca collegandole al mondo produttivo per un rilancio complessivo del nostro Paese.
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Dal momento che gli interessi principali di Caianiello riguardavano la fisica, ci si può chiedere in che modo sia nata [7] Ulteriori informazioni si possono
Numerico
la sua curiosità verso la cibernetica. [8] Tutto è avvenuto trovare in Cordeschi &(2013)
nonché
solo per caso? Avanzo l’ipotesi che la nasciin Cordeschi
(2002), in
ta del suo interesse sia legato alla sua episte- [8] Bisogna aggiungere che egli
quest’ultimo
aveva molti interessi intellettuali
mologia implicita. Caianiello considerava coltivati
caso assieme
a un livello molto sofisticato
a riflessioni
tutti i fenomeni naturali in modo unita- oltre a desiderare di trasmettere le
stimolanti
sue riflessioni a un uditorio ampio
rio, considerando compito del fisico quel- (Caianiello
“prima e oltre la
1996).
cibernetica”.
lo di analizzarli sia isolando aspetti significativi sia trovando connessioni inaspettate.
Normale modo di procedere dei fisici, in un certo senso. Con un’eccezione,
però, che è ciò che definisco la sua epistemologia implicita. Egli era fermamente convinto che il modo di lavorare dei fisici potesse essere utilmente
applicato in quanto tale a tutti i fenomeni naturali in un senso molto generale e profondo. Anche quindi ad aspetti particolarmente significativi
dei sistemi viventi. Egli era interessato soprattutto agli aspetti fisico-naturali. Pur essendo un bravissimo matematico, riteneva che la matematica fosse e dovesse rimanere solo uno strumento. E per quanto riguardava
i sistemi viventi, non era interessato a studiarne i fenomeni fisici, come fa
la biofisica, bensì i comportamenti a un più alto livello di astrazione, come
il funzionamento del cervello. Egli riteneva che, in quanto fisico teorico,
potesse e fosse tenuto a studiare aspetti della Natura che, tradizionalmente, non sarebbero stati considerati come pertinenti. Una delle novità della
cibernetica, come già osservato, è che un ruolo centrale è giocato da quantità immateriali come l’informazione, [9] differente dai
concetti tradizionali della fisica quali la materia o l’ener- [9] Si veda Tabacchi & Termini (2013).
gia. Wiener, da matematico, non era disturbato da questo
fatto. A un fisico questo fatto poteva porre dei problemi.
L’osservazione precedente potrebbe anche spiegare perché nel gruppo che
riunì attorno a sé quando la cibernetica cominciò a delinearsi (negli anni
‘40), così come nei successivi incontri della Josiah Macy Foundation, non
fosse presente alcun fisico nonostante fossero presenti psicologi, sociologi,
antropologi ed economisti. [10] Da questo punto di vista,
dunque, la posizione di Caianiello è assolutamente origi- [10] In Montagnini (2010; 2016) può
un tentativo interessante di
nale. Egli si trovò ad essere – in un certo senso – il solo fisi- trovarsi
mettere in luce le differenze di tipo
co in un gruppo che non ne aveva avuto nessuno quando epistemologico tra Wiener e Caianiello.
il progetto originario era stato discusso ed elaborato. Egli
fece un salto concettuale. La cibernetica non era, per lui,
solo lo “studio della comunicazione e del controllo” (sottotitolo del libro di
Wiener) ma il terzo e più alto livello di una gerarchia formata dalle scienze
della natura (inanimata), dai sistemi viventi (biologia) e, al vertice, dalle
scienze dell’intelligenza, di cui la cibernetica era il prototipo, e che quindi – avendo come oggetto un fenomeno naturale – dovevano essere studiate con i metodi della fisica, come scrisse nell’introduzione al libro di De
Luca e Ricciardi (Caianiello 1971, 9-11). Nel suo lavoro principale sulle reti
neurali (Caianiello 1961) egli si muove di conseguenza, modificando concettualmente il modo di affrontare il problema da parte di McCulloch e
Pitts, che era stato puramente logico. Si propone di studiare le “leggi del
pensiero” (viene in mente il vecchio lavoro di Boole), scrivendo le equazioni che governano le loro operazioni e studiandole, poi usando le procedure consuete della fisica. Wiener agisce da matematico, Caianiello da fisico.
E adesso? È possibile che qualcosa di simile avvenga
di nuovo?
Le reti neurali hanno sempre giocato un ruolo centrale (e continuano a
farlo) in alcuni degli sviluppi più importanti dell’IA, come ricordato anche di recente da Giorgio Parisi nel suo libro rivolto al grande pubblico
(2021). Il rapporto di Parisi con l’IA è testimoniato non solo da quanto da
lui stesso affermato in molte dichiarazioni pubbliche ma anche dal fatto
che l’AIxIA (Associazione Italiana per l’Intelligenza Artificiale) lo ha voluto nominare “socio onorario”. Se ne parliamo è per porre nuovamente alla
luce una sorta di positiva anomalia italiana che ha visto la comunità dei
fisici interessata alle ricerche di frontiera in campi anche non strettamente propri e che abbiamo già menzionato. Anche se in una forma più limitata di quanto ricordato nelle pagine precedenti, questi fatti vanno nella
stessa direzione. E presentano, se perseguiti correttamente e con impegno,
grandi possibilità perché, a suo tempo, è stata proprio l’interazione interdisciplinare di metodologie scientifiche di settori diversi che dialogavano
fruttuosamente tra loro a produrre quegli intensi e fruttuosi dibattiti che
hanno avuto luogo nel secolo scorso. È molto improbabile, tuttavia, che
accada qualcosa con la stessa forza dirompente di ciò che è accaduto negli
anni Sessanta perché il contesto generale nel quale ci muoviamo è molto
differente.
VII.
245
Avviandoci a concludere
Perché mai la comunità scientifica e filosofica dovrebbe essere interessata, oggi, ad analizzare aspetti di un programma di ricerca così vecchio?
L’interesse può risiedere soltanto nelle domande e nei problemi generali
che tale analisi potrebbe mettere a fuoco. La cibernetica, infatti, può essere un caso di studio esemplare per molte altre discipline che sono sorte e si sono sviluppate nel corso degli ultimi decenni. Il suo programma
di ricerca, il suo progetto, è stato costretto fin dalle sue prime formulazioni ad affrontare alcuni nuovi problemi specifici della ricerca scientifica che sono sorti alla metà del secolo scorso: tecnologie di punta, aspetti
della complessità, pressione sociale per le applicazioni (spesso di natura militare), ecc. Inoltre, il fatto che non sia riuscita a decollare ci fornisce, paradossalmente, l’opportunità di esaminare meglio in che modo
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VI.
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Questo spiegherebbe l’innovazione da lui proposta nel nuovo campo
di studi e il suo essersi perfettamente integrato in esso. Infatti, ribadisco,
Caianiello vede la cibernetica come una nuova provincia della fisica, un
altro pezzo di Natura i cui segreti possono essere indagati con gli strumenti
della fisica (teorica). La parte sperimentale poteva essere portata avanti da
altri (neurofisiologi o neuroanatomisti, ecc.) ma l’interpretazione di questi
dati sperimentali, dati forniti dalla natura, poteva essere compito solo di
un fisico teorico, così come molti degli spunti per la ricerca futura dovevano provenire dalla teoria (reti neurali) che aveva proposto. Questo è ciò
che era già presente nel suo Istituto di fisica teorica, che di sperimentale
aveva solo attività collegate alle neuroscienze (qualcosa che può sembrare
paradossale). Impostazione che trasferirà nel Laboratorio di Cibernetica
del CNR.
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una scienza nuova si sviluppa, e di esaminare i suoi primi passi e i problemi che incontra. La mia opinione personale è che la cibernetica – non
solo il suo nome ma anche ciò che di essa rimane nelle istituzioni scientifiche – rappresenti un processo definitivamente concluso. Nonostante ciò,
essa condivide alcuni obiettivi di tipo generale (se non quasi tutti), oltre
che l’atteggiamento epistemologico, con molte discipline che oggi sono al
centro dell’attenzione e del dibattito. Si pensi, per esempio, al ruolo svolto dall’IA. Da qui, l’utilità di esaminare a fondo sia gli aspetti innovativi
sia i punti deboli del programma di ricerca della cibernetica. Meglio ancora, l’interesse attuale a guardare al rapporto che sussiste – al di là dei
nomi – tra le sue ambizioni programmatiche e quelle dell’IA. Saremmo
tentati di concludere che si tratta di due gemelli che hanno avuto destini
molto diversi. [11]
La scienza è un’impresa umana e, come tale, non [11] Scherzando un po’ potremmo
dire che un altro forte parallelo tra
può che cambiare sotto molti aspetti con lo scorrere del Cibernetica
e IA può trovarsi anche
tempo proprio per conservare il suo carattere innovativo e nel fatto che il New York Times si sia
a entrambe (e nei modi in
quelle che sono state le sue caratteristiche essenziali. Nelle interessato
cui lo ha fatto). Gli interventi apparsi,
pagine precedenti sono state messe in evidenza alcune di recente, su questo giornale sulle
sociali e i possibili pericoli
carenze della cibernetica. Qualcosa che è stato già fatto implicazioni
dell’IA (o sull’infondatezza degli stessi)
varie volte da chi scrive, anche se non in modo sistema- sono stati numerosi. Ma il NYT si era
a suo tempo interessato anche della
tico, nel corso degli ultimi cinquant’anni (si vedano, per cibernetica
chiedendo proprio a Wiener
esempio, Tamburrini & Termini (1982), Termini (2006a; – che di questi problemi si era occupato
- di parlarne.
2006b; 2008; 2017)). Capire lo sviluppo della cibernetica (1950)
Si veda N. Wiener, The Machine Age,
e l’ineluttabilità o meno del suo destino finale è, a mio version 3, 1949 http://monoskop.
org/images/3/31/Wiener_Norbert_
avviso, importante e ritengo che sia qualcosa che non è The_Machine_Age_v3_1949.pdf,
stato ancora studiato – come fenomeno complessivo – con nonché un articolo connesso che
i motivi per i quali lo scritto
la profondità e l’impegno che l’argomento richiede. Mi racconta
di Wiener, alla fine, non apparve, J.
piacerebbe leggere qualcosa che, guardando al fenomeno Markoff in 1949, He Imagined an
of Robots - Norbert Wiener, the
nella sua complessità, avesse la profondità e la visione d’in- Age
visionary mathematician whose essay
sieme che caratterizza l’analisi incomparabile compiuta da “The Machine Age” languished for six
decades in the M.I.T. archives, New
Leone Montagnini su Wiener.
York Times, May 20, 2013
Sono convinto che questo fascicolo di PK metterà a https://www.nytimes.
fuoco molti problemi che sono sorti nel corso degli ultimi com/2013/05/21/science/mitscholars-1949-essay-on-machineagedecenni e fornirà anche risposte ad alcune delle questioni is-found.html
poste. Sarà sicuramente un grande balzo in avanti per
capire le novità introdotte dalla cibernetica e perché qualcosa si è inceppato. Ma sarebbe un balzo ancora maggiore se oltre ad analizzare i problemi e a fornire alcune risposte, riuscisse ad aprirci gli occhi
su aspetti che ci erano sfuggiti e ponesse domande nuove sulle quali riflettere. Forse possiamo dire anche qualcosa in più. Sta emergendo, proprio a
partire dallo sviluppo delle scienze dell’informazione e dalle vicende che
le hanno accompagnate (scomparsa della cibernetica inclusa), un nuovo
paradigma di cosa sia una disciplina scientifica. Il destino della cibernetica (nonché la particolare declinazione che ha avuto la sua presenza in
Italia) può contribuire non solo a comprendere meglio quello che è accaduto ma anche ad avere indicazioni su possibili sviluppi in un futuro prossimo. Non nel senso, naturalmente, di “fare previsioni” ma in quello molto
più umile (e, credo, più importante) di cogliere, vedere, saper leggere (nel
senso usato da Ingmar Bergmann nel suo film del 1977, L’uovo del serpente) aspetti significativi di possibili sviluppi, date certe condizioni al
contorno. Un atteggiamento scientifico più aperto (senza essere meno
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Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta
Settimo Termini
rigoroso) che possieda una visione ampia e un modo nuovo di guardare
alla riflessione sui fondamenti delle singole discipline e della scienza in
generale non come qualcosa che debba fornire una base stabile e indiscutibile una volta per tutte, come era forse nelle aspirazioni di un Hilbert o
di un Lord Kelvin, ma una riflessione che accompagni ogni svolta e ogni
passo in avanti compiuto in modo profondamente critico e non dogmatico allo stesso tempo. Una riflessione che aiuti ad evitare cristallizzazioni
dannose del modo usuale di fare le cose. Una riflessione, per fare un esempio, che – per quanto riguarda la matematica – è chiaramente delineata
nel libro in uscita di Giovanni Sambin (2023). Trasformazioni che hanno
ripercussioni anche nel modo in cui la ricerca scientifica è “cucinata” quotidianamente, se mi si permette di usare quest’espressione – che si ispira
al nome di questa rivista. Attività questa, quella quotidiana, nella quale
proprio per restare fedeli ai principi e alla metodologia che hanno accompagnato il suo sviluppo – da Galileo ad oggi – alcuni atteggiamenti e modi
di fare (marginali ma purtroppo presenti) dovrebbero essere cambiati.
Citando un altro scrittore:
Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. (Tomasi di
Lampedusa, Il Gattopardo)
Uno sguardo alla favola della cibernetica può essere utile anche per chiarimenti su questi aspetti grazie al fatto che essa, più di altre discipline, si è
intrecciata strettamente con aspetti relativi alla comunicazione e allo sviluppo di tecnologie di punta proprio nel suo farsi.
La “Storia del declino e della caduta dell’impero cibernetico”, tuttavia,
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Un’affermazione che, però, propongo di interpretare in un senso opposto
a quello solito. Per preservare tutte le caratteristiche innovative del metodo scientifico, del modo di procedere della scienza, dobbiamo sottoporre ad attenta analisi e criticare severamente tutte le pratiche quotidiane
che – se portate avanti a lungo – potrebbero scuotere e mettere in discussione le basi stesse dello sviluppo scientifico. Quindi, letteralmente, che
cambi non tutto ma tutto quello che sta andando in una direzione impropria. Nella comunità scientifica atteggiamenti come quelli del duca di
Guermantes, citate all’inizio, non sono mai accettabili. Tuttavia, si cominciano a vedere alcuni segni negativi, come un numero crescente di articoli
ritirati dopo il loro apparire anche in riviste prestigiose, nonché un atteggiamento arrogante da parte di alcuni scienziati che, per esempio, durante
la pandemia, invece di impegnarsi a sottolineare (anche fino allo sfinimento) i benefici dei vaccini – ma sempre con un atteggiamento di apertura
– davano aggressivamente dell’asino alle persone comuni sostenendo che
non avevano alcun diritto di parlare e, ancora peggio, affermando che “la
scienza non è democratica”. Affermazione falsa che solo sciocchi pericolosi,
che ritengono che la democrazia consista soltanto nell’alzare le mani e contare, possono fare. La democrazia, come la scienza, è un complesso processo di lento approfondimento dei problemi e di maturazione delle proprie
convinzioni. Solo alla fine di questo processo il voto diventa significativo;
e le maggioranze e le minoranze esistono anche nella scienza che non tratta verità dogmatiche.
1.
vorrei sottolineare che ciò che
segue riguarda quegli aspetti della
cibernetica la cui rilevanza è valutata
da un punto di vista scientifico
(ribadendo, inoltre, che questo è solo
il mio punto di vista). La diffusione del
suo nome, in settori e campi differenti,
può mettere alla luce anche nuovi e
insoliti aspetti dei quali non possiedo
alcuna competenza e, al cui riguardo,
posso solo ascoltare (e imparare).
La storia. La parabola, potremmo dire riprendendo
l’immagine usata prima, di come la cibernetica ha,
prima, imposto con forza la sua presenza e, poi, è
silenziosamente scomparsa può essere utile per
capire l’attuale debordante presenza dell’IA (che,
per suo conto, tra l’altro ha sofferto dell’alternarsi di
periodi di forte apprezzamento e di cadute di interesse) e individuare suoi possibili futuri sviluppi.
2.
La struttura concettuale. Il suo essere lo “scheletro” di una nuova
presenza della scienza nella società o, meglio, di una presenza corretta della scienza che recupera – nella situazione attuale – quelli
che erano stati gli standard della rivoluzione scientifica e della sua
metodologia in nuovi settori di indagine.
3.
Il suo essere una guida possibile per superare la dicotomia inerente
al paradigma delle “due culture” grazie alla sua ineliminabile natura
interdisciplinare.
4.
Il suo essere un modello per la presenza di nozioni e concetti “immateriali” nell’indagine di fenomeni naturali, contribuendo a definire
una fisica dell’immateriale, cioè una scienza che riesca a trattare
nozioni immateriali come l’informazione con la stessa metodologia
con cui la fisica ha trattato nozioni e concetti come massa, energia,
velocità.
Si potrebbe correttamente argomentare, come già ricordato, che altre discipline che appartengono alla medesima costellazione scientifica potrebbero giocare anch’esse lo stesso ruolo (cosa che, in realtà, in alcune occasioni è già accaduto). Credo, tuttavia, che proprio a causa della generalità
che ha caratterizzato le sue ambizioni e al fatto che sia (prematuramente)
scomparsa, la cibernetica possa essere il miglior candidato per un’indagine di questo tipo.
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può essere considerata (e forse, nella sua essenza, lo è realmente) una parabola della nascita e dell’evoluzione di nuovi settori di indagine, del modo
secondo cui nuovi, iniziali, risultati scientifici in territori che non erano
stati indagati in precedenza possono essere il germe di nuove discipline. E
capire anche quando altri risultati, egualmente interessanti, non possono
innescare questo processo. Quella iniziata dalla cibernetica nel 1974 è stata realmente – come correttamente affermato da PK – “Una diaspora che,
a differenza della prolificità della prima disseminazione, ha assunto le
forme di un graduale dissolvimento.” E questa è proprio la ragione per
cui “la cibernetica appare oggi come un’entità fantasma infestante una
moltitudine di discorsi, le cui tracce possono essere scorte un po’ ovunque, spesso e volentieri non riconosciute come tali.” Il progetto intrapreso dalla rivista sembra quindi sommamente degno d’essere intrapreso e
desidero concludere il mio saggio (disordinato) accettando l’invito fatto
da PK. Dopo avere – sicuramente in modo molto approssimativo (e, certamente, non da storico o filosofo della scienza) – contribuito “a seguirne
le piste, ricostruirne le trame”, vorrei anche contribuire a “farne emergere i modi d’essere, interrogarne l’eredità e l’attualità”, suggerendo alcuni
punti che, se opportunamente sviluppati, potrebbero realmente andare in questa direzione: [12]
[12] Anche se può essere superfluo,
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Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 235 — 249
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Mathematica Japonica vol. 41, N° 1.
All’ombra di nuove scienze in fiore.
Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta
Settimo Termini
Riferimenti bibliografici
Il glossario del Biological Computer Laboratory
Il presente glossario è il risultato
di una selezione di voci ricavate
dall’antologia Cybernetics of
Cybernetics: or the Control
of Control and the Communication
of Communication, redetta nel 1974
dagli studenti che presero parte al
seminario del Biological Computer
Laboratory. L’antologia fu ripubblicata
nel 1995, a cura di Heinz von Foerster
e Robert Abramovitz, per l’editore
Future Systems.
La prima edizione dell’antologia è
reperibile online nell’archivio digitale
del Biological Computer Laboratory.
Per maggiori informazioni:
illiarch@illinois.edu
251
Cibernetica
Domanda: Che cos’è la cibernetica?
Risposta: Definirei la cibernetica un’offerta.
Domanda: Che cosa offre la cibernetica?
Risposta: La cibernetica offre un accesso ai sistemi complessi e
un’interazione con essi tale da farli apparire semplici; al contempo, offre
un accesso ai sistemi semplici e un’interazione con essi tale da rivelarne la
complessità. (Bob Rebitzer)
Un insieme esauriente di istruzioni, funzionale al raggiungimento di un
dato obiettivo. Per rendere l’idea: “la prima a sinistra, la seconda a destra,
gira a destra al Red Lion, casa mia è la terza sulla sinistra”. (Stafford Beer)
Allopoietico
Una classe di organizzazione. Le descrizioni allo/auto-poietiche possono
applicarsi solo nel caso in cui il sistema considerato sia definito dalle sue
produzioni, cioè quando le relazioni tra le componenti che integrano il sistema sono relazioni di produzione. Ogniqualvolta le relazioni non producono le componenti che integrano il sistema (in uno spazio qualsiasi) il sistema è allopoietico. La stragrande maggioranza dei sistemi comunemente
studiati sono allopoietici. (Francisco Varela)
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 251 — 260
Algoritmo
Apprendimento
“Apprendimento” è un termine usato per descrivere quelle situazioni in
cui un organismo, dopo l’esposizione a un certo ambiente, adotta un comportamento differente da quello precedente. (Robert Galambos)
Il glossario del Biological Computer Laboratory
Un sistema si dice allopoietico se il prodotto dell’operazione del
sistema è differente dal sistema stesso. In un artefatto, come può esserlo
un’automobile, vi è una concatenazione di processi che specifica un’organizzazione ma che non produce le componenti dell’automobile, poiché le
componenti dell’automobile sono prodotte da processi che sono indipendenti dall’automobile e dalle sue operazioni. (Kenneth Wilson)
Autocoscienza
Comportamento nel dominio dell’auto-osservazione. Questo comportamento emerge dalla ricorsività delle descrizioni di un sistema che interagisce con i propri stati descrittivi, così da generare un flusso senza fine di
descrizioni di descrizioni di descrizioni... Ne consegue che, affinché l’autocoscienza esista, all’interno del sistema deve esserci una componente descrittiva dotata di un linguaggio di capacità infinità, come quello presente
negli umani. (Francisco Varela)
Auto-organizzazione
Un sistema non-stazionario diventa “auto-organizzante” quando vi è incertezza circa i criteri di specificazione macroscopica. Un osservatore è forzato a cambiare i suoi criteri di specificazione (dunque, anche il suo frame
di riferimento) al fine di conferire senso al comportamento di un sistema
auto-organizzante. L’osservatore modificherà il suo frame di riferimento sulla base di ciò che ha appreso (dalla sua interazione con il sistema).
Solitamente i sistemi auto-organizzanti sono sistemi “viventi”, sebbene ne
esistano alcuni incorporati in materiali “inanimati”. Concentriamoci tuttavia sull’“umano”, che i più concorderanno nel ritenere un sistema auto-organizzante. Un umano è un membro di un insieme ben specificato
di umani. Questo insieme può essere ben specificato (cioè specificato in
un modo che incontra l’approvazione generale) in innumerevoli modi, in
base all’obiettivo dell’osservatore. L’umano, per esempio, può essere specificato in maniera anatomica (due gambe, una testa, e così via), o in alternativa come un decision maker che influenza ed è influenzato dalla sua
cerchia di conoscenti. Ogni specificazione è ugualmente valida e implica
dei criteri di specificazione. Il punto è che vi sono obiettivi per i quali né la
prima né la seconda specificazione (e i criteri che ciascuna rispettivamente
implica) sono sufficienti. Quale definizione di umano sarebbe più pertinente quando, nell’ambito di una conversazione, cercassi di controllarlo,
di persuaderlo a fare qualcosa? Non posso dare una definizione definitiva, ma se non altro posso cambiare continuamente la mia specificazione: a
quel punto, l’umano mi apparirà come un sistema auto-organizzante.
Pertanto, l’espressione “sistema auto-organizzante” implica una relazione tra un osservatore e un assemblaggio. Essa implica anche l’obiettivo
dell’osservatore (un assemblaggio può essere un sistema auto-organizzante
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 251 — 260
252
Autonomia
Il glossario del Biological Computer Laboratory
per un osservatore ma non per un altro, o per un obiettivo ma non per
un altro). È anche possibile che un sistema appaia inizialmente auto-organizzato per poi rivelarsi stazionario a seguito di un’interazione (il partner della conversazione, in media, fa quello che io gli chiedo). La dipendenza dall’osservatore risulta evidente anche nel modo in cui si decide di
misurare l’organizzazione di un sistema; per esempio, a questo proposito
Von Foerster propone di usare la ridondanza di Shannon. Un sistema è
“auto-organizzante” se il tasso di variazione della sua ridondanza è positivo.
(Gordon Pask)
Ogni cosa detta è detta da un osservatore, cionondimeno ci sono sistemi
che definiscono i loro propri confini. Il concetto di autonomia è dunque
una relazione paradossale tra un osservatore e un tale sistema, il quale potrebbe essere l’osservatore stesso. (Kenneth L. Wilson)
Autopoiesi
Una classe di organizzazione, caratteristica quantomeno di tutti i sistemi
viventi. In contrapposizione ai sistemi allopoietici, un sistema autopoietico è definito dalle produzioni di quelle specifiche componenti che lo integrano (in uno spazio qualsiasi). Così, fintantoché il risultato della dinamica del sistema è il sistema stesso, la fenomenologia dell’autopoiesi coincide
con la fenomenologia dell’autonomia. (Francisco Varela)
253
1.
2.
In senso stretto, lo studio dei sistemi di organizzazione interna di
un organismo o di qualsiasi altra intelligenza, condotto per comprendere il modo in cui l’organismo si integra nel suo ambiente –
questo tutte le volte in cui lo studio è condotto con un obiettivo
epistemologico.
In senso ampio, quasi sinonimo di epistemologia, cioè di un’indagine in cui (a) sia il soggetto dell’indagine sia tutti i sistemi concettuali-intuitivi, la storia e la consapevolezza che il ricercatore apporta
e con cui si raffronta durante l’indagine sono il soggetto dell’indagine; e in cui (b) ogni prospettiva (o equilibrio) che è stata raggiunta è
sospesa non appena viene raggiunta, e un’altra prospettiva (o equilibrio) – qualitativamente differente, sovrapponendosi alla prospettiva precedente e contraddicendola parzialmente – viene ricercata.
(Klaus Witz)
Computazione
La computazione si riferisce all’esecuzione di ogni procedura (algoritmo)
per trasformare un insieme di dati (definito “input”) in un altro insieme (definito “output”). Una macchina computazionale implementa questa trasformazione per mezzo di un programma che rappresenta l’algoritmo in un linguaggio macchina ben definito, operando su una varietà
di dispositivi di stoccaggio (per esempio: registri, memoria, dischi, nastri,
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#18, I/2023, 251 — 260
Cognizione
Computer
Warren McCulloch impiegò questo termine per descrivere sia i “domini di
computazione” nei sistemi nervosi centrali degli animali, sia i sistemi artificiali che processano informazione. I principali domini di computazione (o, in breve, computer) identificati da McCulloch nei vertebrati sono:
—
La corteccia cerebrale, chiamata da McCulloch “il grande computer”
—
La retina
—
I nuclei della formazione reticolare
—
I gangli basali
—
Il cervelletto
Nel nostro laboratorio abbiamo ideato dei modelli di stereoscopia che
includono una retina primitiva e i nuclei della formazione reticolare. Il
nostro obiettivo è sia quello di comprendere meglio questi computer sia
quello di sviluppare dispositivi pratici similari. (Louis Sutro)
Il glossario del Biological Computer Laboratory
lettori per carte magnetiche, stampanti) contenenti gli input, gli output
e ogni dato intermedio nella forma di un codice dispositivo-dipendente. Il cervello, d’altra parte, implementa questa trasformazione per mezzo
di neuroni. Warren McCulloch identificò “domini di computazione” nel
cervello, che si differenziano gli uni dagli altri in virtù degli algoritmi che
implementano, della tipologia dei neuroni e delle loro interconnessioni.
(Louis Sutro)
254
Controllo
L’abilità di presentare a un qualche processo/macchina degli input in funzione dei quali solo gli output desiderati diventano osservabili. (Glenn
Kowak)
Coscienza
Descrizione
Descrizione (processo): una computazione tramite cui le entità, o le relazioni tra entità, percepite in un dominio appaiono (a un osservatore) rappresentate (descrizione ) in un altro (o nello stesso) dominio.
Descrizione (rappresentazione): la rappresentazione di una computazione che fornisce descrizioni , o i risultati di questa computazione
(descrizione ). (Heinz von Foerster)
1
2
2
2
1
Entropia
In cibernetica, l’entropia è generalizzata per misurare la tendenza di
ogni sistema chiuso a passare da uno stato meno probabile a uno stato
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#18, I/2023, 251 — 260
Quell’aspetto delle operazioni interne di un biocomputer che lo porta
a credere di esistere, di attraversare stati dell’essere, ecc.. Inizia con uno
spermatozoo che penetra un uovo e finisce con la morte del dato sistema nervoso centrale. La coscienza presume di programmare/di essere programmata dal biocomputer. (John Lilly)
Evoluzione
Una storia del cambiamento di un tipo di organizzazione che prende corpo in una popolazione di sistemi distinti. I sistemi devono essere messi in
relazione da passaggi riproduttivi sequenziali, attraverso i quali la struttura particolare di ogni sistema è una modificazione della struttura del sistema precedente, il quale è il suo predecessore storico. La riproduzione
sequenziale e il cambiamento di struttura attraverso ogni passaggio riproduttivo sono la condizione necessaria e sufficiente dell’evoluzione. (In tal
senso c’è una storia della Terra, ma non una sua evoluzione; c’è un’evoluzione dell’idea di spazio, non solo una sua storia). (Francisco Varela)
Il glossario del Biological Computer Laboratory
più probabile, usando lo stesso apparato matematico impiegato in fisica.
Tuttavia, se il sistema è aperto all’informazione, allora questa tendenza
può essere arrestata. Ciò è dovuto al fatto che, matematicamente parlando, l’informazione può essere definita precisamente come entropia negativa (spesso chiamata neghentropia). (Stafford Beer)
Fatto
(Dal latino factus, participio passato di facere: fare, produrre). “Inventare”:
la descrizione della genesi di un’esperienza, tale per cui questa descrizione
possa essere soggetta a dubbio. (Heinz von Foerster)
Feedback
255
Il ritorno di una parte dell’output di un sistema per modificare il suo input. Il feedback positivo aumenta l’input, il feedback negativo lo riduce.
Perciò, se il feedback è impiegato – come avviene in tutti i sistemi di regolazione – per comparare l’output con un qualche standard a cui approssimarsi, il feedback negativo è intrinsecamente stabilizzante (in quanto
riduce l’errore), mentre il feedback positivo è intrinsecamente destabilizzante (l’errore aumenta esponenzialmente). L’impiego non tecnico del
termine “feedback” per significare “risposta a uno stimolo” è scorretto.
(Stafford Beer)
(Dal latino fictus, participio passato di fingere: formare, modellare).
“Illudere”: la descrizione della genesi di un’esperienza tale per cui questa
descrizione è immune dal dubbio.
Intelligenza Artificiale
La simulazione per mezzo di programmi per computer dell’attività considerata intelligente. La difficoltà risiede nel decidere cosa considerare intelligente, in modo tale da non includere automaticamente qualsiasi programma per computer (dopotutto, un’operazione aritmetica può anche
essere considerata intelligente). La soluzione più comune a questa difficoltà è stata quella di considerare l’intelligenza come capacità di problem-solving e di creare una serie di sfide di problem-solving – relative per esempio
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Finzione
Memoria
L’incertezza irriducibile di un osservatore che possiede una conoscenza incompleta dello stato interno di una macchina non-triviale (per esempio,
un organismo vivente), interpretata dall’osservatore come una proprietà
della macchina. (Heinz von Foerster)
Metafora
Una metafora è un’espressione L designante una relazione di analogia. Una
relazione di analogia è una relazione tra due relazioni descritta, estensivamente, come un morfismo (per esempio, una corrispondenza uno a uno,
un isomorfismo o un omomorfismo). Le relazioni in questione sono istanziate da programmi che le computano (è il caso dell’analogia stessa) e ogni
relazione ha un’interpretazione semantica (solitamente una classe di modelli). Spesso, se non sempre, le relazioni legate da un’analogia appartengono a universi distinti di interpretazione (il che significa che le loro classi
di modello sono indipendenti sotto una data descrizione L di un dominio
conversazionale) di cui essi formano una parte. Invariabilmente, l’analogia
stessa (e la sua classe di modello) ha un universo distinto di interpretazione chiamato l’universo analogico. (Gordon Pask)
Il glossario del Biological Computer Laboratory
a giochi (scacchi, dama), dimostrazioni di teoremi, ecc. – che sono state al
centro della ricerca in intelligenza artificiale. (Paul Garvin)
256
Il metodo scientifico offre un algoritmo di input-throughput-output per
un approccio logico a questioni empiriche. Questo algoritmo è solitamente
descritto come un flusso di informazioni articolato nei seguenti passaggi:
1.
Stato o definizione del problema
2.
Raccolta delle informazioni rilevanti
3.
Sviluppo delle ipotesi
4.
Progettazione e conduzione di un esperimento appropriato (verifica
empirica delle ipotesi)
5.
Analisi dei dati o dei risultati sperimentali
Il passaggio 5 è pensato per condurre alla riformulazione del problema → l’algoritmo si ripete. Tale flusso di informazione è una procedura
ideale che tende a descrivere il processo razional-empirico dell’indagine
scientifica in senso comportamentale, ma trascura un fattore cognitivo
significativo nel processamento empirico di informazioni: l’intuizione.
(Darek Schultz)
Modello
Quello di modello è un concetto triadico che comprende ciò che deve essere modellato, ciò che deve eseguire la modellizzazione, e un operatore
dipendente dal contesto di assegnazione, il quale realizza la correlazione:
il filtro-modello. Questa definizione cattura i presupposti del Modello, in
base ai quali quest’ultimo non è una rappresentazione svuotata di estensione ma una struttura dinamica con una pulsazione simile a quella del
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 251 — 260
Metodo scientifico
Omeostasi
1.
2.
La disposizione dei sistemi biologici a mantenere le variabili critiche
all’interno di limiti fisiologici.
In cibernetica, questa disposizione è generalizzata matematicamente per includere tutti i sistemi (non solo biologici) che mantengono, a fronte di un disturbo inaspettato, le variabili critiche all’interno dei limiti accettabili dalla loro struttura. (Stafford Beer)
Il glossario del Biological Computer Laboratory
frangente dell’onda che costantemente si adatta e si riadatta alla sabbia
creando la battigia. Detto altrimenti, il modello è un’interazione tra un
sistema organizzante e l’ambiente; esso viene incorporato per mezzo di
trasmissioni di informazione dipendenti dal contesto. Questo permette ai
modelli di predire e reinterpretare il mondo. (John Kotelly)
Ontologia
257
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 251 — 260
L’ontologia è stata definita “lo studio di ciò che c’è” (Quine). Per la comprensione del termine “ontologia” è importante far notare che la definizione
riportata sopra è essa stessa un’asserzione ontologica, poiché assume l’esistenza di qualcosa che “è” che è l’oggetto di studio. Le ontologie si dividono in due grandi classi: l’ontologia classica e l’ontologia transclassica
(Günther). L’ontologia classica ha un tema: l’Essere (il “ciò che c’è” della
definizione di Quine). Questo Essere è ciò che si intende con l’espressione
“vero”. Ciò che è “vero”, dunque, “è”. Per lo meno così si dice. Questa asserzione ha delle implicazioni sociali, come si può facilmente notare nella
celebre asserzione di Hegel (Lineamenti di filosofia del diritto): “ciò che è
razionale è reale, e ciò che è reale è razionale”.
Le ontologie transclassiche considerano, in aggiunta al tema dell’“Essere”, altri temi, tra cui il principale è il “Tempo”. Le ontologie transclassiche non sono un’alternativa all’ontologia classica, ma sono piuttosto una
sua estensione.
Un’ontologia che, oltre ad avere dei temi, ha anche la loro negazione,
è una logica. Per esempio, nell’ontologia classica troviamo il “non-Essere”
(“falso”) come negazione dell’“Essere” (“vero”). La logica dell’ontologia classica diventa calcolabile nel momento in cui vengono esplicitate le regole
per escludere le contraddizioni e i termini terzi. Le logiche dell’ontologia transclassica, avendo più di un tema, hanno anche più di una negazione. Ciò conduce alle cosiddette logiche multivalenti. La ricerca relativa
alla struttura delle logiche multivalenti è di grande interesse tra i cibernetici, in particolare nei paesi dell’Europa dell’Est. Nel blocco occidentale,
il lavoro più avanzato in questo campo è quello di Gotthard Günther. Se
comparati al calcolo proposizionale nella logica classica e ai suoi derivati, le
logiche transclassiche non hanno ancora raggiunto uno stadio in cui il calcolo è praticabile in modo pratico e flessibile. Tuttavia, è indubitabile che
la descrizione formale dei sistemi cibernetici di second’ordine richiederà
il raggiungimento di uno stadio avanzato nel calcolo della logica multivalente (Richard Herbert Howe)
Quando si parla della rappresentazione di un sistema, il ruolo dell’osservatore e le sue descrizioni devono essere esplicitate affinché il sistema sia
rappresentato. Si parla essenzialmente della costruzione di un modello e
del suo essere comunicabile.
Quando una distinzione viene tracciata, un’entità viene generata.
Questo teorema, che pone le basi per la distinzione di un sistema, implica
già l’osservatore. L’osservatore ha l’abilità di produrre distinzioni e, nella
misura in cui “ogni cosa detta è detta da un osservatore”, è l’osservatore
che indica queste distinzioni.
L’osservatore, per generare una distinzione binaria, deve rimuovere
se stesso in quanto esistente dall’universo della distinzione. Questa distinzione richiede che l’osservatore osservi simultaneamente l’entità della
distinzione e l’universo da cui è stata distinta.
Il fatto che l’osservatore debba al contempo esistere e non esistere
nel sistema crea un paradosso, ma solo nel dominio delle descrizioni. Se
ogni cosa detta è detta da un osservatore, che cosa allora è detto?
Il fatto che l’osservatore stesso sia una distinzione crea un paradosso
nel dominio delle distinzioni ma non nel dominio delle descrizioni. (Klaus
Witz)
Il glossario del Biological Computer Laboratory
Osservatore
Organizzazione
Tutte le relazioni possibili tra le componenti di un sistema, le quali definiscono il sistema in quanto tale. In contrapposizione alla struttura, che indica le relazioni attuali mantenute tra le componenti di un dato sistema,
l’organizzazione indica le classi di relazioni che possono essere realizzate da
molteplici strutture possibili. L’organizzazione è precisamente il soggetto
di una scienza dei sistemi in senso ampio. La visione olistica di ciò che è osservato – il tratto fondamentale di una scienza dei sistemi – è antichissima,
ma solo di recente è stata compresa come una disciplina in quanto tale. In
sintesi: il tutto è certamente più della somma delle sue parti, poiché esso
è le sue parti e la sua organizzazione. (Francisco Varela)
258
La nozione di paradosso può essere più semplicemente chiarita – sebbene
essa non sia affatto semplice – all’interno di un contesto di metafore raccolte attorno alle nozioni di territorio e di mappa. La prima relazione da
considerare è banalmente quella tra territorio e mappa. Se, nel territorio,
vengono scovate delle opposizioni, allora tali opposizioni saranno riflesse
sulla mappa come contraddizioni. Questo è un primo livello di contraddizione. Un secondo livello di contraddizione deve essere considerato: se
la mappa è parte del territorio – o perlomeno è considerata esserne parte
– e, allo stesso tempo, si ritiene che sia una “mappa” distinta da un “territorio”, allora il secondo livello di contraddizione si delinea chiaramente: la
mappa, al contempo, è e non è il territorio. Le contraddizioni di secondo
livello dominano le contraddizioni di primo livello. Le opposizioni nel territorio, riflesse nella mappa come un primo livello di contraddizione, sono
superate (aufgehoben) dal secondo livello di contraddizione. La relazione
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#18, I/2023, 251 — 260
Paradosso
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tra i due livelli, se è dinamica, produce ambiguità. Espresse esclusivamente all’interno della mappa, questa ambiguità produce, a loro volta, un paradosso. Poiché in ogni atto cognitivo si trovano inevitabilmente mappe
e territori all’interno di un territorio che presenta opposizioni – incluse le
opposizioni mappa/territorio, mappa/mappa e territorio/territorio, dove
quest’ultima connette i paradossi della cognizione alle opposizioni della
realtà politica – ci troviamo sempre in un contesto di ambiguità, e quando diamo un’espressione precisa a questa ambiguità, otteniamo paradossi.
Con quanta più precisione esprimiamo tale ambiguità, tanto più vigorosamente si manifestano i paradossi; data l’inaggirabilità della sua sempre
crescente paradossalità, tale situazione si traduce in ironia quando è vista
e in tragedia quando è non-vista. (Richard Herbert Howe)
Programma
Una ricetta in un libro di cucina è un programma (o “algoritmo”). Una
buona ricetta, cioè una ricetta che: è completa in quanto ha un’esaustiva
specificazione degli ingredienti; descrive l’aspetto del piatto in ogni fase
della sua preparazione; fornisce la sequenza di passaggi della preparazione del piatto in un ordine che è logico, conveniente ed efficace; e produce infallibilmente una delizia culinaria, è l’ideale e l’archetipo di tutti i
programmi. I programmi dei computer differiscono dalle ricette culinarie
solo in quanto gli ingredienti sono entità formali e la ricetta stessa è scritta in un linguaggio formale. In tutti gli altri aspetti, un buon programma
per computer è equivalente a una buona ricetta culinaria – poiché per un
gourmet dei computer, un risultato elegante equivale a una delizia culinaria. (Richard Herbert Howe)
259
1.
2.
Nella teoria dell’informazione, il rafforzamento dell’informazione
di un messaggio al fine di proteggerlo dalla degradazione causata
dal rumore.
In cibernetica, l’accezione (1) è familiare ma il termine è anche
applicato ai canali supplementari di un network, i quali hanno lo
scopo di salvaguardare il sistema nella sua interezza a dispetto di
un guasto verificatosi in un canale. È possibile calcolare matematicamente quanta ridondanza è richiesta per ridurre il rischio di un
errore (che conduce a un messaggio erroneo in (1), o al collasso di un
sistema in (2)) a un grado arbitrariamente piccolo. (Stafford Beer)
Sistema
Un sistema è un insieme, specificato da un osservatore, di elementi e di
relazioni, o di operazioni su questi elementi. In alternativa, un sistema è
un insieme di variabili specificate da un osservatore. (Kenneth L. Wilson)
Ogni distinzione operata da un osservatore, con l’intenzione di spiegare ulteriormente, a un network di osservatori che mirano a trovare un
accordo, la distinzione operata e il suo contenuto. (Francisco Varela)
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#18, I/2023, 251 — 260
Ridondanza
La riformulazione di un fenomeno operata da un osservatore, in modo
tale che le parti distinte nel fenomeno appaiono interrelate (causalmente
o in altra maniera). Ogniqualvolta viene trovato un accordo complessivo
su tale riformulazione, la spiegazione entra a far parte del corpus scientifico. (Francisco Varela)
Struttura
Struttura deriva dalla parola latina struere: costruire, in riferimento a cosa
è costruito e al modo in cui i componenti di ciò che è costruito sono assemblati. La struttura di un sistema è l’insieme dei componenti e delle relazioni tra i componenti che compongono la sua unità. (K. L. Wilson)
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Spiegazione
Varietà
In cibernetica, il numero totale dei possibili stati di un sistema, o di un elemento di un sistema. La legge della varietà necessaria (la legge di Ashby)
esprime il fatto che “solo la varietà può assorbire varietà”: un sistema regolatore deve essere capace di generare per lo meno tanti stati quanti quelli
generati dal sistema che si vuole regolare. (Stafford Beer)
Traduzione di Luca Fabbris
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023, 251 — 260
260
E
R
N
E
T
I
C
A
Prospettive
sul pensiero
sistemico
I/2023
ISSN: 2385-1945
B
Kitchen #18
I
Philosophy
C
A cura di Luca Fabbris e Alberto Giustiniano
Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea
#18, I/2023
Rivista scientifica semestrale, soggetta agli standard
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Valutazione del Sistema Universitario) ha riconosciuto la
scientificità della rivista per le Aree 8, 10, 11, 12, 14 e l’ha
collocata in Classe A nei settori 10/F4, 11/C2, 11/C4.
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Luciano Boi (EHESS)
Petar Bojanic (University of Belgrade)
Rossella Bonito Oliva (Università di Napoli “L’Orientale”)
Mario Carpo (University College, London)
Michele Cometa (Università degli Studi di Palermo)
Raimondo Cubeddu (Università di Pisa)
Gianluca Cuozzo (Università degli Studi di Torino)
Massimo Ferrari (Università degli Studi di Torino)
Maurizio Ferraris (Università degli Studi di Torino)
Olivier Guerrier (Institut Universitaire de France)
Gert-Jan van der Heiden (Radboud Universiteit)
Pierre Montebello (Université de Toulouse II – Le Mirail)
Gaetano Rametta (Università degli Studi di Padova)
Rocco Ronchi (Università degli Studi dell’Aquila)
Barry Smith (University at Buffalo)
Achille Varzi (Columbia University)
Cary Wolfe (Rice University)
Progetto grafico #18
Gabriele Fumero (Studio 23.56)
Lo 0 e l’1 del sistema binario, il linguaggio più ristretto e universale generano risonanze e interferenze, trasmettendo vibrazioni
visive al posto di informazioni.
P
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