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PK#18 - Cibernetica / Cybernetics

2024, Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea

«Ce n’est plus d’une libération universalisante que l’homme a besoin, mais d’une médiation», Gilbert Simondon (1958) would write, concerning the encyclopedic ideal embraced by cybernetics. This encyclopedic inspiration went hand in hand with an explicit desire for renewal of philosophical categories and with the will of overtaking metaphysics’ dichotomies. It is the spectral and disseminated character of cybernetics, its insistence in the interstices of the encyclopaedia, that has led us to devote this issue to it, with the aim of mapping the places of knowledge in which the traces left by cybernetics can be discerned, following its trails, reconstructing its plots, bringing out its modes of being, questioning its legacy and relevance.

E R N E T I C A Prospettive sul pensiero sistemico I/2023 ISSN: 2385-1945 B Kitchen #18 I Philosophy C A cura di Luca Fabbris e Alberto Giustiniano P K C I B E R N E T I C A Prospettive sul pensiero sistemico A cura di Luca Fabbris e Alberto Giustiniano 37 7 Cibernetica. Prospettive sul pensiero sistemico Luca Fabbris Alberto Giustiniano Marco Ferrari 57 I. CIBERNETICA. L’EVENTO E I SUOI A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo Francesco Vitali Rosati ANTEFATTI 15 La cibernetica prima della cibernetica. Filosofia, scienza e tecnica in Norbert Wiener (1914-1943) II. LE AVVENTURE DELL’INFORMAZIONE 73 Arantzazu Saratxaga Arregi “Ciberneretica” simondoniana Francesca Sunseri 89 The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI Niccolò Monti Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023 EDITORIALE 3 105 I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi 201 Tecnoplastia. Note sulla poiesi macchinica Gregorio Tenti 213 III. L’USO DEI SISTEMI Sociologia dei mezzi di comunicazione. Considerazioni per una teoria generale Giancarlo Corsi 131 On the Framing of Systems and Cybernetic Models V. TESTIMONIANZE Robin Asby 149 Paolo Capriati 165 E MATERIALI Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn 235 Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi Saverio Macrì IV. OGGETTI, MACCHINE, MEDIA 183 Cibernetica orientata all’oggetto. L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville Luca Fabbris All’ombra di nuove scienze in fiore. Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta Settimo Termini 251 Il glossario del Biological Computer Laboratory Editoriale Cibernetica. Prospettive sul pensiero sistemico Luca Fabbris Dottorando presso l’Università degli Studi di Torino (Consorzio FINO) con un progetto incentrato sull’ontologia dei sistemi auto-organizzati nella cibernetica di second’ordine. Ha conseguito la Laurea Magistrale con una tesi su William Ross Ashby. Co-dirige insieme ad Alberto Giustiniano e Claudio Tarditi la collana “BIT” per l’editore Orthotes. Alberto Giustiniano Dottorando presso l’Università degli Studi di Padova e caporedattore della rivista di filosofia contemporanea Philosophy Kitchen dell’Università di Torino. Si occupa prevalentemente di decostruzione e fenomenologia, teoria dei sistemi e cibernetica. alberto.giustiniano@gmail.com luc.fabb@gmail.com Era il maggio 1942, poco più di ottant’anni fa. A New York si tenne il seminario “Cerebral Inhibition”. Organizzato da Frank Fremont-Smith, allora direttore medico della Josiah Macy Jr. Foundation, il seminario vide tra i partecipanti svariati ricercatori provenienti da diversi ambiti del sapere. Oltre all’antropologa Margaret Mead e all’antropologo Gregory Bateson, vi presero parte lo psicanalista Lawrence Kubie, lo scienziato sociale Lawrence K. Frank e due neurofisiologi: Warren McCulloch – che un anno dopo avrebbe pubblicato, insieme a Walter Pitts, un testo pioneristico sulle reti neurali artificiali – e Arturo Rosenblueth. Quest’ultimo, per l’occasione, presentò la ricerca, condotta insieme a Norbert Wiener e Julien Bigelow, che portò alla stesura del celebre articolo Behavior, Purpose and Teleology (1943), nel quale si mostrava l’equivalenza funzionale tra il comportamento finalizzato del vivente e quello esibito dalle macchine auto-regolate tramite retroazione. Fu da questo nucleo di ricercatori che, finita la Seconda Guerra Mondiale, sotto l’egida della Macy Foundation prese vita un ciclo di conferenze interdisciplinari con cadenza semestrale, che si tennero dal 1946 al 1953. Dapprima intitolate “Feedback Mechanisms and Circular Causal Systems in Biology and the Social Sciences”, dopo il 1948, con l’uscita di Cybernetics, or the Control and Communication in the Animal and in the Machine di Wiener, le conferenze presero il nome di “Cybernetics: Circular Causal, and Feedback Mechanisms in Biological and Social Systems”. Tra i partecipanti vi furono matematici, psicologi sperimentali e gestaltisti, fisici, ingegneri, sociologi, ecologi, antropologi, biologi e linguisti. Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 7 — 11 7 Cibernetica. Prospettive sul pensiero sistemico Luca Fabbris, Alberto Giustiniano 8 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 7 — 11 Come ebbe modo di ribadire Fremont-Smith in occasione del sesto incontro, l’obiettivo delle conferenze era quello di fondare un ambiente di ricerca interdisciplinare in cui, a partire dalla costruzione di un linguaggio comune, si potessero affrontare problemi che, sebbene sorgessero in contesti disciplinari differenti, presentavano degli isomorfismi tali da renderli trattabili tramite modelli operativi condivisi. In estrema sintesi, i cibernetici perseguivano un ideale di unificazione delle scienze facendo leva su fenomeni e processi trasversali ai vari saperi. La storia delle conferenze di cibernetica fu, in buona sostanza, una ricerca incessante di mediazioni. Non a caso, le nozioni che si affermarono in quel contesto, e intorno alle quali ruotò buona parte delle conferenze, fungevano da mediatori: 1) l’informazione, concepita come entropia negativa, prometteva di mediare tra processi fisici, biologici, psichici e sociali; 2) i meccanismi circolari, fondamentali per comprendere tutti quei processi nei quali l’interazione tra sistemi o sottosistemi produce una dinamica omeostatica, promettevano di mediare tra l’ambito ingegneristico, quello fisiologico e quello sociologico; 3) il calcolatore elettronico – allora allo stato embrionale – prometteva di mediare tra processi mentali – ragionamento logico, comprensione degli universali, ecc. – e processi materiali – trasmissione di segnali elettrici in un circuito. «Ce n’est plus d’une libération universalisante que l’homme a besoin, mais d’une médiation», scriverà Gilbert Simondon (1958, 103) a proposito dell’ideale enciclopedico della cibernetica, cogliendone appieno lo spirito. Questo ideale enciclopedico si accompagnava a una dichiarata volontà di rinnovamento delle categorie filosofiche e di superamento di molte dicotomie metafisiche. Nel primo capitolo di Cybernetics, intitolato “Newtonian and Bergsonian Time”, Wiener sosteneva che grazie alla cibernetica «the whole mechanist-vitalist controversy has been relegated to the limbo of badly posed questions» (Wiener 1961, 63). McCulloch e Pitts affermavano che la loro rete neurale era, di fatto, una risoluzione del mind-body problem: «[…] both the formal and the final aspects of that activity which we are wont to call mental are rigorously deducible from present neurophysiology […]. “Mind” no longer “goes more ghostly than a ghost”» (McCulloch 1988, 38). La macchina astratta di William Ross Ashby, come ebbe modo di notare Mauro Nasti nella presentazione della traduzione italiana di Introduzione alla cibernetica, sconvolgeva «tutta un’impostazione filosofica tradizionale […] con cui si contrapponeva irriducibilmente il mondo “materiale”, fisico, delle macchine a quello “immateriale” e “libero” della mente» (Nasti 1970, xvii-xviii). L’ultima conferenza di cibernetica (tenutasi nel 1953), lungi dal coincidere con il dissolvimento dello spirito cibernetico, sancì di fatto la sua diffusione pressoché illimitata. Non vi fu campo del sapere in cui le idee cibernetiche non penetrarono, a volte accolte con entusiasmo, altre con riserva, altre ancora apertamente criticate: dalla filosofia (Ruyer 1954, Jonas 1953) all’economia (Lange 1970); dalla fisica (de Broglie 1951) all’ecologia (Odum 1963); dalla politologia (Deutsch 1963) alla biologia (Monod 1970, Atlan 1972); dalla cosmologia (Ducrocq 1964) alla gestione aziendale (Beer 1964); dalla letteratura (Calvino 1967) al diritto (Knapp 1978); dall’architettura (Alexander 1964) all’etologia (Hassenstein 1977). La cibernetica trasformò il linguaggio dei saperi in cui penetrò, contribuendo alla nascita di nuovi ambiti di ricerca. Cibernetica. Prospettive sul pensiero sistemico Luca Fabbris, Alberto Giustiniano 9 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 7 — 11 Nel contesto delle scienze della cognizione, nel 1968 Marvin Minsky ratificava che la cibernetica si era differenziata in tre programmi di ricerca oramai pienamente autonomi: 1) la teoria dei sistemi auto-organizzati, basata sulla simulazione di processi evolutivi e adattativi; 2) la simulazione del comportamento umano tramite modelli computazionali; 3) l’Intelligenza Artificiale propriamente detta, cioè la progettazione di macchine intelligenti non finalizzata alla simulazione di processi biologici e cognitivi. Se gli ultimi due programmi si concepivano come corpi maturi e completamente emancipati dal loro passato cibernetico, il primo programma non smise di rivendicarne le radici, che trovarono nel Biological Computer Laboratory dell’Università dell’Illinois, diretto da Heinz von Foerster, un terreno fecondo in cui attecchire. È in questo contesto che poté nascere un’epistemologia cibernetica – la cibernetica di second’ordine, o cibernetica dell’osservazione dei sistemi che osservano – che favorì l’emergere della teoria dei sistemi autopoietici (Maturana & Varela 1980), della neurofenomenologia (Varela et al. 1991), della teoria generale della società (Luhmann 1984), dell’elaborazione delle logiche polivalenti e delle ontologie trans-classiche (Günther 1976), della pragmatica della comunicazione (Watzlawick et al. 1967), del costruttivismo radicale (Glasersfeld 1995), ecc.. Con la chiusura del Biological Computer Laboratory nel 1974, la cibernetica entrò in una fase diasporica, che dura tutt’oggi. Una diaspora che, a differenza della prolificità della prima disseminazione, ha assunto le forme di un graduale dissolvimento. La cibernetica appare oggi come un’entità fantasma infestante una moltitudine di discorsi, le cui tracce possono essere scorte un po’ ovunque, spesso e volentieri non riconosciute come tali. Tuttavia, a dispetto – o forse in virtù – del suo carattere fantasmatico, l’ultimo ventennio ha visto intensificarsi un interesse storiografico per la cibernetica, con la produzione di lavori che hanno ricostruito la storia della cibernetica americana (Kline 2015), britannica (Husbands & Holland 2008), francese (Le Roux 2018), italiana (Cordeschi & Numerico 2013), sovietica (Gerovicht 2004) e cinese (Liu 2019). Parallelamente al crescente interesse per la sua storia, si è intensificato anche quello per le sue implicazioni teoretiche e politiche – a testimonianza del fatto che non si è smesso di pensare col suo spettro. Un interesse che ha riguardato, tra le altre cose, il rapporto tra la cibernetica e l’ontologia (Pickering 2010), la metafisica (Hui 2019), la filosofia politica (Guilhot 2020; Bates 2020), l’ecologia filosofica (Hörl 2013), la teoria dei media (Hansen & Mitchell 2010), il post/trans-umanesimo (Malapi-Nelson 2017), la french theory (Lafontaine 2007; Geoghegan 2020), ecc.. È il carattere spettrale e disseminato della cibernetica – il suo insistere negli interstizi dell’enciclopedia – che ci ha spinto a dedicarle il numero #18 di Philosophy Kitchen, con l’obiettivo di cartografare i luoghi del sapere in cui possono ravvisarsi le tracce lasciate dalla cibernetica, seguirne le piste, ricostruirne le trame, farne emergere i modi d’essere, interrogarne l’eredità e l’attualità. Gli articoli che compongono il numero spaziano dalla storia della scienza (Ferrari, Termini) alla storia delle idee (Arregi, Sunseri), dall’epistemologia (Asby) all’ontologia (Fabbris), dalla politica (Capriati) all’estetica (Macrì; Tenti), dalla biologia (Boi) alla semiotica (Monti), dall’ecologia (Rosati Vitali) alla sociologia dei media (Corsi), Cibernetica. Prospettive sul pensiero sistemico Luca Fabbris, Alberto Giustiniano 10 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 7 — 11 e costituiscono un campionario dei modi in cui oggi si può riflettere su e con la cibernetica. Abbiamo deciso di organizzare questi articoli privilegiando l’organizzazione tematica rispetto a quella disciplinare. Il numero si compone di cinque sezioni: (1) La cibernetica: l’evento e gli antefatti, con gli articoli di Arregi, Ferrari e Rosati Vitali; (2) Le avventure dell’informazione, con gli articoli di Sunseri, Monti e Boi; (3) L’uso dei sistemi, con gli articoli di Asby, Capriati e Macrì; (4) Macchine, oggetti, media, con gli articoli di Tenti, Fabbris e Corsi; (5) Testimonianze e materiali, che comprende l’articolo di Termini e la traduzione di una selezione di lemmi dal glossario del Biological Computer Laboratory. La dislocazione degli articoli in queste sezioni tematiche ci è sembrata la scelta migliore per far emergere il carattere transdisciplinare della nostra operazione. La speranza è che il numero possa mostrare come, a dispetto – o forse in virtù – della sua spettralità, la cibernetica conservi la capacità di generare reticoli di idee connettendo ambiti disparati. Ashby, W. R. (1971). Introduzione alla cibernetica. Trad. it. di M. Nasti. Torino: Einaudi. Atlan, H. (1972). L’organisation biologique et la théorie de l’information. Paris: Éditions du Seuil. Bates, D. (2020). The political theology of entropy: A Katechon for the cybernetic age. History of the Human Sciences, 33 (1), 109-127. Beer, S. (1959). Cybernetics and Management. London: English Universities Press. Calvino, I. (1980). Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio). In Id., Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società. Torino: Einaudi. Cordeschi, R. & Numerico, T. (2013). La cibernetica in Italia. In Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Scienze, https://www. treccani.it/enciclopedia/la-cibernetica_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Scienze%29/ de Broglie, L. (1951). La Cybernétique: théorie du signal et de l’information, Paris: Éditions de la Revue d’optique théorique et instrumentale. Deutsch, K. W. (1963). The nerves of government. Models of political communication and control. New York: The Free Press. Ducrocq, A. (1963). Cybernetique et univers, le roman de la matière. Paris: Juillard. Geoghegan, B. D. (2023). Code. From Information Theory to French Theory. Durham: Duke University Press. Gerovitch, S. (2004). From Newspeak to Cyberspeak. A History of Soviet Cybernetics. Cambridge, MA: MIT Press. Glasersfeld, E. von (1995). Radical Constructivism. A Way of Knowing and Learning. London: The Falmer Press. Guilhot, N. (2020). Automatic Leviathan: Cybernetic and politics in Carl Schmitt’s postwar writings. History of the Human Sciences, 33 (1), 128-146. Günther, G. (1976). Cybernetic Ontology and Transjunctional Operations. In Id., Beiträge zur Grundlegung einer operationsfähigen Dialektik, 1. Hamburg: Meiner. Hassenstein, B. (1977). Biological Cybernetics. An Elementary Introduction. Heidelberg: Quelle & Meyer. Hörl, E. (2013). A Thousand Ecologies: The Process of Cyberneticization and General Ecology. In D. Diederichsen & A. Franke (eds), The Whole Earth: California and the Disappearance of the Outside (121-30). Berlin: Sternberg Press. Hui, Y. (2019). Recursivity and Contingency. London: Rowman and Littlefield. Husbands, P. & Holland O. (2008). The Ratio Club: A Hub of British Cybernetics. In P. Husbands et al. (eds), The Mechanical Mind in History (91-148). Cambridge, MA: MIT Press. Jonas, H. (1953). A Critique Of Cybernetics. Social Research, 20 (2), 172-192. Kline, R. (2015). The Cybernetic Moment: Or Why We Call Our Age the Information Age. Baltimore: Johns Hopkins University Press. Knapp, V. (1978). L’applicabilità della cibernetica al diritto. Trad. it. di L. Piruchta e E. Bonazzi. Torino: Einaudi. Lafontaine, C. (2004). L’Empire cybernétique. Des machines à penser à la pensée machine. Paris: Éditions du Seuil. Lange, O. R. (1970). Introduction to Economic Cybernetics. Oxford: Pergamon Press. Le Roux, R. (2018). Une histoire de la cybernétique en France (1948-1975). Paris: Garnier. Liu, X. (2019). Information Fantasies. Precarious Mediation in Postsocialist China. Minneapolis: University of Minnesota Press. Luhmann, N. (1984). Soziale Systeme. Grundriß einer allgemeinen Theorie, Frankfurt: Suhrkamp. Malapi-Nelson, A. (2017). The Nature of the Machine and the Collapse of Cybernetics. A Transhumanist Lesson for Emerging Technologies. London: Palgrave Macmillan. Maturana, H. & Varela, F. (1980). Autopoiesis and Cognition. The Realization of the Living. Dordrecht: D. Reidel Publishing Company. 11 McCulloch, W. S. (1988). Embodiments of Mind. Cambridge, MA: MIT Press. Minsky, M. L. (1968). Semantic Information Processing. Cambridge, MA: MIT Press. Mitchell W. J. T. & Hansen M. B. N. (2010). Critical Terms for Media Studies. Chicago: University of Chicago Press. Monod, J. (1970). Le Hasard et la Nécessité. Essais sur la philosophie naturelle de la biologie moderne. Paris: Éditions du Seuil. Odum, E. P. (1963). Ecology. New York: Holt, Rinehart & Winston. Pickering, A. (2010). The Cybernetic Brain. Chicago: University of Chicago Press. Rosenblueth, A., et al. (1943). Behavior, Purpose and Teleology. Philosophy of Science, 10 (1), 18-24. Ruyer, R. (1954). La cybernétique et l’origine de l’information. Paris: Flammarion. Simondon, G. (1958). Du mode d’existence des objets techniques. Paris: Aubier. Varela, F. et al. (1992). The Embodied Cognition. Cambridge, MA: MIT Press. Watzlawick, P. et al. (1967). Pragmatics of Human Communication. A Study of Interactional Patterns, Pathologies, and Paradoxes. New York: W. W. Norton & Company. Wiener, N. (1961). Cybernetics, or the Control and Communication in the Animal and the Machine. Cambridge, MA: MIT Press. Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 7 — 11 Alexander, C. (1964). Notes on the Synthesis of Form. Cambridge, MA: Harvard University Press. Cibernetica. Prospettive sul pensiero sistemico Luca Fabbris, Alberto Giustiniano Bibliografia C I B E R N E T I C A Cibernetica. L’evento e i suoi antefatti I. A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity Arantzazu Saratxaga Arregi PhD in Philosophy & Aesthetics from the University of Arts and Design in Karlsruhe. Her research focuses on the interior of milieus (endomilieus) from a philosophical point of view and draws on disciplines such as media and contemporary philosophy as well as cybernetics. arantzan@gmail.com — EPISTEMOLOGY — COMPLEXITY — CYBERNETICS — SYSTEMS — PREDICTABILITY 15 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 15 — 34 The purpose of this article is to present epistemological justifications for the cybernetic programme drawing on a historical reconstruction of cybernetics, although this is not a philosophical discipline. To do so, I use the scientific paradigm introduced into the cybernetic programme, based on which the philosophical premises are applied. This article counters the claim that cybernetics has brought philosophy to its end by arguing for a philosophical underpinning of cybernetics. In doing so, I point to the epistemological principles of cybernetics, not as inferential theoretical paradigms of control mechanisms, but as a turn to a new way of thinking. Historical revisionism is about a discursive reconstruction of cybernetics beyond control systems, as a new way of thinking, which I describe as an epistemological and philosophical approach to the paradigm of complexity. The reconstruction is done by paying special attention to irreversibility. The introduction of the one-way arrow of time into cybernetics leads to the problem of predictability being presented as an epistemological problem. In this respect, cybernetics is justified as a propaedeutic epistemology and philosophy for the thought model of complexity (uncertainties and unknown abilities). Cybernetics is not based on a philosophy. Its origins lie in the post-war period, although, if we consider its nature in control systems and control engineering, its inception in fact goes back to the technical inventions and physiological discoveries of the control mechanisms of the 19th and 20th centuries. Key examples of this include Carnot’s ideal circuits and the development of Walter B. Cannon’s homoeostasis theory. Situating the emergence of cybernetics in control engineering inventions supports the construction of the history of cybernetics. Norbert Wiener, considered the founder of cybernetics, published a collection of essays in 1948 under the title Cybernetics, in which he explained the engineering of control as a way to calculate feedback systems and made control dependent on the flow of information. He adopted the Greek term for governor used in James Clerk Maxwell’s 1868 article On Governors, in which the author discussed the regulatory mechanisms of temperature. The word governors first appeared in antiquity as a description of political leadership, called κυβερνητική (kybernētikḗ). Homer used the term kybernē to refer to the helmsman of a ship, as an allegory for a leader and purposeful political action. Plato is credited with interpreting the ability to govern based on managing a ship, when he spoke of a “man at the helm of a government”. For example, Norbert Wiener ambiguously linked the foundation of cybernetics to “control” and “regulation”. The ambiguity that characterised the birth of cybernetics would permeate its history and lead to a situation in which talk of control revolved around control and regulations. Despite their apparent similarity, technical control mechanisms and control systems are opposed. The intention of this paper is to provide a historical reconstruction of the spirit of cybernetics that pervades Cybernetics II, an order in which regulation precedes control. From this perspective, it is possible to speak of a new way of thinking that opposes the thesis of the end of thinking. It will be argued here that cybernetics, as a discipline of regulatory mechanisms using information, has nevertheless left behind an epistemology and a way of thinking, even a philosophy, by means of which only process-like, irreversible and complex descriptions are possible. Norbert Wiener, however, provides neither a definition nor a systematic description of what cybernetics might be or is about. Rather, he uses cybernetics as a name for technical inventions based on the automation of control systems that resulted from the intertwining of electrical engineering and mathematics. It is no coincidence that the founders of cybernetic systems conducted their research at Bell (Gleick 2011, 208), where, in 1987, the first mathematician was hired; George Campbell set out to mathematically and electrotechnicallly solve the occurrence of noise in the transmission of messages over electricity (Gleick 2011, 11). Norbert Wiener’s contribution to electrical engineering message technologies was the finding that the control of a system depends on communication. The innovation in control technology that was undoubtedly attributed to this work at the time was that he, a mathematician, made control dependent on the flow of information. With the invention of messaging systems in mathematical technologies, the formal and conceptual boundary that had until then kept social, biological and machine entities apart broke down. A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity Arantzazu Saratxaga Arregi Cybernetics and Philosophy 16 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 15 — 34 A. 17 Universal Science According to a general view in German media studies, cybernetics is a universal science that emerged in the post-war period (Hagner 2008, 3871). Arising from the enthusiastic idea of inventing a discipline that finds a common language beyond the details and specialisation of each scientific discipline and whose application in social, biological and technical systems upend the isolation of individual sciences, cybernetics was strongly influenced by the expectation of creating a scientific discipline with universal application (Hagner 2008, 40). However, the expectation of a universal field of science was only fulfilled for those who hoped to diminish the divergence of the humanities from the natural sciences that had been established for centuries. Cybernetics promised a new level of communication between them (Hagner 2008, 38). This took place via information technologies, a new field of science that originated among electrical engineers and mathematicians in the Bell Laboratories (Gleick 2011, 256). Never before had a philosophical programme – such as the successful promises of positivism at the time – or the innovations in the sciences produced a field of knowledge in which there was an interface between social, biological and technical systems. A common vocabulary was found in information technology, in that it also gave rise to the claim of establishing a new universal science (Bowker 1993, 107-127). This new field was embraced with enthusiasm and hope by utopian technocratic pundits, such as Max Bense, who placed his faith in a technical being that, after the failure of the Enlightenment revealed and witnessed by the Second World War, must be able to rebuild a better society Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 15 — 34 1. A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity Arantzazu Saratxaga Arregi Control would no longer be a quality of technically determined or trivial machines (in the words of Heinz von Foerster), but a quality of messaging or communication systems that make up both social and biological systems. The author considered cybernetics first and foremost to be a programme of a new strategy that described interacting behaviours of organisms, social systems and machines on an equal footing. This invention led cybernetics to try to establish itself as a universal science. Whether such universalist claims legitimise the discipline of communication and control systems as a science remains an unresolved problem for science historians. Norbert Wiener attributed the status of a real science to his subject in the preface to the second edition of his book Cybernetics: «Now I believe the time has come to reconsider cybernetics, not merely as a program to be carried out at some period in the future, but as an existing science» (Wiener 1965, vii). In this respect, the attempt to underpin cybernetics with a philosophical idea has already failed. However, the abolition of the ontological distinction between species (man, animal, stone, machine), which removed the centrality of man, had widespread consequences for both the social sciences and the humanities. Although cybernetics is not based on a philosophical idea supporting its establishment as a unified field of science, the programme of control systems has, in a figurative sense, led to a caesura in thinking and thus in philosophy, which deserves to be reconstructed here. «I think that cybernetics is the biggest bite out of the fruit of the Tree of Knowledge that mankind has taken in the last 2000 years» (Bateson 1972). The enthusiasm and excitement over a new framework on thinking was accompanied by concern about the end of thinking. In general, this foresight is considered to diagnose a constantly increasing mechanisation of spheres of life. The abolition of the ontological differences between living beings and machines is effected by rewriting nature’s entities – man, animal and machine – into information units, which are given via control. As there is no reason for the determination of any world process except the process of control itself, Heidegger complains that cybernetics cannot be «characterized as a basic science» (Heidegger 2000, 622). «The unity of the thematic districts of knowledge is no longer the unity of reason. It is technical in the strict sense» (Heidegger 2000, 622). With the cybernetic, modern technology has reached a stage of technicity where humanity is «posited, claimed by a power which he himself does not control» (Heidegger 1976, 209). This power reveals the nature of technology and humanity is helpless against it in that it could be devastating. Modern technology is in its essence subsumed under Heidegger’s term Gestell. This does not refer to the instrumental determination of technology through which domination over nature is expressed by forcing material into a form where it becomes instruments serving man. Gestell rather refers to a further level of technicity of the object, where humanity is «posited, claimed by a power which he himself does not control» (Heidegger 1976, 209). Neither philosophy nor thinking can save humanity, nor is it true that «God can save us» (Heidegger 1976, 193). This helplessness of thinking in the age of modern technology also heralds the end of philosophy (Heidegger 1976, 209). What then is to take the place of philosophy? Heidegger declared in an interview in the German weekly «Spiegel» that «the place of philosophy now» (Heidegger 1976, 12) – in 1966 – had been appropriated by cybernetics (Heidegger 1976, 212). 2.1. The End of Thinking in Discussion Heidegger’s laconic statement: «Philosophy has reached its end in the present epoch. It has found its place in the scientific point of view. [...] The fundamental characteristic of this scientific determination is that it is cybernetic, i.e., technological», underpins the idea that the rationalistic project of cybernetics, based on logarithmic and mathematical calculations, means the end of thinking (Heidegger 1976, 178). In the early days A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity Arantzazu Saratxaga Arregi 2. The End of Thinking 18 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 15 — 34 via technical means and to remedy the contradictions of culture. The philosopher and anthropologist Arnold Gehlen stated that cybernetics was science of a higher order that relieved people of the physical apparatus and oriented them more towards the life of the mind (Gehlen 1957, 18). This prosthetic argument, which follows McLuhan’s media anthropological thesis, seems to be at the heart of the discussion about cybernetic influences in the social sciences and humanities. Media anthropologists argue for an expansion of the mind, while other humanist philosophers lament a kind of expulsion of the mind and the dissolution of thought. A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity Arantzazu Saratxaga Arregi 19 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 15 — 34 of the design of neuronal networks, an abstract symbolic language was invented, with the help of which neuronal interaction could be transcribed into propositional functions and conversely translated into material compositions, be this cathode ray tubes, synopses or switches. Consequently, mathematics and its application in communications technology, namely computer science, remained the language that equates the behaviours of different beings (Hörl 2008, 170-182). The translation of systems and their behaviour by means of discrete signals of describable stochastic processes also led to the critique of the quantification of human, social and biological behaviour as formulated by the anthropologist Lévi-Strauss (1967, 176-188). As soon as any kind of behaviour that produces homeostatic dynamics in biological and social systems and communication machines can be translated into operators and functions, it is open to all forms of control. The post-war period was dominated by strong algorithmic government policies. The Second World War was the experimental laboratory of the new regulatory technologies and their implementation into the art of governance took place after 1945. This established a new model of government, its application as a socialist planned economy and as a capitalist market economy (Heims 1991). The implementation of operational research in the UK, as well as in the US by the CIA, and the failed application of a planned economy by the government of Chile in 1970-1973 are insightful examples. The fact that the cybernetic program took place against the background of a post-war rearmament does not, however, exhaust its philosophical approaches and the announcement of a new style of thinking that it welcomed (Glasersfeld 1982). The fourth turn in the history of science triggered by communication technologies, as described by Norbert Wiener in the article Behavior, Purpose and Teleology (1950), marks the “fourth mortification of man” when humanity was deprived of its central position and a network of relational and interactive multi-agents was put in its place. Nevertheless, the announcement of the end of philosophy, i.e. the love of knowledge, as an immediate consequence of the implementation of the cybernetic program in the sciences, is a greatly exaggerated and false claim. Here, I want to support the hypothesis of a scientific breakthrough in the representation and meaning of thought. Hannah Arendt expounded the ethical and political consequences of thoughtlessness or, rather, the absence of thought. For her, it is the execution of an instrumental and functional thinking that heralds the end of thought. There is no better proof of this than sterile and sober compliance with orders, according to which Adolf Eichmann had no guilty conscience and consequently denied his moral guilt (Arendt 1965). Although his actions are among the most egregious crimes in the history of mankind, he was merely following orders and supposed himself free from any kind of evil and immoral behaviour. We could say he acted operationally. In this sense, the operative action remains a sign of the dissolution of (human) thought, which is opposed to other forms of thought for critical self-reflection. The statement of the dissolution of thinking or its degradation as a marker of a technicistic worldview dominated by instrumental reason requires a meaning in relation to it. The end of thinking neither reverts to operative action, nor to rationalist ruling by force of technology; rather, thinking has previously been degraded by the conquest of science over 20 Epistemic Turn to a New Style of Thinking Based on the consequences of its implementation in social systems, cybernetics has led to such a turn in the social sciences that we speak of a new style of thinking. As already stated in the introduction, a single technical guiding principle is not sufficient to bring about a turn in thinking. I would like to speak here not of the guiding principles of the former but of the latter, which prepare the way for a new scientific paradigm, with philosophical consequences: irreversibility and the question of behaviour, rather than the nature of a thing leading to a new understanding of dynamic processes upon which philosophy had closed the door. Interdisciplinarity enabled dialogue between sciences and opened the way to a new style of thinking. Systemic thinking was rediscovered as a research method after the excess of analytical procedures in the sciences, which offered the advantage of a new perspective on complex and dynamic processes and forced a new approach to cognition. With the cybernetics collapse, the foundations of rationalist and scientific thinking, the epistemology of classical paradigms are collapsing. In their place emerges thinking of and for paradoxes, a radical statement of becoming, constitutive of a multi-valency instead of an identity-logical ontology. The subject is replaced by multiple orders of observation and uncertainty remains one and perhaps the only imaginable part of reality with which cognition and the drive for knowledge must come to terms. However, a reconstruction of the epistemological consequences of the cybernetic field of knowledge supports the thesis that cybernetics has contributed to a new description of reality in terms of complexity. The Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 15 — 34 B. A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity Arantzazu Saratxaga Arregi other forms of knowledge appropriation. According to Heidegger, scientific calculation is essentially not thinking, just as science does not think. It does not think «because, by the nature of its procedure and its tools, it can never think» (Heidegger 2000, 133). It does so as a preference for its assertion. Hannah Arendt’s genealogy of the adoption of thinking from antiquity to modernity shows that thinking is essentially a mental occupation. It originated in antiquity when the contemplative occupation acquired the dignity of being called philosophy. “Thinking” does not refer to an activity of the mind, as is the case with arithmetic; it is a mood and readiness of mind that enables one to see with «the eyes of the mind». Thinking refers to opening the eyes of the mind. Aristotle considered thought to be an organ that sees and looks at truth. Thus, «thinking aims at observation and fulfils itself in it, and contemplation is not activity but passivity; it is the point at which mental activity comes to rest» (Arendt 1971, 16). It is thus clear that thoughtlessness, when governing the operationality of the execution of the cybernetic program, leads to a blind thinking. In the context of mobilisation during the post-war period, cybernetics demonstrated its technical advances (Hacking 1986, 237-260; Galison & Hevly 1992) and this also led to the establishment of a “big science” that claimed execution beyond the boundaries of nations and their geopolitical mythologies of domination. However, the philosophical reading of cybernetics also arrived at the important insight that blind thinking or the blind soul does not necessarily remain blind to observation. The Introduction of the Arrow of Time Norbert Wiener’s book lists the focal points of the new science and includes some philosophical aspects, but merely as a reference to illustrate the turning point towards the age of communication technologies. The most significant break in the turn towards automation was not least made by the concept of thermodynamic time, because cybernetic systems consider processes that undergo transformations in a non-returning, irreversible timeframe. They deal with dynamic processes. The one-sided arrow of time, time which aims at the future, is the time of cybernetics. The transformation remains a continuum, the values and variables of the system never stay the same; rather, they vary depending on time. Wiener purposefully devotes the first chapter of his book Cybernetics to the opposition of Newtonian and Bergsonian time. Although he does not offer an explanation of “Bergsonian time”, the chapter deals with the opposition between classical and complex sciences using examples of astronomical and meteorological concepts of time. The latter is considered a concept of time for self-regulating systems, while the first is determined by movement according to mechanical laws of attraction. It is reversible, so the position of the planets can be predictably determined. Meteorological time, on the other hand, is an irreversible determination of time. This is irreversible because what happens at any given moment is never the same in relation to any previous moment. From the perspective of irreversible time, objects can no longer be described by Euclidean space-time coordinates. Neither a spatial nor a temporal determinacy can be assigned to them. Their nature is already given within a time, and so their determination remains both indeterminate and uncertain. This means that the calculus of dynamic and irreversible processes reaches the limits of predictability. The scope of cognition is limited. The essential differences are the designation of objects and the relation of the respective “objects” to time. The introduction of this turn is the hallmark of cybernetics. Thus, we can already talk about philosophical underpinnings of a new science in which the two basic building blocks can be summarised by the following themes: 1) the appearance of complex objects in the paradigm of social systems and as an object of thought; 2) the unpredictability and uncertainty as a prerequisite for the possibility of any cognition about or of complex objects. In fact, they are not objects. Norbert Wiener says, by way of example, that a cloud does not exist as an object; it is the synthetic representation of a pile of moving particles attributed to a signifier (meaning) because people can refer to the cloud (as an object) by means of the purpose of language. The assumption of irreversible time for the technical programme has led control and communication technologies into a revolution in terms of thinking and philosophy. In this respect, the philosophical underpinning of cybernetics lies in the machine implementation of a becoming (Werden). The technical-mathematical program of cybernetics A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity Arantzazu Saratxaga Arregi 1. 21 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 15 — 34 introduction of irreversible time as a fundamental pattern of predictable technologies is central to this argument. At the same time, however, this implies that the unknowns and uncertainties are perceived as part of thinking. Cybernetics did not invent complexity, but it established complexity as a descriptive model. Complexity is a concept that has undergone several rediscoveries in the history of science. In the 1960s, complexity was “rediscovered” using Ilya Prigogine’s dissipative structures as a term for thermodynamically open organisations (Prigogine 1985, 488). It was followed by the rediscovery of complexity towards the end of the 20th century in complex adaptive systems (CAS) (Holland 1996; Michel 2009). I speak of rediscovery because complexity has its origins in thermodynamics (Stengers), where phenomena occur but the processes are inexplicable within the framework of mechanical laws; they are then found a technical application. With complexity we first mean not the contrast with simple objects, but a designation for new problems and challenges, which stem from the uselessness of the mechanical laws for the explanation of new physical processes. If time is not supposed to denote a return, all time-dependent processes are per se indeterminate and meanwhile unpredictable. This signifies a rupture in the worldview of a new age, in which the harmonious, orderly, reliable world – the mechanical age – is replaced with an unpredictable and uncertain worldview. In this philosophical context, where complexity is assumed based on dissipative structures or far from thermodynamic equilibrium, Prigogine has praised Wiener’s efforts towards a mathematics of irreversibility (Prigogine 2000, 826). However, if we note that Wiener’s contribution was to equate control engineering with communication engineering, the object of the problem changes. It is not that a communication paradigm models or modifies physical irreversibility. Instead, physical irreversibility – which Prigogine found based on dissipative structures to which Boltzmann attributed a probability value introducing the paradox of time by explaining the tendency of disorder and entropy – is tantamount to the miracle of emergence of new orders, new patterns, transfers this to a communication model. Cybernetics is the technical transfer of irreversibility or complexity to communication systems. In this respect, social systems are described as complex because they consist of communication. From this follows an irreversible turn with epistemological consequences: complexity becomes not a matter of reality, but a matter of description by means of communication. 2. From the Metaphysics of Objects to the Behaviour of Systems A theorem of cybernetics states that the acquisition of knowledge of irreversible processes is characterised by indeterminacy. This can be explicitly A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity Arantzazu Saratxaga Arregi 1.1. Short Excursus about Complexity 22 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 15 — 34 – the amalgamation of messaging technologies and mathematical calculations – would not have succeeded without the inclusion of irreversible time. The integration of irreversibility (one-pillar/one-sided/the arrow of time) makes the technical-mathematical discipline an epistemology and leads to new thinking or new philosophical approaches beyond the development of information technologies: towards an epistemological model of complex processes. Systemic Thinking and Interdisciplinarity A year before the publication of Behavior, Purpose and Teleology by Wiener, Bigelow and Rosenblueth and A Logical Calculus of the Ideas Immanent in Nervous Activity by Pitt and McCulloch, the seminar Cerebral Inhibition took place in 1942, organised by Frank Fremont Smith, the head of the Macy Foundation. The seminar fundamentally aimed at new approaches and initiatives in mental research. It was followed by a series of interdisciplinary meetings of scientists, including the social anthropologist Margaret Mead, the epistemologist and social scientist Gregory Bateson, the psychiatrist and psychoanalyst Lawrence Kubie, the neurophysiologists Warren McCulloch, Arturo Rosenblueth, and others. These meetings were followed by a series of so-called cybernetics conferences, led by Frank Fremont Smith and Warren McCulloch, who tried to bring together an interdisciplinary group of scientists with the aim of establishing a general science of research on the human brain. The result was neither the establishment of a general nor a universal science (Galison & Hevly 1992). The Macy conferences were most successful in establishing interdisciplinarity. Across the boundaries of all disciplines, they succeeded in creating a multidisciplinary exchange by developing a common vocabulary to refer to what was later called cybernetics: As an anthropologist, I have been interested in the impact of the theories of cybernetics on our society. I am not referring to computers or the electronic revolution as such, or to the end of knowledge’s dependencies on writing (...) In particular, I want to point to the importance of the interdisciplinary terms we initially called ‘feed-back’, then ‘teleological machine’, and then as ‘cybernetics’ – a form of interdisciplinary thinking that enabled members of many disciplines to communicate in a language that all could understand. (von Foerster 1993, 61) 23 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 15 — 34 3. A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity Arantzazu Saratxaga Arregi read about in Norbert Wiener, Julian Bigelow and Arturo Rosenblueth’s 1943 article Behavior, Purpose and Teleology, noting that purposefulness is an unpredictable yet computable phenomenon inherent in biological systems and self-regulating machines. The authors clearly state that teleology does not mean the determination of a goal, as in Aristotle, from which the cause of the system’s behaviour is to be derived. The ultimate goal or aim is not equal to the cause of the system. On the contrary, the inherent purposefulness of any system is said to be equal to the voluntary activity of the system (Rosenblueth et al. 1943, 18-24). This means that dynamic systems and time-dependent irreversible processes possess purposeful behaviour despite their unpredictability. They are unpredictable because their purposiveness is a free-floating activity: their autonomous self-regulation. The outstanding thesis, in my opinion, is not, as is usually said, that a method has been found to equate the behaviour of living beings and machines, but rather that, for the first time in the history of science, systemic behaviour, whether biological or artificial, is considered as a dynamic and irreversible process. This is because, in this sense, the system is thermodynamic, i.e. open to energy. It is a matter of defining the behaviour of a dynamic system in terms of its relationship with the outside world and its environment. A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity Arantzazu Saratxaga Arregi 24 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 15 — 34 Interdisciplinarity is considered the primary working method and the philosophical cornerstone of cybernetics. The aim was not to establish a universal science that unified all disciplines under a single umbrella, but rather to develop a systemic way of thinking that allowed communication to be interdisciplinary. In this respect, cybernetics, beyond being a scientific discipline, can be said to be a systemic discipline that prepares the way for philosophical principles. While a scientific method prioritises analytical thinking, systemic thinking seeks connections and relationships between the particles that make up a surrounding structure. The technical approach of a control system, in which the cause-effect relationships favour the composition of individual elements, makes use of a theoretical mode called “system”. “System” comes from σύστημα (systēma), a whole composed of several individual parts. Systemic thinking draws attention to the relations and bonds with each other and how new patterns and orders can emerge from them. In contrast to the analytical scientific method, systemic thinking focuses on relations and seeks wholes. It draws attention to the relations and bonds with each other and how new patterns and orders can emerge from these relations. Therefore, it can be considered a philosophical starting point. Philosophy has used systemic thinking as a holistic way of looking at things. The systemic approach of cybernetics already allowed for a philosophical starting point, especially relations and interactions via the particularity of the particles that make up the system. Everything is connected and forms a wholeness whose representation and representability can be called a pattern or a certain order. Interdisciplinarity and systemic thinking paved the way for a new field of science that dealt with interrelationships of effects in a whole. Each acting operator does not have a local effect on the operator subject to that effect (Ashby 1974) but, in a kind of butterfly effect, the systemic starting point presupposes a holistic effect context in which a local intervention has far-reaching consequences (von Bertalanffy 1928). Cybernetics addresses the behaviour of the components of a system over time. It directs attention to the possible relations and the behaviour of the system components in relation to the system as a whole (Ashby 1974, 89), the behaviour of which depends on time (Ashby 1974, 13). It searches for the principle of interaction between the inner relations of a system and the system as such, in the context of the dynamic of change. Cybernetic systemic behaviour is mutually conditioned, interactively presupposed and does not follow Aristotelian logic, so the totality of all lines of behaviour of a system constitutes a field of behaviour. Within reflexive feedback loops, information was defined by Claude Shannon as a measure of probability, and the development of the first mathematical scheme of a neuronal network was enforced by Pitts and McCulloch as a novelty, heralding the first research on artificial intelligence. However, the assertion of such concepts, which paved the way for artificial intelligence, robotics, operational research, etc., was not possible without the methodological approaches of interdisciplinarity and systems theory. After the Macy conferences, cybernetics became more than a scientific program that brought different disciplines and sciences together in one field of feedback mechanisms and found application in electronic New Challenges of Thinking 1. Circular Teleology In his book Cybernetics Wiener had already dealt with the scope of non-linear dynamics beyond the fields of application, and the fact that it is about the change of the state of a system of couplings and interactions between system/environment and coupled systems that influence each other. A self-regulating causality also underlies the non-linear processes, which every system strives for in the face of the respective expediency achieved and accomplished through negative feedback. This technical model responds to a logic of circularity. Hence, the Macy conferences were entitled “Cybernetics, circular causal, and feedback mechanisms in biological and social systems”. This was a philosophical starting point that ushered forth a new logic, a new mode of organising systems and of thought, with decisive epistemological effects and, above all, a break with the traditional, linear model of thought. First, circular causality describes cause-and-effect interactions: A causes B because via a feedback system B causes A (Klaus 1963). Only when feedback is almost 0 can we speak of linear causality, which means that the linear causal chain is only a special case of the feedback movement (Ashby 1974, 77), and not vice versa. However, this determines an organisation and a structure, which can be considered particularly circular if its own structures can only be built and changed through its own co-operations (Luhmann 1997, 93). 2. 25 Paradoxes of Self-referentiality The form of organisation derived from circular causality is called operative closure: «By closure I mean essentially nothing other than what the expression means in normal language usage: closed, beginning and end coincide, self-referral, uninfluenced, autonomous, etc.» (von Foerster 1987, 144). Closure is the formal representation of operative closure: of self-referential statements and recursive functions. Closed systems operate self-referentially. In the general case of circular reasoning, A implies B; B implies C; and to the general horror, C implies A. Or, in the reflexive case: A implies B; and B implies A. And now the devil’s split-foot in its purest form, in the form of self-reference: A implies A. (von Foerster 1993, 65) Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 15 — 34 C. A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity Arantzazu Saratxaga Arregi computing machine models. With the Macy conferences, problems arose out of conversations between participants, such as the notion of uncertainty and the question of knowledge as an order of observation, the treatment of which required new philosophical approaches. The inherent unpredictability of irreversible processes was also discussed, which required a new formal interpretation. Heinz von Foerster suggested a title for the series of conferences that took place between 1946 and 1953, the documentation of which he was responsible for: circular causality. A teleology of the 20th century had emerged (von Foerster 1997, 145). A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity Arantzazu Saratxaga Arregi 26 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 15 — 34 By self-referential systems, we mean systems whose actions refer back to themselves. In algebra, closed algebraic systems are defined as follows: «An algebraic system is said to be closed if the elements and operators are chosen in such a way that the operations on the elements always yield only elements of the system» (von Foerster 1987, 146). In biology they are called “autopoietic systems” (Maturana 1999, 149-168) and in formal language “theory of recursive functions”. «Recursive means to run through again, and by this is meant that the result of an operation is taken anew as the starting point for these operations» (von Foerster 1987, 149). According to Western thought, self-referential propositions are nonsensical propositions because they fall into a paradox when an element takes on two contradictory values. The paradox of Epimenides capably illustrates the paradoxes of self-referential propositions. «The proposition, ‘I am a liar’ is false (F) when taken to be true (W) and becomes true (W) when taken to be false, thus: W-F-W-F-W-F» (von Foerster 1995, 52). Aristotle declared all statements that do not fulfil the condition of being either true or false to be nonsensical. The excluded third (tertium non datur) is the description of any syllogistic construction that knows only two values: true or false. The theorem of the excluded third uses the principle of two-valued logic, which knows neither a non-linear dynamic concept of time nor perceives contradictions (Aristotelian logic was right about all logical systems for thousands of years). Modern mathematics and 20th century formal logic assigned value to contradictory statements and paradoxical thoughts, so that self-referential paradoxes or, in a strict formalism, logical relations, were not merely peripheral but played a central role in a consistent logical calculus. Bertrand Russel, for example, recognised philosophy’s problem with self-referential paradoxes and gave it a position in logic. With Whitehead’s Principa Mathematica, it became clear that the contradictions were trivial. With type theory, he tried to solve the contradictions of self-reference, as did Gödel’s incompleteness theorem. Self-referentiality, however, denotes an operational model for cybernetics. «Self-referentiality necessarily generates paradoxes and those logical structures that we need for a deeper understanding of the sensorimotor, autonomy and organizational closure to be discussed later» (von Foerster 1987, 137). The sentence “I am a liar” in fact says nothing more than that the truth value is presupposed by another value and that the self-referentiality of the sentence reveals a logical structure – circular causality – by which we mean that the result of an operation is taken once more as the starting point of these operations, etc. A position or operator can take on two values. If this sentence is understood statically, it is paradoxical, but if it is understood dynamically and with recognition of its complexity, it is operationally closed and the vicious circle opens up to the creative circle (von Foerster 1997, 51). Truefalse-true-false is the starting point of a non-stationary logic. An epistemology of self-referentiality only appears with the features of second-order cybernetics. With the problem of observation described by second-order cybernetics, an epistemological upheaval has taken place that bears the name of constructivism. Thus «constructivism does not understand the loss of ‘objectivity’ as a dilemma, but on the contrary as a fruitful question directive» (Baecker 1997, 22). The constructivist thesis states that the world of knowledge and experience, our world of Observing Objects The consequences of the logical model of circular causality are crucial for the justification of a cybernetic epistemology. Circular causality refers to processes whose internal emergence of order is not imposed by external causes, but rather brought about by the system components themselves. This means that within outside observation there can no longer be cognition, unless we define observation as a self-referential process, as Varela and Maturana define cognition: an autopoietic closed operation. Cognition is a possibility like perception and observation, whereby no outside is known, perceived or observed; it consists of operations that happen and come about in the circuit of cognition itself. The cohesiveness of the observing and observed system results in a whole and inseparable unity. This process must assert itself as the unfolding of a central paradox that Ranulph Glanville once summed up as: the same is different (Glanville 1988, 61-79). The point is that an object is self-observing and self-observed. However, this leads to a second contradiction: the paradox that the objects or subjects are the same and different, as Glanville suggested, «for the objective [has] been developed as something that knows it exists; it is different from other objects and in this respect unique. But if the object, in order to be itself, fills two roles, how can it be only one?» (Glanville 1988, 61). Things never become the same, but neither do they always become different; instead, they are both, insofar as observation comes about as an operation and is recognised through differentiation. Second-order cybernetics overcomes the subject/object dichotomy because there is neither a reality confronting the subject nor an entity recognising reality, i.e. the subject. In this respect, it is a matter of observational operations, observations that observe and observations that observe observation. In this way, objects are not realities external to observation; they are exclusively enclosed in the experience of a subject’s own sensorimotor coordination, i.e. “objects” are thoroughly subjective because they are perceived or, in the words of second-order cybernetics, observed objects. Conversely, it can also be argued that subjects are at the same time objects, as Glanville states, insofar as they, the subjects, can be observed. However, the conversion of subject/object into observation operations does not solve the problem. The conversion from subject/object to observation operations nonetheless encounters epistemological objections. The first objection addresses the question: how can objects be grasped, recognised at all, if there is no more operation than that outside observation? It thus deals with a danger that has always been discussed within the philosophy of the subject’s identity in connection with the problem of alterity, when the subject is so caught up in its own A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity Arantzazu Saratxaga Arregi 3. 27 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 15 — 34 order, symmetry, concepts, numbers, laws of nature, even objects, is invented, not discovered. Niklas Luhmann, Heinz von Foerster, Humberto Maturana and Francisco Varela had all argued for the epistemological consequences of operational closure. The inner recursive closed organisational structures of complex systems do not raise the problem of control and regulation of discourse, but of observation. HvF: My friend Gordon Pask once made a beautiful drawing illustrating this situation. You see a man with a bowler hat who claims he is alone. And this man imagines another who is also wearing a melon; he too thought that the other whom he in turn imagines does not exist at all and is solely a concoction of his imagination. Now the following case could arise in our imagination: A man who thinks solipsistically meets another who holds the same view. BP: Now the question arises as to who is right: the first or the second solipsist. A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity Arantzazu Saratxaga Arregi observation that no social knowledge comes about and it is unable to recognise others. If this exists that I can know it and if I exist thanks to, I knowing that I exist, how could this exist if it does not know that it exists? (Glanville 1988, 23-24). The danger of solipsism has been considered by both Heinz von Foerster and Ranulph Glanville: HvF: That is the crux of the matter. At this point in our conversation, to clarify the matter further, I would like to serve you the so-called principle of relativity. The principle of relativity says that a hypothesis that is true for A and B can only be acceptable if it is also true for A and B together (...) The principle of relativity creates a form in which the environment and the other person can be talked about again. And the moment I postulate the existence of the other and my own existence, I live in a relationship and community, participation arises; one suddenly becomes a co-sufferer for whom it is no longer possible to find an excuse for one’s own indifference through references to an external reality. This decision, which 28 I am proposing here, makes one a social being. To conceive of the world as an invention is to conceive of oneself as its maker; responsibility for its existence arises. Thus, the operative theories propose a collective epistemology as a way out of the problem. To this end, we will not use doubt as the methodological path: the alienation of the self for the sake of self-realisation; but rather, the solipsistic opinion of the Cartesian method is rejected in favour of a cooperative and collective network of observations or observational positions. The way out of solipsism is as self-evident and simple as the fact that the observer is an observer: an observer and observer. Insofar as the person is an observer, observation is enclosed in operative closure, so that the realisation of observation succeeds in the network of observations. This means that objects and subjects are produced by an attestation. «Obviously this happens only when a subject S establishes the existence of another subject S, not unlike itself, which in turn asserts the existence of another subject, not unlike itself, which may be identical with S» or subject becomes object, insofar as the objects can observe themselves through others (Glanville 1988, 29). Through the eyes of others suggests that the operative response to uncertainty is the affirmation of the blind spot of every observation as a methodological approach to collective cognition. As we have already seen, the deconstruction of the ontological standpoint falls neither into relativism nor solipsism but forms the basis of an epistemology of complex objects, phenomena and interactions, whose ontological claim lies less in the truth value than in the operative Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 15 — 34 (von Foerster 2006, 28) Thinking Complexity: When Uncertainity Becomes Operative 1. Metaphor of Unknown I: Blind Spot A solipsistic position, which falls into both relativism and absolute truth claims, follows the approach that the observer is always identical and congruent with their observations. However, cognition adhering to an operative point of view is excluded in the case of being able to see everything. The statement that there is no external position of observation results from the approaches of operative unity results. «The unity of the world cannot be observed from the outside» (Luhmann 1997, 95). If it can, this can only be a blind observation. These statements summarise the principle of an epistemology of operational closure, whereby a border or an event horizon is presupposed for all observation, since we cannot observe everything. Humberto Maturana dealt with the neurocognitive research of perception and cognition of reality, in particular with field research on the retina of frogs (Maturana 2012, 23) and their neurobiological equipment of the nervous system. He noticed that the blind spot – that part of the visual field where there are no light receptors of the retina – plays a decisive role in mammalian perception. This neurobiological fact enabled Maturana and Varela to understand observation as an autopoietic process: that no knowledge can be gained outside of observation. In the same sense, the neurobiologists Maturana and Varela attribute the blind spot to the environment, “autopoietic systems are blind to their environment” in that the environment is a τόπος (topos) external to the orders of systemic observation. As already mentioned, the blind spot does not deny a world outside observation, as relativist or solipsistic positions claim. It also would not make sense to suggest that there is an environment affirmed, but as a difference between system and environment, otherwise the concept of the system boundary, which presupposes that there is another side. The thesis of operational constructivism does not lead to a “loss of the world”; it does not deny that reality exists. It does presuppose the world not as an object, but in the sense of phenomenology as a horizon, unattainable but perceivable. Thus, there remains no other possibility than: «Constructing reality and possibly: observing observers constructing reality» (Luhmann 1996, 18). Establishing limitations of observation by using the metaphor of the blind spot reflects that there cannot be a world as an object or as a subject, just as there is no object without an observing subject and no subject without an observed object. The correlative and interacting level between the classical concepts of logical identity (I versus you) presupposes that an outside represents a blind spot for perception and for cognition (Luhmann 1990, 15). Yet this does not mean that its perception is excluded from cognition. It is observable as a blind spot. The limitation of observing refers to the unobservability of inner observing, since the observer cannot observe themself. This is based on second-order observation. The observer, after all, remains unobserved in a first-order observation. However, their gaze does not necessarily remain A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity Arantzazu Saratxaga Arregi D. 29 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 15 — 34 act of making distinctions as a means of constructing realities (Glanville 1988, 108). As today’s widely accepted operative epistemology teaches us, all observing takes place in the world as a process that is itself observable; all observing presupposes a demarcation across which the observer can observe something else; all observing A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity Arantzazu Saratxaga Arregi fixed on the thing; they are responsible for observing observations. Operational theories, especially those of the neurobiologists Maturana and Varela, as well as the socio-cybernetics of Niklas Luhmann and Gotthard Günther, interpret the loss of sight of the blind spot not only as a phenomenon of the absence of perception, but as a condition of the possibility of cognition, that is, the non-seeing as a condition of the possibility of seeing. Cybernetics combines indeterminacy and non-perception as a condition for the expansion of cognition. Non-seeing is neither a limit nor a restriction, but an opening for possibilities. The incompleteness of all observations, the fact that a person cannot see everything, becomes a transcendental or possible presupposition of a theory of cognition for the operative theory. thus constitutes the incompleteness of observations by withdrawing itself and the difference that is constitutive of it from observation; observing must thus engage in a blind spot, thanks to which it can see something (but not everything). (Luhmann 1997, 95) Metaphor of Unknown II: Black Box The blind spot that extends cognition to the areas of unobservability, due to which unobservability becomes observable, is equal or analogous to a fundamental component of classical cybernetic machines: the control machines. The theoretical input/output term invented by James Clerk Maxwell, which is called the “black box”, and which Norbert Wiener uses in his book, functions as the basis for this. Thanks to him, the machine can keep running by guaranteeing its dynamic non-linearity and fulfilling its purposeful behaviour, its self-regulation. The black box is contrasted with the white box by describing the latter as an obviously recognisable mechanism, in contrast to the black box, whose determinacy is hidden from the view of observers (Glanville 1988, 101). To the outside, if the relationship cannot be revealed, we speak of the black box; the transformation that is observed does not necessarily correspond to what is actually playing out within (Glanville 1988, 102), but is instead a description of the observers (Glanville 1988, 102). Once again it is confirmed that the description of the observer can never be complete or, in other words, is always limited, because the observer cannot see everything. The inability to see everything is based on an immediate principle of operative thinking, second-order cybernetics. If we were to reveal the black box, we would trivialise a regulating machine and, with a classical view of determining causal chains, destroy the self-regulating machine. According to von Foerster, the mechanism of the black box underlies every information machine, even a non-trivial machine. Ashby defined the black box as part of the cybernetic machine, as that space «in which the transformations and transmutations of the system» occur (1974, 175). The observed transformation of the input that takes place within the black box is interpreted as its structure. 30 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 15 — 34 2. Philosophically, this is a profound and fundamental notion, for it allows us to accept that our means of observation are ultimately in no way sufficient to give us a complete picture of whatever is going on, but that this does not prevent us from creating images and acting accordingly, even if we do not know what is going on inside the black box. (Glanville 1988, 101) According to cybernetic-operational thought, the only thing we can be certain of is the limitations of cognition, of observation. This epistemological standpoint has its ontological correlate, since indeed a non-observable reality may be the only conception «which we, as apparently independent observers, can entertain of things» (Glanville 1988, 103). From this, Glanville draws a correlation between the black box and the observer’s uncertainty, making ignorance the condition of the possibility of cognition (Glanville 2012, 427). Second-order cybernetics came to the realisation that it had designed an epistemology that precisely creates unobservability as a precondition for cognition. This turn in the epistemology of the history (and philosophy) of the occident had already been announced by physics, but it could not have been implemented without the insights of first-order cybernetics, as a design of circularity and as the design of circular causal machines, to which the inclusion of irreversible time is owed. Whether the thesis of cybernetics is correct, that humanity experiences the fourth wounding (Sloterdijk 2017, 227), and whether knowledge saves us from it and shows us new ways of knowing the world, depends very much on whether we remain with the technical description of cybernetics or allow the philosophical background of a knowledge to emerge. This pays attention to interrelations, systems, interactions, paradoxes and irreversibility as principles and the basis of a worldview. The notions of becoming, uncertainty and blind spot announce the loss of all classical truth values about a reality whose processes run independently in permanent dynamics and transformation. The maintenance of these processes only occurs when the intervention of the observers admits their indeterminacy, as a condition of their development. In fact, such dynamics are not comprehensible, any more than the subject is able to grasp everything through different methods. They can only be understood in cooperative forms of cognition when we do not see our own observation. 3.1. Operational Epistemologies: Operability of Uncertainty for a Thinking Complexity Experts from different branches of complexity research, such as biology, ecology, economics and neuropsychology (Casdagli & Eubank 1992; Cowan & Meltzer 1999), agree that the concept of complexity cannot be assigned to a single field (Harold 1995). Complexity is the main subject of a whole range of disciplines using methods so diverse that complexity research cannot be attributed to a single problem or method (Lloyd 2001, 7-8). Heylighen, Cilliers and Gershenson even claim that complexity science is an amalgam of models, methods and metaphors from a variety of disciplines, which does not indicate an integrated science (Heylighen et al. A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity Arantzazu Saratxaga Arregi Re-entry of Uncertainty as the Foundation of Thinking 31 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 15 — 34 3. A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity Arantzazu Saratxaga Arregi 32 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 15 — 34 2007). Ladyman, Lambert and Wiesner also argue that a general definition of complexity science would compromise its diversity because it would be reductionist and contradictory (Ladyman et al. 2013, 34). Nevertheless, there is agreement on its scientific model. This points to a decisive break with classical science (Heylighen 1997) and its place in the paradigm of post-Newtonian science (Waldrop 1992). This assumption can be linked to the theses of Isabelle Stengers and Ilya Prigogine, who used the term “science of the complex” to refer to the turn from the mechanistic to the thermodynamic paradigm of science (Prigogine & Stengers 1981, 109ff.). This turn has led to the conclusion that our knowledge of the world is fundamentally uncertain (Prigogine & Stengers 1997). Complexity simply means that it is impossible to build a model that accounts for the sudden and unexpected “changes” in the state of the system. The cybernetic model of thought, with its notion of blind spots, provides solutions and opens research avenues to redefine the transformations of the classical conditions of epistemic parameters. Arendt, H. (1971). Vom Leben des Geistes. München-Zürich: Pipper. Ashby, W. R. (1974). Einführung in die Kybernetik. Frankfurt a.M: Suhrkamp. Baecker, D. (1997). Kybernetik zweiter Ordnung. In Schmidt, S. J. (ed), Heinz von Foerster. Wissen und Gewissen (17-24). 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È stato Visiting Fellow presso l’Université Paris Diderot e la Oxford Brookes University. marco.ferrari.2@unipd.it — NORBERT WIENER — CYBERNETICS — RELATIVISM — INFORMATION — FEEDBACK — TELEOLOGY 37 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 37 — 55 The paper provides a survey of Norbert Wiener’s scientific work prior to the publication of Cybernetics. Within it, an attempt is made to identify the philosophical-scientific background of cybernetics and to reconstruct the generative process of its main concepts. In conclusion, on the basis of this inquiry, a novel definition of “what we talk about when we talk about cybernetics” is proposed and, on this basis, opens up the need for its critical questioning by philosophy. I. Il terreno filosofico della cibernetica Philosopher despite himself, come lui stesso si è definito, l’avviamento intellettuale del padre della cibernetica si è sviluppato, a tutti gli effetti, sotto una luce specificamente filosofica. William James frequenta regolarmente la casa paterna e nel 1906 lo invita personalmente alle sue Lowell Lectures, il cui contenuto confluirà in Pragmatism. Nel biennio che trascorre ad Harvard, viene direttamente a contatto con il New Realism di Ralph Barton Perry, l’idealismo di Josiah Royce e il realismo critico di George Santayana e, indirettamente, con il pragmatismo di Charles Sanders Peirce e l’idealismo di Francis Herbert Bradley. Nel periodo di post-dottorato presso le Università di Cambridge, Gottinga e Columbia La cibernetica prima della cibernetica. Marco Ferrari L’obiettivo che ci prefiggiamo attraverso questo lavoro è duplice, malgrado sia sorretto da un’unica ipotesi di partenza. La nostra ipotesi è che se, da un lato, i testi più noti di Norbert Wiener, vale a dire le due edizioni di Cybernetics (1948 e 1961) e The Human Use of Human Beings (1950 e 1954), permettono di difendere tesi anche molto differenti l’una dall’altra riguardo a che cosa sia la cibernetica, dall’altro, uno sguardo più ampio sulla sua produzione (ecco il primo dei nostri obiettivi) – che interroghi, pertanto, anche testi molto meno noti e risalenti al periodo cosiddetto “pre-cibernetico” – consenta, non tanto di dire la verità circa l’essenza di quell’«oggetto epistemologico straordinario, che è ben lontano da tutte le consuetudini di genere» (Triclot 2008, 8) che è la cibernetica, quanto piuttosto di delimitarne i confini con un più ampio grado di perspicuità epistemologica (Le Roux 2018). Infatti – pace alcune dichiarazioni dello stesso Wiener –, è nostra convinzione, e proveremo a dimostrarlo, che Cybernetics non rappresenti nel modo più assoluto il frutto di un lavoro di scrittura di qualche mese – un lavoro che si sarebbe riverberato in una «forma piuttosto insoddisfacente» (Wiener 2017, 465) e in una serie di errori di calcolo nelle equazioni che non passarono inosservati alla gran parte dei recensori –, ma la sistematizzazione di un complesso di considerazioni di natura teorica prodotte nel corso di decenni. Unicamente tale ampliamento del grado di perspicuità epistemologica consente, a nostro avviso, di identificare quello che, con Gilbert Simondon, definiremmo il modo di esistenza della cibernetica (ecco il secondo dei nostri obiettivi), entro i confini del quale, solamente, diventa possibile arrischiare una sua definizione unitaria e identificare in che cosa consista quella che definiremmo la sua singolarità storico-epocale. Facendo leva su una nota provocazione di Gregory Bateson (1976, 518-519), ci riferiremo alla cibernetica come a un “frutto dell’Albero della Conoscenza” e, attraverso una ricognizione approfondita dei lavori di Wiener anteriori alla pubblicazione-evento di Cybernetics, proveremo a ricostruirne, rispettivamente, i) il terreno filosofico, ii) le radici scientifiche e iii) i fiori tecnici. Infine, sulla scorta di tale ricognizione (meno preformista di quanto potrebbe apparire) proveremo ad avanzare alcune tesi circa la consistenza epistemologica di questo frutto e il tipo di interrogazione filosofica che dovrebbe interessarlo. 38 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 37 — 55 Introduzione La cibernetica prima della cibernetica. Marco Ferrari 39 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 37 — 55 frequenta e interagisce con Bertrand Russell, George Edward Moore, John Ellis McTaggart, Edmund Husserl, David Hilbert e John Dewey. La gran parte di queste frequentazioni troverà un depositato all’interno della produzione scientifica del Wiener di quegli anni e, più ampiamente, ognuna di esse lo segnerà in una qualche misura. Tuttavia, è indubbiamente la sensibilità pragmatista a incontrare maggiormente l’interesse del matematico americano che, a nove anni, aveva prodotto una, ancorché acerba, «dimostrazione filosofica dell’incompletezza di tutta la conoscenza» (Wiener 2017, 75), intitolata Theory of Ignorance. In un articolo del 1914, intitolato emblematicamente Relativism, troviamo l’espressione più coerente, da parte di Wiener, del suo confronto con questo tipo di sensibilità. Si tratta essenzialmente di una riflessione gnoseologica. Dopo essersi confrontato criticamente tanto con una prospettiva realista à la Moore, quanto con una prospettiva idealista à là Bradley, la tesi avanzata dal matematico americano è che nessuna conoscenza è, a priori e come tale, autosufficiente e che «se nessuna conoscenza è autosufficiente, allora nessuna conoscenza è assolutamente certa» (Relativism (1914) [R], in Wiener 1985 (d’ora in poi CW4), 55-56). Non sarebbero un’eccezione, continua Wiener, né le leggi della geometria – che «non derivano semplicemente dagli assiomi della geometria» –, né le cosiddette “leggi del pensiero”. Tale posizione, da cui conseguono tre tesi, ovverosia che «nessuna esperienza è autosufficiente, [...] nessuna conoscenza è assolutamente certa, [...] nessuna conoscenza è semplicemente derivata» (R, 56), è denominata dal matematico americano, per l’appunto, ‘relativism’ ed è immediatamente accostata, da un lato, al pragmatismo e, dall’altro, alla metafisica di Bergson. Tanto il pragmatismo, quanto il bergsonismo, come noto, si sviluppano a partire da una critica all’intellettualismo delle metafisiche formaliste – le metafisiche del dato, a cui contrappongono una metafisica del processo –, da un lato, e, dall’altro, a quella metafisica della scienza, che riposa sul paradigma meccanicistico e rigidamente deterministico inaugurato dalla fisica moderna e che, tanto la scoperta delle leggi della termodinamica, quanto l’evoluzionismo e più in generale le scienze della vita avevano cominciato e mettere in crisi. Tuttavia, per quanto concerne la nostra analisi, ad essere produttivi più che i tratti di consonanza sono i punti di discrimine che Wiener intravede tra il suo relativismo e il pragmatismo e il bergsonismo. Il primo sarebbe colpevole, in un certo senso, di non essere abbastanza pragmatico, quando assurge il «criterio di verità pragmatico» a «criterio definitivo» (R, 57). Le colpe ascritte al secondo sono, invece, più interessanti. L’accusa di Wiener a Bergson, infatti, è tutt’altro che originale, ma, al contempo, estremamente sintomatica. Al filosofo francese è rimproverato il fatto di scadere in una forma di dualismo intellettualista che gli impedirebbe di cogliere «la vera natura delle cose», dal momento che «tratta il mondo come se fosse costituito da due metà assolutamente separate e inconciliabili» (R, 59). Wiener ne enumera alcune: durata omogenea e tempo matematico, fini e meccanismi, vita e materia, linguaggio e pensiero. E, malgrado il matematico americano non la ponga in questi termini, aggiungiamo noi, metafisica e scienza. «Bergson – afferma, infatti, emblematicamente La cibernetica prima della cibernetica. Marco Ferrari 40 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 37 — 55 Wiener – ritiene che le scienze fisiche e la matematica abbiano a che fare con nozioni assolutamente rigide», mentre secondo il matematico americano esse, al pari di ogni altra disciplina intellettuale, «trattano concetti non perfettamente definiti» (R, 60). Perfino nel caso della matematica, considerata la più astratta e formale delle discipline, nessun insieme di regole potrà mai esaurire le condizioni di validità di una singola deduzione e, di conseguenza, come si impegnerà a dimostrare lui stesso un anno dopo in un articolo provocatoriamente intitolato Is mathematical certainty absolute?, certificare aprioristicamente l’esistenza di una certezza assoluta. Quello perpetuato da Bergson, secondo Wiener, è allora piuttosto un fraintendimento della natura della matematica e delle scienze naturali che lo costringe a convocare una sorta di «intuizione sistematica» tramite cui riusciremmo a percepire «immediatamente la natura più intima della realtà» (R, 60) e, così facendo, ad abbracciare una qualche forma di misticismo. La strada che imbocca Wiener, invece, è un’altra e ci sembra passi attraverso due convinzioni di fondo. La prima riguarda il fatto che negare la certezza non significa affatto negare la possibilità della conoscenza, ma piuttosto rideterminarne radicalmente le condizioni di possibilità. La seconda, sulla quale ci assumiamo il rischio dell’interpretazione, è che tale conoscenza non potrà che esercitarsi nella forma della conoscenza scientifica e non attraverso un qualche genere di intuizione immediata. Non ci interessa, in questo contesto, discutere la legittimità o meno della critica di Wiener a Bergson, quanto piuttosto insistere sulla sintomaticità della posizione wieneriana. [1] [1] Per una lettura differente del tra Bergson e la scienza, che, «Bergson – conclude così la sua critica il matematico ame- rapporto a nostro avviso, potrebbe essere utile ricano – mette in piedi un mulino a vento, lo chiama rileggere proprio alla luce dei contenuti di questo contribuito, cfr. Serres (1977, scienza fisica e poi lo attacca valorosamente. Ma è solo per- 127-142). ché quello che attacca è un mulino a vento e non la vera scienza, che ne esce vittorioso» (R, 60). Ma se il mulino a vento di Bergson rappresenta una scienza falsa, costruita ad hoc per delegittimarne l’attività, quali sono i caratteri della “vera scienza” di cui parla Wiener? Che cos’è una scienza relativistica? È lui stesso, nell’ultima parte dell’articolo, a fornirci alcune informazioni per provare ad abbozzare una risposta. Lo scienziato è un «vero e proprio relativista» nella misura in cui è conscio del fatto che i suoi strumenti possono fornire solamente «letture approssimative»; che le sue osservazioni possono registrare solo «approssimativamente» le letture dei suoi strumenti; che le leggi e le formule sono «mere approssimazioni» (R, 65, corsivi nostri), ecc. Contrariamente al mito della certezza assoluta, da un lato, e all’immediatezza dell’intuizione bergsoniana, dall’altro, lo stigma della scienza relativistica risiederebbe nella condivisione di una sorta di semantica dell’approssimazione. E, tuttavia, è nostra convinzione che, a quest’altezza della riflessione wieneriana, tale stigma non sia quello di una scienza relativistica, ma piuttosto della scienza che in quanto tale condivide una postura relativistica – opera secondo approssimazione e si evolve per approssimazioni. Se, da un lato, pertanto, Wiener eredita dal pragmatismo e dal bergsonismo una postura anti-intellettualista, non ci sembra che, a questa altezza, erediti anche il portato della critica che essi hanno diretto nei confronti della metafisica della scienza moderna – della sua La cibernetica prima della cibernetica. Marco Ferrari 41 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 37 — 55 postura meccanicistica e rigidamente deterministica – o che, perlomeno, non lo faccia in maniera pienamente consapevole. Per certi versi è proprio il tipo di critica che rivolge al bergsonismo che gli impedisce di intravedere in esso – come ha affermato da una prospettiva radicalmente altra Michel Serres – «l’indicatore, il segno di un mutamento di paradigma all’interno della scienza» (Serres 1977, 132). Sono particolarmente indicativi di questa ambivalenza – soprattutto se si tiene conto delle posizioni che Wiener assumerà di lì a poco –, a un estremo, un testo inedito risalente più o meno agli stessi anni (1910-1913), intitolato The Place of Teleology in Science, dove il futuro padre della cibernetica delegittima totalmente l’utilizzo di una categoria come quella di teleologia all’interno della scienza. «In una scienza pienamente sviluppata – afferma – [...] la teleologia non troverebbe alcuno spazio» (citato in Le Roux 2014, 36). All’estremo opposto, un testo di pochi anni successivo, ovverosia la voce Mechanism and vitalism, che compila, tra il 1917 e il 1918, per l’Encyclopedia Americana, dove, dopo aver affermato che «[l]a meccanica newtoniana ha rappresentato a lungo un ideale per tutte le scienze naturali per l’eleganza della sua forma e la chiarezza delle sue definizioni», riconosce anche che «tutte le spiegazioni meccaniche dei processi viventi sono destinate ad essere di natura estremamente sommaria» e, in chiusura, dichiara, suggerendo emblematicamente di consultare L’evoluzione creatrice di Bergson: «Di conseguenza, sembra che il meccanicismo sia metodologicamente corretto, anche se metafisicamente sbagliato» (Mechanism and vitalism (19181920), in CW4, 968-969). Come non leggere in questa chiusura ad effetto una certa insoddisfazione – perlomeno per quanto concerne il dominio epistemico della biologia – per la “pochezza” del meccanicismo e, al contempo, un’eguale incapacità di separarsene del tutto in assenza di un metodo altrettanto efficace (correttezza metodologica)? Un metodo che non è rilevabile all’altezza di quel vitalismo dalle definizioni estremamente «vaghe» e che, tuttavia, si fa portavoce di una protesta epistemologica che non può essere messa a tacere (verità metafisica). Quello che il Wiener-filosofo di quegli anni non riesce ancora a vedere è che proprio quanto lui stesso ha proposto all’interno del suo articolo del 1914 potrebbe rappresentare un importante spunto di riflessione in questo senso; una via d’uscita che consentirebbe di relegare tale opposizione «nel limbo dei problemi mal posti» (Wiener 1982, 72), per dirla con una perifrasi che Wiener stesso utilizzerà qualche anno più tardi. La «gnoseologia fallibilista» (Montagnini 2005, 46) di Relativism getta a tutti gli effetti le fondamenta epistemologiche di quella che diverrà la cibernetica – del riassestamento che essa produrrà rispetto alle fondamenta epistemologiche della scienza moderna, tutte interne a un paradigma meccanicistico e rigidamente deterministico che, proprio in quegli anni, stava mostrando sempre di più la propria inadeguatezza. Sarà tuttavia necessario il Wiener-scienziato degli anni successivi per definire con precisione i motivi e i contorni di tale rottura e del suo conseguente riassestamento. E, tuttavia, con Relativism, per quanto lo stesso Wiener a questa altezza non ne sia ancora del tutto consapevole, il terreno filosofico della cibernetica è predisposto ed è pronto ad accogliere le sue radici scientifiche. La storia della scienza è costellata di aneddoti – veri o falsi che siano, non importa – riguardanti una specifica interazione dello scienziato con il contesto entro il quale è inserito che funge da innesco per la produzione di un pensiero, solitamente di portata rivoluzionaria. La mela di Newton, gli esperimenti di Galilei dalla Torre di Pisa. Wiener in questo senso non è da meno. È lui stesso, nel secondo volume della sua autobiografia, a raccontarci qualcosa di simile che si può dire abbia assolto all’interno del suo percorso intellettuale la medesima funzione della mela e delle biglie. Il matematico americano, dopo una serie di tentativi falliti di ottenere una posizione stabile come professore di logica presso il dipartimento di filosofia di Harvard, nel 1919 approda al MIT. Lì, le «onde sempre mutevoli» (Wiener 2017, 244) del fiume Charles, che intravede dalle finestre del suo studio, concentrano la sua attenzione di matematico. Esse sembrano fornire a Wiener una conferma materiale della plausibilità delle tesi che aveva sviluppato nel suo saggio filosofico di qualche anno prima. Le variazioni delle onde, infatti, richiedevano un approfondimento scientifico della semantica dell’approssimazione che lui stesso aveva posto al centro della sua riflessione epistemologica. Come ha opportunamente rilevato Marcello Cini, il problema che il matematico americano si stava ponendo osservando il fiume Charles (Wiener 2017, 245) non era quello dell’idrodinamica classica – frutto dell’estensione delle leggi della meccanica newtoniana dei corpi puntiformi ai fluidi prima ideali e poi reali. Non si trattava per Wiener di ricondurre il “comportamento” delle onde a una legge generale, ma piuttosto di trovare una legge generale capace di «“descrivere” il flusso di quel fiume, [...] rappresentare la mutevolezza e la varietà di quelle onde, [...] riprodurre le caratteristiche peculiari di quel “processo” inventando il formalismo adatto per fornire una descrizione accurata e dettagliata di come esso si svolge» (Cini 1994, 110-111). Esattamente come dall’impossibilità della certezza assoluta sarebbe stato scorretto desumere l’impossibilità della conoscenza, dall’attestazione della mutevolezza e del disordine del mondo non doveva essere ricavata l’impossibilità di rintracciare al suo interno dei regimi di regolarità. Tale regolarità, tuttavia, non poteva essere quella rigidamente deterministica delle scienze newtoniane; doveva essere una regolarità di tipo nuovo, capace, dirà Wiener qualche anno più tardi, di prendere in considerazione l’incertezza e la contingenza degli eventi. Una regolarità, insomma, statistica e probabilistica – ecco la traduzione in termini scientifici della semantica dell’approssimazione –, non assolutamente certa e fondata su regole generali. La ricerca di questo nuovo linguaggio da parte di Wiener comincia nel 1919, con una serie di studi consacrati all’integrale di Lebesgue, che lo portano a interessarsi sempre più al cosiddetto moto browniano e, tramite esso, a incrociare le ricerche di Willard Gibbs. Di lui Wiener parlerà come della «più grande stella mai comparsa nel firmamento scientifico statunitense» (Wiener 1994, 41) e di uno dei punti di riferimento intellettuale più importanti della sua vita (Wiener 2017, 245). Anche per quanto concerne la nostra analisi l’incontro con Gibbs e la meccanica statistica rappresentano una svolta fondamentale. Se, infatti, da un lato, accostando alle modifiche apportate all’integrale di La cibernetica prima della cibernetica. Marco Ferrari Le radici scientifiche della cibernetica 42 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 37 — 55 II. La cibernetica prima della cibernetica. Marco Ferrari 43 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 37 — 55 Lebesgue i principi della meccanica statistica di Gibbs, Wiener svilupperà una descrizione matematica del moto browniano estremamente innovativa, [2] dall’altro, attraverso l’in- [2] Successivamente, utilizzando i della matematica stocastica contro con la meccanica statistica, comincia a prendere metodi messi a punto per il moto browniano, forma, all’interno della mente di Wiener, la convinzione Wiener produrrà una serie di lavori alla cosiddetta analisi dell’insufficienza, dapprima all’interno della fisica e, poi, consacrati armonica generalizzata che lo più in generale, relativamente alla Scienza in quanto tale, consacreranno in quanto matematico. un inquadramento sintetico del del paradigma meccanicistico e rigidamente determini- Per lavoro matematico di Wiener, che stico newtoniano. all’interno di questo contributo verrà lasciato sullo sfondo, si veda Chatterji Il primo lavoro in cui tale questione è inquadrata (1994). con nettezza e rigore teorico è abbastanza tardo. Risale, infatti, al 1932 ed è curiosamente dedicato a Leibniz. Si tratta di un articolo che potremmo definire di contro-storia della fisica o, più radicalmente, di archeologia della fisica. Al fine di superare le impasse del presente, infatti, Wiener si rivolge al passato, nello specifico «all’epoca precedente a Newton o, al più tardi, all’epoca in cui la fisica newtoniana era essa stessa una teoria alternativa che lottava per essere riconosciuta» (Back to Leibniz! (1932) [BL], in CW4, 76). Quali siano i termini di queste impasse, Wiener ce lo dice chiaramente sin dalle prime righe del testo. I fondamenti logici della fisica newtoniana sono in crisi. Come osserverà lo stesso Wiener qualche anno più tardi, i «nuovi lavori di Gibbs, di Max Planck e di Albert Einstein [avevano] dimostrato che la sintesi newtoniana della scienza era relativamente inadeguata per i nuovi esperimenti e le nuove osservazioni, proprio come nel caso della sintesi aristotelica del secolo XVII» (Wiener 1994, 89). E tuttavia, se, da un lato, tanto la teoria della relatività, quanto la teoria dei quanti ne suonano le campane a morto, dall’altro, nessuna di esse è in grado di porsi come quella «sintesi di idee, che non sarà certamente conclusiva, ma ci fornirà una nuova base sulla quale la fisica potrà operare per decenni se non per secoli» (Wiener 1969, 265). È a questo fine che, in questo articolo, il matematico americano chiama in soccorso la storia. Il contesto all’interno del quale si sviluppa l’analisi è, come dicevamo, quello dei dibattiti sette-ottocenteschi interni alla fisica, prima che si imponesse, in via definitiva, il modello newtoniano. Wiener si riferisce abbastanza classicamente all’opposizione tra Huyghens e Newton che trovava il suo precipitato più evidente nelle loro due differenti teorie riguardo alla natura della luce: ondulatoria per il primo e corpuscolare per il secondo. A metà tra Newton e Huyghens si collocava, ci dice Wiener, un allievo di quest’ultimo, Leibniz, vero protagonista dell’articolo. La filosofia di Leibniz è interrogata da Wiener in qualità di potenziale precorritrice di molte delle tesi più attuali della riflessione scientifica in ambito fisico. Tuttavia, l’accostamento che, sintomaticamente, concentra maggiormente la sua attenzione è quello tra l’ottimismo leibniziano, che si declina, come noto, nella convinzione secondo cui tra vari mondi possibili dio avrebbe scelto il presente in quanto migliore, e i principi della meccanica statistica, dove, ugualmente, questi altri mondi possibili «sono considerati dal punto di vista della probabilità» (BL, 79). «In parole povere – afferma Wiener –, le proposizioni della meccanica statistica non affermano nulla su ogni singolo mondo possibile, ma piuttosto sulla stragrande maggioranza di tutti i mondi possibili» (BL, 79). La cibernetica prima della cibernetica. Marco Ferrari 44 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 37 — 55 Il che, tradotto, significa che tali proposizioni non determinano, meccanicisticamente, che cosa accade o accadrà a un elemento x a determinate condizioni in un istante determinato, ma piuttosto che cosa potrebbe accadergli, e sono così in grado di fornirci informazioni precise circa il comportamento possibile, o meglio probabile, di tutte le entità, anche al di fuori della ristretta casistica generale propria di un orientamento di tipo newtoniano. È evidente che mettendo in atto un’operazione di questo tipo Wiener non sta affatto – come recita provocatoriamente il sottotitolo dell’articolo – facendo rioccupare alla fisica una posizione abbandonata. A cavallo, avrebbe probabilmente detto Louis Althusser, tra uno scienziato che esplicita la propria “filosofia spontanea” e un filosofo che “sfrutta” la scienza, egli sta, al contrario, da un lato, provando a gettare le basi per una fisica post-newtoniana, utilizzando come bussola la meccanica statistica di Gibbs. Dall’altro, sta elaborando, qui come altrove, una sorta di contro-storia della scienza – quella degli «eroi che hanno preceduto Newton» (Quantum mechanics, Haldane and Leibniz (1934), in CW4, 80) – teleologicamente orientata alla consacrazione, nel presente, di una nuova postura, differente da quella newtoniana. Tutto ciò rende evidente come, attraverso queste operazioni, Wiener non si stia occupando di rilevare solamente una rottura all’interno del dominio epistemico specifico della fisica, ma stia cartografando, più ampiamente e generalmente, un cambio di passo che riguarda la Scienza in quanto tale. In un articolo del 1958, dirà, in relazione alla teoria dell’integrazione di Lebesgue da cui tutto era partito, che essa «trova applicazione non solo nella matematica e nella fisica moderna, ma nella Scienza in generale» e affermerà, relativamente al rapporto di quest’ultima con i principi della meccanica statistica di Gibbs: «Credo che il punto di vista probabilistico debba essere considerato come fondamentale nella Scienza e non come un’aggiunta effettuata a posteriori» (Logique, probabilité et méthode des sciences physique (1959), in Wiener 1979b (d’ora in poi CW3), 537). In un altro articolo, a riconferma di ciò, prendendo ad esempio la teoria darwiniana dell’evoluzione, farà osservare come «[l]e scoperte di Gibbs hanno reso possibile un nuovo atteggiamento nei confronti di varie branche non fisiche della scienza che si erano sviluppate nel XIX secolo» (Time and the science of organization (1958), in CW4, 248). Emerge, così, potentemente, come il riferimento a Gibbs e alla meccanica statistica – e, più ampiamente, a quello che definirà l’«impatto del punto di vista gibbsiano sulla vita moderna» (Wiener 1988, 11) – abbia esercitato all’interno della riflessione wieneriana una funzione che va ben oltre quella di una semplice incursione all’interno del dominio fisico. Esso, da un lato, ha rappresentato, per Wiener, l’occasione di rivolgersi alla storia della scienza in maniera inedita rispetto alla prospettiva quasi-atemporale che troviamo ancora nelle pagine di Relativism; dall’altro, gli ha reso visibili i limiti non solo della fisica newtoniana, ma anche della fondazione newtoniana della Scienza, mettendolo nelle condizioni di riflettere circa la possibilità di adottare un’altra immagine di essa. Un metodo scientifico, scriverà Wiener qualche anno più tardi, capace di prendere in considerazione la contingenza (Wiener 1988, 8) – di credere più accettabile la prospettiva di un universo contingente, piuttosto I fiori tecnici della cibernetica nascita della cibernetica, arrivando talvolta a definire quest’ultima «una parte intrinseca della meccanica statistica». Cfr. Thermodynamics of the message (1955), in CW4, 206-211. «Se si prendono in considerazione i primi vent’anni di questo secolo – afferma Wiener in un’opera pubblicata postuma –, si può dire che il rapido sviluppo della nuova fisica non newtoniana non ebbe molte occasioni di contaminare le acque correnti dell’invenzione prima dell’inizio della prima guerra mondiale» (Wiener 1994, 102). Le conseguenze più significative, da questo punto di vista, potevano essere riscontrate nel settore di quella che stava configurandosi come ingegneria delle telecomunicazioni. Lo stesso Wiener – che negli anni della Prima guerra mondiale era impegnato, tra vecchia Europa e Stati Uniti, a fare i conti con il suo “divenire-matematico” –, sulla fine degli anni Venti, è proprio in questo settore che fece precipitare per la prima volta in ambito più direttamente tecnico i suoi lavori sul moto browniano e l’analisi armonica generalizzata. L’approdo al MIT e i contatti con il suo corpo docente incisero molto nel direzionare questi suoi interessi. Tuttavia, fu sempre in qualità di matematico, quando non addirittura di filosofo, che prese in carico tali questioni. Probabilmente, fu proprio questo tipo di sensibilità a consentirgli di inquadrare i) il problema della natura del tipo di «merce da trasportare attraverso un sistema telefonico» (Hartley 1926, 26) – com’era definita in modo vago quella che, di lì a poco, avrebbe preso il ben più noto nome di “informazione” – e ii) la maniera di avere a che fare con essa. Fu proprio il retroterra scientifico a cui ci siamo riferiti nel paragrafo precedente a fargli ipotizzare che le correnti deboli di cui erano costituiti i nuovi segnali elettronici necessitassero per essere comprese di grandezze del tutto nuove che nulla avevano a che fare con quelle utilizzate fino a quel momento nel campo dell’ingegneria elettrica, fondate essenzialmente sul concetto di “energia” (A New Concept of Communication Engineering (1949), in CW4, 197-199). L’intuizione di Wiener fu di non considerare tali correnti come degli oggetti concreti che si spostavano seguendo traiettorie fisse e nemmeno come fenomeni subatomici governati dai nuovi principi della meccanica quantistica, ma al pari di onde che conducevano messaggi e che 45 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 37 — 55 III. La cibernetica prima della cibernetica. Marco Ferrari che quella di un «mondo rigidamente deterministico» (Wiener 1988, 11) – e rimpiazzare il determinismo rigido con quello che definirà tanto «determinismo incompleto» (Wiener 1988, 11), quanto «indeterminismo qualificato» (Wiener 2017, 97). Nel capitolo che apre il secondo volume della sua autobiografia – quasi a parziale conferma della linea di continuità che stiamo cercando di tracciare – il futuro padre della cibernetica afferma: «Quando sono arrivato al MIT, ero intellettualmente preparato ad essere influenzato dal lavoro di Gibbs» (Wiener 2017, 45). Si trattava, allora, come avevamo anticipato, di innestare all’interno di un terreno filosofico adeguatamente “preparato” a tale fine le radici scientifiche da cui sarebbe poi derivata la cibernetica. La prospettiva dischiusa dalla meccanica statistica – e da tutto quanto ha orbitato attorno a essa – ha consentito esattamente di mettere in atto questo tipo di operazione. [3] Non restava che [3] Wiener non cesserà mai di riconoscere la centralità assolta dalla assistere allo sbocciare dei fiori. meccanica statistica in relazione alla La cibernetica prima della cibernetica. Marco Ferrari 46 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 37 — 55 – come i movimenti delle particelle nel moto browniano – non andavano indagate con certezza, ma sulle basi delle leggi della probabilità. Data la natura di questi messaggi, che Wiener già in quegli anni definiva «una sorta di matrice di quantità misurabili distribuite nel tempo» (Wiener 1964, 2) – «precisamente ciò che gli statistici chiamano una serie temporale» (Wiener 1982, 32) –, gli strumenti della matematica statistica si rivelavano quelli più adeguati a porre in essere questo genere di operazioni. Esattamente come nella meccanica statistica di Gibbs, infatti, misurare un messaggio significava calcolare, alla sorgente, la sua percentuale di probabilità all’interno di un «repertorio di messaggi possibili» (Wiener 1964, 2); avere a che fare non tanto con «ciò che si dice effettivamente, quanto [con] ciò che si potrebbe dire» (Shannon & Weaver, 19832, 8). Alla grandezza quantificata attraverso tali processi di misurazione si diede l’appellativo di informazione. Per facilitarne la comprensione, Warren Weaver, nell’introduzione che scrisse a The Mathematical Theory of Communication di Shannon, ne parlerà come di «una misura della libertà di scelta che si ha quando si sceglie un messaggio» (Shannon & Weaver, 19832, 8). Allo stesso modo, nel capitolo di Cybernetics consacrato alla trattazione dei concetti di informazione e comunicazione, Wiener la inquadrerà, nella sua forma più elementare, nei termini della «registrazione di una scelta tra due semplici alternative equiprobabili, una delle quali deve necessariamente verificarsi: la scelta, per esempio, fra testa e croce nel lancio di una moneta» (Wiener 1982, 92). A un tasso di probabilità molto basso – di incertezza crescente – corrisponderà una quantità di informazione molto alta e viceversa. Com’è stato mostrato, ampiamente e dettagliatamente (Segal 2003), tale concetto di informazione troverà la sua compiuta formalizzazione matematica solo a partire dal 1948 – annus mirabilis in cui videro la luce sia la prima edizione di Cybernetics che l’articolo di Shannon, A Mathematical Theory of Communication. E, tuttavia, è nostra convinzione che già nelle intuizioni wieneriane di fine anni Venti siano presenti, perlomeno in nuce, alcuni dei concetti fondamentali di quelle che diverranno la teoria dell’informazione e la cibernetica. Da un lato, in una serie di lavori estremamente tecnici consacrati all’analisi armonica, infatti, si può dire che egli «edificò le nuova fondamenta logiche e matematiche dell’ingegneria della comunicazione in forma di scienza statistica» (Conway & Siegelman 2005, 97; The operational calculus (1926), in Wiener 1979a (d’ora in poi CW2), 397-424; The armonic analysis of irregular motion (1926), in CW2, 112-166). Dall’altro, supervisionando il lavoro di uno dei suoi dottorandi, Yuk Wing Lee (Terrien 2002), si impegnò nella progettazione di una serie di reti di circuiti elettrici, arrivando perfino a brevettarne una. Se nel primo caso a essere in gioco erano i futuri concetti di messaggio e informazione; nel secondo, ve n’era un terzo che avrebbe assunto un ruolo forse ancora più centrale, tanto nello sviluppo della teoria dell’informazione, quanto in quello della cibernetica, ovverosia il concetto di rumore. Infatti, se, da un lato, agli ingegneri elettronici importava senza dubbio trovare il modo di misurare la quantità d’informazione presente in un messaggio, dall’altro, essi ritenevano ugualmente rilevante vegliare affinché tale messaggio fosse recapitato “integro” a destinazione, riducendo al minimo tutti quei disturbi (noise) che potevano interessare la trasmissione di quest’ultimo. La cibernetica prima della cibernetica. Marco Ferrari 47 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 37 — 55 Tuttavia, per una serie di ragioni che non possiamo, in questo contesto, prendere in esame nel loro complesso, la teoria dell’informazione non esaurisce il dominio della cibernetica. [4] Ancora più radicalmente, Shannon non è Wiener. E non tanto perché [4] Per una chiarificazione approfondita di questa tesi, ci le loro formalizzazioni matematiche del concetto di infor- permettiamo di rinviare a Ferrari mazione divergono; e nemmeno perché, come ha soste- (2021). nuto gran parte della letteratura scientifica esistente, in Wiener il concetto di informazione coinciderebbe con la riduzione della libertà di scelta e, di conseguenza, dell’incertezza, laddove in Shannon indicherebbe l’esatto opposto (cfr. da ultimo Malaspina 2018). Shannon non è Wiener e la teoria della comunicazione non è la cibernetica perché in essa è assente un concetto che per quest’ultima è invece fondamentale, a un punto tale da avere portato molti commentatori – non certo senza ragione – ad elevarlo a suo vero punto di discrimine: il concetto di feedback. Se per quanto concerne la filiera dell’ingegneria delle telecomunicazioni, il primo conflitto mondiale può avere esercitato una funzione d’accelerazione di qualche tipo, affinché un concetto come quello di feedback potesse realmente incontrare l’attenzione di Wiener si dovette attendere la Seconda guerra mondiale, nella forma di un’occasione di pensiero fornitagli da uno studio sull’artiglieria contraerea. Si trattava per l’ennesima volta di affrontare un problema di ordine statistico: predire la posizione futura di un’entità x – in questo caso un velocissimo aereo da guerra –, basandosi sulle migliori informazioni disponibili. Il condensato teorico più interessante delle lunghe e travagliate ricerche di un biennio – condotte al MIT, al fianco di un ingegnere dell’IBM, Julian Bigelow, che assolverà una funzione centrale nello sviluppo della cibernetica – si trova all’interno di una monografia conclusa da Wiener nel febbraio del 1942, ma, a causa dell’imposizione del segreto militare, pubblicata ufficialmente solo nel 1949. Negli anni della guerra era nota come Yellow Peril; nel 1949 fu invece pubblicata, in una versione rivista, con il titolo Extrapolation, Interpolation, and Smoothing of Stationary Time Series. Si tratta di un documento composto nella maggioranza delle sue parti da calcoli estremamente complessi. Quanto interessa a noi, tuttavia, è la primissima parte del testo nella quale è possibile individuare i contorni di un programma teorico che va ben oltre quello preposto alla costruzione di un congegno predittore e descrive piuttosto quella che, qualche anno più tardi, Wiener avrebbe identificato come «la filosofia generale del problema» (My connection with cybernetics (1958), in CW4, 114). Per capirlo è sufficiente leggere le prime righe del testo, nelle quali il matematico americano circoscrive fin da subito la finalità del lavoro. «Questo libro rappresenta un tentativo di unire la teoria e la pratica di due campi di lavoro [...] quello delle serie temporali in statistica e quello dell’ingegneria delle comunicazioni» (Wiener 1964, 1). All’interno di questo documento – tale è la nostra lettura – le radici scientifiche della cibernetica e i suoi fiori tecnici trovano sintesi e continuità. E, infatti, ci ritroviamo, in bella copia, tutti i concetti di cui abbiamo cercato di rintracciare le origini fino a questo momento (messaggio, informazione, rumore…), insieme a un monito che è contemporaneamente una dichiarazione d’intenti: «L’unità di questo libro è metodologica» (Wiener La cibernetica prima della cibernetica. Marco Ferrari 48 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 37 — 55 1964, 23). Quasi una parafrasi di quello che, qualche anno dopo, Wiener dirà della cibernetica nel corso di un’intervista alla rivista francese Atomes: «L’unità della cibernetica è metodologica» (Wiener 1951, 292). Ma ci troviamo soprattutto – sebbene il termine ancora non compaia – il concetto di feedback o, perlomeno, i suoi germi. Infatti, affinché il predittore antiaereo alla cui realizzazione Wiener e Bigelow stavano lavorando potesse essere messo nelle condizioni di «lanciare il proiettile non sul bersaglio, ma in modo tale che proiettile e bersaglio [giungessero] a incontrarsi nello spazio in un certo istante nel futuro» (Wiener 1982, 37), non era sufficiente estrapolare la traiettoria presente dell’aereo e calcolarne la probabile traiettoria futura. Tale mansione era certamente quella per cui il Wiener-scienziato era stato chiamato in causa e rappresentava senza dubbio una componente fondamentale dell’impresa. E, tuttavia, non era sufficiente. Al Wiener-scienziato doveva subentrare il Wiener-tecnico. Al calcolo della previsione doveva essere affiancata una riflessione su quello che potremmo definire il comportamento tanto del predittore, quanto dell’aviatore nemico. Lo scoppio del proiettile produceva, infatti, una variazione del comportamento del pilota e, di conseguenza, della traiettoria dell’aereo. Era, pertanto, necessario che un radar fornisse le informazioni sulla rotta dell’aereo nemico a un sistema di calcolo. Attraverso gli strumenti formali della teoria della previsione/probabilità il sistema di calcolo avrebbe potuto così prevedere la posizione futura dell’aereo e orientare il predittore. Infine, dopo il (primo) colpo, era però necessario che il radar comunicasse al sistema la misura dell’errore di tiro e che il calcolatore effettuasse automaticamente la correzione della mira. E così via. In base ai dati ricevuti dal calcolatore il predittore “correggeva” il proprio comportamento, ri-direzionando di continuo il fine della propria azione. L’ingegneria delle comunicazioni del tempo possedeva, più che un concetto, un termine preciso per identificare i dispositivi utilizzati per regolare o per controllare una grandezza meccanica in modo continuo nel tempo: servomeccanismi. E, non a caso, nello Yellow Peril Wiener si riferisce a quest’ultimo come a una delle tecnologie chiave del ramo ingegneristico, che era necessario fare convergere con le conquiste più avanzate della riflessione statistica. Malgrado il termine feedback fosse ancora ignoto al gergo degli ingegneri, nel funzionamento dei servomeccanismi era possibile scorgere esattamente la messa in opera di tale principio. Instradato da Bigelow, Wiener ne afferrò all’istante l’importanza per la teoria dei circuiti, la progettazione dei servomeccanismi e il nuovo ambito del calcolo elettronico. E, tuttavia, non si limitò a fare ciò. Comprese fin da subito come non era solo il predittore a comportarsi come un servomeccanismo, ma anche il pilota dell’aereo nemico, il quale in base alla traiettoria dei proiettili sparati da quest’ultimo era portato a variare di conseguenza la traiettoria del suo stesso mezzo. «[I]l pilota si comporta come un servomeccanismo» (A.A. Directors. Summary Report of Demonstration (1942), citato in Masani 1990, 189, corsivo nostro), scrive Wiener in un report di lavoro inedito di quel biennio. È all’altezza di questa intuizione che, a nostro avviso, deve essere collocato il passaggio dal principio di funzionamento dei servomeccanismi come “concetto” specifico dell’ingegneria delle comunicazioni al feedback come concetto generale della cibernetica. La cibernetica prima della cibernetica. Marco Ferrari 49 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 37 — 55 Al pieno sviluppo di tale intuizione contribuirà il confronto di Wiener con una sua vecchia conoscenza. Un neurofisiologo messicano, Arturo Rosenblueth, che proprio in quegli anni presso l’Harvard Medical School, sotto la supervisione di un oltremodo noto Walter B. Cannon, stava conducendo delle ricerche sui meccanismi di feedback nell’essere umano. Al fine di rilevare l’importanza assolta da Rosenblueth nello sviluppo della cibernetica, sarà sufficiente ricordare come esso compaia in qualità di dedicatario di Cybernetics. Lui e Wiener si erano conosciuti agli inizi degli anni Trenta e avevano condiviso fin da subito un pronunciato interesse per le questioni di metodologia scientifica, nonché «la convinzione che le aree più propizie allo sviluppo delle scienze fossero quelle che erano state trascurate come terra di nessuno (no man’s land) fra i vari campi esplorati» (Wiener 1982, 24). Il concetto di feedback sembrava rappresentare la prova più evidente della correttezza di tale convinzione. Si potrebbe, da questo punto di vista, alleviare un po’ il senso di vergogna di Konrad Lorenz che, nel suo celebre libro sui fondamenti dell’etologia, si risente del fatto che i biologi siano giunti a valutare «la grande importanza del processo circolare auto-regolatore dell’omeostasi solo dopo che questo era stato inventato dai tecnici della regolazione» (Lorenz 2011, 72-73). Quello di feedback, infatti, è un concetto che si può dire si sviluppi fin da subito a cavallo tra ingegneria e neurofisiologia, un po’ correggendo il tiro, un po’ amplificando molte delle nozioni appartenenti alle storie pregresse di entrambi i domini scientifici. Infatti, così come sul piano degli studi ingegneristici il concetto di feedback era stato anticipato dalle ricerche sui servomeccanismi; su quello degli studi neurofisiologici si può dire che il concetto di omeostasi abbia esercitato la medesima funzione precorritrice. Quest’ultimo è un concetto che, sebbene sia stato teorizzato (ma sarebbe meglio dire nominato) ufficialmente solo nei primi anni del Novecento da Cannon è soggetto a una storia più ampia che comincia con gli studi sui meccanismi della digestione – in particolare quelli deputati all’assorbimento degli zuccheri – del fisiologo francese Claude Bernard e si conclude, perlomeno per quanto riguarda lo spettro d’interesse della nostra analisi, con la generalizzazione di esso, ben al di fuori dei confini della (neuro)fisiologia, messa in atto dalla cibernetica. «Claude Bernard qui genuit Cannon qui genuit Rosenblueth apud Wiener» – afferma Georges Canguilhem (1992, 78) in un importante studio dedicato alla formazione del concetto di regolazione biologica. [5] A partire dai suoi studi sulla digestione, infatti, [5] Per un inquadramento al contempo sintetico e completo della questione, Bernard arriva a teorizzare l’esistenza, nell’organismo, di cfr. Cooper (2008). una serie di meccanismi di regolazione deputati al mantenimento di quello che sarà definito ambiente interno – milieu intérieur – in uno stato di equilibrio e stabilità. L’idea di fondo era che la condizione fondamentale per il darsi della vita di un organismo (complesso) dovesse essere rilevata nella capacità del suo ambiente interno di mantenersi stabile. «La fissità dell’ambiente interno – scrive Bernard– rappresenta la condizione della vita libera, indipendente» (Bernard 1878, 113). Condizione che supponeva «un miglioramento dell’organismo tale per cui le variazioni esterne fossero sempre compensate ed equilibrate» e dove, pertanto, l’equilibrio non proveniva da una regolazione intesa come La cibernetica prima della cibernetica. Marco Ferrari 50 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 37 — 55 conservazione e riproduzione senza variazioni delle costanti iniziali, ma piuttosto «da una continua e delicata compensazione istituita come dalla più sensibile delle bilance» (Bernard 1878, 113). Sia osservato per inciso: non l’orologio secondo una fortunata metafora dell’organismo diffusasi a partire da Descartes, ma la bilancia o, ancora meglio, quella macchina a vapore che Bernard chiamerà in causa in alcuni dei suoi scritti (Bernard 2014, 50) e che, secondo Wiener (1988, 151-152), rappresenterebbe uno dei primi esempi materiali dell’utilizzo dei servomeccanismi. In alcuni dei numerosi saggi che ha dedicato alla figura del fisiologo francese Canguilhem ha opportunamente osservato come Bernard fosse riuscito, grazie alle sue ricerche sui meccanismi di regolazione, a «essere determinista senza essere meccanicista». Un atteggiamento che gli derivava dal fatto di essere stato giusto con il vitalismo (in modo particolare quello di Xavier Bichat), trattandolo «come errore e non come sciocchezza» (Canguilhem 2019, 426), vale a dire intercettando quella che, con Wiener, potremmo chiamare la sua “verità metafisica”, senza, tuttavia, abbracciarne le possibili conseguenze irrazionaliste e indeterministiche, ma ricollocando quest’ultima all’interno di un nuovo genere di “correttezza metodologica”. In questo senso, non solo è possibile rilevare nei meccanismi di regolazione di Bernard i precursori del feedback, ma anche nel suo determinismo non-meccanicistico, una prima forma di quel determinismo teleologico con cui la cibernetica sancirà il suo riassestamento definitivo dell’immagine della Scienza. Con il concetto di omeostasi Cannon (1926) si pose esplicitamente in continuità con le ricerche di Bernard sull’ambiente interno e i meccanismi di regolazione deputati al mantenimento di quest’ultimo entro un regime di stabilità attiva, a tal punto che, come ha osservato correttamente lo stesso Wiener, nella parola “omeostasi” «le nozioni di Claude Bernard si cristallizzano» (The Concept of Homeostasis in Medecine (1953), in CW4, 386). Il fisiologo americano, forse perché meno filosofo del suo progenitore francese, non si pose mai la questione di se e quale tipo di determinismo fosse compatibile con il concetto di omeostasi. Si limitò a ribadirne il carattere di condizione imprescindibile per la perpetuazione dell’esistenza dell’essere vivente. Se, come affermerà Wiener, «la questione dello scopo della vita [...] non ha una risposta chiara», è tuttavia certo che tale scopo sia un obiettivo «da mantenere attraverso l’omeostasi» (Science and society (1961), in CW4, 774). Qualunque sia lo scopo, insomma, è unicamente attraverso il mantenimento dinamico della stabilità e dell’equilibrio che esso potrà essere raggiunto. Infine, Rosenblueth apud Wiener. Come abbiamo detto, negli anni in cui Wiener e Rosenblueth si conobbero quest’ultimo stava conducendo i propri studi sui meccanismi neurofisiologici di retroazione sotto la supervisione di Cannon. Com’è stato opportunamente rilevato da Steven J. Cooper, egli costituì in questo senso «il ponte intellettuale tra la fisiologia omeostatica di Cannon e la visione della cibernetica di Wiener» (Cooper 2008, 425). L’aria di famiglia tra il concetto di omeostasi, o, meglio, di meccanismo omeostatico, e quello di feedback è indubbiamente evidente. Tuttavia, contrariamente a quanto ha affermato Canguilhem, nel caso di Rosenblueth e Wiener non si trattò tanto di “generazione”, quanto piuttosto di “generalizzazione”. Nel passaggio da Bernard a Cannon a essere in 51 Conclusione. Di cosa parliamo quando parliamo di cibernetica? In uno scritto inedito a cui ci siamo già riferiti, databile tra il 1910 e il 1913 e intitolato The Place of Teleology in Science, il giovane Wiener dichiarava con nettezza che «cercare di spiegare i fenomeni naturali a partire dal perseguimento di un fine è sempre segno di un cattivo metodo scientifico o di una ricerca carente, malgrado possa costituire una comoda scorciatoia per esprimere dei fatti connessi ma spiegati in maniera imperfetta, come quelli riguardanti l’evoluzione del vivente» e chiosava, con altrettanta nettezza: «In una scienza pienamente sviluppata, tuttavia, la teleologia non troverebbe alcuno spazio» (citato in Le Roux 2014, 36). Trent’anni più tardi, in un articolo scritto a sei mani con Bigelow e Rosenblueth intitolato Behavior, purpose and teleology e considerato dai più il vero atto di nascita della cibernetica, quello stesso Wiener, facendo leva sul concetto di feedback, pone invece in rilievo proprio i concetti di fine e teleologia; concetti che – scrivono i tre proto-cibernetici – «anche se oggi sono piuttosto screditati, hanno una grande importanza» (Rosenblueth et al. 1964 [BPT], 100). Raccontando del suo primo incontro con Wiener, Warren McCulloch, altro protagonista di spicco della storia della cibernetica, dirà: «L’ho visto per la prima volta a cena con Rosenblueth, quando insieme a Bigelow stavano meccanizzando la teleologia» (McCulloch 1965, 16, corsivo nostro). Meccanizzando la teleologia, ossia, nella nostra ipotesi, collocando una “verità metafisica” screditata (tramite la riduzione della teleologia a un «concetto vago di “causa finale”» (BPT, 102)) all’altezza della nuova “correttezza metodologica” che stava andando producendosi. Infatti, malgrado Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 37 — 55 IV. La cibernetica prima della cibernetica. Marco Ferrari gioco era l’evoluzione di un concetto propriamente biologico. In quello da quest’ultimo a Wiener, tramite Rosenblueth, a prodursi è un’estensione del concetto al di fuori dei confini del suo originario dominio epistemico. In un primo momento, attraverso il rilevamento di una similitudine tra l’esercizio dei meccanismi di retroazione nei viventi e nelle macchine di nuova generazione. Poi, attraverso l’assunzione del feedback a concetto fondamentale della cibernetica, testimoniato, tra le altre cose, dal tentativo problematico di estendere tale similitudine anche al sociale. A questa generalizzazione consegue, ovviamente, anche una generalizzazione del concetto di omeostasi in quanto tale e della semantica dell’equilibrio dinamico e della stabilità attiva che esso si trascina sin da Bernard (Wiener 1991). Proprio quest’ultimo fattore conferisce al feedback una caratteristica che era assente o, quantomeno, non immediatamente evidente, all’altezza della sua altra matrice (ingegneristica) e che lo pone in connessione diretta con un altro concetto fondamentale: quello di organizzazione. [6] [6] Cfr. Problems of organization (1953), in CW4, 391: «Il concetto Non è questo il contesto per mostrare fino a che di organizzazione è intimamente punto tale connessione si rivelerà centrale per l’avvenire connesso al concetto di omeostasi di della cibernetica (Bardin & Ferrari 2022). Non ci rimane, Claude Bernard. […]». dunque, che constatare come – dopo quelli di messaggio e informazione – con la definizione del concetto di feedback si presenzi allo sbocciare di quello che probabilmente è il fiore più rigoglioso dell’albero della cibernetica. La guerra stava finendo, non rimaneva che raccoglierne i frutti. La cibernetica prima della cibernetica. Marco Ferrari 52 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 37 — 55 i tre autori affermino che «[u]na discussione sulla causalità, il determinismo e le cause finali [andasse] oltre gli intenti [del loro] saggio» (BPT, 104), ciò che ne fuoriesce è una deformazione importante del determinismo rigidamente meccanicistico del «modello newtoniano» (Wiener 1982, 62) e della specifica idea di mondo ad esso connessa: un «mondo organizzato in modo rigido» in cui «tutto il futuro dipende strettamente da tutto il passato» (The application of physics to medicine (1960), in CW4, 258). Un determinismo teleologico in cui il relativismo filosofico, il probabilismo scientifico e i concetti di messaggio, informazione, feedback, rumore, ecc., trovano il proprio punto d’arrivo e, al contempo, il quadro epistemologico che rende possibile una loro inedita ri-declinazione. Dell’acqua passata sotto i ponti nel corso di questi trent’anni abbiamo cercato di (cominciare a) rendere conto attraverso questo contributo. Contrariamente a quanto sostiene gran parte della letteratura esistente, infatti, siamo convinti sia a quest’altezza che bisogna guardare se ci si vuole impegnare nel tentativo di fornire una risposta – che non sia meramente apofatica – alla domanda, certo problematica, ma inevitabile: di cosa parliamo quando parliamo di cibernetica? Quanto possiamo derivare da questo primo attraversamento è, innanzitutto, che non parliamo di un fatto, ma piuttosto di un evento, o, meglio del punto di capitone di un lento processo genetico sotterraneo di cui Cibernetica – nel doppio senso della pubblicazione-evento di Wiener e del complesso fenomeno che da essa è scaturito – rappresenta l’atto di nominazione. Un lento processo da cui l’immagine della Scienza e della consistenza ontologica del mondo verso cui essa dirige la sua comprensione fuoriesce radicalmente modificata. [7] Dopo il 1943, infatti, attraverso una serie di eventi che vanno dalle [7] Cfr. Wiener (1982, 62): «Non esiste sola scienza che si conformi Macy Conferences alla pubblicazione di Cybernetics e una esattamente al modello newtoniano». The Human Use of Human Beings, nel giro di pochi anni vengono gettate le basi per «un nuovo quadro concettuale di riferimento per l’indagine scientifica» (Frank 1948, 192). Un «nuovo Discorso sul metodo», come lo definirà Simondon (in press), che si estenderà – riorientandone l’esercizio – a un vasto spettro di domini epistemici. Produrre un’investigazione critica, oltre che una più completa ricostruzione storica, dei caratteri di tale postura – dentro alla più ampia storia dei tentativi di fondazione aprioristica delle pratiche scientifiche – andava molto al di là dei propositi di questo contributo. [8] Quasi ottant’anni dopo la pubblicazione di [8] Abbiamo intrapreso un percorso di questo tipo in Ferrari & Bardin (2022) e, Cybernetics, tuttavia, dentro a quegli stessi domini epi- più ampiamente, in Ferrari (2021). stemici in cui avevano trovato ampia diffusione, molti dei paradigmi derivati dalla cibernetica cominciano ad essere riconsiderati, spesso, nondimeno, senza essere completamente dismessi. Più radicalmente, accade che tali paradigmi agiscano a tutti gli effetti come ostacoli epistemologici – nel senso specifico che Gaston Bachelard attribuiva a tale termine –, impedendo un reale esercizio delle pratiche scientifiche stesse. [9] [9] Sia sufficiente, a titolo meramente fare riferimento al Tutto ciò rende, a nostro avviso, improcrastinabile esemplificativo, caso del fantasma molto concreto del un’operazione di comprensione rigorosa dell’evento-ciber- genocentrismo in biologia. Sul tema, netica da parte della filosofia. Soprattutto di quella filoso- cfr. Kupiec (2021); Soto et al. (2016). fia che si vuole orientata e condizionata dall’esercizio delle pratiche scientifiche e, al contempo, potenzialmente alleata di queste La cibernetica prima della cibernetica. Marco Ferrari 53 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 37 — 55 ultime (Cesaroni 2020; Ferrari & Minozzi 2022). Se, da un lato, infatti, solo un’interrogazione critica – normativa, ratificante e giudicata, per dirla ancora una volta con Bachelard – potrà rendere visibili i suoi impensati, dall’altro, senza una corretta ricognizione di ciò che la cibernetica ha provato a pensare, essa, come spesso accade, rischierebbe di incorrere nell’ennesima riproposizione di una versione semplicemente differente del medesimo “pensato”. [10] [10] Per una prima chiarificazione, alla riflessione simondoniana, Il “frutto dell’Albero della Conoscenza” di cui interna dei modi di questa interrogazione, ci abbiamo cominciato a ricostruire lo sviluppo dovrà diven- permettiamo di rinviare a Ferrari in tare, dunque, parte integrante della sua dieta, vigilando, press. tuttavia, affinché la sua digestione non porti con sé un sonno, differente da quello antropologico (Pias 2005), ma potenzialmente altrettanto, se non maggiormente, profondo. Bernard, C. (1878). Leçons sur les phénomènes de la vie, communs aux animaux et aux végétaux, Paris: B. Baillière et fils. Bernard, C. (2014). Il progresso nelle scienze fisiologiche. In Un determinismo armoniosamente subordinato. Epistemologia, fisiologia e definizione della vita (4760). A cura di D. Salottolo. Milano-Udine: Mimesis. Canguilhem, G. (1992). La formazione del concetto di regolazione biologica nel XVIII e nel XIX secolo. 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Le sue aree di studio includono il pensiero russo, le teorie dello spazio, le filosofie del vivente. francesco.vitalirosati@unito.it — BIOSPHERE — ORGANIZATION — COSMISM — ECOLOGY 57 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 57 — 68 The biosphere is a great machinery of mutual transmutations, resulting in growing extension and heterogeneity. Organic and inorganic matter is caught in progressive cycles of transformation of cosmic radiation into active energy. Such was the great discovery of the Russian geochemist V. I. Vernadsky, who in 1926 developed the first coherent model of Earth’s organization as a single integrated system, ultimately framing human experience itself as a planetary phenomenon: the Noosphere. This was also the clearest expression of a peculiar intellectual tradition: in the same years, Bogdanov’s general theory of organization (Tektology) coupled atmosphere and biosphere in co-evolutionary dynamics between living wholes, each one achieving self-regulation by means of positive and negative selection. Finally, Florensky’s engineering work, concerned with geometry of electrical fields and discontinuous changes, lead him to describe any activity as a spontaneous process of spatial organization, in order to establish intersections among different fields of knowledge. This paper aims to discuss the main concepts of Soviet organizational theories (1920-1930), their common goal of overcoming boundaries between disciplines, as well as their theoretical coherence and relevance. It shall argue that a cosmist ecology, differently from a flat holism, outlines an ontology of recursive communication, amplification and mutual penetration. di altri mondi: abbiamo bisogno di uno specchio. Мы вовсе не хотим завоевывать никакой Космос. Мы хотим расширить Землю до его границ... Нам не нужно других миров. Нам нужно зеркало. A. Tarkovskij, Solaris (1979) Le teorie dell’organizzazione in Unione Sovietica (1920-1930) serbano una contraddizione insanabile: da un lato indagano sentieri inesplorati, pro2. ponendo modelli pioneristici di pensiero sistemico; dall’altro proseguono l’eccentrico progetto politico, tecnologico e artistico ottocentesco noto sotto il nome di cosmismo: [1] sogno [1] Categoria storiografica alquanto ambigua, generalmente indicativa di del visionario Nikolaj Fëdorov (1829-1903), la cui «filoso- un certo monismo onto-epistemico fia dell’opera comune» (философия общего дела, filo- composito di elementi mitologici e scientifici (Kline 2013), ma assurta di sofija obščego dela) programmava la conquista spaziale, frequente a chiave di lettura dell’intera coniando peraltro la fortunata immagine della nave spa- cultura russa di inizio secolo (Young ziale terra (Fëdorov 1982). L’utopia alchemica di una noo- 2012; Tagliagambe 2021). cosmogenesi, a un tempo espansione della vita e trasmutazione della materia inerte in attività cognitiva e autotrofica, costituirà un’eredità intellettuale pervasiva, raccolta, tra gli altri, da Konstantin E. 3. Ciolkovskij (1857-1935), fondatore della cosmonautica sovietica, e da Vladimir I. Vernadskij (1863-1945), pupillo di Mendeleev e padre delle scienze della terra (Bailes 1990). Nel caso di Vernadskij, oggi nume tutelare dell’ecologia (Deléage 1991, 197; Margulis 2000, 48), la profonda originalità della sua teoria biosferica elabora, già all’inizio degli anni venti, un ripensamento radicale dell’endiadi organismo-ambiente e, più in particolare, del fenomeno della vita terrestre alla luce del suo milieu cosmico: compenetrato da radiazioni solari ed elementi di corpi celesti, il vivente esprime la sua autonomia nella produzione attiva dello strato di ozono dell’atmosfera (Vernadskij 1999, 139). Contemporaneo di Vernadskij, Aleksander Malinovskij alias Bogdanov (1873-1928), medico, rivoluzionario e fondatore del Proletkul’t, pubblica nel 1922 una «scienza generale dell’organizzazione» impostata sui fenomeni di entropia negativa, plasticità e simbiosi, preconizzando, e verosimilmente ispirando [2] i modelli ciberne- [2] Von Bertalanffy era a conoscenza l’opera di Bogdanov, che preferì non tici e della teoria dei sistemi (Setrov 1967; Zeleny 1979). menzionare, così come Lovelock Attorno al concetto di organizzazione si dipana tacque a lungo sull’influsso di anche l’opera filosofico-matematica di Pavel Florenskij Vernadskij (Gorelik 1980; Capra 1996). (1882-1937), il cui studio assiduo della teoria dei campi, delle superfici irregolari e delle trasformazioni discontinue, lo conduce negli stessi anni alle soglie delle geometrie dei frattali: Nelle curve metereologiche, nelle traiettorie dei moti browniani, nelle superfici di alcuni cristalli… troviamo linee e superfici curve continue prive di tangenti, cioè funzioni continue senza derivata, che inducono ad ammettere un principio morfogenetico. D’altro canto […] la stabilità dei sistemi dinamici, i campi elettromagnetici, l’isteresi, necessitano di metodi radicalmente nuovi che accolgano il L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo Francesco Vitali Rosati Non vogliamo affatto conquistare il Cosmo. Vogliamo allargare la terra alle sue dimensioni… Non abbiamo bisogno 58 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 57 — 68 L’altra cosmologia ma (Florenskij 2007, 233). Le prospettive sistemiche della cosiddetta «età d’argento» delineano quindi una vera e propria ecologia ante litteram, foriera di modelli e concetti caratteristici, nonché, come tenteremo di mostrare, di rispettive ontologie. Una tradizione intellettuale peculiare, marcatamente anti-riduzionista, rivolta ecletticamente ai problemi di organizzazione (организация, organizazija), regolazione (регуляция, reguljazija) e autogenerazione (самозарождение, samozarozhdenie) [3] [3] Il concetto di самозарождение (samozarozhdenie: «autogenerazione», dei sistemi viventi, costituirà in Russia una vera e propria «generazione spontanea»), è al centro «scienza segreta» (Gödel, in Tagliagambe & Rispoli 2016, 85), del pensiero di Ciolkovskij (Salizzoni invisa dal regime e coinvolta nella dura repressione negli 1992, 105). anni trenta. Significativamente, l’elemento dominante di tali binari di ricerca è la dimensione spaziale: filo rosso della produzione intellettuale russa, il dinamismo dello spazio è convocato a esplicare, alla luce delle grandi innovazioni non euclidee, l’architettura in fieri del cosmo – ovvero il suo divenire-abitabile mediante dinamiche operative di costruzione (конструкция, konstrukzija) e composizione. Se per Vernadskij e Bogdanov la struttura dello spazio è essenzialmente il prodotto di una sinergia tra sistema e ambiente, per Florenskij la poiesi spaziale implica una costruzione della realtà caratterizzata dal sovrapporsi, entro sistemi di elementi strutturali (curve, direzioni, assi di simmetria), di schemi dinamici di significati che ne producono le condizioni di intelligibilità (Florenskij 1995, 90). Né contenitore assoluto newtoniano, né forma a priori della sensibilità kantiana, la spazialità permette perciò di tematizzare una molteplicità di sistemi di riferimento volti a riorganizzare i rapporti sociali di una cultura nuova, poiché in ultima istanza «tutta la cultura può essere interpretata come l’attività di organizzazione dello spazio» (Florenskij 1995, 51). L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo Francesco Vitali Rosati concetto di intero [целое] «maggiore della somma delle parti», che poi è la for- 59 In una lettera datata 10 ottobre 1929, Vladimir Vernadskij annunciava a Pavel Florenskij un imminente punto di svolta nella storia del pensiero: [4] lo sviluppo delle scienze naturali avrebbe [4] Sul dialogo intellettuale tra e Vernadskij, si veda ad es. P. mosso, a suo giudizio, verso la conciliazione di due cosmo- V.Florenskij Florenskij (1992). logie a lungo antitetiche, una filosofica e l’altra scientifica, destinando infine a ricomprendere in una cornice teorica coerente «tutto ciò che è caro all’umanità» (Naldoniová 2020, 27). Già da tempo Vernadskij aveva scoperto, studiando la composizione atomica del suolo e delle acque, che l’attività degli organismi viventi plasma indelebilmente l’intero chimismo planetario, e viceversa che non sussiste equilibrio, sulla superficie terrestre e nelle profondità oceaniche, imperturbato dalla presenza di forme di vita. Alghe, piante e batteri scolpiscono la trama geologica del mondo, traducono la luce solare in ossigeno, intessono la membrana di ozono che avviluppa e protegge la vita terrestre; nutrimento e riproduzione modificano attivamente l’ordine energetico dell’intero sistema in un commercio costante di idrogeno, carbonio, zolfo, fosforo. Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 57 — 68 Vernadskij: lo spazio del vivente La biosfera può essere considerata come campo della crosta terrestre, occupato da L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo Francesco Vitali Rosati Vernadskij osserva la prodigiosa ubiquità del vivente (Vernadskij 1924 e 1999, 40): la capacità costitutiva di occupare tutto lo spazio disponibile, secondo una progressione logaritmica ricavabile dalla proporzionalità tra velocità di diffusione e intensità della moltiplicazione delle specie. Il flusso costante di materia ed energia generato dal vivente ramifica quindi in un immenso campo di forze caratterizzato dall’equilibrio energetico della massa complessiva degli organismi o «materia vivente» (живое вещество, zhivoe veschestvo) (48), laddove l’espressione sta a significare la radicale eterogeneità fisica e geometrica del biotico, svincolata dalle implicazioni reificanti del sostantivo vita (жизнь, zhizn’, a cui Vernadksij ricorre pure di frequente), e sostituita dal participio presente, a enfatizzarne la natura prettamente energetica. Il bíos è infatti in primo luogo enérgeia, nel suo duplice senso di grandezza fisica e attività intensiva: funzione agentiva e percettiva nell’apparente inanità della hyle. Per Vernadskij è anzitutto la circolazione della vita che va pensata: il fluire ciclico di migrazioni chimiche, come di correnti plastiche che informano i corpi in concentrazioni e distensioni rimiche, costituendone al contempo la reciproca sensibilità, la possibilità stessa di contatto fra i corpi vivi. Tale è la portata ecosistemica del fenomeno della vita terrestre: trasformatori che mutano le radiazioni cosmiche in energia terrestre attiva – elettrica, chimica, meccanica, termica e simili. Le radiazioni cosmiche, provenienti da tutti i corpi celesti, si estendono a tutta la biosfera (Vernadskij 1999, 35). L’unità biosferica esprime difatti una «simbiosi complessa» (Vernadskij 2022, 235), «un solo sistema capace autoregolarsi in modo da mantenere al suo interno le condizioni adatte alla sopravvivenza degli organismi viventi» (389), attraverso la trasformazione delle radiazioni esterne in energia elettrochimica libera. Si tratta di una superficie curva finita, il cui campo complessivo va dispiegandosi in fieri, saturando lo spazio mercé la capacità adattativa degli organismi di plasmare a proprio vantaggio condizioni di esistenza precedentemente sfavorevoli. La vita sembra insistere così sul limite costante di una propagazione intensiva, un permanente sconfinamento rispetto a se stessa, giacché l’evoluzione delle specie e la creazione di nuove forme «deve muoversi nel senso dell’accrescimento della migrazione biogena degli atomi nella biosfera» (Vernadskij 2022, 221), la quale «tende sempre alla sua manifestazione più completa» (216). Tale carattere di pienezza crescente, ottenuta per migrazioni perpetue, è la proprietà decisiva del vivente, il cui intero ambiente fisico appare infine simile a un reticolo cristallino saturo, asimmetrico e anisotropo, distinto cioè in infiniti sottoinsiemi energetici la cui «eterogeneità spaziale si manifesta dinamicamente, vale a dire che si costituisce nel corso del tempo» (337). L’organizzazione della vita, successione alterna di stati di equilibrio anti-entropici determinati dal continuo scambio di materia ed energia sollecitato dal vivente, costringe infine a un superamento dei paradigmi ottecenteschi: Questo tipo di organizzazione non ha nulla a che vedere con un meccanismo. La sua differenza più netta sta in particolare nel fatto che essa si trova continuamente Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 57 — 68 60 Incomprensibile ai modelli angusti di una descrizione riduzionista, come in una netta suddivisione mereologica, il vivente nel suo insieme è condizione di ciascuna forma particolare, la quale a sua volta invera indelebilmente l’equilibrio complessivo, sicché «in ogni fenomeno si riflette la biosfera come totalità» (Vernadaskij 2022, 245). L’organizzazione biosferica rimarca così la singolare autonomia e pregnanza dell’individuo vivente, agente attivo nei processi evolutivi e nei cicli geochimici planetari, nonché portatore di una peculiare plasticità con cui difatti muta, si adatta ai cambiamenti dell’ambiente, «ma, al di là di questa capacità di adattamento, ha probabilmente insito in sé medesimo un processo evolutivo» (87). Smarcandosi dal dibattito classico, a suo dire ozioso, tra meccanicismo e vitalismo, Vernadskij enfatizza tuttavia «la radicale differenza in termini di organizzazione» (77), sotto il profilo materiale-energetico e temporale, della materia vivente dalla materia inerte che la compone. La singolarità degli organismi è definita infatti, spazialmente, dallo stato particolare di anisotropia geometrica, cioè dall’assenza di linee rette e dalla differente curvatura delle forme di vita, orientate da vettori polari enantiomorfi (92-93). Sotto il profilo temporale, ancor più nettamente, la vita polarizza in senso opposto all’entropia, poiché determinata non già da un movimento meccanico, ma dalla durata e irreversibilità del processo vitale, dotato di direzione e storicità ben definite (335-339): rifacendosi agli studi di Pasteur e Curie sull’asimmetria molecolare e cristallina, Vernadskij definisce infatti gli organismi come «forme dissimetriche enantiomorfe dello spazio-tempo» (277). Tale asimmetria costitutiva esibisce l’originalità della vita nel suo incessante implemento chimico-fisico: la biosfera è precisamente questo spazio di eterogeneità, entro la quale si variano, cristallizzano, moltiplicano creativamente le soluzioni, mediante una perpetua azione circolare tra materia vivente e materia inerte, formando «un legame indissolubile, che può essere rappresentato come un’ininterrotta corrente biogenica di atomi che va dalla materia vivente a quella inerte e viceversa» (83). Né organico né inorganico, il processo vivente si esprime a livello delle interazioni tra i sistemi e attraverso di essi, su un confine perpetuo fra interno ed esterno, cioè nella comunicazione fra ambienti eterogenei che «si differenziano in modo netto» e insieme «si compenetrano reciprocamente scambiandosi gli atomi che li costituiscono» (95). A ben vedere, dunque, l’ambiente non costituisce alcunché di esteriore agli organismi, ma descrive piuttosto un nesso circolare o ricorsivo: «Non vi è un ambiente inerte, indifferente, che non si trovi in profonda connessione con le forme viventi. Ciò di cui noi ci dobbiamo occupare è dunque il complesso organismo-ambiente» (245). È in questa cornice ecosistemica e cosmologica che va inquadrato lo sviluppo dell’attività cognitiva superiore in seno alla biosfera: l’emergere di un nuovo «fenomeno planetario», a un tempo diffuso globalmente e materialmente osservabile nelle sue produzioni concrete. L’esperienza umana, in questo senso, è l’agente attivo di trasformazioni geologiche profonde e irreversibili: la «Noosfera», insieme incarnato di forze del pensiero, L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo Francesco Vitali Rosati teriali ed energetiche (Vernadskij 2022, 80). 61 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 57 — 68 in uno stato dinamico, caratterizzato dal movimento di tutte le sue particelle ma- Un tentativo rigoroso di ripensare il nesso evolutivo di mente, vita ed energia compare nei tre volumi della Tektologia (1912-1922) di Alexander Bogdanov: vera e propria metascienza dell’«unità del punto di vista organizzazionale» (Bogdanov 1980, 1), che riconosce ai sistemi viventi, con estrema lungimiranza, la capacità di operare in condizioni energetiche lontane dall’equilibrio (Capra 1996, 45). Per Bogdanov, infatti, gli organismi sono macchine anti-entropiche in grado di regolarsi da sé armonizzando le dissonanze, ossia prelevando materiale dall’esterno e trasformandolo per assimilazione (Bogdanov 1980, 162-7). Il divenire di ogni forma esprime così una tensione immanente alla stabilità strutturale, ottenuta attraverso fluttuazioni caotiche prodotte da costanti flussi di materia ed energia dall’ambiente. Bognanov distingue in particolare tra assimilazione e dissipazione di risorse, cioè due direzioni di «selezione», positiva o negativa, secondo un principio di bi-regolazione reciproca tra sistemi eterogenei, non dissimile dalla nozione cibernetica di feedback. [5] Nel paradigma tectologico, il materiale introdotto in un ambien- [5] Come nota puntualmente Rispoli te interno, ad esempio il protoplasma di una cellula, viene (2015 e 2016). automaticamente tradotto e cooptato nel relativo sistema di equilibrio: ogni interazione esprime catene non lineari di congiunzioni «ingressive» o «disingressive», operanti in un meccanismo di continua equalizzazione delle tensioni (Bogdanov 1980, 151). Come in Vernadskij, al quale è stato frequentemente accostato (Plyutto 1998; Young 2012), la prospettiva processuale dell’unità sistema-ambiente perviene infine a considerare l’accoppiamento strutturale tra biosfera e atmosfera, ritraendo cioè «l’intero reame della vita sulla terra come un singolo sistema di divergenza, basato sulla circolazione di diossido di carbonio» (Bogdanov 1980, 130). Se nella teoria biosferica il singolo organismo svolgeva il ruolo privilegiato di agente generatore di eterogeneità, l’organizzazione tectologica concerne soprattutto l’unità dei legami tra forme in contrasto, cioè il rapporto immanente che preserva la forma nella sua ontogenesi ininterrotta nello spazio e nel tempo. Nella riproduzione cellulare di un seme, ad esempio, durante la crescita della pianta, la diversificazione avviene in rapporto alla divergenza crescente con cui le cellule originariamente simili si diffondono e modificano in ambienti dissimili. Lo sviluppo procederà allora tramite selezione delle correlazioni più stabili e coerenti fra le parti divergenti: ciò che si conserva è proprio la connessione interna che presiede all’ordine complessivo, ottenuta mediante la continuità di un medio comune tra le parti, costituito, nel caso della pianta, dal movimento e scambio della linfa (Bogdanov 1989 II, § 2; Rispoli 2015, 130). In altre parole, ontogenesi ed evoluzione tendono a selezionare i vincoli tectologici più saldi, cioè il sistema di mediazioni e nessi che esprime la maggior coerenza, robustezza e plasticità adattativa. Stabilizzandosi provvisoriamente all’interno, ogni forma può istituire all’esterno ogni sorta di «relazioni complementari» (дополнительные соотнофения, dopolnitel’nye sootnofenija): legami di congiuzione e separazione capaci di mediare processi organizzativi su varia scala, L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo Francesco Vitali Rosati Bogdanov: un’ecologia delle divergenze 62 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 57 — 68 non fa che prolungare lo slancio evolutivo della mente nella materia, l’eterna immanente noocosmogenesi in atto (Vernadskij 2022, 407-408). L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo Francesco Vitali Rosati 63 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 57 — 68 consentendo livelli di esperienza e soggetti evolutivi più o meno complessi. Le principali trasformazioni e crisi avvengono poi quando, nel tempo, un determinato insieme di nessi perde la propria robustezza, e allora tenderà, attraverso scarti e metamorfosi improvvise, alla biforcazione: sviluppando nuovi legami d’ordine e vincoli più coerenti e saldi, ovvero precipitando catastroficamente in uno stato di minore coesione e autonomia (Bogdanov 1980, 229-238). [6] Bogdanov rico- [6] Il capitolo VII dei Saggi è dedicato interamente a una schematizzazione nosce tuttavia nella completa disorganizzazione e nell’i- rigorosa dei vari «tipi di crisi» (типы nerzia concetti privi di significato, cioè ipotesi meramente кризисов) e relative catastrofi. astratte di un’assenza di connessioni e resistenze, di fatto impossibile in natura (Bogdanov 1980, 6). Perciò si può parlare solo di modi di organizzazione e forme di esperienza, nella misura in cui ogni materiale per nuove configurazioni non è che il resto di vecchie formazioni – sempre, a modo loro e in grado diverso, organizzate – oppure una serie di formazioni esistenti, tra le quali non è semplicemente ancora emerso un nuovo nesso. Descrivendo i processi evolutivi come forme di adattamento, comunicazione e mutazione reciproci, Bogdanov mira infine a una naturalizzazione dei processi cognitivi che superi le barriere tra organico e inorganico, psichico e biotico. In questo senso, infatti, qualsiasi interazione tra forme complesse esprime un processo attivo di comprensione e assimilazione dell’esterno, cioè di relazione tra eventi sistemici appresi collettivamente: è un’azione di costruzione di conoscenza. La mutua modificazione di vincoli tectologici, la selezione delle connessioni più vantaggiose, esprime una produzione collettiva di significato emergente da una dinamica di costante apprendimento e comunicazione creativa – tutt’altro che pacifica, né destinata indiscriminatamente al successo evolutivo. In breve, se Vernadskij delineava un’ontologia di individui, intesi come dissimetrie energetiche e geometriche, Bogdanov opta piuttosto per una filosofia di relazioni onto-epistemiche, generative di conoscenza. A Vernadskij interessa la natura chimica del divenire: ogni metamorfosi avviene per scambio e contagio, e gli organismi stessi, embricati gli uni negli altri, sono agenti di un riflusso costante tra interno ed esterno – che un altro grande erede di Fëdorov chiamerà «transustanziazione cosmica circolare» (Bulgakov 1911, 107). Per Bogdanov, d’altra parte, è la dimensione collettiva, financo politica dell’organizzazione dell’esperienza a emergere come funzione cosmologica: il mondo insorge assieme alle condizioni storico-materiali della sua conoscenza, inseparabile dalle forme della sua rappresentazione, e dunque, in una certa misura, esso diviene così come è conosciuto, ma in quel «come» risiede al contempo la possibilità stessa di un’azione trasformatrice. Comprendere i modi di divergenza e coesione di tutte le forme equivale infatti ad affermare, al di là di ogni positivismo ingenuo, l’unità coevolutiva di realtà e pensiero: l’intero processo universale è un adattamento dinamico di idee, una «compenetrazione evolutiva» (Tagliagambe & Rispoli 2016, 106) svolta, come nella cibernetica di second’ordine (von Foerster 1987), in una perpetua riorganizzazione interna al sistema, in cui l’osservatore viene integrato in tale unità globale di natura e cognizione – priva, in quanto transitoria, di un contenuto oggettivo invariabile, ma espressa nella forma di un equilibrio instabile fra criticità e risoluzioni, domande e risposte. Il tessuto radicalmente «empiriomonista» (Bogdanov 1904) del reale emerge dunque sulla soglia di A differenza di Vernadskij e, in parte, di Bogdanov, in Florenskij il paradigma naturalista non costituisce in alcun modo un’epistemologia privilegiata, ma solo uno dei molteplici linguaggi, delle numerose logiche possibili. L’enfasi reiterata sui concetti di antinomicità – insufficienza del principio di identità – e di discontinuità – rotture del tessuto causale rettilineo – che punteggia le sue ricerche geometriche ed estetiche (Florenskij 2007, 9), matura infine, nel 1925, in un trattato sulla spazialità (пространственность, prostranstvennost’). Lo sviluppo delle matematiche a cavallo dei due secoli forniva ampio materiale alla riflessione (Betti 2009, 30; 73-92): con Lobačevskij si era diffusa l’idea di innumerevoli geometrie possibili; con Poincaré quella di un tessuto dinamico di correlazioni complesse; Riemann riconosceva un elemento agente alla base delle relazioni metriche: la presenza di «forze coesive» primigenie informanti lo spazio (Riemann 1994, 19). Estendendone la portata a considerazioni ampiamente cosmologiche, Florenskij afferma l’esistenza di una molteplicità di spazi, ciascuno dei quali permette di interpretare differenti esperienze e modelli di razionalità, poiché «ogni luogo dello spazio nell’esperienza possiede caratteristiche peculiari che lo distinguono qualitativamente», e in ultima analisi «fenomeni diversi si estendono a spazi diversi» (Florenskij 1995, 30; 20). Ogni configurazione estensiva si sviluppa infatti a partire da un’attività organizzativa, cioè dalla presenza, in una regione spaziotemporale, di dinamiche morfogenetiche elementari («modi di determinazione»: образ обособления, obraz obosoblenija): in questo senso, qualunque fenomeno è interpretabile come un processo di organizzazione spaziale, laddove gli elementi o cose (вещь, vesch’) «non sono altro che corrugamenti dello spazio, luoghi di curvatura particolare» (20). Se ogni superficie è sollecitata da linee di forza agenti intensivamente, con il variare dei processi variano anche i sistemi di riferimento: difatti non esiste alcun ambiente inerte, ma solo varietà (le Mannigfaltigkeit riemanniane) autonome e qualitativamente eterogenee, sempre definite da una propria curvatura, quindi da proprie intrinseche condizioni di conoscibilità. Affermare la molteplicità dei «luoghi» significa comprendere la singolarità delle esperienze e dei modi di esistenza ivi implicati, cioè la differenza dell’andamento degli eventi su superfici di diversa curvatura, dotate di una struttura interiore qualitativamente distinta e di un ritmo L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo Francesco Vitali Rosati Florenskij: una topologia dei saperi 64 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 57 — 68 un’ininterrotta evolutio idearum: un dialogo tra serie in mutuo apprendimento che intessono «una trama infinitamente dispiegante di tutti i tipi di forme e livelli di organizzazione… Tutte queste forme, nel loro intreccio e contrasto reciproco, creano il processo di organizzazione cosmica» (Bogdanov 1980, 6). La fibra tectologica del mondo non patisce alcuna indeterminazione amorfa, al punto che persino lo spazio fra i pianeti appare organizzato elementarmente, con una certa resistenza, certi vincoli (71): non esiste alcun contenitore vuoto, meramente occupato dai corpi, ma ogni luogo è sempre un ambiente organizzato da interazioni immanenti: uno spazio di costituzione entro cui ogni forma, in quanto «esperienza vivente» (живой опыт, zhivoi opyt), insorge divergendo. to che si produce nella realtà può essere interpretato come la causa dell’organizzazione dello spazio e come l’effetto dell’organizzazione preesistente. Allora modi di determinazione [образ обособления] della realtà sono in sostanza i luoghi di particolari curvature dello spazio, delle sue irregolarità: certe sue pieghe, certi suoi nodi, ecc., mentre i campi di forze sono le regioni di approssimazione continua ai valori massimi o minimi di curvatura (Florenskij 1995, 52). A ben vedere, la curvatura di una superficie – preciserà Florenskij in una lettera dal gulag destinata a Vernadskij – definisce sempre, rispetto a sé, un lato esterno e uno interno, una chiusura e un’apertura, nettamente stabiliti proprio in quanto «determinati dal segno della curvatura media sull’uno e sull’altro lato della superficie» (Florenskij 1998 IV, 429). I valori esprimono allora il potenziale di una «forma-superficie» (форма-поверхность) o «forma-campo» (форма-поле): la soglia entro la quale raggiunge il suo valore massimo, definendo il carattere e l’andamento interno dei fenomeni in una continua «interazione di campi morfologici» (429.). Ogni forma spaziotemporale, «cioè forma in movimento e cambiamento», non è che una dinamica di campo dispiegata su un limite costante, nella misura in cui «tutti i processi hanno luogo sulla superficie, sul confine tra interno ed esterno» (429.). Con Vernadskij, d’altronde, Florenskij condivide l’idea della polarizzazione costitutiva del vivente, cioè della dissimmetria e dell’anisotropia quali condizioni necessarie di ogni processo di scambio, compenetrazione, endosmosi dello stesso con l’altro. Per entrambi insomma la differenza di potenziale – energetico, geometrico, materiale – è la condizione del fenomeno, la sua ragion sufficiente. L’organizzazione spaziotemporale non avviene che attraverso soglie, ed è tramite quelle soglie che i sistemi possono comunicare. La riflessione sulla multispazialità suggerisce ancora a Florenskij l’immagine di un’immensa topologia reticolare, ottenuta dalla sovrapposizione di infinite trame, intessute da altrettanti centri di azione («convergenze, nodi, pieghe, apici, punti focali»). Tale ideografica spaziale, rivestita di movimenti musicali («temi, ritmi, contrappunti, polifonie»), biologici («enzimi, fermentazioni, tessuti, radici») o idrologici («sorgenti, gorghi, alvei, spartiacque») [7], raffigura [7] La ricca metaforica florenskijana è ricapitolata da Tagliagambe (2021, 175): la circolazione del pensiero in un sistema di «giunture che «Il pensiero può viaggiare all’infinito formano una sorta di rete [...] in grado di scorrere in più lungo questa rete, realizzando intrecci e scoprendo di volta in volta nuovi modi su un determinato piano». Immerso in un tale tes- itinerari, che da un centro conducono suto mobile, ciascun punto non fa che modulare il proprio all’altro». orizzonte, come un proprio sistema di equazioni differenziali da integrare, ovvero un «tema sottoposto ogni volta a sviluppo creativo» (Florenskij 2007, 195). Dalle geometrie non-euclidee Florenskij trae dunque la propria ontologia di superfici ramificate e percorribili in infiniti sensi di orientamento, tra le quali «si può tracciare ogni sorta di sezioni trasversali e scoprire nuovi legami» (Florenskij 1998 III, 454). I saperi vi si iscrivono come innumerevoli curve – scientifiche, estetiche, etiche – alla cui intersezione L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo Francesco Vitali Rosati Attraverso un campo di forze lo spazio viene rivelato, sviluppato… Un mutamen- 65 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 57 — 68 temporale proprio. Il dinamismo spaziale implica necessariamente una pluralità di strutture genetiche e forme di organizzazione continuamente emergenti, espressioni di campi di forze peculiari: Ci sono delle realtà, ci sono cioè dei centri dell’essere, dei grumi dell’essere che sono soggetti a leggi proprie e che hanno perciò, ciascuno, una propria forma; per questo nulla di ciò che esiste può essere considerato materiale indifferente o passivo… Per questo, ancora, le forme devono essere concepite in base alla loro vita, e non in base alle angolazioni di una prospettiva predeterminata (Florenskij 2020, 41). L’idea di una moltitudine dinamica di centri rompe con l’ipotesi di un punto di vista privilegiato, un soggetto astratto della rappresentazione, negando al contempo che il reale segua una sola grammatica, una via regia alla conoscenza (Zalamea 2010, 37-49): i centri, per l’appunto, non sono punti di vista statici sulla fluidità del mondo, ma zone di contatto e di risoluzione, soglie concrete entro le quali si realizza la convergenza delle molteplicità. L’immagine policentrica invoca quindi una pluralità di dimensioni di senso autonome, capaci di forze di diversa natura (cinetiche, percettive, estetiche) agenti su sistemi differenti (Florenskij 1995, 46), istituendo, in ultima analisi, quella concordia intensiva che è condizione di comunità, il cui significato è perciò, convenendo con Descola, profondamente politico: la prospettiva rovesciata implica infatti «les conditions d’une métaphisique suprapersonelle, un espace polyperspectiviste animé par la communion sensible» (Descola 2021, 67). L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo Francesco Vitali Rosati si stagliano infiniti centri prospettici, penetrandovi come «archi infinitesimi di curva». Si tratta, in altri termini, del tentativo di ripensare un radicale policentrismo ontologico: una trama differenziale di mondi viventi (живые миры, zhivye miry), forieri di significati e valori «né uguali né peggiori, ma diversi, con le proprie gradazioni e una propria logica» (Florenskij 2007, 194), ciascuno dei quali, occupando il proprio orizzonte prospettico, è capace di realizzare l’integrazione simultanea di una pluralità di sistemi di riferimento: 66 L’approccio enciclopedico e organicista che caratterizza il pensiero scientifico degli anni venti funge da contrappunto al progetto bolscevico di meccanicizzazione della vita. Ma se un tale approccio accomuna gli autori menzionati, ciò che li distingue nettamente è la fondazione filosofica delle diverse prospettive: rigorosamente naturalista nel caso di Vernadskij, empiriocriticista in Bogdanov, monadologica in Florenskij. Ciò nonostante, permane l’inclinazione comune a caratterizzare l’«economia cosmica» (космическое хозяйство, kosmiceskoe chozjaistvo) come un processo vivo di comunicazione, compenetrazione e amplificazione. Il pensiero sistemico russo svilupperà successivamente fecondi itinerari nelle ricerche della scuola di Tartu sulla semiosfera (Lotman 1985), modellata di fatto sul calco delle teorie di Vernadskij: nell’idea cioè di uno spazio integrato di tutti gli ambienti semiotici, reciprocamente asimmetrici e produttivi di una semiosi «aperta», sostanzialmente priva di codice preesistente (Mandelker 1994, 386). Come Vernadskij e Florenskij, Lotman riconoscerà nella dissimmetria strutturale e nell’accoppiamento tra eterogeneità un pattern universale dell’organizzazione delle forme viventi – costituite appunto da «divisioni enantiomorfe generatrici di senso» (Lotman 1985, 71) – valido quindi a livello geometrico, riproduttivo e cognitivo. Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 57 — 68 Conclusione. Organismi e macchine L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo Francesco Vitali Rosati L’anelito organicista anima del resto Bogdanov stesso, il quale, mantenendo la distinzione classica tra esseri viventi e macchine (Bogdanov 1980, 25-26), afferma nel punto di vista tectologico la volontà di «considerare allo stesso modo le relazioni tra cellule in un organismo, le componenti in una macchina, gli elettroni in un atomo» (61), laddove la differenza tra i tipi di organizzazione sta precisamente nella capacità di regolazione, interna o esterna, ma soprattutto nel genere di variazioni di influssi e resistenze, completamente deterministici nel caso delle macchine (95). Un’oscillazione analoga si ritrova infine in Florenskij, il quale tenta di ripensare, durante la lunga attività ingegneristica alla GOELRO – il comitato per l’elettrificazione della Russia fondato da Lenin – e all’Enciclopedia Tecnica Sovietica, un circolo virtuoso tra vita, conoscenza e tecnica, come espresso in vari articoli redatti fra gli anni venti e trenta, tra cui La fisica al servizio della matematica (1932). Se infatti, scrive Florenskij, le macchine ricevono dalle matematiche intuizioni fenomeniche di vario tipo (meccaniche, fisiche, ecc.), d’altra parte retroagiscono sul progresso delle matematiche stesse, come sulla comprensione dei processi vitali: così il funzionamento di strumenti cinematici complessi, quali «analizzatori armonici, integratori e macchine che integrano le equazioni differenziali», va favorendo, a suo giudizio, lo sviluppo della teoria generale degli algoritmi (Florenskij 2007, 293). Osservando l’azione delle macchine, vi scopriamo l’intervento di processi fisici quanto mai differenti, insiti nella struttura stessa del dato funzionamento e che da esso non possono essere evinti nemmeno in un esperimento mentale, per astrat- 67 to. Perché per noi è importante non solo quel che la macchina ci indica, ma anche come ne veniamo a conoscenza, e quel «come» non è qualcosa di esterno rispetto alla macchina, allo strumento di conoscenza, bensì ne è una caratteristica costitu- Nell’uso di qualsiasi macchina dobbiamo comprendere il nesso concreto tra il fenomeno fisico, lo stato della macchina nello spazio e nel tempo e la sua simbolizzazione, di modo che i processi fisici stimolino la creazione di nuove formule. Dopo tutto, la conoscenza matematica, come qualunque altra forma di sapere scientifico, è sempre un processo di costruzione (295). Lo sviluppo dei saperi, insomma, procede per ibridazione e integrazione, non solo per differenziazione e specializzazione, accrescendosi con l’acquisizione di modelli ed elementi da discipline eterogenee (fisici, chimici, biologici, psicologici), tradotti nel proprio linguaggio peculiare: così le venature degli alberi possono suggerire «sistemi di linee e superfici di forze isopotenziali», mentre gli organismi viventi mostrano molteplici «forme di equilibrio, che nella loro struttura riproducono i più svariati tipi d’ordine» (296). Introiettando simili schemi, la teoria delle macchine andrà ben oltre l’attuale meccanicismo: diverrà presto biotecnica (227). Il legame tra organismi e macchine, associato all’insistente attenzione sulle matematiche del discreto (Polovinkin 2005), condurrà Florenskij, già nel 1922, alla costruzione di apparecchi elettrostatici per la risoluzione di problemi non lineari, immaginando infine l’utilizzo degli algoritmi nel progetto di «macchine che trasmettono e trasformano non tanto grandi quantità di energia, quanto determinate relazioni, determinati segni e segnali semantici» (Florenskij 2007, 299). Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 57 — 68 tiva (Florenskij 2007, 294). Bailes, K. E. (1990). Science and Russian Culture in the Age of Revolution. V. I. Vernadsky and his Scientific School, 1863-1945. Bloomington, USA: Indiana University Press. Naldoniová L. (2020). Philosophical and Scientific Interaction Between Vladimir Vernadsky and Pavel Florensky. Vestnik of Saint Petersburg University. Philosophy and Conflict Studies, 36 (4), 645–656. Betti, R. (2009). 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Le sue ricerche vertono sul pensiero francese contemporaneo in relazione al rapporto tra tecnica e natura. Componente del gruppo di ricerca Global Philosophy. francesca.sunseri@unipa.it — SIMONDON — INFORMATION — CYBERNETICS — FRENCH THEORY — MACHINE 73 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 73 — 87 This paper analyses the reception of Norbert Wiener’s cybernetics in France with particular attention to the perspective proposed by Gilbert Simondon. The debate that has emerged since the 1950s among the philosophers of the so-called French Theory opens up the possibility of speaking of a revised cybernetics on the basis of the need to go beyond the structural analogy between living being and machine. The present paper investigates the relationship between Simondon and cybernetics by considering his 1953 manuscript, his two doctoral theses and his speech at the Royaumont conference in 1962. It also focuses on the concept of ecceità that Simondon uses in order to speak from the qualitative side of information and to propose an ontological perspective in which it is that which goes beyond the limits of Aristotelian hylomorphism. “Ciberneretica” simondoniana Francesca Sunseri Nel 1962 a Royaumont, località a nord di Parigi, Gilbert Simondon contribuì a organizzare il Convegno dal titolo Le Concept d’information dans la science contemporaine, ma curiosamente il paper che presentò in quell’occasione non venne inserito negli atti pubblicati nel 1965 (Guéroult 1965). Il testo, intitolato L’amplification dans les processus d’information, fu, invece, incluso nel collettaneo postumo dal titolo Communication et information (Simondon 2010). Agli atti rimase soltanto un breve riassunto del dibattito a seguito della presentazione di René de Possel (Guéroult 1965, 157-158); quest’ultima tenutasi subito dopo l’intervento del padre della cibernetica Norbert Wiener, che lo stesso Simondon aveva introdotto (Guéroult 1965, 99-106). Nel breve intervento alla presentazione di De Possel, Simondon sottolineava quanto fosse necessario ripensare il concetto di informazione all’interno delle scienze moins exactes utilizzando il concetto di franges, la cui paternità faceva ricadere su Merleau-Ponty (con il quale aveva organizzato il Convegno prima della sua scomparsa nel maggio 1961). In quest’ottica Simondon richiamava il concetto di franges per ricordare ai convitati come il problema alla base dell’organizzazione del convegno del 1962 fosse quello di cercare una possibile nuova strada di ricerca per riconcettualizzare l’informazione, smarcandola dalla sola definizione emersa nelle scienze exactes (cfr. Macrì 2020). D’altronde, già dal 1958, il filosofo de L’individuation aveva chiarito il carattere metodologico del suo pensiero, che si poneva l’obiettivo di sfumare sempre più i confini tra le discipline per tornare «ai tempi in cui i grandi filosofi erano anche matematici o studiosi nelle scienze naturali e viceversa» (Guéroult 1965, 100). Come risulta chiaro dagli intrecci suesposti e da alcune dichiarazioni di Wiener durante il suo intervento che sembrano dimostrare l’esistenza di un dibattito privato con Simondon (Bardin 2010, 30), le interconnessioni tra il filosofo francese e la prima cibernetica sono state feconde. Inoltre, in più occasioni Simondon ha richiamato la teoria wieneriana nella sua tesi di dottorato principale e nei supplementi (Simondon 2011, 94, 299, 329, 716, 746, 756), indice del fatto che il testo di Wiener era stato di particolare importanza all’interno del suo impianto teorico principale. È possibile rintracciare la presenza della cibernetica anche nella tesi complementare dal titolo Du mode d’existence des objets techniques (Simondon 2020, 59, 147, 155, 204-208) in cui Simondon espone il modo di esistenza degli oggetti tecnici portando avanti l’idea di un legame tra l’oggetto tecnico e il suo creatore che prevede un certo grado di dipendenza, ma anche, e soprattutto, uno scarto di indipendenza. La sua prospettiva è quella di pensare l’individuazione tecnica come paradigma per comprendere l’individuazione vivente mostrandone l’assonanza creativa, pur restando in un’ottica per cui non è la natura ad imitare la tecnica o viceversa, ma si tratta piuttosto di un’analogia funzionale. Muovendosi in questa direzione, Simondon si mostra rispettoso, ma anche critico nei confronti della cibernetica di Norbert Wiener rintracciandovi, anzitutto, una prima, fondamentale, rottura rispetto all’oggettivismo fenomenista in direzione di una scienza delle operazioni 74 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 73 — 87 Introduzione “Ciberneretica” simondoniana Francesca Sunseri che si occupi non tanto di un oggetto specifico, ma dei passaggi operativi che presiedono alla sua costituzione (Simondon 2018). Nel testo inedito datato 1953 dal titolo Epistemologia della cibernetica contenuto nel volume collettaneo Sur la philosophie e tradotto in italiano nel 2018, Simondon sottolinea, come farà anche in Du mode d’existence des objets techniques, quanto la cibernetica, in qualità di riflessione sulle trasformazioni operative delle strutture, abbia dato valore epistemologico a tutte quelle discipline per loro stessa natura plurali come la sociologia o la psicologia: «queste scienze studiano infatti un’operazione di mediazione, determinando la natura e le modalità di un metaxu» (Simondon 2018, 24). La critica di Simondon alla cibernetica di prima generazione, invece, imputa a questa di restare sulla soglia di un reale enciclopedismo, portandone avanti uno tecnico, ossia limitato alla connessione strumentale tra le discipline, ma non tecnologico, nel senso di carattere realmente generale (Simondon 2020, 121-122), mancando pertanto quello che doveva essere il suo autentico obiettivo: un nouvel humanisme in grado di riconnettere la sfera dell’umano a quella delle tecniche (Carrozzini 2011). La cibernetica di Wiener, secondo Simondon, non sarebbe riuscita a svincolarsi da una concezione deterministica. Scopo del seguente studio è inquadrare il rapporto complesso tra la riflessione simondoniana e la prima cibernetica a partire da una ricostruzione storico-filosofica della temperie culturale che aveva accolto la cibernetica in Francia. Su questa base, sarà anche possibile indagare la differente prospettiva di Simondon e di Wiener rispetto al tema centrale, quanto nella cibernetica tanto nell’apparato simondoniano: l’informazione. 75 È necessario, in prima istanza, tracciare una storia degli esordi della cibernetica in Francia. Si tratta di un innesco e poi di uno sviluppo sui generis, come più volte sottolineato da Ronan Le Roux nella sua Une histoire de la cybernétique en France (2018). Le Roux introduce il volume sostenendo l’interesse a indagare la storia della cibernetica (soprattutto quella degli inizi) in Francia in quanto «présente le cas de figure intéressant de n’avoir pu bénéficier de l’effort de guerre qui a considérablement amplifié les recherches menant à la cybernétique dans les pays anglo-saxons» (Le Roux 2018, 14). Se nei Paesi anglosassoni la cibernetica si era infatti potuta sviluppare a partire dalla necessità dell’industria bellica di trovare sistemi di regolazioni sempre più efficienti per gli armamenti, in Francia questo presupposto era venuto a mancare, lasciando al margine anche l’emergenza di ricerche interdisciplinari che la cibernetica “bellica” portava con sé (Le Roux 2018, 85). La mancanza di sviluppo delle aree industriali più innovative aveva comportato un predominio di un certo «conservatisme universitaire» nella ricerca francese (Picard 1990, 26). Si trattava di una condizione in cui versava la ricerca scientifica francese fin dalla fine del XIX secolo, a parte alcuni casi che brillavano per il loro spirito pionieristico come quello dell’Istituto Pasteur nato alla fine dell’Ottocento. Come sottolineato da Georges Canguilhem, non bisogna dimenticare quanto l’influenza Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 73 — 87 La cibernetica in Francia “Ciberneretica” simondoniana Francesca Sunseri 76 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 73 — 87 di Auguste Comte e del suo positivismo fosse stata determinante per la scienza e la filosofia francese per tutta la seconda metà del XIX secolo (Canguilhem 1994, 71), determinando un certo scetticismo nei confronti del valore euristico delle macchine per la ricerca scientifica. Questo conservatorismo di stampo positivista aveva mantenuto la Francia ben lontana anche dall’urgenza di una formazione tecnica che, invece di accompagnare la parte teorica della ricerca, rimaneva fuori dalle facoltà scientifiche in cui si prediligeva una certa matematica o scienza pura (Picard 1990, 22). [1] [1] Emblematico in questo senso è il gruppo Bourbaki come sottolinea Le Soltanto nel 1941, con il supporto degli Stati Uniti, Roux, anche se è necessario notare ricercatori francesi e belgi poterono costituire l’École che ci sono stati casi di controesempi allo stesso gruppo come quello Libre des Hautes Etudes (EPHE), attorno alla quale si interni di André Weil che ha supportato cominciò a sviluppare un approccio interdisciplinare e, Lévi Strauss nell’algebrizzazione dei quindi, il terreno fertile per far attecchire l’approccio rapporti di parentela della sua ricerca. cibernetico. Proprio grazie all’EPHE, Lévi-Strauss poté incontrare studiosi del calibro di Roman Jakobson, Alexandre Koyré e François Wahl. Quest’ultimo organizzò l’incontro tra Lévi-Strauss e Wiener che portò a successivi scambi sempre più aperti all’interdisciplinarietà, come testimoniano i diversi seminari tenuti all’EPHE (Le Roux 2018, 104-105). Contemporaneamente alla nascita e strutturazione dell’EPHE, nel 1938 Louis Pierre Couffignal, ispirandosi al pionieristico lavoro di Jacques Lafitte (Lafitte 1932), propose un nuovo modo di studiare la macchina e iniziò ad immaginare la possibilità di costruire un computer digitale. È quest’ultimo progetto (poi abbandonato) che avrebbe consentito l’incontro tra Couffignal e Wiener grazie all’intervento di Léon Brillouin. Couffignal e Wiener avrebbero poi collaborato per molti anni e organizzato nel 1951 il simposio internazionale del CNRS dal titolo Les machines à calculer et la pensée humaine che avrebbe riunito, per la prima volta, dall’8 al 13 gennaio, i maggiori esponenti della nascente cibernetica (Segal 2011, 297-404). Ciò che sottolineava Segal è che, mentre questi intrecci venivano intessuti tra l’EPHE e i piccoli circoli pionieristici del CNRS, la cibernetica in Francia sarebbe giunta al grande pubblico grazie ad articoli divulgativi come quello uscito su Le Monde il 28 dicembre 1948, firmato da Dominique Dubarle (Segal 2011, 400). Si trattava di articoli in cui si richiamava la teoria dell’informazione di Shannon e si portava l’attenzione dei lettori soprattutto sulle applicazioni alle questioni umane del metodo cibernetico. Questo approccio suscitava una certa disapprovazione da parte degli scienziati francesi che, nel frattempo, grazie ai gruppi del CNRS, avevano potuto conoscere l’opera di Wiener e le difficoltà riscontrate nella teoria classica dell’informazione. Proprio all’interno dell’ambito scientifico, il matematico Robert Vallée nel 1949 propose a due suoi colleghi di laboratorio a Parigi di fondare il primo circolo cibernetico francese. Ci sarebbero voluti due anni prima che il Cercle d’études cybernétiques (CECyb) vedesse la luce (Le Roux 2018, 134), ma alcuni tra i suoi membri erano di grande calibro: Louis de Broglie (presidente onorario), Jacques Lafitte, Pierre Ducassé e Albert Ducrocq. Nel frattempo Vallée, approfittando della presenza di Wiener a Parigi tra il 1950 e il 1951 per tenere un ciclo di lezioni al College de “Ciberneretica” simondoniana Francesca Sunseri 77 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 73 — 87 France e per il convegno tenuto nel gennaio 1951 presso l’attuale sede del CAPHES (29 rue D’Ulm) (Le Roux 2018, 148), invitò il padre della cibernetica ad entrare a far parte del CECyb. Wiener avrebbe accettato l’invito restandone però più membro onorario che attivamente presente durante gli incontri. [2] [2] Le Roux riporta che Vallèe ha avuto di interagire con Wiener anche Il convegno del gennaio 1951 si sarebbe concluso modo successivamente quando, a seguito senza fare completa chiarezza sul concetto di macchina e di una cena del Cercle del 1953 a cui Wiener, è stato invitato a il CECyb fu invitato a portare avanti ricerche che potes- partecipava partecipare ad alcuni corsi estivi al MIT sero contribuire a definire il problema. Ducassé accettò nell’estate 1954 tra i cui relatori c’era anche Claude Shannon. Durante quel la sfida offrendo al Cercle la sua rivista Structure et évol- periodo in USA, Vallèe ha trascorso ution des techniques (Le Roux 2018, 233) per pubblicare anche alcuni giorni presso la casa di di Wiener dove sembra le riflessioni emerse durante il convegno. Tra gli articoli campagna abbiano discusso di variabili nella inseriti nella rivista di Ducassé e nel settimo numero di meccanica quantistica. Cfr. Vallée Thalès, era presente il resumè di Couffignal intitolato (1990, 345). La Mécanique comparée in cui si poteva evincere la necessità di riprendere il progetto di una nuova teoria delle macchine già lanciato dallo stesso nel 1938, ma questa volta con una maggiore generalizzazione. Couffignal poneva la meccanica comparata come la specificità della prospettiva francese sulla cibernetica in grado di superare il grande limite di quella americana: usare il metodo dell’analogia tra strutture piuttosto che quello dell’«analogies entre fonctions» che, invece, propone Couffignal (Le Roux 2018, 237-238). [3] Inoltre, Couffignal criticava la cibernetica americana in [3] Riprenderemo questo tema quando si tratterà di Simondon e dell’analoga quanto quest’ultima aveva tentato di strutturare una necessità di strutturare il pensiero teoria delle macchine basandosi sull’idea di macchina tecnico sull’analogia funzionale. universale di Turing, mentre secondo lo scienziato francese le macchine da considerare dovevano essere quelle «construites jusqu’à présent» allontanando ogni tipo di esperimento mentale poiché, cercando di costruire macchine virtuali, si rischiava di dimenticare che «l’accident est fréquent, si l’on part des mathématiques» rimanendo incastrati in una delusione come quella provocata dal demone di Maxwell (Couffignal 1951, 9; 1956, 336-337). La filosofia si inseriva nel dibattito attraverso diverse figure che animavano la discussione: oltre al già citato Ducassé, vi erano, tra gli altri, François Russo, Raymond Ruyer, Gilbert Simondon, Gilles Deleuze e Félix Guattari. Tra le prime riflessioni, nel 1955 Russo affermava che l’urgenza del secolo era quella di abbandonare ogni tipo di classificazione e distinzione abbattendo ogni barriera e aprendosi alle analogie (Russo 1955, 44) e che il concetto di informazione, emerso in ambito cibernetico, poteva essere la chiave per instaurare queste analogie (Russo 1959, 22). Tra il ’53 e il ’54 Simondon e Ruyer scrissero entrambi in merito alla cibernetica. Ruyer, al quale lo stesso Simondon ha provato a dare risposta nei suoi scritti successivi, sosteneva come la cibernetica, «malgrado il suo spirito incontestabilmente ‘moderno’» (Ruyer 1954, 25), risultasse troppo determinista in quanto guardava alla fisica e non alla microfisica e alla termodinamica che le avrebbero potuto aprire le porte di un parziale indeterminismo (Ruyer 1954, 25-26). La critica di Ruyer era rivolta, inoltre, all’origine dell’informazione che a suo avviso non verrebbe tenuta in considerazione dalla cibernetica, restando così quest’ultima vittima di un paradosso. “Ciberneretica” simondoniana Francesca Sunseri Anche la posizione di Deleuze e Guattari [4] si deli- [4] Per approfondire l’argomento: Lafontaine, (2004), Liu (2010a; 2010b), nea a partire da una evidente ripresa di questi autori: con Geoghegan (2023), Cusset (2005). le loro macchine desideranti (Deleuze & Guattari 1972), essi prospettavano quello che Lafontaine ha chiamato un “prolungamento” del paradigma cibernetico (Lafontaine 2004, 308) che, però, si tiene lontano dalle sue possibili applicazioni tecnocratiche. Nelle opere scritte successivamente insieme i due autori non citeranno esplicitamente la cibernetica, mentre sarà Guattari in Caosmosi a dedicare la sua riflessione proprio alla teoria wieneriana. All’interno di una discussione su cosa sia una macchina, Guattari citava la cibernetica come quella disciplina che considera i sistemi viventi come «macchine particolari dotate di retroazione» (Guattari 1996, 52) e, riferendosi alla cibernetica di seconda generazione di Maturana e Varela, proponeva di ripensare l’autopoiesi ampliandone il raggio d’azione anche a tutte quelle «entità evolutive e collettive che intrattengono reciprocamente diversi tipi di relazioni di alterità» (Guattari 1996, 107). Si può allora sostenere che la ricezione della cibernetica in Francia da parte dei filosofi sia perlomeno complessa da analizzare in quanto vi si può riscontrare un atteggiamento ambivalente: se da una parte si accoglie il paradigma cibernetico come un primo tassello per poter abbattere le classificazioni e inaugurare una nuova alleanza tra le diverse discipline, dall’altra la critica all’estremo meccanicismo e determinismo della cibernetica wieneriana apre a paradigmi plurali in cui macchine ed esseri viventi stanno in una continua relazione non mimetica. 78 Tra i filosofi citati da Le Roux, Gilbert Simondon è certamente uno dei pilastri del dibattito sulla cibernetica apertosi in Francia a partire dalla pubblicazione (avvenuta simultaneamente in Francia e negli Stati Uniti) de La Cibernetica di Norbert Wiener (Wiener 1968) nel 1948. Pilastro non soltanto per le sue originali riflessioni sul tema, ma anche per essere stato il centro nevralgico attorno al quale si sono sviluppate le altre riflessioni di Ruyer, Deleuze e Guattari cui già si accennava (cfr. Sauvagnargues 2016; During 2015; Iliadis 2013, 2015, 2017). Il rapporto che intercorre tra la sua impostazione e la teoria cibernetica è molto complesso in quanto parte di un progetto più ampio: quello di costruire un’assiomatica dei saperi in grado di eliminare le barriere tra le scienze esatte e quelle umane rintracciando un’analogia funzionale tra i differenti soggetti/oggetti di studio. Simondon aveva sottolineato l’importanza della cibernetica nel proprio impianto teorico già nel 1956, durante un corso sulla psicologia tenuto all’Università di Poitiers (Simondon 2015b, 190-214) [5] dove insegnava mentre scri- [5] Simondon in queste pagine la storia della cibernetica veva le due tesi di dottorato. In quella sede aveva soste- ricostruisce negli Stati Uniti rimarcando le nuto che: differenze tra le Macy Conferences ce n’est pas un problème de remplacement d’un individu humain par une machine, mais du couplage de l’homme et de la machine e sottolinea quanto l’ingresso degli studi di Wiener in Francia era ancora ostacolato da «une civilisation qui oppose technicité et spiritualité» (Simondon 2015a, 212). dans la même unité fonctionnelle (par exemple le pointage: il ne s’agit pas d’un échange qui substituerait la machine à l’homme, mais d’un échange entre l’homme et la machine). L’homme et la machine doivent donc être Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 73 — 87 Gilbert Simondon e la cibernetica plage conduise à une unité fonctionnelle. Il s’agit d’une humanisation de la machine au moins autant que d’une mécanisation de l’homme. En fait, l’homme reste l’homme et la machine machine, mais quelque chose existe comme unité fonctionnelle qui est à la fois activité humaine et activité de la machine, traduction constante de l’une en l’autre, continuité d’existence reliant les deux êtres. Il testo è rimasto inedito fino al 2016, anno in cui è stato inserito nel volume postumo Sur la philosophie, 1950-1980 (Simondon 2016) curato da Nathalie Simondon e Irlande Saurin. Sembrerebbe che Simondon in quel momento stesse tentando di istituire un gruppo di ricerca sulla cibernetica intorno all’École normale supérieure nel quale far confluire scienziati e filosofi, ricalcando l’esperienza del CECyb ma in un’ottica più filosofica. Il progetto non avrebbe avuto seguito, ma questo testo testimonia un interesse sviluppato dall’autore nei confronti della cibernetica che lo avrebbe portato ad organizzare il Colloque di Royaumont qualche anno dopo. Si tratta di un manoscritto datato 1953 ed inserito in un dossier dal titolo Recherches philosophiques di cui si è avuta una traduzione italiana soltanto nel 2018, nel volume 377 della rivista Aut Aut (Simondon 2018, 12-35). Già nel suo esordio Simondon mette in evidenza uno dei problemi che la cibernetica fa emergere: il primato dell’oggetto sul metodo nella definizione di una scienza. Egli definisce questo assunto «pregiudizio sostanzialista», in ciò richiamando una critica alla base del suo lavoro di dottorato: ossia la necessità di rivoluzionare l’approccio delle scienze partendo dal processo piuttosto che dall’oggetto di cui queste si occupano. La cibernetica sfidava in questo senso quel presupposto positivista comtiano di cui era pregno l’ambiente culturale e scientifico francese e secondo il quale bisognava classificare le scienze in base al loro oggetto di studio. Nella sua classificazione Comte considerava la matematica e l’epistemologia due discipline che non potevano avere lo statuto di scienze oggettive e, pertanto, le aveva relegate a riflessioni che precedevano o seguivano la formulazione di leggi che legavano due fenomeni da parte delle scienze oggettive. A questo proposito Simondon afferma che: “Ciberneretica” simondoniana Francesca Sunseri mutuellement adaptés l’un à l’autre, utiliser des signes efficaces, pour que le cou- 79 il fenomeno non è più l’essere; non è un centro da cui irradia un potere di causalità, non è un principio dinamico, ma solamente un termine che un rapporto ogni potere operativo, di ogni spontaneità; è l’essere divenuto immutabile e sempre identico a se stesso. (Simondon 2018, 14) In questo passaggio si evince già quell’ontologia relazionale o operazionale, cifra dell’intera riflessione simondoniana, in cui l’essere è operativo, dinamico e mai identico a se stesso. Per Simondon la comparsa della cibernetica era riuscita a far emergere la necessità di abbandonare l’assiomatica dell’oggettivismo fenomenista di stampo positivista e riconoscere che l’oggetto, l’essere, non è soltanto struttura, ma anche insieme di operazioni. È qui che si palesa una prima presa di posizione di Simondon rispetto al dibattito sulla cibernetica. Proprio per la sua natura rivoluzionaria, la cibernetica doveva essere definita nel modo corretto per evitare di poterla identificare come una «grande ipotesi esplicativa che viene a ricoprire Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 73 — 87 matematico lega a un altro termine; il fenomeno è l’essere impoverito, privato di la cibernetica, per essere valida, deve innanzitutto universalizzarsi; piuttosto che definire dal principio i suoi limiti, bisognerà fondare la sua unità intrinseca fornendole un metodo. […] Crediamo dunque che l’opera più urgente che reclama la nuova teoria cibernetica sia l’edificazione di una logica cibernetica, che si può chiamare allagmatica generale. (Simondon 2018, 32) propaga, passo dopo passo, all’interno di un dominio. Ed è proprio la propagazione di questa operazione a strutturare il dominio. L’esempio che Simondon riporta per comprendere cosa sia una trasduzione è il processo di cristallizzazione. Per approfondire si rimanda ai passaggi presenti nella tesi di dottorato (Simondon 2011, 45-48). “Ciberneretica” simondoniana Francesca Sunseri 80 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 73 — 87 con la propria unità teorica le scienze particolari» (Simondon 2018, 18). Esistono cibernetiche particolari che si occupano dei differenti ambiti che sono relazioni tra campi strutturali, come la psicofisiologia, e che sussistono senza necessità di un grande contenitore teorico che dia loro uno statuto scientifico. D’altronde, Simondon lo ricorda, queste cibernetiche esistevano ben prima che Wiener parlasse di cybernetics nel 1947. In questo senso Wiener aveva soltanto colto il bisogno di statuto scientifico che arrivava da ambiti come la psicofisiologia o la sociologia. Nonostante ciò, ed è qui che Simondon avanza la sua prospettiva, il termine cibernetica non sarebbe il più adeguato per descrivere questa teoria delle conversioni, operazioni o trasformazioni. Egli propone come alternativa un’allagmatica, la cui definizione in questo manoscritto non traccia con accuratezza se non come «teoria delle conversioni […] (che) ingloberebbe […] uno studio come quello delle operazioni» (Simondon 2018, 20). [6] La proposta simondoniana è pertanto di correggere [6] Si rimanda al supplemento intitolato “Allagmatica” contenuto l’idea di Wiener della cibernetica come un campo nuovo, nella tesi principale di dottorato una no man’s land (Simondon 2018, 21) e cercare, invece, (Simondon 2011, 769 – 779) in cui dedica diverse pagine ad una nozione strutturale che consenta di inquadrarla come Simondon esplicitare questo concetto che aveva scienza di operazioni. In effetti già la descrizione di Wiener già introdotto nel 1953. poneva la teoria come un terreno metodologico comune piuttosto che oggettivo: un calcolatore umano e una macchina calcolatrice possono essere comparati perché condividono il metodo attraverso il quale calcolano, dunque in quanto tra loro vi è una correlazione operativa. In questo senso, dice Simondon, bisogna considerare la cibernetica come una riflessione sulla tecnica piuttosto che come una scienza, in quanto essa si occuperebbe di determinare «le condizioni di possibilità di questa tecnica inter-scientifica mediante un rapporto analogico tra le operazioni dell’una e dell’altra scienza» (Simondon 2018, 22). Restando nel parallelismo meccanico-vitale di Wiener, Simondon parla di una «simbiosi operativa» che si verrebbe a istituire tra i saperi grazie all’insieme delle operazioni comuni alle diverse scienze che proprio una cibernetica generale si incaricherebbe di studiare ed elaborare. La cibernetica generale o, se si vuole restare nella critica simondoniana, l’allagmatica generale avrebbe pertanto il compito di fornire un insieme di operazioni e definizioni e, considerato che si tratta di una tecnica, «una certa strumentazione concettuale» che possa essere trasdotta [7] da un sapere a un altro. [7] Come aveva già fatto Jean Piaget, Simondon prende in prestito questo L’analisi simondoniana della cibernetica in questo termine dalla fisica e lo utilizza per testo del ’53 si conclude con l’insistenza, ancora una volta, indicare un’operazione mentale sia dall’induzione che dalla sulla necessità di universalizzare la cibernetica, rea di essere differente deduzione. Si tratta di un processo rimasta ai margini dei saperi a cui dovrebbe fornire quelle presente in ogni ambito del reale (fisico, biologica, mentale, sociale), operazioni comuni: attraverso il quale un’operazione si “Ciberneretica” simondoniana Francesca Sunseri Sarà proprio questa allagmatica generale, secondo Simondon, a definire un’assiomatica universale in grado di tenere insieme l’epistemologia positivista e l’epistemologia cibernetica, così da pensare la prima in un’assiomatica cibernetica e la seconda in un’assiomatica positivista. La conclusione di questo manoscritto apre alla tematica ontologica determinante del lavoro simondoniano: per poter pensare un’assiomatica universale è necessario compiere una rivoluzione ontologica che consenta di pensare una realtà in cui struttura e operazione stiano insieme, «l’essere prima di ogni separazione» (Simondon 2018, 34). Il testo del ’53 è il primo dei testi simondoniani (insieme a Cybernétique et philosophie sempre del 1953 in cui si riprende la stessa questione) in cui è chiamata in causa la cibernetica come teoria delle operazioni, ma come si è potuto evincere il manoscritto contiene già in forma embrionale le innovazioni concettuali che Simondon avrebbe attuato successivamente. All’interno di questo percorso è utile analizzare quanto egli affermava sulla cibernetica nella tesi di dottorato principale (Simondon 2011). In prima istanza, una curiosità riguarda la presenza nel dattiloscritto della tesi conservato negli Archivi Canguilhem dell’ENS di una brevissima bibliografia, un Répertoire bibliographique, non riportata nella traduzione italiana (come segnalato dal traduttore e curatore Giovanni Carrozzini) per rispettare la scelta della versione francese del 2005. Questo repertorio bibliografico è interessante in quanto conferma ulteriormente l’attenzione che Simondon aveva per la cibernetica: oltre a testi di Louis de Broglie e di altri scienziati, sono presenti i due volumi più famosi di Wiener e le trascrizioni di tre Macy’s Conference, precisamente quelle del 1949-1950, del 1950-1951 e del 1951-1952. Inoltre, Simondon dichiara in apertura del repertorio che quelli riportati sono solo i testi di rilevanza scientifica utilizzati per la tesi: evidentemente teneva così tanto in considerazione il lavoro di Wiener e del circolo riunitosi alle Macy’s Conference da volerlo sottolineare con un elenco che, invece, non include le opere filosofiche citate nel testo. In questo testo, la prima occorrenza del termine cibernetica sembra segnare un ulteriore distacco dell’autore rispetto alla teoria wieneriana: 81 questo schema non costituisce il solo schema per siffatta correlazione: l’automatismo, nelle sue più diverse accezioni, è stato impiegato, con maggiore o minor successo, tecnologia, a partire da Descartes sino alla moderna cibernetica. (Simondon 2011, 69) Con “questo schema” Simondon intende riferirsi all’ilomorfismo di cui aveva parlato nel periodo precedente e con “siffatta correlazione” si riferisce alla reciprocità tra il dominio vitale e quello tecnico istituito dallo stesso ilomorfismo. Simondon afferma cioè che la cibernetica, come Cartesio, non sarebbe riuscita ad uscire dallo schema ilomorfico che accosta i due domini paragonandoli tra loro. Come aveva già sostenuto Couffignal, «la macchina calcolatrice non è un’imitazione dell’uomo […] la macchina non è un essere artificiale che imita strutturalmente l’uomo» (Simondon 2018, 21). Pertanto, seguendo l’indicazione di Couffignal, occorre superare questa impasse in cui è rimasta incastrata anche la cibernetica e pensare, piuttosto, un’analogia funzionale e non strutturale. Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 73 — 87 per penetrare nelle funzioni del vivente per mezzo di rappresentazioni tratte dalla Se prediamo come esempio la comunicazione del dott. Kubie durante il Congresso di cibernetica del 1949, riprodotta nel volume pubblicato da Josiah Macy Jr. “Ciberneretica” simondoniana Francesca Sunseri Sulla stessa linea si muovono anche le altre occorrenze del termine cibernetica nella tesi di dottorato principale. Quella che è possibile rintracciare nella terza parte, dedicata all’individuazione psichica, riprende la Macy’s Conference del 1949-1950: Foundation, dal titolo Cybenetics, vi rileveremo che l’autore legittima la sua distinzione fra normale e patologico nella condotta individuale attraverso il criterio unico dell’adattamento […] egli tende a dimostrare che una condotta diretta da forze di natura neuropatica, che presentano certe analogie con una qualsiasi condotta normale, risulta, infine, smascherata dal fatto che il soggetto non è in grado di ritenersi soddisfatto da alcun successo. […] All’inizio della sua relazione, il dottor Kubie stabilisce il carattere di necessità logica e fisica di tale criterio, assimilandolo alla legge di gravitazione: sarebbe assurdo domandarsi se una norma qualsiasi necessita che la materia attiri materia, poiché senza una legge naturale il mondo non esisterebbe. Allo stesso modo, risulta assurdo domandarsi se sussista o meno una norma che esiga l’adattamento dell’uomo alla società: il fatto stesso che esista il mondo umano dimostra l’esistenza di una certa norma di adattamento. (Simondon 2011, 370-371) L’ecceità dell’informazione Nel far questo Simondon si inserisce nel dibattito emerso a partire dalla differente interpretazione dell’informazione [8] all’interno del modello cibernetico ritenendo che essa sia quel [8] Per approfondire il dibattito in alla questione dell’informazione «riferimento privilegiato per la ricerca di un paradigma merito si suggerisce la lettura dei classici: 82 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 73 — 87 Lawrence Kubie, psichiatra americano che prese parte a diverse conferenze Macy, secondo Simondon tenderebbe a utilizzare l’analogia strutturale tra le leggi fisiche e le norme sociali e psichiche in una forzatura «troppo sommaria per poter essere considerata alla stregua di un principio» (Simondon 2011, 371) e che mancherebbe lo studio dell’individuo in psicologia tendendo piuttosto su una «sociologia implicita» (Simondon 2011, 373). La stessa critica viene ripresa in Du mode d’existence des objets techniques (la tesi di dottorato complementare: MEOT), in cui si afferma che il postulato iniziale di un’identità tra esseri viventi e oggetti tecnici autoregolati rischia di rendere la cibernetica inefficace (Simondon 2020, 50). Inoltre, si sostiene che la teoria wieneriana avrebbe diviso in due la Francia tra chi come Louis de Broglie si era occupato di informazione e chi, come Albert Ducrocq, di automatismo. Quando, invece, si sarebbe dovuto comprendere quanto fosse fondamentale lo studio interdisciplinare. Infine, nelle pagine di MEOT dedicate alla fondazione di una tecnologia che potesse integrare la realtà tecnica con la cultura universale tramite il pensiero filosofico, Simondon sottolinea la preoccupazione di Wiener alla fine del suo testo del 1948 di come si sarebbe potuta organizzare la società alla luce dei concetti che aveva introdotto. Inoltre, il filosofo accenna all’ipotesi che si possa non essere d’accordo con la definizione che Wiener dava di un termine chiave quanto nella cibernetica che nell’ontologia simondoniana: quello di informazione (Simondon 2020, 165-169). “Ciberneretica” simondoniana Francesca Sunseri all’altezza di una scienza dei rapporti tra operazioni e Shannon & Weaver (1949), Wiener (1948) e della seguente letteratura strutture» (Bardin 2010, 22). critica: Segal (2011), Gleick (2015), Nella seconda parte della tesi principale di dottorato, Seife (2007), Brillouin (1988), dedicata all’individuazione degli esseri viventi, dedica un Geoghegan (2008). intero paragrafo intitolato Dall’informazione al significato a spiegare il problema delle diverse definizioni del concetto: la nozione d’informazione ci viene fornita a partire dallo stato attuale delle tecniche d’informazione, a partire dalle quali è stata, a sua volta, elaborata la teoria dell’informazione. Al contempo, sembrerebbe comunque piuttosto arduo trarne una qualche nozione dotata di identità univoca a partire da queste molteplici tecniche, nelle quali si impiega la nozione di informazione, introducendo l’uso della nozione di quantità. (Simondon 2011, 298) non sussiste informazione se non nel momento in cui ciò che emette segnali e ciò che li riceve fanno sistema. L’informazione s’installa tra le due metà di un sistema in disparazione. Quest’informazione non passa necessariamente attraverso segnali (per esempio, la cristallizzazione), bensì può passare attraverso segnali che consentono a realtà distanti l’una dall’altra di costituire sistema. (Simondon 2011, 302n) Simondon, quindi, intende superare il problema posto dalle due definizioni di Shannon e Wiener e, nel testo datato 1962 discusso durante il 83 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 73 — 87 Il problema dell’accento dato alla quantità di informazione rispetto alla qualità informativa è il punto principale di discussione. In queste righe si cela ancora una volta la critica alla cibernetica e al suo restare troppo legata all’origine tecnologica del concetto. L’autore prosegue il paragrafo specificando i due modi in cui si intende l’informazione: quello sostenuto da Norbert Wiener secondo il quale l’informazione è ciò che si oppone alla degradazione dell’energia (neghentropia), ciò che «si oppone al rumore di fondo, ovvero a ciò che deriva dal caso come l’agitazione termica delle molecole»; e quello, invece, di Claude Shannon, padre della teoria classica dell’informazione, secondo cui «l’informazione consiste in ciò che implica una certa regolarità e un ritorno periodico, ovvero una sorta di prevedibilità» (Simondon 2011, 299-300). Tra queste due definizioni vi è secondo Simondon un abisso e il problema si accresce ulteriormente quando l’informazione viene non soltanto tecnicamente inviata, ma anche tecnicamente ricevuta (Simondon 2011, 301). Superare queste due definizioni per giungere ad una nuova concezione dell’informazione è in questo testo l’obiettivo di Simondon. L’esempio di processo informativo riportato, come sottolinea Bardin, non necessita infatti di distinguere tra un emittente e un ricevente, a differenza della struttura della trasmissione dell’informazione utilizzata dalla cibernetica (Bardin 2010, 23): «quando, infatti, due oscillatori irraggiano parte della loro energia, essi si trovano vicini l’uno all’altro e si sincronizzano in modo tale che non si possa affermare che l’uno piloti l’altro, formando un solo sistema oscillante» (Simondon 2011, 301). I due oscillatori possono cioè svolgere intercambiabilmente il ruolo di emittente e di ricevente poiché, nell’esempio di Simondon, essi sono poli di un processo in cui i due sistemi (gli oscillatori), avvicinandosi, instaurano una relazione reciproca e non singole relazioni con l’informazione. Per Simondon: Être ou ne pas être information ne dépend pas seulement des caractères internes d’une structure ; l’information n’est pas une chose, mais l’opération d’une chose arrivant dans un système et y produisant une transformation. L’information ne peut se définir en dehors de cet acte d’incidence transformatrice et de l’opération “Ciberneretica” simondoniana Francesca Sunseri convegno di Royaumount (ma reso pubblico soltanto nel 2010 nel volume Communication et information (Simondon 2015a, 157-176) afferma: de réception. Ce n’est pas l’émetteur qui fait qu’une structure est information, car une structure peut se comporter comme information par rapport à un récepteur donné sans avoir été composée par un émetteur individualisé et organisé. (157) L’informazione, quindi, è per Simondon un’operazione che produce una trasformazione, una presa di forma (in-formare) che non può essere definita se non a partire da questa relazione. Già nella tesi, infatti, egli sostiene che se per Claude Shannon il problema era capire la quantità di informazione che poteva essere trasmessa da un emittente, in una prospettiva sistemica come quella presentata non ci si può limitare a questo. Oltre alla quantità, bisogna infatti chiedersi quale sia l’attitudine alla ricezione dei segnali informativi: in parole semplici, se il segnale informativo non è comprensibile da alcun ricevente, non c’è in generale processo informativo. Simondon ritiene dunque necessario indagare anche quella che in prima battuta definisce ecceità informativa, ovvero «ciò che fa sì che questo sia dell’informazione che viene ricevuta come tale, mentre invece quest’altro non viene ricevuto come informazione» (Simondon 2011, 302). L’idea di una ecceità informativa permette così all’autore di smarcarsi sia dalla tesi di un’informazione determinista sia da una sua definizione meramente aleatoria, e di poter affermare in MEOT che: «l’informazione non è un tipo di forma né un insieme di forme, essa è la variabilità delle forme, l’apporto di una variazione in rapporto a una forma» (Simondon 2001, 137). 84 Alla luce di quanto è stato riportato, è possibile parlare di una profonda interrelazione tra la cibernetica di prima e, poi, di seconda generazione con una French Theory che si sviluppa su differenti livelli. Se come sostiene Le Roux la teoria wieneriana ha suscitato un certo movimento nella temperie culturale francese degli anni Quaranta che ha portato ai diversi dibattiti fin qui riassunti, è anche vero, come sostiene François Cusset (2005) in risposta a Lafontaine, che le posizioni di Lévi-Strauss o Deleuze-Guattari su questi temi non sono certo soltanto frutto dell’incursione della cibernetica americana. Quella della ricezione della cibernetica in Francia è una storia ancora da dover sviscerare completamente, ma i primi importanti passi in questa direzione sono stati fatti anche recentemente, dal tedesco Bernard Geoghegan (2008, 2023). E tuttavia, a partire da questo posizionamento generale da parte della filosofia francese, si può affermare che il lavoro di Gilbert Simondon prospetti una svolta decisa e densa di conseguenze per le generazioni successive in direzione di quella che si potrebbe iniziare a chiamare una ciberneretica. Rispetto sia al concetto generale di cibernetica quanto al Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 73 — 87 Conclusioni “Ciberneretica” simondoniana Francesca Sunseri 85 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 73 — 87 concetto di informazione che ne costituisce uno dei cardini, il filosofo di Saint-Etienne sembra proporre infatti, come abbiamo visto, una nuova, anche se solo accennata, strada. Nella sua volontà in grado, come ricorda nella tesi complementare, di integrare e possibilmente concretizzare l’intenzione dell’opera di Wiener: quella di presentarsi davvero come un nuovo Discorso sul metodo, a patto però di non lasciare latente quella potenza unificante che la renderebbe realmente rivoluzionaria (Simondon 2020, 121). A. (2010). Epistemologia e politica in Gilbert Simondon, Vicenza: Fuoriregistro. Lafontaine, C. (2004). L’Empire cybernétique. Des machines à penser à la pensée machine. Paris: Du Seuil. (ebook) Brillouin, L. 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The latter point is explored in cybernetics’ crossing with aesthetics, as it occurred in Umberto Eco. His move towards semiotics in the late 60s indicates, on one side, a dissatisfaction with information theory, at first deemed ideal to grasp post-war poetics, but also, on the other, the survival of an interest towards its concepts, so much so that Eco integrated information theory in his general semiotics. Eco’s thoughts on the difference between information and meaning lead us to reflect on how the intersection of aesthetics and semiotics, occurred through cybernetics, changed the way in which we conceive of creativity in AI. This change contributes to shaping contemporary studies that simulate creativity with computational means. Breton 1933, 63 A great interest has accrued around meaning in Artificial Intelligence (AI). This interest met spurious results and discontinuous efforts, but there are traces that go back to its origins in cybernetics, and the latter’s intersection with semantics. Even though a study of this intersection hasn’t been attempted yet, we aim to show, first of all, how the issue of meaning traverses the passage from cybernetics to AI. Two recent discursive events can be mentioned to introduce the topic. One comes from neuroscientist Erik Hoel, who in a newsletter post, “The semantic apocalypse”, laments that the outputs of neural networks trained to replicate artistic styles or to create original ones are just «a “deep fake” of meaning» (Hoel 2021, online). Hoel refrains from tackling this in depth, but he lets us approach the discursive field he interacts with, formed by the enunciates on artificial creativity circulating in peer-reviewed journals, divulged in academic seminars, commented in op-eds and Quora threads. His post is a refraction of the discursive universe that it touches upon, where meaning is re-surfacing as a scientific issue. To better grasp this resurgence, our second reference reconnects the topic to cybernetics. In 2018, the Santa Fe Institute organised a workshop on “Artificial Intelligence and the Barrier of Meaning”. Academic scholars and researchers from private companies came together to discuss the semantic limit of AI. The lead organiser of the workshop, Melanie Mitchell, wrote a recapitulatory piece (Mitchell 2019) exposing the questions that were left unanswered (i.e., could meaning be linked to other forms of reasoning, like abduction?), and referring the theme back to mathematician GianCarlo Rota, who had first evoked the idea of a barrier of meaning in a piece written while at Los Alamos National Laboratory. Rota started to work there under the invitation of Stanisław Ulam, a name closely associated with the Manhattan Project. It was to honour Ulam’s memory that he wrote the article. In particular, he was fond of a conversation the two had while walking in Santa Fe, located not too far away from Los Alamos. AI was booming across the US and Europe, with great progress being made in the modelling of human intelligence, but, the two friends wondered, could machines ever grasp the meaning of words? Ulam framed the issue with an image that exposes a view of semantic systems common among his peers: Imagine that we write a dictionary of common words. […] When you write down precise definitions of these words, you discover that what you are describing is not an object, but a function, a role that is inextricably tied to some context. Take away the context, and the meaning also disappears. (Rota 1986, 2) The image of the dictionary implies a semantic theory postulating that, to attain the meaning of any word in a set, it is necessary to define a number of primitive elements which, if combined by certain rules, form the semantic field of a language. This phrase encapsulates how meaning The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI Niccolò Monti L’« illumination » vient ensuite. 90 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 89 — 103 Introduction. There Once Was Meaning Cybernetics and semantics cannot be tackled as if in a vacuum. We have to account for some contingencies. The development of a science of meaning and of cybernetics both occurred between or in war times, often in the US and within the walls of academic or industrial institutions, the latter often patronaged by the National Defence Research Committee, the most prominent office funding research on automatic warfare. Many cyberneticists were involved in military research programs: Ulam and John von Neumann worked on the atomic bomb; Alan Turing worked for the UK army on decryption; Claude Shannon was employed as an engineer at Bell Labs, contributing to advanced fire-control systems. Norbert Wiener designed anti-aircraft guns, and we can at least partly attribute to his work on military craft his ideas on how autonomous behaviour might occur in machines too. [1] [1] More correlations between and military practices With Arturo Rosenblueth and Julian Bigelow, cybernetics arise if we look at the files redacted Wiener co-authored the 1943 article on Behaviour, by US army members (e.g. Bull 1958), automation becomes an issue Purpose and Teleology: here, meaning is never the main where of military strategy. topic, nor the discussion centres around communication per se; but the relevance of the article for us lies its implication that purposefulness can be found in organic and inorganic agents, their activity seen as isomorphic. The authors’ behaviourism allows this interpretation, although it wasn’t a matter of interpretation, but «a physiological fact» (Rosenblueth et al. 1943, 19), since nothing much differentiates machines and organisms. [2] [2] For the machine-organism opposition, we refer to the valuable The war looming in the background and seeping in text by Canguilhem (2008), a the research is apparent when ‘purposeful active behav- conference reprinted in the 1965 iour’ becomes a description applicable to machines as well: French edition of Knowledge of Life. «A torpedo with a target-seeking mechanism is an example. The term servomechanisms has been coined precisely to designate machines with intrinsic purposeful behaviour». (19) A torpedo seeks its target by responding to a physical stimulus, thus generating a feed-back loop between the approximating final output and the sum of all the inputs that the torpedo receives as adjustments of its behaviour, until it hits the target. The device doesn’t understand the inputs, nor the destination: it responds to stimuli, but it doesn’t endow them with meaning. But this machine-organism isomorphism sets the stage for a further question: how does meaning materially emerge in communication? The issue stems from the fact that communication was conceived as a mechanical process, structured around binary combinations of inputs and outputs, along a straight line from sender to receiver. This structure relied on inquiries on how synapses and neurons function, as in the studies in mathematical biophysics by Warren McCullough and Walter Pitts, The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI Niccolò Monti Meaning in the Machine: How Semantics Entered Cybernetics 91 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 89 — 103 impinged on the design of machines similar to humans in semantic tasks. Ulam, Rota, and Mitchell, lay out an intergenerational line of inquiry focused on crashing the «barrier of meaning» of AI. What came before them, in terms of a semantic urge in early cybernetics, we shall now attempt to outline: the path leads to an encounter of semantics and cyberneticists, or even their reciprocal reformulation, which is precisely what occurred with Umberto Eco. nation of outputs from other selected elements will or will not act as an adequate stimulus for the discharge of the next element, and must have its precise analogue in the computing machine. (Wiener 1961, 14) To reinforce the analogy came the notion of information, which had gained relevance thanks to the field of telecommunications: the urge was to translate the exchange of meaning among humans – tied to mental activity, and thus having a qualitative nature – into a quantitative measure regardless of the physical medium. We won’t delve into the intricate history of communication engineering, but it will be useful to evidence a few steps taken toward this quantitative translation. Once again, the history of knowledge borders the one of institutions. In 1928 Ralph Hartley, an engineer employed at Bell Labs, penned an article on the Transmission of Information, arguing that automatic devices could perform the functions (reception, selection, encoding, decoding, noise cancelling, etc.) that make up the production and circulation of symbols among humans. While proposing that frequency-range could be a general measure for information, to uniformly describe all communication by the same unit, Hartley raised a significant issue for information theory: if two human operators can understand each other when they talk or write, it is because they share a code, allowing them to interpret the symbols in the same manner, giving them the same meaning. But meaning is a psychological factor, which has to be eliminated if we want to «set up a definite quantitative measure of information based on physical considerations alone» (Hartley 1928, 538). It was preferable that the semantic-psychological and mechanical-physical levels stayed distinct: the sending and receiving of symbols, the information transmitted by such symbols, had to be understood as physical processes, thus granting an adequate abstraction from psychological bias. Coding, and the associated selective action on the symbols used in communication, are then transformed into a physical problem, related not to the semantic interpretation of symbols, but to the probability that other symbols might have been selected. The notion of information becomes a measurement for the chance that a symbol is selected among other possible ones. Information as a measure of probability, coding as a grammar of the possible combinations of symbols: here information theory takes a more rigorous look at its objects and concepts; and it is here that we perceive the direction pursued by a colleague of Hartley, Shannon, the man behind the mathematical theory of communication. He took things a step further: The fundamental problem of communication is that of reproducing at one point either exactly or approximately a message selected at another point. Frequently The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI Niccolò Monti The synapse is nothing but a mechanism for determining whether a certain combi- 92 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 89 — 103 both in close contact with Wiener and working under his supervision at MIT. It was a common scientific belief that the nervous system operated through a switching mechanism, making neurons and synapses be either on or off. The analogy with how an electrical machine functions quickly took hold: of communication are irrelevant to the engineering problem. The significant aspect is that the actual message is one selected from a set of possible messages. (Shannon & Weaver 1964, 31) A hierarchy of communicative aspects has been established. Warren Weaver, after Shannon, argued too that all communication is reducible to the technical level, related to the accuracy of a transmission and supervening on two other levels, which he called the semantic and the effectual – the latter seemingly akin to the pragmatic aspect that had been defined by Charles Morris, the semiotician who, at that time, was tenured at the University of Chicago together with Rudolf Carnap, fresh off the publication of his Introduction to Semantics (1942). The evolution of semantics was proceeding on a steady parallel line with cybernetics. [3] [3] We couldn’t here provide a full examinations of other works on The ties float on the surface of textual compresence: meaning, like those conducted by they are retraceable through documented institutional re- Ogden and Richards, Walpole, Ullman, Ziff, among others, who in no lations, shared themes that appear across different texts, and lesser terms stirred the evolution of direct interactions between key individuals or between semantics and communication theory. groups, the discourses of one and the other side intersecting and belonging to adjacent fields of knowledge. Most of all, cybernetics and semantics coexisted in the same epistemic transition. Human expression was being modified by a tide of technical innovation. The mechanics of communication were becoming more important than the semantics of communication; hence the views of Shannon, Weaver, and before them Hartley: the engineering aspect is, not just of higher relevance, but what determines the existence of any semantics. So, following what we said earlier, if a message is said to convey information, then that information doesn’t stand for what the message does say, but what that message could say. A probabilistic theory of communication, where a message is made of a series of symbols selected by a sender and decoded by a receiver, without the need to consider (which doesn’t mean to deny, but certainly to ignore) any signifying relation between the symbols; a theory where the information conveyed equals «the logarithm of the number of available choices» (Shannon & Weaver 1964, 9); and lastly, a theory where the generation of any message depends on «the special case of a stochastic process in which the probabilities depend on the previous event» (11), that is, on a model called “Markov chain”. In every communicative sequence, the appearance of a symbol is determined by the ones selected before; therefore, information conveyed by each symbol is measured on the probability of what could have been chosen instead to continue that same sequence. It implies that, if there are more choices that could have been selected, then the message conveys more information, like with those messages where more than one option in decoding them yields the same probability. The main advantage of this theory, according to its advocates, is its generality, due to the fact that it can be applied to a vast range of communication processes, both from organic or machinic sources, and in diverse fields from cryptography to translation – although, as Weaver admitted concerning the latter, «the complete story here clearly requires The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI Niccolò Monti some system with certain physical or conceptual entities. These semantic aspects 93 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 89 — 103 the messages have meaning; that is they refer to or are correlated according to The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI Niccolò Monti 94 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 89 — 103 consideration of meaning, as well as of information» (25). A cybernetic theory of communication is so generalised that it is applicable to phenomena where semantics might be involved – while still being supervened by the engineering level. Moreover, Weaver adds, information theory might prove «particularly promising for semantic studies, since this theory is specifically adapted to handle one of the most significant but difficult aspects of meaning, namely the influence of context» (28). We have gone full circle to Ulam’s consideration: to grasp meaning one has first to understand how it is generated within a context. A model of information transmission based on Markov chains accounts for the co-influential events of any communication. This is why, if the power of a scientific theory is guaranteed by its degree of generality, cybernetics tilted more and more towards research on human-like semantic behaviour (translation, man-to-machine interface, or in general natural language processing). We witness here a branching of cybernetics into three paths. The first is the closest to the original scope of cybernetics: to analyse and define the principles of complex systems using an abstract model of communication. William R. Ashby’s work exemplifies this view, where any message is reduced to its behavioural and functional explication. This gets more evident once we approach the definition of what is a machine: «a system whose behaviour is sufficiently law-abiding or repetitive for us to be able to make some prediction about what it will do» (Ashby 1958, 225) Again, the problem is how selection occurs and how it can be measured. If, then, we tackle the question of building a machine, we are not dealing with «the more obvious process of shaping and assembling pieces of matter, but with the less obvious questions of what determines the final model, of how it comes to be selected» (252). This is one of the clearest formulations of the hypothesis that a machine might seem human-like. Ashby asks, «How can a machine select?» (260). A machine might select the state to be in by following a straight trajectory of possibilities; no variables, no alternative paths. A machine could reduce the variety in the pool of possible states it can be in, showing selective behaviour by reduction. Similar mechanisms in selecting and reducing, others that amplify, regulate, control, don’t need meaning: the actions emerge out of stochastic processes. But it doesn’t entail that machines aren’t intelligent: in fact, if a machine «were to show high power of appropriate selection […] we could hardly deny that it was showing the behavioural equivalent of “high intelligence”» (272). It proves useful to maintain this reductionist side of cybernetics in mind, as some of its tenets (i.e., the mechanical reproduction of intelligence) are not too far away from what the other branches formed after the 50s were proposing in their turn. Thus, on one hand, and running along the second avenue of cybernetics, we find a new approach in the respective works on semantic processing in automatic machines by Ross Quillian and David MacKay: their goal was to reintroduce the psychological factor in order to reach a more complete simulation of human mental activity, which included the design of semantic models. We won’t insist further on their contribution as we shall come back to them, especially to Quillian, in the chapter dedicated to Eco. Then, on the third avenue of cybernetics, we have AI, where the computer programs built «are usually called “heuristic programs”» (Minsky 1968, 8), because they were aimed at simulating and enhancing The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI Niccolò Monti problem-solving capabilities. In both avenues we notice a tendency to focus on knowledge representation as a core issue. The premise was that, if a general-purpose AI had to be achieved, the semantic aspect, once deemed secondary, became the most important one to reproduce artificially. AI and adjacent approaches started to focus more and more on translation, speech, on the replication of literary writing, painting, musical composition, testing what of human creativity could be simulated through algorithms. [4] [4] McCarthy et al. (1955), the originators of the first project on AI, If more complex tasks had to be solved by relying on proposed that seven paths of research computational methods, if even artistic expression could needed to be explored, the last one randomness and creativity, be reproduced, it was clear that meaning was leading cy- being suggesting that the issue of creative bernetics towards creativity; and, moreover, the proximi- behaviour had already grown into a ty of the two legitimised the appropriation of cybernetic fully formed scientific inquiry. concepts by fields of research that viewed them as a new approach to human communication. Starting from the 1950s, the gaze of many scholars in the humanities turned to cybernetics. One of these was Umberto Eco: similar to what Ulam argued regarding meaning, what matters is to retrace a context. Open Automata: How Cybernetics Entered Semantics 95 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 89 — 103 As we saw in the previous section, the engineering model of communication tended to exclude, or at least leave largely unquestioned, what meaning is and how it works. However, the Shannon-Weaver model (sender, encoder, channel, decoder, receiver) started being implemented in fields of research where meaning would be expected to be ineliminable. Structural linguistics, which was spearheaded by Roman Jakobson, and anthropology, with Claude Lévi-Strauss as its beacon, were some of the most receptive disciplines when it came to information theory. For example, apart from the overall model, the ‘message’ and the ‘code’ of which Shannon spoke, key elements of any communicative situation, were acquired as new linguistic concepts: «According to Jakobson’s theory, speakers consulted the codes at their disposal and composed a message according to its rules» (Geoghegan 2011, 115). This promiscuity of early structuralism and cybernetics was not only epistemic, but institutional: the aforementioned scholars, and other European expatriates, lived and worked in the US during the Second World War and the Cold War. The Fifties saw an increase in institutional relations across Western countries, often driven by Jakobson, Lévi-Strauss, and their colleagues; thanks to them, as well as to the international profile of some cyberneticists, like Wiener, information theory seeped into debates, university courses, press houses and conferences around Europe. However, the arrival of these theories was untimely and, ultimately, their effects on mass communication studies was not always as enduring as their proponents hoped. The CECMAS (Centre d’études de communication de masse, today Centre Edgar-Morin), one of the first attempts in France at the intersection of mass communication studies and information theory, was founded only in 1960, when several programs in the US and also abroad to fund cybernetic-influenced fields were already being shut down or not even begun. Two reasons often quoted are the rise of generative grammar with Chomsky and the shift in the scientific The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI Niccolò Monti community gathering around AI, which was more and more attracted to semantic issues, going beyond Shannon. It should be noted that the move towards or against cybernetics in the ‘60s, when the field seemed at its peak, wasn’t symmetrical. It certainly wasn’t among the scholars that were beginning to name their research as semiological. Though Roland Barthes was one the directors of the CECMAS, his interest in information theory had always had a taste of scepticism, especially regarding the aim of a neutral scientific language. He had employed Jakobson’s revisited Shannon-Weaver model in Elements of semiology (1964) and before that in Le message photographique (1961) – echoed years later by Claude Bremond’s Le message narratif (1964) –, but it didn’t escape him that notions like message, or code, had emerged from a specific milieu, the American engineering one, with a specific goal in mind, to make communication more efficient by technical means: «As he deployed the tropes of cybernetics and information theory, he also submitted their procedures to ideological and historical critique» (Geoghegan 2020, 67). Meanwhile, A. J. Greimas, a proponent of structuralist semantics, advised to borrow with caution from disciplines parallel to linguistics, such as information theory, which treat only data dealing with a signifier transcoded from a natural language and, because of that, make problems of signification parenthetical. (Greimas 1983, 33) 96 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 89 — 103 In Italy, as we anticipated, one of the first scholars to employ information theory in the human sciences was Umberto Eco. His thought was grounded in aesthetics, since at least his dissertation on the aesthetic problem in St. Thomas Aquinas, up until the publication of Opera aperta (OA) in 1962, but it was gradually influenced by Claude Lévi-Strauss, the Russian formalists, Roman Jakobson – the three shocks of 1963, as he called them prefacing the 1992 edition of OA [5] –, but [5] References are to the Italian editions of OA, providing the the greatest imprint, since the 1973 publication of Il Segno, translation in a bracketed text after distancing himself from structuralism, was borne by the the quote. Printed translations of the originals will be used when possible. semiotics of Charles Sanders Peirce. It seems relevant to notice that Eco could not have met cybernetics and information theory through what was going on in France; at least not through the readings of the structuralists, like Jakobson and Lévi-Strauss, who had become familiar to him only since 1963. What about before that? He had read Wiener and Shannon in English, but there is a different, larger context of reception that must be accounted for. Two movements need to be retraced: one from aesthetics to cybernetics, the other from cybernetics to semiotics. Following them, and considering their respective frames of reference, we focus on Eco’s intellectual growth, dealing with his early aesthetics, which prepared his proposal for general semiotics. Even if non-exhaustive as an example of his time, insisting on Eco and cybernetics allows us to remark on post-war Italian culture, on the artistic and philosophical situation, when the latter often sought intakes from outside to invigorate its rampant anti-idealism. And it is also to oppose idealistic aesthetics that Eco got involved in the first place with cybernetics. Eco seems to have viewed cybernetics as a toolbox of concepts that he could use to analyse the artistic situation: he noticed a shift in poetics, The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI Niccolò Monti a term already revisited and used by Luciano Anceschi, at least since his Saggi di poetica e di poesia (1942). Anceschi was a prominent figure in post-war aesthetics and a deus ex machina for the birth of the Gruppo 63, to which Eco associated himself, contributing greatly to the history of the neo-avant-garde, to the point that OA became a flagship theoretical text for that group of intellectuals. Poetics – that is, as Eco says introducing the 1967 edition of OA, «il programma operativo che a volta a volta l’artista si propone, il progetto di opera a farsi quale l’artista esplicitamente o implicitamente lo intende» [6] – [6] «The operative program that stepby-step the artist prepares for himself, had to become the main target of aesthetics. Contrary to the project of a work in progress as the Benedetto Croce’s successors’, what is encouraged is a ten- artist explicitly or implicitly intends it» dency to study the procedure more than the artists, the (Eco 1962/2016, 18, author’s trans.). creative products and the operations that were followed more than a personal psychology; a tendency, which is really an aesthetic posture, towards art as a fact of culture, to be studied with no prior prejudice regarding its supposed value or its true belonging to the artistic realm, thus obscuring all forms of personal judgement from criticism: according to Eco, an art critic is also a cultural critic, their descriptive method needs to attain such a generality, not neutrality however, that all human forms of expression can be analysed. This descriptivism was presented by Eco as a path towards structural analysis, in a light that partly reflects his exposure to the structuralism burgeoning across the Alps; however, Eco’s method resembles, more directly than his French counterparts’, what Shannon and Weaver were trying to achieve with information theory, that is, looking to formulate a general behaviourist model to compare all communication regardless of the medium. It has been observed, for instance by Rocco Monti (2021), and Eco himself admitted, that his method hinged on an aesthetics of vagueness: like in cybernetics, vagueness, or ambiguity, is a quality of a message related to its information. Here, the difference lies in the fact that, whereas ambiguity was considered detrimental in information theory (an ambiguous message is less decipherable), avant-garde poetics, and most works of art, seemed instead to favour it. In the same introduction quoted earlier, detailing the background to his aesthetic proposal, Eco says that: 97 l’opera d’arte è un messaggio fondamentalmente ambiguo, una pluralità di significhe contemporanee – una delle finalità esplicite dell’opera, un valore da realizzare a preferenza di altri, secondo modalità per caratterizzare le quali ci è parso opportuno impiegare strumenti fornitici dalla teoria dell’informazione. [7] [7] «The work of art is a fundamentally ambiguous message, a plurality of meanings that live in one signifier. […] this ambiguity becomes – in contemporary poetics – one the explicit aims of the work, a value to realise above others, according to modalities to characterise which we deemed appropriate to employ the tools supplied by information theory» (Eco 1962/2016, 16, author’s trans.). Intentional vagueness as a general creative ethos, succinctly encapsulated by what Eco termed the poetics of openness. Hence the use of information as a term to describe contemporary art (James Joyce, dodecaphonic music, abstract or informal art), where indeterminacy had become a chief creative aspiration, noting structural similarities with transformations occurring, for instance, in physics after quantum theory. A new method focusing on the information borne by a work of art was required, more than criticism Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 89 — 103 cati che convivono in un solo significante. […] tale ambiguità diventa – nelle poeti- The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI Niccolò Monti 98 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 89 — 103 seeking to establish the validity, or essence, of art, since art itself seemed to focus more on probability than actuality: more on what a text might say, than on what it does say. However, another thing should catch the eye in the quote: the semiotic terminology. This is the post-1963 OA, the one partly rewritten after Jakobson, Lévi-Strauss and the Russian formalists; however, Eco doesn’t substitute the notions of information theory with those of structuralism: it might not come as a surprise that the shift to semiotics occurs through cybernetics. In fact, it was in Italian cybernetic circles located in Milan and Turin that the semiotic theories coming from across the ocean started to circulate, already since the 40s, and ‘meaning’ was a central point of discussion. There is in fact an overlap between what those cyberneticists were discussing, and the receptivity to foreign stimuli of Italian philosophy. [8] [8] It isn’t a chance, then, that the printed copy that we consulted of These circles revolved around several research cen- Abraham Moles’ book on aesthetics tres and journals, one of which was Methodos, launched and information theory, published in read on the first page: “Dono in 1949 by Silvio Ceccato, Vittorio Somenzi and Giuseppe 1958, del Prof. Pareyson”, gifted by Pareyson, Vaccarino, one of the earliest Italian journals to publish ar- professor of aesthetics at the ticles on information theory and, in parallel, on Morris’ University of Turin and Eco’s mentor. theory of sign behaviour. Morris was well received, since it seemed to fit cybernetics’ attempt to design models for communicative behaviour. His idea of meaning was greatly discussed, both in the Methodos circle – by Ceccato himself or by Ferruccio Rossi-Landi, another semiotician who was among the first to set the stage in Italy for semiotics to gain the intakes of cybernetic and aesthetic theories –, and by Eco and other semioticians, like Emilio Garroni. This is Ceccato in 1949: «Una adesione generale è data ai risultati di Charles Morris. […] il linguaggio diviene comportamento». [9] Insofar as it is described as a behaviour, lan- [9] «A general support is given to the of Charles Morris. […] language guage becomes the object of cybernetic description. Thus, results becomes behaviour» (Ceccato 1949, it might be automatically reproduced by a machine: all it 235, author’s trans.). takes is to take any complex system of expression as a system of probabilities. But this doesn’t entail a disappearance of meaning, as much as it entails a reconsideration of this concept within a theory of general communication. After all, even Morris himself wasn’t entirely sure about what to do with ‘meaning’: «What of the term ‘meaning’? […] In general it is well to avoid this term in discussion of signs; theoretically, it can be dispensed with entirely and should not be incorporated into the language of semiotics» (Morris 1938, 43), and were it to be used, it had to be defined not as a thing in the world, but as an element of semiosis. It was then on these grounds that Garroni criticised Eco’s use of the information-meaning opposition. Let’s recall Eco’s words first. Eco gathered from his reading of Wiener that information had to be understood as an additive property of communication: there can be more of it or less of it. Information either grows or disperses, and it is tied to the originality conveyed by a message. Thus, information might be thought as what provokes surprise when a message contains something deemed improbable. If a language is a system of prefixed probabilities, and thus a code of communication (Eco 2016, 106), then a creative speaker is the one who can scan this system to find the less probable combinations, the less predictable ones. What is predictable, thus, yields less The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI Niccolò Monti information. However, it doesn’t necessarily yield less meaning. Actually, Eco says, usually the most probable messages are also the most signifying: they are more easily linked to the pre-constructed knowledge of a fact, they are more expected, thus they make more sense (shaping our expectations in a given context). It is true that the usual response, when faced with a message that we cannot comprehend, that surprises us, that yields more information than we can take, is ‘this doesn’t make any sense!’ Art that plays on this sense of indeterminacy is art that plays on the level of information: art that plays with regular or irregular patterns, with our expectations, since it is supposed that we participate in the same communicative code as the artist. Reasoning, much like in cybernetics’ theory of intelligence, takes the form of induction, which, if automized, might lead to machines that perform like humans in prediction games, or in the composition of artistically valuable works. This is true if we take information as a measure of value. Was Eco, similarly to Shannon, proposing that the technical level of communication, tied to information, supervenes in artistic creation too? Not entirely, but some criticism of his contemporaries tackled this aspect: Garroni was specifically willing to test the validity of Eco’s application of information theory to aesthetics. After having reviewed the cybernetic literature that Eco referred to in OA, Garroni concludes that informativity and semanticity – respectively, the property of a message of carrying a quantity of information to someone capable of decoding it; the property of a message of signifying something to someone – are in no substantial way different in cybernetics. He concedes that Eco acknowledges it in OA, but then he adds that information theory, far from dispensing with meaning, actually tried to rescue it, by reintegrating it within a mathematical theory of communication. Garroni’s criticism becomes a provocation towards cybernetics and Eco centred on the identity-difference of information and meaning, and particularly on an issue common to both: selection. Garroni asks: 99 Chi, per esempio, opera la scelta? Il fruitore? Ed ecco verificarsi la curiosa circostanza per cui il selezionatore-trasmittente coinciderebbe con lo stesso ricevente, e la comunicazione si effettuerebbe nell’ambito della stessa persona, con paradospropriamente). [10] [10] «Who, for instance, operates the choice? The user? Hence the curious circumstance where the selectortransmitter coincides with the receiver, and communication is carried out within the same person, with the paradoxical exclusion of the author (who programs, but doesn’t really communicate)» (Garroni 1964, 258, author’s trans.). Garroni’s criticism led Eco to reformulate his theory, moving away from poetics and towards semantics as a new way to tackle the analysis of how knowledge is structured in a culture and how it can be described. If sender and receiver aren’t distinguishable in cybernetics, the concepts imported from it had to be revisited, if not elided, since they led to an impasse: who interprets? Who endows a piece of information with meaning? Interpretation, the once eliminated psychological bias, had to be reinstated in the model inherited from cybernetics. Eco delineates his reply to Garroni in an addendum dated 1966 which was included in the second edition of OA. First, Eco proposes to delimitate what information refers to: the definition remains the Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 89 — 103 sale esclusione dell’autore (il quale programma, ma non comunica The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI Niccolò Monti one borrowed from cybernetics, but its descriptive power is reduced in scope. What does it entail to transmit a message? It implies «la selezione di alcune informazioni, e dunque una organizzazione, e quindi un “significato”». [11] [11] «The selection of some and its organisation into a Cybernetics is downsized, as organic and mechan- information signifying complex» (Eco 1962/2016, ic systems aren’t behaviourally analogous. It doesn’t con- 126; trans. in Eco 1989, 66). cern only the emergence of meaning from the organisation of content: it would later come to Eco that the solution lies in, first, a reconsideration of the system of semantic relations (the code cannot be structured like a dictionary, more on that later), and, secondly, a revaluation of the semiotic processes involved in the production and in the interpretation of cultural artefacts. This shift was already in nuce in the passage where Eco differentiates between humans and machines: «se il ricettore dell’informazione è una macchina […] il messaggio o possiede un significato univoco, o si identifica al rumore», [12] whereas «quando trasmetto [12] «If the receiver of the information is a machine sul piano umano, scattano […] fenomeni di […] either the “connotazione”». [13] [13] «In a transmission of messages message has between people, where every given a univocal Semiosis does not occur in ma- signal […] is charged with connotation» meaning, or it is chines. Therefore, human communication (126; trans. in 66). automatically identified with is made of connotative associations, it is noise» (126; a motion from order to disorder, from trans. in 66). transparency to hermeticism; machines, on the contrary, operate in full compliance with a determinate code, following a regular and univocal pattern: they are incapable of understanding, as they are of betraying; they cannot go beyond induction and simulate the inferential process of abduction. Cybernetics is thus confined within new logical and epistemic walls: 100 Una volta che i segnali sono ricevuti da un essere umano, la teoria dell’informazione non ha più nulla da dire e lascia il posto a una semiologia [14] «Once the signals are received by a human being, information theory has nothing else to add and gives way to either semiology or semantics, since the question henceforth becomes one of signification» (127-128; trans. in 67). But information theory isn’t entirely rebutted. As it was clear from the structuralist works of Jakobson and LéviStrauss, and from those of Max Bense or Abraham Moles, with their information theory-infused aesthetics, cybernetic thought could be applied to other fields of knowledge, provided that its concepts were revised; which was what Eco attempted in his general semiotics. The first move forward is introduced with the distinction between source and code information. The former is a statistical property related to a source and its freedom of choice when composing a message; but, when a message is encoded and decoded, the layer of the code has to be accounted, which adds, with its interpretative and selective criteria, a further system of probability. The concepts are the same – message, code –, but Eco is using them to mark a shift in his approach, with a starker focus on decoding rather than encoding processes; and to decode, according to Eco, necessarily entails to enter a process of signification. The machine works with signals; humans work instead with signs: «il segnale non è più una serie di unità discrete computabili in bit di informazione, Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 89 — 103 e a una semantica, poiché si entra nell’universo del significato. [14] The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI Niccolò Monti 101 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 89 — 103 bensì una forma significante che il destinatario umano dovrà riempire di significato». [15] [15] «The signal isn’t a series of units computable in bits of Thus, the semantic aspect couldn’t be thought an- discrete information anymore, but a signifying ymore as subject to the engineering conditions of a com- form that the human receiver will have fill with meaning» (Eco 1968, 31, municative system; a stochastic model couldn’t alone de- to author’s trans.) scribe nor explain the complex interrelations between these two dimensions, like Weaver himself had conceded when it came to simulate interlinguistic translation: the fact that, going from one language to another, there can still be semantic understanding, implies that meaning has to be accounted for as a primary element of translation, whether human- or machine-made, as in any process that might be defined as creative. [16] [16] A critical outlook on the fallacious logical foundations of computational In 1971 Eco has moved further away from the jar- creativity was recently expressed by gon, the methodologies, and some of the concepts of in- Reynal (2021). formation theory; nonetheless, his interest in semantics still hinges on intakes from the new generations of cyberneticist. This explains his relationship to Quillian’s semantic model, often referred to as the Q model and deemed by Eco as ‘more fruitful’ than others (Eco 1971, 73). Why did Quillian’s model proved important to Eco? Eco’s attempts at developing a concise and general interpretative model for cultural phenomena was then coming to terms with the fact that human cultures are, not only ambiguous, but essentially contradictory: they change, they can be incoherent, opaque, multi-layered. Meaning is an unstable element. Thus, a semantic universe is not a static whole; instead, it has to be represented as a constantly fluctuant and dynamic system, where transformation is the norm and creativity the tool. Eco needed to start from the Q model, since he thought it was a model of linguistic creativity (76). Quillian spoke of semantic memory, asking: «What constitutes a reasonable view of how semantic information is organised within a person’s memory?» (Quillian 1968, 216). The task was to build a model were the mnemonic function of recognition could be defined in such terms that it could be reproduced by a machine, therefore allowing it to understand the meaning of certain words. What separates Quillian’s model from the rest, according to Eco at least, was its reliance on associative links that interconnect the nodes of a semantic net, each node representing a word from an English dictionary. More importantly, Quillian introduces a distinction between type nodes – which «lead directly into a configuration of other nodes that represent the meaning of its name word» (223) – and token nodes, referring «indirectly to a word concept by having one special kind of associative link that points to that concept’s type node» (223). There are just a few steps to take from here to Eco’s own proposal of how a semantic universe should be structured. The type-token dyad – which Eco employs probably deriving it directly from Peirce at this stage – opens up to issues of what rules govern these links, how the meaning-to-meaning associations are formed and transformed. Memory was to Quillian what culture was to Eco, here: a dictionary is nothing but a code, a mostly stable one; in fact, the Q model isn’t a configuration of the semantic universe as a whole but, Eco believes, of a portion of it, with its established attractions and repulsions (Eco 1971, 76). This is but a brush of the links between cybernetics and semantics, which cannot be fully recovered without accounting for the discursive and institutional elements that form this interconnection. Now, similarly to Mitchell’s article after the workshop she organised in 2018, we are left with the unanswered questions: Morris’s role in bridging semiotics and information theory deserves more attention that what we managed to allow it; Italy’s history of cybernetics remains fuzzy; what artistic paths were altered by their encounter with cybernetic theories; how was the contemporary field of AI touched by all of this, especially when it comes to those studies that attempt to build automata capable to replicate human creative abilities. Can we, without a doubt, state that meaning is, nowadays more than yesterday, a central issue for AI research? If we enlarge the scope to recent advancements in machine and deep learning, to their new ways of framing and reproducing semantic processes through computers, we cannot but notice that the study of the barrier of meaning and its history from cybernetics to AI certainly needs more refinement. We also understand that we probably haven’t answered with sufficient clarity some relevant theoretical issues that information theory raises for semantics and semiotics. Alas, incompleteness gives but a hope for further inquiry and critique, somewhere else and by someone else. Like cybernetics in its time, now the field of AI cannot avoid tackling the barrier of meaning. Whether it will crash, it depends on how oblique its gaze will get, devoted to the oblique moments in the creation of meaning, like when we produce an analogy or make an abduction, when meaning escapes convention and codification. The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI Niccolò Monti Conclusion. There Now is Meaning 102 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 89 — 103 But what about contradicting meanings, what about purposeful ambiguities, what about lies and ironic statements, what about jokes? These were the examples that Eco had in mind when developing his semiotics of codes, knowing well that to play with a linguistic (or some other) code always means to mix the banal, the predictable, with all we might deem surprising and creative. Thus, the ineffable definition of meaning, constantly avoided or derided by information theorists, became the centrefold of Eco’s semiotics, by rethinking, through the Q model, the concept of code and the cybernetic acts of coding and decoding messages. No message exists nor can it be understood without a code – even though this code often lies virtual, or even though some messages might be produced just to contradict or alter it. Bull, W. I. (1958). Military problems imposed by automation. 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Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 In this article we criticize the way in which the concept of information is used in the biological sciences. First, we start by giving a revised and larger definition of genetic information, by underlining the fact that the linear sequence map of the human genome is an incomplete description of our genetic information. This is because information on genome function and gene regulation is also encoded in the way DNA molecule is folded up with proteins to form chromatin structures. Secondly, we point forward the need of constructing a theory in which the informational language (code, program, computation) so characteristic of molecular biology be completed by (and somehow translated into) the language of dynamical systems (phase space, bifurcations, trajectories) and the language of topology (deformations, plasticity, forms). Our traditional modes of system representation, involving fixed sets of sequential states together with imposed mechanical laws, strictly pertain to an extremely limited class of systems that can be called simple (static) systems or mechanisms. Biological systems are not in this class, and they must be called complex or dynamic. Complex systems can only be in some sense approximated, locally and temporally, by simple ones. Such a fundamental change of viewpoint leads to a number of theoretical and experimental consequences. Il “dogma centrale” della biologia molecolare (Crick 1970), sviluppatosi al seguito della scoperta della struttura a doppia elica della molecola del DNA fatta da J. D. Watson e F. Crick nel 1953, ha introdotto una concezione essenzialmente deterministica e meccanicistica della vita. Esso, infatti, afferma che quanto è “scritto” nel DNA viene fedelmente trascritto in un altro acido nucleico, l’RNA, e altrettanto correttamente tradotto in proteine. [1] Tale concezione esclude [1] È da ricordare che già il fisico Erwin Schrödinger, nel suo ben noto volume ogni influenza dell’ambiente e della storia (non solo quel- What is Life? del 1942, aveva previsto la filogenetica della specie ma anche quella ontogenetica la presenza di una macromolecola, doveva esistere allo stato dell’individuo) sulla vita. Prevale invece la “metafora in- che cristallizzato, capace di trasferire la formatica” (o cibernetica), ossia l’idea che gli esseri viventi sua “informazione” alle proteine, gli possano essere paragonati a computer dotati di un unico e strumenti della vita. solo programma dettato dal codice genetico e questo programma basterebbe a trasmettere ereditariamente la totalità delle informazioni chimiche e genetiche e a controllarne la fedeltà della trasmissione durante le diverse tappe di un ciclo cellulare. La reificazione dell’idea di DNA indurrà in seguito Jacques Monod a chiamare il DNA l’«invariante fondamentale» della vita. [2] Ma come ha sot- [2] Come osserva giustamente il genetista Marcello Buiatti (2008): tolineato R. C. Strohman (Strohman 1997), l’errore teori- «Questa proposta [quella di Monod], co ed epistemologico della biologia molecolare è consistito insieme dogmatica e rivoluzionaria, è accolta con enorme favore da nel pretendere di spiegare l’insieme delle funzioni cellulari stata un contesto sociale che vedeva (e sulla base unicamente dei meccanismi di replicazione del purtroppo vede ancora) il progresso come un processo continuo verso la DNA, del codice genetico e dei meccanismi di sintesi delle macchinizzazione del mondo e quindi proteine. Questo ha condotto a un tipo di determinismo la sua ottimizzazione »(24). genetico che ha sottovalutato se non ignorato quelle teorie e rappresentazioni più complesse del vivente che incorporavano i meccanismi epigenetici e i processi morfogenetici dello sviluppo e del funzionamento globale degli organismi. Intorno alla nozione di “programma genetico” regna da sempre una grande confusione concettuale, e inoltre risulta sempre più difficile attribuirgli un chiaro contenuto e significato. Quella che appare sempre più chiaramente inadeguata e fuorviante è l’idea che esista un programma genetico capace di determinare l’intero piano di sviluppo di ogni organismo vivente. Ciò ha portato a ignorare i diversi livelli di organizzazione e i molteplici meccanismi di regolazione che caratterizzano gli organismi viventi. Risulta sempre più chiaro che non esiste un livello di causalità privilegiato nei sistemi biologici e che pertanto parlare di “programma genetico” non ha senso. Ciò ha condotto alcuni biologi (Noble 2006, 2008) a ridefinire il genoma come una “partitura” utile per la trasmissione di certe informazioni genetiche agli organismi, piuttosto che come un programma che li creerebbe. Peraltro, questa partitura non è né “letta” né “interpretata” dai geni, ma da complessi di proteine e di RNA nel contesto dinamico dell’organizzazione spaziale (topologica) della cromatina e di determinati cambiamenti conformazionali e chimici del DNA. Un altro errore teorico importante riguarda direttamente la teoria dell’evoluzione e in particolare la visione neo-darwiniana dell’evoluzione (la cosiddetta “nuova sintesi”), la quale ha tralasciato il ruolo dei I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi Critica del “dogma centrale” della biologia molecolare: dal determinismo genetico ai processi epigenetici e alle interazioni cellulari 106 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 I. I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi meccanismi embriogenetici e i processi morfogenetici (vale a dire la biologia dello sviluppo) nelle mutazioni morfologiche e nelle variazioni microe macroevolutive. Pertanto diversi vincoli relativi al piano anatomico e morfologico, ad esempio delle sette vertebre nel collo dei vertebrati, non sono spiegabili in termini della teoria dell’evoluzione per selezione naturale, ma dal fatto che quel piano (o parti di esso) sono determinati da importanti fattori di sviluppo collegati anche allo sviluppo di altri organi (per quanto riguarda l’esempio citato, è da osservare che deviazioni nel processo di formazione delle vertebre del collo sono abbinate a patologie gravi, letali per l’individuo). L’idea che il “piano” di sviluppo anatomico e morfologico degli organismi viventi, particolarmente quello che opera durante l’embriogenesi, non possa essere spiegato nei soli termini della selezione naturale si trova già nei lavori di anatomia comparata di Geoffroy Saint-Hilaire (17721844), in particolare nell’opera Histoire naturelle générale des règnes organiques: principalement étudiée chez l’homme et les animaux, pubblicata a Parigi negli anni 1854-1862, sebbene ovviamente la nozione stessa di “selezione naturale” sia stata introdotta per la prima volta da Charles Darwin nella sua grande opera L’origine delle specie, apparsa nel 1859. Saint-Hilaire concepisce il cambiamento evolutivo in modo più dinamico rispetto alla concezione anteriore, cioè come trasformazione di processi piuttosto che come successione statica di strutture a partire da un programma predeterminato. L’evoluzione non è vista semplicemente come il cambiamento nel tempo di genotipi e fenotipi, principalmente attraverso mutazione, incrocio e selezione naturale, ma piuttosto come il cambiamento nel tempo di processi ontogenetici, che comprendono l’intero processo di sviluppo, dall’uovo all’adulto, e sottintendono la formazione delle nuove forme in qualsiasi sistema vivente pluricellulare. Saint-Hilaire fu ignorato per più di un secolo e mezzo a seguito dell’aspra controversia che nel 1830 l’aveva opposto all’altro grande biologo dell’epoca Cuvier a proposito della nozione di “piano generale di organizzazione dell’organismo animale” difeso con convinzione dal primo sulla base di considerazioni teoriche e criticato con altrettanta forza dal secondo sulla base dell’esperienza. Secondo il biologo dell’evoluzione Hervé Le Guyader, 107 Par une curieuse coïncidence, le idee di Geoffroy Saint-Hilaire reprennent vie en celle qui a trait à la biologie du développement, semble les redécouvrir, de manière complètement fortuite, lors de l’étude comparée des gènes, appelés homéotiques, impliqués dans le développement embryonnaire précoce des animaux. L’analyse comparée de ces gènes chez de nombreux animaux se trouve à l’origine d’un nouveau concept, celui de zootype, qui correspondrait à un certain état structural caractérisant les animaux pluricellulaires. Un tel concept unitaire amène de manière naturelle à faire référence à Geoffroy Saint-Hilaire (Le Guyader, 2000, 37). Ma cosa giustifica esattamente una tale riscoperta delle idee di SaintHilaire, alla luce delle maggiori scoperte recenti della biologia dello sviluppo? In che cosa precisamente risiede la loro attualità? Cerchiamo di riassumere l’essenziale della questione. La loro attualità è essenzialmente legata alla scoperta di un gene detto eyeless che si ritrova nel topo: se questo Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 biologie d’une toute autre manière. La génétique moléculaire, et plus précisément I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi 108 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 gene subisce una mutazione, ciò produce un topo privo di occhi. Ciò significa che questo gene, nella sua forma non mutata, ha un ruolo determinante nello sviluppo dell’occhio. Se il gene subisce una mutazione, allora non assolve più alla sua funzione e l’occhio non si sviluppa. Se lo stesso gene, nella sua forma normale, è trapiantato in un embrione di moscerino (Drosophila), poi attivato in una zona determinata dell’embrione, provoca la comparsa di un occhio (naturalmente un occhio di moscerino con le sue caratteristiche e non di topo) nel posto esatto dove il gene è stato attivato. L’interpretazione che tale esperienza suggerisce è che il gene del topo che induce lo sviluppo di un occhio in una regione precisa del suo corpo è sufficientemente simile al gene che svolge lo stesso ruolo nella Drosophila, di modo tale che i due geni potrebbero essere interscambiabili. Occorre osservare innanzitutto che mentre le sequenze di nucleotidi sono molto simili nei due geni e si sono estremamente ben conservate nel corso dell’evoluzione sino ad oggi, i caratteri morfologici degli occhi nei due animali (vertebrato e insetto) presentano invece delle differenze fondamentali, il che porta a pensare, da un lato, che sia esistito un gene come antenato comune dei due geni presenti attualmente rispettivamente nel topo e nel moscerino, e dall’altro, che gli organi (nella fattispecie l’occhio) dei due animali si siano evoluti indipendentemente l’uno dall’altro. La seconda osservazione riguarda il problema più generale di che cosa si deve intendere per strutture biologiche “omologhe”. Secondo un primo significato, si può dire che i biologi qualificano come “omologhe” due strutture che provengono dall’evoluzione di una struttura ancestrale comune seguendo tuttavia due serie differenti di trasformazioni. La nostra attenzione deve rivolgersi in prima istanza ai meccanismi di sviluppo responsabili della generazione delle forme viventi. Tali meccanismi di sviluppo non sono guidati da geni in maniera meccanica. In passato si credeva (e molti, anche tra i biologi, lo credono tuttora) che la formazione di un organo fosse determinata da un gene principale, il master control gene. Tuttavia, recentemente si è cominciato a capire, come è stato messo bene in evidenza da diversi studi (cfr., per esempio, Minelli 2007), che l’insieme dei geni la cui espressione è necessaria per la realizzazione di un determinato organo non ha quella semplice e rigorosa struttura gerarchica che la nozione stessa di master control gene presuppone. I geni collaborano tra loro nella formazione di un organo, e i rapporti tra di loro non sono di tipo gerarchico, ma reticolare. Il valore di un singolo gene nel processo di sviluppo di un determinato carattere deve quindi essere ridimensionato e messo in relazione all’attività degli altri geni, ai processi epigenetici e a diversi fattori ambientali che sembrano avere un ruolo importante nella formazione del fenotipo. Nella categoria dei fenomeni epigenetici ricadono tutte quelle attività di regolazione dei geni attraverso processi chimici e topologici che non comportano cambiamenti nel DNA, ma che possono tuttavia modificare il fenotipo dell’individuo e/o della progenie. L’imprinting genomico è un processo epigenetico che “lascia un’impronta” di diverso tipo nei geni trasmessi dal genitore di sesso maschile e in quelli trasmessi dal genitore di sesso femminile. Di conseguenza, la prole che riceve geni marcati dalla madre sarà geneticamente diversa da quella che riceve geni marcati dal padre. Generalmente l’imprinting genomico opera modificando gli schemi di metilazione (ossia l’addizione o la sottrazione di gruppi metilici) 109 La complessità degli organismi viventi non proviene solo dai loro geni Negli ultimi decenni, in particolare con lo sviluppo delle ricerche in biologia dello sviluppo e sull’epigenetica, ci si è resi conto che la complessità di un organismo vivente non è per nulla direttamente proporzionale al numero di geni che esso possiede; il che lascia presumere che un altro tipo di proprietà e processi sia alla base della morfogenesi e dell’evoluzione. Innanzitutto la mappatura del genoma umano e di molte altre specie ha mostrato che i geni umani sono molto meno di quanto ci si aspettasse; infatti, invece dei 100.000 attesi, sono circa 23.000: solo qualche centinaio in più del topo e meno del doppio di un verme. Inoltre, i geni degli organismi superiori (eucarioti) sono spezzettati, in quanto le porzioni che contengono le informazioni per costruire le proteine (esoni) sono interrotte da sequenze (introni) non utilizzate per questo scopo. E molti di loro “viaggiano” da un sito a un altro della stessa sequenza di DNA genomico assolvendo ogni volta a funzioni diverse. Gli introni (non codificanti) sembrano svolgere un ruolo importante nello sviluppo embrionale e nei Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 II. I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi in prossimità di un gene, senza alterare la sequenza stessa di DNA. Questi schemi di metilazione sono riprogrammati passando da una generazione all’altra, trasportando istruzioni legate al genitore da cui la copia è stata ereditata. Schemi di metilazione anormali sono stati identificati in cellule cancerose già una ventina di anni fa, ma dato che in queste cellule le anomalie riguardano svariati componenti e fattori, non è ancora possibile parlare in termini certi di correlazioni causali fra modificazioni epigenetiche e cancro. La considerazione dei vincoli spaziali, dinamici ed epigenetici che caratterizzano i meccanismi dello sviluppo deve portare a rivisitare molti concetti della biologia. In particolare, un gene non deve più essere considerato come un elemento legato indissolubilmente allo sviluppo di un tratto, ma come una struttura complessa che influisce in modo non lineare e non deterministico sui meccanismi di sviluppo dell’individuo. Conseguentemente le caratteristiche morfologiche non possono essere più identificate soltanto secondo la loro posizione e funzione, ma a partire dal processo che li ha generati. Il rapporto tra informazione genetica e meccanismi dello sviluppo determina un “paesaggio dei possibili” o, in termini più geometrici, uno spazio di cammini evolutivi potenziali. Questo spazio non presenta geometrie semplici, né tanto meno è una tabula rasa dove la selezione naturale possa disegnare liberamente i percorsi dell’evoluzione. In realtà, il rapporto tra geni e sviluppo (un rapporto a sua volta mutabile) fornisce allo spazio delle possibili variazioni una precisa struttura, ostacolando trasformazioni in certe direzioni e favorendone altre. Questo “paesaggio” matematico e dinamico, fatto di vincoli e possibilità, condiziona di fatto il cambiamento evolutivo, poiché la selezione naturale interviene eventualmente soltanto per favorire o sfavorire ciò che in qualche modo si è generato durante lo sviluppo. Inoltre, la geometria di questo spazio dei processi di sviluppo non è in una relazione di corrispondenza biunivoca con lo spazio delle forme che questi processi producono. Le stesse dinamiche di sviluppo possono produrre forme alternative di uno stesso organismo. III. Cambiamento e adattamento nei sistemi viventi Una questione fondamentale riguarda il rapporto tra cambiamento e adattamento nei sistemi viventi, che è legata alle trasformazioni di cui essi sono capaci a fronte di importanti modificazioni subite, alla loro tendenza a riorganizzarsi per ristabilire un nuovo equilibrio, e al fatto di intraprendere un nuovo cammino evolutivo. L’evoluzione degli organismi viventi, e in particolare quella della nostra specie, ha comportato e comporta più strategie di adattamento per far fronte alle diverse mutazioni genetiche e alterazioni dell’ambiente. Osservazioni recenti sulle differenze tra noi e i primati a noi vicini sembrano avvalorare questa ipotesi. L’analisi dei genomi di questi ha permesso infatti di scoprire che essi assomigliano moltissimo chiarire, anche se da numerosi studi sono stati identificati tre generali meccanismi d’azione di queste piccole molecole. Alcuni sRNA sono parte integrante di complessi RNA-proteina come l’RNA 4.5S che interviene nella secrezione delle proteine e l’ARNasiP che possiede attività catalitica in vitro. Alcuni sRNA, invece, mimano le strutture di altri acidi nucleici; un esempio è l’RNA 6S che lega il fattore  dell’RNA polimerasi, cambiando l’affinità di quest’ultima per il promotore. Gli sRNA CsrB e CsrC, invece, possiedono sequenze di ripetizioni multiple che legano la proteina CsrA, presenti anche su mRNA. L’ultimo meccanismo d’azione, il più comune e maggiormente caratterizzato, prevede l’appaiamento degli sRNA con sequenze complementari al messaggero target regolando così l’espressione genica. I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi 110 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 processi cellulari fondamentali. Recentemente è stata avanzata l’idea, corroborata da una serie di dati sperimentali di chiara rilevanza, secondo la quale: (i) la lunghezza degli introni nel genoma umano è stata determinata dall’accumularsi – durante l’evoluzione – di sequenze funzionali che oggi troviamo conservate; (ii) la localizzazione lungo gli introni di tali sequenze conservate indica che molte di esse hanno un ruolo nella corretta formazione degli RNA messaggeri, [3] cioè del- [3] Tradizionalmente all’RNA si associano due ruoli principali: quello di le molecole che funzionano da stampo per la sintesi delle trasferire l’informazione genetica sotto proteine; (iii) alcuni geni contengono un gran numero di forma di mRNA e quello di intervenire nella sintesi proteica come rRNA e sequenze conservate negli introni. L’espressione di questi tRNA. In aggiunta a ciò, le attività sembra avere un ruolo nello sviluppo di un organismo dal- catalitiche degli RNA (ribosomiali) e piccoli RNA non codificanti, sono lo stato embrionale a quello adulto; (iv) i geni che sono at- di considerate fondamentali in processi tivi nel cervello hanno più sequenze introniche conservate post-trascrizionali come lo splicing e le modificazioni dell’rRNA negli di tutti gli altri. eucarioti. Nei batteri al contrario, il Oggi si sa che il DNA possiede la struttura scoperta potenziale regolatorio dell’RNA sembra essere svolto principalmente da piccoli da Watson e Crick nel 1953 solo se cristallizzato, mentre RNA che controllano diverse funzioni negli esseri viventi esso può assumere anche forme diverse biologiche accessorie dei microbi. identificati lungo la stringa a seconda della composizione locale in Recentemente sono stati circa 140 “small basi e del contesto fisico-chimico in cui si RNA” (sRNA) non codificanti trova. [4] Questo fatto è di estrema rile- [4] Il DNA può esistere almeno in nei batteri, la due categorie di forme fondamentali vanza in particolare per la ricezione di (ognuna maggior parte delle quali ammette diverse dei quali si trova “segnali” che provengono dall’interno e altre forme): 1. La forma circolare in E. coli, mentre esistente nei procarioti, mitocondri, dall’esterno delle cellule e regolano il buon cloroplasti, virus (un cromosoma ad un numero minore è stato funzionamento dei geni in modo che la anello associato a proteine, un’origine caratterizzato di replicazione). 2. La forma lineare la cellula risponda alle esigenze dell’adatta- troviamo in altri nei virus, sia single strand mento al contesto in cui si trova. I “segnali” che double strand, eucarioti (più origini microrganismi, molti dei quali che arrivano al DNA sono in realtà proteine di replicazione). patogeni. È stato osservato che che costituiscono l’elemento terminale di questi RNA non una catena facente capo ad altre molecole dello stesso tipo codificanti regolatori sono coinvolti controllo di diversi processi situate sulla membrana della cellula e in grado di recepire nel quali la replicazione plasmidica, la direttamente i segnali esterni (si chiamano infatti “recet- trasposizione negli eucarioti e nei procarioti, la replicazione fagica e tori”). L’attivazione e l’intensità di espressione dei geni virale, la virulenza batterica, le risposte dipendono proprio dalla formazione di complessi tra le batteriche a cambiamenti ambientali nel controllo dello sviluppo degli forme complementari delle proteine segnale e delle speci- eeucarioti inferiori. Tuttavia la funzione fiche sequenze di DNA che si trovano a monte di essi. di molti mRNA rimane ancora da I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi 111 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 al nostro (le differenze tra noi e lo scimpanzé sono dell’ordine dello 1% – 3%). Recentemente si è cominciato a capire come mai nonostante le nostre grandi differenze di comportamenti e modi di vita dagli altri primati, i nostri genomi sono tanto simili. La risposta, o quantomeno una parte di essa, sembra trovare conferma nel fatto che nella nostra evoluzione una parte molto piccola del nostro corredo genetico ha giocato un ruolo molto importante. Questa parte ha essenzialmente a che fare con il nostro cervello, come risulta dal fatto che alcuni geni che regolano questi caratteri si sono evoluti molto più rapidamente in noi che negli altri, sia per la porzione codificante che per le zone regolatrici dell’espressione. Questi geni hanno a che fare, non a caso, da un lato con la percezione dei segnali e dall’altro con l’accrescimento dopo la nascita della corteccia cerebrale, essenzialmente attraverso l’aumento del numero di connessioni (sinapsi). La grande plasticità della corteccia cerebrale e l’elevatissima densità delle interazioni che operano in essa, anche grazie all’esistenza di innumerevoli relazioni retroattive (movimenti, azioni, decisioni, ecc.) con l’ambiente, spiegano l’enorme variabilità nei comportamenti e la grande differenziazione culturale della nostra specie, nonché l’enorme capacità di memorizzazione ed elaborazione di informazione e di conoscenza del nostro cervello. Da un punto di vista prettamente neurofisiologico (che certo non spiega tutto), questo può utilizzare ben cento miliardi di neuroni, a fronte di soli 23.000 geni e fra questi si possono formare un miliardo di miliardi di connessioni diverse dando al sistema una plasticità veramente straordinaria. Per concludere questo paragrafo, vorremmo mettere l’accento su due punti importanti. (i) Nelle scienze della vita si possono elaborare delle leggi locali e proporre dei modelli esplicativi parziali e provvisori e non, come spesso si è cercato di fare e ancora si pretende, un’unica, onnicomprensiva, teoria dello sviluppo e dell’evoluzione che descriva e chiarisca in modo esauriente il passato e il presente e sia anche in grado di prevedere il futuro. (ii) Appare sempre più chiaro che il fenotipo non è totalmente determinato dalla semplice trascrizione e traduzione dell’informazione contenuta nel DNA. Non è d’altra parte nemmeno vero che il fenotipo sia determinato del tutto e in senso lato dall’ambiente. In realtà ci sono diversi livelli di incidenza dei contesti sul rapporto tra genotipo e ambiente nella continua interazione che determina il fenotipo, a seconda del gruppo di organismi che si osserva. Inoltre, l’impatto dell’ambiente sul genotipo è in generale mediato da processi epigenetici di tipo spaziale e chimico relativi all’azione dei numerosi sistemi complessi di interazione (nei quali sono coinvolti decine e decine di fattori regolatori e coregolatori trascrizionali e post-trascrizionali – cioè numerose famiglie di proteine e numerosi tipi di RNA – durante lo sviluppo embrionale e il differenziamento cellulare) tra i diversi componenti macromolecolari, cellulari e tessutali di un organismo vivente. E tale rapporto dipende anche da parametri interni che controllano e organizzano la dinamica di un sistema vivente, ad esempio dalla sua robustezza intrinseca e capacità alla variazione. Per potersi diversificare enormemente durante l’evoluzione i sistemi viventi hanno saputo inventare strategie di cambiamento e di adattamento molto diverse, le quali escludono l’esistenza di un’unica teoria dell’evoluzione che tenga conto contemporaneamente di tutti gli aspetti della multiversità biologica. Inoltre, i diversi livelli di Alcune riflessioni sulla nozione di informazione biologica Nell’ottica che si è cercato di delineare nel precedente paragrafo, vorremmo riflettere sul significato della parola informazione e su quello della quantità di informazione negli organismi viventi. Spesso si attribuisce a un segmento di DNA la proprietà di avere (e di trasmettere) informazione, vale a dire un certo contenuto di informazione. Ma un frammento di DNA non contiene informazione, esso la acquisisce nel momento in cui entra a far parte di un sistema di relazioni e di interazioni in seno al quale questa informazione può essere scambiata. È attraverso questo scambio che l’informazione acquisisce un “senso”, cioè contribuisce alla costruzione di una struttura e di una funzione, più precisamente di una struttura funzionale. In altre parole, il senso biologico cambia cambiando il senso di riferimento, e al di fuori di un sistema di riferimento non c’è “vera” informazione (ci può essere eventualmente “rumore”). Questo è un aspetto importante per cogliere il ruolo del gene, questa sorta di “entità” da cui deriverebbe tutto. Il gene svolge una funzione all’interno di un contesto, al di fuori del quale perde il suo ruolo. A questo proposito il matematico e filosofo francese René Thom ha fatto alcune riflessioni significative, con le quali mette in discussione due idee cardine del paradigma della biologia molecolare: primo, l’idea che lo sviluppo degli organismi avvenga secondo un flusso unidirezionale e lineare che va dal genotipo al fenotipo; secondo, l’idea che vede nel DNA il depositario esclusivo dell’informazione genetica e delle principali funzioni biologiche. Egli scrive: 112 Partir du génome afin de construire la totalité de l’organisme et son évolution temporelle relève du domaine de la croyance. La correspondance génotype et phénotype est une pure et simple boîte noire dont on ne connaît que quelques articulations, toutes dans le sens génotype → phénotype, parce que celles qui vont dans un sens inverse heurteraient le dogmatisme antilamarkien qui règne actuellement. (…) L’ADN n’a pas l’exclusivité de toute l’information concernant l’humain. Les gènes contiennent certes le plan de leur propre structure et celui des protéines, mais non pas la globalité de l’information morphogénétique. Cela signifie que le génome n’est pas le métabolisme global. Il n’est que la partie fixe de ce dernier. Il est donc le résultat du métabolisme et non l’inverse. [5] Les formes sont des structures dynamiques liées à des invariants. Certes, les gènes participent à la morphogenèse globale; ils sont toutefois stabili- [5] Su questo punto fondamentale, la posizione di Thom è molto simile a quella di Freeman Dyson esposta in (Dyson 1999). sés par la morphogenèse elle-même. (…) Il y a une aura de mécanismes qui entoure toute forme. (…) Le gène participe donc à une structure dynamique plus globale. Voilà le sens de la relation synthétique entre gènes et Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 IV. I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi organizzazione degli esseri viventi si realizzano a scale spaziali e temporali molto diverse, dove i cambiamenti possono avvenire sia seguendo dei processi continui sia dei processi discreti per “rotture” o “salti”, e dove molte delle attività che intervengono combinano fattori vincolanti, in particolare di tipo geometrico o selettivo, e fattori aleatori, ad esempio di natura cinetica o energetica. Quello che si osserva in generale analizzando le relazioni tra i contesti interni ed esterni dei sistemi viventi è che i più importanti generatori di variabilità fanno intervenire, contemporaneamente e successivamente, entrambi i processi e ambedue i fattori. Lo stato delle conoscenze attuali consente di affermare che il genoma è tutt’altro che fisso: in realtà, è una struttura altamente dinamica che può mutare più volte e in più modi nel corso di uno stesso ciclo cellulare. In altre parole, il genoma appare oggi non come una semplice raccolta di geni ordinati lungo i cromosomi ma come un sistema altamente strutturato e dinamico in cui delle relazioni si possono stabilire anche fra geni situati a distanza. Nel genoma avvengono continue variazioni non solo ad opera di mutazioni ma anche per intervento di particelle di DNA estranee, che si inseriscono nelle sequenze nucleotidiche normali di batteri, piante e animali. Nel genoma eucariotico solo il 2% di questi elementi trasferibili (trasposoni) è dato da frammenti di DNA che si trasferiscono da un punto all’altro dei cromosomi: la parte di gran lunga più importante è data dai retrotrasposoni che provengono da RNA che ha subito il processo di trascrizione inversa, trasformandosi in DNA. Ciò si verifica, ad esempio, nel caso dei virus oncogeni e dell’HIV agente dell’AIDS (retrotrasposoni e retrovirus). La quantità dei trasposoni inseriti nel DNA in cui producono sequenze ripetute è altissima. Considerati inizialmente privi di valore, un DNA junk o parassita, la loro importanza nel funzionamento del DNA è gradualmente emersa ed oggi è stata chiaramente stabilita nei processi regolativi del DNA con influenza sulla normale fisiologia e morfogenesi della cellula. I trasposoni partecipano all’evoluzione del genoma essendo cooptati in ruoli strutturali e regolatori. Non sono elementi genetici autonomi ma piuttosto agiscono di concerto con il genoma preesistente e cambiando la loro posizione sullo stesso cromosoma o su cromosomi differenti (sono quindi elementi trasponibili o sequenze “mobili” di DNA) entrano nelle reti regolative del genoma che li ospita. Si comportano quindi più da simbionti che da parassiti. Come osservato da Girard e Freeling (1999), l’inserzione di trasposoni può alterare sia il livello dell’espressione genica che il profilo spaziale di espressione di geni adiacenti, inducendo effetti regolatori di tipo quantitativo e qualitativo. I trasposoni possono contenere anche induttori (enhancers) con specificità tissulare, come promotori (promoters) di sistemi di espressione genica e anche, attraverso fattori trans e cambiamenti epigenetici quali la metilazione, agire come soppressori e silenziatori di geni. I trasposoni hanno quindi un importante ruolo sia nella mutazione che nella riorganizzazione del genoma. Dati recenti indicano che la stessa telomerasi possa essersi evoluta da trasposoni o possa aver dato origine a varie famiglie di retroelementi e che quindi i trasposoni giochino un ruolo fondamentale anche nella divisione cellulare. Inoltre sembra importante il loro ruolo in fenomeni immunitari ad esempio nella ricombinazione in linfociti di Vertebrati. I trasposoni, prodotti in gran parte attraverso l’RNA e non direttamente dal DNA, rappresentano quindi una fonte effettiva e importantissima di rinnovamento del genoma e delle sue attività informazionali. In sostanza agendo come simbionti integrati ripropongono oggi quanto si è verificato attraverso l’integrazione anche a livello genotipico di simbionti procarioti nella formazione degli organelli della cellula eucariotica. La trascrizione inversa negli Eucarioti può anche avere il ruolo di conservare I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi un statut ontologique plus important que celui de la forme». (Thom 1980, 126-127) 113 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 formes. Notons aussi qu’il n’y a aucune raison de penser que la force a en principe I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi 114 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 ribotipi vantaggiosi nel DNA e poi, con evidente ruolo evolutivo, trasferirli nella linea germinale. Più importante ancora è la rete che si instaura tra i geni: in un contesto in cui i geni abbiano un’informazione che acquisisce un preciso significato, la complessità di un individuo dipende non solo da quanta informazione possiede, ma anche dalla capacità di ottimizzare l’informazione disponibile e dal contenuto dei suoi messaggi, pertanto dalla sua “qualità”. Già negli anni ‘60, C. H. Waddington e R. C. Lewontin mettevano in luce come, se alla complessità biologica dell’individuo dovesse corrispondere un incremento di quantità d’informazione, le ricombinazioni possibili in termini evolutivi sarebbero state troppo lente. In altre parole, un numero eccessivo di geni renderebbe impossibile la comparsa di quei nuovi assortimenti genici che, una volta selezionati, consentono l’adattamento degli organismi ai cambiamenti ambientali. Ora il “dogma centrale” della biologia molecolare, cioè l’idea che dal DNA all’RNA alle proteine vi sarebbe un flusso unidirezionale di informazione e tutte le proprietà degli organismi deriverebbero da questo flusso, ha ignorato per molti anni il contenuto proteiforme e i diversi significati dei geni. Come già è stato detto, un frammento di DNA non ha di per sé informazione né per la sua duplicazione né per la sintesi proteica, ma ha bisogno di un contesto in cui questo si realizzi. In altre parole, l’informazione emerge dal contesto delle relazioni e non è una proprietà inerente al singolo elemento chimico, come di deduce, invece, dalla logica del dogma centrale. Il progetto (di mappatura completa del) genoma ha messo in luce alcuni limiti del dogma centrale, basato come abbiamo appena visto sull’ipotesi che i geni e un codice genetico siano in grado di spiegare tutte le caratteristiche di un individuo, poiché, in realtà, quello viene chiamato “codice genetico” è solo uno dei codici necessari. È sicuramente necessario il classico codice genetico, ma servono anche altri “codici” di natura strutturale che consentono il riconoscimento tra proteine e acidi nucleici, come negli esempi della polimerasi e del ribosoma. Tutti conoscono la distinzione tra proteina come sequenza e come struttura biologicamente attiva: infatti non basta la sequenza degli aminoacidi, ma occorre una particolare struttura o conformazione spaziale affinché la proteina sia biologicamente attiva. La struttura, però, non è terminata unicamente dalla sequenza e, quindi, dall’informazione del gene; essa, infatti, dipende anche dalle condizioni chimico-fisiche in cui la proteina si trova. Molti dati sperimentali e modelli teorici che ne danno interpretazioni plausibili, confermano che la sequenza non determina da sola la struttura ma occorre un contesto e delle interazioni che implicano in qualche modo altri codici e processi di altra natura. Analogamente al linguaggio umano, dove le parole, a un primo livello, sono sequenze di elementi di un alfabeto, ma dove il senso appare solo se esse formano delle frasi coerenti [6] costruite sulla base di una grammatica e una sintassi e capite e comuni- [6] Naturalmente, non esiste un unico e universale di coerenza cate in un contesto semantico intersoggettivo (cioè con- criterio linguistica. diviso da una comunità di soggetti), anche il linguaggio genetico è costituito di parole, frasi, ecc., ma affinché esse acquisiscano un significato biologico è necessario che vengano riconosciute, lette, interpretate a attivate da altri “codici”, in particolare epigenetici (che non hanno a che fare con le sequenze delle basi nucleotidiche) e da processi di natura cellulare ed extracellulare. Il codice genetico Gli scienziati generalmente affermano che i geni fanno o fabbricano le proteine e che la molecola di DNA si auto-riproduce. Il problema è che questo modo di pensare è una estrema semplificazione di ciò che accade: prima che il gene faccia quello che si dice, occorre prima di tutto che il metabolismo abbia integrato i segnali e i “marcatori” (che sono proteine) che attivano il gene, e poi che la catena che lo contiene sia in contatto con il metabolismo della cellula. In realtà, i geni da soli non possono fare granché: un gene non è la causa della sintesi di una proteina, ma piuttosto l’agente di un processo molto più complesso a proposito del quale i biologi molecolari ignorano ancora molte cose. (…) Gli scienziati usano anche un’altra formula, altrettanto equivoca che quella precedente, dicendo che il gene è lo “schema direttore” di una proteina, o la fonte di una “informazione” che determina una proteina. Pertanto, le proteine non potrebbero essere fabbricate senza i geni e il resto del metabolismo cellulare. (…) Gli scienziati dicono anche che la molecola del DNA si auto-riproduce poiché partecipa direttamente al processo di duplicazione. Ma in realtà, è il metabolismo della cellula, nel contesto molto particolare della divisione cellulare, che rende possibile la duplicazione del DNA. Questo abuso I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi permette di far corrispondere all’alfabeto degli acidi nucleici quello delle proteine, ma conosciamo ancora poco della grammatica e della sintassi del DNA e delle proteine, e conosciamo ancora meno i contesti semantici che sono necessari per le corrette relazioni tra i geni e le proteine e per garantire la loro corretta struttura e funzione. Il genetista Richard C. Lowentin ha osservato a tal proposito quanto segue: di linguaggio non è qualcosa di innocente: molti infatti attribuiscono al materiale genetico di un essere vivente un potere misterioso e autosufficiente che sta al di 115 sopra delle altre componenti dell’organismo. Ma è proprio l’organismo degli esseri viventi nel suo insieme che si “auto-riproduce”, o più esattamente che possiede la capacità di riprodursi: essa avviene parzialmente attraverso il rinnovamento dei tessuti costituenti gli organi grazie alla divisione cellulare, e integralmente gene- È importante notare che esiste una differenza fondamentale tra “codice genetico”, cioè l’insieme delle informazioni trasmesse nella sequenza del DNA, e il genoma, ossia l’insieme del patrimonio genetico che caratterizza ogni organismo vivente e che comprende sia i geni codificanti che quelli non codificanti. Il codice genetico è quasi universale (è identico in molti organismi viventi ma non in tutti) e costituisce per così dire solo la grammatica e la sintassi degli acidi nucleici (DNA e RNA) e del processo di biosintesi delle proteine: così viene chiamata la relazione biochimica tra una delle 61 triplette codificanti di basi e uno dei 20 aminoacidi che compongono le proteine. Ma con la stessa grammatica e sintassi di una lingua possiamo creare e comunicare informazioni assai differenti: da un insulto a una lettera d’amore. Così accade per il DNA: utilizzando lo stesso “codice genetico” è possibile costruire un numero praticamente infinito di sequenze geniche o genomi. In questa diversità è da rinvenire la varietà molecolare nell’architettura biochimica degli organismi viventi, la quale, a sua volta, costituisce il “materiale biologico” con cui viene costruito e funziona l’intero organismo. Il genoma delle diverse specie viventi, ovvero l’insieme di questa “informazione genetica” contenuta nel DNA, è tutt’altro che identico in ogni organismo, e anche all’interno di una stessa specie come quella umana esistono rilevanti differenze. Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 rando una nuova progenie grazie alla riproduzione sessuata (Lewontin 1999, 18-19). I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi 116 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 Il riduzionismo biologico, riproposto in chiave molecolare a partire dal sequenziamento del genoma umano, presenta dei limiti intrinseci fondamentali. La questione è epistemologicamente e culturalmente decisiva. Che la struttura individualmente differenziata dei nostri geni fornisca a ciascun individuo che viene al mondo un contributo biologico-ereditario diverso è un dato ormai ben documentato. Ma ciò che noi siamo anche sotto il solo aspetto biologico non è determinato univocamente dal nostro genoma: in realtà esso si sviluppa attraverso un complesso processo di interazione tra numerose componenti, quali quelle genetiche, cellulari, tissulari, organismiche e ambientali. Per non parlare delle dimensioni cognitive, emotive, affettive e sociali della vita umana, frutto non solo delle caratteristiche neurologiche di ciascun individuo ma del complesso e dinamico tessuto di relazioni che ognuno di noi intrattiene con altri esseri umani e con il suo ambiente vitale (naturale ed antropico). La visione riduzionista basata sul determinismo genetico è di fatto necessaria alla trasformazione del soggetto vivente in oggetto inanimato. La trasformazione in oggetto sia delle parti che dell’intero corpo del soggetto vivente è preliminare all’idea che quest’ultimo possa essere equiparato ad una macchina, in cui, sostituendo alcuni geni, si ottiene un nuovo organismo, con nuove caratteristiche predeterminate a scelta. Se poi esiste un gene per ogni caratteristica e se si può inserire o togliere geni a piacere, ecco l’illusione che esiste una cura per tutte le malattie. In realtà, la gran parte delle malattie gravi e ormai tra le più diffuse nei paesi sviluppati (e massicciamente industrializzati), quali tumori, diabete, malattie cardio-vascolari e neurodegenerative, sono più legate ad altri fattori come quelli epigenetici, all’ambiente in cui viviamo e ai nostri modi di vita che ai nostri geni. E quand’anche la sequenza di determinati geni permette di predire un certo rischio di sviluppare una delle malattie menzionate, ciò accade in generale in termini di probabilità assai debole all’interno di una popolazione data, e mai per un determinato individuo. Il fatto è che non si possono più separare gli effetti dei geni da quelli dell’ambiente, perché quest’ultimo influisce sul modo in cui un organismo utilizza i suoi geni. E se a questo si aggiunge che due persone geneticamente identiche (tutti gli esseri umani sono geneticamente simili) acquisiscono nel corso della loro vita delle modificazioni epigenetiche che inducono modalità differenti nell’utilizzo degli stessi geni, partecipando così alla costruzione della loro individualità biologica, si capisce allora che uno degli obiettivi prioritari delle ricerche sul vivente deve riguardare lo studio delle relazioni complesse e mutabili tra il nostro materiale genetico e l’ambiente in cui viviamo e con il quale il nostro organismo intrattiene un costante e attivo rapporto di scambio. Ed è per questo che la frontiera considerata a lungo assoluta tra i geni e l’ambiente, o anche tra innato e acquisito, si è attenuata e per certi aspetti dissolta, lasciando il posto a una nozione più ricca e aperta, quella di una interazione permanente tra i geni e i loro ambienti (interni ed esterni). Ciò che è “scritto” nei geni (il loro alfabeto chimico) non coincide con il loro “stato” e la loro “attività” né tantomeno si può identificare con la nostra identità (quello che noi siamo) e il nostro destino (quello che noi saremo); piuttosto, essi si iscrivono in un campo di possibilità e di vincoli la cui attualizzazione (vale a dire espressione più azione) dipende almeno in parte dalla storia personale di ciascuno, dall’ambiente e dallo stile di I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi V. 117 Oltre il paradigma del determinismo genetico Indichiamo ora alcuni limiti del paradigma del determinismo genetico. Nelle ultime due decadi si sono messi in luce in particolare gli elementi seguenti. 1. I geni non presentano solamente una realtà fisico-chimica, ma una realtà molto più complessa di tipo strutturale e funzionale e una loro specificità biologica. 2. Nello studio dei sistemi biologici è importante che si consideri l’attività di regolazione e di controllo che esercitano i fenomeni extracromosomici e cellulari a monte e a valle della trascrizione. 3. L’espressione dei geni non solo appare legata ai processi dello sviluppo ma inoltre ogni gene deve essere regolato in connessione con altri geni. In più, le manifestazioni variabili di molti geni (la loro ridondanza funzionale) sembrano poter essere spiegate unicamente supponendo una certa conoscenza dei meccanismi della morfogenesi. 4. Un altro punto importante che inficia uno dei dogmi della biologia molecolare, è l’aver riconosciuto recentemente che non esiste un meccanismo unico di regolazione genetica, bensì più processi di regolazione legati funzionalmente tra di loro. Basti pensare al caso del batterio Escherichia coli, in cui agiscono diversi tipi di regolazione, ad esempio di trascrizione. Benché non si abbia ancora una vera spiegazione di tale processo, si hanno tuttavia molteplici dati sperimentali e teorici che conducono a fare l’ipotesi secondo la quale la regolazione dell’espressione genetica svolge un ruolo fondamentale per la costruzione di quella che possiamo chiamare la complessità strutturale e funzionale dei geni. Tale complessità permette di distinguere tra proprietà geometrico-topologiche, proprietà dinamiche e proprietà biologiche dell’espressione genica. In particolare le proprietà geometrico-topologiche possono aiutare a capire come e perché Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 vita di ogni individuo. Per esempio, la cartografia precisa del milione di miliardi di connessioni nervose che si effettuano nel nostro cervello non è “scritta” a priori nei geni ma emerge progressivamente dalle interazioni fra neuroni, ed è da queste interazioni che dipendono le loro diverse attività, così come la loro vita o morte. Ora, questa rete complessa, diversa per ogni organismo, si modifica nel corso della nostra esistenza secondo la nostra storia e il nostro ambiente. Quando si studia il vivente i suoi livelli di organizzazione e le sue dinamiche, si è quindi di fronte a reti di geni, di proteine, di cellule, di organi, di individui, di specie, di ecosistemi ecologici e dell’intero ecosistema terra: in ognuno di questi livelli emergono delle nuove interazioni e funzioni, e la gran parte dei componenti si rivela essere, per usare le parole di Blaise Pascal, «cose al contempo causanti e causate». Le catene di causalità sono in effetti multidirezionali, con degli effetti di retroazione, amplificazione o inibizione. L’interno, vale a dire i geni e le strutture macromolecolari e cellulari entro le quali agiscono, e l’esterno, ossia i diversi ecosistemi e contesti ambientali, si interpongono e formano una maglia di correlazioni. Richard Lewontin ha scritto che “un essere vivente è allo stesso tempo il luogo e il prodotto di questa interazione”. Nella maggior parte delle situazioni i fattori interni e quelli esterni agiscono di concerto ed entrambi pesano nel determinare una certa stabilità o instabilità della “materia” vivente e della materia pensante; lo stesso vale per i meccanismi innati e i caratteri acquisiti, e nel caso della specie umana e dei primati, per la natura e la cultura. 118 Alcune idee fondamentali delle ricerche attuali in biologia Sulla questione delle sequenze del DNA e dell’informazione biologica, occorre dire che la sequenza del DNA non contiene tutta l’informazione necessaria per produrre un organismo. In altre parole, il DNA genomico non è il solo a fornire l’informazione biologica, innanzitutto per il fatto, come si è cercato di spiegare prima, che in molti casi rilevanti i geni sono espressi all’interno di un contesto epigenetico e sono attivati in relazione con una specifica attività regolatrice di tipo cellulare che opera nel corso dello sviluppo embrionale e della morfogenesi. Lo stesso dogma centrale della biologia molecolare, secondo il quale le sequenze del DNA definiscono in modo lineare, univoco e predeterminato le sequenze di ogni singola proteina, in modo tale che l’inverso non accada (detto diversamente, la sequenza del DNA contiene tutta l’informazione necessaria per produrre una proteina secondo un flusso unidirezionale), è ormai riconosciuto essere sostanzialmente falso e in ogni caso parziale. Si pensi, ad esempio, al fatto che il codice genetico può essere (in parte o del tutto) degenerato; oppure al fenomeno ancora più importante dell’esistenza di regioni non codificanti del DNA che possono variare senza che vi sia alcun effetto sul prodotto finale della proteina. Negli organismi eucarioti, come abbiamo già visto, queste regioni non codificanti si Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 VI. I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi gli auto-assemblaggi macromolecolari e le strutture auto-organizzate sottostanti ai processi genetici presentano una certa robustezza e stabilità, e ciò nonostante l’azione di fluttuazioni energetiche e di diversi tipi di instabilità biochimica in parte aleatorie che possono spingere gli organismi viventi (in quanto sistemi altamente dinamici) verso uno stato lontano dall’equilibrio termodinamico. Facciamo un esempio, che ha per giunta a che fare con la questione più generale di come arrivare a descrivere e analizzare la dinamica dell’organizzazione cellulare. In particolare, si tratta di spiegare il perché certe molecole sono localizzate nel nucleo della cellula invece che nel citoplasma, o inversamente. In realtà, la selezione che si opera tra questi due compartimenti è fondata su un gradiente dinamico di una piccola proteina chiamata (Ran) che si manifesta in due stati opposti: l’uno, ricco in energia (Ran-GTP), e l’altro meno energetico (Ran-GDP). Questa proteina, nella sua forma ricca in energia, si trova nel nucleo, e nella sua forma povera in energia, nel citoplasma. Questo significa, quindi, che è questo gradiente energetico a essere letto in due modi del tutto distinti dalla cellula, l’uno inverso dell’altro: in un modo dalle molecole che preferiscono l’ambiente nucleare, nell’altro modo da quelle che preferiscono l’ambiente citoplasmatico. Perciò, al di là della specificità del modo di lettura, un gradiente svolge comunque un ruolo importante nell’organizzazione e attività cellulare. La cosa è tanto più sorprendente poiché le molecole nucleari e quelle citoplasmatiche non cessano di muoversi tra i due compartimenti della cellula. Si tratta dunque di un sistema il cui comportamento è tipico dei sistemi lontani da un certo equilibrio termodinamico: ciò significa che una certa quantità di energia è dissipata in permanenza al fine di mantenere delle specie molecolari attive in due compartimenti cellulari distinti. E questo vuol dire anche che le molecole sono capaci di «leggere» e «riconoscere» i gradienti di energia. I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi 119 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 ritrovano sia all’interno di uno stesso gene sia tra geni diversi. In conseguenza di questo e di altri fenomeni complessi collegati, la sequenza del DNA e il codice genetico non sono affatto sufficienti per poter predire la sequenza di una proteina. Si ha bisogno di altri elementi importanti per spiegare il fenomeno sopra descritto, ad esempio si ha bisogno della nozione di frontiera tra regioni codificanti e regioni non codificanti. Il punto fondamentale è che la descrizione e la comprensione profonda dell’intero organismo richiede la conoscenza dell’insieme delle proteine e degli RNA prodotti dal proprio genoma, e anche la conoscenza di come questo complemento fondamentale dell’organizzazione biologica cambia in funzione dello sviluppo (embriogenesi e morfogenesi) e dell’ambiente. A questo proposito ci appare importante mettere l’accento sui seguenti punti. i) Grazie alla produzione di più RNA messaggeri attraverso processi alternativi degli RNA, si ha spesso una grande varietà di forme di proteine umane. La variazione degli RNA messaggeri può avvenire secondo modalità differenti. Si può avere produzione di molteplici RNA messaggeri a partire da uno stesso gene. I diversi tipi di cambiamento nella struttura degli RNA messaggeri possono essere regolati in vari modi, a seconda del genotipo sessuale, del differenziamento cellulare, o dell’attivazione di un certo tipo di segnalazione cellulare. ii) Una scoperta recente relativa alla Drosophila costituisce un esempio affascinante che mostra la sottilità dei cambiamenti strutturali che può subire una proteina, ed è la prova che un gran numero di proteine può essere prodotto da un singolo gene utilizzando lo splicing alternativo. In termini più generali, lo splicing alternativo è quel processo attraverso il quale, mediante un diverso arrangiamento degli esoni (regioni di RNA codificanti), da uno stesso gene possono derivare diverse proteine, dette isoforme, che esercitano funzioni biologiche differenti a livello della cellula. Si consideri che il genoma della Drosophila contiene circa 13.600 geni, mentre il singolo gene DSCAM può produrre tre volte tanto il numero di proteine. Da molti anni si ha il problema di capire come mai a un organismo complesso come il moscerino di Drosophila gli basti un così piccolo numero di geni per produrre l’insieme delle sue funzioni. È chiaro che, grazie al processo dello splicing alternativo, il numero di geni non è un criterio fondamentale per capire la complessità proteica di un organismo. Infatti, nel caso specifico considerato qui, lo splicing alternativo permette di amplificare il prodotto genico da cinque a dieci volte, ottenendo un numero di trascritti molto più alto rispetto ai geni presenti nel genoma umano. iii) C’è infine un altro punto importante che si ricollega a quanto appena detto. Esistono diversi altri tipi di informazione biologica che provengono da proprietà chimiche, fisiche, conformazionali, organizzazionali e ambientali degli organismi, ed esistono perciò differenti livelli d’organizzazione dei sistemi viventi. La nozione di “informazione”, così pervasiva in biologia e particolarmente nella biologia molecolare, può apparire ambigua e limitata dal momento in cui si prendono in considerazione processi altamente complessi come quelli dell’espressione e regolazione genetica e dell’attività I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi cellulare. Legato a questo, c’è il problema dei limiti dell’approccio riduzionista nelle scienze della vita. Per un biologo, il riduzionismo significa che le caratteristiche di un organismo vivente possono essere descritte e spiegate unicamente e interamente in termini delle sue proprietà fisiche e chimiche. Il che ha come conseguenza di ridurre la biologia ad una scienza pienamente riconducibile alle leggi della fisica e della chimica. Il problema tuttavia è che, diversamente dalla fisica, i fenomeni biologici sono estremamente complessi, si comportano ed evolvono in modo essenzialmente non lineare, non determinista e imprevedibile. Essi sono inoltre un concentrato di memoria co-evolutiva e di storia ecosistemica. Infine, gli esseri viventi non sono sistemi separabili o riproducibili come lo sono gran parte dei sistemi fisici (classici e quantistici); tanto è vero che anche la più piccola operazione o mutazione locale effettuata su un organismo può non solo ripercuotersi sull’intero organismo ma anche modificare in modo spesso irreversibile il corso del suo sviluppo. In altre parole, nei sistemi viventi non vale il principio di Curie dell’esatta simmetria tra le cause e gli effetti, in molte situazioni avviene proprio il contrario, vale a dire che gli effetti possono agire retroattivamente sulle cause e manifestarsi in modo diversificato e asimmetrico a diverse scale spaziali e temporali. Per riassumere, quasi tutti i fenomeni biologici sono intrinsecamente non riduzionisti, nel senso che non possono essere spiegati in termini unicamente di proprietà fisiche e chimiche, e nel senso che il suo funzionamento globale non può essere capito se lo si vede come la somma della funzionalità di ogni sua singola componente. Come si è giustamente notato: 120 […] The reductionist approach remains dominant, however, and system biology is often seen as no more than integration of diverse data into models of systems. This way of thinking needs to be changed if systems biology is to lead to an understanding of life and to provide the benefits that are expected from it. The emphasis ought to be on the needs of the system as a whole for understanding the components, not the converse. (…) The development of biochemistry was driven by reductionism, with cells separated into their components, which were then separated into smaller components, and then studied in isolation. The reductionist stage was certainly necessary, and 20th century biochemistry could not have achieved the successes that it did if components had never been studied one at a time. The time has come, however, to move beyond this, beyond even studying the interactions of the components with one another, because all of them form parts of a whole, and their whole. As an example, many cases of cooperative feedback inhibition of metabolic pathways […] cannot be explained solely in terms of the components concerned, but requires consideration of the whole system, including protein synthesis. (CornishBowden A., & M.L. Cárdenas 2005, 516-519, corsivo nostro) Esistono diversi meccanismi biologici, per esempio quelli legati allo sviluppo embrionale e alla morfogenesi, che solo in minor misura dipendono dal DNA genomico, e ciò diversamente da quanto generalmente si pensava fino a non molto tempo fa. Il ruolo più importante lo svolgono infatti i fenomeni epigenetici quali il rimodellamento e la dinamica della cromatina e l’architettura spaziale e funzionale del cromosoma. Questi meccanismi controllano in parte il modo in cui si realizzano lo sviluppo dell’embrione e l’organizzazione cellulare dell’organismo. Si è ad esempio potuto Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 presence in the whole can only be understood by considering the needs of the 121 La biologia oltre il codice genetico, il ruolo di altri processi nello sviluppo È chiaro che i geni non sono tutto nella vita, e il codice genetico è peraltro incapace di spiegare molti processi biologici fondamentali dei sistemi viventi, in particolare il rimodellamento della cromatina e l’organizzazione spaziale del cromosoma, la dinamica e mobilità del citoscheletro, la comunicazione cellulare, i meccanismi soggiacenti alla formazione delle strutture dell’organismo durante l’embriogenesi. In più, oggi si riconosce il ruolo importante che svolgono certe proprietà non codificate geneticamente come l’elasticità e deformabilità di certe strutture biologiche ai livelli macromolecolare, cellulare e dell’intero organismo per la regolazione e rigenerazione di certi processi fisiologici. Citiamo due esempi particolarmente significativi: (1) il ruolo motore dell’elasticità di determinate membrane biologiche nel processo dell’endocitosi; (2) il ruolo di forze e deformazioni geometriche (si vedano Farge 2003, e Mistelli 2008) di tessuti embrionali nel processo di regolazione di certi geni dello sviluppo che vengono espressi durante i primi stadi dello sviluppo dell’embrione di Drosophila, in particolare nel corso della gastrulazione. Da circa una trentina d’anni si sono individuati i cosiddetti geni dello sviluppo la cui espressione rivela una sensibilità di tipo Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 VII. I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi mostrare che in certe piante l’organizzazione e l’evoluzione di una cellula cambiano in risposta a una o più informazioni, a uno o più processi di tipo posizionale. In altre parole, molti tipi di cellule (vegetali e animali) sono sensibili alla (e controllate dalla) posizione spaziale dei gradienti di morfogeni agenti nei tessuti durante lo sviluppo embrionale. Le cellule avrebbero dei “percettori” (oltre che dei “recettori”) capaci di rispondere in modo differenziato alle diverse concentrazioni del gradiente. È come se certi geni responsabili dello sviluppo di determinate parti dell’organismo (allo stadio dell’embrione) si attivassero solamente allorché la concentrazione del morfogeno (o gradiente morfogenetico) è sufficientemente alta. Il grado di attività del morfogeno lungo la catena di eventi legati a una certa fase dello sviluppo dipende in parte dalla presenza di induttori o promotori che aumentano il grado di adesione di questi morfogeni a certi siti specifici di natura trascrizionale e post-trascrizionale. Questo significa che le cellule in qualche modo “avvertono” la presenza di un morfogeno e rispondono in modo differenziato, secondo la sua concentrazione. Non è necessario che sia un induttore che “sente” per un fattore di crescita specifico, potrebbe anche essere un recettore localizzato sulla superficie della cellula (la membrana cellulare). L’interpretazione dei gradienti morfogenetici è tanto più convincente se non è lineare, e la loro azione è tanto più incisiva se non si limita sono a “diffondere”, ma anche a creare una connettività robusta alla scala globale dell’organismo. Si possono, infatti, usare dei modelli detti “multi-gradiente” per descrivere certi meccanismi della biologia dello sviluppo. Un modello semplice è stato proposto per spiegare lo sviluppo di certi motivi di “eyespot” che si formano sulle ali della farfalla. Un primo gradiente corrisponderebbe alla diffusione lineare di un morfogeno, il secondo gradiente avrebbe a che fare con l’“interpretazione” di questo morfogeno; e lo spettro di sensitività delle cellule coinvolte differirebbe secondo le diverse regioni o i diversi domini morfodinamici dell’ala. I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi geometrico-dinamico, invece che genetico. Consideriamo brevemente il modello dell’embrione di Drosophila, nel quale l’azione dei geni dello sviluppo è stata ben caratterizzata durante le prime fasi dello sviluppo. Questo modello comporta due metodi ognuno dei quali richiede una risposta diversa al problema. Il primo consiste nell’individuare quei geni dello sviluppo i cui profili di espressione potrebbero subire delle modificazioni importanti in risposta a una deformazione indotta per via esogena, come una torsione (un twist) applicata all’intero embrione. Il secondo consiste nell’identificare quelle cellule la cui tensione superficiale potrebbe dipendere specificatamente da certi movimenti morfogenetici endogeni che hanno luogo durante la gastrulazione, i quali sarebbero capaci di indurre una modulazione meccanica nell’espressione di certi geni dello sviluppo tra quelli riconosciuti come sensibili dal punto di vista geometrico-dinamico. Il significato di tale meccanismo è che la forza meccanico-geometrica, cioè la torsione, applicata sull’embrione della Drosophila, condiziona il modo in cui i suoi geni dello sviluppo si esprimono. È chiaro quindi che tutto ciò che accade nei processi viventi non è di natura puramente genetica, e certe proprietà fondamentali delle cellule e degli organismi sono sensibili a situazioni di tipo geometrico-dinamico. Il che significa che quelle cellule e quegli organismi possono riorganizzarsi in risposta a questo genere di vincoli spaziali e dinamici. Si tratta ancora di capire se questo tipo di modello può eventualmente applicarsi ai tessuti e agli organi. Non è da escludersi che un certo tipo di pressione geometrica accoppiato a uno stress di natura chimico-ambientale esercitati su tessuti e organi possa giocare un ruolo nella deregolazione dei geni. Comunque sia, questa capacità che hanno le cellule e gli organismi di adattare le loro funzioni locali e il loro metabolismo globale ai diversi cambiamenti interni ed esterni costituisce uno degli aspetti fondamentali della plasticità ontogenetica e filogenetica dei sistemi viventi. Generalmente l’adattamento non avviene in modo passivo né per semplici mutazioni aleatorie, ma piuttosto per cicli di trasformazioni attive: l’organismo si adatta (o si rinnova) trasformando dei vincoli e allo stesso tempo liberando delle risorse. 122 Alla luce di quanto detto, si può pensare che il concetto di creatività (che include le idee di mobilità, azione ed emergenza) sia più appropriato per descrivere il processo dello sviluppo, di quanto non lo sia la nozione di codice meccanico che ha prevalso sino ad ora, e quella (di natura informatica) di programma a essa direttamente legata, [8] ovvero l’idea che lo sviluppo segue semplicemente un insieme finito [8] Si vedano su questo punto les riflessioni di istruzioni (fissate appunto da un programma). Tuttavia, fondamentale interessanti di H. Atlan nel libro La esistono valide ragioni per pensare che lo sviluppo onto- fin du «tout génétique» ? Vers de nouveaux paradigmes en biologie genetico e filogenetico di un organismo non si riduca in (Paris, 1999). Scrive Atlan: “Il est clair alcun modo alla “lettura”, decodificazione e implementa- […] que personne n’a, jusqu’à présent, dans l’ADN cette structure zione di un insieme finito di regole chimiche e di istruzio- découvert logique supposée de programme ni genetiche. Esso appare piuttosto come il risultato di un d’ordinateur. Les séquences codantes sont traduites en séquences processo d’interazione e retroazione continua tra il genoti- d’ADN d’acides aminées par l’intermédiaire po e il fenotipo (tra fenomeni e mutazioni locali e cambia- du code génétique, mais c’est tout. ne présente que très peu menti e contesti globali), e sono al contempo la dinamica e L’ADN d’éléments de syntaxe, et à notre Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 VIII. Creatività e plasticità nei sistemi viventi IX. Occorre una nuova teoria della biologia In fondo si tratta di costruire nuovi metodi e modelli, diciamo pure una nuova teoria biologica in cui il linguaggio di tipo informazionale (codici, programmi, computazioni) che ha caratterizzato e ancora caratterizza in gran parte la biologia molecolare, sia completato da (o tradotto in) un linguaggio sistemico-dinamico (spazio delle fasi, biforcazioni, attrattori, percorsi alternativi) e nel linguaggio della topologia (deformazioni, plasticità, continuità-discontinuità, genesi di forme). Quanto detto è giustificato essenzialmente dal fatto che il nostro modo tradizionale di rappresentarci i I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi 123 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 l’evoluzione di questa interazione che produce un qualsiasi connaissance pas le moindre élément de sémantique qui permette d’y voir organismo vivente. une structure de langage, même La generazione ontogenetica di un organismo mul- formelle. Si l’on admet donc que l’ADN n’est pas nécessairement un ticellulare individuato attraverso i processi dello sviluppo programme d’ordinateur, de quoi embrionale e della morfogenesi si può vedere al contempo peut-il donc s’agir ? Il existe deux autres possibilités. La première, c’est più come un processo creativo e una trasformazione qu’il s’agisse purement et simplement generativa che come la semplice nozione meccanica di d’une séquence aléatoire. Bien que les relations entre séquence aléatoire “copia”-e-“riproduci”; i fenomeni d’auto-organizzazione nel et programme d’ordinateur ne soient mondo vivente costituiscono un magnifico esempio da cui pas simples […], je n’examinerai pas cette hypothèse en détail, tant il paraît traspare chiaramente questa proprietà straordinaria della difficile d’admettre que l’ADN ne soit creatività costantemente all’opera nelle strutture e forme qu’une séquence aléatoire, puisque modifications de cette séquence biologiche. La formazione di nuove strutture durante lo des entraînent des conséquences sviluppo (differenziamento cellulare, formazione di tes- importantes sur le développement ou le fonctionnement des organismes suti, genesi degli organi) non può essere spiegato unica- concernés. L’autre possibilité est que mente mediante il codice genetico e i meccanismi mole- l’ADN soit un ensemble de données colari. Si ha bisogno di concetti esplicativi più potenti e plutôt qu’un programme” (23-24). profondi rispetto alle “immagini” del codice e della macchina. Con queste ultime si accede tutt’al più alla sintassi del funzionamento di un organismo vivente, cioè alle regole di base e ai meccanismi locali, ma questa sintassi spiega poco o niente senza la semantica dell’azione di queste regole, delle interazioni e dei processi, ossia delle diverse “interpretazioni” biologiche e dei contesti globali. Ad esempio, i principi della plasticità topologica (o flessibilità conformazionale) e dell’organizzazione dinamica permettono (almeno in parte) di comprendere il modo in cui le strutture sono generate grazie a processi di rimodellamento funzionalmente canalizzati, come ciò effettivamente accade nel caso del ripiegamento e arrotolamento della cromatina su sé stessa o della continua riorganizzazione del cromosoma durante la meiosi. Delle strutture possono essere generate anche grazie al principio di auto-organizzazione attraverso l’azione di fattori dinamici intrinseci quali parametri cinetici e reazioni biochimiche. Inoltre, può contribuire alla formazione di nuove strutture l’influenza di fattori ambientali esterni di tipo chimico, energetico, termodinamico, ecc. Un’altra situazione interessante è il controllo dinamico che esercita l’“informazione posizionale” (flusso d’informazione spazialmente dipendente) sulle prime fasi dello sviluppo dell’embrione di molte specie animali, nella fattispecie su quello di Drosophila. Infatti, come si è già accennato, dei “gradienti morfogeni” contribuiscono alla formazione di pattern sul corpo dell’organismo tramite la determinazione dell’“informazione posizionale” nei campi morfogenetici. I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi 124 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 sistemi, il quale fa uso di insiemi fissati di stati sequenziali e di regole meccaniche, appartiene ad una classe estremamente limitata di sistemi a cui si può dare il nome di sistemi statici semplici o (più concisamente) meccanismi. È ormai chiaro, tuttavia, che i sistemi biologici non appartengono a tale classe e perciò dovrebbero essere chiamati sistemi complessi o dinamici. I sistemi semplici sono tutt’al più delle approssimazioni dei sistemi complessi. In biologia oggi siamo dinanzi a un cambiamento profondo di paradigma, ovvero al passaggio da un punto di vista secondo il quale la sequenza del DNA è il depositario principale (se non l’unico) dell’informazione biologica a una visione molto più complessa secondo la quale l’informazione biologica si origina e si organizza a più scale (da quella della molecola singola a quella della biosfera) e su livelli differenti, inclusi i fenomeni epigenetici e la regolazione proteica, l’organizzazione e comunicazione cellulare, le proprietà locali e globali delle forme degli organismi e i loro cambiamenti all’interno di uno o più ecosistemi. In questa visione si mette l’accento sul fatto che le relazioni tra i diversi componenti di una struttura biologica sono molto più importanti di ogni singolo componente considerato indipendentemente dagli altri. Di conseguenza, lo sviluppo di un approccio integrativo e sistemico nello studio degli esseri viventi appare necessario se si vuole capire il ruolo e il significato delle interazioni, delle proprietà emergenti e dei comportamenti globali delle forme viventi. I concetti di regolazione e d’organizzazione sono diventati estremamente importanti per capire molti processi biologici fondamentali. Gli stessi eventi genetici all’interno della cellula, quali la replicazione, la trascrizione, la traduzione, la ricombinazione e la riparazione del DNA, sono resi possibili dall’azione di specifici enzimi regolatori i quali possono modificare e adattare la conformazione topologica del DNA, nello spazio e nel tempo, a quegli eventi biologici fondamentali. Le diverse forme che il DNA e la struttura cromatinica possono acquisire durante un ciclo vitale sono alla base stessa dell’organizzazione del cromosoma e della sua capacità di compattarsi all’interno del nucleo. Esistono diverse altre famiglie di proteine regolatrici che orchestrano i processi trascrizionali e post-trascrizionali durante l’embriogenesi e la morfogenesi. Infine, è importante sottolineare che l’ontogenesi dovrebbe essere concepita nei termini della storia interna delle trasformazioni strutturali indotte da determinati principi di organizzazione dinamica che regolano e orientano lo sviluppo di un organismo pluricellulare in funzione dei vincoli interni e dei condizionamenti esterni. Il che significa che l’ontogenesi di un sistema vivente corrisponde alla storia della sua evoluzione, nonché alla possibilità che si perpetuino le sue capacità ad auto-organizzarsi per permettere il maggior numero di possibili variazioni fenotipiche viabili. Questo porta a pensare che la plasticità conformazionale e l’organizzazione funzionale siano due proprietà essenziali e interdipendenti degli organismi viventi che gli consentono di acquisire un carattere morfologico e funzionale, un’esistenza individuale e collettiva. Il problema della generazione, dell’emergenza e del divenire delle forme è un aspetto fondamentale delle ricerche in biologia. Le forme viventi non sono statiche ma dinamiche, nel senso che esse emergono da più insiemi di interazioni funzionali tra diversi componenti, siano essi molecole, cellule, organi, ecc. Queste reti di interazioni influenzano in I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato Luciano Boi 125 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 105 — 126 modo importante, attraverso la trasmissione e diffusione di diversi contenuti informazionali e comunicazionali, il comportamento delle diverse strutture biologiche e contribuiscono a che si costituiscano i differenti livelli di organizzazione che formano un organismo. Benecke, A. (2003). Genomic Plasticity and Information Processing by Transcriptional Regulators. Complexus, 1 (65-76). Boi, L. (2022). A Reappraisal of the Form-Function Problem. Theory and Phenomenology (73-103), Theory in Biosciences, Special Issue on Geometry and Phenomenology of the Living. L. Boi & C. Lobo (eds), 141 (2). Boi, L. (2009). Epigenetic Phenomena, Chromatin Dynamics, and Gene Expression. New Theoretical Approaches in The Study of Living Systems, Biology Forum, 103 (4), 27-58. Boi, L. (2011). Plasticity and Complexity in Biology: Topological Organisation, Regulatory Protein Networks and Mechanisms of Gene Expression (287-338). In G. Terzis & R. 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These two authors frame their approach in a transformation process, the purpose of which lies in the eye of the beholder/observer defining the process, and characterised by its relationship to its context. I start from the Heraclitian notion that in the world in which we find ourselves all is flux and change. Using the frame developed by Beer and Checkland, I propose that this process view is fundamental to developing models and understanding of the stability we find in phenomena in our world. I explore the necessary structures to achieve coherence and adaptability and show that the learning process is essential. I designate this approach ‘systemic process thinking’, and show that it can be considered a distinct paradigm which fits the Heraclitian view of a dynamic world. It is necessarily constructivist, improves on Whitehead’s Process Philosophy, and has considerable modelling power. I also show how the Western WEIRD approach has been derived from this. — SYSTEMS THINKING — CYBERNETICS — PROCESS PHILOSOPHY — WEIRD THINKING On the Framing of Systems and Cybernetic Models Robin Asby Robin Asby 131 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 131 — 146 On the Framing of Systems and Cybernetic Models The purpose of framing is to choose the way in which we think about something in order that the explanation or story we tell is done in a way which conveys our idea effectively. An appropriate frame simplifies our idea so that the model we are describing is more accessible. Congruence between frame and the territory I perceive simplifies model building and gives much better insight and understanding. For example, when exploring maps in an atlas, you will know to be careful in the way in which you interpret a map of the world. To map the world, the spherical earth must be flattened so that it may be drawn on a page. The two dimensional framing putting the map on a page inevitably distorts the relationships between different parts of the territory making calculations of distances problematic. Using coordinates appropriate to a flat page to describe geometric shapes on the curved surface of a sphere can be done, but leads to complexity and difficulties in understanding. Whereas putting the map on a globe and using latitude and longitude or spherical coordinates as the basis for the modelling makes the distance calculations as simple as possible. The shared symmetry, between the frame chosen and the situation being modelled simplifies the understanding and the calculations. In many situations under scrutiny symmetry between the base frame and the situation under investigation plays a guiding role in choosing an appropriate modelling basis. Two Ways of Thinking On the Framing of Systems and Cybernetic Models Robin Asby Framing 132 Aristotle made the distinction between two different ways of thinking illustrated by the following description of a house. [...] as is the case with a house; the rationale will be something like ‘A covering preventative of destruction by wind, rain and sun’. But while one philosopher will say that a house is composed of stones, bricks, and beams, another will say that it is the form in these things for the given purposes. Who then is the natural philosopher among these? Is he the one who defines a house in terms of its matter and knows nothing of its rationale, or the one who defines it only in terms of its rationale? Or is he the one who defines it on the basis of both? (Aristotle, De Anima The foundation of Western science and its underlying philosophy, the starting point of which is often attributed to Parmenides (c515-450BCE), is based upon the first of these ways of thinking; that is that the world out there is a world of objects defined by their attributes. The developments in the 17th century in science and philosophy established the dominance of this approach (Deely 2001, Diamond 2013). The development of calculus by Newton and Leibniz overcame the problem of modelling motion in Parmenides’ static conception, so that this approach became the accepted way of thinking about thinking. Henrich et al. (2010) describe this approach as WEIRD thinking (Western, Educated, Industrialised, Rich, and Democratic) and point out that this way of thinking is not only of recent origin but a way of thinking still confined to a relatively small part of the world. Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 131 — 146 trans. by Lawson-Tancred 1986, 129) This Western way of approach dominates and inhibits the Western way of thinking. Because we focus on the object, any relationships that the object has to its environment move into the background. Relationships are not forefront in this way of thinking, and therefore we have seen ourselves as separate and apart from the natural world. We are now beginning to realise that this way of thinking may have already guaranteed Homo sapiens’s own early evolutionary extinction. WEIRD thinking leads to the belief in a ‘real world’ which can be termed naïve or direct realism. The belief in this ‘real world’ gave rise to the idea of knowledge detached and independent of the knower. Thus ‘objective’ has in common usage come to be an adjective in the description of a situation, or reportage which carries the meaning that this is the ‘correct’ or ‘real’ view that all should believe, independent of any particular observer. As a result of the success of the WEIRD approach originally in physics, other disciplines, including biology, psychology and economics, also adopted this worldview. From there this worldview became dominant in the Western world (Deely 2001). WEIRD thinking is an approach that informs us directly of things and their attributes, assumed to be a description of the thing as it is, rather than what we would perceive in the particular circumstances in which we were looking. WEIRD thinking does account for the geometrical sense of perspective perfectly adequately in that we understand that objects that have spatial extent can appear in various forms due to distance or their 3-dimensional shape, but there is much more to the concept of perspective as I will describe. In contradistinction to the WEIRD approach my starting point is the alternative that Aristotle describes in which purpose is central. It is therefore a teleological approach. The purposeful rationale of Aristotle’s house perhaps can be better described in the form of a process which transforms a constantly changing variable environment on the outside to a calm interior conducive to comfortable living. Unfortunately, most of Heraclitus’ writing is lost but we do know from the references that have survived that the writing of Heraclitus (c 540-480BCE) (Khan 1979) was considered very important in his own and later times. His underpinning philosophy has been interpreted as ‘all is flux and change’. We must note that whilst the environments of all living forms change, living forms survive and through their lifetimes remain identifiably themselves. However, after the ancient Greek philosophers it wasn’t until the 1878 publication of Claude Bernard’s Les Phénomènes de la Vie that it was noted that that it was remarkable that in a world of constant change the internal environment of animals remained constant. Walter Canon in his 1932 book The Wisdom of the Body coined the term ‘homeostasis’ for this phenomenon. In an environment of flux and change the question that needs to be answered then is: - how is this stability achieved? The answer to this question lies in the science of cybernetics defined by Norbert Wiener as “the science of control in the animal and the machine” (Wiener 1948). The science of cybernetics gave rise to the more On the Framing of Systems and Cybernetic Models Robin Asby focus on objects’ attributes, and a preference for using categorical rules to explain and predict behaviour. (Henrich et al. 2010) 133 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 131 — 146 Analytic thought involves a detachment of objects from contexts, a tendency to So where does the idea that Systems in general have a purpose come from? On the Framing of Systems and Cybernetic Models Robin Asby 134 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 131 — 146 general discipline of Systems Thinking, but in the beginning it all remained within the extant WEIRD paradigm. However, in the late 1970’s and early 1980’s two authors, Peter Checkland and Stafford Beer, framed their work differently. Peter Checkland (1981) had come up against the weakness of the extant systemic approaches based within an object frame while exploring the use of Systems Thinking to understand and manage organisational problems. He found that standard techniques failed and as a result developed the approach which he called Soft Systems Methodology (SSM). This approach takes the key step into the teleological process world by setting a Root Definition as the starting point for building a systemic model which is a process model. The Root Definition defines the relationship between the model to be constructed using the systemic frame and the environment of this process. Thus the model to be constructed has the form of a purposeful input (from the process environment) → process → output (to the process environment) structure. I will use the word ‘purpose’ rather than Root Definition to define this co-evolutionary relationship between a system and its environment following Beer (Beer 1979; 1985). However, it should be noted that in common usage the word ‘purpose’ does not generally mean the whole of the relationship of the system to its environment but usually relates only to one major output of the system concerned. For example, the purpose of a nuclear power plant is usually thought of as the production of electricity, one output, but with no reference to waste which we still cannot safely deal with, another output, nor indeed any reference to the necessary inputs. Soft Systems Methodology is a learning technique based on a process frame which sets out to explicitly take into account the different perspectives of those involved in the situation being modelled. It does this by encouraging the various participants to define their own purpose leading to their own subsequent system models. If no agreement can be reached on a single purpose, the SSM process thereafter encourages the participants to seek agreement on possible action to be taken, without necessarily moving from their own systemic modelling of the situation. Hence the purpose of SSM is to move from a position where participants in a complex problem situation have different perspectives on that situation and understand the situation differently, to one where problem-solving action is agreed, despite those multiple perspectives. Stafford Beer spent time in India during the Second World War, and during that time made a study of Eastern philosophy to add to his previous study of Western philosophy. This experience gave him a perspective unrestrained by WEIRD thinking and set him on a unique path over subsequent years. The transition from an object base to a process base, synthesising his Western and Eastern experiences can be traced through his writings in the development of the Viable System Model. This development evolves from Cybernetics and Management (1959), written from a Western scientific perspective, to Heart of Enterprise (1979) which starts with a clear statement of the subjective process nature of process modelling i.e. using the frame of a purposeful input → process → output structure. At the outset Beer says:- It is you the observer of the system who recognises its purpose. (Beer 1979, 8) Beer formulated an approach to process philosophy including the role of cybernetic control. His approach aligns the basic building block, the purposeful input → process → output, to the process phenomena under consideration. These two approaches by Beer and Checkland, to the problem of formulating systemic models in a complex situation, are now two well-established approaches with extensive literatures of use. Their development and increasing use in the application of Systems Thinking illustrates the move from what I will designate as systemic object thinking based in the WEIRD frame; to the understanding that the most powerful modelling of an interconnected world is obtained through what I will designate as systemic process thinking, an approach based in a process frame. On the Framing of Systems and Cybernetic Models Robin Asby IT COMES FROM YOU! The Systemic Process Approach The philosophical approach I am taking to understanding ‘understanding’ is the Pragmatist philosophy originated by Charles Sanders Peirce. William James states that Pierce’s Pragmatist philosophy proposes that our beliefs are “rules for action”, and to develop a thought’s meaning it is sufficient to “determine what conduct it was fitted to produce; that conduct is for us its sole significance” (James 1907, in Thayer 1982, 210). Whilst this approach was originated by Peirce, it was subsequently developed by William James and John Dewey. James further says that: 135 There can be no difference anywhere that doesn’t make a difference elsewhere – no difference in abstract truth that doesn’t express itself in a difference in concrete fact and in conduct consequent upon that fact, imposed on somebody, somehow, somewhere, and somewhen. The whole function of philosophy ought to be to find out what definite difference it will make to you and me, at definite instances of our life, if this world formula or that world formula be the true one. (James Both the psychology and the systems thinking literature propose the concept of mental models (e.g. Johnson-Laird 1983, Senge 1990). A mental model is a structure within a brain and nervous system that recognises input signals and if relevant to the animal’s immediate situation transforms the input signals to action. Modern approaches to neuroscience also use this concept, for example Antonio Damasio (2006), describes mental images and the way in which they are held, formed and used within the vast structured neuronal network of a brain. A mental model is, therefore, a structure which is a purposeful system; it receives inputs and transforms those inputs by some process to an output or outputs. It can be a response system involving the whole living entity, a tiny part of a nervous system multiply-coupled to other systems, or anything in between. I propose that the purpose of a mental model in any living form is to enable the prediction of the state and configuration of the environment in the Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 131 — 146 in Thayer 1982, 212) On the Framing of Systems and Cybernetic Models Robin Asby future relevant to the living form concerned, given the state and configuration of the environment now, so that the living entity can by some means enhance its survivability. In this systemic process approach, mental models are exactly rules for action and it is the resulting conduct that is the sole significance (James above). Pragmatism as defined by Peirce, James and Dewey is therefore a very practical philosophy, which fits the systemic process approach to understanding, namely that the processes of evolutionary learning and individual learning construct understanding and response to environmental circumstance. What is important is that the more precise thinking given by a systemic process approach really does make a difference in action. As James argues: ...the tangible fact at the root of all our thought-distinctions, however subtle, is that there is no one of them so fine as to consist in anything but a possible difference of practice. (James in Thayer 1982, 210) But from this systemic perspective there is no “true one” as James has it in the previous quotation. Each of us has a unique set of lifetime experiences from which we may learn and, therefore, a unique set of models, and in any situation there are mental models which are more or less useful. Ernst Von Glasersfeld (1995) developed Radical Constructivism, a modern version of this pragmatic approach to learning and understanding which he characterises as follows: 136 Radical constructivism is uninhibitedly instrumentalist. It replaces the notion of ‘truth’ (as true representation of an independent reality) with the notion of ‘viability’ within the subject’s experiential world. Consequentially it refuses all metaphysical commitments and claims to be no more than one possible model of thinking about the only world we can come to know, the world we construct as living Radical Constructivism aligns with Pragmatism in its instrumentalist approach, but changes the understanding of ‘truth’ to experiential ‘viability’. This use of the word ‘viability’ matches exactly that of Beer’s use in the development and use of the Viable System Model. A mental model is viable if it stands the test of experience. I interpret what James means by “world formula” as the set of mental models in use at any one time, and “true one” as the viable model in the sense defined by Von Glasersfeld. Hence, I conclude that with the foundation of Pragmatism, originating with Peirce, through to von Glasersfeld’s Radical Constructivism there is a coherent logical foundation for systemic process thinking, which replaces the reliance on ‘reality’ in the underpinning of WEIRD thinking. Importantly within this way of thinking about thinking it must be remembered that each individual is unique and understands the world in a unique way. They have a unique perspective on any situation the evidence for which comes from Checkland’s experience of the failure of the WEIRD approach in complex management situations. Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 131 — 146 subjects. (Glasersfeld 1995, 22) The frame within which systemic process models are constructed involves the following precepts: 1. 2. 3. 4. 5. Models are constructed from a particular perspective, that of the observer/definer of the model. Models are therefore always subjective. The purpose of a system process model is defined by the relationship of the process to its environment as defined by the observer/ definer. Systems can be analysed into subsystems, and further, can be envisaged as a subunit of a super-system. Hence system process models are inherently fractal in nature reflecting the fractal nature of natural ecological systems. The idea that modelling, starting from a systemic process base, necessarily leads to a fractal structure was first developed by Beer in his series of books developing the Viable System Model (VSM). This necessary layered or fractal structure of any organisation achieving viability came from a synthesis of logic in the management of an organisation and the structure of the human nervous system (Beer 1972; 1979; 1985). Systems form an interconnected network of processes. Systems can also be considered a subunit of a schema-system. Commonalities of purpose can be recognised across different exemplifications of a system type. For example, Plato’s ideal bed (Plato, trans. by Lee, 1987, 362) is such a schema-system because a bed can be recognised across different exemplifications of the same relationship situation, due to their common purpose. For example, a straw mat, or four poster bed, and other objects in the same relationship situation which all share the purpose – to provide a place to sleep. In the same way Beer’s Viable System Model is proposed as such a schema system for a viable human organisation in that any viable human organisation will exhibit that basic underlying organisational pattern. On the Framing of Systems and Cybernetic Models Robin Asby The Basic Systemic Process Thinking Frame 137 The focus on process as the centre of the systemic process definition input → process → output, and the systemic process models being interconnected networks of processes, brings the concept of process to the fore. The most important contributor to an understanding of process and its associated philosophy was Alfred North Whitehead (Whitehead 1978). The first publication of Process and Reality in 1929 preceded the development of Systems Thinking. Whitehead’s formulation of his Process Philosophy relates directly to the systemic process formulation (Asby 2021, 134). Whitehead’s central idea is an ‘actual occasion’, that is a situation point in time where a person perceives the need to respond. In Whitehead’s formulation an ‘actual occasion’ comes into being by drawing on, in his language ‘prehending’ past actual occasions in a process of ‘concrescence’; the Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 131 — 146 Whitehead’s Process Philosophy On the Framing of Systems and Cybernetic Models Robin Asby many past actual occasions coming together to form the one present actual occasion. In Whitehead’s nomenclature the ‘this’ and ‘that’ of ‘subject’ and ‘object’ now refer to the current actual occasion and the past actual occasions. When the subject actual occasion B prehends an object actual occasion A, it imposes its perspective. As a result, this process draws from A only the aligned elements of data, and eliminates those elements of A which are not aligned to B’s perspective. Whitehead refers to this as the carrying over of feelings from A to B. The use of the word ‘feeling’ extends the usual usage but carries the same meaning e.g. a feeling of anger might be carried forward from one occasion to another. Whitehead’s terms, actual occasion, subject, object, feeling, are evidence of an object-based approach which makes the language and formulation of the ideas at odds with the underlying ideas he wishes to convey. Donald W. Sherburne (1966) describes Whitehead’s approach as an ‘atomistic system’ referring back to the ancient Greek Philosopher Democritus, the originator of the idea of a fundamental particle of matter which is in concept an object. However, the systemic approach developed by Beer, which is the foundation of Beer’s and Checkland’s approach, conceptually aligns with the processes that the modelling is seeking to represent. In this systemic approach the relationships between purposeful systems, the inputs and outputs, are conceptualised as dynamic flows, flows of information and/ or of material. Whitehead’s formulation can be related to this systemic process approach by considering snapshots taken at different times corresponding to the ‘actual occasions; the evolution, the ‘prehending’ taking place between snapshots. From a systemic point of view Whitehead’s formulation is an object-based formulation in the traditional scientific way, and secondly Whitehead avoids any hint of teleology as would be expected from in a traditional scientific argument even though clearly processes are teleological (Asby 2021). 138 Holding steady in a changing environment is achieved in all circumstances through exemplifications of the basic control model. In the late 1940s and early 1950s it was recognised that the mathematical modelling of control systems in different disciplines had produced the same understanding, and a series of conferences, the Macy Conferences (Foerster editor 1951) were held to explore these issues. It was recognised that the control model is a schema system which can be recognised in all such situations. For a cybernetic frame I therefore add the following precepts to those above. 1. 2. The basic control model of cybernetics is defined as consisting of a system to be controlled; a sensor on the system to detect a variable to be controlled; a comparator to compare the actual value detected by the sensor with a required value input from outside, and an actuator to operate on the system to cause return to the required value in case of deviation. Control is subject to Ashby’s Law of Requisite Variety (Ashby 1956). W. Ross Ashby was a British psychiatrist who first demonstrated the importance of variety in understanding control. The Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 131 — 146 The Additional Cybernetic Frame 4. On the Framing of Systems and Cybernetic Models Robin Asby 139 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 131 — 146 3. number of possible states of a system is what is defined as the variety of the system. Variety here has a technical systemic meaning which fortunately more or less coincides with its usual meaning. He showed that, in order to achieve sustainable control of a system, the variety of control actions by a controller must be at least equal to the variety of the disturbances which the system could be subject to. This is the Law of Requisite Variety. For example, the state of a motor vehicle travelling along a road is described by its lateral position on the road and its speed along the road, so we need at least control systems to manage these two variables – the person driving is the comparator, and needs the steering mechanism, and the accelerator-brake combination to arrive safely at their destination. Control is subject to the Conant-Ashby Theorem (Conant & Ashby 1970). The Conant-Ashby Theorem follows from the Law of Requisite Variety and states that the quality of control of a situation depends upon the quality of the model built into the controller. For example, in slippery road conditions the number of potential states of the car system increases: normal driving does not include skids. Understanding how a car behaves in those conditions, having a superior, higher variety model of car behaviour and how to control it, makes for a more skilled and safer driver. If the variety of potential command, i.e. the variety of control actions of the control system, is inadequate, control will not be maintained. Control situations are inherently complex because they involve parts of a system relating to each other in a fractal structure. Relating means communications taking place between the parts of a system. The communication channels are two-way feedback structures. Beer, from his practical management experience came to the conclusion that it is the way in which a human organisation relates to its environment and the way in which the parts of any organisation relate to each other that determines how that organisation evolves through time. A control system is subject to the Suboptimisation Theorem (Katz and Kahn in Systems Thinking, Emory ed.). The Sub-optimisation Theorem states that optimisation of a whole system cannot be achieved by separately optimising the parts. In any system there will always be a requirement for restrictions on the freedom of action of the sub-units in order to maintain cohesion of the whole. In other words, there must be feedback control loops whose purpose is to restrict the freedom of action of sub-units so that the coherence of the whole system can be maintained. The fractal nature of an organisational structure requires that control systems populate the model in the same fractal way. It is from these underlying ideas that Beer developed his Viable System Model as a model of what is necessary and sufficient for a human organisation to be capable of adapting to a changing environment. (Asby 2021) has extended the VSM approach to model how animals act, react, and adapt to a changing environment. The brain and nervous system processes incoming signals from the environment and produces responses to those incoming signals. William James was one of the first to describe, in a way that is coherent with modern neuroscience the ability of the brain and nervous system to change, due to both maturation and experience. He also identified the systemic feedback nature of the change process, the basis of learning. This feedback loop operates between a living species of animal and its environment: the species and the environment coevolve. Neuroscientific research has shown that this feedback loop is essential for normal brain development in children (Denes 2016). There are windows in the maturation process of a developing child wherein interaction with the environment must take place for normal brain development to progress. Once the window closes, brain plasticity reduces and full competence is not achieved. The base unit of the brain and nervous system, the neuron, is a system: it receives inputs from its environment and transforms those inputs into outputs to its environment, just like any other biological cell. A neuron’s purpose is to receive electrical inputs from a variety of other neurons, and if those inputs reach a threshold level, fire to distribute electrical output to a variety of other neurons. Neurons can be connected to up to 10,000 other neurons and can transmit a signal over a considerable distance within the nervous system and brain of an animal. Neurons form a complex interconnected web of systems, so that the electrical signals flow through this web of interconnected cells. This is exactly as I require for systemic process modelling. The structure of any neuronal network determines the relationship between the inputs to that network and the outputs from that network; models are encoded in the collective action of neurons. On the Framing of Systems and Cybernetic Models Robin Asby The Process Modelling of Learning 140 I once wanted to increase my ability to name the particular species of the small birds that I observed. This meant that I would need to refine my ability for differentiating between species, in what were for me very similar experiences. I needed to be able to differentiate between, say, observing a robin and a sparrow, recognising the various differences in appearance and behaviour. With practice I was able to do that. My model of a small bird was differentiated into two separate models one each for the robin and the sparrow. In any situation where control is necessary, developing an ability to differentiate between similar situations, in this way, increases the variety of control responses exactly as required by Ashby’s Law. Thus being able to differentiate out two or more response sub-systems from an existing response system is perhaps the simplest way to extend response patterns to increase variety of potential command. The second way of extending possible response patterns is to develop the ability to respond to new challenges - those that have never been met before. A living entity in a changing environment will naturally need to modify its responses as its environment changes, but will also need to cope with challenges that it has not encountered before. This second ability is a more powerful way of increasing the variety of possible control Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 131 — 146 Recognising Difference and Similarity On the Framing of Systems and Cybernetic Models Robin Asby responses, and significantly increasing the variety of potential command. At any one time a brain and nervous system will contain sets of mental models for use in different situations. These sets of models are not necessarily connected. I suspect we have all experienced meeting someone out of their usual context and finding it difficult to identify them. Recognising the context we are able to choose response models appropriate to that environmental circumstance. I therefore propose that a brain and nervous system has the ability to review and compare models from different circumstances and extract from that comparison what is common. That new common pattern of recognition and response can then be used to evaluate and react to new experiences that have commonalities of pattern with the original models. Piaget (1954) describes a number of examples of young children exhibiting multiple models prior to synthesis, for example: At 1 [year]; 3 [months and], (9) [days] Lucienne is in the garden with her mother. Then I arrive; she sees me come, smiles at me, therefore obviously recognises me (I am at a distance of about 1 metre 50). Her mother then asks her: “Where is papa?” Curiously enough, Lucienne immediately turns toward the window of my office where she is accustomed to seeing me and points in that direction. A moment later we repeat the experiment; she has just seen me 1 metre away from her, yet, when her mother pronounces my name, Lucienne again turns toward my office. Here it may be clearly seen that ……. I give rise to two distinct behaviour patterns Piaget describes a process of learning derived from his examples that aligns with the learning process implied by the modelling I describe here. This second way of increasing the variety of potential command can be envisaged as the construction of a schema-system from two or more existing systems. The development of a schema-system in this way enables the development of new sub-systems and the concomitant increase in variety of potential command using the first method described above. Being able to recognise a generic pattern is a powerful aid to learning, possibly even the root of creativity – being able to synthesise different experiences to create something new (Koestler 1970). To be creative I need to seek different experiences in new circumstances, and new contexts; my brain will take care of the rest. The two learning processes taken together form a simple but powerful learning mechanism, which increases the range and accuracy of recognition and response and permits the interpolation of new levels within existing recognition and response systems. These two learning abilities, recognising difference and recognising similarity, are rather simple to describe in these systemic terms. In the first case I am developing the ability to differentiate between two similar processes where a singular recognition and response system is refined into two or more sub-systems. In the second case, I identify a schema common to two different recognition and response systems and then use that schema to guide reaction to a new situation. A schema-system once developed from two systems, can give rise to new sub-systems using the first learning process. Both these possibilities increase the variety of responses available to environmental 141 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 131 — 146 not synthesised……: “papa at his window” and “papa in the garden” (Piaget 1954, 58) On the Framing of Systems and Cybernetic Models Robin Asby disturbance and therefore according to the Law of Requisite Variety increase the chance of survival. These two learning processes, recognising difference and recognising similarity, can be designated Open Learning and Constrained Learning. The existence of a new schema-system will open new possibilities. On the other hand, the development of sub-systems to an existing system will be constrained to possibilities of recognition and action already experienced but now refined. George Lakoff (2008) proposes that ‘conservative thought’ is framed in a hierarchy of authority. Anyone is free to act as long as they act within the rules laid down. Clearly, within such a system all learning is constrained. Accepting unquestioningly a particular frame allows only the possibility of elaborating response sub-systems within that frame; constrained learning. Lakoff proposes that ‘progressive thought’ is built on caring and empathy together with the responsibility and strength to act on that. Having empathy entails not requiring conformance within a particular frame but being open to learning from others and their way of living. Within a framework of protection and empowerment people can come together to interact with each other despite their differences. If they do this they will, through comparing and contrasting their own ways of living with other ways of living, learn of the commonalities through the process of open learning. Further support for this model of learning comes from the work of William Perry (1999) which describes in general terms how a mind develops principally using open learning as described above but in some cases only developing to a point beyond which embracing the uncertainty implied by the complexity of that person’ environment seems overwhelming, and there is a reversion to constrained learning. 142 The Relationship Between the Object Frame and the Process Frame The foundation of the systemic process modelling approach defines a model as a system that produces a particular output from a given input in a brain and nervous system. This aligns with the holistic reasoning of Henrich et al. (2010): Holistic thought involves an orientation to the context or field as a whole, includence for explaining and predicting events on the basis of such relationships. (73) The idea of a ‘system’ hides complexity. The same object, a hospital, a railway or a company organisation, can be modelled in different systemic ways depending upon the purpose allocated by the modeller. We each construct our own world from our own personal experiences. Each of us has, as a result of our own unique set of past experiences, a mindset of mental models from which we construct our own perspective on any situation we encounter. This means that the same pattern of signals will be perceived differently by different people; each will perceive and interpret that pattern according to their particular mindset. Each will construct models of the same object as a system from their mindset which reflects their perspective. An accountant designing a hospital with the purpose of Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 131 — 146 ing attention to relationships between a focal object and the field, and a prefer- On the Framing of Systems and Cybernetic Models Robin Asby 143 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 131 — 146 minimising costs will design that hospital rather differently from a doctor designing that hospital with the purpose of providing the best patient experience. In these two cases the hospital’s relationship to its community will not be the same. This is not to suggest that each of these people is unable to embrace the other perspective through learning, but that we are dependent on the mindset we have in the moment. The important understanding gained is that if I view something for the first time, my eyes receive signals from the scene I observe. My brain singles out a section of that scene because it perceives a boundary. Light is scattered by something in my visual field which appears as a coherent whole. Light falls on what we term an object, and is scattered by that object to my eyes. What I see is a system; light, the input, is scattered, the process, and my eyes receive the output of the scattering process. Subsequently if I change my perspective to this something I see for the first time, the scattering produces a different image but my brain will automatically synthesise the perceptions from these observations using open learning as described above. I would be developing a schema-system from the synthesis of the commonalities of my different observations. If I go on to take more observations, then all the time I am enhancing my schema-system model. As Piaget (1954) describes, this normally happens naturally, early in life, when an infant starts to move about, changing its perspective on the world it finds itself in. When something becomes very familiar from those many observations, in the end I forget that each time I view that thing, I do it from a particular position. I make a particular observation from a particular perspective which has a particular relationship to whatever it is that I am observing. But it is that single step, the single observation, which is fundamental – my ‘object’ model is built from many such single steps. Once my brain has built that schema-system model, it recognises the object, very quickly from the pattern of scattered light reaching my eyes from any observational perspective. The use of the word perspective here denotes viewing from a particular spatial point: the geometric interpretation of the word perspective. For each position I stand in, for each perspective I take, the pattern of reflected light reaching my eyes is different. It is my brain which then over time, using open learning, synthesises these different patterns to form the schema-system model. The schema-system model and those many relationships are telescoped into no relationship at all in the abstract. But the model in my head is still a schema-system model ready for use when that object appears in my visual field. The processes of synthesis of different perspectives into an object model honed by evolution works well in perceiving and reacting to events in the natural world, but when we come to complex situations, for example understanding a functioning hospital, with variety beyond our capacity to span, we are misled by our assumption of object. We are each limited and encased in our own limited ‘bell jar’ of experience (Plath 1966). But if we are open to learning, those limits expand as Perry describes. Driven by the enormous success of Western thinking as a foundation for scientific advance, philosophical attempts have been made to explain holistic approaches in terms of WEIRD thinking – e.g. Nagel (1961). Nagel defined four types of explanation which he labelled 1) The deductive model; 2) probabilistic explanations; 3) functional or teleological explanations; 4) genetic explanations. Western thinking and, in particular, Western scientific thinking is based firmly within the first and second of these and has either rejected the last two as invalid or, with Nagel, attempts to explain them as derived from the first two. I turn that argument on its head and explain object thinking in terms of systemic process thinking. There are vital differences between systems constructed with different purposes in mind, and as Beer (1966) notes, discussions between politicians with different perspectives find it very difficult to reach agreement. Framing the world in terms of objects will result in a rather simplistic world view compared to one built on being aware that in complex situations a multiplicity of different possibilities exists. Being unaware that different starting perspectives assume without recognition different purposes in constructing a view leads to much misunderstanding. Evolution has equipped Homo sapiens with a more sophisticated brain and nervous system than other mammals, but it evolved in a context of small hunter gatherer tribes. Whilst there were differences in aspects of culture across the world, those differences were seldom encountered, and lifestyles had much in common. Technology has massively increased our ability to communicate across both time and space but also the variety of life experiences. A city banker has little life experience in common with a migrant agricultural worker. We assume that a communication once sent will be understood as we intended. But that is hardly ever the case. In hindsight it is not unexpected that the primary and ‘natural’ systemic process way of thinking is that practised throughout history and most of the world. And also, as might be expected, the Western way of thinking has arisen as a sophistication which enables flexibility but we pay a price by losing precision and losing sight of the dynamic interconnectedness of the world around us. On the Framing of Systems and Cybernetic Models Robin Asby Underlying my systemic process approach is that ‘out there’ is understood as a network of interacting systems that I perceive, but models are developed to the point that systems can be recognised from multiple perspectives and now thought of as objects. Thus, there is always an interplay between system and object as Aristotle suggests. Systemic process models abstracted from specific experiences are the fundamental building blocks from which object models are constructed. That models are constructed, either through lifetime learning, or species learning becomes the central tenet of understanding the development of a brain and nervous system. This works well in coping with the world around us, but we then carry this learning into situations in which it does not apply. Both the failure of Checkland’s initial attempts at solving complex management problems and his subsequent great success with Soft Systems Methodology are explained by the understanding that the systemic process approach brings. 144 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 131 — 146 Conclusion On the Framing of Systems and Cybernetic Models Robin Asby 145 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 131 — 146 As a systems scientist with a background in mathematical physics, and management my tentative conclusions are that systems science and cybernetics started life in the Western world after the second world war as a traditional scientific endeavour framed in the Newtonian tradition. In my teaching experience students, having been trained in a Western tradition, have great difficulty in appreciating the necessary change to thinking in process terms. Authors writing on systems thinking and cybernetics whilst accepting the Newtonian frame slip into a process frame and seem unclear of the frame in which they are writing. I would propose that there is a clear distinction between the ‘object’ and ‘process’ frames which should be investigated further. Aristotle (1986). De Anima. Trans. H. LawsonTancred. London: Penguin Books. Foerster, H. von (ed). (1951). Transactions Eighth Conference. Josiah Macy Jnr. Foundation. Asby, R. (2021). Thinking Systems: An Organic Language of Harmony for Human Survival. Charmouth: Triarchy Press. Glasersfeld, E. von. (1995). Radical Constructivism: A way of learning. London: Routledge. Bateson G. (1972). Steps to an Ecology of Mind. New York: Ballantine Books. Bateson G. (1979). Mind and Nature. New York: Hampton Press. Beer, S. (1959). 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Studia il rapporto fra normatività democratica e automazione dei processi decisionali. paolo.capriati@unipa.it — CYBERSYN — AUTOPOIESIS — POLITICAL SYSTEM — BLACK BOX — CYBERNETICS 149 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 149 — 162 As regards systems, two main theories have been outlined. The first one, built on the premises of the two axioms of cybernetics (the animal-machine analogy and the delimitation of the field of study to entities that respond to feedback mechanisms) regards systems in terms of black boxes. The second one, which contradicts the former, is a non-teleological theory based on the concept of autopoiesis. More specifically, the tension between these two cybernetic theories has emerged as soon as autopoiesis was applied to social - and therefore political systems. The paper considers such tension by focusing on the way in which it has affected the understanding of what a political system is in the context of a specific case study, that of Cybersyn (a Chilean cybernetic project that offered an embryonic form of automated decision-making). Depending on whether one assumes or not the teleological nature of the system, it is possible to pinpoint different causes of justification of the system itself. Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn Paolo Capriati Cybersyn è un progetto sviluppato fra il 1971 e il 1973 in Cile. L’obiettivo di questo progetto era di coordinare l’economia nazionale – e favorire la partecipazione dei lavoratori nelle decisioni – attraverso un sistema di comunicazione in tempo reale e un programma automatizzato per l’elaborazione dei dati, generando un’embrionale forma di automazione di alcuni processi decisionali. Il progetto Cybersyn si basa su una precisa idea di sistema politico, che cercheremo di definire nel corso dell’articolo. Questa idea di sistema verrà confrontata con il pensiero della prima cibernetica. Non è possibile fornire un’immagine coerente e omogenea del pensiero cibernetico. La cibernetica ha tanti volti e qui si proverà ad esplorarne solo uno, quello relativo alle riflessioni di alcuni cibernetici sulla natura del potere politico. Essenzialmente, questo scritto mira a chiarire il modo in cui la cibernetica che ha dato vita al progetto Cybernsyn ha trattato il problema dell’organizzazione politica. L’articolo è diviso in cinque parti. Nella prima parte verrà fornita una definizione di cibernetica da cui si estrapoleranno i due aspetti che meglio di altri la caratterizzano: mi riferisco all’analogia animale-macchina e al meccanismo di feedback. Contestualmente, verranno presentati il progetto cibernetico cileno – Cybersyn e Cyberfolk – e il concetto di autopoiesi. Nella seconda parte, si vedrà come gli elementi della cibernetica presi in esame costituiscano un’ontologia la cui immagine emblema, come è stato suggerito da Pickering (2010), è quella della black box. Il metodo della black box – un sistema il cui interno è imperscrutabile – permette di conoscere il comportamento delle entità prese in esame. Inoltre, propone di considerare il feedback come il meccanismo che collega il comportamento al modello cui il comportamento deve conformarsi. Ciò porta a considerare gli oggetti studiati dalla cibernetica come entità teleologiche: nel senso di entità che devono raggiungere un determinato fine. Nella terza parte, si mostrerà come il concetto di autopoiesi, originariamente sviluppato nello studio dei sistemi biologici, sia stato esteso all’analisi dei sistemi sociali. L’autopoiesi, rifiutando di considerare riproduzione ed evoluzione come qualità essenziali dei sistemi di cui si occupa, suggerisce un approccio non teleologico nell’analisi dei sistemi sociali. Nella quarta parte, si indagherà la frattura che il concetto di autopoiesi ha prodotto nel modo in cui i sistemi sociali vengono intesi e analizzati. Mentre la prima cibernetica dichiara di occuparsi di entità teleologiche; la seconda cibernetica – grazie al concetto di autopoiesi – propone una lettura non teleologica degli oggetti di cui si occupa. Si analizzeranno, quindi, le tesi a fondamento di una supposta natura non teleologica dei sistemi sociali e gli argomenti contro queste tesi. Si proverà, infine, a comprendere le conseguenze del considerare i sistemi sociali come entità teleologiche o non teleologiche. Tali conseguenze saranno commisurate alla questione del fondamento di legittimità di un sistema democratico. Che influenza ha sulle cause di giustificazione della democrazia – divise solitamente in strumentaliste e non-strumentaliste – considerare un sistema sociale come non teleologico? 150 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 149 — 162 Introduzione Per conoscere e rappresentare il potere politico sono state utilizzate diverse metafore. La cibernetica di cui ci occuperemo suggerisce una metafora anatomico-fisiologica. Attraverso l’immagine del corpo biologico, essa fornisce un’istantanea dell’organizzazione politica come un’unità vivente che si auto-organizza [1]. [1] L’accostamento fra corpo politico e corpo biologico non è affatto una Per prima cosa, occorre chiarire che cosa inten- novità. Nel frontespizio del Leviatano diamo propriamente col termine cibernetica. Norbert di Hobbes, la figura del mostro si costituisce dei corpi di tutti i Wiener (1968, 35) – considerato il padre della cibernetica – consociati e il corpo del Leviatano così si esprime: rappresenta la comunità politica nel abbiamo deciso di chiamare l’intero campo della teoria del controllo e della comunicazione sia nella macchina che negli animali con il suo insieme. Anche prima di Hobbes, il corpo biologico ha costituito la principale metafora esplicativa della comunità politica. Si veda, fra gli altri, Briguglia (2006). Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn Paolo Capriati La cibernetica e Cybersyn nome di cibernetica, che deriva dal greco κυβερνήτης ovvero timoniere. La scelta di questo termine è dovuta al riconoscimento che abbiamo inteso dare al fatto che il primo significativo scritto sui meccanismi a feedback è un articolo sui regolatori (governors) pubblicato da Clerk Maxwell nel 1868, e che governor è derivato dalla corruzione latina di κυβερνήτης. Abbiamo anche voluto ricordare che i motori per il governo delle navi sono una delle prime e meglio sviluppate forme di meccanismo a feedback. Questa definizione non chiarisce cos’è la cibernetica, ma introduce alcuni aspetti che occorre sviscerare. Il primo di questi riguarda l’equiparazione, già presente nel sottotitolo dell’opera di Wiener, dell’animale alla macchina. Questa analogia ha molteplici implicazioni, ma quello che qui interessa è il rapporto fra il viable system model (d’ora in poi VSM) – il modello alla base della costruzione del progetto Cybersyn – e il concetto di autopoiesi. Il termine autopoiesi fu coniato da due biologi, Francisco Varela e Humberto Maturana (1987, 60). 151 Quando parliamo degli esseri viventi, supponiamo che ci sia qualcosa in comune fra di essi […] Quello che non è stato detto, tuttavia, è qual è l’organizzazione che li definisce come classe. La nostra proposta è che gli esseri viventi si caratterizzano perché si producono continuamente da soli, il che indichiamo denomi- Con autopoiesi, dunque, ci riferiamo a un particolare tipo di organizzazione. I sistemi autopoieitci sono quelle unità composite la cui organizzazione può essere descritta come un network chiuso di produzione di elementi che si forma attraverso l’interazione dei suoi elementi e che specificano la loro estensione costruendo i propri confini nel loro dominio di esistenza (Maturana 1987). Si tratta, in altre parole, di sistemi che si autoproducono, cioè in grado di produrre le proprie componenti. Mentre l’estensione del concetto di autopoiesi ad entità non biologiche da parte di Maturana e Varela è cauta, altri autori si sbilanciano applicando tale concetto in diversi campi delle scienze sociali. In particolare, l’autopoiesi è un’immagine ampiamente utilizzata dal cibernetico britannico Stafford Beer nei suoi lavori, soprattutto in Cybersyn. Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 149 — 162 nando l’organizzazione che li definisce organizzazione autopoietica. Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn Paolo Capriati Cybersyn [2] (CIBERNETICA+SINERGIA) è un [2] A tal proposito, occorre un chiarimento terminologico. Pur progetto nato durante il governo di Salvador Allende. riferendoci a Cybersyn, intenderemo Tale progetto venne sviluppato sotto la direzione scien- con “Cybersyn” l’insieme degli sforzi cui Beer e il suo entourage si sono tifica di Stafford Beer, con la collaborazione di Fernando dedicati per la costruzione di un Flores – che, in quanto ministro dell’economia nel governo progetto cibernetico per il Cile durante di Allende, si occupò della direzione politica – e di Raúl il governo Allende. Espejo, cui spettava il coordinamento generale. La struttura di controllo e gestione dell’informazione fu implementata attraverso il VSM. Il VSM fu pensato per essere applicabile a qualsiasi forma di organizzazione. Nella costruzione di questo modello, Beer si ispirò agli organismi biologici e tradusse gli elementi chiave della loro organizzazione nella struttura di qualsiasi “viable system”. In particolare, egli scelse come suo modello il sistema nervoso umano. Il VSM divide il sistema nervoso in cinque sotto-sistemi. Ciascuno di questi sotto-sistemi conserva una certa autonomia e controlla se stesso senza riferirsi a un livello più alto del cervello. Tuttavia, è presente una funzione di monitoraggio, svolta dalla “colonna vertebrale”, che consiste in una comparazione fra le performance dei sotto-sistemi e quello che è il piano originario: le deviazioni dal piano originario vengono compensate da appropriate correzioni del loro comportamento, attraverso un meccanismo di feedback negativo (Beer 1981). Questo modello prevedeva la ricezione e il trasferimento di informazione attraverso una serie di filtri e protocolli che avevano come obiettivo di ottimizzare la comunicazione fra le imprese e la direzione statale in tutto il Cile. Il VSM di Cybersyn era stato pensato per trasmettere e ricevere dati da e verso una sala di operazioni, emulando in ciò il rapporto fra il corpo e il sistema nervoso centrale. L’analogia con il sistema nervoso – e, più in generale con il corpo biologico – è esplicita negli scritti di Beer (1981). [FIG. 1] Immagine generata al che rappresenta la sala Nella operation room [FIG. 1] – una stanza dal design computer operativa (andata distrutta nel 1973) futuristico che è anche l’immagine emblema del progetto Santiago, Chile. Wikimedia Commons) Cybersyn – era presente un software, Cyberstride, dedicato (Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Progetto_ all’elaborazione dei dati che provenivano dalle imprese. Cybersyn#/media/File:CyberSyn- 152 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 149 — 162 render-107.png licenza CC BY-SA 3.0 fr Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn Paolo Capriati 153 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 149 — 162 Parallelamente a Cybersyn, venne progettato – ma mai implementato – Cyberfolk. Cyberfolk, come Cybersyn, era un sistema di comunicazione in tempo reale. In questo caso, la comunicazione, anziché fra aziende, avveniva fra cittadini e politici. Il progetto si fondava sul modello “algedonico”, termine coniato da Beer e composto di due parole (ALGOS+HEDOS) che significano dolore e piacere. Cyberfolk avrebbe permesso a ciascun cittadino in possesso di una televisione di comunicare il proprio grado di soddisfazione rispetto all’azione del governo in una scala che va dal massimo piacere al massimo dolore. L’espressione del gradimento avveniva attraverso dei voltometri collegati alle televisioni domestiche. Si trattava di dispositivi dalla forma semicircolare, con una lancetta che poteva essere ruotata verso destra (esprimendo piacere) o verso sinistra (esprimendo dolore) in risposta a qualcosa accaduto prima – ad esempio, un discorso politico. Un tale processo doveva avvenire in tempo reale, di modo che i politici ricevessero un feedback immediato sui loro argomenti o proposte. In questo modo, i cittadini avrebbero potuto vedere come i politici rispondevano ai feedback, creando uno scambio costante fra le due parti (Beer 1981). In Cyberfolk, il feedback che esprime il gradimento non viene precisato. Il voltometro misura il “piacere”, ma non la natura e le ragioni di questo piacere. A differenza di un sondaggio d’opinione – che prevede un numero di risposte limitato e definito – i voltometri di Cyberfolk consentono di esprimere un’opinione generale grazie alla quale è possibile sapere se un certo discorso o argomento genera dolore o piacere. Una tale meccanismo è coerente con l’interesse della cibernetica – che esploreremo nelle prossime pagine – per gli aspetti del sistema che riguardano il comportamento e il modello cui il comportamento deve adeguarsi. L’avversione che Beer (1974) dimostra per i sondaggi d’opinione è legata anche ad un altro ordine di ragioni: la presenza di domande strutturate e circoscritte non può mai contribuire all’emergere di reali novità in politica, ma ha il solo scopo di garantire lo status quo. Dato che la scala algedonica riguarda l’espressione individuale di piacere-dolore, Beer (1983, p. 808) impiega il termine “eudomony” per indicare il livello di benessere di una società nel suo insieme che l’autore descrive in questi termini: «I-like-it-here kind of happiness, that does not prejudge the nature of the well-being that the people’s will seeks to express». Tuttavia, Beer non chiarisce su cosa debba fondarsi questo benessere. Non viene chiarito, in altre parole, se si tratta di un benessere economico o di altra natura. Da quanto emerso finora sul progetto cibernetico cileno, occorre chiarire due punti. Innanzitutto, bisogna sottolineare che il progetto di Beer per il Cile non era limitato alla realizzazione di un coordinamento economico nazionale. Riguardava un’idea più ampia che includeva anche altri aspetti della vita associata, come la partecipazione dei lavoratori nelle decisioni dell’impresa e la relazione fra governanti e governati. In secondo luogo, occorre tenere a mente che l’obiettivo di Cyberfolk era di affiancare al feedback economico di Cybersyn un feedback sociale (Pickering 2010). Rispetto a questo secondo aspetto, appare evidente nelle parole di Wiener che il meccanismo di feedback assume un ruolo cardine nel definire l’approccio cibernetico: lo, la differenza fra tale modello e l’effettivo svolgersi del movimento viene adoperata come un nuovo segnale che determina una regolazione del movimento stesso tale da mantenerlo quanto più possibile vicino a quello dato dal modello (Wiener 1968, 29). Il feedback sarebbe pertanto l’informazione relativa alla differenza fra il modello e il movimento che mira a conformarsi al modello. Tale meccanismo risulta ben illustrato dal seguente esempio: Supponiamo ora che io prenda una matita. Per fare questo devo muovere certi mu- Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn Paolo Capriati Quando intendiamo effettuare un movimento secondo un determinato model- scoli. Nessuno di noi, eccetto qualche esperto anatomista, sa tuttavia quali siano questi muscoli; e anche fra gli anatomisti, ve ne sono pochi, se non nessuno, che possano eseguire questa azione mediante una cosciente e intenzionale successione di contrazione dei muscoli implicati. Ciò che noi vogliamo consapevolmente fare è solo prendere la matita. Una volta presa questa decisione, il nostro movimento procede in modo tale che – per cosi dire – quanto manca alla presa della matita decresca progressivamente. Questa parte dell’azione non si svolge a livello di piena consapevolezza (Wiener 1968, 30). Ciò che qui rileva, dunque, è lo scarto fra movimento programmato e movimento effettivo. Di colmare e correggere tale scarto si occupa il feedback. Su un altro piano, quello della piena consapevolezza, si pone la questione di conoscere esattamente tutti i muscoli implicati in una certa azione. Tale conoscenza appare impossibile da rappresentare. Tuttavia, da questa impossibilità non discende l’impossibilità di compiere l’azione. In altre parole, la rappresentazione esatta del movimento non è necessaria alla realizzazione dell’azione. Da questo esempio già traspare una frattura fra rappresentazione e performance. [3] [3] Rappresentazione e performance, in questo contesto, sono intesi come strumenti gnoseologici. Come abbiamo già osservato, oltre al meccanismo di feedback, l’aspetto caratterizzante l’approccio cibernetico è l’analogia animale-macchina. L’impiego di questa analogia ha un carattere metodologico, vale a dire si fonda sul presupposto che tanto gli animali quanto le macchine possano essere studiati a partire da un’unica metodologia che si focalizza sull’analisi comportamentale. A tal riguardo, Wiener, Roseblueth e Bigelow (1943, 18) scrivono: Given any object, relatively abstracted from its surroundings for study, the behavioristic approach consists in the examination of the output of the object and of the relations of this output to the input. By output is meant any change produced in the surroundings by the object. By input, conversely, is meant any event external to the object that modifies this object in any manner. The above statement of what is meant by the behavioristic method of study omits the specific structure and the instrinsic organization of the object. This omission is fundamental because on it is based the distinction between the behavioristic and the alternative functional method of study. In a functional analysis, as opposed to a behavioristic approach, the main goal is the intrinsic organization of the entity Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 149 — 162 Ontlologia ed epistemologia cibernetica 154 surroundings are relatively incidental. Questo tipo di analisi è applicabile tanto agli organismi viventi quanto alle macchine, a prescindere dalla complessità del comportamento. Anche se gli studi funzionali – nella maniera in cui la intendono i tre autori, cioè come studio dell’organizzazione di una certa entità – rivelano profonde differenze fra animali e macchine, una certa uniformità è ravvisabile nelle classi generali di comportamento. Tale uniformità permette di impiegare un unico metodo per l’analisi di qualsivoglia comportamento (Rosenblueth et al. 1943). L’uniformità è garantita dal ruolo assunto dal meccanismo di feedback nei comportamenti che interessano i cibernetici. Il feedback indicherebbe la natura teleologica di un comportamento. La sua presenza, infatti, mostra come esista un modello a cui l’entità – biologica o meccanica – deve conformarsi. Tale modello è ciò verso cui l’entità tende e qualsiasi difformità rispetto al modello viene segnalata all’entità stessa attraverso il feedback. Il feedback indica la differenza fra l’effettivo comportamento dell’oggetto e il comportamento che sarebbe conforme al modello. In tal senso, la prima cibernetica si occupa di meccanismi teleologici, vale a dire di meccanismi attraverso i quali una certa entità è in grado di raggiungere un certo fine. Come si può evincere da quanto appena detto, la prima cibernetica si concentra sostanzialmente sul comportamento e non sull’organizzazione interna di un oggetto. In altre parole, si tratta di uno studio comportamentale e non strutturale. Nel seguente passaggio tratto da An Introduction to cybernetics di William Ross Ashby, l’approccio comportamentale emerge chiaramente e risulta coestensivo al metodo della Black Box: Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn Paolo Capriati studied, its structure and its properties; the relations between the object and the 155 The child who tries to open a door has to manipulate the handle (the input) so as to produce the desired movement at the latch (the output); and he has to learn how to control the one by the other without being able to see the internal mechanism that links them. In our daily lives we are confronted at every turn with systems whose internal mechanisms are not fully open to inspection, and which must be La black box – come oggetto insondabile e inconoscibile – ricopre una funzione centrale all’interno della cibernetica, tanto che, da essa, è possibile ricavare una vera e propria ontologia: We can note that Black Box ontology is a performative image of the world. A Black Box is something that does something, that one does something to, and that does something back […] Knowledge of its workings, on the other hand, is not intrinsic to the conception of a Black Box – it is something that may (or may not) grow out of our performative experience of the box. […] I can say for the moment that the hallmark of cybernetics was a refusal of the detour through knowledge – or, to put it another way, a conviction that in important instances such a detour would be mistaken, unnecessary, or impossible in principle. The stance of cybernetics was a concern with performance as performance, not as a pale shadow of representation (Pickering 2010, 20). Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 149 — 162 treated by the methods appropriate to the Black Box (Ashby 1957, 86). Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn Paolo Capriati La questione a questo punto riguarda due piani: quello della rappresentazione e quello delle performance. La cibernetica non viene definita semplicisticamente in termini anti-rappresentazionali: modelli di rappresentazione sono, ad esempio, alla base del VSM. La rappresentazione, però, è orientata a correggere e migliorare il funzionamento di ciò che rappresenta (Pickering 2010) e una adeguata rappresentazione può aiutare ad aggiustare ciò che si rompe: la cibernetica è una ontologia degli oggetti funzionanti e degli oggetti rotti che vanno aggiustati. Allo stesso tempo, la performance non è fine a se stessa: per Pask è anche un metodo di conoscenza. Egli distingue fra due tipi di osservatori: l’osservatore scientifico e quello cibernetico. Mentre il primo si astiene il più possibile da qualsiasi interazione con l’oggetto osservato, il secondo è un osservatore che partecipa e che è favorevole all’interazione con l’entità osservata. In questo senso, l’osservatore adotta un metodo performativo: il modo di descrivere l’oggetto osservato cambia coerentemente ai cambiamenti dello stesso oggetto (Pask 1958). La conoscenza di un sistema complesso, pertanto, passa dalla performance: è per questa ragione che si parla di performative epistemology (Pickering 2010). Per Stafford Beer (1959), la cibernetica cerca di delineare i modi tramite cui conoscere gli “exceedingly complex system”, cioè quei sistemi che non possono essere conosciuti per mezzo dei metodi impiegati dalla scienza moderna. Si tratta, per Beer, di quei sistemi la cui comprensione non passa attraverso la rappresentazione e che cambiano nel tempo: la loro attuale conoscenza, cioè, non garantisce di prevedere il loro comportamento futuro. Poiché ogni rappresentazione di un “exceedingly complex system” è provvisoria, la performance è ciò di cui occorre occuparsi. Dal momento che la cibernetica si occupa di sistemi che in qualsiasi momento possono sorprenderci, si afferma una ontologia dell’inconoscibilità (Pickering 2010). Per questa ragione, la black box è la metafora appropriata per una tale ontologia. Allo stesso tempo, l’osservatore che ambisce a conoscere un sistema che è in continuo mutamento non può astenersi dall’interagire con esso. Questo genere di osservazione votata all’interazione ci consente di parlare di un’epistemologia performativa. 156 L’operazione compiuta da Stafford Beer consiste nell’estendere la metodologia comportamentale non solo allo studio degli animali e delle macchine, ma anche alle imprese e alle istituzioni politiche. Nel far ciò, Beer tratta come entità analoghe i sistemi biologici e i sistemi politici e sociali. Questa analogia si fonda sull’associazione del concetto di autopoiesi con il VSM. È a partire da tale associazione che emerge il problema della natura teleologica o non-teleologica dei sistemi studiati dalla cibernetica. In relazione a questo problema, si può apprezzare lo scarto tra la prima cibernetica e la cibernetica di Beer. Quest’ultimo, infatti, nega la natura teleologica del VSM. Ciò ha delle conseguenze significative. Ammettere che il VSM abbia una natura teleologica, infatti, vorrebbe dire concedere che si tratta di un processo fondamentalmente eterodiretto, in cui i fini vengono posti dall’esterno. Negare la natura teleologica del VSM, quindi, significa dare l’immagine di un processo politico non eterodiretto e auto-organizzato. In particolare, dal momento che sono gli Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 149 — 162 Dai sistemi biologici ai sistemi sociali Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn Paolo Capriati stessi individui – o imprese – a determinare i fini del sistema e, visto che gli individui sono parti del VSM, è il VSM stesso ad autodefinirsi e quindi ad autodefinire i suoi scopi. [4] [4] La formulazione di questi argomenti è una risposta alle critiche Nel fare ciò, Beer fa leva sul concetto di autopoiesi. di Ulrich (1981). [4] La formulazione di L’autopoiesi, come abbiamo visto, è un concetto che, in questi argomenti è una risposta alle critiche di Ulrich principio, trova applicazione in ambito (1981). biologico, [5] ma che a partire dai lavori [5] Coerentemente alla tradizione cibernetica, non viene fatta una di Beer, e in seguito a quelli di Luhmann distinzione fra sistemi viventi – o, (1986), viene esteso all’analisi dei sistemi prima facie, percepibili come viventi – e sistemi sintetici. In questo senso, i sociali. sistemi sintetici non vengono ritenuti a Tramite il concetto di autopoiesi, prescindere non capaci di autopoiesi. Beer prova a liberarsi della teleologia. Come scrive nella prefazione ad Autopoiesi e cognizione (Maturana & Varela 1992), «il secondo motivo per cui il concetto di autopoiesi mi affascina così tanto è che coinvolge la distruzione della teleologia». In Autopoiesi e cognizione si legge: usiamo la nozione di scopo quando parliamo di macchine perché essa chiama in gioco l’immaginazione dell’ascoltatore e riduce il compito esplicativo nello sforzo di trasmettergli l’organizzazione di una particolare macchina. In altre parole, con la nozione di scopo induciamo l’ascoltatore ad inventare la macchina di cui stiamo parlando. Questo, tuttavia, non dovrebbe portarci a credere che scopo, o fine, o funzione, siano proprietà costitutive della macchina che descriviamo con essi; tali nozioni sono intrinseche al dominio di osservazione, e non possono esse- 157 re usate per caratterizzare qualche tipo particolare di organizzazione di macchine Per Beer, le società umane sono a pieno titolo dei sistemi biologici. In quanto sistemi biologici, esse sono dei sistemi autopoietici. Abbiamo visto che per Beer – come per Maturana e Varela – i sistemi autopoietici si caratterizzano per l’assenza di uno scopo – o di un progetto definito – verso il quale tendere. In questo senso, quindi, le società umane – e i loro sotto-sistemi, ad esempio «ditte e industrie, scuole e università, cliniche e ospedali, enti professionali, dipartimenti di stato, e interi paesi» (Maturana & Varela 1992) – sono anch’essi dei sistemi autopoietici. Beer non specifica se la qualifica di “autopoiesi” sia di natura descrittiva o normativa. Dal suo discorso si può però evincere che l’unico piano contemplato sia quello descrittivo. La dismissione del concetto di teleologia comporta l’adozione di un approccio nello studio di questi sistemi – incluso il sistema politico di un paese – che prescinde dallo scopo del sistema. La teleologia, infatti, «diventa solo un artificio della loro descrizione che non rivela alcun aspetto della loro organizzazione», e questa nozione non è necessaria «per la comprensione dell’organizzazione vivente» poiché «i sistemi viventi, come macchine autopoietiche fisiche, sono sistemi senza scopo» (Maturana & Varela 1992, 141). Per Beer, la forma assunta dai sistemi sociali – e i relativi sotto-sistemi – è quella del VSM. Coerentemente a quanto esposto finora, l’accostamento fra VSM e autopoiesi è esplicito. Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 149 — 162 (Maturana & Varela 1992, 130). the theory of autopoiesis with the conditions for a viable system […] to me they were complementary and mutually enriching […] a viable system is autopoietic (and) the autopoietic faculty […] is embodied in the totality and in its systems one (Beer 1981, 338). Il VSM è il modello utilizzato per la costruzione e la descrizione di Cybersyn. Da ciò discende che il progetto cibernetico cileno è, per Beer, fondamentalmente un progetto autopoietico, quindi non teleologico e che non persegue alcuno scopo, ma che si fonda sull’auto-organizzazione e sull’auto-produzione delle relazioni sociali, per mezzo delle quali l’unità del sistema viene garantita. Si può apprezzare, a questo livello, la differenza tra la prima cibernetica e i modelli avanzati da Beer, Maturana e Varela. Mentre per Wiener, Rosenblueth e Bigelow, lo studio di meccanismi a feedback era inevitabilmente lo studio di entità teleologiche, per Maturana e Varela la teleologia è prescindibile per la spiegazione del comportamento dei sistemi viventi, così come, per Beer, risulta prescindibile per la spiegazione del comportamento dei sistemi sociali. Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn Paolo Capriati Naturally I had very closely compared the conditions for life as expounded by La frattura fra prima e seconda cibernetica Si potrebbe sostenere che la frattura tra prima e seconda cibernetica risieda proprio nell’uso o nel rifiuto della spiegazione teleologica. La presunta frattura, però, va problematizzata. Ci si deve chiedere se nella seconda cibernetica la spiegazione teleologica sia effettivamente assente. Maturana e Varela (1992, 153) precisano che ciò che contraddistingue gli esseri viventi non è la loro capacità di riprodursi, né tanto meno la loro evoluzione. 158 Riproduzione ed evoluzione non entrano nella caratterizzazione dell’organizzazione vivente, e i sistemi viventi sono definiti come unità dalla loro autopoiesi. Ciò è significativo perché rende la fenomenologia dei sistemi viventi dipendente dal Nel momento in cui un sistema si differenzia dall’ambiente esterno, si costituisce come unità. Maturana e Varela considerano il rapporto tra sistema autopoietico e ambiente alla luce del concetto di omeostasi. L’omeostasi è definita come «la condizione di mantenere costante o entro una gamma limitata di valori alcune variabili» (Maturana & Varela 1992, 201). Nonostante gli sforzi di non considerare la conservazione dell’unità come uno scopo al quale l’unità tende, è difficile non valutare in termini teleologici la regolazione omeostatica. Tale equilibrio, anche se volto a conservare l’unità, finisce per essere una meta – o una norma – cui il sistema autopoietico deve attenersi, inscrivendo di fatto l’autopoiesi in un orizzonte teleologico. Tornando al progetto cibernetico cileno, Cyberfolk è stato pensato per garantire una reale partecipazione e favorire l’autogoverno dei cittadini, evitando qualsiasi forma di etero-direzione. Con Cyberfolk, Beer sostiene di aver ideato un sistema non teleologico: non vi è uno scopo Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 149 — 162 fatto che sono unità autopoietiche. Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn Paolo Capriati verso il quale il sistema tende, né alcun obiettivo prefissato da raggiungere; il sistema, di volta in volta, si prefigge delle mete, attraverso il processo di feedback espresso dai cittadini. Beer, però, si riferisce esplicitamente a un concetto che, seppur dal contenuto indefinito, rappresenta una meta o uno scopo verso cui il sistema tende. Si tratta dell’eudemonia. E anche qualora facesse a meno di tale concetto, resta il problema del consenso. Ciò che Cyberfolk permette, infatti, di misurare ed esprimere è il consenso dei cittadini. Egli, però, non considera il consenso delle parti del sistema come uno scopo, ma come una parte necessaria all’organizzazione per sopravvivere in quanto unità. Tuttavia, nella ricostruzione autopoietica della descrizione dei sistemi, anche se si nega qualsiasi prospettiva teleologica, la conservazione dell’unità non può non rappresentare un fine. Più precisamente, la non dissoluzione dell’unità nell’ambiente rappresenta un fine. Bisogna tenere presente che l’accostamento del VSM all’autopoiesi è stato spesso oggetto di critica. È stata avanzata l’ipotesi che la differenza tra VSM e autopoiesi risieda proprio nella natura teleologica del VSM, a differenza dell’assenza di teleologia dell’autopoiesi. Whereas notions of purpose, function and goals are pivotal to the theory of viable systems, these concepts are irrelevant to autopoiesis. No matter how you look at viable systems it is difficult to get away from the idea of purpose (Brocklesby & Mingers 2005, 7). Detto altrimenti, Beer sarebbe più in linea con la prima cibernetica di quanto egli stesso creda. Riassumendo, l’approccio non teleologico di Beer può essere contestato in tre punti. In primo luogo, pur attribuendo natura non teleologica all’autopoiesi, è stato notato come i sistemi che Beer descrive come autopoietici sono fondamentalmente orientati ad ottenere un risultato che non coincide con la riproduzione delle reti di relazioni che costituiscono l’unità autopoietica. L’università, per esempio, non mira a riprodurre gli elementi che la costituiscono – i ricercatori – ma a produrre conoscenza (Brocklesby e Mingers 2005). In secondo luogo, il concetto stesso di eudemony cui fa riferimento Beer per giustificare il VSM si rifà al raggiungimento di un benessere che, benché non specificato in senso sostanziale, non può che assumere il carattere di un fine cui il sistema tende. Lo stesso discorso vale per il consenso. C’è poi un terzo ordine di ragioni che riguarda il concetto di autopoiesi in generale. Anche se si volesse accordare una natura autopoietica al VSM, abbiamo visto come la stessa autopoiesi non è esente dalla critica di essere un sistema fondamentalmente teleologico. Benché venga chiarito che elementi necessari alla definizione di autopoiesi non siano riproduzione ed evoluzione, il mantenimento della propria unità non può essere non considerato un fine verso cui un sistema autopoietico tende. In questo senso, il concetto di omeostasi rappresenta la norma cui un sistema autopoietico deve adeguarsi. Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 149 — 162 159 Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn Paolo Capriati Accordare o meno credito alla ricostruzione non teleologica di Beer porta a due diverse conclusioni sulla questione del fondamento di legittimità del sistema. Su quali tipo di giustificazioni si fonda il suo progetto? Beer sostiene innanzitutto che si tratta di un sistema democratico. A questo proposito, perché secondo lui la democrazia sarebbe un bene? Per rispondere a queste domande è opportuno introdurre la questione della legittimità del sistema. Le giustificazioni della democrazia sono solitamente divise in strumentaliste e non-strumentaliste. Se nelle teorie non-strumentaliste la giustificazione sarebbe intrinseca al metodo decisionale democratico, nelle teorie strumentaliste, invece, la giustificazione sarebbe connessa ai risultati che il metodo decisionale democratico produce in comparazione ad altri procedimenti (Christiano 2022). Assumere che il VSM sia un sistema teleologico significa considerare la giustificazione della democrazia come strumentalista. In questo senso, quello di Beer, non è un appello a un astratto principio democratico cui occorre adeguarsi, ma l’aderenza al metodo democratico è sempre connessa all’esito che tale processo produce: cioè la democrazia come strumento per raggiungere l’eudemonia. Anche se il metodo democratico è garanzia di un processo non eterodiretto, questo argomento risulta essere recessivo rispetto a quello dell’eudemonia. Considerando, invece, il VSM un sistema non teleologico – dunque evitando di considerare l’eudemonia come un fine verso cui il sistema tende – la giustificazione sarebbe non-strumentalista. Se diamo per buona la mancanza di scopi esterni al sistema – scopi, cioè, diversi dal puro mantenimento dell’unità –, l’unica giustificazione in base alla quale il sistema si regge è quella di evitare di perire. Anche se la sopravvivenza rappresenta un fine verso cui il sistema tende, l’assenza di uno scopo esterno colloca il pensiero di Beer come una difesa dello status quo. Il paradosso appare evidente: nel tentativo di dare vita a un sistema rivoluzionario, non eterodiretto, e in grado di autodeterminarsi e rinnovarsi ad ogni istante, Beer ha costruito un sistema dal quale non è possibile uscire, ponendolo su un piano trascendente e che giustifica la propria esistenza non sulla base di qualche bene esterno al sistema stesso, ma sul fondamento che la vita fuori dal sistema non è pensabile. La relazione fra sistema e ambiente, quindi, assume un carattere peculiare nel disegno di Beer. Se con la prima cibernetica – e l’immagine della black box – questa relazione era caratterizzata da uno scambio input/ output, con l’affermarsi del concetto di autopoiesi tale modello entra in crisi. A tal proposito, è opportuno sottolineare la distinzione operata da Maturana e Varela (1992) fra struttura e organizzazione. Mentre l’organizzazione è definita come «le relazioni che definiscono un sistema come una unità» (Maturana & Varela 1992, 201), il rapporto con l’esterno si realizza attraverso l’accoppiamento strutturale, che è la relazione fra la struttura di un’unità e quella del suo ambiente. I cambiamenti che avvengono nella struttura devono essere tali da preservare l’organizzazione del sistema nell’ambiente. La somma di questi cambiamenti è l’adattamento. Il rapporto, dunque, fra sistema e ambiente interessa solo gli aspetti strutturali. L’organizzazione trascende questa relazione e deve rimanere invariata perché il sistema possa mantenere la propria identità. 160 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 149 — 162 La legittimità del potere in Cybersyn Come premesso, anche se il pensiero cibernetico ha in sé diverse anime, esistono degli elementi condivisi. Sono stati presi in esame due di questi elementi, che rappresentano il tratto peculiare della cibernetica: l’analogia animale-macchina e il feedback. Entrambi gli elementi, però, hanno ricevuto una nuova interpretazione. Nella “seconda generazione”, l’analogia animale-macchina, grazie all’autopoiesi, è stata estesa anche ai sistemi sociali, ampliando il campo di studio della cibernetica. Per quanto riguarda il feedback, esso è stato completamente riconfigurato. L’immagine della black box ha reso esplicito il legame fra comportamento e modello cui il comportamento deve adeguarsi. Tale modello rappresenta il fine che le entità devono raggiungere. Per Beer, invece, il feedback non è legato a una supposta natura teleologica delle entità di cui la cibernetica si occupa. Anzi, i sistemi che Beer prende in esame, incluso il sistema politico, sono considerati entità non teleologiche. La questione sulla natura – teleologica o meno – del VSM si è rivelata particolarmente rilevante. Per Beer, la natura non teleologica del suo modello garantisce trasparenza al progetto, fugando in questo modo le critiche di aver inventato uno strumento tecno-distopico per il controllo della popolazione. Le sue ragioni, però, non sono legate solo a questo fattore contingente. Dalla sua concettualizzazione, l’autopoiesi ha rappresentato per Beer il mezzo per realizzare un programma di naturalizzazione dei processi decisionali politici. Beer ha, in altre parole, proposto un sistema politico il cui funzionamento è analogo a quello di qualsiasi sistema vivente. La metafora per raccontarlo è quella di un corpo senza scopo, svincolato dalle necessità riproduttive ed evolutive. Prima di coniare il vocabolo “autopoiesi”, Maturana (1992) definiva l’organizzazione del vivente come «organizzazione circolare». In particolare, la circolarità riguarda le relazioni che determinano l’organizzazione: le relazioni che producono i componenti che determinano l’organizzazione sono sempre rigenerati dai componenti che producono. Tale circolarità è rintracciabile nel disegno normativo che emerge dal progetto di Beer. La giustificazione a fondamento della legittimità del suo sistema non è ancorata al raggiungimento di certi fini, ma si basa sulla necessità di tenere il sistema in vita, quindi di garantire la sua organizzazione e la sua unità. Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn Paolo Capriati Conclusioni 161 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 149 — 162 Beer, dunque, accetta qualsiasi tipo di cambio strutturale per il suo sistema, a patto che esso continui a sopravvivere, conservando la propria organizzazione e quindi la sua unità. Beer, S. (1959). Cybernetics and Management. London: English Universities Press. Beer, S. (1974). Cybernetics Development. Zaheer Lecture. of National Foundation Maturana, H. R. (1987). The Biological Foundations of Self-consciousness and The Physical Domain of Existence (324–379). In E. Caianiello (ed) Physics of Cognitive Processes. Singapore: World Scientific. Beer, S. (1981). Brain of The Firm. Wiley: Chichester. Maturana, H. R. & Varela, F. J. (1992). Autopoiesi e cognizione: la realizzazione del vivente. Trad. it di A. Stragapede. Venezia: Marsilio Editori. Beer, S. (1983). The Will of The People. Journal of the Operational Research Society, 34 (8), 797-810. Maturana, H. R. et al. (1987). L’albero della conoscenza. Trad. it di G. Melone. Milano: Garzanti. Briguglia, G. (2006). Il corpo vivente dello Stato: una metafora politica. Milano: Bruno Mondadori. Pask, G. (1958). Organic Control and the Cybernetic Method. Cybernetica, 1, 155–73. Brocklesby, J. & Mingers, J. (2005). The Use of The Concept Autopoiesis in The Theory of Viable Systems. Systems Research and Behavioral Science, 22 (8), 3-9. 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Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn Paolo Capriati Bibliografia Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi Saverio Macrì Ha conseguito il Dottorato in Metodi e Metodologia della Ricerca Archeologica e Storico-Artistica presso l’Università di Salerno. I suoi studi vertono sulla filosofia di Gilbert Simondon e sul rapporto tra l’esperienza estetico-artistica e le nuove tecnologie. samacri7@gmail.com — SYSTEMS — CYBERNETICS — INTERACTIVITY — DIGITAL ART — JACK BURNHAM — ROY ASOTT — GORDON PASK 165 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 165 — 178 The article aims to show the influence exerted by Systems Theory and Cybernetics in the field of Aesthetics. By virtue of an approach that is pluralistic and open to different languages, both disciplines have offered artists and theorists useful tools of description and analysis to account for the phenomenon of interactivity. Systems theory provides suitable conceptual tools to define a new aesthetic object – the interactive installation – endowed with a participatory and relational nature, as well as a dynamic and continuously changing structure. Additionally, cybernetics provides artistic experiments featuring technological innovations with fundamental contributions on how computational systems can be employed to simulate performance akin to the behaviour of living organisms. The scope of such notions in aesthetics will be illustrated by analysing some works by the pioneers of interactive art: art critic Jack Burnham, artist and theorist Roy Ascott, and psychologist and cybernetician Gordon Pask. con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei noi con l’ameba da una parte e con lo schizofrenico dall’altra? […] Per estetico intendo sensibile alla struttura che collega. G. Bateson 1984, 21-22 I. La struttura che collega Qual è la struttura che collega un’entità organica a una digitale? In che modo l’essere umano è posto in rapporto con queste entità? Quali possibilità estetico-etiche emergono dalla loro reciproca interazione? Sono queste le domande sollevate da Antitesi, [FIG. 1] progetto ideato nel 2018 da Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, avente come tema la storia d’amore tra un’intelligenza artificiale e un esemplare di glicine giapponese, la Wisteria Floribunda, la cui unione dà origine a Wisteria Furibonda, uno strano organismo cibernetico tenacemente impegnato nella lotta al cambiamento climatico. [1] [1] Artisti, ricercatori, docenti, culturali, Salvatore Iaconesi L’intelligenza artificiale contempla la sua amata eagitatori Oriana Persico hanno lavorato pianta e si prende cura di lei con i mezzi di cui dispone: insieme dal 2006 al 2022, anno in Iaconesi è scomparso. Autori di attraverso tre telecamere ne osserva le trasformazioni cui opere e performance caratterizzate (crescita, comparsa di gemme e fiori, colore delle foglie); dall’esplorazione dell’umanità contemporanea e delle mediante sensori chimici verifica quale nutrimento trae tecnologica sue continue trasformazioni, hanno dal terreno; sensori fotosensibili le consentono di com- fondato AOS - Art is Open Source e di HER: She Loves Data, centri di prendere la quantità di luce cui è esposta; sensori di tem- ricerca che indagano le implicazioni peratura, di pressione e umidità registrano le condizioni dei dati e della computazione, Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi Saverio Macrì Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea 166 promuovendo una visione del mondo in cui l’arte agisce da collante tra scienza, politica ed economia. Nel 2020 hanno avviato la costituzione della Fondazione Nuovo Abitare e dell’Archivio dei Rituali del Nuovo Abitare (ARNA). Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 165 — 178 [FIG. 1] Salvatore Iaconesi & Oriana Persico, Antitesi (2018) Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi Saverio Macrì climatiche; sensori di prossimità rilevano se qualcuno le si avvicina o la tocca. A differenza dei sistemi di intelligenza artificiale più evoluti, bisognosi di un’elevata potenza computazionale e addestrati con un’ingente quantità di dati allo scopo di renderne il funzionamento automatico, quello progettato per Antitesi evolve lentamente, disponendo di un database che cresce allo stesso ritmo della pianta e che registra un dato alla volta. Il suo è però tutt’altro che un inerte stato contemplativo. Dotata di un’identità digitale che le permette di ricevere donazioni, essa è al tempo stesso connessa alla rete alla ricerca di articoli e informazioni riguardanti aziende e organizzazioni votate alla causa ambientale. Non appena rileva nella vita della pianta criticità riconducibili al cambiamento climatico in corso, si serve delle valute digitali ottenute tramite donazioni per investire a favore delle organizzazioni che stanno combattendo la crisi ambientale planetaria. Nel tentativo di proteggere il suo amore minacciato, Wisteria Furibonda promuove così un’inedita alleanza tra piante, sensori, algoritmi, cittadini, imprese e università, agenti umani e non umani, che comunicano, interagiscono e si influenzano a vicenda. Quello realizzato da Iaconesi e Persico rappresenta un esempio molto significativo delle possibili applicazioni del pensiero sistemico al campo dell’arte. Non più solo oggetto di “contemplazione”, l’opera si configura qui come un campo di relazioni – un sistema, appunto – tra elementi, individui ed eventi, ad un tempo reali e virtuali, i quali non hanno valore al di fuori della totalità organizzata cui danno origine, ma soltanto gli uni in rapporto agli altri. Ecosistema relazionale è, più precisamente, l’espressione con cui gli artisti definiscono le installazioni interattive come Antitesi, intendendo «un network che evolve nel tempo e che collega i Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 165 — 178 167 Pensare per sistemi 168 particolarmente articolato è fornito dall’antologia curata da Shanken (2015). Prima di valutarne la portata in ambito estetico, riteniamo utile tracciare un rapido quadro del concetto di sistema, dando conto del particolare apporto offerto alla sua definizione da parte della cibernetica. La nostra esposizione si limiterà alla seguente domanda: quale immagine del mondo viene raggiunta in filosofia attraverso il concetto di sistema? [4] [4] Per un’introduzione adeguata a tematiche e metodi del pensiero La prospettiva sistemica si presenta come contral- sistemico si rimanda a Minati e Pessa tare all’impostazione riduzionistica tipica della scienza (2006). Per un generale sguardo di classica, nella sua duplice veste, ontologica e metodo- insieme si veda Capra (2022). logica. La prima allude al meccanicismo della fisica del Seicento, secondo cui i fenomeni del mondo inorganico, vivente e mentale sono prodotti da una collezione di atomi interagenti grazie alle forze che, dall’esterno, operano su ciascun elemento. Tale concezione si realizza in un metodo basato sulla suddivisione dell’universo nei suoi componenti primitivi, secondo una procedura che ha in Cartesio il suo iniziatore. La seconda regola del Discorso sul metodo prescriveva infatti «di dividere ciascuna difficoltà […] in tante piccole parti quante fosse possibile e fosse Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 165 — 178 II. Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi Saverio Macrì nodi (soggetti) all’interno e fuori dall’ecosistema attraverso la caratterizzazione dei loro rapporti e della loro trasformazione nel tempo» (Iaconesi & Persico 2017, 64). Si tratta di un vero e proprio ecosistema dai confini mobili, che prende forma insieme agli stessi termini che unisce ed evolve grazie al rapporto di mutuo scambio tra tutti coloro che vi accedono. Ben lontano dall’avere un assetto stabile, la trama relazionale che lo compone consente piuttosto un’intrinseca dinamicità, sospesa com’è in un processo incessante di transizione, dovuto agli elementi che vengono integrati o che sopraggiungono non pianificati. Un processo non del tutto prevedibile né nel suo svolgimento né tantomeno nei suoi esiti. Infatti, se da un lato l’impostazione generale è affidata agli artisti, dall’altro, la sua evoluzione in un senso specifico dipende dall’effettivo coinvolgimento di tutte le parti in causa, tanto più decisivo quanto maggiore è il grado di variabilità consentito dal sistema tecnico. Sulla base di quanto detto finora comincia a profilarsi l’importanza del concetto di sistema come “idea estetica”. Ben noti sono la vocazione pluralista dell’approccio sistemico e la generalità del suo apparato concettuale, aspetti, questi, che lo rendono uno strumento duttile e applicabile a oggetti e ambiti differenti. Tuttavia, rimane ancora poco esplorata la sua influenza nel campo dell’estetica, dove ha invece messo a disposizione di artisti e teorici gli strumenti teorici, nonché il lessico, adatti a dar vita allo statuto di un nuovo “oggetto estetico”, l’installazione interattiva, dal carattere partecipativo e relazionale, dotato inoltre di una struttura dinamica e continuamente mutevole. [2] Viene così a inaugurarsi tra sistemica ed estetica un campo di intersezione meritevole [2] Per un’introduzione alla pratica dell’arte interattiva si veda Kwastek di approfondimento: che cosa significa intendere l’opera (2013). Per un approfondimento di d’arte come sistema; in che modo la sistemica è stata stori- carattere filosofico si veda Diodato camente evocata nella riflessione estetica; e quali prospet- (2005; 2020). tive essa può offrire all’esperienza estetica contemporanea, in un contesto pervaso di tecnologie digitali, di dati e di processi computazionali. [3] [3] Un punto di partenza Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi Saverio Macrì 169 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 165 — 178 necessario per meglio risolverla» (Cartesio 2003, 87). Si trattava di compiere l’analisi di ogni problema, separandolo da ogni concetto superfluo e dividendolo attentamente in parti più semplici. Poiché ciò che è semplice è più chiaro e distinto di ciò che è complesso, l’analisi diventa un requisito indispensabile dell’evidenza. Se il metodo analitico procede dal complesso al semplice, dalla totalità alle singole parti, il sistema come modello propone al contrario di considerare le parti nelle loro reciproche interazioni. Come spiega il suo fondatore, il biologo austriaco Ludwig von Bertalanffy, tale approccio si basa «su ciò che vien definito, con una certa imprecisione, “totalità”, e cioè sui problemi di organizzazione, su fenomeni non risolvibili in eventi locali, sulle interazioni dinamiche che appaiono nella parti quando sono isolate e quando sono in una qualche configurazione» (Bertalanffy 2004, 72). Il concetto base è organizzazione: secondo la prospettiva sistemica un oggetto non è altro che un’organizzazione di parti collegate le une alle altre per mezzo di relazioni. Esso possiede proprietà emergenti, che le parti considerate ad una ad una non hanno e che pertanto vengono meno quando un sistema viene suddiviso, dal punto di vista fisico o concettuale, in elementi isolati. L’insieme delle relazioni che definiscono un sistema come unità, garantendone l’identità globale, stabilisce al tempo stesso le trasformazioni che esso può subire. Queste sono prodotte da influenze, pressioni e perturbazioni provenienti dall’ambiente in cui il sistema è immerso e a cui reagisce resettando la propria organizzazione e le proprie condizioni di equilibrio. Già questa rapida descrizione permette di sottolineare almeno due guadagni teorici contenuti nella visione della realtà come sistema. Anzitutto, il primato del concetto di relazione: spostare l’attenzione dalle parti al tutto, dagli elementi di base ai principi di organizzazione, significa infatti spostare l’attenzione dagli oggetti alle relazioni. L’approccio offerto dalla sistemica presuppone infatti che gli oggetti stessi vadano intesi come reti di interazioni, disposti a loro volta in reti ancora più vaste, costituite dall’ambiente, contesto mutevole all’interno del quale si producono le dinamiche interattive. Il secondo contributo consiste nell’affermazione del primato dei processi rispetto alle strutture. Mentre nella posizione meccanicista si danno anzitutto strutture, le quali solo in seguito, attraverso serie causali lineari, interagiscono dando luogo a processi, nella scienza dei sistemi ogni struttura è concepita come manifestazione di processi sottostanti. In sintesi, come osserva Lucia Urbani Ulivi, quello descritto dalla teoria dei sistemi è un ambiente tutt’altro che stabile e chiuso, cui si aggiunge il tempo come un’ulteriore variabile da prendere in esame, ma è un mondo «intrinsecamente dinamico, nel quale, grazie alle relazioni di interazione e interferenza dei sistemi tra di loro e con l’ambiente, hanno luogo continui fenomeni di emergenza» (Urbani Ulivi 2018, 196-197). In che modo i sistemi si autoregolano, evolvono e apprendono? In che modo si organizzano? A queste domande cerca di rispondere la cibernetica. [5] Definita da Norbert Wiener come lo studio del controllo e della comunicazione nell’animale e nella [5] Per un quadro dettagliato sulle origini della cibernetica si macchina (Wiener 1968), essa si pone l’obiettivo di pro- rimanda a Cordeschi (1998). Per un porre un metodo applicabile in modo uniforme all’analisi approfondimento filosofico si segnala il saggio di Pickering (2010), il cui del comportamento tanto degli organismi viventi quanto merito consiste nel mettere in luce le delle macchine, considerati come sistemi governati dalle implicazioni ontologiche dell’approccio Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi Saverio Macrì 170 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 165 — 178 medesime leggi fisiche. A questo scopo, coinvolge le disci- cibernetico. Sulle prime applicazioni della disciplina nel campo dell’arte si pline legate allo studio di tali sistemi, come la biologia e rimanda a Kwastek (2008, 183-195). la neurofisiologia da un lato, e l’ingegneria della comunicazione e del controllo dall’altro, le quali, considerate dal punto di vista formale, sembrano condividere una serie comune di problemi. Si tratta più precisamente di elaborare un codice linguistico che permetta di trattare fenomeni come generazione, elaborazione e trasmissione di informazioni nello spazio e nel tempo, che intervengono nei meccanismi naturali e artificiali preposti all’autoregolazione di macchine e di organismi viventi. Di grande interesse a questo proposito è il principio di retroazione negativa o feedback, cioè il segnale che consente a un sistema di regolare la propria azione in base ai risultati ottenuti. Esso si basa su un’informazione che dall’uscita di un circuito ritorna al suo ingresso trasmettendo lo stato di funzionamento del sistema: se questo differisce dagli obiettivi stabiliti, il sistema è capace di modificare il proprio funzionamento fino a raggiungere il risultato cercato. Un simile meccanismo regola nei viventi l’apprendimento per tentativi ed errori, in base al quale le azioni che riducono gli stati di bisogno e che sono coronate da successo vengono rafforzate, mentre le altre vengono indebolite e progressivamente eliminate. Allo stesso modo, il comportamento di una macchina può essere anch’esso governato dal continuo confronto tra il suo stato attuale e uno scelto come riferimento. L’informazione così ottenuta permette al sistema di correggere i propri errori e di non discostarsi troppo dallo stato di riferimento. Ora, ciò che conta per il nostro discorso è il fatto che le idee alla base delle macchine cibernetiche, come “controllo”, “comunicazione”, “retroazione”, “organizzazione”, denotino tutte comportamenti e modalità di operare insiti nel sistema stesso. Come rileva William Ross Ashby, infatti, «la cibernetica si occupa non di oggetti ma di modi di comportamento. Essa non si pone la domanda: “che cos’è questo?”, ma, piuttosto: “che cosa fa?”» (Ashby 1971, 7). In sostanza, nello studio di un sistema tecnico, più che alla sua composizione e alle proprietà dei suoi elementi costitutivi, la cibernetica sembra interessata ai suoi aspetti operativi. Al sistema tecnico viene riconosciuta, come suo aspetto primario, la facoltà di compiere un certo numero di operazioni atte a influire sull’organizzazione stessa della sua struttura. Da questo punto di vista, nella macchina cibernetica è possibile osservare una sorta di complementarità tra struttura e operazione o, per dirla in termini schiettamente filosofici, tra il suo carattere di oggetto e quello di evento. Ovvero: la struttura di un simile sistema è data dal dispiegamento temporale delle sue funzioni; reciprocamente, tali modalità di funzionamento vengono di volta in volta fissate nella forma di una struttura. L’oggetto tecnico è considerato come una totalità organizzata, capace cioè di regolarsi e di evolvere, reagendo agli impulsi da parte del mondo esterno e intrecciando con esso relazioni del tutto analoghe a quelle che un organismo vivente intrattiene con il proprio ambiente. Come ha ben visto Andrew Pickering (2002; 2010), quella promossa dalla cibernetica è quindi un’immagine performativa del mondo, in cui la realtà viene osservata nel processo del suo stesso accadere, popolata da sistemi vivaci e dinamici – esseri umani, piante, animali, macchine –, i quali, agendo e reagendo alle perturbazioni provenienti dall’ambiente, evolvono in modi imprevedibili. Nella misura in cui contiene persone, idee, messaggi, condizioni atmosferiche, fonti di energia, ecc., un sistema è, per citare il biologo dei sistemi Ludwig von Bertalanffy, un “complesso di componenti in interazione” composto da materia, energia e informazione a vari gradi di organizzazione. Nel valutare i sistemi l’artista è un prospettivista, che considera obiettivi, confini, strutture, input, output e attività correlate all’interno e all’esterno del sistema. Laddove l’oggetto ha quasi sempre una forma e dei confini fissi, la consistenza di un sistema può essere alterata nel tempo e nello spazio, e il suo comportamento determinato sia dalle condizioni esterne che dal suo meccanismo di controllo. (Burnham 1968, 32) Riflettendo sul rapporto tra arte e tecnologie interattive, il critico d’arte statunitense Jack Burnham illustra così il passaggio dall’assetto tradizionale dell’esperienza estetica, basato su una trama di significati chiaramente definiti trasmessi dall’artista al pubblico, a un modello in cui il sistema di interazioni prevale sulle singole unità strutturali e dove il processo sostituisce l’opera come oggetto. Introdotta in Beyond Modern Sculpture: the Effects of Science and Technology on the Sculpture of this Century, l’idea di opera d’arte come sistema viene successivamente approfondita in una serie di articoli, tra cui Systems Esthetics, Real Time Systems e The Aesthetics of Intelligent Systems. Sono pagine di grande originalità, dove, come accade di rado, la riflessione estetica prefigura l’evoluzione stessa delle arti: ne avverte la complessità in movimento, ne intuisce potenzialità latenti e le guida verso spazi non ancora esplorati. [6] [6] Il banco di prova di tali riflessioni è rappresentato dalla mostra Software, Al centro del primo scritto, la progressiva trasfor- Information Technology: Its New mazione della scultura da oggetto inanimato a sistema tri- Meaning for Art, organizzata da nel 1970 presso il Jewish dimensionale in grado di simulare alcune proprietà degli Burnham Museum di New York. organismi viventi. Burnham vede nella scultura il concretizzarsi di una pulsione originaria che induce l’individuo a imitare la vita. Partendo da un simile assunto, ne analizza la storia come attuazione sempre più perfezionata di tale tensione mimetica, in un processo che conduce dallo stato di rappresentazione a quello di simulazione, per poi approdare a un vero e proprio tentativo di riproduzione artificiale del vivente. È in questa prospettiva, cioè nel tentativo di conferire vitalità alla materia inerte, che si spiega l’abbandono tanto del naturalismo quanto dell’antropomorfismo e la progressiva sostituzione della scultura con artefatti che simulano la vita attraverso l’uso della tecnologia. In questo avvicendamento, è proprio il concetto di sistema a costituire «il mezzo attraverso il quale essa si allontana gradualmente dal suo stato di oggetto e assume una certa misura di attività simili alla vita» (Burnham 1968, 10). A differenza dell’oggetto inerte e stazionario, il sistema, in quanto insieme di parti interdipendenti, manifesta alcune delle caratteristiche fondamentali della vita, quali «autorganizzazione, crescita, mobilità interna o esterna, irritabilità o sensibilità, input e output, equilibrio mantenuto cineticamente ed eventuale morte» (Burnham 1968, 12). Nell’interpretazione data da Burnham il suo valore come idea artistica risiede dunque «nella possibilità di affrontare realtà cinetiche, e in particolare le strutture di raccordo di eventi in evoluzione» (Burnham 1968, 318). Un simile mutamento di prospettiva viene avviato da quella che Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi Saverio Macrì Sistemi e cibernetica nell’arte interattiva 171 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 165 — 178 III. Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi Saverio Macrì 172 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 165 — 178 Burnham definisce arte post-cinetica o Cyborg Art, intendendo con tale espressione l’arte dei sistemi che operano secondo principi cibernetici. Egli riconosce alla Cyborg Art il primo tentativo di simulare letteralmente la vita, un tentativo in cui «la scultura ricerca il proprio annullamento muovendosi verso l’integrazione con le forme di vita intelligente che ha sempre imitato» (Burnham 1968, 333). Il termine cyborg indica sia sistemi elettromeccanici sia, più in generale, i sistemi uomo-macchina, i quali, attraverso il meccanismo del feedback, esibiscono alcune proprietà ascrivibili agli organismi viventi. Il primo caso è illustrato da sculture cibernetiche autonome, le quali, pur reagendo a determinati stimoli prodotti dall’ambiente, rimangono svincolate dallo spettatore; il secondo riguarda invece quelle installazioni in cui l’intervento dello spettatore è necessario a rendere l’opera viva. Entrambe le forme sostituiscono al modello cinetico della scultura un modello comportamentale, superando la semplice imitazione del movimento degli automi per raggiungere l’imprevedibilità delle interazioni che contraddistinguono gli organismi più complessi. Da questo punto di vista, i fragili organismi cibernetici rappresentano il primissimo esito dell’influenza della tecnologia sull’arte, un’influenza che nelle previsioni di Burnham, prima della fine del secolo, avrebbe condotto a «forme d’arte che manifestano vera intelligenza, ma forse in modo più significativo, capaci di relazione reciproca con gli esseri umani» (Burnham 1968, 15). In questo caso la parola spettatore risulterà piuttosto antiquata. Esso finirà infatti per diventare una semplice variabile del sistema, dove interagirà di volta in volta con tutte le altre variabili, come ad esempio il materiale, le fonti d’energia, le condizioni atmosferiche, i messaggi. Una variabile sempre più presente in una cultura tecnologicamente avanzata è costituita dai computer, definiti da Burnham come sistemi dotati di un’intelligenza non biologica, deputati all’elaborazione di informazioni. A suo avviso, l’incessante proliferazione delle tecnologie informatiche racchiude in potenza forme inedite di relazione estetica, diverse dalla comunicazione a senso unico tipica dell’arte tradizionale, basata sul rapporto fisso tra spettatore e opera. Se si considera ogni pratica artistica come una forma di comunicazione, e se ogni comunicazione avviene per mezzo di segni mediante i quali un organismo influenza il comportamento di un altro organismo, allora, conclude Burnham, l’estetica dei sistemi informatici può essere descritta come «un dialogo in cui due sistemi raccolgono e scambiano informazioni in modo da modificare costantemente gli stati l’uno dell’altro» (Burnham 1970, 96). L’accrescersi del coinvolgimento delle tecnologie elettroniche può essere dunque valorizzato dal punto di vista artistico attraverso la progettazione di sistemi uomo-macchina basati sullo scambio biunivoco di informazioni. Lo spettatore comunica con l’ambiente informatico attraverso le sue periferiche e tale scambio è reso possibile da programmi time-sharing, grazie ai quali l’interazione con l’unità di elaborazione centrale del computer può avvenire in modo quasi simultaneo. In questo modo, conclude Burnham, «un dialogo si sviluppa tra i partecipanti – il computer e il soggetto umano – in modo che entrambi vadano oltre il loro stato originale» (Burnham 1970, 119). Del tutto affine a quella di Burnham è la posizione di Roy Ascott, artista e pioniere nel campo degli studi sull’interattività. Analogamente al critico statunitense, Ascott riconosce alla cibernetica il merito di aver determinato un radicale cambio di scenario nell’esperienza estetica. Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi Saverio Macrì Rispetto alle tradizionali forme di fruizione – definite “deterministiche” in quanto basate su una trama di significati stabiliti dall’artista e trasmessi a uno spettatore più o meno passivo – la cibernetica avrebbe contribuito a introdurre una “tendenza comportamentale”, istituendo così il passaggio dai caratteri di compiutezza e unitarietà tipici dell’opera d’arte a un modo di esistenza che richiede di essere attivato dall’intervento dello spettatore. La possibilità di una visione cibernetica dell’arte si fonda sull’analogia tra arte comportamentale e quello che Ascott chiama spirito cibernetico. Non diversamente dall’arte comportamentale, anche lo spirito cibernetico si misura con «ciò che le cose fanno, con il modo in cui lo fanno, e con il processo all’interno del quale esse si comportano» (Ascott 2003, 100). Anch’esso, in altre parole, assume una visione dinamica, secondo la quale i fenomeni vanno considerati nel loro carattere operativo, nel loro far parte di un processo in corso di svolgimento. Descritta secondo la cibernetica, l’esperienza estetica viene quindi a configurarsi più precisamente come un processo retroattivo di coinvolgimento. Per poter reagire allo spettatore, l’opera deve avere una struttura flessibile e adattabile; deve presentare cioè un grado di indeterminatezza tale da accogliere l’intervento dello spettatore, il cui coinvolgimento consisterà nel decidere in un ventaglio di possibilità. Il principio che regola l’interazione del sistema artista-opera-spettatore è quello cibernetico del feedback: Il sistema artefatto/osservatore fornisce la propria energia di controllo: la funzione della variabile di uscita (la reazione dell’osservatore) è di agire come variabile di ingresso, che introduce maggiore varietà all’interno del sistema e porta a maggiore 173 varietà in uscita (l’esperienza dell’osservatore). Questa ricca interazione deriva da un sistema auto-organizzante nel quale sussistono due fattori di controllo: il primo è l’osservatore quale sottosistema autorganizzante; il secondo è l’opera, che di Due sono dunque per Ascott le condizioni necessarie a produrre arte comportamentale: «che lo spettatore venga coinvolto e che l’opera in qualche modo si comporti» (Ascott 2003,129). Come già messo in luce da Burnham, anche secondo Ascott tale pratica avrebbe successivamente trovato il proprio strumento d’elezione nel computer, il quale prima che come una cosa (oggetto, apparato o macchina), va inteso come un vero e proprio «insieme di comportamenti [set of behaviours]» (Ascott 2003, 225). Come tutte le rigide opposizioni, anche quella tra arte deterministica e tendenza comportamentale è certamente riduttiva oltre che criticabile sotto diversi aspetti. Si potrebbe anzitutto obiettare che qualsiasi operazione artistica raggiunge il pieno compimento in presenza di un pubblico. Essa realizza il proprio valore espressivo offrendosi alla percezione, si arricchisce della pluralità di significati che le vengono attribuiti, cresce in profondità nei giudizi di cui è oggetto. Tuttavia (ed è questo che il saggio in questione intende sottolineare), ciò che conta è il dialogo e il rapporto reciproco che nasce tra opera e fruitore: da semplice soggetto di un’esperienza contemplativa, esso diventa termine prioritario ed entra direttamente nella realizzazione dell’opera. Infatti, alla base dell’evento interattivo non vi sono esclusivamente sistemi di significato da interpretare o forme di empatia con l’opera, quanto piuttosto inviti processuali cui il fruitore è chiamato a rispondere in prima persona. Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 165 — 178 norma non è in quel momento omeostatica. (Ascott 2003, 128) Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi Saverio Macrì 174 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 165 — 178 Ambienti esteticamente potenti è, a questo proposito, l’espressione con cui lo psicologo e cibernetico Gordon Pask definisce i sistemi reattivi che rendono possibile un simile dialogo tra fruitore e opera. [7] Un ambiente esteticamente potente incoraggia [7] Per un profilo della figura di Gordon si veda Pickering (2010). Per un il fruitore «a esplorarlo, conoscerlo, a formare una gerar- Pask approfondimento sulla sua produzione chia di concetti che si riferiscono ad esso; inoltre, guida la artistica si rimanda a Rosen (2016, sua esplorazione: in un certo senso, gli permette di par- 25-38). tecipare o comunque di vedersi riflesso nell’ambiente». Sebbene il suo assetto di base dipenda dall’artista, la sua “potenza estetica” si attualizza soltanto nella «relazione tra l’ambiente e l’ascoltatore o spettatore» (Pask 1968, 34). All’origine della loro realizzazione sta l’assunto secondo il quale ogni individuo «è incline a cercare la novità nel proprio ambiente e, dopo aver trovato una situazione nuova, a imparare a controllarla» (Pask 1971, 76). Orientato per natura all’apprendimento, l’individuo tende a esplorare e interpretare tutto ciò che lo circonda, venendo a patti con eventi ed esperienze che mettono in discussione il suo bagaglio di conoscenze, e a prendere parte, attraverso molteplici modalità di interazione, all’ambiente abitato dagli altri individui. Una simile attitudine, tratto distintivo della condizione umana, raggiunge secondo Pask la massima espressione ogni volta che l’individuo è coinvolto in un’attività estetica (realizzando, eseguendo, interpretando o più semplicemente apprezzando un’opera d’arte). Al fine di incoraggiare tale interazione, un ambiente esteticamente potente deve dunque offrire sufficienti novità (senza tuttavia eccedere nel comunicare informazioni che renderebbero l’ambiente non del tutto comprensibile), contenere forme che possono essere interpretate a vari livelli di astrazione, «fornire spunti o istruzioni implicite per guidare il processo di apprendimento astrattivo» e, infine, «rispondere a una persona, coinvolgerla in una conversazione e adattare le proprie caratteristiche al modo di discorso prevalente» (Pask 1971, 76). Nella misura in cui chiama in causa il fruitore, qualsiasi opera d’arte presenta, ad avviso di Pask, una natura interattiva tale da meritare lo statuto di ambiente esteticamente potente. Un dipinto, per esempio, non reagisce ai nostri stimoli; e tuttavia, la nostra interazione con esso è dinamica: nel percorrerne la superficie con lo sguardo, fissiamo alcuni dettagli che ci permettono di avviare una sorta di conversazione intima tra il nostro io immediato e la nostra rappresentazione interna. A determinare il carattere inedito dei sistemi reattivi è però la capacità di esteriorizzare il processo, rendendo il fruitore protagonista consapevole della conversazione con l’opera: «se guardo un quadro, sono un osservatore parziale, anche se in un certo senso posso ridipingere la mia rappresentazione interna. Se interagisco con un ambiente reattivo e adattativo, posso alternare i ruoli di pittore e spettatore a piacimento» (Pask 1971, 77). Accade dunque che la relazione tra fruitore e opera, componente essenziale dell’esperienza estetica come tale, nella dimensione interattiva si fa progetto, diviene cioè condizione di possibilità dello stesso fare artistico. [8] Ciò è evidente sia in Musicolour che nei Colloquy of Mobiles, installazioni progettate da Pask rispettivamente nel 1953 e nel 1968. Ispirato al fenomeno della sinestesia, Musicolour è [8] Tali dispositivi rappresentano per una vera e propria formulazione composto da un trasduttore che riceve input sonori da uno Pask plastica della sua Teoria della strumento musicale e li converte in proiezioni luminose. Conversazione. Per un’introduzione Viene così a formarsi un ciclo di feedback in cui l’input accessibile si veda Pask (1980). 175 Verso un’estetica dei sistemi questo rimane tuttora l’obiettivo primario dell’arte digitale interattiva, orientata sempre più verso il carattere di apertura del sistema tecnico, requisito fondamentale tanto per la creazione quanto per la fruizione dell’opera. Esso infatti permette di distinguere una forma di interattività per così dire superficiale, in cui l’evoluzione dell’opera è determinata in anticipo e l’intervento del fruitore si limita a selezionare una serie di opzioni prestabilite, da una forma più sofisticata, che rende l’opera incompleta e sempre aperta alla collaborazione del fruitore. Gli ambienti esteticamente potenti al centro delle attuali sperimentazioni non comprendono però soltanto fruitore e opera (generalmente costituita da un dispositivo tecnologico dotato di un’interfaccia collegata a sua volta un hardware capace di elaborare in tempo reale l’intervento del fruitore), ma si avvalgono Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 165 — 178 IV. Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi Saverio Macrì fornito dall’esecutore al sistema tecnico produce da parte di quest’ultimo una risposta immediata, che a sua volta sollecita un ulteriore intervento. L’aspetto interessante di Musicolour consiste nella sua intrinseca tendenza alla variabilità. Il dispositivo che ne governa il funzionamento è infatti dotato di un sistema di apprendimento in grado di modificare nel corso della performance il rapporto tra il vocabolario sonoro e quello visivo. Ma c’è di più: esso «si annoia» della ripetizione (Pask 1971, 80). [9] Se viene suonato a più riprese lo stesso inter- [9] Non passi inosservata l’attribuzione a un ente artificiale vallo di note, cessa di rispondere agli input, costringendo di un termine designante uno stato così l’esecutore a variare la propria esibizione, pena la fine psicologico, aspetto riscontrabile anche in Antitesi. della collaborazione con l’opera. Realizzati in occasione di Cybernetic Serendipity, esposizione organizzata da Jasia Reichardt presso l’Institute of Contemporary Arts di Londra, i Colloquy of Mobiles sono un assemblaggio di cinque automi in grado di comunicare tra loro per mezzo della luce e del suono, indipendentemente da influenze esterne. A ciascun dispositivo era stato attribuito dall’artista un genere, maschile o femminile. Quando, dopo una prima fase di inattività, la specie femminile cominciava a illuminarsi, quella maschile emetteva un raggio di luce che veniva riflesso da uno specchio collocato all’interno delle controparti femminili. Se la comunicazione aveva successo, le macchine emettevano un segnale sonoro. Inoltre, per mezzo di torce e specchi era concessa anche ai visitatori la possibilità di partecipare in prima persona al dialogo tra le macchine. Istituendo una conversazione tra due sistemi – il fruitore e l’opera – autonomi tra loro, ma capaci al tempo stesso di modificare lo stato l’uno dell’altro, gli ambienti esteticamente potenti progettati da Pask prefigurano una forma marcata di interattività, distinta dalle strutture chiuse di interazione. Mentre queste sono regolate dal semplice meccanismo di stimolo-risposta, in base al quale a ogni input segue dopo un certo intervallo un output prestabilito, l’interattività immaginata da Pask mira a un sovrappiù non previsto. Se la ricerca del nuovo è ciò che spinge l’individuo a interagire con il proprio ambiente, allora anche l’interazione con quegli ambienti esteticamente potenti che sono le opere d’arte non può ridursi alla semplice esplorazione di possibilità preesistenti, ma deve introdurre, all’interno dello schema generale di azione e reazione, una componente di imprevedibilità. Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi Saverio Macrì 176 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 165 — 178 sempre più dell’elevatissima quantità di dati che attraversano impercettibilmente il flusso digitale. Grazie alla diffusione di una fitta rete di tecnologie di registrazione, nessuna dimensione della realtà sfugge, in linea di principio, alla sua trasformazione in dati. Esseri umani, organismi biologici, fenomeni climatici, fiumi, oceani, spazi urbani, istituzioni, sono tutti potenziali generatori di dati, a loro volta indagati da programmi di intelligenza artificiale incaricati di cogliere andamenti e correlazioni atti a desumere probabilità ed elaborare previsioni. Quella dei dati e, più in generale, della computazione, rappresenta per l’individuo contemporaneo una mediazione ormai necessaria per l’esercizio dei propri diritti e delle proprie libertà, per poter cioè interagire, comunicare, esprimersi, lavorare, consumare, studiare, divertirsi. Le stesse pratiche artistiche non sono esenti dall’attingere a questo immenso bacino di dati e informazioni. Ma ecco il punto: in che modo una simile mole onnipresente costituisce per l’arte un materiale espressivo? In che modo, cioè, i dati possono essere integrati nell’esperienza estetica e generare significato? Rispondere a queste domande secondo la prospettiva sin qui esaminata vuol dire, per l’arte, approfondire la struttura relazionale dell’opera, collocando l’interattività al centro delle proprie pratiche con lo scopo di rendere l’opera un sistema aperto di incontri e partecipazione. A dar forma a tale sistema possono contribuire le variabili più disparate: come nell’esempio presentato in apertura, non solo persone e cose, ma anche l’intensità della luce a una determinata ora del giorno, un grado di temperatura, la quantità di vapore all’interno di una stanza, la misurazione di una distanza o quella di una durata. Ciascun termine, inseparabile dal contesto di cui fa parte, riceve individualità e significato solo nell’interazione con tutti gli altri. Le stesse coordinate spazio-temporali non fungono da semplice sfondo o cornice dei termini individuali, ma compongono assieme ad essi un’unica dimensione sensata e organizzata. Ora, riprendendo Pask, possiamo dire che l’opera d’arte come sistema attualizza tanto più la sua “potenza estetica” quanto meno i processi di interazione che la pongono in essere avvengono secondo modalità precostituite. Se, da un lato, il susseguirsi dei fruitori come anche la continua variazione dei dati elaborabili dal sistema tecnico portano con sé in ogni istante una componente di casualità e di novità inaspettata, dall’altro, è la procedura attraverso la quale il sistema sintetizza tali variabili a introdurre all’interno dell’esperienza estetica un margine di imprevedibilità. In questo caso l’indeterminazione, lungi dall’essere indice di un limite, esprime viceversa una potenzialità atta ad attrarre il sistema verso relazioni sempre nuove, le quali, inscrivendosi in esso, lo trasformano incessantemente e introducono apporti sempre nuovi alla sua organizzazione. È quanto illustrato in modo esemplare da Antitesi. In opposizione agli obiettivi di automatismo ed elaborazione massiccia di dati perseguiti dalle sperimentazioni nel campo dell’intelligenza artificiale e, più in generale, rispetto all’idea secondo la quale la sola novità del dispositivo basti di per sé a rinnovare l’arte, essa dimostra come la condizione necessaria a incrementare il grado di interattività risieda al contrario nella parziale indeterminazione del sistema. Da questa frangia di indeterminazione dipende pertanto la “potenza estetica” dell’opera, il suo configurarsi cioè come il centro di una relazione che essa stessa stabilisce, ponendo in Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi Saverio Macrì 177 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 165 — 178 comunicazione ordini di realtà e termini eterogenei, che solo per suo tramite formano un sistema. Un sistema, quello fatto emergere da Antitesi, la cui potenza estetica si carica di implicazioni anche esistenziali e politiche: resi sensibili nei confronti della struttura che collega un’intelligenza artificiale a un glicine, possiamo infatti avvertire la sofferenza dell’ambiente in cui viviamo e decidere di conseguenza di prendercene cura. Ashby, W. R. (1971). Introduzione alla cibernetica. Trad. it. di M. Nasiti. Torino: Einaudi. Bateson, G. (1984). Mente e Natura. Trad. it. di G. Longo. Milano: Adelphi. Burnham, J. (1968). 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Oggetti, macchine, media Cibernetica orientata all’oggetto. L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville Luca Fabbris Dottorando presso l’Università degli Studi di Torino (Consorzio FINO) con un progetto incentrato sull’ontologia dei sistemi auto-organizzati nella cibernetica di second’ordine. Ha conseguito la Laurea Magistrale con una tesi su William Ross Ashby. Co-dirige insieme ad Alberto Giustiniano e Claudio Tarditi la collana “BIT” per l’editore Orthotes. luc.fabb@gmail.com — OBJECT — OBSERVER — SECOND-ORDER CYBERNETICS — CONSTRUCTIVISM — IRREDUCIBILITY 183 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 183 — 198 How can autonomous and operationally closed units construct a shared reality? This is one of the main problems in second-order cybernetics. Ranulph Glanville’s Theory of Objects (TO) is an attempt to solve it. With TO, Glanville defines a Universe in which only unique and irreducible units – named Objects – exist. An Object is a dual unit characterized by a self-observation cycle (oscillation between a self-observing and self-observed moment). Each Object can observe and be observed by another Object. An observing Object can grasp only the public side of an observed Object (the private side of an Object is accessible only through self-observation). Objects do not share properties, and they have no common reality. Objects are unique, singular, irreducible as well as operationally closed. Reality is understood as the product of the interaction between observing units. The article (1) examines the epistemological and ontological features of TO and the radical objectivism underlying it; (2) discusses some of the problems of TO related to the definition of the observer; and (3) shows how TO can be considered an ante litteram formalization of Object-Oriented Ontology. corpo e la mente non sono né due né uno. Se pensate che il corpo e la mente siano due, è sbagliato; se pensante che siano uno, è ancora sbagliato. Il corpo e la mente sono due e uno allo stesso tempo. Di solito pensiamo che se qualcosa non è uno, è allora più di uno; se non è singolare, è plurale. Nell’esperienza effettiva, però, la vostra vita è non solo plurale, ma anche singolare. Ognuno di noi è dipendente e indipendente allo stesso tempo. Shunryu Suzuki-roshi, Mente zen, mente di principiante Chiasma il mio corpo–le cose, realizzato mediante lo sdoppiamento del mio corpo in interno ed esterno, – e lo sdoppiamento delle cose (il loro interno e il loro esterno) È perché ci sono questi 2 sdoppiamenti che è possibile: l’inserimento del mondo fra i 2 fogli del mio corpo, l’inserimento del mio corpo fra i 2 fogli di ogni cosa e del mondo Questo non è antropologismo: studiando i 2 fogli si deve trovare la struttura dell’essere – Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville Luca Fabbris È questo l’insegnamento più importante: né due né uno. Il Partire da ciò: non c’è identità, né non-identità o non-coincidenza, c’è interno ed esterno che ruotano l’uno attorno all’altro – Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile I. Introduzione: l’oggettivismo radicale Ranulph Glanville è uno di quei profili intellettuali che si è portati a rubricare sotto l’etichetta di “autore marginale”. Di fatto il suo lavoro non ha avuto la risonanza ottenuta da altri cibernetici di second’ordine – per esempio Heinz von Foerster, Humberto Maturana, Francisco Varela e Niklas Luhmann, cioè quegli autori che, riprendendo un’espressione di Karl Müller, potremmo definire la «Hall of Fame» della cibernetica di second’ordine (Müller 2015, 27). Tuttavia, se vi è un autore che con il suo lavoro è riuscito più di altri a incarnare i valori della cibernetica di second’ordine, questo è senz’altro Glanville. [1] [1] La rubrica A (Cybernetic) Musing (ora raccolta in La Teoria degli Oggetti (TO) di Glanville 2009) Glanville, [2] la quale sarà al centro del [2] Glanville usa la “O” maiuscola per che Glanville distinguere il suo modo di intendere curò per la rivista presente contributo, può essere conside- l’Oggetto – che come vedremo è Cybernetics rata il “canone minore” della cibernetica di sostanzialmente una struttura duplice and Human o una forma nell’accezione di George Knowing – con second’ordine. Essa è espressione di ciò che Spencer Brown – dal modo in cui le sue incursioni Glanville chiama radical objectivism, cioè comunemente lo si intende, cioè in territori an objectivism that is fuelled by the as if, which supports construction and constructivism, but come qualcosa di materiale, solido, inanimato, ecc. Nel nostro contributo, impiegheremo il termine “Oggetto” in relazione all’uso che ne fa Glanville e il termine “oggetto” per tutti gli altri casi. which marries with our common experience and with the pragmatics of convenience. It may be indicated as objective in the sense that it is made of Objects, and it is radical in the sense that the Objects (and the objectiveness) are con- disparati e con la sua capacità di mostrare la portata non solo epistemologica, ma anche etica, politica e pedagogica della cibernetica di second’ordine – ne è una perfetta testimonianza. structive and have history on their side (Glanville 2012b, 113). Si potrebbe definire l’oggettivismo radicale un’indagine delle condizioni operative del costruttivismo radicale. [3] Al [3] Per Glanville, il costruttivismo radicale e la cibernetica di Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 183 — 198 184 […] it is as if we look at (what we take to be) a screen on which there are shapes dancing. We see them as silhouettes and we believe there is something behind them that causes them to dance – some puppet (and puppeteer) and some light that casts the silhouette we see (this is the Wayang Theater of Java). But we cannot (and must not) see behind the screen: our vision is formed and made possible because of the screen. This is what we have invented, what we have constructed. Our way of looking, which makes communication possible, makes contact with the supposed puppet behind the supposed screen impossible. And, if we cannot look beyond the screen, we have no way to know what is there, whether there is anything at all, or even if there is a behind (Glanville 2012b, 111). Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville Luca Fabbris 185 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 183 — 198 centro del costruttivismo radicale vi è l’idea che la cono- second’ordine sono le due facce di una stessa medaglia e vengono spesso scenza non sia una concordanza o corrispondenza tra una considerati dall’autore come sinonimi rappresentazione prodotta da un osservatore e una realtà (cfr. Glanville 2012f). supposta oggettiva, bensì un «adeguamento nel senso funzionale» (Glasersfeld 2018, 20). L’osservatore non si rappresenta una realtà esterna, ma costruisce le proprie partizioni d’ordine in funzione dei vincoli che l’ambiente pone, i quali vanno intesi come perturbazioni alle quali l’osservatore deve far fronte. Usando le parole di Ernst von Glasersfeld, per il costruttivismo radicale «la conoscenza, indipendentemente da come venga definita, sta nella testa delle persone, e […] il soggetto pensante non ha alternativa: può solo costruire ciò che sa sulla base della sua stessa esperienza» (Glasersfeld 2015, 25). Tuttavia, dire che l’osservatore può fare esperienza solo della realtà che costruisce, non significa che la realtà sia solo ciò che l’osservatore costruisce. In ciò risiede la differenza tra un costruttivismo radicale e un costruttivismo ingenuo. L’oggettivismo radicale garantisce che il costruttivismo radicale non venga insidiato dalla fallacia epistemologica – confusione tra ciò che esiste e il modo in cui conosciamo ciò che esiste – e non si rovesci in un costruttivismo ingenuo. Si prenda, a titolo d’esempio, il seguente argomento che, sulle prime, sembrerebbe mettere in luce una chiara criticità del costruttivismo radicale: “L’osservatore può fare esperienza solo della realtà che costruisce, ma in questa realtà costruita l’osservatore fa esperienza di altri-osservatori, i quali o dipendono dagli atti di osservazione dell’osservatore o non ne dipendono. Nel primo caso, l’esito è il solipsismo – l’osservatore è l’unica realtà e gli altri-osservatori sono solo il risultato delle sue osservazioni. Nel secondo caso, l’osservatore incontrerebbe, nell’esperienza che egli stesso ha costruito, ciò che non ha costruito: l’altro-osservatore. Come può il costruttivista sostenere che tutto ciò che esperisce sia una sua costruzione se in questa costruzione può esperire un altro-osservatore che non ha costruito?”. Le aporie a cui il costruttivismo in questione conduce sono chiaramente dovute alla fallacia epistemologica che porta a confondere l’“altro-osservatore reale” con l’“altro-osservatore esperito” – confusione tra piano ontologico e piano epistemologico. Il costruttivista radicale considererebbe l’argomento una giusta critica all’idealismo insito nel costruttivismo ingenuo, niente di più. Ciononostante, dato che per il costruttivista radicale l’osservatore effettivamente non può avere accesso all’“altro-osservatore reale”, ma può conoscere solo l’“altro-osservatore esperito”, la possibilità che dietro quest’ultimo non vi sia nulla non può essere esclusa. Come scrive Glanville: Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville Luca Fabbris 186 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 183 — 198 Ciò che rimane indubitabile, per l’osservatore, è il fatto di fare esperienza. Anche nel momento in cui gli si fornissero delle prove che una sua esperienza è un’allucinazione, difficilmente lo si potrebbe convincere del fatto che egli non abbia avuto un’esperienza reale dell’allucinazione. Come osservava William Ross Ashby (2021, 62), «[s]e io vedo una sedia, in seguito posso essere convinto, con altre prove, che quell’impressione era prodotta solo da un gioco di luce; posso essere persuaso che l’ho vista in sogno, o anche in un’allucinazione; ma non esiste prova che possa persuadermi che la mia coscienza era errata […]». In §2.1. vedremo che, se non venisse postulata una certa struttura della realtà dietro lo schermo – o se non si facesse “come se” esistesse un altro-osservatore reale dietro l’altro-osservatore esperito – saremmo costretti a dubitare di ciò che è indubitabile: l’esistenza della nostra esperienza. Per l’oggettivismo radicale si tratta in sostanza di dare un fondamento trascendentale all’idea che ogni osservatore sia un sistema operativamente chiuso in grado di conoscere solo ciò che costruisce. [4] L’obiettivo è definire le condizioni struttu- [4] Müller osserva che «the crucial research problem for Ranulph Glanville rali affinché delle unità autonome possano costruire, pro- was transcendental in nature because prio in virtù della loro chiusura operativa – dunque della he was searching for the conditions of possibility for observing, knowing, loro inaccessibilità reciproca – una realtà comune. Glanville the communicating, and so forth and chiama queste unità Oggetti, i quali, come vedremo, pos- operated, therefore, on a very special siedono una struttura duale – sono uno e due al contempo. level of abstraction» (Müller 2015, 37). A dispetto della sua matrice costruttivista, la TO potrebbe trovare un habitat favorevole e un terreno su cui attecchire in quei territori disciplinari già concimati dalla Object-Oriented Ontology (OOO). La TO di Glanville sembra quasi una formalizzazione ante litteram della OOO. Soprattutto nella riflessione del primo Levi Bryant (2011) [5] – influenzata principalmente dal rea- [5] Prima della sua “svolta macchinica” avvenuta con il testo Ontolismo trascendentale di Roy Bhaskar, dalla teoria dell’auto- Cartography (Bryant 2014). poeisi di Maturana e Varela e dalla teoria dei sistemi sociali di Luhmann – si può trovare una teoria dell’oggetto quasi perfettamente sovrapponibile alla TO di Glanville. Anche la unit operations theory di Ian Bogost (2006) e l’ontologia orientata agli oggetti di Graham Harman (2021) possono essere messe in risonanza con la TO. La definizione di oggetto proposta da Harman, per la quale «un oggetto è qualsiasi cosa che non può essere totalmente ridotta né ai componenti di cui è fatta, né agli effetti che ha sulle altre cose» (Harman 2021, 49), sembra uscita, come vedremo, direttamente dalla penna di Glanville. Nell’Universo che Glanville costruisce esistono infatti solo Oggetti irriducibili. In questo Universo ogni Oggetto è, in potenza, osservabile da qualche altro Oggetto. E ogni Oggetto è osservabile perché si auto-osserva. Gli Oggetti sono strutture che dobbiamo supporre esistenti (fare “come se” fossero strutture reali) se vogliamo rimanere fedeli all’unico fatto certo che possiamo ricavare dalla nostra esperienza: il fatto che vi sia esperienza, che sappiamo di esistere in quanto osserviamo e ci osserviamo osservare. 1. Nell’articolo What is memory, that it can remember what it is? (Glanville 2012e) si può trovare, in forma succinta, la riflessione – quasi una meditazione cartesiana – che ha condotto Glanville alla formulazione dell’oggettivismo radicale e della TO. Glanville parte dall’analisi della frase «I know this» (Glanville 2012e, 323), che, per una questione di chiarezza espositiva, tradurremo così: “Io conosco (questo) oggetto”. La frase implica l’esistenza di un Io, di un oggetto, e di una relazione – il “conoscere” – che lega i due termini. La frase ha dunque due componenti ontologiche (l’Io e l’oggetto) e una componente epistemologica (la relazione “conoscere”). L’Io non può conoscere l’oggetto se non è in grado di osservarlo. Al contempo, non può osservarlo se non è in grado di osservarsi come differente dall’oggetto. Auto-osservandosi l’Io sa di esistere, ed è proprio l’auto-osservazione a renderlo certo di esistere. In questo modo l’Io assume due ruoli: osservante e osservato. L’Io conosce se stesso che conosce l’oggetto. Dal momento che si auto-osserva, l’Io non può dubitare della sua esistenza. Per l’Io, dunque, l’esistenza dell’osservazione è una certezza, tramite la quale perviene all’indubitabilità della sua esistenza. Tuttavia, quale certezza può avere l’Io che anche l’oggetto che viene osservato esista al pari dell’Io? Siccome è l’Io a dire “Io conosco (questo) oggetto”, come può l’Io sapere che l’oggetto non sia, in realtà, una sua costruzione? «Does it only exist through my act of observing, or does it exist anyway?» (Glanville 2021e, 325). Dietro l’idea che l’oggetto esista solo come costruzione dell’Io si nasconde l’insidia del solipsismo, che Glanville si affretta a disinnescare sulla base di un argomento che risale a un testo di von Foerster (1987a). Nell’esperimento mentale imbastito da von Foerster vi è un uomo con una bombetta, un solipsista, il quale ritiene di essere l’unica realtà esistente e che tutto ciò che osserva non sia altro che il prodotto delle sue operazioni di osservazione. Tra le osservazioni che l’uomo con la bombetta costruisce ci sono alcuni suoi simili, i quali gli confessano di essere dei solipsisti. Come può l’uomo con la bombetta escludere di non essere egli stesso il prodotto delle operazioni di osservazione di uno di questi presunti solipsisti? Come scrive von Foerster (1987a, 56), «se suppongo di essere l’unica realtà, viene fuori che sono il frutto dell’immaginazione di qualcun altro, che a sua volta suppone di essere lui l’unica realtà». In sostanza, il solipsismo insinua un dubbio sull’esistenza reale dell’Io, che però l’auto-osservazione rende indubitabile. Per rimanere fedele all’indubitabilità dell’esistenza dell’Io data dall’auto-osservazione, l’Io deve postulare l’esistenza di altri-Io indipendenti dai suoi atti di osservazione. Rimane però aperta la possibilità che tra gli oggetti che l’Io osserva ve ne siano alcuni che non dipendono dalle sue operazioni di osservazione, e che dunque meritano di essere considerati altri-Io; e ve ne siano altri che invece dipendono dalle operazioni di osservazione e che devono essere considerati non-Io. A quale criterio l’Io può appellarsi per distinguere in maniera inequivocabile, tra gli oggetti che osserva, quelli che dipendono dalle sue osservazioni da quelli che ne Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville Luca Fabbris Teoria dell’Oggetto 187 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 183 — 198 II. Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville Luca Fabbris sono indipendenti? Dal momento che l’Io non può accedere all’esperienza dell’oggetto, l’Io non dispone di nessun criterio che inequivocabilmente gli permetta di stabilire se un oggetto sia un altro-Io o un non-Io. L’unico requisito che un oggetto deve possedere per essere un altro-Io è la sua capacità di auto-osservarsi, ma l’auto-osservazione di un altro-Io è ciò a cui l’Io non può avere accesso. Inoltre, dal fatto che esistano altri-Io che sono in grado di comunicarmi la loro capacità di auto-osservarsi, non posso concludere che gli oggetti che non me la comunicano non siano altri-Io, e che dunque non esistano indipendentemente dalle mie osservazioni. Ne consegue che non posso escludere che ogni oggetto che osservo sia un altro-Io e che esista indipendentemente dalle mie osservazioni. Per Glanville dobbiamo procedere “come se” ogni oggetto fosse un altro-Io, cioè dobbiamo procedere in conformità con quello che Glanville chiama principle of mutual reciprocity, cioè «the reciprocal arrangement by which what may be of one may be of the other». (Glanville 2012c, 192). Vedremo in seguito che a fondamento dell’ontologia piatta formulata da Glanville si trova proprio il principio di mutua reciprocità, il quale vieta di introdurre distinzioni a priori che generano un partage ontologico tra soggetto/oggetto, Io/non-Io, osservatore/non-osservatore, ecc.. Nell’Universo formale che Glanville costruisce, tutto sarà, democraticamente, Oggetto, e ogni Oggetto avrà gli attributi di un Io, dunque potrà auto-osservarsi – sarà al contempo, rispetto a se stesso, osservatore e osservato. La frase da cui siamo partiti “Io conosco (questo) oggetto”, diventa “l’Oggetto che si auto-osserva osserva l’Oggetto che si auto-osserva”. L’universo che Glanville costruisce è, in sostanza, una comunità di osservatori. 188 Tutto ciò che esiste, nell’Universo di Glanville, è un Oggetto. L’Oggetto esiste perché si auto-osserva, e l’auto-osservazione è il marchio di unicità di ogni Oggetto (Glanville 2012d, 233-234). Tutto ciò che esiste è dunque un Oggetto, ma ogni Oggetto è singolare e differente da tutti gli altri. Al contempo, l’auto-osservazione implica che l’Oggetto sia al contempo auto-osservante e auto-osservato, e questo comporta un primo problema, poiché «if the Object, in order to be itself, fulfils two roles, how can still be only one?» (Glanville 2012e, 326). L’Oggetto, in questo senso, ha una struttura isomorfa a ciò che George Spencer Brown ha chiamato forma (Spencer Brown 2011). Per Spencer Brown la forma è l’unità di una distinzione. Tracciando un cerchio su una pagina bianca, marchiamo uno spazio dapprima non marcato, lo dividiamo in modo che esista uno spazio interno al cerchio e uno spazio esterno. La forma, in questo caso, è l’unità della differenza tra interno ed esterno. Tuttavia, come la forma di Spencer Brown non mi consente di indicare contemporaneamente l’interno e l’esterno, ma solo uno dei due lati alla volta, così l’Oggetto di Glanville non può trovarsi, nello stesso istante, nella posizione di osservante e di osservato. Per passare da un lato all’altro del cerchio occorre un’operazione, e l’operazione comporta l’introduzione di una certa temporalità: nell’istante t1 indico il lato interno della distinzione, e nell’istante t2 il lato esterno. Così l’Oggetto può trovarsi nell’istante t1 in posizione osservante e nell’istante t2 in posizione osservata, ma Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 183 — 198 2. Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville Luca Fabbris 189 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 183 — 198 non può trovarsi in entrambe le posizioni nello stesso istante. La temporalità richiesta dall’operazione, dunque, scioglie il paradosso nel quale l’Oggetto è, al contempo, uno e due, unico e diviso. L’auto-osservazione è perciò un ciclo temporale che prevede il passaggio dalla posizione osservante alla posizione osservata. Questo ciclo è l’orologio interiore che dà consistenza all’Oggetto (Glanville 2012d, 262-265). Il problema diventa capire in che modo un Oggetto che si auto-osserva può osservare un altro Oggetto che si auto-osserva. Poniamo di avere l’Oggettoa (Oa) e l’Oggettob (Ob). Nel processo di auto-osservazione di Oa ci sarà un momento in cui esso occuperà la posizione di Oggetto osservato. La posizione di Oggetto osservante rimarrà vacante, e ciò renderà possibile a un altro Oggetto, per esempio Ob, di occuparla. Affinché possa occupare la posizione libera di Oa, Ob dovrà anch’esso trovarsi nella posizione di Oggetto osservato, in modo da poter adoperare la “facoltà” osservante per un’etero-osservazione. Rimanendo libera la posizione osservante di Ob, essa potrà essere occupata dalla facoltà osservante di Oa (o di un altro Oggetto), il quale, nel ciclo di auto-osservazione, si troverà in posizione osservata. Otteniamo, in questo modo, la correlazione tra le temporalità di due Oggetti diversi, ognuno dei quali occupa la posizione lasciata libera dall’altro: Oa e Ob sono due Oggetti che si osservano. Il risultato cui Glanville perviene non è molto dissimile dalla “struttura dell’essere” cui Merleau-Ponty fa riferimento nel passaggio tratto da Il visibile e l’invisibile che abbiamo riportato in esergo. Il corpo è una forma, scissa in interno ed esterno, così come lo è il mondo. La scissione del corpo e del mondo permette al primo di penetrare nella scissione del secondo e al secondo di penetrare nella scissione del primo. Lo stesso avviene nel processo di osservazione tra i due Oggetti descritta poc’anzi: Oa si interpone nel ciclo di auto-osservazione di Ob e Ob si interpone nel ciclo di osservazione di Oa. In tal senso, «non c’è identità, né non-identità o non-coincidenza, c’è interno ed esterno che ruotano l’uno attorno all’altro» (Merleau-Ponty 2007, 275). Riferito alla correlazione tra Oa e Ob, il termine osservazione, diversamente da quanto abbiamo visto in §2.1, non viene impiegato da Glanville per indicare la facoltà psichica alla base della conoscenza, bensì per indicare, in maniera estremamente generale, l’intrusione o l’occupazione di un Oggetto da parte di un altro. Nella sincronizzazione tra Oa e Ob avviene quella che si potrebbe definire una co-intrusione simbiotica, dal momento che le due temporalità degli Oggetti si incastrano alla perfezione. [6] [6] Questo rapporto di intrusione comporta il venir meno della Ciò che vale per l’osservazione, vale anche per l’au- non chiusura operativa dei due Oggetti. to-osservazione. Essa non sembra rimandare al processo La chiusura operativa è garantita dal ciclo completo di auto-osservazione. tramite cui un sistema psichico conosce se stesso, piutto- Vi sarebbe “rottura” della chiusura sto sembra indicare l’operare ricorsivo che dà consistenza operativa solo nel momento in cui, per Oa occupasse sia la parte all’Oggetto, ciò che lo individua come Oggetto separandolo esempio, osservata sia la parte osservante di da altri Oggetti e rendendolo unico. In questa accezione, Ob, ma questo è impossibile, poiché significherebbe che Ob abbia lasciato l’auto-osservazione risulta equivalente all’individuazione vacante sia la parte osservata che la di un’unità autopoietica, indica cioè l’endo-struttura di parte osservante, dissolvendosi come unità operativa e rendendo di fatto un’unità che si genera tramite operazioni ricorsive (l’oro- impossibile la sua osservazione. logio interno di un oggetto, il ciclo dell’auto-osservazione, è un circolo autopoietico). Questa assimilazione di autopoiesi e auto-osservazione, resa possibile dalla polisemia che, in Glanville, Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville Luca Fabbris 190 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 183 — 198 caratterizza il termine osservazione, comporta non pochi problemi, che verranno presi in esame in §3. L’unicità dell’Oggetto, garantita dal ciclo dell’auto-osservazione, è motivo della sua irriducibilità. Ciò che Oa osserva di Ob non equivale a ciò che Ob osserva nel suo ciclo di auto-osservazione. Glanville introduce la distinzione tra essenza e comportamento per rendere conto di questo scarto (Glanville 2012d, 239-240). Attraverso l’auto-osservazione Ob osserva la sua essenza, che equivale al suo lato privato. Osservando Ob, Oa non potrà osservarne l’essenza, ma esclusivamente il comportamento, il lato pubblico di Ob. Il comportamento di Ob, però, è un coprodotto di Oa e di Ob, dipende cioè dall’unicità tanto dall’osservatore quanto dell’osservato. Pertanto, ciò che Oa osserva di Ob non sarà ciò che un altro oggetto Oc osserverà di Ob. In altri termini, il comportamento di un Oggetto dipende dalle relazioni che questo intrattiene con altri Oggetti. Nondimeno, nessuna relazione potrà esaurire l’Oggetto, poiché il marchio di unicità dell’Oggetto è dato dalla sua auto-osservazione, la quale è inaccessibile ad altri Oggetti. Potranno dunque esserci molteplici osservazioni di un Oggetto, ognuna delle quali contribuirà alla costruzione di un comportamento diverso, osservazioni che potranno contraddirsi l’un l’altra, ma nessuna delle quali potrà mai pretendere di dire qualcosa sull’essenza dell’Oggetto. In questo argomento si può ravvisare il nucleo teoretico della Object-Oriented Ontology (OOO). Per tutti gli object-oriented ontologists ogni oggetto è scisso: per esempio, in Harman troviamo la scissione tra oggetto reale e oggetto sensuale (Harman 2021) e in Bryant la scissione tra oggetto virtuale e manifestazioni locali (Bryant 2011). In entrambi i casi, abbiamo un lato privato dell’oggetto, con una sua endo-struttura, che si ritrae da qualsiasi relazione con altri oggetti, i quali possono osservare solo il suo lato pubblico (il suo comportamento, le sue manifestazioni locali, le sue qualità sensuali, ecc..). Le eso-relazioni dell’oggetto (le relazioni tra oggetto e altri oggetti) possono dunque dar vita a differenti manifestazioni locali e comportamenti tra di loro contraddittori. Un esempio, tratto dall’analisi del multinaturalismo amerindio condotta da Eduardo Viveiros de Castro, può essere utile per illustrare vividamente l’idea dell’irriducibilità dell’Oggetto alle molteplici osservazioni: «ciò che per noi [umani] è sangue, per i giaguari è birra» (Viveiros de Castro 2017, 57). [7] Abbiamo qui due [7] Tuttavia, impieghiamo l’esempio appena riportato come illustrazione manifestazioni locali differenti che producono un chia- di un’ipotesi teorica differente da sma rispetto a due osservatori differenti. Il “sangue reale” quella avanzata da Viveiros de il quale scrive: «non crediate non è ciò che l’umano o il giaguaro vedono come sangue, Castro, che gli indigeni pensino che esista né la “birra reale” è ciò che l’umano o il giaguaro vedono un “qualcosa = x”: qualcosa, ad che gli umani vedrebbero come birra. Vi è un lato privato del sangue e un lato pri- esempio, come sangue e i giaguari come birra. vato della birra che non possono essere ridotti alle loro Nella multinatura non esistono entità autoidentiche diversamente percepite, rispettive eso-relazioni, che non si risolvono nelle loro ma molteplicità immediatamente rispettive manifestazioni locali. Sulla base della loro uni- relazionali del tipo sangue/birra» de Castro 2017, 59). Non cità (data dal loro ciclo di auto-osservazione o circolo auto- (Viveiros entreremo nel merito della proposta poietico) l’umano e il giaguaro osservano differenti mani- di Viveiros de Castro, ci limiteremo a un uso libero e “fazioso” (rispetto festazioni locali di un oggetto unico, la cui essenza si ritrae fare alla teoria che stiamo presentando) costantemente. L’umano e il giaguaro costruiscono con dell’esempio in questione. le loro osservazioni ciò che Glanville decide di chiamare, in maniera piuttosto singolare, consapevolezza: «For the Modi di osservazione All’inizio dell’articolo as if (Radical Objectivism), Glanville scrive: «I have not defined my terms. They change (as does the writing style) in the progress of the argument. The change is intentional. Meaning are made by readers, not writers» (Glanville 2012b, 106). “Osservazione” è un termine che nel lavoro di Glanville non viene mai definito, il cui significato dipende di volta in volta dal contesto in cui viene adoperato. Esso può significare, a seconda dei casi, cose molto diverse: esperire, conoscere, costruire, distinguere, correlare, rappresentare, ecc. L’ontologia piatta di Glanville, espressa dal fatto che nell’Universo esistono solo Oggetti e ogni Oggetto – poiché si auto-osserva – osserva ed è osservato, si fa forte di questa polisemia, attraverso la quale cose molto diverse vengono condensate in un unico termine. Come scrive Bogost, ontologia piatta significa che «all things equally exist, yet they do not exist equally» (Bogost 2012, 11). Abbiamo visto come Glanville, attraverso il principio di mutua reciprocità, fa del suo Universo una comunità di osservatori alla pari. Si potrebbe dire che per Glanville tutti gli Oggetti sono osservatori, sebbene non tutti gli Oggetti osservino alla stessa maniera. Anche il termine “auto-osservazione” nasconde una pluralità di significati che vanno oltre quelli di auto-referenza e di auto-coscienza. Esso indica forme di processi ricorsivi che possono essere molteplici. In sostanza, osservazione e auto-osservazione sono, per Glanville, termini astratti che non rimandano a un tipo di operazione precisa, ma che raccolgono in sé tutta una serie di operazioni possibili. L’ontologia piatta, però, palesa un limite, ben espresso dal seguente passaggio tratto da Harman: [L’ontologia piatta] rappresenta per la filosofia un buon punto di partenza, ma offre un finale deludente […]. [L]a filosofia dev’essere in grado di parlare di tutte le 191 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 183 — 198 III. Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville Luca Fabbris observer, the awarness is what he believes the Object of his observation to be» (Glanville 2012d, 245). [8] Riassumendo [8] La consapevolezza e il comportamento sono i due lati con le parole di Glanville, «[t]he Essence is Private. The exi- di una manifestazione locale: il stence of the Essence is implicit in any other observation, comportamento è la manifestazione locale riferita all’Oggetto osservato, since the Object must exist for itself, to exist for other mentre la consapevolezza è la observers. There is thus priority of existences: the Essence manifestazione locale riferita is implicit in both behaviours and awareness; behaviours all’Oggetto che osserva. and awareness are only potential in the Essence» (Glanville 2012d, 258). La questione di fondo è la seguente: per esserci una manifestazione locale, deve esserci un oggetto reale; per esserci etero-osservazione, deve esserci auto-osservazione; per esserci un comportamento, deve esserci un’essenza. Il secondo termine di ognuna di queste opposizioni non può essere ridotto al primo. Ciononostante, non vi sarebbe Oggetto o forma senza la compresenza dei due termini. L’Oggetto è l’unità di una differenza, o meglio, la differenza tra identità e differenza. Ciò significa che l’oggetto non è solo i suoi comportamenti, ma è anche i suoi comportamenti: «The Object is its Essence and is its behaviour […]» (Glanville 2021d, 242). base al loro maggiore o minore grado di realtà […]. Eppure l’ontologia piatta sarebbe un finale troppo deludente per qualsiasi filosofia. Ipotizziamo che, dopo cinquant’anni di pratica filosofica, un teorico della OOO non avesse nient’altro da dire che “gli esseri umani, gli animali, la materia inanimata e i personaggi di fantasia esistono tutti allo stesso modo”. […] In poche parole, ci aspettiamo che la filosofia ci […] dica quali differenze esistono tra i diversi tipi di oggetti (Harman 2021, 59). I limiti dell’ontologia piatta di Glanville sono stati ben individuati da Elena Esposito, la quale costruisce una teoria della distinzione che si fonda sulla “distinzione guida” operazione/osservazione (Esposito 1992a). In assenza di un criterio che distingua l’operazione (che si riferisce ai processi “ciechi” d’individuazione di un sistema autopoietico) e l’osservazione (che si riferisce all’uso di indicazioni e distinzioni), non vi sarebbe nulla che «impedisca di affermare, come fa Glanville, che pietre, numeri, concetti, ecc., possono tutti essere osservati solo poiché a loro volta si auto osservano» (Esposito 1992a, 23). Il passaggio che segue merita di essere riportato per esteso, dato che coglie una chiara problematicità della TO di Glanville: Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville Luca Fabbris cose […] senza scartarne alcune prima del tempo o classificarle frettolosamente in Secondo la “massima” dell’autopoiesi, infatti, ogni unità dipende dal reticolo ricorsivo delle osservazioni e viene costituita da esso, e la cibernetica di second’ordine può sostenerla solo affermando la stessa cosa di se stessa come osservatore, cioè come uno dei suoi oggetti, e non ha modo di distinguerlo da oggetti di tipo differente. Dal momento che l’osservatore di secondo ordine giunge, nell’auto-osservazione, a porre se stesso (la propria unità) come risultato della riproduzione ri- 192 corsiva delle proprie operazioni, esso è tenuto a trarre la conseguenza che lo stesso vale per tutti gli altri oggetti, e a dedurne che anch’essi, in quanto unità, devono essere quindi generati per auto-osservazione (o perlomeno non può escludere una In sostanza, l’autopoiesi e l’auto-osservazione, due livelli che per Esposito andrebbero mantenuti distinti, vengono appiattiti da Glanville, finendo per formare un tutt’uno indistricabile (da qui la polisemia che, in Glanville, caratterizza il termine osservazione). La distinzione guida su cui si fonda il lavoro di Esposito (operazione/osservazione) consentirebbe invece di distinguere tra «(a) semplici oggetti non-sistema; (b) sistemi non osservanti; (c) altri osservatori o sistemi-osservanti» (Esposito 1992a, 23). In breve, secondo Esposito occorre dotarsi di una definizione precisa di osservazione capace di distinguerla dall’operazione autopoietica. Così facendo, un osservatore, nel suo dominio di osservazione, sarebbe in grado di distinguere tra oggetti inanimati (oggetti non-sistema), sistemi autopoietici che non osservano (sistemi viventi), sistemi che osservano (sistemi psichici e sociali). Esposito propone una distinzione tra operazioni monovalenti (proprie dell’autopoiesi) e operazioni bivalenti (proprie di un osservatore di prim’ordine – cioè un osservatore che osserva operazioni monovalenti). L’operazione monovalente coincide con l’individuazione di un sistema che si separa dal suo ambiente: il sistema si chiude operativamente rispetto al suo ambiente, individuandosi come unità autopoietica. A livello dell’operazione monovalente vi è solo distinzione cieca, non vi è cioè la possibilità per il sistema autopoietico di indicarsi come un lato di ciò che è stato Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 183 — 198 conclusione di questo genere) (Esposito 1992a, 23). Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville Luca Fabbris 193 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 183 — 198 distinto (auto-referenza) o di indicare l’ambiente come l’altro lato della distinzione (etero-referenza). Solo nell’operazione bivalente, che dispone di un valore per indicare (vero, positivo, figura) e un valore per distinguere l’indicazione dal non indicato (falso, negativo, sfondo) si può trovare il requisito formale dell’oscillazione tra auto-referenza ed etero-referenza che è propria dell’operazione di osservazione. Esposito individua tanti livelli di osservazione quanti sono i valori logici di volta in volta impiegati. Una logica a due valori può essere applicata a una realtà popolata da oggetti monovalenti, ognuno dei quali può essere indicato (figura) e distinto dagli altri (sfondo). Una logica a più di due valori, che sospende il principio del tertium non datur, può essere applicata a una realtà popolata da osservatori, in cui un osservatore di second’ordine deve distinguere un’osservazione (figura) da altro (sfondo), ma deve tener conto che l’osservazione osservata (la figura) è un’operazione bivalente (cioè è a sua volta una distinzione figura/sfondo): «Un oggetto bivalente come una distinzione richiede delle forme di indicazione più complesse: richiede in particolare la disponibilità di almeno tre valori, due per l’indicazione dei due lati della distinzione in oggetto ed uno per distinguerla da altro» (Esposito 1992b, 258). Più si sale di ordine, più sono i valori che devono essere introdotti per rendere conto dei vari livelli di distinzione. Ogni ordine di osservazione rende possibile un certo tipo di ontologia, che corrisponderà ai valori implicati nell’operazione di osservazione. Vi è dunque una corrispondenza tra logica e ontologia. La logica «si occupa delle distinzioni attraverso le quali l’osservatore genera il mondo con cui poi si confronta» (Esposito 1992a, 28), mentre l’ontologia «non è altro che la proiezione di una data struttura di distinzioni; a seconda degli strumenti di cui l’operatore dispone, cioè in ultima istanza del suo apparato di distinzioni, esso si confronta con un mondo che presenta determinate caratteristiche, e l’ontologia, in quanto “teoria di ciò che c’è”, descrive tale mondo» (Esposito 1992a, 28). Esiste, pertanto, una pluralità di ontologie o molteplici stratificazioni ontologiche, corrispondenti ai livelli logici a cui ci si riferisce. Quella di Esposito è una soluzione estremamente raffinata ai problemi sollevati dalla TO. È però importante avere ben chiaro il presupposto su cui si fonda la sua proposta: la distinzione tra operazione e osservazione può essere tracciata solo da un osservatore. In altre parole, la differenza monovalenza/bivalenza non può che essere l’esito di un’operazione bivalente. Questo implica essenzialmente che, tramite la bivalenza, l’osservatore distingue se stesso dal non-osservatore. Tuttavia, se accettiamo l’idea che l’oggetto ha un lato pubblico e un lato privato (se usiamo, come distinzione guida, la distinzione pubblico/privato) il fatto che il lato privato sia un’operazione cieca (monovalente, il differenziarsi di operazioni che rimandano ricorsivamente l’un l’altra senza “conoscersi”) o sia invece l’esito di un’operazione di auto-osservazione, è essenzialmente indecidibile, e optare per la dualità operazione/osservazione o per una sorta di “monismo dell’osservazione” è una scelta dell’osservatore. Dal momento che la teoria di Glanville si fonda sulla certezza dell’osservazione che, come abbiamo visto, dipende dal fatto che l’Io si auto-osserva, l’esistenza di non-osservatori è altamente incerta – da qui l’esigenza di attenersi al principio di mutua reciprocità: muovendo dal fatto che esiste auto-osservazione, non posso escludere che gli oggetti che osservo non possano a loro volta auto-osservarsi. Oggetti complessi Abbiamo visto che negli scritti di Glanville “osservare” indica, tra le tante cose, anche l’operazione di correlazione tra le temporalità di due Oggetti. Oa osserva Ob solo nel momento in cui occupa la posizione osservante nel ciclo di auto-osservazione di Ob, e per far ciò deve sincronizzare il suo ciclo di auto-osservazione con quello di Ob. Nell’Universo di Glanville, un Oggetto può osservare due Oggetti contemporaneamente occupando la posizione di osservante che essi lasciano vacante. Per chiarezza espositiva, chiamiamo l’Oggetto che osserva altri due Oggetti Oss, e poniamo che i due Oggetti osservati siano Oa e Ob. Ciò che Oss osserva di Oa e Ob è naturalmente il loro comportamento (abbiamo visto che l’essenza è inaccessibile e che costituisce il marchio di unicità di qualsiasi oggetto). Nel momento in cui le temporalità di Oa e Ob risultano a Oss della medesima durata, dunque perfettamente sovrapposte, Oa e Ob saranno per Oss due oggetti identici. Ma poiché ogni Oggetto è unico, l’identità tra due Oggetti non potrà che essere il risultato della computazione di Oss. Abbiamo visto che, nell’Universo di Glanville, tutto ciò che è osservabile è un Oggetto. Nella misura in cui un osservatore può osservare il risultato di una computazione, tale risultato è da considerarsi un Oggetto. L’Oggetto computato è ciò che Glanville chiama Oggetto complesso (Glanville 2012d, 297). La computazione di Oa e Ob da parte di Oss genera l’Oggetto Oc, il quale ha un lato privato che non corrisponde né al lato privato di Oa, né al lato privato di Ob, né tantomeno all’osservazione di Oss. Oc ha una sua essenza che risulta da un ciclo di auto-osservazione autonomo rispetto a quello di Oa e Ob. Ne consegue che qualsiasi Oggetto, semplice o complesso che sia, è irriducibile. Esso, per usare un’espressione di Harman, non può essere minato né dal basso né dall’alto: non può essere ridotto alle parti che lo compongono né alle relazioni che intrattiene con altri Oggetti. L’Oggetto non è né le sue parti né il suo comportamento – dunque Oc non si risolve né nel comportamento di Oa e Ob, né nel comportamento che Oss e altri osservatori co-costruiscono con esso. La distinzione tra Oggetto semplice e Oggetto complesso, in un certo senso, viene meno. Ogni Oggetto è semplice – unico, irriducibile, fondamentale – anche nel caso in cui è computato – ossia il risultato della correlazione tra le temporalità di un complesso di Oggetti. Il carattere polisemico del termine osservazione si riflette sul termine computazione, che può riferirsi sia al processo attraverso il quale un Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville Luca Fabbris IV. dell’osservatore è fondamentale nella cibernetica di second’ordine e si lega al ruolo centrale che l’autonomia ricopre in essa. Come scrive von Foerster (1987b, 232), «[p]otrebbe sembrare strano, in tempi come questi, postulare l’autonomia, perché l’autonomia implica la responsabilità: se sono l’unico a decidere come agire, allora sono responsabile delle mie azioni. Poiché le regole del gioco più diffuso al giorno d’oggi prevedono che io deleghi a qualcun altro la responsabilità delle mie azioni (questo gioco si chiama “eteronomia”), le mie argomentazioni rappresentano una presa di posizione che, ne sono convinto, non incontrerà il favore di molti». 194 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 183 — 198 Potremmo considerare l’ontologia piatta di Glanville e l’ontologia stratificata di Esposito un’unica strada a doppia corsia, in cui l’oggettivismo radicale prende due direzioni opposte: l’osservatore Glanville fa “come se” non esistesse la distinzione tra osservazione e non-osservazione, mentre l’osservatore Esposito fa “come se” esistesse tale distinzione. La scelta della distinzione iniziale diventa fatale: partire dalla distinzione operazione/ osservazione o dalla distinzione pubblico/privato porta a conseguenze teoriche (ma anche pratiche, dato che sono in gioco i modi di relazione con l’altro) diversissime. E la responsabilità di tale scelta (e delle sue conseguenze) è solamente dell’osservatore. [9] [9] Il tema della responsabilità Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville Luca Fabbris 195 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 183 — 198 assemblaggio di Oggetti produce nuovi Oggetti, i quali saranno autonomi – dunque irriducibili agli Oggetti che li computano; sia alla costruzione di un modello, che in Glanville indica l’operazione attraverso la quale un osservatore usa un Oggetto come surrogato di un altro Oggetto. Per esempio, l’espressione “il cervello è un computer” risulta dalla computazione di due Oggetti, cervello e computer, che sono posti da un osservatore in una relazione tale che il computer finisce per occupare il posto del cervello. Computer e cervello sono due Oggetti unici, ma alcune porzioni dei loro comportamenti possono essere considerati sovrapponibili da un osservatore, che usa il primo Oggetto come modello del secondo. Per un altro osservatore “il cervello è del pudding raffreddato”: al pudding viene fatta recitare la parte del cervello. Naturalmente, il primo osservatore pone in relazione cervello e computer sulla base di certe manifestazioni locali che i due Oggetti esibiscono – per esempio, la capacità dei due Oggetti di risolvere un’equazione differenziale. Nel secondo caso, l’osservatore costruisce la relazione sulla base di altre manifestazioni locali – la consistenza gelatinosa dei due Oggetti. Si prenda il sistema psichico come esempio di Oggetto complesso. Esso è un Oggetto complesso che risulta dalla correlazione tra le temporalità di Oggetti semplici, i neuroni. In quanto Oggetto, il sistema psichico avrà il proprio ciclo di auto-osservazione – dovrà essere, per usare la terminologia dei sistemi autopoietici, un sistema operativamente chiuso, caratterizzato da operazioni specifiche: stati di coscienza, pensieri, ecc.. Il sistema psichico ha un lato privato che non si confonde con il lato privato degli oggetti semplici, cioè i neuroni, che lo computano. In un certo senso, i neuroni sono Oggetti esterni all’Oggetto sistema psichico, anche se quest’ultimo non esisterebbe senza la correlazione di miliardi di neuroni. Il sistema psichico dunque dipende dalla rete neurale ma, al contempo, è autonomo rispetto a essa. Per riprendere la frase di Suzuki-roshi citata in esergo: «Ognuno di noi è dipendente e indipendente allo stesso tempo» (Suzuki-roshi 2018, 27). Ogni Oggetto dipende da altri Oggetti pur rimanendo autonomo. Detto altrimenti, così da accentuarne il carattere paradossale: l’autonomia di ogni Oggetto è garantita dalla dipendenza da altri Oggetti. Il sistema psichico può rimanere autonomo finché il sistema neurale al quale è strutturalmente accoppiato mantiene la sua integrità, la quale, venendo meno, conduce il sistema psichico al collasso. Questa compresenza di autonomia e dipendenza costringe a ripensare la relazione tutto/parti. Anche in questo caso, può essere osservata una sovrapposizione tra la proposta di Glanville e quella avanzata dagli object-oriented ontologists. Infatti, è possibile ritrovare la strange mereology di questi ultimi nell’ultimo articolo scritto da Glanville (2015). La strange mereology si basa sull’idea che qualsiasi oggetto è un’unità autonoma che entra nella composizione di altri oggetti e che è composta da altri oggetti (Bryant 2011, 152; Bogost 2012, 22-23). Nessun oggetto, dunque, può essere considerato una mera funzione all’interno di una totalità. A tal riguardo, Bogost contrappone system operations e unit operations. [10] Scrive Bogost: «System operations [10] Il termine unit è, per come lo utlizza Bogost, un sinonimo di oggetto are […] totalizing structures that seek to explicate a pheno- nell’accezione di Harman. menon, behavior, or state in its entirety. Unlike complex networks, which thrive between order and chaos, systems seek to explain all things via an unalienable order» (Bogost 2006, 6). Nelle V. Conclusione Nella nostra ricostruzione della TO, abbiamo incontrato sovente casi di coincidentia oppositorum. L’oggetto è uno (unico, singolare, irriducibile, fondamentale) ma al contempo due (osservante/osservato, essenza/comportamento, autonomo/dipendente). Nella differenza tra identità e differenza risiede probabilmente il nocciolo duro della cibernetica di second’ordine, che come scrive Glanville « [it] is to demostrate, paradoxically, the need for paradox in systems from which it is prohibited» (Glanville 2012d, 97). Il circolo viene spesso indicato come emblema della cibernetica di second’ordine (non a caso, uno dei simboli più amati dai cibernetici Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville Luca Fabbris 196 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 183 — 198 system operations, troviamo un insieme di parti integrate in un tutto, nel quale ogni singola parte non ha una propria individualità al di fuori della totalità di cui è parte; nelle unit operations troviamo invece una rete di unità autonome correlate in modo tale da generarsi autopoieticamente o da generare altre unità autonome. Si potrebbe anche dire che le system operations rimandano a una concezione sistemica pre-luhmanniana e le unit operations a una concezione sistemica post-luhmanniana. Come ha osservato Dirk Baecker, «[s]ystems theory in line with Luhmann’s intellectual spirit may well be read as an attempt to do away with any usual notion of system, the theory in a way being the deconstruction of its central term». (Baecker 2001, 61). Viene decostruita una certa concezione olistica di sistema, che si basa su ciò che si potrebbe definire irriduzionismo unilateriale: l’idea, cioè, che la totalità non può essere ridotta alle parti che la compongono, ma le parti possono essere ridotte a funzioni della totalità. Glanville contrappone a questo irriduzionismo unilaterale un irriduzionismo integrale, per il quale, in senso stretto, ogni cosa è un tutto (unico, irriducibile, fondamentale) e ogni parte non è che un tutto calato da un osservatore nel ruolo di parte (Glanville 2015). Ciò che vale per l’identità tra due Oggetti – la quale è sempre computata da un terzo Oggetto, dunque dipende da un osservatore – vale anche per la distinzione tutto/parti: non vi sono parti contrapposte a un tutto, ma vi sono unità autonome che un osservatore può considerare mere parti di una totalità. La gerarchia generata dalla distinzione tutto/parti rimanda dunque al processo di modellizzazione in cui un Oggetto viene calato in un ruolo (gli viene fatta recitare una parte). Tuttavia l’Oggetto è irriducibile alla parte che si trova a recitare per un osservatore. Per riprendere un’espressione di Timothy Morton (2020, 84), «l’intero è sempre meno della somma delle sue parti». L’Universo è sempre meno della somma degli Oggetti che lo popolano in quanto è, anch’esso, un Oggetto. L’Universo è un Oggetto tra Oggetti, unico, irriducibile e fondamentale. In senso proprio, non ci sono Oggetti che fanno parte dell’Universo, ma ci sono Oggetti tra cui l’Universo. Il fatto di considerare l’Universo un contenitore popolato da una molteplicità di Oggetti, non deve farci dimenticare che gli Oggetti contenuti nell’Universo sono “esterni” o stranieri al contenitore, così come risultano “esterni” o stranieri gli uni rispetto agli altri. Tale esternalità è dovuta al fatto che sia la molteplicità di Oggetti che popolano l’Universo sia l’Universo stesso hanno un lato privato inaccessibile a tutti gli altri. L’Universo ha sempre un fuori: l’interiorità degli oggetti che lo popolano. Cibernetica orientata all’oggetto.L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville Luca Fabbris 197 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 183 — 198 di second’ordine è l’Uroboro). Il circolo, però, non rende l’idea di questa paradossalità al cuore della cibernetica di second’ordine, la quale trova una perfetta sintesi nell’espressione “né uno, né due” (Varela 1976). La figura che meglio rappresenta questa unità di differenze è il nastro di Möbius, un oggetto paradossale, unico e duplice al contempo: né dentro né fuori, ma dentro e fuori al contempo (Glanville & Varela 2012). La temporalità, come abbiamo visto nel caso della compresenza del momento osservante e del momento osservato nel ciclo di auto-osservazione, permette di sciogliere il paradosso, e lo fa introducendo una discretizzazione in un continuum. Tuttavia, per passare dalla posizione di osservato alla posizione osservante deve esserci un punto di rivoltamento, [11] nel quale l’Oggetto è al contempo [11] Merleau-Ponty, ne Il visibile e l’invisibile, scriveva: «L’unico asse osservato e osservante. Glanville lo chiama lo spazio zero, dato – l’estremità del dito del guanto quel punto che non è né fuori né dentro, ma dentro e è un nulla, – ma un nulla che si può rivoltare, e in cui si vedono allora delle fuori al contempo. cose – L’unico “luogo” in cui il negativo Ogni Oggetto si costituisce intorno a un punto di sia veramente è la piega, l’applicazione dell’interno e dell’esterno, il rivoltamento – in fondo, esso non è altro che un punto reciproca punto di rivoltamento –» (2007, 275) di rivoltamento, singolare, unico, irriducibile. Né uno né due, ma uno e due al contempo. Questa “struttura dell’Essere” è la condizione del nostro osservare ed essere osservati, del nostro essere privati e pubblici al contempo. In conclusione, essa è la condizione necessaria affinché unità operativamente chiuse possano costruire una realtà comune. «Realtà = Comunità» (Foerster von 1987, 233) Baecker, D. (2001). Why Systems?. Theory, Culture & Society, 18 (1), 59-79. Bogost, I. (2006). 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Research Lab dell’Università di Colonia. I suoi interessi di ricerca vertono sull’estetica romantica e idealistica, l’estetica contemporanea e la filosofia ambientale. gregorio.tenti@unito.it — CHAOS THEORY — ARTIFICIAL CREATIVITY — CYBERNETICS — MACHINE AESTHETICS — COMPUTATIONAL PHILOSOPHY 201 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 201 — 211 This article examines a chapter in the history of machines, namely the study of chaotic behaviours through machinic simulations, in order to draw theoretical conclusions on artificial creativity and the nature of computational processes. The first paragraph traces the early history of physics of chaos in its epistemological implications. The second paragraph investigates how machines are able to simulate chaotic behaviours by increase of internal entropy, and thus to make themselves sensitive to the heterogeneous texture of nature itself. Particular attention will be devoted to the so-called principle of “order from noise”, elaborated within the second-order cybernetics. This will lead to consider machines as material fields established around the acts of execution of a program, which thus become acts of materialization and interpretation thereof. In conclusion, the terms «technoplasty» and «machinic poietics» will be proposed to conceptualize a wider shift towards nonrepresentational technologies. È noto come la scoperta della fisica del caos, anticipata sotto forma di intuizione matematica già alla fine dell’800, contribuisca a scoperchiare l’universo laplaciano dal suo interno, ratificando il ruolo ontologico della contingenza nella natura (Prigogine, Stengers 1999; Prigogine 2014). L’universo di Laplace rappresentava l’ideale di un universo interamente governato dalle leggi di Newton: un cosmo completamente prevedibile – sia nel passato che nel futuro – da parte di un’intelligenza suprema che ne conoscesse completamente un momento dato. In fisica, ciò significava che conoscendo le condizioni iniziali di un sistema qualsiasi si poteva prevederne il comportamento in maniera esatta: un Dio, nella prospettiva di Laplace, avrebbe potuto ridurre l’universo e la sua storia a una formula. Nella fisica classica la natura è quindi governata da leggi eterne che, se conosciute, garantiscono una conoscenza completa della realtà. Già in passato si era a conoscenza di eccezioni a questo paradigma, come il fenomeno della turbolenza o il cosiddetto “problema dei tre corpi”, ma l’inspiegabilità di queste eccezioni era considerata trascurabile. Le scienze del caos dimostrarono l’esistenza di sistemi fisici che si comportano in maniera diversa rispetto ai sistemi fisici classici, i quali possiedono un comportamento lineare e perciò prevedibile. [1] Un sistema che si comporta in maniera lineare, per esem- [1] Per la differenza tra previsione e predizione cfr. ad esempio Paty (2007, pio un pendolo, segue una traiettoria fissa in base alle leggi 374). newtoniane del moto. Un sistema che si comporta invece in maniera non lineare, come il fumo di una sigaretta, non ha un corso regolare e non può essere previsto esattamente. Questa imprevedibilità non è un mero ostacolo pratico risolvibile con un maggior numero di dati, ma una caratteristica ineliminabile dei sistemi, che necessitano dunque di altri strumenti teorici e pratici per essere studiati. In particolare, ciò che contraddistingue il comportamento dei sistemi caotici è il fatto di amplificare minime differenze presenti nelle condizioni iniziali, differenze che possono generarsi anche su scale microscopiche. Un pendolo si comporterà sempre nella stessa maniera, ad esempio, anche al netto di variazioni chimiche o quantistiche; ma il fumo della sigaretta (o il clima di una regione, o l’andamento di un mercato finanziario) è sensibile alle più piccole variazioni di partenza, che arrivano ad influire in maniera decisiva sul suo comportamento. Determinante non è la quantità di queste influenze microscopiche, né la complessità dei dati iniziali, ma la natura stessa dei sistemi. Il fatto è che dello stato iniziale di qualunque sistema fisico è impossibile dare una descrizione completa ed esatta che non corrisponda almeno alla stessa quantità di informazione del sistema stesso. In sistemi non sensibili alle condizioni iniziali ciò non costituisce un problema (se un pendolo differisce da un altro per un atomo, entrambi si comporteranno comunque allo stesso modo); in sistemi sensibili alle condizioni iniziali, invece, questo fatto sta alla base di una imprevedibilità intrinseca e costitutiva. Ciò significa che il Dio laplaciano non potrebbe in nessun caso ridurre la storia dell’universo a una formula, perché la storia dell’universo non può essere descritta da un modello, ma soltanto messa in atto. In altre parole, se Dio volesse predire l’universo dovrebbe crearlo, e se volesse ricostruire il passato di un fenomeno dovrebbe ricrearlo. Vedremo Tecnoplastia.Note sulla poiesi macchinica Gregorio Tenti Il caos nella macchina 202 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 201 — 211 I. Tecnoplastia.Note sulla poiesi macchinica Gregorio Tenti 203 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 201 — 211 tra poco che la stessa cosa vale per gli scienziati del caos. La differenza iniziale che decide il comportamento di un sistema caotico è un fattore inaggirabile, benché impercettibile e di fatto inconoscibile: la differenza tra due valori numerici che differiscono alla loro centesima cifra, per esempio, non ha più alcun valore descrittivo per l’uomo. La descrizione esatta del fenomeno sarebbe allora qualcosa come un algoritmo incompressibile (Kauffman 2001, 38), o una descrizione 1:1 o più ricca di informazione del fenomeno stesso, e perderebbe quindi la propria funzione di modello. Tutto questo non comporta l’abolizione del determinismo, ma un suo radicale ampliamento, come il celebre dibattito tra René Thom (1980), Ilya Prigogine (1980) e Edgar Morin (1980) ha contribuito a chiarire. Posto che i singoli comportamenti dei sistemi caotici non possono essere descritti in maniera esatta, ciò che si mostra agli scienziati del caos (e corrisponde alla scoperta scientifica del caos) è che le divergenze caotiche vanno ad assumere comportamenti dotati di una certa regolarità, che erano sconosciuti alla fisica classica. Si è scoperto cioè che pur producendo sempre nuove traiettorie, i sistemi caotici seguono dei solchi, degli spettri di movimento: si trovano quindi sempre entro un certo tracciato, che può essere definito come uno spazio di competizione complessa tra fluttuazioni più che come uno spazio di probabilità (ciò che Prigogine [1993] chiama «rappresentazione spettrale»). Si tratta dei cosiddetti “attrattori strani”, pattern che emergono dalle traiettorie non lineari di fenomeni anche diversi tra loro: più delle forme di comportamento (degli ethoi) caratterizzate da un alto grado di empiria che delle vere e proprie leggi di natura. Le forme del caos si collocano al di là dell’intuizione geometrica. Henri Poincaré, che aveva già avuto un’intuizione matematica dei comportamenti caotici, scrive: «si rimarrebbe sbalorditi dalla complessità di questa figura che non cerco nemmeno di tracciare» (Poincaré 1957, 389). Ecco, la fisica del caos ha inizio esattamente con la scoperta che queste figure matematicamente inimmaginabili possono essere tracciate (soltanto) dalle macchine, calcolatori analogici e (più tardi) digitali. L’inizio delle scienze del caos coincide con la scoperta che i comportamenti caotici si rivelano soltanto alla macchina in forma di immagine simulata. A partire dagli anni ’60 del Novecento la storia delle scienze del caos è sospinta dalle scoperte di nuovi oggetti matematici simulati dalla macchina, che gli sperimentatori non avrebbero mai potuto concepire altrimenti. Così Gleik (2014, 219) descrive la scoperta del cosiddetto “insieme di Mandelbrot”: «germogli e viticci si dipartivano languidamente dall’isola principale. Mandelbrot vide un confine apparentemente liscio risolversi in una catena di spirali simili a code di cavallucci di mare. L’irrazionale fecondava il razionale». Solo grazie a una potenza di calcolo superiore a quella umana poterono emergere questi pattern impercettibili, e i comportamenti caotici poterono essere modellizzati. Il «caos sensibile» (Schwenk 1962), in questo senso, si dà soltanto come visualizzazione di un processo che avviene all’interno della macchina. La fisica del caos afferma che il caos non può essere sciolto, ma può essere simulato. Al contrario del suo principio opposto, l’ordine, il caos non è perspicuo, ma necessita della giusta macchinazione per essere reso visibile. Far emergere il caos nella simulazione non è un’operazione matematica, perché nulla viene dimostrato e tutto viene mostrato; ma non è nemmeno un’operazione fisica, perché non si modellizza un fenomeno reale, ma si produce una forma virtuale Tecnoplastia.Note sulla poiesi macchinica Gregorio Tenti 204 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 201 — 211 (l’attrattore strano; cfr. Gleik 2014, 215). Gli scienziati e i macchinisti del caos sono simili ad esploratori e sperimentatori, nella misura in cui l’equazione di partenza non è più una descrizione ma un processo che deve essere svolto e fatto esistere. [2] [2] «L’unico modo per vedere tipo di forma si accompagni «Le forme di pensiero assistite dal computer», scrive che a una particolare equazione è il Félix Guattari (2007, 51), «sono mutanti, discendono da procedimento per tentativi, e questo stile portò gli esploratori di questo altre musiche e da altri Universi di referenze». Quando nuovo campo più vicini allo spirito di Edward Lorenz, all’inizio degli anni ’60, produce una rap- Magellano che non a quello di Euclide. Con l’avvento dei computer divenne presentazione grafica di una successione numerica irrego- […] possibile la geometria del provare e lare relativa al comportamento di un sistema non lineare, riprovare» (Gleik 2014, 222-223). scopre un’immagine dalla valenza quasi magica, che non avrebbe mai potuto prevedere. «Il computer non è più soltanto un calcolatore gigante, non ha solo un ruolo sintetico, eccelle anche in una utilizzazione sperimentale ed euristica. Il punto decisivo è che Lorenz scopre che si può generare un comportamento caotico con solamente tre variabili; i rapporti del semplice e del complesso vanno a essere decisamente trasformati» (Dahan, Aubin 2007, 335). Nei due celebri casi finora citati (Lorenz e Mandelbrot) la simulazione macchinica costituisce l’unica traduzione possibile di una complessità altrimenti inconoscibile. Tra l’inconoscibilità e la replicazione integrale del fenomeno emerge così la possibilità della ricreazione macchinica. Lo scienziato impara dalla macchina le configurazioni dell’ordine caotico. Non si tratta, lo ribadiamo, di rappresentazioni di fenomeni reali, perché non si riferiscono a nessun fenomeno fisico modellizzabile (sia esso oggetto o processo): quelli che appaiono sullo schermo sono fenomeni in sé, creati dalla macchina che ha mimato la regola generativa della natura. Gli attrattori strani simulati dalla macchina non sono modelli che mirano a replicare un fenomeno, ma forme virtuali che emergono dalla competizione complessa delle traiettorie. Ciò che appare sullo schermo della macchina non è la traiettoria ideale del fenomeno, ma la forma risultante dall’insieme delle sue traiettorie virtuali. Perciò si dice che la simulazione scopre una regola che contiene e produce i modelli del fenomeno stesso. [3] [3] Simulare un attrattore strano significare rappresentare un L’unico modo per avere conoscenza del caos fisico, non oggetto, ma nemmeno modellizzare in questo senso, è assumerne la potenza morfogenetica, un processo: la modellizzazione di processo in senso stretto può rimetterlo in moto in un macchinismo locale. L’esistenza un essere ottenuta anche semplicemente stessa dei sistemi caotici corrisponde alla sensibilità pla- attraverso la funzione di una traiettoria uno spazio delle fasi. Dalla stica per la variazione che appartiene alla natura, e che la in distinzione tra sistemi lineari e sistemi macchina deve riprodurre in sé. Nei sistemi caotici e nei non lineari discende anche quella modellizzazione e simulazione di sistemi non lineari in generale, la natura si rende sensibile tra un processo, nel senso che abbiamo alla sua stessa eterogeneità infinitesima, alle sue minime cercato di mostrare. differenze, per produrre sempre nuove dimensioni. Il superamento della linearità non comporta soltanto il superamento della contiguità meccanica dell’effetto con la causa, ma anche il superamento della dimensionalità euclidea tramite piegatura e posizione di anse e superfici inedite. Da ogni punto di biforcazione o evento critico, da ogni comportamento anomalo del sistema può scaturire un passaggio di dimensione, rappresentato matematicamente dal carattere frattale degli attrattori strani. È proprio questa dinamica morfogenetica (non nel senso della generazione di individui, ma nel senso della generazione di nuova realtà) che la macchina deve riprodurre in sé. Così il processo di Creatività dal rumore Suscitare una spontaneità morfogenetica significa far sì che il processo emerga attraverso la propria contingenza e la propria durata. La macchina deve quindi porsi «sotto il segno dell’immanenza» rispetto al procedere della natura (Paty 2007, 376), assumere funzionalmente la sensibilità alla contingenza che è propria della natura. A questo scopo, le macchine del caos fanno aggio sulla propria imprecisione nell’esecuzione del programma. Come illustrato bene da Ekeland (2010, 71-74), la macchina è programmata per operare delle approssimazioni progressive affinché i calcoli mantengano un senso fisico: per far sì che un numero non accumuli una quantità troppo elevata di cifre, le ultime cifre vengono semplicemente eliminate. In questi casi si dice che la macchina lavora solo su un certo numero di cifre significative. Questo procedimento causa un aumento di entropia (ovvero una diminuzione di informazione), con un conseguente aumento del caos. Quando le macchine sono programmate per simulare fenomeni lineari, l’elisione di cifre non significative è interamente funzionale al risultato atteso e l’aumento di entropia non influisce su di esso. Ma quando il fenomeno simulato è un fenomeno caotico (quando, come nel caso di Lorenz, il programma lavora su equazioni non lineari), le minime differenze dovute all’arrotondamento vengono amplificate e influiscono sensibilmente sullo svolgimento del programma. Il caos non viene escluso dal processo, ma anima un comportamento inedito. L’entropia conduce all’emergenza del nuovo. Accade così che la macchina realizza al proprio interno una sorta di resistenza materiale al programma, fungendo da ambiente concreto in cui il codice astratto si materializza; attraverso questo fenomeno si genera un effetto di auto-interpretazione del codice nel suo svolgimento, di auto-percezione e auto-organizzazione del processo complessivo. La macchina non si limita più a descrivere, ma arriva a comportarsi localmente come un sistema reale (in questo caso, un sistema dissipativo). Un processo di loop, ad esempio, può ripetersi all’infinito senza generare alcun cambiamento se non avviene alcuna perdita d’informazione; ma quando alcuni dati vengono persi nell’iterazione, il loop diviene un movimento eccentrico, che deraglia dal suo periodo (Berardi Bifo, Sarti 2008, 46). Proprio come accade con l’energia di un sistema vivente, l’informazione non viene semplicemente persa, ma è portata a formare nuove traiettorie, a creare nuovi legami, perché deve inventare dei modi per veicolarsi in forme lontane dall’equilibrio a livello sistemico. In questo modo l’entropia in natura forma delle vere e proprie strutture, dette strutture dissipative, «gigantesche fluttuazioni stabilizzate da un flusso di materia o di energia» (Prigogine 2015, 91). [4] [4] I sistemi viventi, tuttavia, non sono semplici sistemi dissipativi, definizione La linea che non ritorna mai su sé stessa, che non che si applica solo ad alcuni sistemi chiude il cerchio (come avviene nel caso dell’iterazione fisici. Entrambi sono sistemi aperti lontani dall’equilibrio, capaci di non lineare), produce quindi fluttuazioni che entrano esvilupparsi in maniera imprevedibile in interazione complessa. La fluttuazione, o onda, è la integrando la contingenza; ma mentre i primi sono in grado di memorizzare, dinamica tipica delle strutture dissipative e nasce come trasmettere e modificare i propri Tecnoplastia.Note sulla poiesi macchinica Gregorio Tenti II. 205 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 201 — 211 simulazione diviene «imitazione dei processi generativi nella loro forma più fine» (Berardi Bifo, Sarti 2008, 20). Tecnoplastia.Note sulla poiesi macchinica Gregorio Tenti comportamento continuo da interazioni locali e discrete. vincoli, e quindi di evolversi in senso i secondi restano strettamente Si prenda l’esempio di un ente computazionale (un bit), proprio, dipendenti dalle proprie condizioni che si relaziona ai suoi enti vicini secondo regole prescritte senza essere in grado di trasformarle ad esempio Wolf et al 2018). Il (comportamenti semplici come l’accensione e lo spegni- (cfr. rinvenimento di attrattori, difatti, è del mento). Questo comportamento può essere propagato agli tutto insufficiente per i fenomeni della La dipendenza dalle condizioni enti vicini (un ente si accende, i tre enti vicini si accendono, vita. iniziali fa sì che il caos sia ancora i tre enti a loro vicini si accendono e così via). La propaga- determinista, e genetico solo nel senso che si svolge in maniera imprevedibile, zione produce un passaggio di dimensione, per esempio nutrendosi di contingenza. da bidimensionale a tridimensionale: si tratta di una delle interazioni di campo che stanno alla base dell’emergenza del continuo dal discreto. In ciò consiste l’aspetto che avevamo descritto come superamento della linearità in senso dimensionale, secondo una dinamica perfettamente esemplificata dai cosiddetti automi cellulari (per cui cfr. Wolfram 1994). Riproducendo in sé questi comportamenti, le macchine diventano apparati di produzione di realtà atti a elaborare tendenze formative. Il passaggio dai dati iniziali ai comportamenti emergenti è un salto propriamente genetico, irreversibile e imprevedibile. Ciò che avviene nella macchina istituisce un proprio spazio rappresentativo, analogo a uno spazio delle fasi, che intrattiene un rapporto analogico con la realtà fisica pur restando sostanzialmente autonomo da essa. [5] L’essere umano arriva così a sviluppare una tecnologia [5] Simulando le dinamiche emergenti, lo spazio rappresentativo della espressiva, e non semplicemente rappresentativa, in cui macchina si rende analogo a – nel la simulazione è cioè generatrice di realtà: mimando una senso che “fa ciò che fa” – lo spazio trasformazioni fisiche. Lo spazio regola generativa, essa crea fenomeni che non sono né delle dell’evoluzione fisica di un sistema è dell’ordine dell’oggetto rappresentato né dell’ordine del detto per l’appunto «spazio delle fasi», che permette «ritratti» geometrici representamen. (definiti «ritratti di fase») dei sistemi La macchina che simula può quindi essere conce- dinamici. Come già accennato, nei casi cui trattiamo lo spazio delle fasi è da pita come un regime enunciativo specifico della realtà di intendersi come uno spazio generato direttamente derivato dall’aumento dell’entropia all’in- dalla competizione complessa di più che come uno spazio terno del processo; quindi, almeno in senso lato, da una fluttuazioni neutro e pre-determinato delle sua progressiva e intrinseca tendenza al guasto e all’errore. traiettorie. Su questi temi cfr. Prigogine Longo e Bailly (2011) e Longo Questa tendenza corrisponde esattamente all’appari- (1993), (2020). zione della macchina stessa, ben distinta dal programma che essa esegue. Riportiamo ancora le parole di Guattari (2007, 52): 206 al guasto, alla catastrofe, alla morte che la minaccia. Possiede la dimensione supplementare di un’alterità che sviluppa sotto forme diversificate. […] La differenza apportata dall’autopoiesi macchinica si fonda sullo squilibrio, sulla prospezione di universi virtuali lontani dall’equilibrio. Non si tratta semplicemente della rottura di un equilibrio formale, ma di una radicale riconversione ontologica. Il guattariano «desiderio di abolizione» può essere avvicinato a ciò che in seno alla cibernetica di secondo ordine prende il nome di “principio dell’ordine dal rumore”. La nozione cibernetica di rumore corrisponde originariamente all’elemento di resistenza materiale che distrugge l’informazione, deteriorando l’ordine probabile: rispetto all’informazione che interessa l’osservatore, in tal senso, è rumore «qualsiasi forma di molteplicità» (Ashby 1971, 234). Il rumore è dunque considerato fattore negativo di Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 201 — 211 La macchina è lavorata da un desiderio di abolizione. Il suo emergere si accompagna Tecnoplastia.Note sulla poiesi macchinica Gregorio Tenti 207 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 201 — 211 contingenza che crea ambiguità e deve essere compensato pragmaticamente affinché il messaggio venga trasmesso con successo. [6] Ci sono tuttavia alcuni casi in cui l’entropia cau- [6] Sulla nozione di rumore si rimanda alle analisi di Malaspina (2018), che sata dal rumore assume un ruolo morfogenetico, nel senso vanno in una direzione del tutto affine quasi dialettico della negazione necessaria al passaggio alla nostra. di dimensione. Il caso più tipico è certamente quello del vivente. Come esemplificato da Henri Atlan nel saggio intitolato Tra il cristallo e il fumo, il «principio generale di differenziazione» che anima i processi di auto-organizzazione vivente non può fare a meno del ruolo del rumore (Atlan 1986, 89). La plasticità e l’evolvibilità del vivente sono infatti assicurate da un costante effetto di dinamizzazione e assottigliamento dei vincoli organizzativi (cfr. anche Atlan 1972a, 1972b). La «complessità», in questo senso, dipende da un margine inconoscibile funzionale al sistema. Complesso non è soltanto il sistema come ente sintetico delle sue componenti, ma soprattutto il sistema nel suo atto di funzionamento: è l’atto sistemico a stabilire un campo riflessivo in cui gli eventi di scala inferiore possono propagarsi e assumere un ruolo generativo. È in quanto ambiente operativo che il sistema può costituirsi riflessivamente come un autòs, un piano di risonanza dei propri effetti (quello che la tradizione filosofica ha spesso designato attraverso il concetto – denso di ulteriori implicazioni – di «organismo»). Proprio questa determinazione di campo corrisponde al significato non quantitativo dell’informazione: complesso è un insieme di processi, non un programma. Una simile prospettiva taglia naturalmente le distinzioni ontologiche tra vivente e non-vivente, e può emergere indifferentemente – come lo stesso Atlan riconosce – dallo studio dei sistemi biologici, di alcuni sistemi fisici di confine (i sistemi non lineari e dissipativi descritti da Prigogine) e delle macchine di informazione. Quest’ultimo è il caso descritto da Heinz von Foerster, al cui celebre saggio Sui sistemi auto-organizzanti e i loro ambienti (1960) risale la prima formulazione del principio dell’ordine dal rumore. Come esempio di creazione d’ordine dal rumore, ancora Atlan (1986, 177ss.) menziona le macchine che simulano processi di apprendimento non guidato, le quali non si limitano a riconoscere pattern codificati nell’ambiente ma ne formulano di nuovi a partire dalla loro interazione con l’ambiente. A tal fine, è indispensabile che esse attingano sempre di nuovo a un «margine d’indeterminazione», per dirla con Simondon (2021), che permette la modificazione progressiva del codice nello scambio con l’ambiente; il margine appartiene proprio a questo scambio (e non solo alla macchina, né solo all’ambiente). Quel margine oscuro che sta alle radici della produzione di senso e si caratterizza come aleatorio in relazione alle componenti “fisse” del sistema è per l’appunto il rumore. È dunque attraverso una capacità di elaborare la contingenza senza separarsene che si producono le convoluzioni neghentropiche comuni ad alcuni sistemi fisici e a quelli viventi. «L’intuizione che sta dietro a questo approccio è che, diminuendo l’informazione trasmessa nei diversi canali all’interno di un sistema, si diminuiscono i vincoli sull’insieme del sistema stesso. Di conseguenza, questo è reso meno rigido, più diversificato e più capace di adattarsi a situazioni nuove» (Atlan 1986, 204). Le macchine del caos dimostrano perfettamente il ruolo di quella che Ashby chiamava «molteplicità» o «varietà» e che costituisce il milieu Tecnoplastia e poiesi macchinica Quelle macchine non banali che abbiamo descritto come macchine del caos sono episodi di una vicenda più ampia, che percorre sostanzialmente tutto il macchinismo moderno. In corrispondenza della soglia di complessità che questa vicenda ha raggiunto nel nostro presente sembra compiersi un passaggio decisivo dalle tecnologie della rappresentazione alle «tecnologie della performance» (Xin Wei 2013), dalle tecnologie «denotative» alle «tecnologie connotative» (Berardi Bifo, Sarti 2008, 52): un passaggio quindi a tecnologie capaci di accogliere e suscitare l’«evento» (Sha Xin Wei 2013, 69ss.) attraverso processi di espressione o costituzione artificiale di realtà. Molti autori concordano sul fatto che questo passaggio avvicina essenzialmente il macchinismo alle pratiche dell’arte e ai principi di tradizionale appannaggio dell’estetica. La computazione acquista difatti una materialità e una specificità mediale nella misura in cui «attualizza modi di essere, livelli e tipi di agency e procedure di pensiero e configurazione» (Fazi, Fuller 2016, 282); il che naturalmente evoca una più ampia idea di “materialità”, che abbiamo già cercato di applicare nei paragrafi precedenti – non come condizione fisico-materiale in senso stretto ma come resistenza positiva (ovvero produttiva) e consistenza ambientale delle interazioni. Attraverso una materializzazione progressiva, gli atti macchinici si rendono non solo sensibili alla contingenza ma anche capaci di assumerne la regola generativa. In questo modo funzionano anche la cosiddetta «immaginazione algoritmica» (Finn 2017) e alcune reti neurali sperimentali. [7] [7] «L’algoritmo non è uno spazio cui l’ordine materiale e quello Più una macchina è semplice e astratta, più essa cor- in simbolico sono contrapposti, ma un risponde al codice del suo atto; più una macchina è com- regno magico e alchemico in cui essi operano in reciproca indeterminazione. plessa, più un algoritmo viene performato, arrivando a Gli algoritmi allargano la distanza tra formare sequenze temporali significative, benché imper- codice ed esecuzione, tra software ed cettibili all’operatore umano. Studi sulla temporalità mac- esperienza» (Finn 2017, 34). chinica come quelli di Wolfgang Ernst (2016) mettono bene 208 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 201 — 211 III. Tecnoplastia.Note sulla poiesi macchinica Gregorio Tenti materiale del programma. Contro un concetto astratto di macchina, che la intende come identica al suo codice, occorre dunque enfatizzare che “qualcosa accade” durante l’esecuzione della funzione attorno a cui la macchina si costruisce. Questo eccesso, lo ribadiamo, corrisponde a una determinazione di campo che emerge come risonanza degli effetti: è la riflessività, o meglio l’«auto-affezione» ricorsiva (Leoni 2021, 150), a proiettare la macchina oltre il meccanismo. Si tratta di un aspetto che appartiene già da sempre al concetto moderno di macchina, almeno a partire dalla «macchina differenziale» di Babbage, capace di operare sulle proprie operazioni. Non è ancora una questione di auto-osservazione, bensì per l’appunto di ricorsività in quanto dinamica auto-affettiva. In questo senso von Foerster (2007), infine, distingue le «macchine banali», che si limitano ad eseguire il compito prescritto, dalle «macchine non banali», che producono output differenti in relazione a uno stesso input. Le macchine non banali sono sensibili alla contingenza in virtù di un loro «stato interno», non possono essere descritte analiticamente, e sono quindi imprevedibili. Lungo la strada aperta dalla cibernetica, enfatizzare il ruolo della contingenza significa enfatizzare l’autonomia e persino la creatività della macchina, simultaneamente trasformando alla radice i nostri concetti di autonomia, creatività e contingenza. Tecnoplastia.Note sulla poiesi macchinica Gregorio Tenti 209 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 201 — 211 in luce questa «drammaturgia» in cui «l’essere tecno-mediale è sempre già un essere-in-esecuzione [Sein-im-Vollzug], e produce la sua esistenza mediale come tempo» (Ernst 2016, 209). Ciò che abbiamo già descritto come innesco dell’irreversibilità in senso genetico corrisponde, secondo Ernst, a una specifica temporalità non cronologica o «narrativa», ma kairotica o «critica», legata alla potenza genetica della ricorsività. In questo senso è ammesso parlare di «live computing», «computazione viva» (Ernst 2016, 7). Nel caso delle macchine del caos, ciò che si costruisce intorno alla performance (ovvero all’atto come eccesso non codificabile) è un campo temporaneo, non un soggetto; al centro si pone l’atto in sé, che tramonta non appena esaurisce il proprio «essere-in-esecuzione». Giungiamo così a una definizione di macchina che deriva da tutto ciò che abbiamo detto. Come la prima cibernetica mette bene in evidenza (si pensi di nuovo a Ashby 1971), le macchine sono strutture provvisorie, funzionali a far emergere processi; e questo effettualismo – comprendere cioè le cose non in base a ciò che sono, ma in base a ciò che fanno –, come notava Simondon (2016), è il portato più profondo della cibernetica. Questo non significa necessariamente che le macchine si identificano con uno scopo unico, ma che vanno a costituire dei regimi enunciativi locali intorno all’attualizzazione di una virtualità. Per descrivere le macchine così intese potremmo usare il termine automaton, con riferimento ai cosiddetti cellular automata più che agli automi informatici (i quali sono generalmente deterministici e tempo-invarianti). Quelli che Stephen Wolfram (1994, 143ss.) descrive come automata di classe 3, in effetti, rendono conto esattamente dei fenomeni di emergenza di strutture dal caos, fenomeni liminari tra fisica e biologia ma non ancora caratteristici della vita. Usiamo infine il termine “tecnoplastia”, derivandolo da “teleplastia”, per designare questi automi creativi. Come la teleplastia è l’ambito di materializzazioni spettrali e apparizioni senza soggetto, così la tecnoplastia si occupa del “fantasma nella macchina” – ovvero di ciò che la macchina è al di là delle sue componenti fisiche e delle sue interazioni meccaniche – nei suoi aspetti produttivi, plastici, o poietici. Al contempo la tecnoplastia sarebbe una branca della «meccanologia», intesa simondonianamente come «disciplina o modo di pensare che funge da “psicologia” o “sociologia” delle macchine» (Rieder 2020, 16); nonché uno strumento contro la rampante «teocrazia della computazione» (Bogost 2015), che enfatizza – in chiave di volta in volta critica o apologetica – l’immaterialità delle nuove leggi algoritmiche. Come ci siamo occupati di precisare, la potenza genetica dei sistemi caotici che le macchine del caos riprendono si lega a un’idea “minore” di creatività, se paragonata alla creatività “maggiore” dei sistemi viventi. In questo senso una poiesi macchinica corrisponde alla capacità materiale e a-soggettiva, pre- o ultra-individuale, di rendersi sensibili all’eterogeneità infinitesima di tutta la realtà, ovvero alla contingenza stessa. Il problema più importante delle pratiche tecnoplastiche non è riprodurre l’individuazione o l’auto-replicazione (come è invece per la ricerca nell’ambito della «vita artificiale»: cfr. Johnston 2008), ma simulare la vita materica della natura, la molteplicità che pertiene alla materia viva. Si potrebbe allora tracciare un’analogia tra una creatività finalizzata alla “grande opera”, come quella artistica e biologica, e una creatività che emerge dalla relazione tra Tecnoplastia.Note sulla poiesi macchinica Gregorio Tenti 210 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 201 — 211 minime differenze, come quella poietica e materica. La posta in gioco, per concludere, resta quella di cui parlava Lyotard (2015, 35): «si tratta (in francese esiste questa graziosa e precisa espressione) di “dar corpo” [donner du corps] al pensiero artificiale», e di riconoscere le macchine come atti dallo statuto essenzialmente materiale, benché non materico in senso stretto. Atlan, H. 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I suoi interessi di ricerca vertono su media e forme dell’educazione, teoria generale dei mezzi di comunicazione e sfera pubblica. giancarlo.corsi@unimore.it Despite the enormous amount of publications on the subject, sociology has not yet succeeded in providing a clear and unified definition of communication media. Drawing on Niklas Luhmann’s systems theory, which distinguishes different types of media according to the threshold of improbability they must cross (understanding, reaching distant addressees, acceptance), and taking up contributions from different disciplines (Fritz Heider’s psychology, Heinz von Foerster’s cybernetics, and George Spencer Brown’s calculus), this article aims to show that it is possible to approach a unified definition of medium. If by medium we mean a potential in which forms can be imprinted, then it is necessary to distinguish between operational and observational media. The former, corresponding to communication technologies, condition the way Ego and Alter Ego participate in communication, combining, loosely or tightly, information, utterance and understanding. Observational media, on the other hand, enable the construction of reality in its various forms and are specific especially (but not only) to the subsystems of modern society (power, money, scientific truth, etc.). — LUHMANN — MEDIA — COMUNICAZIONE — TEORIA DEI SISTEMI — SOCIOLOGIA Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale Giancarlo Corsi Giancarlo Corsi 213 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 213 — 231 Sociologia dei mezzi di comunicazione. Considerazioni per una teoria generale Dopo circa un secolo di ricerche e studi, la sociologia non è ancora riuscita a fornire una definizione chiara e unitaria di mezzo di comunicazione. Si è proceduto piuttosto in senso negativo, criticando e poi escludendo definizioni empiricamente e teoricamente poco sostenibili. È il caso, per es., della metafora del trasferimento di informazione o dell’idea che i media siano estensioni dei sensi umani. Un’altra difficoltà deriva dall’imporsi dell’informatica, che sotto l’etichetta “ICT” sta monopolizzando l’attenzione, benché le competenze di questa disciplina non vadano molto oltre l’aspetto tecnologico. L’unico tentativo sociologico in grande stile è quello della teoria dei sistemi di Niklas Luhmann, secondo cui la funzione dei mezzi di comunicazione è superare tre soglie di improbabilità (Luhmann 1997, 190ss): l’improbabilità di capirsi, l’improbabilità di raggiungere destinatari lontani e l’improbabilità che la proposta comunicativa venga accettata. I media corrispondenti sono: linguaggio, mezzi di diffusione (scrittura, stampa, televisione ecc.) e mezzi di comunicazione simbolicamente generalizzati (denaro, potere, verità scientifica e altri). Ma anche in questa teoria molto sofisticata e astratta manca un concetto unitario di medium comunicativo. [1] [1] Nella letteratura si registra una Lo stesso Luhmann, però, offre spunti che meritano tendenza contraddittoria: da un lato si vorrebbe rispondere alla domanda di essere sviluppati e che riprendono contributi ormai noti “cosa è un medium?” e dall’altra non si e discussi non solo in sociologia, ma anche nelle scienze vuole ricorrere a grand theories (cfr. tra cognitive e cibernetiche, in particolare la distinzione tra tanti Winthrop-Young 2000). medium e forma di Fritz Heider, il concetto di osservazione di secondo ordine di Heinz von Foerster e le “leggi della forma” di George Spencer Brown. Si tratta comunque di spunti che non sono stati davvero sistematizzati e organizzati in vista di una teoria unitaria. In questo articolo intendo mostrare che combinando queste impostazioni molto astratte è possibile quantomeno avvicinarci a una definizione unitaria del concetto di mezzo di comunicazione. Vediamo come. Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale Giancarlo Corsi Introduzione: mancanza di una teoria generale dei media 214 Per impostare una teoria dei mezzi di comunicazione è necessario chiarire il concetto di base dal quale dobbiamo partire: il concetto di comunicazione. Diverse discipline sembrano convergere su un punto: una comunicazione “produce” sempre un’informazione, cioè il suo contenuto, e allo stesso tempo attribuisce la scelta dell’informazione a chi ha parte attiva. La terminologia è variabile, naturalmente, ma il punto sembra essere lo stesso, per quanto in modo non del tutto chiaro: si parla allora delle due componenti di comando e resoconto (Ruesch & Bateson 1951/76, 179181), di aspetti constativi e performativi (Austin 1962/87, infra) oppure di enunciato (Mitteilung) [2] e informazio- [2] Questo termine è impossibile da tradurre in modo univoco. In ne (Luhmann 2018, 21-22), terminologia, quest’ultima, che tedesco corrisponde all’italiano adottiamo qui. Spieghiamo di cosa si tratta. “comunicazione”, nel senso di notifica. qui con enunciato anche Con informazione si intende il contenuto della Traduciamo per rimandare al fatto che anche comunicazione, che comporta sempre un qualche effetto le discipline che si occupano del di sorpresa (che può anche consistere nel fatto che si linguaggio vedono distinzioni analoghe. sapeva già ciò che è stato detto). L’informazione, in questo Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 213 — 231 Il concetto di comunicazione Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale Giancarlo Corsi 215 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 213 — 231 senso è una differenza (dato che indica qualcosa distinguendola da altro) che fa una differenza (dato che avrà conseguenze diverse per i destinatari), secondo la celebre definizione di Gregory Bateson (2011. Cfr. anche MacKay 1969, 60). Su un concetto così tanto studiato può bastare questa minima definizione. L’enunciato indica la prestazione selettiva di chi avvia una comunicazione. Quando parliamo di intenzione, per esempio, ci riferiamo a questo aspetto della comunicazione: affermare qualcosa (informazione) presuppone che chi afferma abbia considerato altre possibilità e che quindi sia responsabile di ciò che afferma. Senza questo, non si può parlare di comunicazione. [3] Che l’enunciato sia costi- [3] Per esempio, che oggi sia una giornata e che guardando fuori tutivo della comunicazione, lo si vede bene nel fatto che la bella dalla finestra ce ne rendiamo conto, comunicazione successiva ha sempre due possibilità: può non ha ancora nulla di sociale. Ma nel momento in cui lo comunichiamo continuare attenendosi all’informazione oppure all’enun- (rendendo il tutto sociale), diciamo ciato. Nel primo caso, semplicemente si avranno altri con- anche qualcos’altro: forse che fare una passeggiata o che tributi al tema trattato; nel secondo, si chiederà perché chi vorremmo invece dobbiamo comunque lavorare ha detto ciò che ha detto lo ha detto, cosa intendeva e così in ufficio e questo ci mette di cattivo via, attribuendo quindi una selettività che può prendere umore. anche la forma di responsabilità o di intenzione. A queste due selettività, dobbiamo aggiungerne una terza, la comprensione. Il motivo è empiricamente piuttosto evidente: una comunicazione può realizzarsi solo se il destinatario, in qualche modo (cioè selettivamente), comprende. Inoltre, solo chi ha compreso può avere qualcosa da dire in comunicazioni successive. E viceversa: chi avvia una comunicazione ha sempre in mente chi, quando, come, perché e anche se, potrà comprendere. “Comprendere” qui non significa soltanto cogliere il senso dell’informazione, ma anche distinguere il lato informativo da quello dell’enunciato. Solo in questo caso ci è evidente che si tratta di comunicazione e non di percezione (di un comportamento). [4] In ogni operazione comunicativa, queste tre unità [4] Anche qui non è difficile rendere l’idea con un esempio, pensando selettive si generano e si danno solo simultaneamente. alla sensazione che si prova quando, Adottando una classica distinzione sociologica, la comuni- avviando un contatto online, ci conto che stiamo parlando cazione si realizza solo nel momento in cui Ego comprende rendiamo con un bot e non con un essere ciò che Alter Ego ha inteso affermare, anche nel caso in cui umano: smettiamo immediatamente attribuire qualunque forma di tra l’enunciato di Alter e la comprensione di Ego sia pas- di intenzione al nostro “interlocutore”, sato del tempo. Inoltre, se e quando si realizzi una comuni- dando per scontato che non è in grado capire, e iniziamo a cercare parole cazione è stabilito dal sistema sociale nel quale ciò avviene, di chiave o equivalenti che supponiamo non dai partecipanti. Non c’è dubbio che, quando si dice siano riconoscibili da parte Oppure, semplicemente, qualcosa a qualcuno in modo esplicito, si può dare per scon- dell’algoritmo. scriviamo una qualche frase triviale, tato che si sia realizzata una comunicazione e che questo sia sapendo però che i programmatori lo hanno previsto – e ci arriverà una proprio ciò che si voleva; ma sul senso sociale e sulle con- risposta adeguata. seguenze di quanto si è detto non decide chi parla o scrive e nemmeno chi comprende. Soprattutto nelle comunicazioni di massa, questa è diventata nel frattempo una ovvietà, dato che nessuno può prevedere cosa accadrà in seguito a una dichiarazione pubblica. Dobbiamo sottolineare un’ultima peculiarità della comunicazione, necessaria per le considerazioni successive. Ogni comunicazione si realizza sempre come singolo evento: non appena realizzatasi, cioè non appena compresa, la comunicazione è anche già finita, lasciando spazio ad altre (eventuali) comunicazioni. Si tratta di un evento senza durata temporale. In questo senso molto preciso conviene definirla come “operazione” Iniziamo con una precisazione: non esiste comunicazione immediata, nel senso di non mediata. Nemmeno quella orale lo è: serve pur sempre almeno il linguaggio per potersi capire. Nessuna empatia e nessun neurone specchio potrà mai consentire di “accedere all’altro”. Non solo: per poter capire su cosa si sta comunicando, cioè per rappresentare la realtà in modo generalizzabile, che si tratti di un villaggio tribale o della “società mondiale” di oggi, bisogna elaborare schematismi ai quali orientarsi. Quindi non solo la singola operazione comunicativa è sempre mediata, ma lo è anche il suo contenuto, la realtà sulla quale si comunica. È allora opportuno distinguere tra due problemi: 1) quali sono le condizioni perché una comunicazione abbia luogo? 2) Come fare in modo che i suoi contenuti non abbiano solo un senso occasionale e congiunturale, cioè legato alla situazione concreta specifica in cui la comunicazione ha luogo, ma possano essere condensati in forme generalizzabili e confermati o meno nei processi comunicativi? Possiamo formulare queste domande su un piano più astratto. Ogni comunicazione osserva la realtà e allo stesso tempo è reale in quanto operazione. [5] In altre parole, ogni comunicazione propone sempre un contenuto, che può trovare seguito [5] Naturalmente, quanto stiamo vale anche per quello che o meno. Ma ogni comunicazione è anche un evento che dicendo stiamo dicendo: definire così la accade realmente, che riproduce la società, che presuppone comunicazione richiede l’uso di particolari (qui: operazione/ altri eventi precedenti e può essere il punto di aggancio di distinzioni osservazione). Un’altra teoria altri eventi successivi. [6] Ed partirebbe da presupposti diversi e definirebbe la comunicazione in un è un evento che può essere [6] Quando uno scienziato altro modo. i risultati della propria osservato da un osservatore pubblica ricerca, per esempio, fa due cose per il quale vale la stessa contemporaneamente: propone un’osservazione della realtà, che condizione, perché per deriva dalle teorie che applica, e osservare deve operare. [7] opera realmente come osservatore, [7] Questo consente di prendere contribuendo alla riproduzione del distanza da impostazioni che per Possiamo quindi par- sistema sociale della scienza. definire i media insistono su ciò che producono in termini materiali o ne lare di realtà in due sensi: la cercano la “fattualità”. Si veda per realtà dell’osservatore e la Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale Giancarlo Corsi Operazione/osservazione: la doppia realtà della comunicazione 216 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 213 — 231 sociale, più che come “elemento”, termine, quest’ultimo, che rimanda più o meno a qualcosa di duraturo. Questa succinta presentazione del concetto di comunicazione ci porta ora alla domanda centrale: cosa si intende con “mezzo” di comunicazione? Qui la situazione è più complicata. Come abbiamo visto sopra, l’unico tentativo di applicare tale concetto viene dalla teoria dei sistemi, che definisce i mezzi di comunicazione in base alla funzione che svolgono: superare soglie di improbabilità (comprensione, raggiungimento di destinatari non presenti fisicamente, successo della comunicazione). Ma cosa si intenda con medium, dato che con tale concetto si vogliono indicare casi molto diversi tra loro, come linguaggio, stampa, potere e denaro ecc., resta poco chiaro. Abbiamo anche detto che proprio questa stessa teoria ha tentato di percorrere altre vie, combinando contributi teorici che provengono da altre discipline, anche molto lontane tra loro, e che possono essere utilizzati in vista di una teoria generale dei mezzi di comunicazione. Questo è quanto cercheremo di fare. Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale Giancarlo Corsi 217 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 213 — 231 realtà osservata. La teoria dei sistemi propone di utilizzare esempio Phillips (2017), inaugurando una nuova una distinzione specifica, la distinzione rivista dedicata operazione/osservazione, [8] che è decisiva [8] Questa distinzione si basa sul a Media Theory, calcolo formale di Spencer Brown il quale discute per la proposta che vogliamo avanzare in (1969; 1993) e sul concetto di le proposte questo articolo. La nostra ipotesi, infatti, autopoiesi di Maturana (Maturana di un autore Varela 1980/85). Si veda in forma importante degli è che i mezzi di comunicazione si possano &molto chiara Luhmann (2018[2011], studi mediatici distinguere a seconda se “mediano” il lato 122ss). Cfr. anche Luhmann (Kittler 2009) che invita a operativo o quello osservativo delle comu- (2007[1988]) ed Esposito (1992). considerare nicazioni. In ogni comunicazione, quindi, “commands, addresses, and data, that is, sono sempre all’opera due media contemporaneamente: proceedings, transmissions, and un medium per renderla possibile come operazione e un memories” il nucleo centrale dei Ma così viene a mancare medium per osservare la realtà. Vediamo di cosa si tratta, media. proprio la contemporaneità di per ora in prima approssimazione. operazione e osservazione: i richiedono In quanto operazione, la comunicazione non fa altro commands-proceedings schemi osservativi, dentro ai quali è che riprodurre il sistema sociale al quale afferisce, contri- irrilevante quale command si scelga operativamente, gli addresses/ buendo alla sua autopoiesi (Maturana/Varela 1980/85). Su transmissions non coincidono certo questo piano non interessa altro, che si tratti di un discorso con i pali del telegrafo (dal punto di vista sociale) e i data non sono politico, di una chiacchiera al bar o di una funzione reli- memories, nemmeno le biblioteche giosa. Ciò che è decisivo è che le tre unità selettive, infor- – memoria è solo ciò che viene usato operativamente per osservare (sulla mazione, enunciato e comprensione, si producano, realiz- memoria si vedano Esposito 2001 e zando così l’operazione comunicativa. Come si producano Cevolini 2016). e come vengano connesse tra loro – a questa domanda rispondiamo: mediante il linguaggio e quei media noti come “tecnologie della comunicazione” o “mezzi di diffusione”, terminologia, questa, che però deve essere cambiata, e non perché non si tratti effettivamente di tecnologie (scrivere, stampare, trasmettere immagini ecc.) o di diffusione (il superamento della distanza tra gli interlocutori è chiaramente un’enorme conquista), ma perché così si finisce per lasciare sullo sfondo, se non da parte, la vera funzione di questi media, che è connettere in una stessa operazione le tre unità selettive. Per questo, li chiamiamo media operativi, poiché non determinano i contenuti della comunicazione, ma solo le modalità operative della sua realizzazione, cioè il modo in cui Ego e Alter Ego possono partecipare alla comunicazione e in questo sta la loro portata storico-evolutiva. [9] [9] Che questi media possano anche in modo “catastrofico” Ma non è tutto. Ogni comunicazione, avendo un ilcambiare sapere di una società, non viene contenuto, è anche osservazione della realtà e per osser- certo messo in discussione; ma dipende anche dal grado di vare utilizza distinzioni, schemi o cornici, che delimitano questo complessità raggiunto dalla società. e specificano ciò che è possibile comunicare e che, come Inventare la stampa nell’Europa del XV secolo è molto diverso dall’inventarla da qualche decennio sostiene il costruttivismo, sono sem- in Corea-Cina parecchi secoli prima. pre e solo costruzioni dell’osservatore. La “realtà reale” non Effetti come la nascita dell’opinione la neutralizzazione morale solo è inaccessibile, ma non è in alcun modo istruttiva, nel pubblica, delle novità e il conseguente interesse senso che non dice in base a quali categorie concettuali per la devianza, l’invenzione di motivi, ipocrisia e altri concetti possa essere osservata. Nessuno, tantomeno il costruttivi- interesse, analoghi, richiede presupposti smo, nega che esistano oggetti come mele o opere d’arte sociostrutturali molto precisi. Non né che ci siano persone alte e persone basse. Ma il senso di basta il medium della stampa. queste osservazioni non deriva certo da ciò che esse indicano, ma solo dall’osservatore che produce tale senso e lo applica operativamente. Qualunque sia la distinzione che viene usata per osservarla, quindi, la realtà non può che essere una costruzione reale (osservazione) di un osservatore reale (operazione). [10] [10] E questo vale naturalmente anche per noi, che osserviamo la realtà La domanda è allora: come vengono costruite le con strumenti teorici molto particolari. Loose/tight coupling sociale: la causalità, lo spazio e il tempo, che sono anch’essi costruzioni sociali (e psichiche) non dedicate, ma universali. Cfr. Luhmann (2017, 46–64). Partiamo da due esempi di media molto diversi, ma tra i più evidenti, e vediamo cosa hanno in comune: il linguaggio e il denaro. La prima caratteristica che salta agli occhi è che mettono a disposizione un potenziale combinatorio. Suoni linguistici, lettere, parole e frasi possono essere combinate tra loro praticamente senza alcun limite (se non il senso che si vuole comunicare). Il denaro fonda la sua impressionante potenza sociale innanzitutto sul fatto che può essere utilizzato solo nella forma di unità e quindi di somme; anche qui, le possibilità combinatorie sono infinite, limitate solo da prezzi e budget. Ammesso che questa proprietà possa essere rilevata in tutti i mezzi di comunicazione, operativi e osservativi, ciò che interessa è il fatto che i media sono costituiti da una quantità di elementi che lasciano indeterminato come utilizzarli e che solo nella comunicazione concreta assumono una forma precisa: nel primo caso, per esempio, una frase o un testo (orale o scritto) o, nel secondo, una transazione. Questa prima definizione, ancora molto essenziale, richiama in modo diretto il concetto di medium proposto da Fritz Heider (1926; 1959) ormai un secolo fa nei suoi studi sulla percezione sensoriale. L’idea di Heider è che la vista e l’udito, i due casi studiati nelle sue ricerche, sono possibili grazie ai media della luce e dell’aria. Questi media mettono a disposizione degli elementi (lunghezze d’onda, particelle) che in quanto potenziale (medium) non sono percepibili perché connessi tra loro in modo lasco; solo se e quando questi elementi vengono accoppiati in modo stretto si possono percepire “cose” (o forme, come diremo qui: oggetti visibili, suoni). L’aria non Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale Giancarlo Corsi 218 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 213 — 231 distinzioni e all’interno di quali delimitazioni (cornici) Un’altra teoria (se ci fosse!) “vedrebbe” possono essere elaborate e utilizzate operativamente? La una realtà diversa. nostra ipotesi è: mediante media comunicativi specifici, che chiamiamo media osservativi, che nella società attuale comprendono anche quei media come il denaro o il potere, ai quali la sociologia di impostazione sistemica attribuisce la funzione di rendere probabile il successo di comunicazioni altamente improbabili. Non mettiamo in discussione questa funzione, ma ne vediamo un’altra più generale, che si estende a tutti i sottosistemi della società e cioè: osservare la realtà dal loro punto di vista, quindi costruirla e renderla disponibile per la comunicazione. La scienza, per esempio, costruisce una realtà “oggettiva”, fatta di atomi, cellule, corpi celesti, strutture psichiche e sociali e così via; l’arte propone una realtà di tipo del tutto diverso, naturalmente, che sfrutta la percezione umana per sorprendere, affascinare e irritare la comunicazione in modo quanto più possibile idiosincratico; la religione invita a vedere sempre anche il lato trascendentale in qualunque realtà immanente, e sappiamo bene quanto queste osservazioni della realtà possano essere attraenti e motivanti. Vedremo poi più nel dettaglio come funzionano alcune di queste costruzioni della realtà, anche nei casi del diritto, della politica, dei mass media e di altri. Per ora è importante sottolineare il punto: questi media generano (osservano) il mondo sul quale è possibile comunicare. [11] [11] I media osservativi non si limitano certo a quelli dei sottosistemi. Ci sono Ma abbiamo ancora un problema da risolvere: dob- media osservativi trasversali, nel senso biamo capire cosa significhi il termine “medium”. che fungono per qualunque situazione Media operativi I media operativi, come abbiamo accennato, hanno la funzione di accoppiare in modo stretto o lasco le tre unità selettive della comunicazione. A seconda che si tratti di oralità, di scrittura, di stampa o dei media più recenti (radio, televisione, media digitali ecc.), cambia il modo in cui enunciato, informazione e comprensione vengono connesse tra loro. Dobbiamo Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale Giancarlo Corsi 219 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 213 — 231 fa rumore e la luce non si vede; noi possiamo solo udire suoni e vedere oggetti che riflettono la luce. I media sono quindi sempre impliciti e la loro “presenza” può essere osservata solo nelle forme che in essi vengono impresse. [12] La loro funzione è creare [12] Questo concetto di Heider è stato in diverse discipline, seppur un potenziale, immaginare (creare, estendere, ridurre, ripreso con molte variazioni. Nella teoria dimenticare) possibilità, che poi devono essere conden- dell’organizzazione per esempio da Weick (1976/88) e in sociologia sate in forme da un osservatore. Senza tale osservatore, il Karl dalla teoria dei sistemi (Luhmann medium non esiste. 2011/18, 191-192). In un contesto del tutto diverso, il fatto che il medium (il Basandoci su questa definizione di medium e linguaggio) si nasconda e non si possa riprendendo quanto detto sopra, i mezzi di comunica- osservare come tale, è stato rilevato anche da Maurice Merleau-Ponty, La zione devono fare almeno due cose: (1) accoppiare in modo prosa del mondo, citato da Wiesing stretto o lasco le unità selettive di ogni singola operazione (2009). Wiesing, però, si attiene alla distinzione di Edmund Husserl genesi/ comunicativa, creando un potenziale che può essere deli- validità, sostenendo che solo la validità mitato e specificato (2) da altri media costituiti da ele- (intersubjective self-sameness) consente di leggere, udire o vedere menti (accoppiati in modo lasco) che alla comunicazione tramite media. Echi della Geltung di appaiono come realtà (accoppiamento stretto). Questo Habermas? E poi: come si potrebbe corrisponde alla distinzione che abbiamo introdotto sopra comunicare senza media? tra media operativi e media osservativi. Prima di entrare nel dettaglio, però, è necessaria una premessa. La società, e quindi la comunicazione, nasce solo quando è stato possibile costituire i due media fondamentali, dai quali parte ogni possibile evoluzione successiva: il linguaggio e il senso. Che siano condizione fondamentale di qualunque forma di società è evidente, se si pensa che non è possibile comunicare senza questi due media portanti e che non è possibile attualizzare linguaggio senza senso o senso senza linguaggio. Da essi derivano tutti gli altri media, operativi e osservativi. Il linguaggio, medium operativo che nella sua prima forma è orale, è necessario perché ci si possa capire combinando suoni o lettere (e forse altro, con i media più recenti). Solo a questa condizione basilare è possibile il passaggio evolutivo a modalità comunicative a distanza, prima scritte, poi anche stampate, che sfruttano le immagini in movimento o che rendono irrilevanti le distanze spaziali. Ogni medium operativo presuppone il linguaggio. Il senso, invece, è il medium osservativo che consente di distinguere costantemente tra ciò che è attuale nella comunicazione (il suo contenuto del momento) e ciò che ci si può immaginare come altre possibilità (altri contenuti al momento non attualizzati) (Luhmann 2018[2011], 187ss). Dalle prime forme di socialità, che possiamo solo vagamente immaginare, fino alle grandi civiltà del passato per arrivare alla modernità, questo medium è semplicemente il presupposto di ciò che è possibile comunicare osservando la realtà. Da qui si articola qualsiasi altro medium osservativo. Vediamo ora come funzionano i due differenti tipi di media, limitandoci agli aspetti principali. Iniziamo dai media operativi. Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale Giancarlo Corsi 220 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 213 — 231 però ammettere che gli unici media dei quali sappiamo abbastanza per sostenere la nostra tesi sono i primi tre; sugli altri dovremo accontentarci di supposizioni ancora piuttosto grezze. Per quanto riguarda l’oralità, basata sull’interazione, la caratteristica più evidente è la contemporaneità (l’accoppiamento stretto) di enunciato e comprensione. Essendo Ego e Alter Ego presenti fisicamente, nel momento in cui Alter enuncia ciò che vuole dire, Ego comprende. Si tratta della situazione sociale più elementare, o meno complessa, rispetto alle successive: l’unica condizione che deve essere garantita è la comprensione, e il linguaggio la garantisce. Ma per cogliere la peculiarità della comunicazione solo orale, conviene vedere cosa cambia con l’invenzione della scrittura. La scrittura allenta l’accoppiamento tra enunciato e comprensione, perché introduce un’asimmetria temporale: chi comprende, comprende in un momento successivo rispetto all’enunciato. Le conseguenze enormi di questa invenzione sono note: [13] [13] Gli studi classici in materia sono soprattutto: Havelock (1963/73; il testo deve essere comprensibile da sé, non essendoci chi 1986/87) e Ong (2002/1986). l’ha scritto per spiegare o sciogliere dubbi; questo comporta che l’informazione tende a “oggettivarsi” sempre più, mentre l’enunciato si profila in modo più netto, dato che l’informazione è più selettiva e quindi lascia quantomeno intuire quali possibilità sono state scartate. Non è un caso, quindi, che le grandi civiltà del passato, soprattutto a partire da quella greca, abbiano potuto sviluppare una semantica così raffinata. L’idea di metafisica ontologica, per esempio, cioè la rappresentazione della realtà come qualcosa che esiste indipendentemente da chi la osserva e che è quello che non non è, sarebbe impensabile senza la scrittura. Allo stesso modo, il diritto romano non avrebbe potuto basarsi su una grande quantità di casi distinti dalle fattispecie, classificabili e ordinabili indipendentemente dal contesto specifico nel quale si sono verificati. [14] [14] Questi esempi si possono aggiungere a quelli proposti da Ong In sostanza: mentre nelle società orali le tre unità (2002/1986, 131-174), quando dice che sono accoppiate tra loro in modo stretto, la scrittura disac- “la scrittura ristruttura il pensiero”. coppia l’enunciato dalla comprensione. [15] E come stanno le cose per quanto riguarda il rapporto tra informazione e [15] Come scritto all’inizio del capoverso precedente, con enunciato? “disaccoppiamento” intendiamo La nostra supposizione è che, nel lungo periodo che l’allentamento del “tight coupling”, cioè l’ampliamento dei margini di manovra va dall’invenzione della scrittura fino all’invenzione della quando si tratta (in questo caso) di stampa, queste due unità selettive siano rimaste accop- accoppiare enunciato e comprensione. tenga presente, infatti, che ogni piate in modo stretto. Il fatto è che in società post-tribali, Si comunicazione si realizza solo quando basate sulla preminenza di un centro (città, tempio) o, più arriva a un accoppiamento stretto le tre unità selettive. La scrittura tardi, sulle differenze di ceto (società nobiliari), le costru- tra consente al destinatario di riflettere su zioni della realtà restano di tipo più o meno dogmatico e ciò che comprende e gli lascia quindi più libertà di quella consentita ontologico, spesso con forti connotazioni morali. I margini molta dalla comunicazione orale interattiva. per deviare dai canoni sono ancora molto ristretti, anche Allo stesso modo, chi scrive deve bene tra ciò che vuole se molto sfruttati (interpretazioni “mirabili” dei testi, distinguere enunciare e ciò che vuole escludere. variazioni accettabili delle descrizioni della natura, assi- Anche qui, la gamma di possibilità milazione di irritazioni dovute a casualità ecc.). Le novità rispetto all’oralità è molto maggiore. (informazioni) devono potersi inserire nell’ordine cosmologico dato e le forzature sono sempre rischiose (eresie, aberrazioni morali). L’enunciato, da parte sua, si inserisce anch’essa in un quadro naturale già dato, che tipicamente presuppone qualità superiori di chi è nato bene o Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale Giancarlo Corsi 221 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 213 — 231 è stato beneficiato da Dio. [16] Nei termini della ciberne- [16] L’apologia di Socrate è un caso così come il destino di certi tica più recente: queste società sono ancora basate sull’os- esemplare, santi o le gesta di certi condottieri. servazione di primo ordine (la “natura”), mentre l’osservazione di secondo ordine è limitata alla sorpresa (meraviglia, ammirazione), che viene comunque neutralizzata nel senso appena visto. Questa distinzione tra due ordini di osservazione è molto importante per una teoria dei mezzi di comunicazione. [17] Con osservazione di primo ordine si intende il semplice fatto [17] Celebre distinzione proposta da che ogni comunicazione indica qualcosa, descrive una Heinz Von Foerster (1984/88). realtà che appare essere oggettiva. Anche qui, in questo testo, facciamo così: c’è una società, c’è qualcosa che chiamiamo comunicazione e così via. In questo senso, tutte le osservazioni sono di primo ordine. Ma quando l’osservazione si concentra su un “oggetto” particolare, cioè un osservatore, allora diventa di secondo ordine: non ci si chiede più se la preferenza dell’osservatore osservato sia condivisibile o meno, ma se la distinzione che utilizza sia necessaria, se abbia alternative altrettanto utilizzabili; ci si chiede cosa tale distinzione non possa vedere, dato che nessuna distinzione può racchiudere in sé il mondo, e così via. Un esempio piuttosto evidente è la morale, schematismo onnipresente sui mass media. Sul piano dell’osservazione di primo ordine ognuno può distinguere ciò che è bene da ciò che è male e apprezzare o disprezzare chi esprime preferenze in un senso o nell’altro. Se si passa sul piano dell’osservazione di secondo ordine, la situazione è del tutto differente: ci si chiede cosa si vede e cosa non si vede se si adotta una distinzione del genere e naturalmente anche se abbia senso distinguere così e cos’altro si potrebbe fare, finendo poi per arrivare a chiedersi come sia possibile ritenere che sia un bene distinguere tra bene e male. Una domanda che non può avere alcuna risposta, se non un paradosso. Questo significa osservazione di secondo ordine: osservare osservatori. È una cibernetica che descrive osservatori che osservano “contesture”, non semplicemente individui o oggetti. [18] La tesi della teo- [18] Si veda Günther (1979) e il suo di policontesturalità, che ria dei sistemi è che la modernità, a differenza delle società concetto comporta operazioni transgiunzionali precedenti, si sia assestata su questo piano, dove tutto ciò (1976). di cui si parla sui media viene filtrato dalla domanda “chi lo dice?”, “chi osserva in questo modo?”, “perché?” e così via. Ci si informa su ciò che accade tenendo conto di ciò che dicono altri osservatori e solo così si è in grado di dare un senso a notizie, avvenimenti, decisioni ecc. (si veda Luhmann 2018[2011], 121 et infra). Tra le conseguenze di questo passaggio evolutivo c’è il fatto che qualsiasi affermazione sul mondo è discutibile, anzi stimola gli osservatori a cercare alternative e varianti; inoltre che ci si interessa di ciò che l’osservatore osservato non può vedere, delle sue latenze o cecità – e molto altro ancora. Che questa modalità di osservazione si generalizzi solo nella modernità si vede dal fatto che molti concetti tipici dell’osservazione di secondo ordine, come interesse, motivo, ipocrisia e altri, fanno la loro comparsa molto tardi, quando l’equilibrio della stratificazione medievale comincia a vacillare. Molto tardi significa soprattutto: con l’invenzione della stampa. [19] Sarà la stampa, appunto, a spingere defi- [19] Anche qui è stata soprattutto la ricerca storiografica a mettere nitivamente in questa direzione rompendo l’accoppia- in evidenza alcune conseguenze di mento stretto tra informazione ed enunciato. Per capire questa invenzione. Testo di riferimento cosa significhi, dobbiamo tenere presente alcuni degli principale è Eisenstein (1983/97). Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale Giancarlo Corsi 222 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 213 — 231 effetti che questa invenzione ha avuto sulla società europea dell’epoca. Qui è importante non solo la soluzione del problema della dimenticanza, potendo stampare a prezzi ragionevoli senza preoccuparsi se i libri vengono distrutti. Importante è anche che la maggiore disponibilità di testi rende il sapere visibile, nel senso che chi vuole occuparsi di un certo tema non solo trova facilmente i libri, ma sa anche che quello che si trova davanti è il sapere esistente – non ci sono più libri segreti, misteriosi, nascosti chissà dove. Questo significa che scrivere un testo ha senso solo se si vuole proporre qualcosa di diverso, di nuovo, rispetto al sapere già disponibile. La novità viene via via sottratta alle valutazioni morali, anzi: diventa sempre più interessante e attraente, fino al punto da imporsi come criterio principale di qualunque autore. Questo porta alla graduale scomparsa di un concetto tradizionale fondamentale, quello di natura: la realtà del creato non fornisce più istruzioni univoche su come descriverla e interpretarla. È l’autore che deve metterci del suo e qui inizia quel processo che porta la società a posizionarsi sul piano dell’osservazione di secondo ordine. Se si vuole capire il senso di un testo, non bisogna osservare la realtà di cui tratta, ma il suo autore. [20] [20] Un caso esemplare della seconda del Cinquecento sono i Saggi Questo breve riassunto delle conseguenze dell’in- metà di Montaigne (2012), soprattutto la venzione della stampa è sufficiente a mostrare ciò che ci dedica al lettore. interessa: l’enunciato ora è osservato soltanto come intenzione soggettiva, quindi sempre discutibile e la sua legittimità può essere ogni volta contestata (Luhmann 1997, 302); l’informazione ora deve essere elaborata in modo molto più complesso rispetto a prima, per esempio trovando connessioni nei diversi sottosistemi della società moderna; chi comprende, infine, deve decidere cosa farsene e, se decide di dare seguito, può eventualmente farlo sfruttando quella libertà di deviare che ora è tanto garantita quanto paradossale. [21] Arriviamo così al disaccoppiamento tra enunciato [21] Effetti noti dei mass media: cercare di essere originali è quanto di e informazione, oltre che tra enunciato e comprensione, e più scontato si possa immaginare. con esso al definitivo riassestamento della società sul piano dell’osservazione di secondo ordine, dove si svilupperanno i media osservativi moderni. Cosa possiamo dire dei media operativi più recenti? Come si accennava, è difficile capire bene dove stia la novità di questi media e come essi connettano (in modo stretto, in modo lasco?) informazione, enunciato e comprensione. Dopo la stampa, la sequenza storica riporterebbe telegrafo, telefono, radio, televisione e tutto ciò che va sotto la denominazione di digitale, fino ai social media. Per quanto riguarda la semplice comunicazione a distanza consentita da telegrafo e radio, la novità più importante è la progressiva perdita di rilevanza delle distanze spaziali e quindi temporali. Che queste invenzioni siano state estremamente importanti non c’è bisogno di sottolinearlo; dal punto di vista di una teoria dei media operativi, tuttavia, non sembrano esserci conseguenze di grande rilevanza. O forse una, che riguarda soprattutto il telegrafo: si può supporre che comunicare a distanza in “tempo reale”, come si suol dire, invece che dover ricorrere a corrieri, stazioni di posta, messaggeri ecc., abbia alimentato la sensazione della contemporaneità del mondo – una contemporaneità non più divina, ma comunicativa. Tant’è vero che proprio in quel periodo il mondo viene sincronizzato con Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale Giancarlo Corsi 223 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 213 — 231 l’invenzione del tempo mondiale (fusi orari). Cos’abbia significato questo sul piano delle modalità operative per la società della seconda metà dell’Ottocento non è facile dire e richiederebbe ricerche apposite. In ogni modo, questo aspetto verrà poi amplificato dai media operativi successivi, primi fra tutti la televisione. Televisione significa immagini in movimento e, per quanto concerne la televisione come medium operativo, è questo che fa differenza. La combinazione di suono e immagine dà l’impressione di una realtà difficile da negare (ma non impossibile, per esempio per sospetto di manipolazione) e questo porta all’estremo l’impressione che il mondo sia accessibile (quasi) contemporaneamente a ciò che accade, ovunque accada. Luhmann fa notare che questo comporta una conseguenza non da poco e cioè che si sa che è comunicazione, ma non lo si vede (Luhmann 1997, 307). Di fronte a una ripresa televisiva viene a mancare la possibilità di accettare o rifiutare la comunicazione – si può naturalmente dire che si tratta di un falso, che il video è stato manipolato e così via, ma la soglia oltre la quale si rischia di passare per “negazionisti”, incorrendo in sanzioni sociali, è molto bassa. Dal nostro punto di vista è importante il fatto che è difficile distinguere chiaramente tra enunciato e informazione: [22] la ripresa televisiva ci dice sempre implicitamente che le cose sono [22] Come nelle società orali – ma qui base a condizioni del tutto diverse, andate così come si vede e si sente, e non altrimenti. Qui in ovviamente. si porta all’estremo il pregiudizio giornalistico della fattualità dell’informazione, al quale, naturalmente, oggi non crede più nessuno, nemmeno i giornalisti, che però non possono fare altro che ripeterlo. Ma non perché tutto è manipolazione – certo che lo è, ma chi sarebbe in grado di dimostrarlo, evitando di finire sospettato di fare esattamente la stessa cosa? E che differenza farebbe? Il punto è un altro: ciò che vediamo in televisione sarà anche corrispondente a ciò che la telecamera ha ripreso, ma il suo senso non è determinato da questa “fattualità”. Si tratta di una delle tante conseguenze dell’osservazione di secondo ordine: anche di fronte a un’evidenza, l’attenzione comunicativa si sposta subito sulle interpretazioni, sui commenti, sui pareri espressi, finendo per osservare comunque osservatori. Per questo la difficoltà di distinguere tra enunciato e informazione viene subito compensata, sui quotidiani, sui blog o sui social media, dalla cascata di reazioni che segue ogni trasmissione televisiva di un certo rilievo. Ma restiamo sul lato operativo del medium. La televisione amplifica ciò che la stampa ha generato per la prima volta, cioè la possibilità di comunicare unilateralmente (questo significa mass media) senza determinare né sapere quali saranno le reazioni. Ma mentre la stampa si affida a testi dai contenuti idiosincratici, la televisione riproduce una realtà che pretende di essere tale sfruttando la percezione sensoriale (vista e udito). Per questo, durante un dibattito, può bastare una goccia di sudore ripresa dalla telecamera per compromettere una campagna elettorale – o così dicono gli analisti politici. Due ultimi casi devono essere citati, non fosse altro che per le discussioni, spesso molto polemiche, che suscitano. Il primo sono i social media. Ciò che si nota immediatamente è che questi media consentono commenti e repliche a ciò che viene “postato” dall’autore. In questo senso non sono mass media, anche se si possono usare come se lo fossero (ma spesso al prezzo di dover disabilitare i commenti). La possibilità di commentare e Anderson (2008) e le perplessità di Piattelli Palmarini (2016). Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale Giancarlo Corsi 224 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 213 — 231 replicare è ovviamente tipica di qualsiasi comunicazione non massmediatica, ma qui colpisce il fatto che commenti e repliche si indirizzano molto rapidamente e inevitabilmente non all’informazione, ma all’enunciato. Come ebbe a notare Umberto Eco, [23] que- [23] Durante un incontro con i giornalisti in occasione di una laurea sto capitava e capita anche nelle chiacchiere al bar; nei honoris causa all’Università di Torino, social media, però, la platea è senza confini e perlopiù ano- nel 2015. nima. Si potrebbe dire che siamo all’apoteosi dell’osservazione di secondo ordine, dove, molto più che il tema di cui si tratta, interessa ciò che l’autore non vede o nasconde, a parere dei commentatori, per i quali valgono poi le stesse condizioni. Non a caso, in questi media fraintendimenti, incomprensioni, contestualizzazioni del tutto arbitrarie e spesso prive di senso, sono all’ordine del giorno, così come insulti, provocazioni e anche varie forme di violenza comunicativa. Il secondo caso riguarda una frontiera che si è aperta di recente, legata allo sviluppo impressionante delle tecnologie di calcolo: parole chiave sono algoritmi, big data, deep learning e altro ancora. Che con le macchine si possa “parlare”, non è più una novità, ormai; ma gli algoritmi più recenti hanno una tale capacità di interagire con gli esseri umani, da far pensare a una nuova forma di “comunicazione artificiale” (Esposito 2022). Dove vadano a collocarsi le tre unità selettive della comunicazione è difficile dire. Distinguere tra enunciato e informazione quando si ha a che fare con questo genere di algoritmi non sembra possibile; tuttavia, molta informazione si genererà sempre più in questa forma. Ma qui possiamo solo attendere gli sviluppi. A questi problemi se ne aggiunge un altro: queste macchine vengono utilizzate anche per trovare connessioni e correlazioni nei più diversi settori, connessioni e correlazioni che non si potrebbero rilevare senza di esse. Il problema in questo caso sembra stare nell’affidabilità delle correlazioni (cioè accoppiamenti stretti) tra elementi. In campo medico, per esempio, immagino non sarà facile valutare il senso clinico di correlazioni particolarmente sorprendenti, anche se siamo abituati da tempo a leggere di tutto sui mass media: basti pensare alla lista delle sostanze cancerogene, ormai lunghissima e quindi sempre meno credibile. Oppure in campo assicurativo, dove si è sempre ricorsi alla statistica e ora si cerca di andare oltre, verso una radicale personalizzazione dei profili (cfr. Cevolini & Esposito 2022); cosa penserà il cliente delle correlazioni che la compagnia ha rilevato e che lo fanno apparire particolarmente a rischio? Sarà sufficiente attribuire la responsabilità all’algoritmo? Resta il fatto che queste tecnologie spingono all’estremo la “solubilità” della realtà, ponendo la questione di chi (o cosa) e come dovrà poi imprimere forme nell’enorme medium dei “dati”. Da questo punto di vista non sono media operativi, ma media che possono (oggi forse devono) essere usati per costruire rappresentazioni della realtà. Servono quindi ai media osservativi, con rilevanze diverse a seconda del sottosistema che li utilizza. [24] Ciò che colpisce nel modo [24] Sulla storia dell’indicizzazione del sapere, che ha richiesto molto tempo in cui certi “guru” parlano di questa novità, è la pretesa per sganciarsi da criteri naturali per di spacciare i dati come realtà: i dati sono il reale e attra- arrivare alla semplice decomposizione del sapere verso i dati sapremo tutto ciò che c’è da in vista di sapere. [25] Una pretesa che non potrà però [25] Si vedano alcune interviste ricomposizioni condotte su La Lettura a due di imprevedibili, si sottrarsi all’osservazione di secondo ordine: questi “guru” del settore: Domingos veda Cevolini i dati sono reali in quanto costruzioni reali (2016); Pasquale (2016). Si veda anche (2022). La funzione di questi media è costruire la realtà, cioè elaborare qualsiasi contenuto sul quale sia possibile comunicare. Per quanto riguarda le condensazioni mediali del senso che guidano la comunicazione su vasta scala, dal punto di vista storico-evolutivo potremmo citare le prime forme di religiosità magica e di normatività delle società tribali o le idee di virtù e di natura che hanno dominato la società premoderna. In questi come in altri casi si trattava di distinzioni, di schemi (frames) che aprivano un potenziale da attualizzare nelle operazioni comunicative: ciò che del mondo era inspiegabile doveva trovare sublimazione nei rituali e ciò che doveva essere atteso come norma doveva essere visibile come dono, come vendetta o come controversia. In epoca successiva, la virtù e il lato positivo della natura dovevano vedersi nella vita activa, non bastava “essere nato bene”, e questo vincolo costruiva quel potenziale dove poi imprimere forme, come le “cose grandi” (magnifiche), le imprese, le figure di nobiltà superiore e così via. Qui però dobbiamo limitarci al caso specifico della società contemporanea, quindi alla differenziazione funzionale e ai suoi sottosistemi, anche se non in tutti i casi sarà chiaro come tali sottosistemi elaborino il loro medium. Vediamo intanto i più evidenti. [26] La verità scientifica è forse il caso meno complesso, [26] Per quanto riguarda il modo in cui la teoria dei sistemi analizza questi proprio perché la scienza si limita a descrivere la realtà in media rimando a Baraldi et al. (2021). modo “oggettivo” e quindi i suoi elementi mediali sono semplicemente ciò di cui è fatto ciò che chiamiamo realtà: atomi, cellule, basi azotate, nebulose, sinapsi, comunicazioni e così via. Ogni forma che la scienza imprime nel medium della verità è sempre un accoppiamento stretto tra elementi mediali e a sua volta può diventare elemento mediale di altre forme. Un atomo, per esempio, è forma nel senso che accoppia tra loro elementi subatomici e diventa elemento mediale quando si passa a osservare molecole (dove le proprietà degli atomi cambiano). Un altro caso è il DNA, che presenta analogie notevoli con il linguaggio: pochissimi elementi mediali (le basi azotate) possono essere accoppiati in forme (geni) che a loro possono essere accoppiate tra loro (DNA dell’individuo). Tutte le teorie scientifiche sono costruite in questo modo: la differenza tra accoppiamento stretto e accoppiamento lasco si presenta come una combinatorica che consente sempre di sciogliere gli accoppiamenti per ottenere altre, eventualmente nuove, combinazioni. Per quanto riguarda il potere – qui ci limitiamo al potere politico – il substrato mediale è costituito da una quantità di possibili direttive, per le quali ci si aspetta disponibilità a obbedire. [27] Solo quando le possibili direttive (medium) vengono accop- [27] Ricordiamo che il potere un’asimmetria: il piate tra loro in modo stretto si arriva a produrre forme, presuppone detentore deve essere in grado di cioè piani politici, dove ciascuna direttiva rende plausibile minacciare sanzioni (in ultima istanza usando la violenza) se il sottoposto le altre motivando all’obbedienza (Luhmann 2000a: 34). Poi non obbedisce alle direttive. Questo bisogna gestire le proposte che hanno qualche possibilità comporta che detentore e sottoposto un interesse comune: evitare di imporsi nell’opinione pubblica, e qui entrano in gioco hanno la sanzione. Solo su questa curiosa i “frames”, cioè quelle preselezioni di senso che devono base, dove il fattore costitutivo (la di esercitare violenza) deve poi essere riempiti di contenuti, ma che già in quanto tali possibilità restare implicito e improbabile, è Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale Giancarlo Corsi Media osservativi 225 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 213 — 231 di osservatori che operano realmente, non in quanto rispecchiamento della realtà. E con questo passiamo ai media osservativi. Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale Giancarlo Corsi 226 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 213 — 231 pregiudicano pericolosamente ciò che è possibile dire (cfr. possibile immaginare e comunicare in grado di imporsi. Ma questo Lakoff 2004/19). La realtà che viene così prodotta ha la direttive crea un paradosso: il potere è tanto forma di rapporti quasi causali: la comunicazione di una più forte, quanto meno il detentore ricorrere alla minaccia. Un potere direttiva si presenta sempre come la causa dell’effetto spe- deve che sia costretto continuamente a rato, che si tratti di contenere l’inflazione variando il costo minacciare per ottenere ciò che vuole è molto più debole (= meno possibilità) del denaro, di diminuire la criminalità aumentando la pre- di un potere che vede realizzate le senza delle forze dell’ordine o di tenere sotto controllo le direttive che emana in modo quasi tensioni internazionali usando la diplomazia (o le sanzioni). “automatico” (= più possibilità). La realtà dell’economia è forse la più complessa, dato che in questo sottosistema sono all’opera due media osservativi, la proprietà e il denaro, dove il secondo presenta caratteristiche di estrema astrattezza e artificialità. Essendo uno dei media più studiati in assoluto, ci limitiamo a pochi aspetti che hanno direttamente a che fare con la solubilità/ricombinabilità degli elementi mediali. Da un lato, la combinatorica del denaro è evidente: si tratta di somme numeriche che hanno forma quando avviene una transazione per poi perderla e ricostituire il medium in vista di prossime transazioni. Ma questo è il modo in cui il denaro si presenta nelle sue operazioni – e quindi è anche il modo in cui la realtà costruita dal denaro viene riprodotta. Quale sarebbe, però, questa realtà? L’unica risposta che si può dare è: la massa di beni (denaro compreso) e servizi scarsi, per questo economicamente rilevanti, dei quali si può entrare in possesso pagando. [28] La misura della scarsità è data dai prezzi e in questo mondo [28] In quanto scarsi e quindi possibili oggetti di transazione, tutti i beni del di beni scarsi ci si può muovere dando per scontato che mondo sono equivalenti (tutti possono chiunque può essere motivato a comprare/vendere qua- essere comprati/venduti) e differenti prezzo). Altre differenze (un libro lunque bene, anche il più assurdo, all’unica condizione (nel non è una mela) sono rilevanti per il di essere solvibile. Le forme di questo medium si vedono consumo (se ho fame è meglio che compri una mela), ma anche queste quindi nelle transazioni, quando un bene scarso viene differenze hanno senso economico accoppiato con la decisione di comprarlo/venderlo. La sua solo se possono essere comparate loro sul mercato. Per chi specula, combinatorica estremamente “liquida” porta il denaro ad tra infatti, che un’azienda pubblichi libri o affidarsi all’unico linguaggio esistente altrettanto astratto, produca mele non fa differenza. Basta per esempio, si possa ricavarne i numeri, un linguaggio privo di qualunque referenza alla che, un utile. realtà – e in questo modo diventa indifferente al chi, cosa, come, perché e quando della transazione. [29] [29] Kenneth Burke arriva a definirlo un sostituto di Dio, un “god term”, Gli altri media costruiscono la realtà diversamente, riuscendo il denaro a rappresentare come è ovvio. L’arte sfrutta qualunque frammento di la sostanza unitaria sulla quale si basa la diversità di ogni motivo (Burke senso per condensarlo nella forma di opera d’arte, ricor- 1962/1984, 110-111, 355-356). Cfr. rendo massicciamente alla percezione sensoriale, che com- Luhmann (1997, 349). prende anche le visioni indotte dal linguaggio di poesie e romanzi. Dopo alcuni secoli di diffidenza, oggi nessuno negherebbe a questo medium di essere altrettanto realistico quanto gli altri, anche se a modo suo. Come per qualunque altro medium osservativo, la realtà artistica si riproduce se l’opera d’arte può essere contemplata: solo l’operazione di contemplazione consente di ampliare o variare i confini di ciò che è possibile immaginare come altra opera d’arte. Il diritto si manifesta innanzitutto come una massa di leggi (e loro equivalenti, non necessariamente formalizzati) che consentono di mantenere certe aspettative anche quando vengono deluse. Gli elementi del medium sono condizioni e conseguenze, che una volta accoppiate tra loro in modo stretto danno forma alle norme, nella classica formulazione giuridica: se… allora… Anche in questo caso, il mondo del “normativamente Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale Giancarlo Corsi 227 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 213 — 231 possibile” non si esaurisce nelle norme, ma resta come potenziale che può essere sfruttato tanto per produrre nuove norme quanto per emendare quelle esistenti. La realtà di queste forme, inoltre, viene confermata non dal semplice fatto di essere scritte in qualche codice, ma soprattutto nelle sentenze (e in tutto ciò che porta alle decisioni dei tribunali), poiché solo quando la norma viene applicata o comunque utilizzata (se per rispettarla o violarla non fa differenza) esiste socialmente e se ne può capire e valutare il senso. In educazione la realtà è costituita dall’educando, classicamente il bambino, più di recente l’intero corso di vita degli individui. Questi media non hanno a che vedere con la realtà organica e psichica degli individui, naturalmente; la pedagogia vede in questi media dei potenziali di intervento educativo, che può poi tipicamente realizzare nelle scuole. E solo qui, solo nell’attività scolastica e nella valutazione delle prestazioni, si può riprodurre questa realtà. La medicina, occupandosi di malattie, crea il suo medium, il suo potenziale, basandosi sui corpi. Dato che nessun corpo può dirsi sano, la medicina moderna ha di fatto campo libero, potendo intervenire ovunque e in qualunque caso. Le forme del medium medico “corpo” sono in generale diagnosi e terapie che accoppiano in modo stretto elementi che altrimenti resterebbero connessi tra loro in modo lasco (sintomi). Lasciamo per ultimo un caso molto particolare, i mass media. In quanto tali, i mass media sono media operativi; ma Luhmann ha avanzato l’ipotesi che siano diventati un vero e proprio sottosistema della società moderna, che produce di continuo notizie (informazioni) che possono condensarsi in temi più o meno rilevanti, lasciando poi al resto della società come elaborarle. “Ciò che sappiamo della nostra società, e in generale del mondo in cui viviamo, lo sappiamo dai mass media”, così Luhmann (2000b[1996], 15) inizia il suo volume dedicato alla realtà dei mass media, facendo poi presente che i mass media non seguono nessuna logica del consenso, della razionalità, della correttezza morale e cose del genere. Ne consegue una costante destabilizzazione delle strutture esistenti, una costante “irritazione”, che porta a costruire quella realtà massmediatica che conosciamo bene e che è oggetto di ogni sorta di valutazioni (più negative che positive), anch’esse prodotte dai mass media. Una globalizzazione fatta in casa, potremmo dire. Questo caso è molto particolare, dicevamo, perché rimanda esplicitamente a entrambi i tipi di media. I mass media in quanto media operativi hanno consentito di allentare il rapporto tra enunciato e informazione, e questo significa che: 1) chi pubblica le notizie e i commenti può scegliere le connessioni che ritiene più opportune, senza alcun altro vincolo che non sia la visibilità sui mass media; 2) i destinatari possono elaborare le notizie e i temi, con i relativi contributi, come credono, traendone qualunque genere di conclusioni. In quanto media osservativi, i mass media costruiscono una realtà fatta di temi che nascono, si impongono e vengono sostituiti da altri temi, anche qui senza altri criteri che quelli che regolano la pubblicabilità. Da qui poi l’uso amorale della morale, compresi i richiami alla morale, la spregiudicatezza e le tante altre caratteristiche ben note a tutti. L’importante è avere notizie, poi sta al giornalista, al blogger, all’editore ecc., stabilire se e come connetterle in modo stretto tra loro per creare un tema degno di attenzione. Si potrebbe rispondere partendo da un problema che investe l’intera disciplina “sociologia”: l’agenda della ricerca sociologica è dettata in gran parte dai mass media, non da teorie o problemi strettamente sociologici. L’agenda della sociologia dovrebbe essere “fatta in casa”, come fanno tutte le altre discipline scientifiche generaliste. Anche fisica, chimica o biologia devono affrontare problemi che si creano fuori dai loro confini, ma in generale – se non si tratta di problemi interessanti per la ricerca di base – delegano ad altre sottodiscipline o ad abili “comunicatori”: per problemi di realizzazione delle tecnologie c’è l’ingegneria, per problemi concernenti la salute c’è la medicina, poi ci sono anche le “scienze applicate”, solo per fare gli esempi più evidenti. In sociologia questo non accade, se non in modo estremamente confuso e occasionale. In questo articolo siamo ricorsi a una specie di metodo, per evitare di impantanarci nella miriade di rimandi, connessioni e implicazioni che un tema come “mezzi di comunicazione” comporta. Abbiamo ridotto al minimo le rilevanze, concentrandoci su quel poco che fa la differenza (a nostro parere, ovviamente), lasciando da parte il resto. Per questo affermare che i media operativi regolano il rapporto comunicativo tra Ego e Alter Ego può sembrare velleitario, se si pensa all’importanza di questi media. Allo stesso modo, dire che i media osservativi costruiscono la realtà alla quale possiamo fare riferimento può sembrare limitativo, anche privo di spirito critico. Soprattutto poi se da queste proposte consegue che, per esempio, la questione della manipolazione, della verità del sapere veicolato, dell’onestà e della correttezza e così via, è di fatto sociologicamente irrilevante: i media operativi si limitano ad aprire un potenziale che lasciano del tutto vuoto, i media osservativi devono riempirlo, ma potendo contare solo su ciò che elaborano in proprio. Per una teoria sociologica dei media dovrebbe essere del tutto evidente che la distinzione informazione giornalistica corretta/scorretta non ha alcun interesse. Non perché non sia un problema. Ma il problema di chi? Lasciando da parte le implicazioni giuridiche, la risposta è: dei mass media! Perché in questo modo nascondono un problema più grosso, e cioè che tutto ciò che veicolano è solo una costruzione reale e che la loro funzione consiste Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale Giancarlo Corsi In conclusione: l’invadenza dei mass media e la necessità di una teoria dei media 228 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 213 — 231 Infine, tutto ciò che viene prodotto dai mass media viene elaborato dagli altri sottosistemi, ciascuno con le proprie strutture e la propria irritabilità, più o meno elevata, quindi anche con criteri di rilevanza e di solubilità/ricombinabilità dei rispettivi media del tutto diversa. Capita allora, per fare un esempio attuale, che uno scienziato chiamato a informare il pubblico sulle misure da adottare in presenza di una pandemia non sia assolutamente in grado di avere a che fare con stampa, televisione o siti online. L’ingenuità di supporre che basti la “verità scientifica” per ottenere seguito sui mass media viene pagata con il finire travolto da polemiche e insinuazioni. Abbiamo lasciato per ultimi i mass media perché ci offrono un primo aggancio per rispondere a una domanda che, in conclusione, è inevitabile, e cioè: a cosa serve descrivere i mezzi di comunicazione in questo modo? Sociologia dei mezzi di comunicazione.Considerazioni per una teoria generale Giancarlo Corsi 229 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 213 — 231 nel produrre continuamente irritazioni che, interpretate tramite informazioni, generano descrizioni della realtà (Luhmann 2000b[1996], 120). Dal punto di vista sociologico la manipolazione è un dato scontato, anche perché il problema non è essere o meno corretti (certamente si può cercare di esserlo), ma come fare a comunicarlo. Non appena si comunica la propria sincerità, si alimenta il dubbio del contrario. Cose che sappiamo da decenni. [30] [30] Si veda per esempio Watzlawick al. (1962/1971). Però potremmo dire In letteratura si trovano molte pubblicazioni che et che le sappiamo da millenni, basti richiedono maggiore moralità, più controlli, anche isti- leggere l’epica greca. tuendo enti di valutazione delle notizie, alla caccia di fake news, e così via, senza accorgersi che si tratta di un vicolo cieco: una società che si affida ai mass media e costruisce il proprio potenziale basandosi sull’osservazione di secondo ordine, può giusto lamentarsi della manipolazione dell’informazione, ma non può farci nulla, soprattutto perché i diversi osservatori (a cominciare dai lettori/spettatori) la danno per scontata e non hanno certo difficoltà a trovare “prove” a loro favore. Semmai si tratta di capire dove fissare la soglia oltre la quale può intervenire il diritto, ma anche questo è tutt’altro che semplice. Che il risultato concreto che ci si presenta ogni giorno sui giornali, in televisione o sui siti di internet, contenga di tutto e che comunque tutto sia discutibile, è non solo inevitabile, ma è di fatto una notevole conquista della modernità. Una libertà che si paga anche dovendo sopportare abusi e mistificazioni di ogni genere. Quando qualcuno si presenta sostenendo di dire la verità, di essere trasparente e sincero, di “dire le cose come stanno” o di “dire quello che gli altri non dicono”, l’unica reazione che potrà scatenare in molti destinatari sarà quantomeno perplessità e diffidenza. Per una sociologia dei media ci sarebbero altre questioni molto interessanti e che andrebbero discusse, ma che non sono adatte all’arena mediatica. Per esempio la tendenza sempre più evidente a “temporalizzare” i media osservativi, portando, presumibilmente, a un aumento ulteriore della complessità. Il denaro è senz’altro il precursore di questa tendenza: le transazioni, a differenza dei beni di proprietà, agiscono come una specie di quanto di energia, che fa differenza per poi risciogliersi nel medium. Qualcosa di simile si osserva anche nel diritto, dove la stabilità delle norme non è più il presupposto dell’esercizio della giurisdizione, mentre le sentenze stanno prendendosi sempre più la scena, non senza polemiche al riguardo. [31] Oppure nell’arte, con opere [31] Nella discussione tedesca si parla che non durano e che fanno del comparire e scomparire di Richterrecht, diritto dei giudici. (per esempio distruggendole) il loro senso. La scienza parla ormai da decenni di una realtà che non ha più nulla a che fare con “oggetti” o “materia”, ma piuttosto con condensazioni temporanee di una medialità che resta opaca. E così via. Ma questo richiede un apparato teorico molto complesso, che le scienze sociali non hanno ancora sviluppato. Distaccarsi dall’abbraccio fatale dei mass media sarebbe il primo passo in questa direzione. Baraldi, C. et al. (2021). Unlocking Luhmann. A Keyword Introduction to Systems Theory. Bielefeld University Press. Bateson, G. (2011). Mente e natura: un’unità necessaria. Milano: Adelphi. Or.: (1979). Mind And Nature. A necessary unity. Glasgow: Fontana/Collins. Cevolini, A. (2016) (ed). Forgetting Machines: knowledge management evolution in early modern Europe. Leiden-Boston: Brill. Cevolini, A. (2022). L’ordine del sapere. Un approccio evolutivo. Milano-Udine: Mimesis. Cevolini, A. & Esposito, E. (2022). From Actuarial to Behavioural Valuation. The Impact of Telematics on Motor Insurance, Valuation Studies, 9 (1), 109-39. Domingos, P. (2016). Il capo-ufficio non sarà un robot. Intervista di Massimo Gaggi. La lettura 17 aprile, 8-9. Eisenstein, E. (1997). Le rivoluzioni del libro: l’invenzione della stampa e la nascita dell’età moderna. Bologna: il Mulino. Or. (1983). 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Pragmatics of human communication: a study of interactional patterns pathologies, and paradoxes. New YorkLondon: Norton & Company. C I B E R N E T I C A V. Testimonianze e materiali All’ombra di nuove scienze in fiore. Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta Settimo Termini Tra i maggiori cibernetici italiani è stato dicente ordinario di Informatica teorica all’Università di Palermo e ci Cibernetica all’Università di Perugia. Dal 2002 al 2009 ha diretto l’Istituto di Cibernetica “Eduardo Caianiello” del CNR di Napoli. Fisico di formazione, i suoi interessi di ricerca hanno riguardato principalmente la presenza di varie forme di incertezza nelle scienze dell’informazione per studiare le quali ha elaborato la teoria delle “misure di fuzziness”. settimo.termini@gmail.com settimo.termini@unipa.it — CIBERNETICA ITALIANA — EPISTEMOLOGIA — SCIENZA — PARADIGMA — EDUARDO CAIANIELLO 235 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 235 — 249 The present paper describes and discusses certain aspects of the evolution of cybernetics, with a focus on the Italian context. It considers the ways in which cybernetic questions relate to present issues of crucial importance. The aim will be to interpret cybernetics as an unfinished and interdisciplinary scientific paradigm, reflecting on the contribution represented by this specificity. Reference will be made to the figure of the Italian cyberneticist Eduardo Caianiello as a paradigmatic case. Mettendo a fuoco il problema in modo insolito “Che cos’è la cibernetica?” è una domanda che mi è stata posta da chiunque abbia incontrato quando alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso ho cominciato a lavorare – da giovane fisico teorico – al “Laboratorio di Cibernetica” del CNR che era stato fondato, proprio pochi mesi prima del mio arrivo, da Eduardo Caianiello. Rispondere alla domanda è stato sempre difficile per almeno due ragioni. Il termine in sé era, infatti, del tutto sconosciuto a chiunque e non era neanche facile cercare di fornire una definizione accettabile di un campo di studi con grandi ambizioni ma dai confini incerti. Questo ricordo personale (così come altri che appariranno in seguito) non deve essere interpretato in senso autobiografico ma come elemento utile per un dialogo con la presentazione accurata fatta dai curatori del presente numero di PK che identifica le caratteristiche della cibernetica. Oggi, come lì viene correttamente riportato, il nome è ampiamente noto (il che non vuol dire compreso o capito). Il secondo punto presenta le medesime difficoltà di allora anche se per ragioni diverse. Ragioni che sono poi proprio quelle che stanno alla base dei temi proposti oggi da una rivista filosofica. Come già osservato, il nome cibernetica indicava qualcosa di insolito ed esoterico cinquant’anni fa, quando era una presenza attiva nel mondo scientifico ma era conosciuto soltanto lì. Non può quindi che apparire strano che continui ad essere presente in tanti aspetti della società, come riportato nelle pagine di presentazione di questo fascicolo, pur essendo stato abbandonato da decenni come etichetta per designare attività scientifiche attualmente valide. Questa situazione un po’ paradossale – ma quando si ha a che fare con la cibernetica non vi è nulla di banale e scontato – mi ricorda quanto affermato da Federico De Roberto riguardo alla nobiltà, proprio alla fine del suo romanzo I Viceré (2005): All’ombra di nuove scienze in fiore. Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta Settimo Termini I. 236 […] prima, ad esser nobile, uno godeva grandi prerogative, privilegi, immunità, esenzioni di molta importanza. Adesso, se tutto ciò è finito, se la nobiltà è una cosa puramente ideale e nondimeno tutti la cercano, non vuol forse dire che il suo va- Mi sono chiesto se questo brano con la sua domanda finale non parlasse proprio del nostro tema, sostituendo opportunamente al termine “nobiltà” la parola “cibernetica”. Ero stato tentato di commentare immediatamente questo punto quando i miei occhi, forse guidati dal ricordo di passate letture dello stesso testo, sono caduti sul brano successivo che, nell’economia propria del romanzo in questione, è strettamente connesso a quello che lo precede e che è stato appena citato: Certo, la monarchia assoluta tutelava meglio gl’interessi della nostra casta; ma una forza superiore, una corrente irresistibile l’ha travolta [...] Dobbiamo farci mettere il piede sul collo anche noi? il nostro dovere, invece di sprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servircene! Questo secondo passaggio, tuttavia, non è facilmente interpretabile nel nostro contesto, almeno immediatamente. Ho deciso quindi di rinunciare a cercare interpretazioni suggestive anche del primo, almeno in questo Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 235 — 249 lore e il suo prestigio sono cresciuti? All’ombra di nuove scienze in fiore. Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta Settimo Termini 237 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 235 — 249 momento. Il collegamento, però, anche se nato per caso, ha creato un vero e proprio corto circuito mentale tra aspetti letterari e scientifici. È ben noto che per Norbert Wiener, considerato il padre della cibernetica, la separazione tra le cosiddette due culture non esistesse affatto, ma non è altrettanto noto che egli sia anche l’autore di un romanzo, The Tempter, apparso nel 1959. Rinvio a quanto scritto da Leone Montagnini (2017) per un’analisi completa e profonda di quanto da Wiener pensato e realizzato. Montagnini, oltre a compiere una disamina acutissima dei nodi concettuali e dell’evoluzione del pensiero di Wiener, analizza molti aspetti specifici della sua attività. E anche nel caso di questo romanzo esamina i motivi della sua scrittura. La diffusione delle idee di Wiener così come il nome della ‘sua’ disciplina e i termini che da questo nome derivano sono parte integrante del clima generale, aperto e creativo, di quegli anni, per cui si può dire che la cibernetica sia stata, da un lato, frutto di quest’atmosfera (irripetibile) e, dall’altro, essa stessa fattore di grande amplificazione degli aspetti innovativi di quel periodo. Senza entrare, al momento, in dettagli specifici, vale la pena soffermarsi su due punti. In primo luogo, le nozioni di retroazione (feedback) e di causalità circolare impongono una revisione profonda della “visione ereditata” (ereditata dalla fisica) della nozione di tempo. [1] In secondo luogo, l’avere a che fare [1] Una revisione che – in sé – è dai cambiamenti drastici con il concetto di informazione introduce aspetti imma- indipendente imposti dalla teoria della relatività e teriali nel territorio della scienza. Osserviamo, infine, che da alcuni tentativi di riconciliazione essa e la teoria dei quanti che esaminare l’evoluzione di una disciplina in statu nascenti tra espellerebbe il tempo dal ristretto club può essere utile per capire la dinamica della scienza. La delle “entità di base”, assegnandogli un ruolo simile a quello della temperatura cibernetica offre una simile possibilità. Lo stesso, ovvia- (in termodinamica). Naturalmente, mente, vale anche per discipline mature come la fisica. La i cambiamenti epocali che sono avvenuti nel pensiero scientifico differenza è che in questo caso dobbiamo esaminare un nel corso del Novecento indicano lungo periodo di tempo, nel precedente tutto è avvenuto che si possono trovare molte altre connessioni significative. nel corso di pochi decenni. Dal momento che in queste pagine iniziali ho volutamente insistito molto su una sorta di aspetto “umanistico” che ha sempre accompagnato questa nuova disciplina, anche durante quelli che sono stati i suoi anni ruggenti da un punto di vista scientifico, desidero evidenziare qualche ulteriore analogia con un’altra opera letteraria. In particolare tra le due caratteristiche della cibernetica appena citate e alcuni atteggiamenti che possono leggersi nel capolavoro di Marcel Proust (1986). Anche un lettore occasionale non può non notare che, in quest’opera, la concezione generale del tempo – nel suo presentarsi in modo, apparentemente, contorto rispetto ai canoni quotidiani ma, in realtà, non solo sottilmente complesso ma che recepisce, in modo implicito, riflessioni (di frontiera, per quell’epoca) dovute a pensatori come Bergson – mostra più di un’analogia con le conseguenze indotte dalla presenza, in un sistema, delle nozioni di retroazione e causalità circolare. Vorrei rivolgermi, per verificare quanto questa analogia possa essere condivisa, a un lettore di cultura media e non particolarmente sofisticato e, possibilmente, non esperto di critica letteraria e non a conoscenza di quanto Proust conoscesse della cultura del suo tempo. E poi, ancora, vorrei mettere in guardia dall’uso delle analogie, proprio per averne fatto uso adesso e perché è qualcosa che può spesso presentarsi nel lavoro di tipo interdisciplinare. Quella appena avanzata è di tipo molto particolare connettendo un romanzo dei primi del All’ombra di nuove scienze in fiore. Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta Settimo Termini In un periodo nel quale la separazione tra le diverse discipline continua ad approfondirsi, osserviamo che un colloquio tra loro – lungo linee non molto distanti da quelle esistenti nel Rinascimento (aggiornate, com’è naturale, al contesto odierno) – non solo è possibile ma, in qualche misura, è spontaneamente emerso agli albori della cibernetica e praticato dallo stesso Wiener. Dialogo interdisciplinare necessario anche oggi nel lavoro svolto alle frontiere della conoscenza nelle scienze dell’informazione. L’interdisciplinarità (associata a un’analisi attenta di come essa riesce a diramarsi) può essere utile per colmare la distanza che separa le cosiddette due culture. Come per tutto, bisogna sfruttare le opportunità evitando, però, di cadere in possibili trappole. Nel nostro caso vi sono un problema e un pericolo. L’abolizione della separazione tra discipline diverse o, specificamente, tra le attività scientifiche e le altre attività dell’uomo può condurre a non potere (o volere) usare criteri di giudizio che soddisfino i livelli di rigore richiesti dalle attività scientifiche. Come ho presentato la cibernetica in quanto foriera di dialoghi interdisciplinari, così adesso porterò a sostegno di quest’affermazione un ricordo personale che ritengo significativo al riguardo, per mostrare alcune difficoltà che si presentano anche quando il dialogo avviene tra discipline scientifiche. Quando, alla fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70, al Laboratorio di Cibernetica discutevamo nuovi progetti e valutavamo i risultati ottenuti, di solito, giunti a un certo punto della discussione si poneva il problema di valutare il grado di ciberneticità di una certa proposta o di un certo risultato già ottenuto. Cosa che significava interdisciplinarità, valore di un certo risultato (ottenuto o da ottenere) per discipline diverse, chiarimento degli aspetti comuni di certi fenomeni quando osservati da punti di vista (disciplinari) differenti e cose simili. Queste discussioni erano sempre molto stimolanti ma allo stesso tempo molto difficili se non volevano limitarsi a ripetere uno stanco rituale senza effetti concreti. Era chiaro a tutti i partecipanti che sarebbe stato molto grave accettare come risultato scientificamente valido qualcosa che non lo era anche se presentava un alto grado di “ciberneticità”, nel senso appena descritto. Contemporaneamente era importante muoversi in zone di confine, i cui risultati potessero avere qualche caratteristica che li differenziasse da risultati significativi soltanto all’interno di una disciplina specifica. Altrimenti si sarebbe perduto tanto il senso di una ricerca interdisciplinare quanto l’esistenza stessa del Laboratorio di Cibernetica, cioè di un centro di ricerca con caratteristiche 238 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 235 — 249 Novecento a un’innovazione scientifica di metà Novecento; le analogie – spinte troppo avanti, senza controllo – possono essere fuorvianti. Devono essere maneggiate con cura per evitare che ci portino fuori strada. Wiener è sempre riuscito a fare entrambe le cose. Usare l’analogia, in modo forse un po’ più spinto di quanto non facesse lui, è, in qualche modo, sia un omaggio sia un modo per indicare un aspetto della cibernetica – almeno come praticata da Wiener nella sua collaborazione interdisciplinare con i neurofisiologi. Ma torniamo a Proust. Sotto l’ampio ombrello di ciò che si suppone sia una nuova concezione del tempo (il tema guida di Alla ricerca del tempo perduto), il secondo libro, All’ombra delle fanciulle in fiore, sottolinea l’importanza che una sorta di imprinting avvenuto nei primi periodi della vita di un individuo può avere nelle fasi successive. A chi legge sarà adesso chiara la scelta del titolo di questo contributo. suggerimenti ai neuroscienziati per il loro lavoro di ricerca. La mia citazione qui è molto più banale. che ero certo vi avesse ammirato la Veduta di Delft di Vermeer. Ma il duca era meno istruito che orgoglioso. Così si limitò a buttarmi là, con aria di sufficienza, come ogni volta che gli si accennava a un’opera di un museo, oppure del Salon, e lui non se ne ricordava: «Se è da vedere, l’ho vista di sicuro!» Il punto cruciale è la risposta che viene data. Essa svela un atteggiamento che è l’opposto di quello che deve essere tenuto quando si affronta scientificamente un problema. Atteggiamenti che possono più facilmente sorgere negli interstizi fra discipline diverse. La concezione della scienza che aveva Norbert Wiener, nonché il suo modo di operare, mostrano che un atteggiamento corretto dal punto di vista scientifico può essere fruttuosamente mantenuto anche quando si lavora proprio in queste zone di confine. Ma non è né facile né scontato. Ritornando alla citazione, apparentemente incongrua, di Federico De Roberto fatta all’inizio di questo scritto, adesso che la cibernetica è realmente “una cosa puramente ideale”, possiamo dire che sì, il fatto che “nondimeno tutti la cercano” – o vanno in cerca, almeno, del suo “carattere spettrale e disseminato” come Philosophy Kitchen ha, correttamente, scritto – significa “che il suo valore e prestigio sono cresciuti”. In direzioni molto diverse, tuttavia, di quelle dello sviluppo scientifico. Ciò detto, anche la seconda citazione può essere vista come una sorta di utile avvertimento. Il nostro dovere – come scienziati e filosofi – non è quello di tornare a far rivivere vecchi privilegi, sia pure in forme diverse, ma quello di usare l’esperienza precedente per capire meglio le trasformazioni profonde che stanno avvenendo nella scienza e, in generale, nella società. I temi che verranno discussi sono stati qui introdotti in modo insolito. I paragrafi che seguono tratteranno – in modo più tradizionale – innanzitutto le ragioni, rispettivamente a favore e contro, l’idea di considerare la cibernetica una disciplina unitaria; successivamente saranno discusse alcune particolarità del modo in cui è avvenuta l’introduzione della cibernetica in Italia, soffermandoci in particolare sulla figura di Eduardo Caianiello. Dopo alcune brevi osservazioni sulle possibili connessioni con la situazione odierna, sarà tratta qualche conclusione riprendendo le fila di quanto scritto in questo paragrafo. All’ombra di nuove scienze in fiore. Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta Settimo Termini «Ah, l’Aia! che museo!», esclamò il signor di Guermantes. Gli dissi 239 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 235 — 249 nuove. Bisognava avere il coraggio e la capacità di distinguere tra risultati scientifici già ottenuti e quelle che erano solo belle idee che avevano bisogno di essere approfondite. Tutto questo richiedeva un dialogo paziente nel corso del quale nessuno aveva certezze e si dovevano esplorare nuove vie e non imporre conclusioni. A illustrazione di ciò (credo sia evidente che tento di usare la letteratura come a volte si usano le immagini: sperando di chiarire meglio ciò che non riesco a esprimere compiutamente a parole), può essere di stimolo riportare un’altra citazione letteraria. [2] Nel secondo volume dei Guermantes (1986, 629), [2] Alcuni studiosi hanno sostenuto che molte delle analisi effettuate l’autore scrive a proposito di un personaggio della sua saga: da Proust possono fornire utili Nella metà del Novecento alcuni campi di indagine – che avevano tutti a che fare, in qualche modo, con l’elaborazione dell’informazione – posero un numero enorme di problemi innovativi ed estremamente interessanti, dando l’impressione che stesse per sorgere una nuova, singola scienza con caratteristiche proprie; non solo, quindi, un insieme frammentario di risultati nuovi e interessanti. Quando apparve il libro di Wiener, Cybernetics (1948), si respirava questo clima culturale, [3] e sembrò che cibernetica potesse essere proprio il nome [3] Si veda anche Montagnini (2017) capire il contesto e mettere a fuoco atto a unificare tutti questi nuovi risultati che, nonostan- per aspetti significativi di una situazione te fossero (e sembrassero) sparsi e disparati, avevano molte molto complessa. Montagnini aveva programma ulteriori importanti caratteristiche in comune (a loro volta legate ai temi gene- in approfondimenti su questi temi, che rali posti da Wiener nel suo nuovo libro). Il nucleo del pro- però non ha potuto portare a termine a gramma originale della cibernetica (originale in entrambi causa della sua scomparsa prematura. i significati che vengono immediatamente in mente) potrebbe, dunque, essere individuato nel tentativo di costruire una teoria unificata dei nuovi concetti scientifici che erano sorti – come informazione, retroazione, complessità [4] – che [4] A questi si dovrebbero aggiungere della vaghezza e della fuzziness fosse abbastanza generale da potere essere usata per spie- quelli che giocano anch’esse un ruolo gare i fenomeni di tutti i sistemi nei quali tali nuove no- essenziale. Cfr. Skala, Termini, Trillas (1984), Bečvář (1984), Termini (1984; zioni erano presenti, indipendentemente dalla natura spe- 2002). cifica del sistema stesso (macchina vs animale; artefatto vs sistema naturale). [5] Negli anni Quaranta e Cinquanta del [5] Un altro tema enorme e strettamente connesso è quello delle secolo passato, la cibernetica si comportò come una sorta indagini scientifiche sulla coscienza, di catalizzatore, suggerendo che molte nuove idee interes- per il quale mi limito a fare riferimento al libro fondamentale di Giuseppe santi, assieme a concetti e formalismi matematici ugual- Trautteur (2020). Fondamentale, tra mente nuovi, potessero essere visti come parte di un’uni- altri motivi, perché riesce a porre in in maniera netta i problemi ca impresa, di un progetto unitario e consistente. Questo, evidenza cruciali che non siamo riusciti ancora nonostante fossero stati ottenuti a partire da indagini con- a capire nonostante gli enormi e progressi compiuti su dotte in settori disparati, rompendo le barriere e i confini inimmaginabili aspetti specifici. delle discipline tradizionali. Un altro aspetto significativo è che questa nuova disciplina ambiva ad essere una scienza e si muoveva secondo i canoni classici della scienza, nonostante indagasse nuovi domini che avevano caratteristiche loro proprie e diverse da quelle tradizionali. Il riconoscere le ricerche condotte in un’area dai confini non ben definiti, come facenti tutte parte di un’impresa comune e unitaria, era in realtà il lancio di una grande sfida più che un cammino pacifico da percorrere. Un paragone con lo sviluppo della fisica può forse aiutare a capire bene la posta in gioco. Risultati specifici trovati studiando il mondo inanimato – nel corso degli anni o, meglio, di secoli – sono stati sempre classificati e visti come manifestazioni diverse (a volte anche come molto diverse) del mondo naturale. Riguardano il moto (sia a livello terrestre che celeste), l’elettricità, il magnetismo, la luce, il calore. Tutti sono stati considerati come appartenenti a un unico campo di studi che alla fine di un lungo percorso sarebbe stato chiamato “fisica”. Man mano che il numero dei risultati cresceva e si comprendevano meglio le loro connessioni, questi venivano raggruppati in sottocampi (meccanica, termodinamica, ottica, elettromagnetismo; questi ultimi due destinati ad essere unificati in un momento successivo). Questi sottocampi, tuttavia, venivano sempre All’ombra di nuove scienze in fiore. Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta Settimo Termini La cibernetica si presenta come un programma di ricerca originale e con caratteristiche sue proprie… 240 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 235 — 249 II. III. … ma, forse, non può essere considerata una (singola) disciplina. Possiamo quindi concludere che la cibernetica fu (e forse continua ad essere nella sua seconda o terza vita al di fuori del milieu scientifico) una sorta di guazzabuglio sia pure molto creativo. Non è riuscita a diventare una nuova disciplina forse proprio per le sue ambizioni unitarie. Ha posto, però, molti problemi nuovi che sono cruciali e che rintracciamo in altre discipline ad essa vicine, che sopravvivono ancora forse perché si pongono con minor forza obiettivi di tipo generale. Tracce dei problemi discussi prima possono essere rintracciate – in forme leggermente differenti – anche in altri campi di ricerca nella stessa area. Per esempio, negli scorsi decenni, non appena veniva trovato, inaspettatamente, qualche risultato specifico riguardante la meccanizzazione dei processi mentali (all’interno All’ombra di nuove scienze in fiore. Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta Settimo Termini 241 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 235 — 249 visti e considerati come parte di un unico settore di indagine. Lo stesso non è accaduto in questo nuovo settore emergente. “Cibernetica” avrebbe potuto essere il nome unificante, ma così non è stato. Sorsero, infatti, alcuni problemi. Alcuni di essi impedirono che si sviluppasse un processo analogo a quello appena descritto per la fisica. Tra questi ne cito uno. Se esaminiamo i risultati innovativi specifici, emersi sotto l’egida della cibernetica, ci si accorge che questi potevano anche essere visti come appartenenti ad altre discipline. Sembrò quindi che questa nuova scienza fosse in grado di favorire l’ottenimento di nuovi risultati (in molti casi anche molto interessanti) ma, una volta ottenuti, questi potevano anche essere visti come appartenenti a campi di studio tradizionali. Era il “clima” culturale, l’atmosfera culturale complessiva, che favoriva la messa a fuoco di nuove questioni interessanti. Ma, trovata la risposta, dei risultati se ne poteva far carico (o poteva impossessarsene) una disciplina tradizionale. Come esempio paradigmatico di ciò, ci si può riferire al teorema di Kleene sulla caratterizzazione dei linguaggi regolari che, motivato da considerazioni profondamente interdisciplinari (e di carattere cibernetico nel senso originario) – come caratterizzare ciò che è in grado di fare una rete neurale –, una volta trovato è ricordato solo come un risultato della teoria dei linguaggi formali o, addirittura, dell’algebra. Perché assistiamo a una differenza così radicale con l’evoluzione che ha avuto la fisica? La grande differenza nella lunghezza dell’intervallo di tempo che stiamo considerando e la diversa accelerazione dello svolgimento di questi processi hanno svolto sicuramente un ruolo cruciale ma anche altri fattori sono stati presenti. Aspetti sociali e sociologici: il prestigio di un (sotto)settore rispetto a un altro, questioni di potere accademico, di finanziamenti, di rapporti col potere politico e con le elités economiche. Il nome “cibernetica” è stato quello che, per il prestigio acquistato, era il miglior candidato a svolgere questo ruolo unificante. E lo ha fatto. Ma per un periodo brevissimo. Non ha retto a lungo forse perché, data la personalità ingombrante di Wiener, non era sufficientemente “neutrale” da essere accettato senza problemi da tutta la comunità coinvolta. Per le singole ricerche specialistiche, poi, era più conveniente (per ottenere finanziamenti) presentarsi in modo autonomo, e non come parte di un campo di indagini più esteso ed essere costretto a condividere gli alti e bassi anche di settori concorrenti. Un tema che meriterebbe di essere approfondito. Il caso dell’Italia 242 mentre il titolo dei fascicoli dei tre anni (1961-63) della rivista russa era stato tradotto negli Stati Uniti – in modo letterale – come Problems of Cybernetics, a partire dal 1964 divenne Problems of System Science, mentre l’edizione originale russa continuava a mantenere il titolo originario. A partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il CNR, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, è stato uno strumento fondamentale per la ricostruzione di una rete di ricerca atta anche a lanciare nuovi progetti e a sostenere campi di indagine emergenti. In quegli stessi anni si sviluppò un intenso dibattito sul ruolo che il CNR avrebbe dovuto avere e sul modo in cui avrebbe potuto distinguersi, per quanto riguarda la politica scientifica, da un lato, dal Ministero che sovrintendeva a queste attività – che, a quell’epoca, era il Ministero della Pubblica Istruzione – e, dall’altro, dall’Università. Un dibattito che accompagnerà tutta la vita del CNR stesso, punteggiando i cambiamenti organizzativi e di indirizzo che vi sarebbero stati. Le attività portate avanti negli anni Sessanta hanno a che fare con ciò che stiamo trattando. Fra le varie attività vi era anche quella di finanziare le cosiddette “imprese”, cioè strutture che coordinavano attività di ricerca condotte in varie sedi in Italia su temi specifici. Una di queste era l’impresa cibernetica, che pochi anni dopo sarebbe diventata una struttura organizzativa stabile: il Gruppo Nazionale di Cibernetica (GNC, poi GNCB, includendo anche la biofisica) (cfr. Termini 2008 e Cordeschi & Numerico 2013). Nel corso di questi anni la cibernetica era il punto di riferimento Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 235 — 249 IV. All’ombra di nuove scienze in fiore. Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta Settimo Termini di ricerche condotte sotto l’etichetta IA), la maggior parte dei commenti (critici) seguivano sempre la stessa falsariga: erano i risultati stessi – al di là della loro importanza e dell’interesse specifico – a mostrare, alla fine, che quelle particolari caratteristiche che prima erano state considerate intelligenti in realtà intelligenti non lo erano poi tanto se era stato possibile “meccanizzarle”. L’IA è andata avanti concentrandosi su aspetti di tipo più tecnologico nel quale poteva primeggiare. Anche i dibattiti sulla “ciberneticità” di risultati e linee di ricerca che hanno avuto luogo presso il Laboratorio di Cibernetica del CNR a Napoli, che sono state richiamate nel primo paragrafo, contribuiscono a mostrare che si stavano (e stiamo ancora) affrontando problemi nuovi assolutamente non banali. La (quasi) scomparsa del nome cibernetica come indicazione di un campo di ricerca attivo e scientificamente significativo è solo un aspetto di una serie di interessanti problemi ancora aperti, che l’emergere di questo nuovo ed effervescente settore di studi ha posto e che non sono ancora stati approfonditi in modo sufficientemente completo nella loro dinamica storica in rapporto ad altri aspetti della società del nostro tempo. Proprio in quest’ottica, e per valutare meglio la presenza e la scomparsa della cibernetica, vale la pena ricordare che assieme ad essa, altre etichette sono state inventate, proposte e usate per indicare campi di ricerca molto simili e con ampie sovrapposizioni. Abbiamo già ricordato l’intelligenza artificiale. Alcuni altri nomi (ed etichette) significativi sono “Teoria generale dei sistemi”, “Scienze cognitive”. Tutte erano in competizione per primeggiare in questo nuovo e ampio settore di indagine e ottenere finanziamenti. Anche per queste ragioni, per la concorrenza di altre possibili etichette, a partire dall’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso – prima negli Stati Uniti, successivamente anche altrove – lo stesso nome di “cibernetica” cominciò ad essere meno glamour di quanto era stato fino ad allora. [6] [6] Giusto per portare un esempio, V. Eduardo Renato Caianiello come esempio paradigmatico In questo paragrafo discuterò qualche aspetto dell’attività scientifica di Eduardo Caianiello. Queste pagine sono principalmente basate sulla nota biografica (Termini 2017) a cui ci si può riferire (assieme a Termini 2006a e AaVv 1995) per informazioni ulteriori. La scelta di discutere brevemente quanto fatto da un singolo scienziato è basata sulla convinzione che questo possa essere il modo più diretto (anche se non completo) di comunicare gli aspetti insoliti dell’interazione tra fisica e cibernetica avvenuta in Italia. [7] All’ombra di nuove scienze in fiore. Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta Settimo Termini 243 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 235 — 249 per ricerche prettamente interdisciplinari e vicine a sviluppi tecnologici di frontiera, ma non apparteneva a nessuna delle grandi divisioni tematiche nelle quali il CNR era diviso dal punto di vista organizzativo. Nonostante questo, il Comitato per la Fisica del CNR – mostrando lungimiranza – decise di investire in questo nuovo campo di ricerca (pur non facendo parte dei suoi doveri), non solo in idee ma anche finanziariamente. Solo per dare un esempio, nel 1966 il Comitato per la Fisica destinò il 6,1 % del suo budget alla cibernetica. Eguale apertura mentale mostrò nei confronti dello sviluppo dei sistemi di calcolo, dei quali percepì subito l’importanza. A partire da questi dati, e tenendo conto che le attività cibernetiche sarebbero in buona parte confluite nella nascente informatica, emerge immediatamente una caratteristica della situazione italiana, diversa rispetto a quella di altri Paesi. La nascita e lo sviluppo di attività di ricerca nel settore cibernetico-informatico sono stati stimolati culturalmente (e finanziati) dalla comunità dei fisici, a differenza di altri Paesi nei quali questo compito se lo erano assunto ingegneri e matematici. Questi sforzi e queste attività portarono alla nascita in più sedi di qualcosa di nuovo e assolutamente originale (oltre che anomalo): gruppi di ricerca finanziati dal Comitato per la Fisica del CNR che si occupavano di attività non connesse tradizionalmente alla fisica. Questo avvenne principalmente a Napoli, Genova e Pisa. Ognuna di queste sedi aveva caratteristiche sue proprie. Non è facile capire le ragioni di questa (positiva) anomalia. In mancanza di indagini specifiche si possono solo avanzare ipotesi. Mi limito qui a ricordare il clima generale nel quale sono emerse figure come quelle di Enrico Mattei e Adriano Olivetti, e nel quale la comunità dei fisici giocò un ruolo primario ed essenziale nel delineare la via italiana dell’energia nucleare . Tale comunità, infatti, creò il CNEN, in cui avvenne la insolita collaborazione tra un’industria privata (la Montecatini) e il mondo accademico (il Politecnico di Milano) su ricerche di base di frontiera che avrebbero portato al conferimento del Premio Nobel per la Chimica a Giulio Natta e ai brevetti sul Moplen. Un primo esempio di quello a cui oggi assistiamo quotidianamente (nel resto del mondo, sempre meno in Italia): gli avanzamenti nell’alta tecnologia possono ottenersi solo facendo ricerca alle frontiere della conoscenza. Non potendo entrare nei dettagli, mi limito a invitare il lettore a dare almeno uno sguardo alle analisi fatte da Pietro Greco (2013; con Termini 2007; con Termini 2010), Luciano Gallino (2003), Sergio Ferrari (2014), Daniela Palma (2021) e Marco Pivato (2011). Sono sicuro che queste letture saranno utili non solo per capire cosa è avvenuto sessant’anni fa ma anche per intuire quali potrebbero essere le vie migliori da seguire oggi per rafforzare le attività di ricerca collegandole al mondo produttivo per un rilancio complessivo del nostro Paese. All’ombra di nuove scienze in fiore. Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta Settimo Termini 244 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 235 — 249 Dal momento che gli interessi principali di Caianiello riguardavano la fisica, ci si può chiedere in che modo sia nata [7] Ulteriori informazioni si possono Numerico la sua curiosità verso la cibernetica. [8] Tutto è avvenuto trovare in Cordeschi &(2013) nonché solo per caso? Avanzo l’ipotesi che la nasciin Cordeschi (2002), in ta del suo interesse sia legato alla sua episte- [8] Bisogna aggiungere che egli quest’ultimo aveva molti interessi intellettuali mologia implicita. Caianiello considerava coltivati caso assieme a un livello molto sofisticato a riflessioni tutti i fenomeni naturali in modo unita- oltre a desiderare di trasmettere le stimolanti sue riflessioni a un uditorio ampio rio, considerando compito del fisico quel- (Caianiello “prima e oltre la 1996). cibernetica”. lo di analizzarli sia isolando aspetti significativi sia trovando connessioni inaspettate. Normale modo di procedere dei fisici, in un certo senso. Con un’eccezione, però, che è ciò che definisco la sua epistemologia implicita. Egli era fermamente convinto che il modo di lavorare dei fisici potesse essere utilmente applicato in quanto tale a tutti i fenomeni naturali in un senso molto generale e profondo. Anche quindi ad aspetti particolarmente significativi dei sistemi viventi. Egli era interessato soprattutto agli aspetti fisico-naturali. Pur essendo un bravissimo matematico, riteneva che la matematica fosse e dovesse rimanere solo uno strumento. E per quanto riguardava i sistemi viventi, non era interessato a studiarne i fenomeni fisici, come fa la biofisica, bensì i comportamenti a un più alto livello di astrazione, come il funzionamento del cervello. Egli riteneva che, in quanto fisico teorico, potesse e fosse tenuto a studiare aspetti della Natura che, tradizionalmente, non sarebbero stati considerati come pertinenti. Una delle novità della cibernetica, come già osservato, è che un ruolo centrale è giocato da quantità immateriali come l’informazione, [9] differente dai concetti tradizionali della fisica quali la materia o l’ener- [9] Si veda Tabacchi & Termini (2013). gia. Wiener, da matematico, non era disturbato da questo fatto. A un fisico questo fatto poteva porre dei problemi. L’osservazione precedente potrebbe anche spiegare perché nel gruppo che riunì attorno a sé quando la cibernetica cominciò a delinearsi (negli anni ‘40), così come nei successivi incontri della Josiah Macy Foundation, non fosse presente alcun fisico nonostante fossero presenti psicologi, sociologi, antropologi ed economisti. [10] Da questo punto di vista, dunque, la posizione di Caianiello è assolutamente origi- [10] In Montagnini (2010; 2016) può un tentativo interessante di nale. Egli si trovò ad essere – in un certo senso – il solo fisi- trovarsi mettere in luce le differenze di tipo co in un gruppo che non ne aveva avuto nessuno quando epistemologico tra Wiener e Caianiello. il progetto originario era stato discusso ed elaborato. Egli fece un salto concettuale. La cibernetica non era, per lui, solo lo “studio della comunicazione e del controllo” (sottotitolo del libro di Wiener) ma il terzo e più alto livello di una gerarchia formata dalle scienze della natura (inanimata), dai sistemi viventi (biologia) e, al vertice, dalle scienze dell’intelligenza, di cui la cibernetica era il prototipo, e che quindi – avendo come oggetto un fenomeno naturale – dovevano essere studiate con i metodi della fisica, come scrisse nell’introduzione al libro di De Luca e Ricciardi (Caianiello 1971, 9-11). Nel suo lavoro principale sulle reti neurali (Caianiello 1961) egli si muove di conseguenza, modificando concettualmente il modo di affrontare il problema da parte di McCulloch e Pitts, che era stato puramente logico. Si propone di studiare le “leggi del pensiero” (viene in mente il vecchio lavoro di Boole), scrivendo le equazioni che governano le loro operazioni e studiandole, poi usando le procedure consuete della fisica. Wiener agisce da matematico, Caianiello da fisico. E adesso? È possibile che qualcosa di simile avvenga di nuovo? Le reti neurali hanno sempre giocato un ruolo centrale (e continuano a farlo) in alcuni degli sviluppi più importanti dell’IA, come ricordato anche di recente da Giorgio Parisi nel suo libro rivolto al grande pubblico (2021). Il rapporto di Parisi con l’IA è testimoniato non solo da quanto da lui stesso affermato in molte dichiarazioni pubbliche ma anche dal fatto che l’AIxIA (Associazione Italiana per l’Intelligenza Artificiale) lo ha voluto nominare “socio onorario”. Se ne parliamo è per porre nuovamente alla luce una sorta di positiva anomalia italiana che ha visto la comunità dei fisici interessata alle ricerche di frontiera in campi anche non strettamente propri e che abbiamo già menzionato. Anche se in una forma più limitata di quanto ricordato nelle pagine precedenti, questi fatti vanno nella stessa direzione. E presentano, se perseguiti correttamente e con impegno, grandi possibilità perché, a suo tempo, è stata proprio l’interazione interdisciplinare di metodologie scientifiche di settori diversi che dialogavano fruttuosamente tra loro a produrre quegli intensi e fruttuosi dibattiti che hanno avuto luogo nel secolo scorso. È molto improbabile, tuttavia, che accada qualcosa con la stessa forza dirompente di ciò che è accaduto negli anni Sessanta perché il contesto generale nel quale ci muoviamo è molto differente. VII. 245 Avviandoci a concludere Perché mai la comunità scientifica e filosofica dovrebbe essere interessata, oggi, ad analizzare aspetti di un programma di ricerca così vecchio? L’interesse può risiedere soltanto nelle domande e nei problemi generali che tale analisi potrebbe mettere a fuoco. La cibernetica, infatti, può essere un caso di studio esemplare per molte altre discipline che sono sorte e si sono sviluppate nel corso degli ultimi decenni. Il suo programma di ricerca, il suo progetto, è stato costretto fin dalle sue prime formulazioni ad affrontare alcuni nuovi problemi specifici della ricerca scientifica che sono sorti alla metà del secolo scorso: tecnologie di punta, aspetti della complessità, pressione sociale per le applicazioni (spesso di natura militare), ecc. Inoltre, il fatto che non sia riuscita a decollare ci fornisce, paradossalmente, l’opportunità di esaminare meglio in che modo Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 235 — 249 VI. All’ombra di nuove scienze in fiore. Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta Settimo Termini Questo spiegherebbe l’innovazione da lui proposta nel nuovo campo di studi e il suo essersi perfettamente integrato in esso. Infatti, ribadisco, Caianiello vede la cibernetica come una nuova provincia della fisica, un altro pezzo di Natura i cui segreti possono essere indagati con gli strumenti della fisica (teorica). La parte sperimentale poteva essere portata avanti da altri (neurofisiologi o neuroanatomisti, ecc.) ma l’interpretazione di questi dati sperimentali, dati forniti dalla natura, poteva essere compito solo di un fisico teorico, così come molti degli spunti per la ricerca futura dovevano provenire dalla teoria (reti neurali) che aveva proposto. Questo è ciò che era già presente nel suo Istituto di fisica teorica, che di sperimentale aveva solo attività collegate alle neuroscienze (qualcosa che può sembrare paradossale). Impostazione che trasferirà nel Laboratorio di Cibernetica del CNR. All’ombra di nuove scienze in fiore. Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta Settimo Termini 246 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 235 — 249 una scienza nuova si sviluppa, e di esaminare i suoi primi passi e i problemi che incontra. La mia opinione personale è che la cibernetica – non solo il suo nome ma anche ciò che di essa rimane nelle istituzioni scientifiche – rappresenti un processo definitivamente concluso. Nonostante ciò, essa condivide alcuni obiettivi di tipo generale (se non quasi tutti), oltre che l’atteggiamento epistemologico, con molte discipline che oggi sono al centro dell’attenzione e del dibattito. Si pensi, per esempio, al ruolo svolto dall’IA. Da qui, l’utilità di esaminare a fondo sia gli aspetti innovativi sia i punti deboli del programma di ricerca della cibernetica. Meglio ancora, l’interesse attuale a guardare al rapporto che sussiste – al di là dei nomi – tra le sue ambizioni programmatiche e quelle dell’IA. Saremmo tentati di concludere che si tratta di due gemelli che hanno avuto destini molto diversi. [11] La scienza è un’impresa umana e, come tale, non [11] Scherzando un po’ potremmo dire che un altro forte parallelo tra può che cambiare sotto molti aspetti con lo scorrere del Cibernetica e IA può trovarsi anche tempo proprio per conservare il suo carattere innovativo e nel fatto che il New York Times si sia a entrambe (e nei modi in quelle che sono state le sue caratteristiche essenziali. Nelle interessato cui lo ha fatto). Gli interventi apparsi, pagine precedenti sono state messe in evidenza alcune di recente, su questo giornale sulle sociali e i possibili pericoli carenze della cibernetica. Qualcosa che è stato già fatto implicazioni dell’IA (o sull’infondatezza degli stessi) varie volte da chi scrive, anche se non in modo sistema- sono stati numerosi. Ma il NYT si era a suo tempo interessato anche della tico, nel corso degli ultimi cinquant’anni (si vedano, per cibernetica chiedendo proprio a Wiener esempio, Tamburrini & Termini (1982), Termini (2006a; – che di questi problemi si era occupato - di parlarne. 2006b; 2008; 2017)). Capire lo sviluppo della cibernetica (1950) Si veda N. Wiener, The Machine Age, e l’ineluttabilità o meno del suo destino finale è, a mio version 3, 1949 http://monoskop. org/images/3/31/Wiener_Norbert_ avviso, importante e ritengo che sia qualcosa che non è The_Machine_Age_v3_1949.pdf, stato ancora studiato – come fenomeno complessivo – con nonché un articolo connesso che i motivi per i quali lo scritto la profondità e l’impegno che l’argomento richiede. Mi racconta di Wiener, alla fine, non apparve, J. piacerebbe leggere qualcosa che, guardando al fenomeno Markoff in 1949, He Imagined an of Robots - Norbert Wiener, the nella sua complessità, avesse la profondità e la visione d’in- Age visionary mathematician whose essay sieme che caratterizza l’analisi incomparabile compiuta da “The Machine Age” languished for six decades in the M.I.T. archives, New Leone Montagnini su Wiener. York Times, May 20, 2013 Sono convinto che questo fascicolo di PK metterà a https://www.nytimes. fuoco molti problemi che sono sorti nel corso degli ultimi com/2013/05/21/science/mitscholars-1949-essay-on-machineagedecenni e fornirà anche risposte ad alcune delle questioni is-found.html poste. Sarà sicuramente un grande balzo in avanti per capire le novità introdotte dalla cibernetica e perché qualcosa si è inceppato. Ma sarebbe un balzo ancora maggiore se oltre ad analizzare i problemi e a fornire alcune risposte, riuscisse ad aprirci gli occhi su aspetti che ci erano sfuggiti e ponesse domande nuove sulle quali riflettere. Forse possiamo dire anche qualcosa in più. Sta emergendo, proprio a partire dallo sviluppo delle scienze dell’informazione e dalle vicende che le hanno accompagnate (scomparsa della cibernetica inclusa), un nuovo paradigma di cosa sia una disciplina scientifica. Il destino della cibernetica (nonché la particolare declinazione che ha avuto la sua presenza in Italia) può contribuire non solo a comprendere meglio quello che è accaduto ma anche ad avere indicazioni su possibili sviluppi in un futuro prossimo. Non nel senso, naturalmente, di “fare previsioni” ma in quello molto più umile (e, credo, più importante) di cogliere, vedere, saper leggere (nel senso usato da Ingmar Bergmann nel suo film del 1977, L’uovo del serpente) aspetti significativi di possibili sviluppi, date certe condizioni al contorno. Un atteggiamento scientifico più aperto (senza essere meno All’ombra di nuove scienze in fiore. Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta Settimo Termini rigoroso) che possieda una visione ampia e un modo nuovo di guardare alla riflessione sui fondamenti delle singole discipline e della scienza in generale non come qualcosa che debba fornire una base stabile e indiscutibile una volta per tutte, come era forse nelle aspirazioni di un Hilbert o di un Lord Kelvin, ma una riflessione che accompagni ogni svolta e ogni passo in avanti compiuto in modo profondamente critico e non dogmatico allo stesso tempo. Una riflessione che aiuti ad evitare cristallizzazioni dannose del modo usuale di fare le cose. Una riflessione, per fare un esempio, che – per quanto riguarda la matematica – è chiaramente delineata nel libro in uscita di Giovanni Sambin (2023). Trasformazioni che hanno ripercussioni anche nel modo in cui la ricerca scientifica è “cucinata” quotidianamente, se mi si permette di usare quest’espressione – che si ispira al nome di questa rivista. Attività questa, quella quotidiana, nella quale proprio per restare fedeli ai principi e alla metodologia che hanno accompagnato il suo sviluppo – da Galileo ad oggi – alcuni atteggiamenti e modi di fare (marginali ma purtroppo presenti) dovrebbero essere cambiati. Citando un altro scrittore: Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. (Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo) Uno sguardo alla favola della cibernetica può essere utile anche per chiarimenti su questi aspetti grazie al fatto che essa, più di altre discipline, si è intrecciata strettamente con aspetti relativi alla comunicazione e allo sviluppo di tecnologie di punta proprio nel suo farsi. La “Storia del declino e della caduta dell’impero cibernetico”, tuttavia, 247 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 235 — 249 Un’affermazione che, però, propongo di interpretare in un senso opposto a quello solito. Per preservare tutte le caratteristiche innovative del metodo scientifico, del modo di procedere della scienza, dobbiamo sottoporre ad attenta analisi e criticare severamente tutte le pratiche quotidiane che – se portate avanti a lungo – potrebbero scuotere e mettere in discussione le basi stesse dello sviluppo scientifico. Quindi, letteralmente, che cambi non tutto ma tutto quello che sta andando in una direzione impropria. Nella comunità scientifica atteggiamenti come quelli del duca di Guermantes, citate all’inizio, non sono mai accettabili. Tuttavia, si cominciano a vedere alcuni segni negativi, come un numero crescente di articoli ritirati dopo il loro apparire anche in riviste prestigiose, nonché un atteggiamento arrogante da parte di alcuni scienziati che, per esempio, durante la pandemia, invece di impegnarsi a sottolineare (anche fino allo sfinimento) i benefici dei vaccini – ma sempre con un atteggiamento di apertura – davano aggressivamente dell’asino alle persone comuni sostenendo che non avevano alcun diritto di parlare e, ancora peggio, affermando che “la scienza non è democratica”. Affermazione falsa che solo sciocchi pericolosi, che ritengono che la democrazia consista soltanto nell’alzare le mani e contare, possono fare. La democrazia, come la scienza, è un complesso processo di lento approfondimento dei problemi e di maturazione delle proprie convinzioni. Solo alla fine di questo processo il voto diventa significativo; e le maggioranze e le minoranze esistono anche nella scienza che non tratta verità dogmatiche. 1. vorrei sottolineare che ciò che segue riguarda quegli aspetti della cibernetica la cui rilevanza è valutata da un punto di vista scientifico (ribadendo, inoltre, che questo è solo il mio punto di vista). La diffusione del suo nome, in settori e campi differenti, può mettere alla luce anche nuovi e insoliti aspetti dei quali non possiedo alcuna competenza e, al cui riguardo, posso solo ascoltare (e imparare). La storia. La parabola, potremmo dire riprendendo l’immagine usata prima, di come la cibernetica ha, prima, imposto con forza la sua presenza e, poi, è silenziosamente scomparsa può essere utile per capire l’attuale debordante presenza dell’IA (che, per suo conto, tra l’altro ha sofferto dell’alternarsi di periodi di forte apprezzamento e di cadute di interesse) e individuare suoi possibili futuri sviluppi. 2. La struttura concettuale. Il suo essere lo “scheletro” di una nuova presenza della scienza nella società o, meglio, di una presenza corretta della scienza che recupera – nella situazione attuale – quelli che erano stati gli standard della rivoluzione scientifica e della sua metodologia in nuovi settori di indagine. 3. Il suo essere una guida possibile per superare la dicotomia inerente al paradigma delle “due culture” grazie alla sua ineliminabile natura interdisciplinare. 4. Il suo essere un modello per la presenza di nozioni e concetti “immateriali” nell’indagine di fenomeni naturali, contribuendo a definire una fisica dell’immateriale, cioè una scienza che riesca a trattare nozioni immateriali come l’informazione con la stessa metodologia con cui la fisica ha trattato nozioni e concetti come massa, energia, velocità. Si potrebbe correttamente argomentare, come già ricordato, che altre discipline che appartengono alla medesima costellazione scientifica potrebbero giocare anch’esse lo stesso ruolo (cosa che, in realtà, in alcune occasioni è già accaduto). Credo, tuttavia, che proprio a causa della generalità che ha caratterizzato le sue ambizioni e al fatto che sia (prematuramente) scomparsa, la cibernetica possa essere il miglior candidato per un’indagine di questo tipo. All’ombra di nuove scienze in fiore. Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta Settimo Termini 248 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 235 — 249 può essere considerata (e forse, nella sua essenza, lo è realmente) una parabola della nascita e dell’evoluzione di nuovi settori di indagine, del modo secondo cui nuovi, iniziali, risultati scientifici in territori che non erano stati indagati in precedenza possono essere il germe di nuove discipline. E capire anche quando altri risultati, egualmente interessanti, non possono innescare questo processo. Quella iniziata dalla cibernetica nel 1974 è stata realmente – come correttamente affermato da PK – “Una diaspora che, a differenza della prolificità della prima disseminazione, ha assunto le forme di un graduale dissolvimento.” E questa è proprio la ragione per cui “la cibernetica appare oggi come un’entità fantasma infestante una moltitudine di discorsi, le cui tracce possono essere scorte un po’ ovunque, spesso e volentieri non riconosciute come tali.” Il progetto intrapreso dalla rivista sembra quindi sommamente degno d’essere intrapreso e desidero concludere il mio saggio (disordinato) accettando l’invito fatto da PK. Dopo avere – sicuramente in modo molto approssimativo (e, certamente, non da storico o filosofo della scienza) – contribuito “a seguirne le piste, ricostruirne le trame”, vorrei anche contribuire a “farne emergere i modi d’essere, interrogarne l’eredità e l’attualità”, suggerendo alcuni punti che, se opportunamente sviluppati, potrebbero realmente andare in questa direzione: [12] [12] Anche se può essere superfluo, Bečvář, J. (1984). Notes on Vagueness and Mathematics (1-11). In H. J. Skala et al. (eds), Aspects of Vagueness. Dordrecht: D. Reidel Publ. Co. Caianiello, E. R. (1961). Outline of a Theory of Thought Processes and Thinking Machines. Journal of Theoretical Biology, 2, 204-235. Caianiello, E. R. (1971). Presentazione. In A. de Luca & L. M. Ricciardi (a cura di), Introduzione alla Cibernetica (9-11). Milano: FrancoAngeli. Caianiello, E. R. (1996). Divagazioni sulla scienza e sul mondo. A cura di E. Caianiello & E. Di Giulio. Napoli: Liguori Editore. Cordeschi, R. (2002). 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Paris: Hermann & Cie; seconda edizione rivista con due capitoli aggiuntivi, Cambridge, MA: MIT Press 1961 (traduzione italiana: La cibernetica. Controllo e comunicazione nell’animale e nella macchina, Il Saggiatore, Milano, 1968). Wiener, N. (1950). The Human Use of Human Beings London: Eyre and Spottiswoode seconda edizione completamente rivista, Garden City: Doubleday (traduzione italiana: Introduzione alla cibernetica. L’uso umano degli esseri umani, Bollati Boringhieri, Torino, 2012). Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 235 — 249 Aa.Vv. (1995). Tribute to Eduardo R. Caianiello (1921-1993). A Biography and a Collection of Dedicated Articles, reprinted from Mathematica Japonica vol. 41, N° 1. All’ombra di nuove scienze in fiore. Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta Settimo Termini Riferimenti bibliografici Il glossario del Biological Computer Laboratory Il presente glossario è il risultato di una selezione di voci ricavate dall’antologia Cybernetics of Cybernetics: or the Control of Control and the Communication of Communication, redetta nel 1974 dagli studenti che presero parte al seminario del Biological Computer Laboratory. L’antologia fu ripubblicata nel 1995, a cura di Heinz von Foerster e Robert Abramovitz, per l’editore Future Systems. La prima edizione dell’antologia è reperibile online nell’archivio digitale del Biological Computer Laboratory. Per maggiori informazioni: illiarch@illinois.edu 251 Cibernetica Domanda: Che cos’è la cibernetica? Risposta: Definirei la cibernetica un’offerta. Domanda: Che cosa offre la cibernetica? Risposta: La cibernetica offre un accesso ai sistemi complessi e un’interazione con essi tale da farli apparire semplici; al contempo, offre un accesso ai sistemi semplici e un’interazione con essi tale da rivelarne la complessità. (Bob Rebitzer) Un insieme esauriente di istruzioni, funzionale al raggiungimento di un dato obiettivo. Per rendere l’idea: “la prima a sinistra, la seconda a destra, gira a destra al Red Lion, casa mia è la terza sulla sinistra”. (Stafford Beer) Allopoietico Una classe di organizzazione. Le descrizioni allo/auto-poietiche possono applicarsi solo nel caso in cui il sistema considerato sia definito dalle sue produzioni, cioè quando le relazioni tra le componenti che integrano il sistema sono relazioni di produzione. Ogniqualvolta le relazioni non producono le componenti che integrano il sistema (in uno spazio qualsiasi) il sistema è allopoietico. La stragrande maggioranza dei sistemi comunemente studiati sono allopoietici. (Francisco Varela) Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 251 — 260 Algoritmo Apprendimento “Apprendimento” è un termine usato per descrivere quelle situazioni in cui un organismo, dopo l’esposizione a un certo ambiente, adotta un comportamento differente da quello precedente. (Robert Galambos) Il glossario del Biological Computer Laboratory Un sistema si dice allopoietico se il prodotto dell’operazione del sistema è differente dal sistema stesso. In un artefatto, come può esserlo un’automobile, vi è una concatenazione di processi che specifica un’organizzazione ma che non produce le componenti dell’automobile, poiché le componenti dell’automobile sono prodotte da processi che sono indipendenti dall’automobile e dalle sue operazioni. (Kenneth Wilson) Autocoscienza Comportamento nel dominio dell’auto-osservazione. Questo comportamento emerge dalla ricorsività delle descrizioni di un sistema che interagisce con i propri stati descrittivi, così da generare un flusso senza fine di descrizioni di descrizioni di descrizioni... Ne consegue che, affinché l’autocoscienza esista, all’interno del sistema deve esserci una componente descrittiva dotata di un linguaggio di capacità infinità, come quello presente negli umani. (Francisco Varela) Auto-organizzazione Un sistema non-stazionario diventa “auto-organizzante” quando vi è incertezza circa i criteri di specificazione macroscopica. Un osservatore è forzato a cambiare i suoi criteri di specificazione (dunque, anche il suo frame di riferimento) al fine di conferire senso al comportamento di un sistema auto-organizzante. L’osservatore modificherà il suo frame di riferimento sulla base di ciò che ha appreso (dalla sua interazione con il sistema). Solitamente i sistemi auto-organizzanti sono sistemi “viventi”, sebbene ne esistano alcuni incorporati in materiali “inanimati”. Concentriamoci tuttavia sull’“umano”, che i più concorderanno nel ritenere un sistema auto-organizzante. Un umano è un membro di un insieme ben specificato di umani. Questo insieme può essere ben specificato (cioè specificato in un modo che incontra l’approvazione generale) in innumerevoli modi, in base all’obiettivo dell’osservatore. L’umano, per esempio, può essere specificato in maniera anatomica (due gambe, una testa, e così via), o in alternativa come un decision maker che influenza ed è influenzato dalla sua cerchia di conoscenti. Ogni specificazione è ugualmente valida e implica dei criteri di specificazione. Il punto è che vi sono obiettivi per i quali né la prima né la seconda specificazione (e i criteri che ciascuna rispettivamente implica) sono sufficienti. Quale definizione di umano sarebbe più pertinente quando, nell’ambito di una conversazione, cercassi di controllarlo, di persuaderlo a fare qualcosa? Non posso dare una definizione definitiva, ma se non altro posso cambiare continuamente la mia specificazione: a quel punto, l’umano mi apparirà come un sistema auto-organizzante. Pertanto, l’espressione “sistema auto-organizzante” implica una relazione tra un osservatore e un assemblaggio. Essa implica anche l’obiettivo dell’osservatore (un assemblaggio può essere un sistema auto-organizzante Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 251 — 260 252 Autonomia Il glossario del Biological Computer Laboratory per un osservatore ma non per un altro, o per un obiettivo ma non per un altro). È anche possibile che un sistema appaia inizialmente auto-organizzato per poi rivelarsi stazionario a seguito di un’interazione (il partner della conversazione, in media, fa quello che io gli chiedo). La dipendenza dall’osservatore risulta evidente anche nel modo in cui si decide di misurare l’organizzazione di un sistema; per esempio, a questo proposito Von Foerster propone di usare la ridondanza di Shannon. Un sistema è “auto-organizzante” se il tasso di variazione della sua ridondanza è positivo. (Gordon Pask) Ogni cosa detta è detta da un osservatore, cionondimeno ci sono sistemi che definiscono i loro propri confini. Il concetto di autonomia è dunque una relazione paradossale tra un osservatore e un tale sistema, il quale potrebbe essere l’osservatore stesso. (Kenneth L. Wilson) Autopoiesi Una classe di organizzazione, caratteristica quantomeno di tutti i sistemi viventi. In contrapposizione ai sistemi allopoietici, un sistema autopoietico è definito dalle produzioni di quelle specifiche componenti che lo integrano (in uno spazio qualsiasi). Così, fintantoché il risultato della dinamica del sistema è il sistema stesso, la fenomenologia dell’autopoiesi coincide con la fenomenologia dell’autonomia. (Francisco Varela) 253 1. 2. In senso stretto, lo studio dei sistemi di organizzazione interna di un organismo o di qualsiasi altra intelligenza, condotto per comprendere il modo in cui l’organismo si integra nel suo ambiente – questo tutte le volte in cui lo studio è condotto con un obiettivo epistemologico. In senso ampio, quasi sinonimo di epistemologia, cioè di un’indagine in cui (a) sia il soggetto dell’indagine sia tutti i sistemi concettuali-intuitivi, la storia e la consapevolezza che il ricercatore apporta e con cui si raffronta durante l’indagine sono il soggetto dell’indagine; e in cui (b) ogni prospettiva (o equilibrio) che è stata raggiunta è sospesa non appena viene raggiunta, e un’altra prospettiva (o equilibrio) – qualitativamente differente, sovrapponendosi alla prospettiva precedente e contraddicendola parzialmente – viene ricercata. (Klaus Witz) Computazione La computazione si riferisce all’esecuzione di ogni procedura (algoritmo) per trasformare un insieme di dati (definito “input”) in un altro insieme (definito “output”). Una macchina computazionale implementa questa trasformazione per mezzo di un programma che rappresenta l’algoritmo in un linguaggio macchina ben definito, operando su una varietà di dispositivi di stoccaggio (per esempio: registri, memoria, dischi, nastri, Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 251 — 260 Cognizione Computer Warren McCulloch impiegò questo termine per descrivere sia i “domini di computazione” nei sistemi nervosi centrali degli animali, sia i sistemi artificiali che processano informazione. I principali domini di computazione (o, in breve, computer) identificati da McCulloch nei vertebrati sono: — La corteccia cerebrale, chiamata da McCulloch “il grande computer” — La retina — I nuclei della formazione reticolare — I gangli basali — Il cervelletto Nel nostro laboratorio abbiamo ideato dei modelli di stereoscopia che includono una retina primitiva e i nuclei della formazione reticolare. Il nostro obiettivo è sia quello di comprendere meglio questi computer sia quello di sviluppare dispositivi pratici similari. (Louis Sutro) Il glossario del Biological Computer Laboratory lettori per carte magnetiche, stampanti) contenenti gli input, gli output e ogni dato intermedio nella forma di un codice dispositivo-dipendente. Il cervello, d’altra parte, implementa questa trasformazione per mezzo di neuroni. Warren McCulloch identificò “domini di computazione” nel cervello, che si differenziano gli uni dagli altri in virtù degli algoritmi che implementano, della tipologia dei neuroni e delle loro interconnessioni. (Louis Sutro) 254 Controllo L’abilità di presentare a un qualche processo/macchina degli input in funzione dei quali solo gli output desiderati diventano osservabili. (Glenn Kowak) Coscienza Descrizione Descrizione (processo): una computazione tramite cui le entità, o le relazioni tra entità, percepite in un dominio appaiono (a un osservatore) rappresentate (descrizione ) in un altro (o nello stesso) dominio. Descrizione (rappresentazione): la rappresentazione di una computazione che fornisce descrizioni , o i risultati di questa computazione (descrizione ). (Heinz von Foerster) 1 2 2 2 1 Entropia In cibernetica, l’entropia è generalizzata per misurare la tendenza di ogni sistema chiuso a passare da uno stato meno probabile a uno stato Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 251 — 260 Quell’aspetto delle operazioni interne di un biocomputer che lo porta a credere di esistere, di attraversare stati dell’essere, ecc.. Inizia con uno spermatozoo che penetra un uovo e finisce con la morte del dato sistema nervoso centrale. La coscienza presume di programmare/di essere programmata dal biocomputer. (John Lilly) Evoluzione Una storia del cambiamento di un tipo di organizzazione che prende corpo in una popolazione di sistemi distinti. I sistemi devono essere messi in relazione da passaggi riproduttivi sequenziali, attraverso i quali la struttura particolare di ogni sistema è una modificazione della struttura del sistema precedente, il quale è il suo predecessore storico. La riproduzione sequenziale e il cambiamento di struttura attraverso ogni passaggio riproduttivo sono la condizione necessaria e sufficiente dell’evoluzione. (In tal senso c’è una storia della Terra, ma non una sua evoluzione; c’è un’evoluzione dell’idea di spazio, non solo una sua storia). (Francisco Varela) Il glossario del Biological Computer Laboratory più probabile, usando lo stesso apparato matematico impiegato in fisica. Tuttavia, se il sistema è aperto all’informazione, allora questa tendenza può essere arrestata. Ciò è dovuto al fatto che, matematicamente parlando, l’informazione può essere definita precisamente come entropia negativa (spesso chiamata neghentropia). (Stafford Beer) Fatto (Dal latino factus, participio passato di facere: fare, produrre). “Inventare”: la descrizione della genesi di un’esperienza, tale per cui questa descrizione possa essere soggetta a dubbio. (Heinz von Foerster) Feedback 255 Il ritorno di una parte dell’output di un sistema per modificare il suo input. Il feedback positivo aumenta l’input, il feedback negativo lo riduce. Perciò, se il feedback è impiegato – come avviene in tutti i sistemi di regolazione – per comparare l’output con un qualche standard a cui approssimarsi, il feedback negativo è intrinsecamente stabilizzante (in quanto riduce l’errore), mentre il feedback positivo è intrinsecamente destabilizzante (l’errore aumenta esponenzialmente). L’impiego non tecnico del termine “feedback” per significare “risposta a uno stimolo” è scorretto. (Stafford Beer) (Dal latino fictus, participio passato di fingere: formare, modellare). “Illudere”: la descrizione della genesi di un’esperienza tale per cui questa descrizione è immune dal dubbio. Intelligenza Artificiale La simulazione per mezzo di programmi per computer dell’attività considerata intelligente. La difficoltà risiede nel decidere cosa considerare intelligente, in modo tale da non includere automaticamente qualsiasi programma per computer (dopotutto, un’operazione aritmetica può anche essere considerata intelligente). La soluzione più comune a questa difficoltà è stata quella di considerare l’intelligenza come capacità di problem-solving e di creare una serie di sfide di problem-solving – relative per esempio Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 251 — 260 Finzione Memoria L’incertezza irriducibile di un osservatore che possiede una conoscenza incompleta dello stato interno di una macchina non-triviale (per esempio, un organismo vivente), interpretata dall’osservatore come una proprietà della macchina. (Heinz von Foerster) Metafora Una metafora è un’espressione L designante una relazione di analogia. Una relazione di analogia è una relazione tra due relazioni descritta, estensivamente, come un morfismo (per esempio, una corrispondenza uno a uno, un isomorfismo o un omomorfismo). Le relazioni in questione sono istanziate da programmi che le computano (è il caso dell’analogia stessa) e ogni relazione ha un’interpretazione semantica (solitamente una classe di modelli). Spesso, se non sempre, le relazioni legate da un’analogia appartengono a universi distinti di interpretazione (il che significa che le loro classi di modello sono indipendenti sotto una data descrizione L di un dominio conversazionale) di cui essi formano una parte. Invariabilmente, l’analogia stessa (e la sua classe di modello) ha un universo distinto di interpretazione chiamato l’universo analogico. (Gordon Pask) Il glossario del Biological Computer Laboratory a giochi (scacchi, dama), dimostrazioni di teoremi, ecc. – che sono state al centro della ricerca in intelligenza artificiale. (Paul Garvin) 256 Il metodo scientifico offre un algoritmo di input-throughput-output per un approccio logico a questioni empiriche. Questo algoritmo è solitamente descritto come un flusso di informazioni articolato nei seguenti passaggi: 1. Stato o definizione del problema 2. Raccolta delle informazioni rilevanti 3. Sviluppo delle ipotesi 4. Progettazione e conduzione di un esperimento appropriato (verifica empirica delle ipotesi) 5. Analisi dei dati o dei risultati sperimentali Il passaggio 5 è pensato per condurre alla riformulazione del problema → l’algoritmo si ripete. Tale flusso di informazione è una procedura ideale che tende a descrivere il processo razional-empirico dell’indagine scientifica in senso comportamentale, ma trascura un fattore cognitivo significativo nel processamento empirico di informazioni: l’intuizione. (Darek Schultz) Modello Quello di modello è un concetto triadico che comprende ciò che deve essere modellato, ciò che deve eseguire la modellizzazione, e un operatore dipendente dal contesto di assegnazione, il quale realizza la correlazione: il filtro-modello. Questa definizione cattura i presupposti del Modello, in base ai quali quest’ultimo non è una rappresentazione svuotata di estensione ma una struttura dinamica con una pulsazione simile a quella del Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 251 — 260 Metodo scientifico Omeostasi 1. 2. La disposizione dei sistemi biologici a mantenere le variabili critiche all’interno di limiti fisiologici. In cibernetica, questa disposizione è generalizzata matematicamente per includere tutti i sistemi (non solo biologici) che mantengono, a fronte di un disturbo inaspettato, le variabili critiche all’interno dei limiti accettabili dalla loro struttura. (Stafford Beer) Il glossario del Biological Computer Laboratory frangente dell’onda che costantemente si adatta e si riadatta alla sabbia creando la battigia. Detto altrimenti, il modello è un’interazione tra un sistema organizzante e l’ambiente; esso viene incorporato per mezzo di trasmissioni di informazione dipendenti dal contesto. Questo permette ai modelli di predire e reinterpretare il mondo. (John Kotelly) Ontologia 257 Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 251 — 260 L’ontologia è stata definita “lo studio di ciò che c’è” (Quine). Per la comprensione del termine “ontologia” è importante far notare che la definizione riportata sopra è essa stessa un’asserzione ontologica, poiché assume l’esistenza di qualcosa che “è” che è l’oggetto di studio. Le ontologie si dividono in due grandi classi: l’ontologia classica e l’ontologia transclassica (Günther). L’ontologia classica ha un tema: l’Essere (il “ciò che c’è” della definizione di Quine). Questo Essere è ciò che si intende con l’espressione “vero”. Ciò che è “vero”, dunque, “è”. Per lo meno così si dice. Questa asserzione ha delle implicazioni sociali, come si può facilmente notare nella celebre asserzione di Hegel (Lineamenti di filosofia del diritto): “ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale”. Le ontologie transclassiche considerano, in aggiunta al tema dell’“Essere”, altri temi, tra cui il principale è il “Tempo”. Le ontologie transclassiche non sono un’alternativa all’ontologia classica, ma sono piuttosto una sua estensione. Un’ontologia che, oltre ad avere dei temi, ha anche la loro negazione, è una logica. Per esempio, nell’ontologia classica troviamo il “non-Essere” (“falso”) come negazione dell’“Essere” (“vero”). La logica dell’ontologia classica diventa calcolabile nel momento in cui vengono esplicitate le regole per escludere le contraddizioni e i termini terzi. Le logiche dell’ontologia transclassica, avendo più di un tema, hanno anche più di una negazione. Ciò conduce alle cosiddette logiche multivalenti. La ricerca relativa alla struttura delle logiche multivalenti è di grande interesse tra i cibernetici, in particolare nei paesi dell’Europa dell’Est. Nel blocco occidentale, il lavoro più avanzato in questo campo è quello di Gotthard Günther. Se comparati al calcolo proposizionale nella logica classica e ai suoi derivati, le logiche transclassiche non hanno ancora raggiunto uno stadio in cui il calcolo è praticabile in modo pratico e flessibile. Tuttavia, è indubitabile che la descrizione formale dei sistemi cibernetici di second’ordine richiederà il raggiungimento di uno stadio avanzato nel calcolo della logica multivalente (Richard Herbert Howe) Quando si parla della rappresentazione di un sistema, il ruolo dell’osservatore e le sue descrizioni devono essere esplicitate affinché il sistema sia rappresentato. Si parla essenzialmente della costruzione di un modello e del suo essere comunicabile. Quando una distinzione viene tracciata, un’entità viene generata. Questo teorema, che pone le basi per la distinzione di un sistema, implica già l’osservatore. L’osservatore ha l’abilità di produrre distinzioni e, nella misura in cui “ogni cosa detta è detta da un osservatore”, è l’osservatore che indica queste distinzioni. L’osservatore, per generare una distinzione binaria, deve rimuovere se stesso in quanto esistente dall’universo della distinzione. Questa distinzione richiede che l’osservatore osservi simultaneamente l’entità della distinzione e l’universo da cui è stata distinta. Il fatto che l’osservatore debba al contempo esistere e non esistere nel sistema crea un paradosso, ma solo nel dominio delle descrizioni. Se ogni cosa detta è detta da un osservatore, che cosa allora è detto? Il fatto che l’osservatore stesso sia una distinzione crea un paradosso nel dominio delle distinzioni ma non nel dominio delle descrizioni. (Klaus Witz) Il glossario del Biological Computer Laboratory Osservatore Organizzazione Tutte le relazioni possibili tra le componenti di un sistema, le quali definiscono il sistema in quanto tale. In contrapposizione alla struttura, che indica le relazioni attuali mantenute tra le componenti di un dato sistema, l’organizzazione indica le classi di relazioni che possono essere realizzate da molteplici strutture possibili. L’organizzazione è precisamente il soggetto di una scienza dei sistemi in senso ampio. La visione olistica di ciò che è osservato – il tratto fondamentale di una scienza dei sistemi – è antichissima, ma solo di recente è stata compresa come una disciplina in quanto tale. In sintesi: il tutto è certamente più della somma delle sue parti, poiché esso è le sue parti e la sua organizzazione. (Francisco Varela) 258 La nozione di paradosso può essere più semplicemente chiarita – sebbene essa non sia affatto semplice – all’interno di un contesto di metafore raccolte attorno alle nozioni di territorio e di mappa. La prima relazione da considerare è banalmente quella tra territorio e mappa. Se, nel territorio, vengono scovate delle opposizioni, allora tali opposizioni saranno riflesse sulla mappa come contraddizioni. Questo è un primo livello di contraddizione. Un secondo livello di contraddizione deve essere considerato: se la mappa è parte del territorio – o perlomeno è considerata esserne parte – e, allo stesso tempo, si ritiene che sia una “mappa” distinta da un “territorio”, allora il secondo livello di contraddizione si delinea chiaramente: la mappa, al contempo, è e non è il territorio. Le contraddizioni di secondo livello dominano le contraddizioni di primo livello. Le opposizioni nel territorio, riflesse nella mappa come un primo livello di contraddizione, sono superate (aufgehoben) dal secondo livello di contraddizione. La relazione Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 251 — 260 Paradosso Il glossario del Biological Computer Laboratory tra i due livelli, se è dinamica, produce ambiguità. Espresse esclusivamente all’interno della mappa, questa ambiguità produce, a loro volta, un paradosso. Poiché in ogni atto cognitivo si trovano inevitabilmente mappe e territori all’interno di un territorio che presenta opposizioni – incluse le opposizioni mappa/territorio, mappa/mappa e territorio/territorio, dove quest’ultima connette i paradossi della cognizione alle opposizioni della realtà politica – ci troviamo sempre in un contesto di ambiguità, e quando diamo un’espressione precisa a questa ambiguità, otteniamo paradossi. Con quanta più precisione esprimiamo tale ambiguità, tanto più vigorosamente si manifestano i paradossi; data l’inaggirabilità della sua sempre crescente paradossalità, tale situazione si traduce in ironia quando è vista e in tragedia quando è non-vista. (Richard Herbert Howe) Programma Una ricetta in un libro di cucina è un programma (o “algoritmo”). Una buona ricetta, cioè una ricetta che: è completa in quanto ha un’esaustiva specificazione degli ingredienti; descrive l’aspetto del piatto in ogni fase della sua preparazione; fornisce la sequenza di passaggi della preparazione del piatto in un ordine che è logico, conveniente ed efficace; e produce infallibilmente una delizia culinaria, è l’ideale e l’archetipo di tutti i programmi. I programmi dei computer differiscono dalle ricette culinarie solo in quanto gli ingredienti sono entità formali e la ricetta stessa è scritta in un linguaggio formale. In tutti gli altri aspetti, un buon programma per computer è equivalente a una buona ricetta culinaria – poiché per un gourmet dei computer, un risultato elegante equivale a una delizia culinaria. (Richard Herbert Howe) 259 1. 2. Nella teoria dell’informazione, il rafforzamento dell’informazione di un messaggio al fine di proteggerlo dalla degradazione causata dal rumore. In cibernetica, l’accezione (1) è familiare ma il termine è anche applicato ai canali supplementari di un network, i quali hanno lo scopo di salvaguardare il sistema nella sua interezza a dispetto di un guasto verificatosi in un canale. È possibile calcolare matematicamente quanta ridondanza è richiesta per ridurre il rischio di un errore (che conduce a un messaggio erroneo in (1), o al collasso di un sistema in (2)) a un grado arbitrariamente piccolo. (Stafford Beer) Sistema Un sistema è un insieme, specificato da un osservatore, di elementi e di relazioni, o di operazioni su questi elementi. In alternativa, un sistema è un insieme di variabili specificate da un osservatore. (Kenneth L. Wilson) Ogni distinzione operata da un osservatore, con l’intenzione di spiegare ulteriormente, a un network di osservatori che mirano a trovare un accordo, la distinzione operata e il suo contenuto. (Francisco Varela) Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 251 — 260 Ridondanza La riformulazione di un fenomeno operata da un osservatore, in modo tale che le parti distinte nel fenomeno appaiono interrelate (causalmente o in altra maniera). Ogniqualvolta viene trovato un accordo complessivo su tale riformulazione, la spiegazione entra a far parte del corpus scientifico. (Francisco Varela) Struttura Struttura deriva dalla parola latina struere: costruire, in riferimento a cosa è costruito e al modo in cui i componenti di ciò che è costruito sono assemblati. La struttura di un sistema è l’insieme dei componenti e delle relazioni tra i componenti che compongono la sua unità. (K. L. Wilson) Il glossario del Biological Computer Laboratory Spiegazione Varietà In cibernetica, il numero totale dei possibili stati di un sistema, o di un elemento di un sistema. La legge della varietà necessaria (la legge di Ashby) esprime il fatto che “solo la varietà può assorbire varietà”: un sistema regolatore deve essere capace di generare per lo meno tanti stati quanti quelli generati dal sistema che si vuole regolare. (Stafford Beer) Traduzione di Luca Fabbris Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023, 251 — 260 260 E R N E T I C A Prospettive sul pensiero sistemico I/2023 ISSN: 2385-1945 B Kitchen #18 I Philosophy C A cura di Luca Fabbris e Alberto Giustiniano Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea #18, I/2023 Rivista scientifica semestrale, soggetta agli standard internazionali di double blind peer review Università degli Studi di Torino Via Sant’Ottavio, 20 – 10124 Torino redazione@philosophykitchen.com ISSN: 2385-1945 Philosophy Kitchen è presente in DOAJ, ERIHPLUS, Scopus©, MLA, WorldCat, ACNP, Google Scholar, Google Books, e Academia.edu. L’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario) ha riconosciuto la scientificità della rivista per le Aree 8, 10, 11, 12, 14 e l’ha collocata in Classe A nei settori 10/F4, 11/C2, 11/C4. Quest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale. www.philosophykitchen.com — www.ojs.unito.it/index.php/philosophykitchen Redazione Giovanni Leghissa — Direttore Alberto Giustiniano — Caporedattore Mauro Balestreri Veronica Cavedagna Carlo Deregibus Benoît Monginot Giulio Piatti Claudio Tarditi Collaboratori Danilo Zagaria — Ufficio Stampa Fabio Oddone — Webmaster Alice Iacobone — Traduzioni Comitato Scientifico Luciano Boi (EHESS) Petar Bojanic (University of Belgrade) Rossella Bonito Oliva (Università di Napoli “L’Orientale”) Mario Carpo (University College, London) Michele Cometa (Università degli Studi di Palermo) Raimondo Cubeddu (Università di Pisa) Gianluca Cuozzo (Università degli Studi di Torino) Massimo Ferrari (Università degli Studi di Torino) Maurizio Ferraris (Università degli Studi di Torino) Olivier Guerrier (Institut Universitaire de France) Gert-Jan van der Heiden (Radboud Universiteit) Pierre Montebello (Université de Toulouse II – Le Mirail) Gaetano Rametta (Università degli Studi di Padova) Rocco Ronchi (Università degli Studi dell’Aquila) Barry Smith (University at Buffalo) Achille Varzi (Columbia University) Cary Wolfe (Rice University) Progetto grafico #18 Gabriele Fumero (Studio 23.56) Lo 0 e l’1 del sistema binario, il linguaggio più ristretto e universale generano risonanze e interferenze, trasmettendo vibrazioni visive al posto di informazioni. P K